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Italian, German, English Pages 871 [872] Year 2020
Luigi Enrico Rossi κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο. Scritti editi e inediti Volume 2: Letteratura
Luigi Enrico Rossi
κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο Scritti editi e inediti
Volume 2: Letteratura a cura di Giulio Colesanti e Roberto Nicolai con la collaborazione scientifica di Maria Broggiato, Andrea Ercolani, Manuela Giordano, Laura Lulli, Michele Napolitano, Riccardo Palmisciano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino con il supporto redazionale di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Enzo Franchini, Virgilio Irmici, Michelangelo Pecoraro e con la supervisione editoriale di Serena Pirrotta
ISBN 978-3-11-064490-6 e-ISBN (PDF) 978-3-11-064812-6 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-064499-9 Library of Congress Control Number: 2019953759 Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available in the Internet at http://dnb.dnb.de. © 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com
| κηληθμῷ δ’ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα (Od. 11. 334, 13. 2)
Indice Sezione 3: Epica arcaica
[nr.]> Bibliografia
1. [9] rec. G. Schoeck, Ilias und Aithiopis | 3 2. [12] scheda bibl. V. Buchheit, Von der Entstehung der Aeneis | 8 3. [37] Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik | 9 4. [64] I poemi omerici come testimonianza di poesia orale | 25 5. [72] Gli oracoli come documento di improvvisazione | 100 6. [73] Relazione al convegno La parola e il marmo: una discussione | 122 7. [91] Omero [voce enciclopedica] | 127 8. [100] L’epica greca fra oralità e scrittura | 136 9. [124] Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi | 152 10. [130] La fortuna dell’epica greca nella letteratura italiana | 170 11. [152] On the Written Redaction of Archaic Greek Poetry | 172 12. [167] L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita | 182 13. [193] Le immagini viventi nella critica d’arte antica | 194 14. [199] La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico | 202 15. [201] Hesiod | 213 A. Ercolani – L. E. Rossi
x | Indice
Sezione 4: Lirica
[nr.] > Bibliografia
1. [24] scheda bibl. D. L. Page, Lyrica Graeca selecta | 265 2. [66] Modi di esecuzione musicale e configurazione dei testi nella lirica greca arcaica. L’iperbato artificioso | 266 3. [70] Greek Monodic Poetry and the Symposion (“Nellie Wallace Lecturership”) | 284 4. [71] Dare e avere nella lirica greca arcaica: il problema dello scambio e del compenso nella lirica monodica e corale | 324 5. [78] Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso | 333 6. [79] Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa | 341 7. [81] Simposio e guerra (Callin. 1. 1 W.) | 364 8. [82] Theogn. 313 s.: un caso di interferenza tra momento edonistico e momento politico? | 368 9. [85] Come i Greci usavano la poesia. La lirica arcaica e il simposio | 370 10. [92] Ricchezza e povertà (a proposito di Theogn. 1153–56) | 374 11. [98] Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6–9 V. e carm. conv. 891 P.) | 382 12. [113] Interpretazione di Sapph. 31 V. | 391 13. [131] Intervento in A. Ferrari (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto | 394 14. [160] La lirica classica e noi. Undici domande di Roberto Antonelli a Maria Grazia Bonanno e a Luigi Enrico Rossi | 396 15. [164. B] Introduzione alla lirica | 423
Indice | xi
Sezione 5: Dramma
[nr.] > Bibliografia
1. [17] I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese (Macone, chria 5 Gow) | 443 2. [34] La professione dell’attore | 457 3. [39] Il Ciclope di Euripide come κῶμος ‘mancato’ | 461 4. [45] Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico | 487 5. [53] Un’immagine aristofanea: l’‘amante escluso’ in nub. 125 sg. | 537 6. [61] Un nuovo papiro epicarmeo e il tipo del medico in commedia | 546 7. [69] Mimica e danza sulla scena comica greca (A proposito del finale delle Vespe e di altri passi aristofanei) | 550 8. [74] Una tragedia contro l’umanesimo: le Baccanti di Euripide | 572 9. [84] Le donne scatenate: un modo di canalizzare le forze irrazionali presso i Greci | 584 10. [88] Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica | 588 11. [93] Il dramma satiresco [1991] | 603 12. [105] Per un approccio prossemico al dramma attico. Su alcuni passi dell’Edipo re | 615 13. [147] Teatro e comunicazione nella Grecia antica | 617 14. [154] Il dramma satiresco [2002] | 626 15. [164. 4] L’eroe nell’età classica | 630 16. [165] La polis come protagonista eroico della commedia antica | 633
xii | Indice
17. [168] Introduzione, in M. Napolitano, Euripide. Ciclope | 654 18. [200] Vasi e scena: a proposito della cultura del dramma | 665
Sezione 6: Letteratura ellenistica
[nr.] > Bibliografia
1. [23] La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio | 673 2. [38] Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario | 685 3. [44] Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo | 696 4. [47] L’Ila di Teocrito: epistola poetica ed epillio | 714 5. [80] La valutazione etico–sociale della povertà. Modi del manierismo epico e bucolico alessandrino | 727 6. [108] Letteratura di filologi e filologia di letterati | 746 7. [126] L’atlante occidentale degli Aitia di Callimaco. Mito e modi di lettura | 767 8. [135] La dedica nella letteratura alessandrina | 776 9. [142] La letteratura alessandrina e il rinnovamento dei generi letterari della tradizione | 778 10. [143] Origini e finalità del prodotto pseudoepigrafo. Pseudoepigrafia preterintenzionale nel Corpus Theocriteum: l’idillio VIII | 791 Index nominum | 818 Index locorum | 833
| Sezione 3: Epica arcaica
[Recensione] GEORG SCHOECK, Ilias und Aithiopis. Kyklische Motive in homerischer Brechung. Zürich, Atlantis Verlag 1961, pp. 142. La posizione dell’autore di questo interessante lavoro non è, negli studi omerici, senza precedenti. Essa si può riassumere in poche parole cosí: il ciclo epico è piú antico dei poemi omerici; l’Etiopide è la falsariga su cui un autore unico (Omero) ha composto, cosí come noi la possediamo, l’Iliade. L’autore parte dall’unitarismo di Schadewaldt (le cui Iliasstudien, del 1938, chiuderebbero definitivamente – com’è detto a p. 11 – l’epoca dell’analisi) e si richiama soprattutto agli studi di H. Pestalozzi (Die Achilleis als Quelle der Ilias, Erlenbach– Zürich 1945) e di J. Th. Kakridis (Homeric Researches, Lund 1949)1. Tendenza simile trova espressione anche in un altro recente lavoro: W. Kullmann, Die Quellen der Ilias (Troischer Sagenkreis), Wiesbaden 1960. Già dagli antichi e, sulle loro orme, dai moderni, si era notata la corrispondenza di alcune scene dell’Iliade con alcune dell’Etiopide. Si prende a base della conoscenza di quest’ultima lo scarno riassunto di Proclo trasmessoci dalla Biblioteca di Fozio (Achille uccide Pentesilea e Tersite; Memnone, figlio dell’Aurora, viene in aiuto dei Troiani; Teti predice ad Achille τὰ ϰατὰ τὸν Μέμνονα; Memnone uccide Antiloco, figlio di Nestore e carissimo amico di Achille; Achille per vendetta uccide Memnone, per il quale la madre Aurora ottiene l’immortalità; Achille viene ucciso da Paride e Apollo; lotta intorno al cadavere di Achille; seppellimento di Antiloco ed esposizione del cadavere di Achille; Teti piange il figlio e ne sottrae il corpo; gara per le armi di Achille). Alcuni punti dell’azione trovano esatta corrispondenza nell’Iliade (p. 14 sgg.): Memnone uccide Antiloco = Ettore uccide Patroclo; Achille uccide Memnone = Achille uccide Ettore. Nell’Etiopide c’è poi per Achille l’avvertimento della madre Teti che può corrispondere all’ira contro Agamennone nell’Iliade come causa dell’assenza temporanea di Achille dal campo di battaglia: si avrebbe cosí una leggera discor-
|| [Recensione pubblicata in «RFIC» 92, 1964, pp. 79–83] 1 In realtà il Kakridis, com’egli ricorda nella premessa, aveva già pubblicato alcuni risultati delle sue ricerche molto prima della pubblicazione del libro di Pestalozzi. Del suo libro interessano qui particolarmente le pp. 7–10 (il metodo) e il cap. III, Patroclea (pp. 65–91; a p. 83 sgg. vengono riportati gli argomenti di una studiosa morta prematuramente, Eva Sachs). Sarebbe stato bene che lo Schoeck avesse abbondato, più di quanto fa, in citazioni bibliografiche: il recensore è in genere costretto a ricercare per proprio conto fonti, riferimenti ed allusioni. https://doi.org/10.1515/9783110648126-001
4 | Sezione 3: Epica arcaica
danza, ma troppi sono nell’Iliade gli accenni a Teti, alla Mutterwarnung e alla morte prematura, per non esser costretti, secondo l’a. (p. 38 sgg.), a concludere che nell’ira contro Agamennone si ha una variatio voluta dal poeta dell’Iliade, che lascia comunque sempre intravedere la tematica originaria. Fuori del piano dell’Iliade resterebbero così solo la morte di Achille, la lotta intorno al cadavere e il funerale coi giuochi. Ed è proprio qui che l’a. crede d’aver trovato il kompositorischer Einfall (p. 15) del poeta, che lo porterebbe alla nuova forma di narrazione, al Grossepos, contrapposto alla vecchia tecnica della narrazione epica dei poemi ciclici2: nell’artificio, cioè, d’introdurre quegli episodi dell’Etiopide, che sarebbero esclusi dall’Iliade, con un singolare spostamento di ruoli. Tali episodi sarebbero appunto rappresentati dalla morte di Patroclo, dalla lotta intorno al suo cadavere e dai giuochi in suo onore. Patroclo verrebbe così a rappresentare sia l’Antiloco che l’Achille dell’Etiopide: senza contare che l’ampliamento della materia ciclica porterebbe a ripetere piú volte gli stessi spunti ciclici, come la morte di Memnone, che sarebbe rappresentata nell’Iliade sia dalla morte di Sarpedonte che da quella di Ettore. Per tale sottile giuoco di analogie l’a. usa, con immagine appropriata ed espressiva, il concetto musicale di modulazione enarmonica. Questo, per sommi capi, lo schema della ricerca, che si arricchisce di numerose e sottili notazioni di analogie (alcune in verità forse troppo sottili, come quelle riguardanti nomi propri smembrati nei loro componenti: si v. ad es. pp. 56 sg., 122 sgg., 126 sgg., 131 sg., 133). All’a. si possono però rivolgere alcune obiezioni di fondo. La precedenza cronologica dell’Etiopide è piú postulata che dimostrata, giacché non si possono considerare prove quelle che l’a. dà a p. 14 (il tema della morte prematura di Achille sarebbe nell’Iliade già qualcosa di noto e di ovvio) o a p. 18 (il Grossepos, rappresentato dall’Iliade, non potrebbe essere che tardo rispetto al ciclo, per la raffinatezza della sua costruzione)3. Si veda poi la confutazione del fragile argomento archeologico–contenutistico di Pestalozzi fatta da P. Chantraine in «Rev. de Philol.» 1947, p. 169. Di piú, l’accenno, nell’Etiopide, alla purificazione di Achille dopo l’uccisione di Tersite ci porta in un ambiente che ha preoccupazioni religiose estranee all’Iliade (cfr. Schmid–Stählin, I 1, p. 211). Ben altro ci vorrebbe, come si vede, per dimostrare il contrario di quello che ci riferisce concordemente la tradizione antica (Ari-
|| 2 V. a p. 79 la contrapposizione, discutibile, di epische und dramatische Tendenzen: l’Iliade sarebbe drammatica, piú assai dell’Odissea, che sarebbe piú vicina alla tecnica epica (Aneinanderreihung von Episoden) dei poemi ciclici. 3 Né può valere, per una ricostruzione del finale dell’Etiopide, la seconda νέϰυια dell’Odissea, col racconto della morte di Achille (già in Pestalozzi: v. pp. 68, 106).
rec. G. Schoeck, Ilias und Aithiopis | 5
starco: il ciclo segue Omero, cfr. A. Severyns, Le cycle épique dans l’école d’Aristarque, Liège 1928); e per i poemi del ciclo ci vengono anche forniti parecchi nomi d’autori, fra cui quello di Arctino per l’Etiopide. L’a. mostra inoltre di tenere in troppo poco conto gli argomenti linguistici per la seriorità del ciclo, che trovano appiglio nella pur scarsa estensione dei frammenti (si v. J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Göttingen 1916, pp. 181 sgg.: conta la seriorità del ciclo come complesso, visto che l’Etiopide offre a stento materiale per la ricerca linguistica). Che se poi si vogliano riconoscere nell’Iliade motivi ricorrenti anche nel ciclo, questo è risultato piú che ovvio di una ricerca anche solo superficiale: e, considerando — come si fa fin dalla fine del pregiudizio romantico della Ursprünglichkeit — che i poemi omerici siano il risultato di una lunga evoluzione letteraria, non ci può essere ragione di escludere che l’autore o gli autori abbiano attinto a un fondo di leggende dove, piú che personaggi e storie definite, potevano trovarsi scene e motivi tipici (i «patterns», termine preso per traslato dal Parry, v. p. 116). Il fatto quindi che l’a., nell’ambito di quelle parti scelte come appartenenti al quadro «etiopico», ci mostri la frequente ripetizione di passi interi o di formule usate con valore pregnante e l’uso di vari espedienti allusivi, non farà altro che convincerci una volta di più dell’esistenza di un particolare «stile epico», che si serve di particolari elementi costruttivi, come la ripetizione per situazioni simili o il richiamo allusivo quand’esso risulti opportuno, oltre all’uso costante della tecnica formulare piú genericamente intesa (si v. W. Arend, Die typischen Szenen bei Homer, Berlin 1933). Il voler raccogliere le sparse fila di queste Übertragungen (pp. 109 sgg.), proiettandole in una fantomatica Etiopide che servirebbe da modello, sembra quindi del tutto arbitrario. Ancor meno si riesce a capire la posizione oltranzisticamente unitaria dell’a.4, che peraltro si schermisce dal voler applicare ai poemi omerici moderne Originalitätsbegriffe (p. 11). Gli schemi di originalità applicati sono, a dir vero, se non proprio moderni, certo non antichi: e ne abbiamo conferma quando leggiamo (ibid.) che la novità di Omero consiste nell’arricchire di neue seelische Möglichkeiten quello che offriva la precedente tradizione epica, nell’innalzare i personaggi über das übliche epische Maas hinaus e nell’approfondirli psicologicamente. Quando troviamo poi (p. 12) espressa la certezza, più che l’ipotesi, che Omero sarebbe stato ispirato da uno solo dei suoi predecessori (l’autore dell’Etiopide), non possiamo se non concludere che l’a. ha cercato di semplificare artificialmente i dati di fatto per facilitarsi quello che sembra essere il suo || 4 A cui fa riscontro un costruttivo agnosticismo metodico del Kullmann (op. cit.), che pure è convinto unitario.
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scopo: la ricerca dello Homerisches in Homer (pp. 28, 80 e passim: l’espressione è presa da E. Howald, Der Dichter der Ilias, Erlenbach–Zürich 1946, pp. 144 sgg.), impresa appena possibile solo per chi postuli, appunto, una fonte per un autore5. Se l’a. avesse saputo rinunciare al sensazionale, non avrebbe postulato la maggiore antichità dell’Etiopide, non dimostrabile, anzi improbabile; né si sarebbe spinto alla ricerca dello Homerisches in Homer. Si sarebbe limitato ad offrirci quello che il suo studio, comunque, ci offre: un’analisi di alcuni settori della materia iliadica in cui il Feldbegriff, i concetti di Assoziationsfeld, di Inspirationszone, di Leitvers, ecc., pur non nuovi, sono utili strumenti d’orientamento per entrare nello spirito dello stile epico. Con interesse si seguono la ricerca sulle ricorrenti apparizioni del tema della nebbia (pp. 32 sgg. e passim), la singolare interpretazione del tema del Leichenkampf ohne Leiche (pp. 81 sgg.), l’impianto dell’analogia Diomede–Achille nei primi canti dell’Iliade: ma si tratta, come già abbiamo detto, di notazioni che interessano la critica interna della composizione epica, senza che ci permettano in alcun modo di trarre conclusioni cronologiche sul ciclo. Come apprendiamo dal ‘verso’ del frontespizio, il titolo originario del lavoro (nato come dissertazione) era Die homerische Assoziationstechnik als Basis der Erfindung: e in quello che a buon diritto tale titolo ci prometteva ci sembra che almeno la priorità dell’Etiopide sia qualcosa di estraneo, di volutamente imposto ed inserito. Ci sia consentita qualche osservazione di dettaglio. A p. 66 si riporta l’impressione che l’epiteto εἶδος ἄριστε compaia solo nei tre luoghi citati, il che darebbe maggior peso al richiamo allusivo: in realtà esso compare varie altre volte, anche al femminile. A p. 125 l’a., che va alla ricerca di elementi per provare la fungibilità di Teucro e Aiace Oileo nei confronti di Aiace Telamonio, avrebbe potuto considerare il fenomeno linguistico messo in luce da J. Wackernagel («KZ» 23 p. 306 = Kl. Schr. p. 542) a proposito del duale Aἴαντε: per un unitario integrale, sarebbe buona conferma della fungibilità sul piano linguistico. L’a. poi stabilisce (p. 31), tra quelle che appaiono genericamente formule, una distinzione fra Grossformeln (o echte Formeln) e Scheinformeln: un esempio di formula apparente, che sarebbe meglio chiamare ripetizione con valore tematico, è, ad es., Αἴας δ’ οὐϰέτ’ ἔμιμνε· βιάζετο γάρ βελέεσσιν, che compare in Ο
|| 5 Gli eccessi unitari più spinti si vedano a pp. 85, 88.2, 90 sgg., 94.4. Anche per un unitario molte delle contraddizioni vanno accettate cosí come sono, senza possibilità di spiegazioni razionalistiche: ogni opera d’arte ne è piena, a tacere degli alessandrini, che non si fanno scrupolo d’introdurne. Alcune poche restano e resteranno grosse cruces per la critica omerica, sia per unitari che per analitici.
rec. G. Schoeck, Ilias und Aithiopis | 7
727 e Π 102; mentre vera formula sarebbe ἦμος δ’ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάϰτυλος Ἠώς (p. 31). Naturalmente l’uso, in due o più passi, di vere formule (piú generiche) non sarebbe elemento sufficiente per stabilire richiami allusivi tra i passi: lo sarebbe invece la ripetizione di versi più o meno irrigiditi a richiami tematici. La distinzione è di grande utilità e lo sarebbe ancor più, se fosse sempre possibile eliminare il largo margine d’incertezza sul criterio d’uso, giacché è ovvio che non potrebbe guidarci un meccanico criterio di valutazione statistica. A p. 44, comunque, per Σ 94 τὸν δ’ αὖτε προσέειπε Θέτις ϰατά δάϰρυ χέουσα e A 413 τὸν δ’ ἠμείβετ’ ἔπειτα Θέτις ϰατὰ δάϰρυ χέουσα, non c’è dubbio: non si tratta semplicemente di Versparallelen, ma di ripetizioni di echte Formeln.
[Scheda bibliografica] BUCHHEIT V., Von der Entstehung der Aeneis, estr. da «Nachr. der giessener Hochschulgesellschaft» 33, 1964, pp. 131–143 Si tratta della prolusione tenuta il 3–12–1963 all’Univ. di Giessen. Riproponendo il problema delle contraddizioni interne nell’Eneide, viste nel quadro piú generale di fatti simili occorrenti in ogni opera d’arte, l’A. riafferma il valore del criterio metodico ‘interno’ («die Kriterien einzig aus dem Epos Vergils selbst ... entwickeln», p. 131) e tali contraddizioni tende ad eliminare col sussidio di accurati procedimenti esegetici. Come ‘campione’ metodico vien preso l’episodio di Palinuro (Aen. 5, 838–871; 6, 337–383), le cui contraddizioni, che tradizionalmente contrappongono la sezione del V libro a quella del VI, vengono spiegate ed eliminate (e ne viene naturalmente negato ogni valore di testimonianza interna per la cronologia relativa della composizione). Alle fonti omeriche dell’episodio (p. 136 sg.: ϰ 551–560; λ 51–80; μ 8–15) ci sarebbe da aggiungere γ 278–283 (morte del timoniero di Menelao); e, fra le fonti in generale, anche l’αἴτιον di Prochita, che Nevio avrebbe a sua volta attinto alla stessa fonte omerica. (ved. Sc. Mariotti, Il Bellum Poenicum e l’arte di Nevio, Roma 1955, pp. 40–47).
|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 93, 1965, p. 502]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-002
Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik* A. Hoekstra, Homeric Modifications of Formulaic Prototypes. Studies in the Development of Greek Epic Diction (Verhandelingen der koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen, Afd. Letterkunde, Nieuwe Reeks, Deel LXXI, No. 1). Amsterdam, 1965. 8° 172 S. [= Hoe.1] J. B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford, Clarendon Press, 1968. 8° X und 147 S. [= Hai. Fl.]. A. Hoekstra, The Sub–epic Stage of the Formulaic Tradition. Studies in the Homeric Hymns to Apollo, to Aphrodite and to Demeter (s. oben, Deel LXXV, No. 2). Amsterdam, 1969. 8° 76 S. [ = Hoe.2]. Seit sich die Homerforscher Wichtigkeit und Tragweite der Arbeiten Milman Parrys klargemacht und deren Ergebnisse, wenn auch manchmal mit Vorbehalt, angenommen haben, ist es durchaus möglich geworden, die herkömmliche Schichtenanalyse der ,höheren Kritik‘ zu ignorieren, ohne sich deswegen unter die Unitarier einzureihen, und dennoch Gutes und Gediegenes hervorzubringen. Die Verzweiflung über die so gut wie unentwirrbare Mischung nicht nur von Stoff, sondern auch von Sprache und Realien — hier mahnt auch das neuentdeckte Mykenische zur Vorsicht —, hat dazugeführt, daß sich die Anstrengungen zum Verständnis der Diktion verstärkten: und eben die Diktion ist seit den ersten Arbeiten Parrys (1928) in ihrem Wesen als Formeltechnik erkannt worden. Solch eine besondere Ausdrucksweise wie die homerische stellt uns zwei Probleme: erstens ihren Mechanismus, und zwar im Moment der letzten, der vor uns liegenden Redaktion, zu verstehen und zu beschreiben; und zweitens, mögliche vorhergehende Entwicklungsstufen zu entdecken und dabei Entwicklungsgesetze zu erkennen, die auch später weiterwirken. Das erste Problem hat seinerzeit Parry mit genialer Kühnheit in Angriff genommen. Er steuerte das unentbehrliche Moment der ,synchronischen‘ Beschreibung bei (und wurde deswegen, noch viele Jahre später, zu Unrecht als ,unhistorisch‘ kritisiert): nur hatte er uns das Bild eines nahezu vollkommenen Systems angeboten, fast das eines Uhrwerks. Eigentlich denselben Weg schlägt Hai. ein, aber
|| [Articolo pubblicato in «GGA» 223, 1971, pp. 161–174] * Prof. G. Neumann und Dr. H. Jankuhn haben meine erste deutsche Fassung mehr als stilistisch überarbeitet. Ihnen gilt mein freundlichster Dank. https://doi.org/10.1515/9783110648126-003
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seine Ergebnisse sind beträchtlich von denen Parrys verschieden; das System, das er uns vorlegt, ist bei weitem variierter, artikulierter und bestimmt weniger vollkommen als das, an welches wir vorher glaubten. — Den anderen Weg, den ,diachronischen‘ oder historischen, hatten vor vielen Jahren die Junggrammatiker eingeschlagen, deren Forschungsgegenstand freilich die Sprache war. Es war höchste Zeit, zum Gegenstand solcher Forschung nun die Diktion zu wählen, und gerade das bietet uns Hoe. in seinen zwei Arbeiten: er sucht nach „prototypes“, die man als Beweis späterer „modifications“ voraussetzen darf. Freilich hatten schon Witte und Karl Meister die epische Diktion untersucht (wir dürfen auch die nützlichen Hinweise Meillets nicht vergessen, von denen eben Parry angeregt worden war): man kann wohl sagen, daß die Darstellungen Hoe.s, nach ungefähr fünfzig Jahren, die von Witte und Meister fortsetzen. Aber die epische Diktion ist ja erst durch Parry zur ,formelhaften Diktion‘ geworden, und von ihm hängt auch Hoe. ausdrücklich ab (Hoe.1 12). Die drei Arbeiten, die vor uns liegen, sind gediegen und reich, so daß es nicht einfach ist, von ihnen hier einen hinreichenden Eindruck zu geben. Die Fülle der Materialien, die sie bieten, harrt der langsamen Nutzung im täglichen Gebrauch: bevor sie in einen höchst wünschenswerten neuen Homer–Kommentar (der aber immer mehr ein unmögliches Unternehmen scheint!) sozusagen ,offiziell‘ eintreten, gehen sie in Form von Randnotizen in unsere Texte und Grammatiken über. Ich werde hier versuchen, von den drei Arbeiten summarisch Rechenschaft zu geben und dazu vereinzelte ,Lesefrüchte‘ beisteuern. Während Hai. an die Mündlichkeit glaubt1, was es ihm erspart, die Schichtenanalyse ausdrücklich abzulehnen, schwankt Hoe. zwischen Gleichgültigkeit (Hoe.1 25.1), da das Problem seine Ergebnisse nicht beeinträchtige, und der Annahme der Mündlichkeit als einer „nicht unmöglichen“ Hypothese (18). Daß die Gedichte Homers gänzlich formelhaft sind (wie Parry in HStClPh 1930 und dann andere dachten), könne man nicht beweisen, und daher bleibe ihre Mündlichkeit unbeweisbar (Hoe.1 15,16; vgl. Hoe.2 17.17). Es würde immer der Ausweg bleiben, den eben Hoe.s Ergebnisse sehr nahelegen, nämlich an eine ursprüngliche Mündlichkeit zu denken, die später durch schriftliche Bearbeitung zum Teil verwischt worden sein könnte2; aber diese Vermutung ändert die Problemstellung nicht, denn das Ausmaß der Bearbeitung wird sich uns vielleicht nie erschließen. Die Schichtenanalyse ist im Gegenteil von Hoe. ausdrücklich zurückgewiesen worden (Hoe.1 5, vgl. 68): er gibt nur zu, daß die Ilias der Odys-
|| 1 Fl. 116, 117, bes. 125, wo er sie sogar mit der Improvisation identifiziert; vorher schon in Aufsätzen, bes. BICS 9, 1962, 57–68; Cl. Qu. 14, 1964, 155–164. 2 Siehe A. Lesky, Ges. Sohr., 1966, 63–71 (1954).
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see zeitlich ein wenig vorangeht (wobei er unentschieden läßt, ob sie von demselben Dichter stammen) und daß beide Gedichte „later additions“ erfahren haben. Hoe.1 wie Hai. Fl. bieten eine Zusammenfassung der Forschung und den status quaestionis in je einem einführenden Kapitel. Selten gibt es Berichte, die so inhaltsreich und klar sind wie der von Hoe.1. Zutreffend schon die Diagnose des zunächst mäßigen Beifalls, den Parrys Arbeiten fanden (9f.): auf der einen Seite ignorierten ihn die, die unter dem Einfluß der raffinierten deutschsprachigen Analyse standen; auf der anderen wurde er nicht einmal von denen diskutiert (und kaum verstanden), die, beeindruckt durch den Vergleich mit den südslawischen Sängern, alles als bewiesen anzunehmen bereit waren. Der Reihe derer, die merkwürdigerweise über Parry geschwiegen haben (9f.), würde ich G. Jachmann, Der hom. Schiffskat. u. die Il., 1958, hinzufügen; und gerade weil Leumann (Hom. Wörter, 1950) S. 9 gut charakterisiert wird, hätte ich seinen Namen in die Liste S. 28 eingereiht, denn die Tatsache, daß er die Formeltechnik nicht verwertet, ist schwer zu erklären, da seine Untersuchungen Vorteile daraus gezogen hätten und da auf der anderen Seite manche seiner Ergebnisse für das Studium der Formeltechnik nützlich sind (was auch bei Hoe. der Fall ist). Hai. Fl. 1–22 beschränkt sich auf einen kritischen Bericht der Ansichten Parrys, mit einer guten Schilderung des Übergangs von den zwei französischen thèses (1928) zu den zwei Aufsätzen in den HStClPh (1930 u. 1932), wo die Vorstellung von der Formelhaftigkeit immer beherrschender wird und die vergleichende Methode, auf der Grundlage der vermeintlichen Analogie mit der südslawischen Epik, auftaucht.
Was den zugrundegelegten Text betrifft, begnügt sich Hai. Fl. 42.1 mit der Aussage, daß er sich der Oxfordiana bedient hat (aber für die Odyssee ist es jetzt vorteilhafter, sich auf den Text Von der Mühlls zu stützen). Bei Hoe. sind dagegen die Prämissen artikulierter. Da er sich vornimmt, formelhafte „Prototypen“ herauszufinden, legt er sofort klar, welchen Wert er ihnen zuschreibt. Er bleibt beim textus receptus (Hoe.1 29f.), denn er zieht vor, „to err on the safe side“. Die wiedergewonnenen Formeln werden einfach als „pre–Homeric prototypes“ betrachtet und nicht als homerische ,ursprüngliche‘ Formeln. Er geht so das kalkulierte Risiko ein, Homer Formen und Formeln zuzuschreiben, die durch Rhapsoden oder Abschreiber eintreten konnten. Hoe. nimmt sich daher nie vor, den Text zu korrigieren, wie es diejenigen (Fick, van Leeuwen) getan haben, die einen ,archaïscheren‘ Text wiederherstellen wollten. Hoe.1 33 führt als Beispiele γ 181 Τυδεΐδεω ἕταϱοι, „reducible“ auf *Τυδεΐδα’ ἕταϱοι, und Π 74 Τυδεΐδεω Διομήδεος, „irreducible“, an. Nun, nach der alten Methode wäre das erste zu korrigieren und das zweite zu tilgen, oder mindestens der „Ionischen redaction“ (Fick) zuzuschreiben. Nach Hoe. aber ist das zweite ein Fall von „formelhafter Deklination“ (Τυδεΐδην / –ῃ Διομήδεα / –εϊ), und vom ersten dürfe man nur sagen, daß sein Prototyp ein Genitiv auf –α(o) ist: dieser Prototyp könne jedoch nie vorhanden gewesen sein, da es genüge, Parallelen der ,veränderten‘ Form zu finden (E 534, O 519). Die Prototypen sind
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also für Hoe. Wiederherstellungen, die nur die Art und Weise erklären sollen, wie sich die Diktion, in mehreren für uns nicht mehr erreichbaren Vorstufen, entwickelt hat. Mit anderen Worten: Hoe. unterscheidet sorgfältig zwischen „modernisation“ und einfacher Wiederherstellbarkeit eines Prototyps (s. bes. 54.1): nur in einigen Fällen bleibt er unentschieden, wie z. B. (54) χ 319 οὐδὲν ἐοϱγώς, das, im Hinblick auf ein System, wo Digamma immer wirksam ist (πολλὰ ἔοϱγε, ὅσσα ἔοϱγας usw.), vielleicht sogar durch das archaïschere οὔ τι statt οὐδέν korrigiert werden sollte.
Man muß noch erklären, was die beiden Verfasser als „Formel“ betrachten. Hoe.1 13f. definiert sie negativ, indem er von Parrys bekannter Definition ausgeht, und zwar von seinem „regelmäßigen Gebrauch“, der, nach Hoe., ἅπαξ λεγόμενα nicht ausschließen soll, sofern nur „sufficient evidence to show that they must have been regularly employed by Homer’s predecessors“ vorhanden sei. ο 234 θεὰ δασπλῆτις Ἐϱινύς ist ein ἅπαξ, ist aber auf das bekannte Formelsystem für Athena und Hera zurückzuführen. Es wird daher das rein statistische Kriterium abgewiesen (s. auch 94 u. Anm. 4). Es handelt sich um dieselbe Methode, die Hoe. seinerzeit bei Hesiod angewandt hat, in einem Aufsatz, der gerade hier Erwähnung verdient hätte (Mnemos. 10, 1957, 193–225). Sehr treffend ist die Kritik gegen den mechanischen ,Verbalismus‘ O’Neills (20ff.), der bestimmte Stellungen im Vers für Wörter von bestimmtem metrischem Wert festgelegt hatte (YClSt 8, 1942, 105–178). Hoe. betrachtet das Wort ὑπόδϱα, dessen Worttypus (g h g) nach O’Neill gewöhnlich die Stellung g h3 g einnehmen müßte. Aber in der Tat kommt ὑπόδϱα immer in der Stellung g h2 g vor, und immer in der häufigen Formel ὑπόδϱα ἰδών: ein Zeichen dafür, daß Homer solche Wörter nicht ,atomistisch‘ gebraucht, sondern nur als Bestandteile formelhafter Wendungen. Noch interessanter ist, was er über ἰσόϑεος und ἀντίϑεος sagt: sie werden in verschiedener Stellung, aber mit eigenem formelhaftem Wert gebraucht (sie sind nicht bei verschiedenen Nomina oder Eigennamen vertauschbar: nie ἀντίϑεος φώς oder ἰσόϑεος Θϱασυμήδης); dazu zeigt das erste Adjektiv stets Berücksichtigung des ursprünglichen Digammas. Ihr gleichzeitiges Vorhandensein und ihre ,Spezialisierung‘, auch als das Digamma nicht mehr wirksam sein sollte, zeigen, daß eine formelhafte Tradition zu einer stilistischen geworden ist (23), auch wenn dafür Dubletten entstehen (darüber unten, S. 167f.). — Hoe. liefert noch weitere Beispiele.
Hai. Fl. 33ff. geht ebenfalls von Parrys Definition (L’épith. trad. 16, HStClPh 41, 1930, 80) aus, aber indem er sie kritisiert: er weist das Erfordernis der „fixity“ der metrischen Stellung ab und schlägt als Definition der Formel „a repeated word group“ vor (35). Er kann so die Bestimmung von „shape, manner of use and position“ für die Formel und „order, proximity and syntactical relations“ für die Wörter ausschließen (36). Seine Ergebnisse lassen eine solche Erweiterung der Definition auch wirklich angebracht erscheinen. Hai. geht dann zum statistischen Problem über: er fordert, daß die Formeln mindestens zweimal wiederholt sein müssen (42). Nach den gesunden statistischen Voraussetzungen
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S. 40, hätte er vielleicht besser ausdrücklich gesagt, daß es sich einfach um eine praktische Beschränkung handelt, eigentlich nur für die Auswahl des zu behandelnden Stoffes. Außerdem, was die Glossen angeht (die Parry meistens als formelhaft betrachtete, weil sie altertümlich und herkömmlich seien, s. ΤΑΡΑ 59, 1928, 233ff.), so scheint Hai. S. 14.1 ihre Formelhaftigkeit ausschließen zu wollen, während er sie S. 40 u. Anm. 2 wohl als mindestens möglich einräumt.
*** Damit sind wir zu den Hauptthemen der Untersuchungen gelangt. Hoe.1 will vorhergehende Stufen der Diktion aus drei Anzeichen entdecken: aus paragogischem ν, Verlust des anlautenden Digammas und quantitativer Metathese. Die hier angegebene Reihenfolge ist als eine chronologische gedacht3. Er fängt mit der Metathese an (31–41 und Anhang 124–130). Wir haben oben schon ein Beispiel gesehen (γ 181 Τυδεΐδεω ἕταϱοι). Für fast alle Fälle fühlt sich Hoe. imstande, einen Prototyp wiederherzustellen, und er denkt daher, daß nur eine minimale Zahl von Formeln ursprünglich Metathese hatten (38; 124ff. für νεῶν, νεός, νέας usw.). Die Metathese wäre also am Ende eingetreten, als die Formeltechnik vollständig ausgeformt war. Manchmal jedoch ist die Wiederherstellung ganz hypothetisch, da sie bloß auf die Analogie anderer Wendungen gegründet ist. Für νέας ἀμφιελίσσας, z. B. (124f.), wird der Prototyp in I 683 νῆας ἐυσσέλμους ἅλαδ’ ἑλϰέμεν ἀμφιελίσσας gesucht, aber das doppelte Epitheton läßt eher an eine schon vorhandene Veränderung denken, und vielleicht dafür schlägt Hoe. die Möglichkeit eines anderen Versschlusses im Prototyp vor, was aber incertum per incertius ist. Schön ist allerdings der Hinweis auf χ 131 = 247 τοῖς δ᾿ Ἀγέλεως μετέειπεν ἔπος πάντεσσι πιφαύσϰων (39f.), wo die Formelhaftigkeit offensichtlich verlassen worden ist (da der Dichter keine der üblichen Formeln für „sagen“ gebraucht hat, τοῖσι δὲ ϰαὶ μετέειπε + Δαμαστοϱίδης Ἀγέλαος [3mal]): hier haben wir einen Fall, für den kein Prototyp zu finden ist und wo es auch keinen Grund für die Dublette gibt, die das Gesetz der Ökonomie verletzt (s. unten, S. 167f.); außerdem scheint mir πιφαύσϰω kein Zeichen von Formelhaftigkeit aufzuweisen (dazu kommt das Schwanken der Quantität in πι–, s. Schulze, Quaest. ep. 446) und schließlich erweist Hoe.1 137f. die Namen der Freier als nicht herkömmlich. Also ein Beispiel für den ,Verfall’ der Formeltechnik.
Hoe.1 42–70 behandelt das anlautende Digamma. Die Untersuchung gliedert sich hier nach Deklination und Konjugation von Formeln (ἡδέος οἴνου < ἡδέι οἴνῳ, εἴσομ’ ἑϰάστην < οἶδα ἕϰαστα: beide Kategorien schon bei Witte), Ersetzung einer archaïscheren Form durch eine neuere (οὐδέν statt οὔ τι; s. oben S. 163, und dies ist ein neuer Vorschlag Hoe.s), Einschaltung eines Wortes (πάντεσσι δ’ἀνάσσειν) und Verschiebung (νόστιμον ἦμαϱ ‖, das als νόστιμον ἦμαϱ ἰδέσϑαι ‖ verschoben wird; wir werden diese beiden Kategorien teilweise
|| 3 Siehe aber die Einwände C. J. Ruijghs, Lingua 18, 1967, 93–96.
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auch bei Hai. wiederfinden). Besonders wichtig sind die Vermutungen Hoe.s über die Anpassung von Formeln der einen oder der anderen Mittelzäsur (penthemimeres oder trochäische: P1 + P2 oder T1 + T2, nach seinen — von Severyns übernommenen — Symbolen; so ist ϰᾰὶ εἵματα σιγαλόεντα Veränderung von ϰα̅ὶ̅ (Ϝ)είματα σιγαλόεντα). Hoe.1 60 formuliert den Grundsatz, den schon Parry, Les formules et la métrique d’Homère, 1928, bewiesen hatte: “the caesura being one of the natural switch–points in the formulaic diction”. Parry hatte seinerzeit andere sprachlich–prosodische Unregelmäßigkeiten erforscht, und zwar die Kürzen im Hiat und die sogenannten Arsisdehnungen; hier bei Hoe. geht es um die nicht mehr vorhandene Wirkung eines Lautes. Es wäre angebracht gewesen, hier die Geschichte der Frage wiederzugeben, denn der oben angegebene Grundsatz ist genau die Widerlegung der Methode Useners4. Usener sah in Versen wie A 141 νῦν δ’ ἄγε νῆα μέλαιναν | Ϝεϱύσσομεν εἰς ἅλα δῖαν (19; vgl. Hoe.1 60) die Folge einer Naht verschiedener metrischer Bestandteile (und seine Kritiker5) hatten ihn verspottet, weil er seine Hypothese durch Inschriften einfacher Art und aus späterer Zeit zu stützen versucht hatte); während die Kenntnis der Formeltechnik uns nun erlaubt, die Naht formelhafter Bestandteile entstehen zu sehen, und das geschieht meistens gerade an der Mittelzäsurstelle. Parry scheint Usener nicht gekannt zu haben, sonst hätte er ihn ausdrücklich so widerlegt. Hoe.1 71–111 behandelt das paragogische ν. Auch hier bietet er die oben (S. 165) angegebene Gliederung an, wofür z. B. λοῦσεν ϰαὶ χϱῖσεν ἐλαίῳ (ein positionsbildendes und ein hiatvermeidendes ν) Konjugation von λοῦσαν ϰαὶ χϱῖσαν ἐλαίῳ ist. Enjambement tritt hier (und öfter sonst) dazu als eine wichtige Nebenerscheinung der Modernisierung auf. Hoe. meint, daß das paragogische ν ziemlich altertümlich sei (72 u. pass.), aber zu den Einwänden Ruijghs gegen ihn (s. oben Anm. 3) könnte man auch einen bei ihm selbst vorkommenden Beweis hinzufügen, nämlich die wachsende Frequenz der Erscheinung in der allmählichen „decomposition“ der epischen Diktion (Hymnen und Hesiod: 75ff., bes. 82f.). Uns sollte allerdings die abnehmende Frequenz von positionsbildendem ν (der ein gewisses Gewicht zugesprochen wird, um die anwachsende Frequenz vom hiatvermeidenden aufzuwiegen, 76f., nach Isler, 1908) nicht beein-
|| 4 Altgriechischer Versbau, 1887, bes. 18ff. — Für die Vorgeschichte des Hexameters von Th. Bergk, 1854 = Kl. Schr. II, 392ff. vorweggenommen. 5 Z. B. Wilamowitz, Griech. Versk., 84.
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drucken: das ist keine sprachliche, sondern eine prosodische Erscheinung, die mit dem Rhythmus zu tun hat6. Ein Hauptargument dafür, daß die Erscheinung alt ist, ist nach Hoe. die Tatsache, daß man von vielen Formeln keinen Prototyp finden könne: somit seien sie als ursprünglich anzunehmen. Hoe. ist aber anderswo hypothetischer gewesen (ohne es allerdings zu verhehlen!), als er es z. B. S. 74 ist, wo er Formeln wie δούπησεν δὲ πεσών als ursprünglich bezeichnet; aber ist es ein Mißbrauch seiner Methode, ein δούπησαν δὲ πεσόντες, mit Übergang von T1 zu P1, anzunehmen? πεσόντ– ist in derselben Stellung ausreichend belegt7. Übrigens ist es unvorsichtig, sich auf die Onomatopöie zu berufen, um Ursprünglichkeit zu beweisen, oder auf die Altertümlichkeit von διαπϱύσιον, die keineswegs sicher ist (s. Frisk s. v.) und die zudem wenig besagen würde. Letzten Endes scheint eine Annahme, wie die hier vorgeschlagene, weniger kühn als eine andere, die von Hoe.1 92 vorgeschlagen wird und die sehr bestechend ist: daß nämlich P 387 μαϱναμένοιιν, ein „falscher Dual“, ursprünglich einer Formel angehörte, die für den Kampf zweier Helden bestimmt war und später auf ein ganzes Heer bezogen worden sei.
Hoe.1 112–123 werden nach der üblichen Gliederung (s. oben S. 165) andere Erscheinungen betrachtet (morphologische Neuerungen, prosodische Unregelmäßigkeiten, Hiate, Mißbräuche usw.). 131–136 werden für eine ähnliche Untersuchung Kontraktionen, Dual, Verbalformen auf –σαν, Aorist auf –ϑην vorgeschlagen; diese Untersuchung wird aber nicht durchgeführt, da es unmöglich sei, sichere Ergebnisse zu gewinnen. Die letzten Seiten (136–153) bieten dann eine zusammenfassende Betrachtung der „drastic changes“, die die epische Diktion beeinflußt haben. Am Ende steht eine Stellungnahme zur dialektalen Stellung der epischen Sprache: sie sei eine ϰοινή mit Einmischung südmykenischer und nordmykenischer oder protoaeolischer Elemente, was eine Variante (151) der achaeischen Hypothese Meillets und Parrys ist. Aus dem, was wir hier dargestellt haben, gewinnt man nur annähernd eine Vorstellung von der Fülle an Stoff und Beobachtungen, die diese schwer zu lesende Arbeit bietet. Hier möchte ich noch auf einige Einzelheiten aufmerksam machen, die sonst leicht unbeobachtet bleiben könnten, da sie nicht zusammenfassend dargelegt worden sind (und die Indices dafür nur zum Teil Hilfe leisten). Es ist bekannt, daß für Parry ein Kennzeichen der mündlichen Diktion das „thrift“, die Ökonomie war: für jeden benötigten Versteil gäbe es eine Wendung und nur eine, ohne Dubletten (er hatte sich auf Nomen und Epitheton
|| 6 Vgl. Wernickes Gesetz, das dann bei den Späteren zu Naekes Gesetz führt: Abneigung gegen Positionsbildung ü b e r h a u p t an bestimmten Verseinschnitten, die dann sogar zur Tilgung derselben Einschnitte führt; vgl. auch Hilbergs Gesetz. 7 Für das Fallen zweier Helden s. z. B. Ψ 731 f.
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beschränkt, meinte aber offenbar die ganze Diktion). An diesen Grundsatz glauben fast alle, die Parry gefolgt sind (auch Hai., s. unten, S. 172), und es war wohl verständlich, daß Parry darin ein typisches Kennzeichen der Mündlichkeit sah, im Glauben, es für Homer bewiesen zu haben (für die nach ihm wenigen ,Ausnahmen‘, die er nicht rechtfertigen konnte, s. L’épith. trad. 235ff.). Hoe. findet nun zahlreiche Verletzungen des vermeintlichen Gesetzes. Über ἰσόϑεος ~ ἀντίϑεος und χ 131 = 247 s. oben, S. 164 u. 165. Natürlich muß man, wie beim vorhergehenden Beispiel, Sprachliches berücksichtigen (Digamma usw.): wichtig ist z. B., daß εἶπέ τε μῦϑον und φώνησέν τε (13), auch nachdem das Digamma nicht mehr wirksam ist8, beide gleichzeitig vorhanden seien. Siehe ferner 13, 36.1, 48 u. Anm. 7, 90, 110.1, 114.4, 127 u. Anm. 2 (vgl. 35f., 135, 146), 128, 138. All dies Material, das sicher vermehrt werden könnte, und dazu die zahlreichen Fälle, die Parry besonders mit der Analogie gerechtfertigt zu haben glaubte (a. a. O. 218ff.: ποντοπόϱος νηῦς — νηῦς εὐεϱγής, vgl. νηὸς . . . ποντοπόϱοιο, ποντοπόϱοισι νέεσσι und εὐεϱγέα νῆα; usw.) und die alle neu gesiebt werden sollten, zeigen, daß die Ökonomie in der von Parry verfochtenen strengen Form zu oft verletzt wird — und also überhaupt nicht existiert. Sie schließen aber nicht aus, daß man von einer ,Quasi–Ökonomie‘ sprechen darf: und gerade diese Tatsache kann beweisen, daß in einem bestimmten Moment, das für uns in den Einzelheiten verlorengegangen ist, die Epik wirklich mündlich und ökonomisch sein konnte und erst später dann ,Kontaminationen‘ aller Art unterworfen wurde, die nur in einer schriftlichen Stufe verständlich sind (s. oben, S. 162; schon Parry, a.a.O. 227). Hoe. hat zwar beiläufig neue Materialien beigesteuert, aber das Problem, das eine unabhängige Untersuchung verdiente, nicht explizit behandelt (doch s. 13). Hoe.1 90 erörtert die Frage von (ϰατέ)χεῦεν ἔϱαζε, wo er gleichzeitig paragogisches ν und einen lexikalischen Archaismus findet. Warum — so fragt er sich — finden wir kein *χεῦε χαμᾶζε (χαμᾶζε 29mal)? Vielleicht gab es damals eine ,Spezialisierung’ *χεῦε χαμᾶζε, *χεῦαν ἔϱαζε (vgl. πίπτον ἔϱαζε usw.), die dann durch Kontamination der beiden Formeln verlorengegangen wäre. Es wäre hier wichtig, wenn man feststellen könnte, ob χεῦεν ἔϱαζε und *χεῦε χαμᾶζε gleichzeitig vorhanden waren, wie es bei anderen Formeldubletten des öfteren der Fall ist. In anderen Worten: werden wir je feststellen können, wann und in welchem anfänglichen Maß das Gesetz der Ökonomie, sofern es das gab, verletzt wurde? — S. 48 u. Anm. 7 ist es nicht klar, ob Hoe. ein *ἡδέα οἶνον (das Dublette von οἶνον ἐϱυϑϱόν wäre), als Deklination von ἡδέι οἴνῳ, nach dem Muster von εὐϱέα πόντον, postulieren will (später, 127.2, gibt er es sogar als vorhanden an). Ließe sich denken, daß der analogische Weg, der von εὐϱέι zu εὐϱέα führte, hier durch μελιηδέα οἶνον (–ηδής!) weiter erleichtert worden Wäre? — S. 138, zwischen Φιλοίτιος ὄϱχαμος ἀνδϱῶν (υ 185, 254)
|| 8 H 277, u. s. bes. die Hymnen.
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und βοῶν ἐπιβούϰολος ἀνήϱ (υ 235 usw., 4mal), denkt Hoe., daß die zweite Bezeichnung (anonym, vgl. γ 422) die ursprüngliche für Philoitios sein konnte (hätte er hier rein statistische Gründe?). Nun, wenn die Dubletten zufällig nicht gleichzeitig sind, dann ist sicherlich die zweite später, denn Anonymität ist spät, sogar unepisch, s. G. Jachmann, Schiffskatalog 119ff.
Man müßte noch auf vieles hinweisen: z.B. auf die verstreuten Bemerkungen über den wachsenden Reichtum an Ausdrucksmöglichkeiten der späteren Formelhaftigkeit (23, 48f. u. Anm. 8, 51ff.; allerdings können archaischere Formen verschwunden sein, wegen der möglichen Altertümlichkeit der Entwicklung, 136ff.), die aus sprachlichen Gründen größere Wendigkeit hatte, wodurch man die früher überwiegende Erzählung in direkte Rede umsetzen konnte (51ff.; 110f. über umgestaltete erzählende Formeln). Rhetorisches kann später auftreten: Antithese (μέν — δέ, 56ff.), pathetische Anrede (138f.), ,getrennte‘ Anapher (110f.)9. Auch über Umgangssprachliches fallen gute Bemerkungen (14f., 37, 116.2). *** Hoe.2 sucht in den homerischen Hymnen nach Veränderungserscheinungen (auch hier „modifications“, sogar „decomposition“, 5), die über die homerische Stufe hinausgehen (bei Hoe.1 gab es schon viele Hinweise auf die Hymnen, aber für Erscheinungen, die den behandelten homerischen ähnlich waren). Die weitere Stufe wird, Allen (und Lesky) folgend, „subepisch“ genannt. Ausgewählt für die Untersuchung werden Ap., Aphr., Dem., die wie üblich als die ältesten Hymnen betrachtet werden. Hoe. verwertet und bereichert die Materialien O. Zumbachs (Diss. Zürich, 1955), die aber lexikalisch–lemmatisch angeordnet waren, ohne daß die Formeln berücksichtigt wurden. Nur indirekt weist er Notopoulos’ Hypothese der Mündlichkeit für die Hymnen ab (7ff., vgl. Hoe.1 15). Als Beispiel für eine Häufung späterer Züge darf man (Hoe.2 24f.) Ap. 163 anführen, μιμεῖσϑ’ ἴσασιν· φαίη δέ ϰεν αὐτὸς ἕϰαστος: Formeln des „Wissens“ weisen bei Homer wirksames Digamma auf und stehen gewöhnlich am Ende des Verses; hier haben wir gleichzeitig — außerhalb der Verschiebung — nichtwirkendes Digamma, Kontraktion und positionsbildendes ν.
|| 9 Dabei ist aber nicht zu vergessen, daß die unmittelbar aufeinanderfolgende Anapher (Anadiplose, oder besser Epanalepse) bei Homer noch äußerst selten ist — Ἆϱεϛ Ἄϱεϛ —, so schon I. Bekker, Hom. Blätter I, 1863, 193–195.
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Hoe.1 90 (u. 91.2), wo die Entwicklung auch verfolgt worden war, hatte gegen die etymologische Erklärung vermutet, daß die Länge von ἴσ– (die, wie schon bei Homer, mit der Kürze wechselt) aus Veränderung stamme. Wir wollen hier Hoe.s Argumente nicht erörtern. Was das Endergebnis angeht, fragen wir uns nur: soll es sich also um eine Dehnung handeln? In diesem Falle wären wir außerhalb von Schulzes Gesetzen10. Die ganze Frage der Dehnung wäre im Hinblick auf die Formeln zu überprüfen. — Hoe.2 15 betrachtet Aphr. 127 τέϰνα τεϰεῖσϑαι als formelhafte Flexion von χ 324 τεϰέσϑαι und ähnlich das homerische ἐσσεῖται als Flexion von ἕσσεσϑαι (vgl. τ 302 mit σ 146; B 393 mit Z 339). Fürs hom. ἐσσεῖται ist die Erklärung sehr verlockend, sie war aber schon von E. Risch, Wortbildung d. hom. Spr., 1937, 298 vorgeschlagen worden. Auf der anderen Seite schafft man, wenn man das sogenannte ,dorische‘ Futurum beseitigt, eine andere ,formelhafte‘ Dehnung. Ob es gelingen kann, solche Erscheinungen in irgendeinen unitarischen Zusammenhang zu bringen?
Ein anderer typischer Fall ist Ap. 506 ἐϰ δ’ ἁλὸς ἤπειϱόνδε ϑοὴν ἀνὰ νῆ᾿ ἐϱύσαντο, wo wir eine freie Verarbeitung homerischer Prototypen haben, die bei Homer keine Parallele hat (*Ϝεϱυσσέμεν ἤπειϱόνδε, *ἐπ’ ἠπείϱοιο Ϝέϱυσσαν, νῆα ϑοήν: vgl. Hoe.1 60f.). Nun, solche Fälle finden wir in einer Liste („Conclusions“) am Ende der Behandlung jedes Hymnus wieder. Man fragt sich aber, warum andere Fälle, die genauso bezeichnend aussehen, in diese Listen nicht aufgenommen werden, d. h., warum Hoe. sie offenbar stillschweigend als für die subepische Stufe irrelevant betrachtet. Dem. 413 ἄϰoυσαν δὲ βίῃ με πϱοσηνάγϰασσε πάσασϑαι (51) weist Verschiebung und Trennung gegenüber homer. βίῃ ἀέϰοντα / –ος, ἀέϰοντα βίηφι auf; ferner hat keine homerische Form von ἀέϰων (44mal) ,notwendige‘ Kontraktion. Wo liegt der Unterschied zwischen Dem. 413 und, z. B., Dem. 55 ‖ τί ϑε͜ῶν οὐϱανίων oder 325 μάϰαϱας ϑε͜οὺς αἰὲν ἐόντας ‖ (49), die in die Liste aufgenommen worden sind? Hoe.2 ist nach derselben Gliederung geordnet wie Hoe.1: Deklination, Konjugation, Ersetzung, Einschaltung usw., und mögliche unhomerische Archaïsmen werden hinzugefügt. In der Einführung erörtert Hoe. kurz jene lexikalischen Bestandteile (besonders poetische Komposita), die bisher bei der sprachlichen Erforschung der Hymnen im Zentrum standen. Hoe. ist mit Recht skeptisch und vorsichtig, wo es sich darum handelt, solche Komposita als Neuerungen anzusehen (12f.), so z. B. im Falle von φεϱέσβιος (19.49: Dem. 451, aber auch 450 u. 469), dessen sprachliche Bildung übrigens umstritten ist. Die Frage der poetischen Komposita sollte aber heute, mit der Hilfe des kostbaren P. Hibeh 172 (1955), wie-
|| 10 Diese sind allerdings neulich wieder bestritten worden: W. F. Wyatt Jr., Metrical Lengthening in Homer, Roma 1969, der für die Dehnungen meistens sprachliche Erklärungen zu finden versucht. (Über ἴσασιν sagt Wyatt a.a. O. nichts, bietet allerdings S. 209f., 217f., 224 einige ,formelhafte Rechtfertigungen‘ an).
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deraufgenommen werden. Unter den vielen Komposita hat der Papyrus auch φεϱέσβιον (Z. 123). Turner ad loc. vermutet, daß sich das Neutrum (?) gerade auf Dem. bezieht. Aber das Wort ist in hexametrischer Dichtung häufig genug, da es auch Ap. 341, Hymn. 30.9, Hes. Th. 693, Emped. 6.2 D.–K. vorkommt. Die Stellung ist immer dieselbe (g h4 g g), aber sie ist, wenn auch die gewöhnlichste für solche Wörter, bei weitem nicht die einzig mögliche (O’Neill, a.a.Ο. 143). Die Tatsache, daß wir das Wort in einer Liste finden, die so reich an nur hier belegten, sicher hexametrischen Komposita ist, muß uns daran erinnern, wie viel epische Dichtung verlorengegangen ist. Hoe.s Stellungnahme gewinnt dadurch an Wahrscheinlichkeit.
Auch Hoe.2 legt Materialien und Beobachtungen von größtem Interesse vor. Wir weisen hier nur auf 58.16 hin, wo für Hesiod, der von einigen (z.B. von Notopoulos) als ein Vertreter der „achaeischen Epik“ angesehen worden war, daran erinnert wird, daß bei ihm oft βασιλεύς auf Zeus bezogen wird (was offensichtlich nachhomerisch ist). S. 62–65 bietet er einen Anhang über die Hermannsche Brücke: darauf hätte man jedoch wohl verzichten können, zumal die Behandlung, im Gegensatz zum übrigen, zum Teil ziemlich ungenau aussieht. Hoe.2 54f. hat als nachhomerisch Dem. 17 Νύσιον ἂμ πεδίον, τῇ ὄϱουσεν ἂναξ Πολυδέγμων erwiesen: ἄναξ stehe nie in der Stellung g h5, da es die Hermannsche Brücke verletzen würde. Was S. 64 vorgetragen wird, hätte sich, wenn ich es richtig verstanden habe, besser so ausdrücken lassen: auf der einen Seite haben Verbalformen wie ὄϱουσε(ν) in der Stellung g h4 g (oder auch Formen h h4 g) ein δέ nach sich (ein Postpositivum, womit bukolische Dihärese entsteht); auf der anderen Seite haben Formeln wie ἄναξ Πολυδέγμων ‖ (Ἀγήνοϱα δῖον ‖) ein ϰαί vor sich mit Hiatkürzung (ein Präpositivum, womit Hephthemimeres entsteht)11. Keine dieser Voraussetzungen, die der formelhaften Diktion angehören, ist in Dem. 17 vorhanden, es liegt also Verletzung vor, sei es auch beim Gebrauch zweier herkömmlichen Bestandteile, die aber nicht zusammen auftreten können (Verbalform g h4 g + Nomen–Epitheton g h5 g g h6 W). Das sei der Unterschied zwischen Dem. 17 und Z 2, wo μάχη πεδίοιο ‖ keinem formelhaften Schema entspricht. Eine solche ,formelhafte‘ Rechtfertigung der Verletzung ist etwas Neues, und es wäre wichtig, eine Anwendung von Hoe.s Methode auf die homerischen Materialien von Hermann selbst (Orphica, 692–694) und von van Leeuwen (a. O.) zu versuchen. — Eine andere Erscheinung hätte man aber im behandelten Stoff nicht vernachlässigen sollen: Hoe.1 behauptet 46ff., wo er den Prototyp *Ϝάλιδα δῖαν, *Ϝάλιδι δίαι wiederherstellt12, daß die zwei Prototypen am Versende benützt werden konnten. Das wäre nur bei wirksamem Digamma wahr (*ϰαὶ Ϝάλιδα δῖαν, *ἐν Ϝάλιδι δίαι), denn bei nichtwirksamem Digamma würde mindestens das zweite (das, als Dativ, normalerweise ein ἐν benötigt) die Hermannsche Brücke verletzen. Und in der Tat wird die Brücke zweimal in Versen verletzt, die Hoe. anführt: Λ 686, 698 ἐν ’Ήλιδι δίῃ ‖: die Fälle sind also, vom Standpunkt der For-
|| 11 65.9, wo er J. van Leeuwen, Mnemos. N. S. 18, 1890, 265–275 zitiert: s. bes. 267. 12 Ursprünglich mit wirksamem Digamma, nachher ohne Rücksicht darauf in den T2–Formeln B 615 ϰαὶ Ἤλιδα δῖαν ἔναιον ‖, Λ 673 ἐν Ἤλιδι ναιετάασϰε ‖).
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meltechnik aus, von Dem. 17 nicht verschieden (vgl. van Leeuwen, a. a. O. 273). Sind solche Fälle metrischer Verletzung durch ,Überschneidung‘ formelhafter Bestandteile zu rechtfertigen, wie manchmal prosodische u. a. Verletzungen? Hier wäre, wie gesagt, eine gründliche Untersuchung vonnöten; man darf aber nicht vergessen, daß die Hermannsche Brücke, mit verschwindend wenigen Ausnahmen, von der ganzen hexametrischen Dichtung der Griechen beachtet wird, was es verbieten würde, von einer ,Entwicklung‘ zu sprechen. Hoe. hätte ferner bemerken müssen, daß auch Dem. 248 πυϱὶ ἔνι πολλῷ ‖ die Hermannsche Brücke verletzt, und mit Recht wird anderswo (Hoe.2 27.29, 51) diese Wendung als Veränderung angesehen (aus einem Prototyp (ἐν) πυϱὶ πολλῷ, mit Hiatvermeidung). Im ganzen aber befriedigt die allgemeine Erörterung der Hermannschen Brücke nicht, auch wenn die neuen Beiträge zur Frage der Appositiva (von P. Maas und H. Fränkel) teilweise verarbeitet zu sein scheinen. Ich sehe z. B. keine Ähnlichkeit (62) zwischen Z 373 γοόωσά τε μυϱομένη τε ‖ (offensichtliche Beachtung: τε ist Postpositivum!) auf der einen Seite und E 571 ϑοός πεϱ ἐὼν πολεμιστής ‖13 , A 168 ἐπεί ϰε ϰάμω πολεμίζων ‖14 auf der anderen: im ersten Fall steht das Postpositivum unmittelbar vor h5 (Beachtung), in den zwei übrigen unmittelbar nach h4, (h4 g | . . ., eigentlich Verletzung, die manchmal durch Wortbild gerechtfertigt werden kann). Hoe. stellt auch verhältnismäßig ungeordnet andere ganz verschiedenartige Erscheinungen zusammen (62f.): E 164 ist Beachtung (δέ Postpos.!), ε 272 darf gerechtfertigt werden (ὀψὲ δύοντα), η 192 ist eine weitere Beachtung (ἄνευϑε Präpos.!), ϱ 399 ist echte Verletzung (μὴ τοῦτο ϑεὸς τελέσειεν ‖: τοῦτο ist orthotonisch! Wenn man zuviel mit der Syntax operiert, kann man alles rechtfertigen!). In der Tat ist Hoe. sehr ,syntaktisch‘, aber man sieht nicht den Unterschied (63) zwischen Ω 60, I 394 (Vulgata) (als syntaktisch verbunden angesehen) und K 317, σ 140, Ψ 760 („less unity of sense“): kann man im Ernst sagen, daß Ergänzung und Verb (ἀνδϱὶ πόϱον, γυναῖϰα γαμέσσεται) syntaktisch enger verbunden seien als Adjektiv und Substantiv (πέντε ϰασιγνήτῃσιν usw., γυναιϰὸς ἐυζώνοιο)? Die Syntax ist eben ein trügerischer und letzten Endes verfehlter Maßstab15. Wenn Hoe.2 62 übrigens behauptet, daß α 241 = ξ 371 ἅϱπυιαι ἀνηϱείψαντo ‖ die Hiatkürzung eine „prosodic unity“ bewirkt, vergißt er, daß Hiatkürzung auch bei Zäsurengrenze eintritt: würde Hoe. behaupten, daß z.B. X 64 βαλλόμενα πϱοτὶ γαίῃ | ἐν αἰνῇ δηιοτῆτι keine trochäische Mittelzäsur hat? Dasselbe gilt für die Synaloephe (ibid.): elisio non officit caesurae, schon G. Hermann, Elem. doctr. metr. 33, vgl. 357. Über beide Probleme s. Rez., Riv. di filol. 97, 1969, 433ff.
***
|| 13 Hier kann man ,Wortbild’ ϑοός πεϱ ἐών annehmen: Beachtung. 14 Wieder Wortbild möglich, aber man beachte, daß Präpos. + Postpos. orthotonisches Wort bewirken, s. J. Vendryes, Traité d’acc. gr., 1945, 90ff. 15 Siehe Rez., Studi Urbinati 39, 1965, 244–247.
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Hai. Fl. ist, wie gesagt, ein ,Parryist‘, aber von Anfang an (Fl. 13ff., vgl. 34) lehnt er Parrys Erweiterung (nach 1930) der Formelhaftigkeit auf die ganze Diktion ab und kritisiert mit Recht die Anstrengungen derer, die syntaktische Zusammenhänge (τεῦχε ϰύνεσσι und δῶϰεν ἑταίϱῳ, Parry) als verschwisterte Formeln ansehen wollten16. Deswegen beschränkt er S. 21, wo er sagt, was er Severyns (1946) schuldet, seinen Stoff auf „the core of indisputable formulae“17. S. 23–32 wählt er einige Formeln Nomen–Epitheton aus (g) g h4 g g h5 g g h6 W, (g g) h5 g g h6 W] und bemerkt, daß es einen hohen Prozentsatz von beweglichen, verschiebbaren („mobile“) Formeln gibt. Die ,Festigkeit‘ („fixity“) Parrys erweist sich als nicht vorhanden; bemerkenswert ist dabei noch, daß sogar so lange Formeln beweglich sein sollen. Wegen ihres hohen Prozentsatzes ist es nicht erlaubt, verschobene Formeln als ,nicht herkömmlich‘ oder ,verfehlt‘ zu erledigen (31). Hai. bestimmt dann (43–45) die Grenzen der Untersuchung; um die Biegsamkeit („flexibility“) der Formeln zu erforschen, beschränkt er sich darauf, Nomen + Epitheton in den Schemata h g g h ⁐̶ und g g h ⁐̶ zu untersuchen. Seine Ergebnisse sind ein harter Schlag gegen die Vollkommenheit von Parrys System. Allerdings sind gerade die Verwandlungen der Formeln, wie sie sich im Verlauf der Untersuchung darstellen werden („mobility“, „modification“, „expansion“, „Separation“), ein Zeichen ihrer „coherence“, der „persistence of word–association“, wie Hai. Fl. 57, 122 mit Recht betont. Was er sich als Aufgabe stellt, spricht er S. 31f. klar aus: keineswegs die Formelhaftigkeit als solche zu leugnen, sondern gegen Parry die epische Diktion als „nicht mechanisch“ zu erweisen. Parry wird dementiert auch in der Fabel vom vermeintlichen Fehlen von „surallongement“ („overlengthening“, Überlänge: geschlossene Endsilbe mit langem Vokal bei Wortgrenze innerhalb der Formeln); zu den drei von Parry zugegebenen Ausnahmen (L’épith. trad. 52.1, 237f.), worunter ποδάϱϰης δῖος Ἀχιλλεύς ist, fügt Hai. Fl. 115.2 vier weitere hinzu, darunter πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς, und bemerkt, daß das Gesetz offenbar nicht so streng war, falls man nicht in den Formeln für die zwei Haupthelden δῖος z. B. durch ἐσϑλός ersetzt hat. An die Ökonomie („thrift“) hingegen glaubt Hai. noch (Fl. 7f., 23, 123.1; 116 mit Vorbehalt): aber was er 94.3 über ἀειϰέα μήδετο ἔϱγα (das eine Dublette in ἐμήσατο ἔϱγον ἀειϰές hat) sagt („the association of μήδεσϑαι, with ἔϱγον (–α) ist very fluid“), ist eigentlich keine Rechtfertigung, sondern einfach die Anerkennung der Dublette. Wenn man sagt, „economy is a characteristic of settled formulaic phraseology“, dann erkennt man an, daß es auch eine ,non settled formulaic phraseology’ gibt.
|| 16 Notopoulos, Lord, J. A. Russo; s. schon Hai., Cl. Qu. 14, 1964, 155–164. 17 Für seine Definition s. oben; für nützliche Unterscheidungen Homer, Gr. & R., New Surveys in the Classics, No. 3, Oxford 1969, 19f.
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Kap. IV (46–57) führt die Beweglichkeit („mobility“) der zwei ausgewählten Formeltypen im Vers an. Die Beweglichkeit ist, wie man aus den Tafeln am Ende des Buches (129ff.) ersieht, erstaunlich; vorher hatte man kaum beobachten können, daß Formeln wie μέγα ἔϱγον und ϰαϰὰ πολλά (Taf. XV) an allen vier möglichen Versstellen verkommen. Kap. V (58–73) behandelt die Veränderung („modification“) der Formeln h g g h ⁐̶ und g g h ⁐̶ nach anderen metrischen Schemata durch Wechsel in Kasus—Numerus—Genus, Suffix, Prosodie und Wortstellung (z.B. ἄνδϱας ἀϱίστους — ἄνδϱας ἀϱιστῆας). Erweiterung („expansion“) bzw. Kontraktion („contraction“) sind im Kap. VI (74–89) behandelt. Sie kommen durch Epitheta (Systeme wie αἴϑοπα οἶνον ἐϱυϑϱόν, μελιηδέα οἶνον ἐϱυϑϱόν, gegenüber αἴϑοπα οἶνον, μελιηδέα οἶνον, οἶνον ἐϱυϑϱόν), durch „adverbial qualifications“, Artikel, Synonyme zustande. Über Synonyme 82f., vgl. 123f.: dieser Abschnitt ist wichtig, denn nach Hai. sind die Synonyme bisher vernachlässigt worden (ϑάνατον ϰαὶ ϰῆϱα μέλαιναν / φόνον ϰαὶ ϰ. μ. usw.). Die Trennung („separation“) wird im Kap. VII (90–109) behandelt, und gerade weil sie nur gelegentlich vorkommt, ohne irgendeine Neigung, regelmäßig zu werden (104), ist das, was wir hier lernen, sehr wichtig: vor unseren Augen wirkt eine raffinierte Verflechtungstechnik. Vom feinfühligen Funktionieren vermissen wir allerdings manchmal etwas in den Darlegungen Hai.s: z. B. ist ἱστόν 〈ἐποιχομένης〉 μέγαν 〈ἄμβϱοτον〉 (95) wohl Trennung von μέγαν ἱστόν, aber auch Kontamination mit ἱστὸν ἐποιχομένη. Außerdem sind Erscheinungen wie νῆας 〈ἅλαδ’ ἑλϰέμεν〉 ἀμφιελίσσας und νῆας 〈ἐυσσέλμους ἅλαδ’ ἑλϰέμεν〉 ἀμφιελίσσας zwar bei Hai. in ihrem Funktionieren klar, aber es fehlen sprachliche Erklärungen, die uns mehr sagen könnten (s. was wir darüber bei Hoe.1 125, vgl. 60f., finden): man möchte die Tatsachen doch in einer, wenn auch nur vorgeschlagenen, historischen Tiefe sehen. Hai. folgt, wie gesagt, dem synchronischen Weg (s., z. B., 63.5): sein Verfahren ergibt sich klar aus der Tatsache, daß er keine zeitliche Reihenfolge zwischen „primary shape“ und „secondary expression“ festsetzen mag (61; vgl. 69ff., 74f., 84ff., 118f.). In einigen Fällen kann man jedoch sicher sein, wie für παιδὸς (πατϱὸς) ἑοῖο > οὗ παιδός (πατϱός) (62). Hai.s Absicht ist jedoch die reine Beschreibung, und ihr ist er treu geblieben. Vielleicht wäre es nützlich gewesen, wenn er uns die reichhaltigen von ihm verzettelten Materialien ganz vorgelegt hätte: nicht nur wären viele seiner Beweisführungen dadurch klarer geworden, wir hätten dann selbst auch weitere nach der Art Hoe.s anlegen können. Nun müssen wir uns jedoch mit den Tafeln am Ende des Buches begnügen (129–143), und diese beziehen sich nur auf die beweglichen Formeln, mit Angabe der metrischen Stellung und der Erscheinungsfrequenz; M(odification), E(xpansion), S(eparation) sind allerdings, wenn vorhanden, am Rand angegeben, aber ohne Hinweis auf den Text der Behandlung, was das Nachschlagen erschwert.
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Der Schluß (Kap. VIII, 110–128) faßt die Ergebnisse zusammen und betont nochmals die nichtmechanische Natur der Diktion. Die Vorgänge, die Hai. geklärt hat, sehen so verwickelt aus, daß die Annahme der Mündlichkeit, geschweige denn der Improvisation, immer unwahrscheinlicher wird (s. oben, S. 167). Wichtig sind hier die statistischen Ergebnisse, die uns Hai. 118f., 121 vorlegt: darüber können wir hier nicht Rechenschaft geben, da sie durch vorsichtige Einschränkungen kompliziert worden sind. Der Hinweis mag genügen, daß die Zahl der ,Divergenzen‘ beträchtlich ist — und das bei einer Diktion, die Parry als starr bewiesen zu haben meinte. Wir lassen hier einige Einzelbeobachtungen folgen. S. 41: für ἔνϑεν δὲ πϱοτέϱω πλέομεν ἀϰαχήμενοι ἦτοϱ (Odyssee) sollte man Begriff und Bezeichnung ,Leitmotiv‘ oder ,thematische Wiederholung‘ aufnehmen. Wir sind hier an der Grenze zwischen Formeln und „typischen Scenen“ (Arend): eine nicht gerade ,typische‘, sondern einfach manchmal wiederkehrende Situation, die in einem in sich geschlossenen wiederkehrenden Vers enthalten ist18. Es befremdet z. B. auch, den Vers Ω 766 ἐξ οὗ ϰεῖϑεν ἔβην ϰαὶ ἐμῆς ἀπελήλυϑα πάτϱης (Helenas Klage über Hektors Leiche) als Formel betrachtet zu sehen (111), offenbar weil er noch τ 223, ω 310 wiederkehrt (Odysseus in der dritten Person über sich selbst). Auch hier liegen klare thematische Wiederholungen vor; und noch ein Beweis gegen die Mündlichkeit unseres Textes (s. Hoe.1 18 ff.: dasselbe über Redewiederholungen). Manchmal hätte man sprachliche Beobachtungen zu Hilfe holen können. Z. B. sagt Hai. S. 102, daß Wörter wie πολλά „a special affinity for connectives“ haben (πολλὰ δέ 38mal im ersten Fuß): das kommt aber daher, daß die „πολλά–Anfänge“ umgangssprachliche Erscheinungen sind, die auch im Attischen reichlich vertreten sind19. Dabei hat es kaum Sinn (ibid.), ὁ γάϱ, ὁ δέ, σὺ δέ „quasi–formulaic phrases“ zu nennen, auch wenn man hinzufügt, daß sie „by no means confined to hexameter writing“ sind20. S. 59.2 (vgl. BICS 14, 1967, 7—21) findet Hai., daß die Formeln h g g h g mit der letzten Silbe in Synaloephe die Stellung h3 g g h4 (g) vermeiden, da der ,elidierte‘ Vokal (der in Wirklichkeit nicht schwindet) den Eindruck hervorrufen würde, die Hermannsche Brücke sei verletzt. Das alles wäre sehr interessant und wäre auch eine weitere Bestätigung von dem, was Rez., Riv. di filol. 97, 1969, 433–447 geschrieben hat. Aber erstens sind die Belege bei weitem nicht einhellig (59.2), zweitens ist das ausgewählte Beispiel sehr unglücklich: denn der Grund, weshalb αἴσχεα πόλλ’ die Stellung h3 g g | h4 vermeidet, ist
|| 18 Siehe A. Lesky, RE, Suppl.–Bd. 11, 1968, 795, 65ff. über diesen Vers, „der so häufig die einzelnen Episoden [der Erzählung des Odysseus] verbindet“; s. auch Rez., Riv. di filol. 92, 1964, 82f. 19 Ed. Fraenkel, Kl. Beitr., I, 505ff. 20 Darüber zutreffend Lesky, a.a. O. 699, 59ff.
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ein anderer, und zwar der, daß das Verbot der Zweiteilung des Verses beachtet wird, ein Gesetz, das so gut wie nie verletzt wird!21
*** Aus diesen drei ausgezeichneten Arbeiten, die wohl in der Formelforschung das beste seit Parry geleistet haben, haben wir also nichts Neues über die ,homerische Frage‘ gelernt: die Schichtenanalyse wurde abgelehnt, und auch für die mündliche Hypothese haben wir uns mit der ars nesciendi begnügen müssen. Aber etwas sehr Wichtiges haben wir gelernt. Die epische Diktion steht jetzt als etwas Lebendiges und in stetem Werden Begriffenes vor uns; sie ist Kunstsprache, aber nicht starr; Formeltechnik, aber nicht mit Parry unbeweglich. Nun, die ganze griechische Literaturgeschichte nach Homer ist eine dialektische Verflechtung zwischen Gebundensein an eine Überlieferung und Neuerungswillen. Für eine gewollte Auseinandersetzung mit Homer muß man nicht auf die Alexandriner warten: das „Los–von–Homeros“, um einen schönen Ausdruck Gudmund Björcks zu gebrauchen22, fängt viel früher an, ist schon bei den Lyrikern, bei den Tragikern da. Die vorliegenden Arbeiten zeigen uns klarer als vorher, daß das alles, im Feld der Diktion oder — in weiterem Sinn — des Stiles, eine schon ,innerhomerische’ Entwicklung darstellt, die nachher schon in den Hymnen neue und kühnere Wege einschlägt.
|| 21 Einige nennen es „lex Varronis“, s. Varr. fg. 220, S. 259 Fun. Zweigeteilte Hexameter sind entweder korrupt oder spät und stümperhaft (I. Hilberg, Das Princip der Silbenwaegung, 1879, 3–12); Enn. ann. 43, 230, var. 14 V2 sind vereinzelte, pointierte Ausnahmen. 22 Das Alpha impurum, 1950, 217 u. passim.
I poemi omerici come testimonianza di poesia orale* A. Introduzione I poemi omerici hanno cambiato volto per la critica moderna almeno in tre riprese dalla fine del Settecento ad oggi. Anche se le tesi di Friedrich August Wolf erano state parzialmente anticipate da altri (l’abate d’Aubignac, Vico, Robert Wood), è con lui,1 nel 1795, che la critica omerica prende veramente, e su scala totale, vie nuove. Wolf, sulla base di testimonianze antiche, sostenne che ai tempi d’Omero la scrittura non esisteva e che perciò i poemi non potessero essere opera d’un singolo, ma fossero un coacervo di canti trasmessi oralmente attraverso i secoli, fino alla cosiddetta redazione pisistratea, della seconda metà del VI secolo a.C. Certo, le idee di Wolf – come si è già detto – erano state in parte anticipate: ma la sua grande autorità filologica, che per la conoscenza della fase antica della trasmissione del testo omerico aveva potuto fondarsi sugli scoli del codice Veneto Marciano A, poco tempo prima (1788) pubblicati da Villoison, da una parte aveva dato l’avvio al vero studio filologico di Omero, impostando quella che da allora va sotto il nome di «questione omerica»; e dall’altra aveva scandalizzato, per così dire, la cultura europea, sottraendole l’idolo di un Omero artista compiuto, uno dei più grandi, se non addirittura il più grande genio letterario d’ogni tempo (sez. Q). Si pensi, per far solo un esempio, alle reazioni di un Goethe, pur oscillanti fra un osanna e un rifiuto.2 La prima grande rivoluzione negli studi omerici era comunque un fatto compiuto, e cominciò subito a dare i suoi frutti con la corrente cosiddetta analitica, che, variamente accettando le conclusioni di Wolf (che voleva un Omero orale), tenne fede ad un Omero scritto e concepito per iscritto e sul quale l’esercizio più
|| [Saggio pubblicato in R. Bianchi Bandinelli (ed.), Storia e civiltà dei Greci, 1. 1, Milano, Bompiani, 1978, pp. 73–147] * La bibliografia generale si trova [in calce all’articolo]. Le opere ivi elencate saranno citate in abbreviazione. 1 F. A. WOLF, Prolegomena ad Homerum. Sive de operum Homericorum prisca et genuina forma variisque mutationibus et probabili ratione emendandi, 1, Halle 1884 (Ed. tertia quam curavit R. Peppmüller). La prima edizione è del 1795. 2 Su Omero nella cultura moderna G. FINSLER, Homer in der Neuzeit von Dante bis Goethe, Leipzig–Berlin 1912; e TH. BLEICHER, Homer in der deutschen Literatur (1450–1740), Stuttgart 1972. https://doi.org/10.1515/9783110648126-004
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urgente pareva dovesse esser quello di trovare e spiegare aporie narrative e storiche. Ma fino a dopo la metà del secolo scorso i poemi venivano letti, di necessità, in rigoroso isolamento da un coerente contesto storico e culturale. Wolf stesso, Hermann, Lachmann, Kirchhoff, per far solo alcuni nomi, si ponevano il problema della composizione e della trasmissione; ma in fatto di storia dovevano contentarsi per lo più di ipotesi; e, dovendo definire il dettato dei poemi, non trovavano di meglio che ricorrere al concetto di stile, con tutto quello che di individuale e di irripetibile tale concetto comporta. Circa cento anni fa, negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, le scoperte archeologiche di Schliemann costituiscono il secondo fatto nuovo di rilievo, che permise di dare una sia pure approssimativa e provvisoria risposta alla domanda a cui l’epoca dello storicismo non era stata ancora in grado di rispondere – com’era avvezza a fare – con dati alla mano: storia o fantasia? La risposta era stata tutta a vantaggio della storia, anche se i primi entusiasmi possono a noi apparire ingenui. Molto, infatti, di quelle scoperte e di quelle certezze è stato in seguito ridimensionato: è stato, anzi, ridimensionato tutto, se solo si considera che, delle scoperte di Schliemann, nessuna ha ottenuto a tutt’oggi, secondo alcuni, una conferma positiva. Rigorosamente parlando, il sito di Troia, lo stesso strato identificato con la città di Priamo (il VII a), gli scavi di Itaca, tutto, insomma, risulta semplicemente in non contraddizione con i dati dei poemi, e niente più. I quali hanno ottenuto luce piuttosto dalle scoperte archeologiche più recenti del continente greco, dell’Asia Minore, di Cipro, della Siria, ecc.3 La domanda, e la rispettiva risposta, s’incentravano dunque sul referente storico, ma senza che ci si ponesse adeguatamente il problema dello scarso rispetto del dato storico, proprio di ogni tradizione epica.4 Circa cinquant’anni dopo, e cioè circa cinquant’anni fa (1928), Milman Parry, un americano formatosi alla scuola della linguistica francese (Meillet), raccoglieva i frutti di alcuni decenni di attività di neogrammatici e filologi. Partendo dal concetto di Kunstsprache o «lingua artificiale» ovvero dizione epica (J. H. Ellendt, H. Düntzer, K. Witte, K. Meister), sottoponeva il testo dei poemi ad || 3 Μ. I. FINLEY, Schliemann’s Troy—One Hundred Years After. The Fourth Annual Mortimer Wheeler Archaeological Lecture, «Proc. British Acad.» 60 (1974), pp. 3–22, un panorama eccezionalmente vivace delle reazioni alle scoperte di Schliemann e un consuntivo assai prudente di quanto oggi di esse resta valido. Prudente è anche J. CHADWICK, Homère: un menteur?, «Diogène» 77 (1972), pp. 3–18, che riafferma la vecchia (anzi antica!) distinzione fra verità storica e verità poetica. Un’utile rassegna è Μ. I. FINLEY, J. L. CASKEY, G. S. KIRK, D. L. PAGE, The Trojan War, «Journ. Hell. St.» 84 (1964), pp. 1–20. 4 BOWRA, Heroic Poetry (cit. in bibl. XI), cap. XIV, pp. 508 ss.; e cfr. sez. N.
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un più rigoroso esame interno e ne definiva la formularità, traendone la conclusione (all’inizio implicita)5 che si trattasse di poemi orali. La problematica si era incentrata, così, esclusivamente sul piano del testo. Era la fase, necessaria, della descrizione sincronica: Parry, reagendo alla pur vigorosa e benemerita analisi storica ottocentesca, e restando sostanzialmente agnostico di fronte al cosiddetto problema omerico, prendeva i poemi in blocco e dava i mezzi per definirli in blocco poesia orale, poesia, cioè, composta senza l’ausilio della scrittura, in virtù appunto del suo forte impianto formulare, e prodotta da una tenace tradizione. Wolf, Schliemann e Milman Parry rappresentano, così, i tre momenti di maggior rilievo nella critica omerica moderna. Recentemente il quadro storico si è andato ulteriormente precisando: poco più di vent’anni fa (1952–53) la decifrazione del miceneo ad opera di Michael Ventris ci ha permesso di vedere i poemi in un contesto storico più definito rispetto ai tempi di Schliemann, anche se incerto resta ancora per gran parte in qual misura essi siano debitori alla civiltà micenea.6 Quale che sia il grado di accettazione delle teorie di Parry in merito a fatti singoli, è fuor di dubbio che la rivoluzione promossa da lui è oggi, fra le tre, quella che promette i maggiori sviluppi. Col riconoscere ai poemi omerici uno status totalmente diverso da quello di tutte le altre opere con cui i filologi classici avevano a che fare, l’impostazione orale li ha sottratti ai metodi tradizionali della filologia e della critica letteraria per consegnarli ad una più ampia visione antropologica, in Parry quasi totalmente implicita: dal punto di vista della morfologia culturale tutto il mondo greco appare oggi molto più vario e articolato di quanto apparisse al romanticismo e allo storicismo, e in campo omerico (e non solo omerico) questo è avvenuto attraverso il lento assorbimento dell’opera di Milman Parry. In effetti la filologia classica, nel significato che tale disciplina ha assunto dal momento del suo battesimo alla fine del ’700 ad opera proprio di Wolf a Gottinga e che ha poi conservato nell’epoca del romanticismo e del positivismo, è quasi letteralmente nata sul testo di Omero con Wolf stesso: ma, per un’ironia della sorte, Omero doveva risultare quanto mai disadatto a quei metodi. Ne è prova il fatto che alcuni fra i più importanti spunti di rinnovamento per i nostri studi sono venuti recentemente proprio dalla critica omerica, e precisamente dall’inizio del secondo dopoguerra in poi, a causa della ricezione sorprendentemente tardiva delle scoperte di Parry. Se Omero, infatti, poteva essere nel primo romanticismo buona palestra per i cercatori di fonti popolari e per i || 5 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), Introd., LX S. 6 VENTRIS, CHADWICK, Documents ... (cit. in bibl. IX).
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celebratori di origini selvagge, poche opere più dell’Iliade e dell’Odissea sono state restie a due operazioni che dal principio dell’Ottocento ai nostri giorni sono state largamente praticate: l’idealizzazione di tipo umanistico e la riduzione positivistica a schemi logici o genericamente razionali. Quanto alla prima, Omero non offre tentazioni a chi voglia un modello in cui identificarsi: i suoi dèi sono degli uomini pieni di difetti (come la critica razionalista di varie epoche ha sempre messo in luce), i suoi eroi sono al di sopra del livello umano (come certo romanticismo ha amato accentuare), la civiltà che viene rappresentata nei poemi ha tutte le caratteristiche di una acerba primitività (come lo storicismo romantico e postromantico amava dipingerla). Disagevole quindi l’annessione di Omero alla provincia umanistica. D’altra parte, quanto alla seconda operazione, le categorie razionali che sono state e sono ancora alla base di tanta critica testuale, di storia dei testi e di esegesi positivistiche hanno rivelato i loro limiti proprio a contatto con la grecità arcaica in generale e con Omero in particolare. Parry, nella sua visione (inizialmente, come si è detto, implicita) di una cultura omerica precisamente individuabile rispetto ad altri momenti, ha avuto dei predecessori. Basterebbe ricordare Robert Wood,7 uomo politico e viaggiatore della seconda metà del Settecento, che, visitando l’Egeo, cercò di farsi un’idea della geografia omerica (studiando per esempio i venti nel golfo di Smyrne) e soprattutto osservando con spirito di antropologo la teatralità “orale” dei popoli mediterranei, dal modo di parlare delle genti da lui visitate (intonazione della voce, espressione, gesticolazione) immaginò che i poemi omerici dovessero essere recitati ad alta voce e in quel modo; la scrittura, anche se conosciuta, doveva essere poco usata. Wood, un dilettante d’ingegno, diventa così il progenitore – se non proprio l’iniziatore – sia della critica storico–archeologica, che sarebbe poi diventata la corrente analitica, sia della critica antropologico–orale. Non serve accentuare, e neppur menzionare, le ingenuità di Wood per lasciare a Parry il merito incontestabile di aver fondato, o meglio inaugurato tale visione della cultura omerica basandola su un esame diretto del dettato dei poemi. Omero non si può più leggere come si faceva prima di Parry, e in verità sono pochi ormai ad attestarsi sulle vecchie posizioni. Una lettura più docile alla realtà del documento, com’è quella che si è andata affermando, permette di recuperare ai poemi una serie di valenze che erano state finora ignorate; e d’altra parte permette d’impostare più correttamente anche lo studio della loro
|| 7 R. WOOD, An Essay on the Original Genius of Homer, London 1769, 17752. Su Wood, T. J. B. SPENCER, Robert Wood and the Problem of Troy in the Eighteenth Century, «Journ. of the Warburg and Courtauld Institutes» 20 (1957), pp. 75–105; J. L. MYRES, D. GRAY, Homer and His Critics, London 1958, pp. 59 ss.
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fortuna. La ricezione dei poemi comincia subito con implicazioni di grande rilievo, fin dal secolo VII con Esiodo, e continua senza interruzioni durante tutto l’arco di sviluppo della civiltà greca. Omero è una presenza costante in tutta la letteratura greca: di tale presenza si colgono le valenze positive non meno delle negative, a seconda che la ricezione di una lingua poetica con in più fenomeni di zelos o aemulatio portino ad un accostamento (i cosiddetti elementi omerici nella lingua dei poeti posteriori) o ad un cosciente e rilevato allontanamento (il Los–von–Homeros di Gudmund Björck).8 Questo su un piano puramente letterario. Ma Omero non è, neppure per i Greci, soltanto un testo che va decodificato correttamente: è anche espressione di una cultura che, rispetto all’età arcaica di Esiodo e dei lirici, all’età classica della filosofia, della storia, del teatro, all’ellenismo con la sua cultura letteraria e antiquaria si pone di volta in volta più o meno chiaramente come una cultura “altra”, e come tale provoca reazioni vivaci (basta pensare ad alcuni filosofi arcaici e a Platone). Il nostro compito sarà qui solo quello di precisare quali sembrano essere i contorni di tale cultura e, limitatamente alla considerazione del testo, di intuire quale coscienza di “diverso” ne avessero nei secoli successivi i Greci stessi (sezz. O, P). Qual è il fattore che più marcatamente caratterizza la cultura omerica? Se consideriamo il mondo greco fino all’ellenismo compreso, possiamo individuare tre epoche, che corrispondono a tre tipi diversi di facies culturale: una prima, non alfabetizzata (Omero, fino all’introduzione dell’alfabeto fenicio); una seconda, alfabetizzata, senza che il mezzo scrittorio sia il protagonista unico (e neanche il principale) della comunicazione (approssimativamente dall’VIII al V– IV secolo); una terza infine, in cui la parola scritta assurge a sempre maggiore importanza (l’età ellenistica).9 Secondo questo quadro, le condizioni della circolazione del sapere subiscono un mutamento rilevante due volte fra Omero e l’ellenismo: la prima volta al momento dell’introduzione della tecnologia scrittoria alfabetica, che sembra attestata non prima della seconda metà del secolo VIII (sez. D); la seconda volta col lento e graduale diffondersi del libro, che (senza tener qui conto di differenze geografiche, che esistevano e meriterebbero considerazione) comincia ad introdursi alla fine del v secolo ma che si afferma in età ellenistica con l’inizio di un vero e proprio commercio librario: questo periodo è caratterizzato da una sempre più intensa circolazione della parola scritta. Ora, è fuor di dubbio (ed è stato più volte messo in rilievo) che il secondo
|| 8 G. BJÖRCK, Das Alpha impurum und die tragische Kunstsprache, Uppsala 1950, pp. 217 e pass. 9 Questo quadro è debitore di quello, parzialmente diverso, offerto da R. PFEIFFER, History of Classical Scholarship, Oxford 1968, pp. 24 ss. (= trad. it., Storia della filologia classica, Napoli 1973, pp. 73 ss.)·
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mutamento è legato ad uno sviluppo storico che trasforma totalmente il mondo greco: dalla comunità di dimensioni ridotte (la polis), che è raggiungibile dalla voce del rapsodo o dell’araldo, e che tutt’al più registra e deposita i suoi testi in copie pressoché uniche, si passa alla comunità ecumenica del mondo ellenistico, dove tali mezzi di comunicazione non sono più utilizzabili e c’è bisogno di canali che penetrino capillarmente (il libro). Ma il primo passaggio, quello dalla società non alfabetizzata (la prima epoca, quella dell’epos) alla società alfabetizzata (la seconda epoca), pur non immune da un profondo rivolgimento storico–culturale, lascia impresso un suo segno ancor più riconoscibile nel configurarsi dei testi letterari. In altre parole – se ci si può passare il paradosso – c’è più differenza, nel configurarsi dei testi, fra Omero e i lirici che fra i lirici e gli alessandrini (sez. O). Dove per Omero si vuole qui intendere non tanto l’Omero a noi conservato quanto – come diremo meglio – quel corpus di poesia epica integralmente orale del quale il nostro Omero non è che il riflesso parziale. Accettiamo, in mancanza di prova contraria, l’ipotesi che l’alfabeto fenicio sia stato introdotto un poco prima della data dei nostri primi documenti, che sono della seconda metà del secolo VIII (sez. D). È l’ipotesi più economica. Il sillabario miceneo, infatti, sembra essere caduto in disuso, lasciando, per la scrittura, uno iato di qualche secolo, diciamo quattro e mezzo. Chiediamoci ora che cosa possiamo dire per la data di composizione dei poemi omerici. Sono stati essi composti prima o dopo l’introduzione della scrittura? S’impone qui la chiarificazione di alcuni concetti fondamentali. Parlare di oralità come elemento distintivo di una cultura significa normalmente implicare la mancanza della scrittura, e cioè parlare della composizione orale dei suoi testi: è la mancanza del mezzo tecnico della scrittura a configurare i suoi testi in un modo determinato. A scanso di equivoci, possibili in materia, sarà precisamente questo il senso che daremo a oralità. Non la si deve infatti confondere con un altro fenomeno, e cioè la trasmissione orale (un testo, in una sua forma più o meno canonica, si trasmette e cioè si conserva per via orale) e soprattutto con la pubblicazione orale (un testo, indipendentemente dal tipo di fissazione, mnemonica o scritta, viene comunicato per via orale alla società che ne fruisce). Per queste due fasi può valere il termine di auralità,10 legame, cioè, col fatto o canale sonoro, qualunque sia la genesi della fonte. Anche fasi successive della civiltà greca si possono designare col termine di aurale (il teatro, per esempio, fino al V–IV secolo). Ora, in un’epoca che manchi totalmente del mezzo scrittorio le tre fasi si realizzano necessariamente per via orale (e, nel caso dell’improvvisazione, || 10 W. J. ONG, La presenza della parola, Bologna 1970, pass. (ediz. americ., Yale Univ. Press, 1967).
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vista artificialmente allo stato puro, s’identificano: su questa, cfr. sezz. L, O); ma, una volta introdotto il mezzo scrittorio, le fasi che più spontaneamente vengono influenzate dal nuovo mezzo tecnico sembra debbano essere le prime due, la composizione e la trasmissione; ferma restando la possibilità che la terza, la pubblicazione, resti orale (come in Grecia restò fino al IV secolo). Servendoci del modello di comunicazione di Jakobson (DESTINATORE → MESSAGGIO → DESTINATARIO) e semplificando un processo in sé complesso (non considerando qui cioè gli altri fattori e le altre funzioni), si può dire che la composizione ha a che fare in prevalenza col destinatore o autore (un messaggio viene configurato in modo diverso se è concepito oralmente o attraverso la scrittura), mentre la pubblicazione ha a che fare in prevalenza col destinatario (diversa è la reazione dell’ascoltatore da quella del lettore). Si noti però che parliamo qui solo di prevalenza, perché una netta distinzione è illecita. Distinguere troppo nettamente, identificando composizione e destinatore (o autore) da una parte e pubblicazione e destinatario (pubblico) dall’altra, è impossibile soprattutto in una cultura orale: autore e pubblico si influenzano e si condizionano a vicenda in modo molto più immediato che in una civiltà scrittoria, come vedremo meglio parlando dell’empatia, ovvero comunione stretta fra destinatore e destinatario, che si realizza nella performance epica (sez. N). Entra qui un altro dei fattori dello schema di Jakobson, e cioè il CONTATTO o CANALE della comunicazione: esso si può definire il modo con cui destinatore e destinatario entrano in rapporto, e questo modo ha una sua particolare fisionomia quando una cultura si serva della parola invece che della scrittura. La trasmissione orale, per di più, è una fase in cui i due fenomeni (creazione di un destinatore e ricezione di un destinatario) si possono ancor più intimamente intersecare a vicenda. È stato accertato che la trasmissione orale di un testo non è mai fedele in tutto al modello di partenza, giacché chi lo trasmette in realtà anche lo compone in maggiore o minor misura, a seconda delle sollecitazioni che ha dall’ambiente che lo circonda (con buona pace di chi è incline ad ammettere «solo piccole modificazioni verbali»11). E anche l’esperienza della tradizione manoscritta dei nostri testi, dove le sollecitazioni sono per lo più tutte interiori, ci dice attraverso quante e quali vicende passi anche e perfino la trasmissione scritta. È quindi corretto, in vista della particolare natura del contatto o canale (orale), postulare una intensa interazione fra destinatore (nell’epos orale da non confondersi necessariamente con l’autore) e destinatario: tanto che è stata giustamente messa in dubbio la possibilità di sceverare || 11 G. S. KIRK, Homer and Modern Oral Poetry: Some Confusions, in KIRK, The Language ... (cit. in bibl. VII), pp. 79–89 (1960).
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nettamente oralità pura da auralità pura.12 Si può cioè accertare il grado di auralità di un prodotto letterario, tenuto anche conto della civiltà in cui nasce, restando incerta la misura in cui esso sia anche orale. Ma le due categorie restano operativamente valide: non c’è dubbio infatti che, nei riguardi della scrittura, nella letteratura posteriore ad Omero (sez. O) domini l’auralità. È probabile, in conclusione, che l’introduzione della scrittura influenzi gradualmente le varie fasi: più prontamente la composizione e la trasmissione, più lentamente la pubblicazione, a causa dei tempi lunghi della alfabetizzazione del pubblico, che sono riscontrabili in ogni civiltà post–orale. In altre parole: il passaggio da oralità integrale ad oralità prevalente e infine ad auralità prevalente può essere lento e graduale, ed in Grecia lo è stato in modo particolare, lungo l’arco di alcuni secoli. Nel caso dei poemi omerici, par certo che la dialettica oralità/scrittura vada ravvisata all’interno stesso dei poemi. I criteri cronologici (storia, archeologia, lingua), che ci avrebbero permesso almeno di porli in rapporto relativo con la presuntiva data d’introduzione della scrittura in Grecia, si sono rivelati troppe volte esposti al rischio della reversibilità. Qui si proporrà un criterio in prevalenza interno di esame dei testi, basato sulle ricognizioni di Parry e sui numerosi studi che sono stati più o meno direttamente ispirati da lui. Eccone in anticipo e in sintesi i risultati. I poemi omerici, così come ci sono conservati, rispecchiano senza dubbio una fase, forse lunga, di elaborazione (composizione) orale. Lo sfruttamento della tecnologia scrittoria, intervenuto in un secondo tempo, non può tuttavia esser stato subito integrale: per un periodo, di cui non è possibile precisare la durata, sia la composizione sia la trasmissione (a sua volta importante per i suoi riflessi sulla prima, com’è nel caso di ogni patrimonio epico, che notoriamente «cresce su se stesso» col cantore che innova e aggiunge) saranno state miste. I procedimenti tipici di una cultura integralmente orale si saranno contaminati con le possibilità offerte dalla nuova tecnologia. La scrittura sarà servita nel contatto da cantore a cantore, e cioè per la trasmissione dei testi aedici e della tecnica aedica da maestro ad apprendista? Tutto questo dovrebbe risultare dall’analisi dei poemi, della quale qui si darà ovviamente una campionatura minima (e forse non sempre la più opportuna, come spesso capita in Homericis!). La crescita del materiale da una parte non cessa improvvisamente e dall’altra non può rinunciare alla nuova tecnologia: la «composizione monumentale» dei due poemi è senza dubbio largamente debitrice alla scrittura. La || 12 J. RUSSO, How, and What, does Homer communicate?, «Class. Journ.» 71 (1976), pp. 289–299, precisamente 291 s.
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pubblicazione, invece, ha continuato ad essere orale – prima esclusivamente e poi comunque in misura prevalente – fino al IV secolo. Solo questo può voler dire chi afferma che l’oralità è arrivata fino a Platone (non lo dice, a rigore, neanche Havelock): e cioè che orale era solo la pubblicazione e che aurale era il tipo di civiltà. E in questo modo in effetti sono state diffuse praticamente tutte le opere della grecità arcaica e classica: pensiamo ai lirici, al teatro, a Erodoto. Mentre la scrittura serviva alla composizione e alla trasmissione, si continuava a prescinderne per la pubblicazione (la lettura ad alta voce arriva fino alla tarda antichità, fino a sant’Agostino). Ma anche qui ci sarà utile qualche specimen di esame dei testi (mancanza, per esempio, di una formularità lirica: sez. O); e per di più la contiguità di un Erodoto (concepito per pubblicazione orale) e di un Tucidide (concepito per pubblicazione scritta e per circolazione certo più vasta dal punto di vista geografico: ambienti elevati di diverse città) fa vedere che, come graduale è stato il passaggio dalla prima epoca alla seconda, così graduale è stato il passaggio dalla seconda alla terza. È chiaro ora come la designazione di orale possa valere stricto sensu solo per la prima epoca (tecnologia scrittoria mancante al destinatore); per la seconda varrà meglio quella, già sperimentata, di aurale (tecnologia scrittoria mancante o non presupposta presso il destinatario); mentre la terza sarà l’epoca del libro, che si diffonderà progressivamente durante tutta l’epoca ellenistica.13 I poemi omerici – come risulterà dall’esame del testo – non sono stati composti oralmente nella loro interezza. Quanto di essi sia autenticamente orale è per noi molto difficile dire. In altre parole: di fronte all’ipotesi di chi li vuole concepiti interamente per iscritto e all’ipotesi di chi li vuole interamente orali, si cercherà di presentare qui un’ipotesi più sfumata, e cioè che essi siano frutto di una o più redazioni scritte, nelle quali sono passati di peso non solo epiteti e formule, ma addirittura intere sezioni nella forma in cui erano state fissate nell’ultimo periodo di trasmissione orale. Ma, mentre è relativamente facile affermare di un epiteto che è tradizionale o di una intera formula che all’origine è stata composta e poi trasmessa oralmente, questo è più difficile per passi singoli e concreti, che alcune volte tradiscono palese riuso di materiale arcaico operato in epoca scrittoria e che, in altre parole, lasciano spazio a più d’una soluzione. Anche al nostro problema si possono applicare le parole che Havelock14 usa a proposito di sceverare l’amalgama storico, archeologico, linguistico:
|| 13 Per la diffusione del libro dal v secolo a.C. fino alla tarda antichità, v. Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, a cura di G. CAVALLO, Bari 1975, con contributi di E. G. TURNER, T. KLEBERG e di CAVALLO stesso. 14 E. A. HAVELOCK, Prologue to Greek Literacy, Univ. of Cincinnati 1971, p. 5.
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«la mistione omerica è per così dire chimica, non meccanica». Una composizione chimica irreversibile: ma per le singole unità (unità narrative, elementi storici e antiquari, fatti formulari o linguistici), mentre la vecchia analisi presumeva di sceverare i componenti del composto, l’ipotesi orale si preoccuperà preliminarmente di stabilire almeno che di composto di tal tipo si tratta. La critica omerica ha peccato spesso di orgoglio: la sua frequente dogmaticità è stata messa progressivamente in crisi man mano che si faceva luce sulla vera natura dei poemi, così diversi dagli altri testi su cui si esercitava e si esercita la filologia. Ora, la prima ipotesi che si è presentata come ovvia e naturale alla filologia omerica fin dai suoi inizi nell’antichità, e cioè che i poemi fossero stati concepiti direttamente e interamente per iscritto, è smentita dalla facies culturale in cui oggi riconosciamo che essi sono nati ed è indirettamente screditata dalle contraddizioni in cui si è dibattuta fin la recente critica di tale tendenza (sia analitica sia unitaria). Restano una seconda e una terza ipotesi. La seconda è che i poemi siano interamente orali, nel qual caso sarebbero un vero e proprio documento di oralità, e cioè una specie di fotografia o meglio un’istantanea di un momento autenticamente e integralmente orale, di necessità l’ultimo, in stretta contiguità con l’introduzione della scrittura, mezzo necessario per operare l’istantanea. L’ipotesi si scredita nel momento stesso in cui la si definisce. Si deve ricorrere, per salvarla, a espedienti del tutto disperati: o un Omero che addirittura inventa la scrittura alfabetica per “salvare” i suoi poemi (Wade– Gery), o un Omero che detta i suoi poemi ad uno scriba.15 Resta una terza ipotesi: che, a cavallo fra oralità e scrittura, i poemi siano un composto, in verità per gran parte irreversibile ma almeno riconoscibile come tale: in questo caso di oralità essi sarebbero solo testimonianza. È quest’ultima l’ipotesi che qui verrà presentata. La vecchia definizione di «libro tradizionale» data da Gilbert Murray resta valida e andrebbe oggi solo aggiornata con quella di «testo di cultura» di Lotman e Uspenskij (sez. C): e uno dei tanti elementi culturali via via assunti risulta essere, così, anche la tecnica di composizione scrittoria. È un’ipotesi, che viene qui presentata non più che come tale e che, come vedremo, non è del tutto inedita, anche se sostenuta da pochi (soprattutto Dihle). Per la stessa oralità originaria raccoglieremo degli indizi, quale più quale meno forte (specialmente sez. N); per la mistione di oralità e scrittura presente nei poemi come li abbiamo di fronte a noi suggeriremo delle proposte, il cui grado di accettabilità attende ancora di essere accertato attraverso studi ulteriori (sez. M). Ma è il caso di ripetere ancora una volta che di soluzioni definitive e di dimostrazioni ineccepibili || 15 A. B. LORD, Homer’s Originality: Oral Dictated Texts, in KIRK, The Language ... (cit. in bibl. VII), pp. 68 ss.; cfr. LORD, The Singer ... (cit. in bibl. X).
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gli studi omerici sono ormai saturi: se non si vuole farli morire per soffocamento, c’è bisogno di riprendere i vecchi problemi e di riaprirli, ma con prospettive nuove.
B. Contenuto dei poemi Sarà opportuno partire da una breve rassegna di contenuti. L’I l i a d e , in 24 libri, non racconta tutta la guerra di Troia, come farebbe pensare il titolo. Della lunga vicenda decennale dei due eserciti racconta solo qualche decina di giorni, sembra poco più di una cinquantina,16 che si situano poco prima della fine della guerra. L’antefatto è costituito dai quasi dieci anni di guerra. La guerra sarebbe stata scatenata per l’offesa fatta da Paride, principe troiano, a Menelao, re di Sparta, col rapirgli la moglie Elena. Per vendicare tale affronto Agamennone, fratello di Menelao, raccoglie un esercito greco e lo porta all’attacco di Troia (Ilio). Il personaggio più evidenziato, anche durante la sua assenza, è Achille e un episodio centrale è quello dell’ira di Achille per un’offesa ricevuta da Agamennone, il che ha fatto pensare a molti che almeno il nucleo del poema, visto come opera unitaria, fosse precisamente l’ira dell’eroe. Il poema si apre, appunto, con la richiesta di Agamennone ad Achille di consegnargli la schiava di guerra Briseide come compenso per la riconsegna di Criseide da parte di Agamennone stesso al padre sacerdote Crise. A tale riconsegna Agamennone è costretto dalla peste scatenata da Apollo, che protegge il suo sacerdote Crise. Criseide viene così restituita solennemente al padre, ma Achille è costretto (o meglio convinto da Athena) a consegnare Briseide ad Agamennone; così, si ritira sdegnosamente dalla lotta, lui, l’eroe più forte degli Achei, e si chiude nelle sue tende ai margini del campo. La guerra continua senza Achille. Si alternano battaglie di massa, in cui entrano singolarmente eroi di varia rilevanza: ma tutti hanno un nome, come un nome hanno gli artigiani che hanno costruito le armi (e alle volte questo artefice può essere un dio, come Efesto per le armi di Achille) o perfino lo sgabello di Penelope (nell’Odissea). L’anonimato non è epico. Qualche volta le tenzoni sono singolari: Paride–Menelao (III), Ettore– Aiace (VII), fino al duello fatale fra Achille ed Ettore (XXII). Gli dèi, con Zeus alla testa, si riuniscono più d’una volta a concilio: sono divisi, alcuni sono per i Troiani, alcuni per gli Achei. Le azioni di guerra iniziano propriamente con la
|| 16 J. L. MYRES, «Journ. Hell. St.» 52 (1932), pp. 285 s.; 53 (1933), pp. 115–117; sempre, naturalmente, che si voglia dare valore facciale ai ricorrenti «nove», «dodici» giorni, ecc. (cfr. per es. Il. I, 53, 425; XXIV, 31, 84; ecc.).
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violazione della tregua da parte di Pandaro (IV). Ad un certo punto (VIII) Zeus decide di appoggiare fattivamente i Troiani (al fondo c’è una vecchia promessa a Tetide di ridare onore al figlio Achille, facendo sentire agli Achei il peso della sua assenza). Con alterne vicende, i Troiani arrivano al muro del campo acheo, lo passano (XII) e cominciano addirittura a dar fuoco alle navi (XVI, inizio). Poco prima di questo fatto, drammatico per gli Achei, Patroclo chiede ad Achille di entrare in battaglia con le armi di lui. Achille glielo concede, proibendogli però d’inseguire i Troiani fino alla rocca d’Ilio. Patroclo respinge i Troiani ma li insegue: ed è ucciso da Ettore (XVI). Achille, appresa la morte dell’amico (XVII), torna in battaglia per vendicarlo; ottiene, attraverso la madre Tetide, nuove armi fabbricate da Efesto (XVIII, XIX); si riconcilia con Agamennone (XIX) e le sue rinnovate imprese di guerra culminano coll’uccisione di Ettore in duello singolare (XXII). Seguono i funerali di Patroclo (XXIII) e infine, nell’ultimo libro (XXIV), il vecchio re Priamo si reca di notte (guidato da Hermès) alla tenda del nemico che gli ha ucciso tanti figli per riottenere il corpo di Ettore: Achille gli concede il corpo di Ettore, con i cui solenni funerali a Troia il poema si conclude. Questa breve sintesi non fa giustizia alla ricchezza di contenuti del poema. Ne restano fuori i concili degli dèi e i loro numerosi interventi nelle battaglie e presso i mortali in generale, i concili dei capi greci e troiani, le cosiddette aristèiai o imprese valorose di singoli eroi, come Diomede (V), Agamennone (XI), Patroclo (XVI), Achille (XIX–XXII), ecc. Anche il ferimento e la morte dei guerrieri è un fatto su cui il canto si ferma in dettaglio.17 Numerose sono quelle che si possono chiamare sezioni in sé conchiuse e più o meno autosufficienti (su alcune delle quali si è esercitata la critica analitica degli antichi – per esempio, II e X – e dei moderni – IX): la “prova” dell’esercito, l’episodio di Tersite e il catalogo delle navi achee e dell’esercito di parte troiana (II); la rassegna dei Greci fatta da Elena a Priamo dall’alto delle mura di Ilio (III); Glauco e Diomede, Ettore a Troia e il suo incontro con la moglie Andromaca (VI); l’ambasceria inviata ad Achille da parte di Agamennone per operare la riconciliazione, rifiutata da Achille (IX); l’episodio di Dolone (X); l’inganno di Hera a Zeus (XIV); la descrizione delle armi di Achille costruite da Efesto (XVIII); i giochi in onore di Patroclo (XXIII); e infine Priamo presso Achille (XXIV). L’azione è continuamente accompagnata da paragoni o similitudini, che sono diventate per i critici una delle caratteristiche più salienti del modo epico di raccontare: in esse (che da alcuni, come Shipp, vengono date come tarde) è
|| 17 Ancora valido è W.–H. FRIEDRICH, Verwundung und Tod in der Ilias, Gottingen 1956; recente è FENIK, Typical Battle Scenes ... (cit. in bibl. X). Per le aristèiai, cfr. KRISCHER, Formale Konventionen ... (cit. in bibl. VIII).
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contenuto quello che del mondo iliadico la costante attenzione alle azioni di guerra lascia fuori. Sono come una integrazione del quadro a suo modo unilaterale offerto dall’asse tematico del poema, piene come sono di notazioni di vita quotidiana, con una attenzione tutta particolare per i fenomeni naturali e per il mondo animale, il mondo del lavoro e le pratiche e i costumi sociali. I temi che ricorrono continuamente, e spesso con parole identiche o almeno con una strutturazione formulare che li isola tipo per tipo, possono ancor meglio dare un’idea della ricchezza dei contenuti: l’arrivo, l’ambasceria, il sacrificio, il giuramento, il viaggio per mare e per terra, l’armarsi e il vestirsi, il sonno, il sogno, il riflettere, il riunirsi in assemblea sono alcuni di questi temi.18 Quello che qualunque riassunto del poema deve comunque per necessità lasciar fuori sono da una parte le numerose aporie e incongruenze interne (cfr. sez. F), campo di battaglia della critica analitica; e dall’altra i numerosi richiami a distanza, grande argomento di difesa della corrente unitaria (Schadewaldt, Lesky). La trama dell’O d i s s e a è più semplice e più lineare. È per questo che la critica analitica dell’Odissea è cominciata più tardi. Sembrava che il poema fosse più unitario, ma da Kirchhoff19 in poi si è visto che le aporie sono anche qui quanto mai numerose. La sintesi potrà essere più breve, ma comparativamente con l’Iliade è più rilevante la massa di contenuti che si omettono. L’Odissea è uno dei «ritorni» (nòstoi) degli eroi da Troia, un ritorno che dura quanto era durata la guerra, dieci anni. Il poema si apre sulla scena di Itaca, patria e regno di Odisseo, dove spadroneggiano i pretendenti alla mano di Penelope, la moglie fedele; il figlio Telemaco viene esortato da Athena, che gli si presenta sotto le spoglie del re Mente, ad andare in cerca del padre (I). Telemaco parte da Itaca su una nave, protetto da Athena (II), e visita Nestore a Pylos (III) e Menelao a Sparta (IV). Odisseo nel frattempo è trattenuto ancora nell’isola Ogigia da Calipso, che finalmente lo lascia andar via su una zattera, obbedendo all’ordine di Zeus trasmessole da Hermès; una tempesta, suscitata da Posidone, non impedisce a Odisseo di esser deposto sulla spiaggia dell’isola dei Feaci (V). Il soggiorno presso i sovrani Alcinoo e Areta è argomento di sette libri (VI–XII, || 18 Il lavoro di AREND, Die typischen Scenen … (cit. in bibl. X), è rimasto classico, pur preparryano nell’impostazione (Parry lo recensì, The Making … [cit. in bibl. X], pp. 404–407). Particolare accento sui temi, per il parallelo con la poesia iugoslava, ha posto LORD, The Singer ... (cit. in bibl. X). Lavori del tipo di quelli citati alla nota precedente si vanno facendo sempre più numerosi (cfr., per es., KRISCHER, cit. a nota 17 sulle aristèiai; e M.W. EDWARDS, Type—scenes and Homeric Hospitality, «Trans. Amer. Philol. Ass.» 105 [1975, pp. 51–72). 19 A. KIRCHHOFF, Die homerische Odyssee und ihre Entstehung, Berlin 1859; come seconda ediz. Die homerische Odyssee, Berlin 1879.
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fino all’inizio del XIII), entro i quali s’iscrive il racconto (gli apòlogoi) che Odisseo fa ai Feaci delle sue peregrinazioni (IX–XII): il ritorno nella sua interezza ci è noto, così, attraverso una grande digressione. Le varie vicissitudini sono narrate con diverso impegno di dettaglio: i Ciconi, i Lotofagi, i Ciclopi e Polifemo (IX); Eolo e l’otre dei venti, i Lestrigoni, Circe (X); i Cimmeri, la discesa all’Ade con i numerosi incontri (XI); le Sirene, Scilla e Cariddi, i compagni che divorano i buoi del Sole, la fine dei compagni superstiti nell’annientamento della nave, e infine – qui il racconto dell’eroe si chiude – l’approdo di Odisseo, ormai solo, all’isola Ogigia (XII). Da qui, terminata la digressione, comincia il racconto di come il protagonista riprende possesso del suo ad Itaca: i ritorni paralleli di Odisseo e Telemaco ad Itaca, l’incontro tra padre e figlio e l’accordo per sterminare i pretendenti (XIII–XVI); l’arrivo in città di padre e figlio separatamente (XVII–XVIII); l’incontro, ancora in incognito, di Odisseo con Penelope (XIX); gli ulteriori preparativi per la strage, la gara dell’arco (l’arco che solo Odisseo può tendere), l’uccisione dei pretendenti, il riconoscimento dei due sposi (XX–XXIII). Il poema si chiude con una seconda scena nell’Ade, dove Hermès conduce le anime dei pretendenti, la visita di Odisseo al vecchio padre Laerte, la lotta con le famiglie degli uccisi, che si conclude con una pace generale sotto gli auspici di Athena (XXIV). Quello che si è detto quanto all’Iliade per i paragoni e i temi vale naturalmente anche per l’Odissea. Per quest’ultima, in ragione dei contenuti e della struttura narrativa, così diversi rispetto all’Iliade, c’è da aggiungere che speciale interesse rivestono i motivi geografici (anche se una geografia sicura delle peregrinazioni di Odisseo sembra ormai una meta illusoria, pur perseguita con tenacia fin dall’antichità) e favolistici (numerosi contatti si son potuti accertare, per esempio, con la saga degli Argonauti20). L’Odissea è per di più la nostra fonte principale per l’aedo dell’epica più arcaica: Femio, l’aedo degli Itacesi, Demodoco, l’aedo dei Feaci, sono i primi aedi professionali che conosciamo; Odisseo stesso, che racconta i suoi viaggi, riceve il suo “diploma” di aedo dal re Alcinoo (XI, 368).21 È necessario aggiungere qualche parola sul C i c l o . Ci limitiamo qui al ciclo troiano, contenutisticamente legato ai due grandi poemi, lasciando da parte il ciclo tebano ed altri minori, come pure gli scarsi resti di poesia teogonica arcaica. È stato notato che i poemi del ciclo troiano si presentano come un complemento a posteriori dei due poemi: questo sarebbe in accordo con la palese
|| 20 PAGE, The Homeric Odyssey (cit. in bibl. VIII). 21 Cfr. i passi rilevanti in G. LANATA, Poetica pre—platonica. Testimonianze e frammenti, Firenze 1963, specialmente pp. 6 ss.
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facies recenziore della lingua degli scarsi frammenti giunti fino a noi (Wackernagel). Né ci interessano qui giudizi di valore (negativo) come quello di Aristotele (a.p., cap. 23). I Canti ciprii narravano in undici libri l’antefatto dell’Iliade, mentre l’Etiopide (cinque libri) la continuava; ad essa si riattaccavano la Piccola Iliade, la Distruzione d’ilio, i Ritorni degli eroi da Troia, uno dei quali è l’Odissea, che è in ultimo continuata dalla Telegonia. Molto si è detto da parte della cosiddetta scuola neoanalitica22 su una precedenza cronologica del Ciclo rispetto ai due poemi: ma questo si può affermare non della forma in cui il Ciclo si presenta, bensì della tematica nel suo complesso, ricostruibile dai sommari riassunti e dagli scarsi frammenti che abbiamo. Sulla cronologia, sicuramente molto alta, del materiale narrativo del Ciclo rispetto al contenuto dei due poemi maggiori ci illumina l’arte figurativa (sez. E, fine).23
C. Enciclopedismo. Ecumenicità Dal breve riassunto dei poemi abbiamo ricavato un’idea della materia in essi contenuta. È tutta una società che vi si specchia. È una società guerriera nell’Iliade, che mostra il suo versante istituzionale e sociale più chiaramente nell’Odissea; e che nelle similitudini apre al mondo di altri strati sociali e al mondo della natura. Importa qui ricordare che la varia stratificazione cronologica che gli elementi culturali fanno intravvedere (sez. E) non contraddice al fatto che, come struttura epica d’insieme, i poemi assorbono questi elementi in una unità, che non è meno tale per il fatto di essere composita. Questo risulterà chiaro quando si affronterà il discorso delle fasi successive di composizione e della crescita su se stessa della materia epica. La sensibilità epica alla cronologia è diversa dalla sensibilità storica: la distanza cronologica, assoluta e relativa, è in certo modo abolita, col risultato di un “appiattimento” e di una contemporaneizzazione che tende solo a tesaurizzare gli elementi di un passato sentito
|| 22 Un eccellente panorama della scuola neoanalitica è offerto da F. MONTANARI, Karl Reinhardt studioso di Omero, «Ann. Sc. Norm. Pisa» S. III, 1975, pp. 1409–1441. Nomi che si possono ricordare sono quelli di Pestalozzi, Kakridis, Kullmann. 23 Sulla problematica a cui dà luogo un elemento narrativo non rintracciabile univocamente nel patrimonio epico a noi noto (Od. VIII, 74-82: contesa fra Achille e Odisseo), W. MARG, Das erste Lied des Demodokos, in Navicula Chiloniensis (Festschrift F. Jacoby), Leiden 1956, pp. 16– 29 (in polemica con Von der Mühll, che vuole inquadrare l’episodio nei Canti ciprii).
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soprattutto come tradizionale. Il cosiddetto anacronismo, categoria storica, perde senso come tale.24 La materia si presenta così, secondo la felice formulazione di Havelock, come enciclopedica. Havelock parla di «enciclopedia tribale», intendendo i poemi come deposito di tutti i contenuti culturali di una civiltà. A questa definizione porta sia l’abbondanza tematica di cui abbiamo fatto cenno sopra (sez. B), sia il fatto che Omero appare come l’unico depositario del codice della cultura orale, quali che siano i desiderata che l’enciclopedia omerica stessa eventualmente lasci insoddisfatti. Del resto lo scarso spazio dato ad alcuni fatti della vita collettiva e individuale, come il pasto e i rapporti sessuali, sono stati interpretati in chiave di tabù:25 una esclusione cosciente e voluta, quindi, che riassorbe questi contenuti nel momento stesso in cui, facendo ad essi solo una discreta allusione, dà ad essi un determinato valore. La società epica, ovvero eroica, privilegia alcuni aspetti e tace o quasi tace di altri; a differenza dell’epoca lirica, la cui scala di valori e quindi la cui selezione saranno diverse. Esemplare è la trattazione di Il. I fatta da Havelock.26 I contenuti sono qui di particolare importanza: comportamento verso gli dèi, preghiera alla divinità, usi sacrificali, dignità del sacerdote, tecnica di imbarco e sbarco; e soprattutto funzioni politiche dei capi, che hanno come pretesto narrativo la divisione del bottino di guerra come spunto per la lite fra Achille e Agamennone. Un esempio. Achille, nel corpo del più denso dei discorsi che fa ad Agamennone (225 ss.), dopo il quale getta a terra con sdegno il suo scettro, simbolo del potere di cui è investito, tiene ad inserire una digressione di molti versi (234 ss.) nella quale illustra l’essere ed il valore del simbolo–scettro. Tale digressione non ha funzione psicologica in senso realistico (nessun Achille avrà mai nella realtà inserito in un suo discorso tale digressione), e neanche una funzione retorica (se mai un discorso sulla retorica in Omero è possibile – come è stato già impostato in Omero stesso e recepito già nell’antichità specie per la figura di Nestore – si dovrà tener conto di questi fatti): la sua funzione è quella di assicurare, all’interno della narrazione epica, la presenza di un così importante elemento del codice politico, che del resto, nell’ambito dello stesso libro I, si iscrive in una serie di altre affermazioni in tal senso, come il discorso di Nestore (254 ss.) sui
|| 24 J. GOODY, I. WATT, The Consequences of Literacy, «Comparative Stud. in Society and History» 5 (1963), pp. 304–345, precisamente 325 (trad. in Linguaggio e società, a cura di P. P. Giglioli, Bologna 1973. pp. 361—405). 25 J. WACKERNAGEL, Sprachliche Untersuchungen ... (cit. in bibl. XII), pp. 224 ss.; e tutto il libro di MURRAY, The Rise ... (cit. in bibl. VIII). 26 HAVELOCK, Preface ... (cit. in bibl. X), cap. IV.
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rapporti di potere fra i capi. Non è contraddittorio che sia qui presente anche la funzione magica di maledizione o ἀρή («questo scettro non metterà più foglie né rami... né fiorirà di nuovo...»). In questa luce vanno viste tutte le scene tipiche delle quali si parlava in sede di sommario (sez. B).27 Qui, più che l’uso di formule sicuramente identificabili come tali, interessa la costante ripetizione di procedimenti, il ritornare del loro ordine reciproco, le strette parentele verbali, se non sempre formulari. Un confronto con la narrativa moderna. Se un personaggio s’inginocchia e prega, il narratore difficilmente riporterà l’intero testo dell’«Ave Maria»: tale testo è depositato altrove, c’è un “luogo” che lo conserva come contenuto culturale, diverso e lontano dal testo del romanzo; basterà il titolo della preghiera, o anche un’allusione più vaga. Diversamente il poeta epico: il sacerdote Crise prega Apollo (37 ss. ϰλῦϑί μευ, ἀργυρότοξ’) con una preghiera che è riportata per intero, le cui formule di celebrazione e invocazione si ripeteranno tante altre volte nei poemi. La funzione è allo stesso tempo descrittiva e normativa: come si prega, come si deve pregare. E così per tutto il resto. Omero, con l’includere tutti questi elementi nel suo tessuto narrativo, crea un deposito di «comunicazione conservata». La ricchezza enciclopedica di Omero, ben individuata da Platone nello Ione e nella Repubblica, appare quindi non come una serie di riferimenti mediati ai contenuti culturali e alle tecniche comunitarie, bensì come un deposito, anzi il deposito di tali tecniche. Possiamo ben riprendere il ragionamento platonico (che era rivolto beninteso a tutt’altri fini e che aveva la sua dose di ironia): che è impossibile conoscere a fondo Omero, perché bisognerebbe essere esperto nell’arte militare, nella mantica, nella medicina, ecc. ecc.28 Ora, tale ricchezza non può essere attribuita all’esperienza di uno solo; l’enorme varietà esclude che il punto di vista possa essere quello di un singolo; il cantore epico è – maggiore o minore che sia il suo apporto – portavoce di un sapere collettivo. La vecchia ipotesi delle personalità poetiche (o, peggio, della singola personalità poetica) si avvicina allo zero di validità euristica.29 L’unitarismo, in questa prospettiva, perde ogni senso in partenza, ma poco ne ha anche il pluralismo di autori, che resterebbero comunque non individuabili, privi, cioè, di quella per|| 27 È questa la versione più efficace e più aggiornata dei vari modi con cui si è voluta definire in passato la «rigidità» dell’epos. Cfr. per es. (a suo modo efficace) la Stilisierung di H. FRÄNKEL, Dichtung und Philosophie des friihen Griechentums, München 19693, p. 584 (nel dettagliato indice). 28 Sulle tecniche, M. ISNARDI PARENTE, Techne, Firenze 1966; G. CAMBIANO, Platone e le tecniche, Torino 1971. 29 Cfr. già per es., G. PASQUALI, in Enciclopedia Italiana, s.v. Omero, p. 334.
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sonalità di cui si andrebbe in cerca. È la questione omerica nelle sue impostazioni tradizionali a perder senso: se anche si possa intravvedere più di un intervento fortemente modellatore o si possa accedere all’ipotesi di un «redattore» di una materia epica prima informe,30 finisce sempre per restare in primo piano la forza e il peso della «tradizione epica» nel suo complesso. Si può ancora continuare a discutere sull’originario luogo sociologico dei poemi: è la corte, dove il cantore intrattiene i componenti di una cerchia ristretta, come avviene a Itaca con Femio e fra i Feaci con Demodoco?31 O è piuttosto la panègyris, la grande folla convenuta da ogni parte ad un luogo di culto in occasione di una celebrazione?32 E quando si sarà presentata in epoca arcaica, ed ancora creativa, la recitazione informale davanti ad un pubblico occasionale radunato nell’agorà?33 Son domande che ancora aspettano una risposta univoca. Ma, qualunque sia il luogo sociologico, importa qui rilevare che l’enciclopedismo comporta di per sé una forma di ecumenicità: se i contenuti corrispondono a un’enciclopedia del sapere comunitario, essi interessano tutta la comunità presa nel suo insieme e non come una massa di singoli. Torna qui utile il concetto di testo di cultura.34 Se si considera la cultura come «un fascio di sistemi semiotici (lingue) formatisi storicamente» e cioè come «un insieme di testi», si riconoscerà nella memoria – così marcatamente impersonata dai Greci nella Musa invocata come origine del canto epico – la funzione di introdurre l’informazione, opportunamente selezionata e ordinata, nella memoria dei singoli componenti la collettività, e cioè nella memoria della comunità stessa nel suo insieme. Dal depositario dell’informazione al destinatario dell’informazione, sotto il segno della memoria, e cioè attraverso il canale orale. C’è solo da precisare che nella Grecia arcaicissima l’insieme di testi di cultura è rappresentato sostanzialmente da un testo unico, dal poema epico. Nella stessa categoria per gli antichi, sia pure in teoria letteraria più tarda, rientravano sia la poesia cosmogonico–teogonica,35 sia il cosiddetto poema didascalico, sia la poesia
|| 30 Su tutto questo HEUBECK, Die homerische Frage (cit. in bibl. VI), pp. 228 ss. 31 FINLEY, The World… (cit. in bibl. IX), pp. 38, 59; LESKY, RE (cit. in bibl. VII), coll. 831.66 ss. 32 MURRAY, The Rise... (cit. in bibl. VIII); WADE–GERY, The Poet... (cit. in bibl. VIII); J. A. DAVISON, The Homeric Question, in WACE, STUBBINGS, A Companion ... (cit. in bibl. VII), pp. 255, 264, n. 58. 33 KIRK, The Songs ... (cit. in bibl. VIII), pp. 137 s. 34 J. M. LOTMAN, B. A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Milano 1975, specialmente pp. 31, 50, 150; cfr. anche 64. 35 M. L. WEST, Hesiod’s Theogony, Oxford 1966, pp. 1–16.
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genealogica (le Eòiai),36 tutti e tre generi o sottogeneri rappresentati in Esiodo, ma di tradizione sicuramente più antica (sez. O). Come nella lirica corale arcaica posteriore, distinta dagli antichi stessi in divina ed umana (in onore degli dèi e degli uomini), ma sostanzialmente unificata dalla forma lirica, è da vedere in questi diversi generi letterari esametrici, o sottogeneri, una categoria unica, tenuta insieme dalla uguaglianza della forma metrica, l’esametro, con prevalenza di un punto di vista alternativamente divino ed umano. Il canto epico si rivolge a tutti i componenti del gruppo, o meglio al gruppo nel suo insieme. Le testimonianze esterne ci dicono che i poemi erano recitati in pubblico: tali testimonianze cominciano con Femio, Demodoco, lo stesso Odisseo (sez. B) e continuano lungo tutto l’arco della cultura greca. In più, va rilevata la frequente caratterizzazione demiurgica del cantore nell’ambito degli stessi poemi.37 Il cantore non è esclusivamente aristocratico già nell’Odissea (VIII, 472; XVII, 383 ss.): è «uno che lavora per il demos» allo stesso modo che tanti altri, come, per esempio, gli araldi. Una professionalità così accentuata fa arrivare anche per questa via ad un valore di eminente servizio pubblico attribuito già in epoca molto arcaica al canto della materia epica. L’eminente funzione politica dell’aedo è evidente nell’importanza che ha l’aedo anonimo di Agamennone (Od. III, 267–272); ed è stata vista giustamente rappresentata anche nella Musa come ipostasi del «controllo sociale».38 Il pubblico, a qualunque strato sociale esso appartenga, sta pur sempre in una ben definita parte politica, come ben si vede nell’Odissea per il caso di Demodoco, il cantore dei Feaci, e di Femio, il cantore degli Itacesi. Ora, a seconda delle esigenze del pubblico, il cantore opererà una scelta opportuna, sarà, secondo una felice formulazione, «elastico» anche nel modellare la sua tematica. Significativo a questo proposito il salvataggio in extremis di Femio ad opera di Odisseo alla fine dell’Odissea (XXII, 330 ss.), in base alla giustificazione della «costrizione» a cui l’aedo è stato sottoposto nel cantare per i pretendenti. Nel lungo seguito della fortuna dei poemi tale situazione, caratterizzata dalla sua originaria unici-
|| 36 S. KOSTER, Antike Epostheorien, Wiesbaden 1970; sui vari generi letterari e sulle teorie antiche L. E. ROSSI, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «Bull. Inst. Class. St. London» 18 (1971), pp. 69–94. 37 KIRK, The Songs ... (cit. in bibl. VIII), pp. 278 s. 38 J. SVENBRO, La parole et le marbre. Aux origines de la poétique grecque, Lund 1976, spec. pp. 16–35; sulla «elasticità», pp. 35–45. Tutti i concetti che seguono in questo capoverso sono dovuti all’eccellente lavoro di Svenbro. Sull’audience control, cfr. anche FINLEY, The World ... (cit. in bibl. IX), pp. 16 e 19. Fatti analoghi di controllo sociale sulla scelta dei canti conviviali nella società attica del v secolo sono messi in rilievo da M. VETTA, Un capitolo di storia di poesia simposiale (Per l’esegesi di Aristoph. Vesp. 1222–48), «Dialoghi di Archeologia» 9 (1976).
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tà, non si ripeterà più: i poemi, non più elastici bensì fissati nella loro «immutabilità monumentale», verranno sottratti alla loro primitiva funzione sociale con un atto, non voluto ma storicamente determinato, di «chirurgia sociale». Ione, cantore del V secolo, sarà diverso e canterà per un pubblico dalle esigenze diverse. Appare evidente da tutto questo che almeno la pubblicazione e la trasmissione dovessero essere orali e rispondessero a una precisa funzione nell’ambito della cultura rappresentata dai poemi epici. Troveremo prove anche interne quando parleremo dell’esametro, che si rivelerà fortemente funzionalizzato alla recitazione (pubblicazione) orale (sez. I). Per una composizione orale ci mancano ancora prove decisive: enciclopedismo ed ecumenicità possono essere per ora soltanto indizi, anche se forti. Indizi ancora più forti, sconfinanti col valore di prova, potranno venirci soprattutto da un’indagine sulla configurazione interna del testo, e cioè sulla formularità (sezz. I, L). Ma prima occorre stabilire quale grado di verosimiglianza sia consentito dall’esistenza o meno, e in che periodo, di una tecnologia scrittoria.
D. Scrittura Una prova dell’oralità dei poemi era stata vista (ma è stata sfruttata in tal senso solo molto più tardi) nella valutazione che Wolf (sez. A) aveva data delle testimonianze antiche sulla redazione pisistratea (sez. M): Pisistrato, alla metà del VI secolo, sarebbe stato il primo a far fissare per iscritto i poemi. Nell’epoca creativa dell’epica sarebbe mancata la scrittura. Oggi sulla scrittura greca arcaica sappiamo di più che ai tempi di Wolf, anche se purtroppo non abbastanza da poter trarre conclusioni del tutto sicure. Sappiamo che un particolare tipo di scrittura sillabica, la lineare B, era in uso fra il XV e il XIII secolo a.C. (Ventris– Chadwick). Ma, a chi voglia far risalire così indietro il fissarsi dei materiali dell’epica (Nilsson, Page; cfr. Webster, che pensa addirittura ad antichissima fissazione scritta), le obiezioni che comunemente oggi si fanno valere sono di vario tipo, fra cui una di tipo sociologico: sia quella scrittura sillabica sia gli scribi che se ne servivano erano strettamente legati alla redazione di inventari di palazzo,39 ed è altamente improbabile che sia l’una sia gli altri potessero servire alla registrazione di canti epici. Ma ci sono vari altri argomenti, fra cui ar-
|| 39 Per la figura dello scriba, cfr. specialmente J.–P. OLIVIER, Les scribes de Cnossos, Roma 1967; L. H. JEFFERY, A. MORPURGO–DAVIES, Poinikastas and Poinikazein: BM 1969. 4–2.1, A New Archaic Inscription from Crete, «Kadmos» 9 (1970), pp. 118–154.
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gomenti linguistici e metrici. Per di più, quelle che ad alcuni erano sembrate allusioni alla scrittura all’interno dei poemi (Il. VI, 168 VII, 175) sono oggi comunemente svalutate come tali. D’altra parte sembra che la tecnologia scrittoria sia stata assente in Grecia fra la caduta dei regni micenei e l’introduzione dell’alfabeto fenicio ad opera di Cadmo in Beozia. Quando sarebbe stato introdotto in Grecia tale alfabeto? Lasciando da parte ipotesi quanto meno fantasiose per la loro cronologia troppo alta, la maggioranza degli studiosi oscillano fra il 1100 e il 700 a.C.40 L’ipotesi più accettabile sembra comunque essere quella di legare la data d’introduzione della scrittura ai documenti esistenti e di farla risalire a qualche tempo, ma non molto, prima. Ricorderemo, di tali documenti, il vaso del Dìpylon,41 datato circa al 725, e la coppa di Nestore da Pithekoùssai,42 datata anch’essa nella seconda metà del secolo VIII. Una data, quindi, intorno alla metà del secolo VIII43 sembra una supposizione ragionevole. Alzare o abbassare di qualche decennio la cronologia, pur argomento di accaniti dibattiti, non sembra debba molto influenzare la valutazione della scrittura in rapporto all’epica: le origini dell’epica orale sembrano infatti risalire ad epoca notevolmente anteriore, in pieno medioevo ellenico, come fanno supporre gli elementi storici e culturali presenti nei poemi, che passiamo in veloce rassegna nella sezione successiva (sez. E). Quello che va messo in chiaro fin da ora a proposito della scrittura è che l’esistenza della scrittura stessa può aver influenzato alcune fasi della composizione dei poemi, o meglio alcune parti di essi; ma non fu certo utilizzata in fase molto antica per la fissazione, nella loro interezza, di poemi della portata di un’Iliade o di un’Odissea.44 Né siamo in grado di sapere quale estensione avesse il patrimonio epico nell’VIII secolo. Ma come una fissazione scrittoria totale, senza dubbio fatto singolare date le condizioni storiche della Grecia arcaica (e nient’affatto singolare in altre epiche, cfr. sez. N), si sia realizzata, è e resterà
|| 40 Das Alphabet. Entstehung und Entwicklung der griechischen Schrift, ed. G. Pfohl, Darmstadt 1968 (Einleitung, von G. Pf., pp. xv s.); «Parola del Passato» 166 (1976) (Dal sillabario mimico all’alfabeto greco) con contributi di vari studiosi (cfr. specialmente G. PUGLIESE CARRATELLI, Cadmo prima e dopo, pp. 5–16; M. BURZACHECHI, L’adozione dell’alfabeto nel mondo greco, pp. 82–102). 41 IG I2, 919. 42 G. BUCHNER, C. F. RUSSO, «Rend. Acc. Lincei» 1955, pp. 215–234; SEG XIV, 604; XVIII, 418; M. GUARDUCCI, Epigrafia greca, I, Roma 1967, pp. 225 ss. 43 L. H. JEFFERY, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961, p. 21. Recentemente Μ. Burzachechi, cit. a nota 40, cerca di alzare la cronologia di più d’un secolo: metà del IX o addirittura fine del X. 44 NILSSON, Homer ... (cit. in bibl. IX), p. 210.
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oggetto di discussione. Importante tenere presente la funzione di una fissazione scrittoria, funzione che si lascia individuare quanto più chiaro è il quadro storico che si ha di fronte. Un interessante parallelo è quello della fissazione scritta della musica attraverso la notazione musicale, fatto assai più tardo (dal V secolo in poi), che si sviluppa inizialmente in misura direttamente proporzionale al diffondersi del professionismo musicale.45 Un’attenta considerazione comparativa con i fatti omerici potrà dare qualche risultato. La scrittura ha bisogno di un materiale scrittorio: si aveva già il papiro o quale altro materiale più duraturo e, soprattutto, più verosimile? Anche qui le ipotesi sono molte e non è il caso di affrontarle in questa sede.46 Erodoto (V, 58 s.), parlando dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, menziona pelli di capra e di pecora.
E. Archeologia e storia Parlando di archeologia e storia si apre il problema della cronologia degli elementi storici e culturali presenti nei poemi (uno dei quali è ovviamente la lingua, di cui si parlerà più avanti, sez. G). Un principio che sembra ovvio, ma che ha stentato ad affermarsi, è che un elemento arcaico non implica necessariamente composizione arcaica: l’arcaismo linguistico artificiale, l’anacronismo storico sono espedienti comuni all’epica e non solo all’epica; essi rientrano addirittura nelle richieste o attese dell’uditorio.47 Eppure la critica analitica aveva fondato tanti dei suoi argomenti sull’assunto che arcaismo dovesse significare arcaicità: trascurando l’ipotesi che di molti elementi, reali o linguistici, si può conservare memoria fino ad un momento, anche assai tardo, in cui diventano come maturi per una utilizzazione poetica, che li contestualizza con elementi più recenti. Per un elemento di elevata arcaicità, soprattutto se fissato in una formula, va individuato un mezzo e un modo di conservazione: è, appunto, la memoria epica, che conserva soprattutto per mezzo del verso e della formula e consente il riuso.
|| 45 E. PÖHLMANN, Die Notenschrift in der Überlieferung der griechischen Bühnenmusik, «Würzburger Jahrbb. für d. Altertumswiss.», N.F. 2 (1976), pp. 53–73. 46 Orientamento in LORIMER, Homer ... (cit. in bibl. IX), pp. 526 s.; JEFFERY, in WACE, STUBBINGS, A Companion ... (cit. in bibl. VII), pp. 555 ss. Un utile panorama è H. L. LORIMER, Homer and the Art of Writing: A Sketch of Opinion Between 1713 and 1939, «Amer. Journ. Arch.» 52 (1948), pp. 11–23. Utile N. LEWIS, Papyrus in Classical Antiquity, Oxford 1974. Per il papiro, cfr. B. HEMMERDINGER, Wolf, Homère et le papyrus, «Arch. f. Papyrusforsch.» 17 (1962), pp. 186 s. 47 FINLEY, The World ... (cit. in bibl. IX), pp. 16 e 19.
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Per la tematica generale dei poemi un terminus post quem, ottenuto da una combinazione di dati storici e archeologici, è la distruzione della cosiddetta Troia VII a, che vien fatta risalire al 1200 a.C. circa. Questo non toglie che alcuni elementi non possano risalire ad epoca ancor più antica. Un utile elenco è stato fornito da Kirk,48 dal quale si possono citare alcuni esempi, sempre tenendo presente (come fa Kirk stesso) l’avvertimento metodico dato sopra. Dall’epoca micenea possono venire, attraverso il medioevo ellenico, lo scudo di Aiace, che copre tutta la persona; la spada con chiodi d’argento (φάσγανον ἀργυρόηλον, che trova corrispondenza anche linguistica in myc. pakana e akuro), l’elmo con zanne di cinghiale (Il. X, 261 ss.: in un libro che già dagli antichi era considerato tardo!); almeno al periodo del protogeometrico e del geometrico (1025–700 a.C.), se non a epoche anteriori, può appartenere l’uso diffuso della cremazione dei cadaveri; alla fine di questo periodo può appartenere quella che sembra essere tattica oplitica (Il. XII, 105; XIII, 130 ss.; XVI, 212 ss.); fra gli elementi che possono esser tardi, ma che non debbono esserlo necessariamente, c’è la lampada d’oro di Athena, con la quale la dea illumina i recessi della casa a Odisseo e a Telemaco (Od. XIX, 33 ss.). Si dovrebbe ora parlare della mistione di elementi culturali in relazione ad armi ed usi di guerra, religione, sepoltura, usi matrimoniali, ecc.: e si vedrebbe ancor meglio che, all’interno di singole funzioni culturali, la varietà delle forme, appartenenti a momenti storici diversi e cronologicamente lontani, attestano niente altro che la fusione di fatti e momenti diversi nel ricco amalgama della tradizione epica (Kirk). La stessa società omerica è un problema in rapporto con la micenea: wanax e basilèus hanno sicuramente cambiato valore, mentre lawagetas è scomparso.49 Finley, per esempio, pensa che l’Odissea rispecchi una società molto più tarda rispetto a quella micenea, in contrapposto a molti altri che le vogliono attribuire un valore molto maggiore di testimonianza fedele di quella civiltà. La cronologia degli elementi storico–archeologici non impedisce che l’epica orale si sia formata, a cominciare da un momento per noi difficile da precisare, almeno fino al pieno VIII secolo: prima, cioè, dell’introduzione della scrittura, o almeno fino alla concomitanza col primo apparire di essa, quando la nuova tecnologia poteva cominciare appena ad influenzare la configurazione dei testi.
|| 48 KIRK, in KIRK, The Language ... (cit. in bibl. VII), pp. 174–190; The Songs ... (cit. in bibl. VIII), pp. 179 ss. 49 Cfr. in proposito i numerosi scritti di G. PUGLIESE CARRATELLI (Scritti sul mondo antico, Napoli 1976). Da ultimo G. MADDOLI, Damos e basileus. Contributo allo studio delle origini della polis, «Studi micenei ed egeo–anatolici» 12 (1970), pp. 7–57. Per altre considerazioni sul valore dei poemi come eventuale testimonianza storica si rimanda alla sez. A.
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Ma la crescita deve esser continuata. Elementi sicuramente recenziori, nel senso di sicuramente posteriori all’introduzione della scrittura, non mancano. Questi, a differenza degli arcaismi, sono realmente atti a fornire dei termini post quos. Pensiamo, per esempio, agli atticismi storici, alle cosiddette interpolazioni attiche nel libro II dell’Iliade, già riconosciute dagli antichi. Il. II, 557 s. sembra una rivendicazione della atticità di Salamìs, contesa fin dai tempi di Solone; e I, 265 e III, 144,50 dov’è nominato Teseo, sembrano compensi per la presenza nel Catalogo delle navi dell’insignificante Menesteo (II, 551) come capo degli Ateniesi (dove per altro chi crede all’interpolazione dell’intero catalogo vede nell’intera sezione dedicata ad Atene opera di poeta attico).51 Il dubbio che deve sempre venire di fronte a passi sospetti di interpolazione è se si tratti di pura e semplice interpolazione isolata oppure di recenziorità organica di ampi blocchi. Alcuni di questi ultimi hanno contribuito a costituire il finale mosaico epico (penso per esempio alla Dolonia); e d’altra parte è solo quando i poemi abbiano raggiunto una loro canonicità che si può parlare di interpolazione isolata. Ma quando l’hanno raggiunta, tale canonicità? La risposta a questa domanda sarebbe niente più ma anche niente meno che una proposta definitiva di soluzione del problema omerico. Fin qui per il rapporto unidirezionale fra storia e reperti archeologici da una parte e poemi dall’altra. Ma, per una approssimativa fissazione cronologica e ambientale dei poemi, c’è anche da considerare il rapporto in direzione inversa: l’influenza, cioè, esercitata dai poemi sull’arte figurativa. È singolare che prima del 725 a.C. circa si trovino solo delle rappresentazioni, dai contorni mitici non precisamente individuabili, di riti funebri, danze, battaglie, cacce, scene marine e vari altri tipi di rappresentazioni di vita quotidiana. Episodi mitici precisamente individuabili cominciano, appunto, intorno al 725, e in principio si tratta quasi esclusivamente di materiale del Ciclo (sez. B, fine). Dal 675 a.C. circa in poi Iliade e Odissea sono compattamente presenti in misura nettamente superiore al Ciclo, confermandosi così la fortuna sempre crescente dei poemi e l’antichità del materiale del Ciclo. A parte il mito di Eracle, che fin da principio non è mai assente.52
|| 50 DIHLE, Homer–Probleme (cit. in bibl. VIII), p. 29. 51 VON DER MÜHLL, Kritisches Hypomnema ... (cit. in bibl. VIII), p. 58. 52 K. FITTSCHEN, Untersuchungen zum Beginn der Sagendarstellungen bei den Griechen, Berlin 1969 (v. le conclusioni, pp. 199–201, e le tavole in fine). Cfr. anche K. SCHEFOLD, Friihgriechische Sagenbilder, München 1964 e la sua utile esegesi dei materiali in Das homerische Epos in der antiken Kunst, Acc. Naz. Lincei, Quad. 139 (cit. in bibl. XI), pp. 91–116.
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Un discorso sulla b i o g r a f i a di Omero, che dovrebbe trovar qui il suo luogo, risulta però già dalle premesse come del tutto superfluo. Le varie notizie e biografie tramandateci e il Certamen Homeri et Hesiodi sono solo testimonianze – alcune per di più assai tarde – della fortuna di Omero nel mondo antico.53
F. «Scandali» analitici Se le cosiddette incongruenze storiche sono state buon campo di battaglia per gli analisti – mentre sono un inestricabile amalgama che testimonia solo della ricchezza di una tradizione epica che ha fuso tutto, come un torrente che trascina detriti da vari livelli del suo corso –, le cosiddette incongruenze narrative sono state campo di battaglia ancora più battuto. Si è trattato di un trasferirsi dell’acribia analitica dal piano del referente storico a quello narrativo– compositivo. L’esempio più banale è quello di un guerriero che muore e risuscita (Pylaimènes, Il. V, 576; XIII, 658; ecc.). Vorrei dare a queste aporie il nome di scandali analitici. Ma non sono stati, ovviamente, pascolo solo per gli analisti. Questi hanno chiamato in aiuto una loro storia di sviluppo dell’epos, ricorrendo all’ipotetico sovrapporsi di strati individuali (due o più poeti). Ma anche gli unitari hanno dovuto misurarsi con queste difficoltà: hanno cercato di spiegare gli scandali con sforzi, spesso commoventi, di portarli a coerenza logica, ad una coerenza che spesso è solo la nostra (una proiezione di nostre categorie sulla realtà arcaica: procedimento di tipo umanistico e razionalistico molto frequente, cfr. sez. A). Un esempio. Ben noto è il problema del libro IX dell’Iliade, l’ambasceria ad Achille mandata da Agamennone. Gli eroi che vengono inviati sono tre, Fenice, Odisseo ed Aiace; ora, da un certo punto in poi, le forme verbali che designano l’ambasceria sono forme duali; sembra che Fenice sia scomparso, ma riappare più tardi nella narrazione con un discorso di fondamentale importanza tenuto ad Achille. Ebbene: in contrasto con chi prende a valore facciale una tale incongruenza54 – qualunque siano le conclusioni che se ne debbano trarre, in qualunque rapporto le diverse versioni siano con la saga di Meleagro – c’è chi pensa che Fenice venga per un certo tempo ignorato solo perché è l’indiscusso capo dell’ambasceria, un primus inter pares!!55 Una simile ingenuità non la sopportiamo neanche da un unitario di valore. D’altra parte sembra che l’intera ambasceria inviata da Aga-
|| 53 LESKY, RE (cit. in bibl. VII), coll. 687 ss. 54 PAGE, History... (cit. in bibl. VIII), pp. 297 ss. 55 SCHADEWALDT, Iliasstudien (cit. in bibl. VIII), pp. 137 ss.
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mennone nel libro IX sia in seguito totalmente ignorata da Achille stesso: a XVI, 72 s., 84 ss. la benevolenza di Agamennone nei suoi confronti è data da lui stesso come ipotesi non ancora avveratasi. È inevitabile postulare l’accavallarsi di due redazioni (Page), ma senza che il prodotto finale disturbasse, con le sue incongruenze narrative, e il cantore e il pubblico. In questo senso è da dire che i nostri strumenti ermeneutici, senza di necessità cessare di essere nostri, devono costruirsi tenendo conto delle varie facce della realtà: non il testo nudo e crudo, quindi, che con le sue incongruenze sarebbe un testo fallito; bensì il testo nel suo contesto storico e culturale (compositivo), che è oggettivamente un testo riuscito. Ben noto è poi il problema del catalogo delle navi nel libro II: se è vero che si tratta della cosiddetta matricola d’Aulìs – e cioè dell’elenco dei contingenti che da Aulìs salpano verso Troia –, come fra l’altro farebbero pensare gli imperfetti («e seguivano le navi di...»), allora sembra strano che una simile unità narrativa si situi nel decimo anno di guerra, mentre sarebbe stata più a suo luogo all’inizio della guerra stessa (e in realtà i Canti Ciprii ci danno indizio di averla contenuta). Inutile qui parlare del problema del muro degli Achei,56 o di fatti odissiaci come la compresenza nel libro I di vari consigli dati da Athena a Telemaco, che sono in contraddizione fra loro e in parte in contraddizione con quanto nel poema avviene veramente (fu Kirchhoff il primo a occuparsi di questa aporia e le sue pagine hanno fatto testo per decenni dal punto di vista del metodo). Un’indagine dettagliata degli scandali analitici ci porterebbe a fare una storia degli studi omerici da Wolf in poi, guidati dal filo d’oro delle taglienti, spesso geniali osservazioni degli analisti di varia estrazione: dalla teoria del nucleo originario (per l’Il. l’ira di Achille), che man mano si estende, che fu di Gottfried Hermann; alla teoria dei canti singoli che si aggregano poi insieme (Lachmann); alla teoria che postula un intervento redazionale finale (Kirchhoff, e molti dopo di lui); fino alla corrente (in sé più grossolana, quanto mai inadatta al lavoro a cui si applica) di chi ricerca episodiche interpolazioni, come se i due poemi fossero qualcosa di simile al testo di una tragedia attica. I cosiddetti neoanalisti (cfr. sez. B e nota 264) si richiamano a una per altro non accertabile influenza diretta dei poemi ciclici, che già sarebbero stati fruiti, in forme ricostruibili, dai poeti dei due grandi poemi.57 Gli unitari infine, insoddisfatti di alcune loro forzate razionalizzazioni o in franco imbarazzo di fronte a fatti in nessun modo
|| 56 PAGE, History ... (cit. in bibl. VIII), pp. 315 ss. 57 Il che porta, fra l’altro, a dover ipotizzare una letteratura preomerica già scritta (W. KULLMANN, Die Quellen der Ilias, Wiesbaden 1960, pp. 372 s.).
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razionalizzabili, si volgono a valorizzare gli innegabili legami interni, che appaiono loro il frutto di una volontà unitaria. Ma è stato giustamente osservato di recente che un redattore finale di scandali ne avrebbe lasciati meno;58 e, se qualcuno obiettasse che ad un testo ormai divenuto quasi sacro non si poteva portar violenza più che tanto, allora si ritorna (giustamente) al punto di partenza, e cioè alla forza di una lunga tradizione epica, che cresce lentamente su se stessa nel volgere di decenni e forse addirittura di secoli, senza preoccuparsi di omologare tutti gli elementi che di volta in volta si aggregano. L’ipotesi del «libro tradizionale» sembra alla fine l’unica a poterci dar ragione degli scandali analitici, nonché delle incongruenze storiche. Queste non sono sufficienti di per sé a trasformare l’ipotesi tradizionale in ipotesi orale: indizi più forti verranno, come si è annunciato, da un esame interno del testo. Qui si può proporre soltanto un avvio, tutt’altro che privo di valore: che a incongruenze di qualunque tipo, da una parte, chi compone oralmente è più facilmente portato e, dall’altra, chi fruisce di pubblicazione orale a tali incongruenze è meno sensibile. Alle incongruenze è meno sensibile sia una civiltà autenticamente orale (che non ha sviluppato ancora rigorose categorie storiche) sia una civiltà prevalentemente aurale, che ha diverse esigenze di fronte alla celebrazione del fatto narrativo: concentrazione maggiore, quasi esclusiva, sul singolo momento narrativo, che esclude o attenua quella rigorosa operazione di controllo del sintagma che è propria di chi legge un testo scritto. Tutto questo, che risulta da un approccio antropologico alla civiltà omerica, sarà più chiaro quando tireremo le fila del nostro discorso (sez. N), che va articolato per ora punto per punto.
G. Lingua Il primo elemento formale di cui dobbiamo tener conto è la lingua. Gli antichi erano arrivati ad affermare che Omero, avendo molto viaggiato, aveva incluso nei suoi poemi forme di tutti i dialetti, eolico, ionico e perfino dorico! Oppure parlavano di uno ionico arcaico, contrapposto allo ionico recente di un Erodoto. Per molto tempo il mondo moderno si contentò delle categorie del «poetico» e della licenza poetica. Solo con i neogrammatici si è arrivati allo studio analitico della lingua omerica: la premessa era il materiale dialettale messo a disposizione nel corso di vari decenni dalla pubblicazione delle iscrizioni di Boeckh (dal 1825 in poi) e Ahrens fu il primo (fra il 1839 e il 1845) che in un manuale comin-
|| 58 A. M. SNODGRASS, An Historical Homeric Society?, «Journ. Hell. St.» 94 (1974), pp. 114–125.
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ciò a sfruttare tali materiali su larga scala. L’intersecarsi di elementi eolici e ionici aveva portato al riconoscimento di una lingua mista; pian piano si è fatto strada il concetto di lingua artificiale (Meister), mentre sempre di più si veniva individuando lo stretto legame di tale artificialità con le esigenze del metro.59 Queste diverse angolazioni si sono fuse nel concetto generale di formularità, come vedremo meglio in seguito. Ma i fatti linguistici conservano una loro autonomia, che consente, anzi rende indispensabile una considerazione a parte: con lo stesso diritto degli elementi storici, dei quali anche la lingua fa parte. Occorre quindi ridistinguere formularità da lingua, dopo che erano state fuse nel primo approccio formulare. È solo oggi, del resto, che considerazione metrica (sez. H) e formulare (sezz. I, L) vengono opportunamente integrate. Una situazione singolare, creatasi attraverso uno sviluppo storico determinato, dà alla lingua omerica un suo posto a parte anche rispetto alle altre lingue letterarie: essa presenta delle fortissime violazioni della categoria linguistica dell’economia, violazioni che si risolvono in una polimorfia molto accentuata (più modi per dire la stessa cosa). Durante60 mette questo in giusto rilievo, ricordando che già Pagliaro aveva sostenuto come la lingua omerica non si configurasse affatto come sistema. Sulla valutazione delle componenti di tale lingua polimorfa e artificiale le opinioni divergono oggi forse più di ieri, proprio dopo la decifrazione del miceneo (1952–53). Il miceneo infatti, attestato nel secondo millennio, ha posto il problema della possibilità o meno di una proiezione all’indietro delle categorie dialettali a noi fino ad allora note: e se ne è concluso che non tutte le distinzioni del primo millennio sono proiettabili indietro nel secondo.61 Dalla concezione della semplice giustapposizione di due dialetti (dove l’eolico sembrava portatore di arcaismi chiaramente identificabili rispetto allo ionico), si tende oggi a valutare l’arcadico–cipriota o come una terza componente di rilevante importanza, a cui si dà il nome di acheo, o come facente parte di un greco meridionale che comprenderebbe anche lo ionico e si contrapporrebbe al settentrionale eolico.62 Le sfumature sono anche qui numerose e non è possibile riferirle in questa sede. || 59 WITTE, RE (cit. in bibl. XII), col. 2214.5: «La lingua dei poemi è creazione — ein Gebilde — del verso epico». 60 DURANTE, Sulla preistoria... (cit. in bibl. XII), p. 42 e n. 4. 61 E. RISCH, Die Gliederung der griechischen Dialekte in neuer Sicht, in KIRK, The Language ... (cit. in bibl. VII), pp. 90–105. 62 CHANTRAINE, Morphologie ... (cit. in bibl. XII), pp. 16 ss., per cui anche il miceneo sarebbe meridionale; Risch (cit. a nota 61) prende le distanze dal miceneo, considerandolo anteriore alle successive distinzioni dialettali.
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Un problema a parte sono i famosi atticismi.63 Abbiamo visto (sez. E) casi di atticismi di tipo storico. Ma gli interventi linguistici sono più numerosi e più facilmente riconoscibili. Wackernagel tendeva a dare ad essi il valore di prova di un passaggio del testo omerico attraverso l’Attica, quando la recitazione dei poemi cominciò a far parte delle Panatenee; ma oggi64 si vedono come fatti meramente grafici o poco più. Per esempio: per ἔως–τέως (εἴως–τείως) sono quasi sempre ricostruibili le forme ἦος–τῆος. Per altri casi si assume un lieve adattamento del testo circostante, che è comunque agevole riportare alla forma primitiva. Sono casi di modernizzazione per lo più fonetica e morfologica, che non permettono di pensare a una vera e propria redazione attica. Fatti del genere si sono verificati anche prima, come μειλιχίοισ’ ἐπέεσσι che risulta modernizzazione di μειλιχίοισι Ƒέπεσσι con digamma operante; o come, nel primo verso dell’Iliade, Πηληιάδεω Ἀχιλῆος che può bene aver sostituito un Πηληιάδα’ Ἀχιλῆος, col genitivo, già miceneo, in –ᾱo. Si tratta di riusi, che rendono tali forme non utilizzabili per la determinazione di cronologie né assolute né relative. Altri casi, che si riferiscono a fasi anteriori, possono al più permettere cronologie relative, ma limitate al solo fenomeno linguistico. Penso, per esempio, alla declinazione di «nave» nel catalogo delle navi.65 Quanto poi agli arcaismi, per essi vale quanto si è detto per i fatti storico–archeologici. Basterà citare il caso di ἀβροτάξομεν (Il. X, 65), col suo vocalismo –ο– anch’esso già miceneo, che compare di nuovo in Il. X, già per gli antichi un libro recenziore. Arcaismo, qui come altrove, non significa arcaicità. Da quanto si è esposto, anche qui l’unico modo di render ragione della varietà è, di nuovo, l’ipotesi orale–tradizionale. Ma, rispetto ai temi privilegiati dell’analisi (storia e contesto narrativo), qui l’ipotesi orale trova un appoggio sia pur di poco più solido:66 una visione quasi panellenica della diffusione dell’epos dà perfettamente ragione della polimorfia ovvero ricchezza di forme. Una specie di lingua franca che opera già da sé come “segnale” per l’avvio del canto epico di fronte a pubblici diversi e che garantisce la comunicazione su base ecumenica (sez. C); cantori che, pur entro certi limiti, improvvisano creando episodio dopo episodio, servendosi di una polimorfia linguistica che offre maggiori possibilità di adattamento alle strettoie del metro (sezz. H, I).
|| 63 Informazione in CAUER, Grundfragen ... (cit. in bibl. VII), pp. 121 ss. 64 CHANTRAINE, Grammaire ... (cit. in bibl. XII), 1, pp. 11 s., 15 s., 513. 65 νήες, νέες, ecc.: HOEKSTRA, Homeric Modifications ... (cit. in bibl. X), pp. 124 ss. 66 LESKY, RE (cit. in bibl. VII), coll. 709.50 ss.
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Resta da spiegare come elementi dorici, sia storico–reali sia linguistici, siano praticamente assenti dall’epica: è vero che i Dori, immigrati più tardi, sono stati i grandi assenti dalla scena storica dell’epos, ma resta comunque notevole che non siano entrati più tardi nella fase compositivo–poetica dei poemi.67 Un caso di arcaizzazione corretta (eccezionalmente corretta, vorremmo dire), come brillantemente conclude Kirk?68 O un segno di alta antichità della fissazione dei contenuti dell’epica? Pur se non rigorosamente dimostrabile, questa seconda ipotesi sembra la più probabile.
H. Metrica Veniamo ora ad aspetti formali che, per una corretta verifica dell’ipotesi orale, hanno bisogno di un discorso più dettagliato. Dobbiamo affrontare la metrica, principale elemento configuratore del testo poetico come tale. L’esametro è la prima forma metrica che incontriamo nella letteratura greca. Sulla sua origine si sono fatte varie ipotesi,69 ma possiamo considerarlo già un dato al momento della sua utilizzazione nell’epica: come infatti vedremo, la tecnica con cui è costruito si presenta già fortemente evoluta e perfettamente funzionalizzata. Eccone lo schema:70
|| 67 J. CHADWICK, Who were the Dorians?, «Parola del Passato» 166 (1976), pp. 103–117, avanza recentemente la teoria, inedita, che i Dori fossero già presenti nel mondo miceneo in qualità di classe subalterna (i Dori in Grecia fin dal 1600 a.C. già nel famoso articolo di J. BELOCH, Die dorische Wanderung, «Rhein. Mus.» 45 [1890], pp. 355–598). Ma Od. XIX, 177 come unico reale accenno ai Dori in Omero è troppo poco per sostenere l’ipotesi su base storica. 68 KIRK, The Songs ... (cit. in bibl. VIII), p. 110. 69 Ricordo specialmente Bergk (1853), Usener, Schroeder, Gentili, tutti appartenenti alla scuola cosiddetta storica. Meillet (1921) aveva proposto per l’esametro un’origine non ario–europea, mentre apparentava metrica vedica e metrica eolica. Recentemente NAGY, Comparative Studies ... (cit. in bibl. XIII), ha cercato di collegare la metrica eolica coll’esametro, facendo di quest’ultimo il prodotto dell’estensione dattilica del ferecrateo: ma, a differenza di Meillet, che operava comparando schemi metrici, Nagy si fonda soprattutto sulla comparazione e sullo studio della dizione (cfr., come filo conduttore, il suo esame della formula ϰλέος ἄφϑιτον). Per una origine lirica, da canti epico–lirici (eolici), è ancora A. PAGLIARO, Origini liriche e formazione agonale dell’epica greca, Acc. Naz. Lincei, Quad. 139 (cit. in bibl. XI), pp. 31–61. 70 Con | indico la fine di parola generalizzata, e cioè l’incisione (cesura o dieresi). Con W («punto coronato» della grafia musicale) indico l’elemento indifferente finale del verso, che, in virtù della pausa di fine verso, può essere realizzato indifferentemente da sillaba breve o lunga. Nella trattazione che segue riutilizzo i materiali da me raccolti in Estensione ... (cit. in bibl. XIII). Oggi come allora considero fondamentale FRÄNKEL, Der homerische ... (cit. in bibl. XIII) (invariato 1960, 1968), da cui avevo allora ed ho qui mutuato gran parte. Mia è la valutazione del colon
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h1 | u | h2 | j h3 | uch4 | k | h5 j h6 W A
B
C
Si tratta di un verso quantitativo, fondato cioè sull’alternanza di brevi e di lunghe, nonché sull’equivalenza di una lunga a due brevi (h = w). Quest’ultima viene data comunemente come una caratteristica della metrica ionica. Il ritmo è dattilico (h j). L’equivalenza di una lunga a due brevi è comprovata soltanto dal comportamento del secondo elemento del dattilo, il tempo debole (detto biceps da Paul Maas), dove dattilo e spondeo possono alternarsi; il tempo forte, il longum, non presenta mai soluzione in due brevi. Fondandosi sull’equivalenza di una lunga a due brevi, si dà convenzionalmente il valore di due more (ovvero tempi) alla lunga e di una mora alla breve: di conseguenza un dattilo vale 4 more, mentre un intero esametro ne vale 24 (dando convenzionalmente il valore di due more all’elemento indifferente finale). L’esametro omerico è il verso della recitazione, ovvero della pubblicazione orale dei poemi: lo sappiamo da testimonianze esterne e lo troveremo confermato da un esame interno del verso. I versi lirici sono strutturati in maniera da essere funzionalizzati ad una resa spiegatamente musicale: è così del tutto naturale che in essi non ci sia un regolare disporsi delle fini di parola e cioè delle incisioni, dal momento che è la musica a metterne in rilievo il ritmo interno. L’esametro invece non era cantato: in epoca arcaica esso era soltanto accompagnato musicalmente con lo strumento a corda in un modo che somigliava al moderno «recitativo» e che gli antichi chiamavano parakatalogè. La strutturazione del verso è quindi affidata alla parola recitata, a quella che i francesi chiamano métrique verbale. Per noi, che siamo lontani dall’uso vivo del verso e cioè dalla sua recitazione, tale struttura è frutto di una faticosa riconquista fatta attraverso uno studio statistico. Ora, appunto da statistiche da me condotte su Il. I, risulta che, al di là di pochissime eccezioni, ogni esametro ha tre incisioni, e precisamente nella zona A, nella B e nella C. Precisamente: nella A si ha l’89%, nella B il 100%,71 nella C il 79,2%. Se per A e per C si estende
|| breve, essenziale per l’ipotesi orale. Per una veduta d’insieme della tecnica e della storia della versificazione greca, cfr. L. E. Rossi, Verskunst, in Der Kleine Pauly, vol. 5 (1975), coll. 1210–1218 con corrig. et add. in fine del volume. 71 Statistiche su un solo libro (611 versi su più di 27 000) falsano i risultati solo per la incisione in B, che non manca quasi mai. Ma versi che mancano di B esistono, anche se sono rari: basterà ricordare il formulare διογενὲς Λαεϱτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ (Il. 7 volte, Od. 15 volte), costruito, in termini di more, come 6 + 8 + 10.
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l’indagine alle altre incisioni possibili (... h2 g | g | ; ... h5 | g | g |), si ottiene anche per A e per C il 100% con uno scarto minimo: i casi di incisioni del tutto saltate sono rarissimi. Vietata è l’incisione alla fine del terzo dattilo, che dividerebbe l’esametro in due esatte metà; ed estremamente rara è l’incisione al quarto trocheo (il cosiddetto «ponte» di Hermann). Questi due punti sensibili , che significa «ponte», ovvero disono indicati, nello schema, dal segno vieto di fine di parola. I due tabù vanno spiegati ritmicamente: il primo tende ad evitare monotonia (due emistichi uguali!), il secondo tende ad evitare l’impressione di fine prematura del verso (... h4 g | farebbe sentire come compiuto un tetrametro dattilico). Diverso sarebbe il discorso sull’esametro alessandrino e più tardo, che raffina ulteriormente la tecnica con un accumulo di altre leggi e di tabù. Ma a dare il giusto valore alle statistiche sull’esametro omerico ci si offre un’occasione preziosa. Si potrebbe infatti pensare che esse siano frutto del caso o della stessa struttura della lingua. Ma nella Nemea IX di Pindaro il primo verso della strofa si presenta apparentemente come un esametro, mentre è un verso lirico, e precisamente dattilo–epitritico. Ebbene, su undici ripetizioni strofiche dello stesso verso, solo due (36, 46) rispettano le pur larghe leggi di métrique verbale date qui per l’esametro: gli altri nove presentano violazioni di leggi fondamentali, come (in ordine d’importanza, ovvero in ordine crescente di inviolabilità) la mancanza di incisione in B (in Omero violazioni rare), il ponte di Hermann (in Omero violazioni rarissime), il divieto di divisione in due (in tutta la poesia esametrica praticamente nessuna violazione!). È una bella conferma del valore della métrique verbale solo per i versi recitativi; e d’altra parte ci assicura che le statistiche per le fini di parola sono frutto di scelte ritmiche precise. Dire però che l’esametro ha tre incisioni è soltanto una formulazione negativa. Un approccio positivo alla realtà ritmica del verso porta a riconoscere i quattro membri o cola a cui le tre incisioni danno vita. Ecco alcuni esempi di colizzazione, che si ricavano leggendo i primi sette versi dell’Iliade (i numeri indicano il valore dei vari cola misurato in more): Μῆνιν ἄειδε, | ϑεά, | Πηληϊάδεω | Ἀχιλῆος οὐλομένην, | ἥ μύρι’ | Ἀχαιοῖς | ἄλγε’ ἔϑηϰε πολλὰς δ’ | ἰφϑίμους | ψυχὰς | Ἄϊδι προΐαψεν ἡρώων, | αὐτοὺς δὲ | ἑλώρια | τεῦχε ϰύνεσσιν 5 οἰωνοῖσί τε | δαῖτα, | Διὸς δ’ | ἐτελείετο βουλή, ἐξ οὗ δὴ | τὰ πρῶτα | διαστήτην | ἐρίσαντε Ἀτρεΐδης τε | ἄναξ | ἀνδρῶν | ϰαὶ δῖος Ἀχιλλεύς.
7+3+8+6 6+5+5+8 4 + 6 + 4 + 10 6+5+5+8 8 + 3 + 3 + 10 6+5+7+6 7 + 3 + 4 + 10
L’elisione non ostacola l’incisione (vv. 2, 3, 5). Parole che o non portano accento, come enclitiche e proclitiche, o sono comunque non indipendenti (più
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genericamente prepositive e pospositive, che si situano cioè prima o dopo le parole a cui si legano) non contano come parole autonome per la métrique verbale. Prepositive (che si legano alla parola successiva) sono gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, ecc. (v. 6 ἐξ, τά, v. 7 ϰαί); pospositive (che si legano alla parola precedente) sono le varie enclitiche, le particelle, ecc. [v. 3 δ(έ), v. 4 δέ, v. 5 τε, δ(έ), v. 6 δή, v. 7 τε]. Tanto basta a dar ragione delle colizzazioni qui proposte. L’elastico disporsi delle tre incisioni (che pure, come abbiamo visto, rispetta leggi molto precise) crea quattro cola di estensione diseguale. L’incisione doveva essere marcata da una leggera pausa nella recitazione: solo così i cola potevano essere sentiti nella loro individualità e diversità, che dava vita e varietà alla recitazione. L’esametro si presenta così, secondo la felice formulazione di Hermann Fränkel, come una strofe in miniatura. Ora, dalle statistiche per le singole incisioni, risulta che lo schema più frequente di esametro è il seguente:
h1 w h2 | w h3 g | g h4 w | h5 w h6 W
6+5+5+8
Fra i primi sette versi dell’Iliade sono così costruiti i vv. 2 e 4. La maggior frequenza statistica di questa forma fa concludere che l’esametro mostra una certa tendenza all’equilibrio fra i quattro cola, e cioè all’equiparazione di essi dal punto di vista dei valori in more. Sensibilmente più lungo rispetto agli altri è soltanto l’ultimo, che è però sede, come vedremo (sez. I), di gran parte del mate5 6 riale formulare (l’adonio finale, dalla incisione bucolica in poi: | h w h W). Quanto qui si postula è che lo squilibrio morico fra i cola doveva tradursi in un nuovo equilibrio nella recitazione. È allora naturale che il colon finale, fatto prevalentemente di formule e cioè di materiale «saputo», scorra via più velocemente rispetto al resto del verso. Ma con schemi meno frequenti lo squilibrio in termini di more può esser molto maggiore: Il. I, 89 Il. I, 295 Od. XI, 224
σ ο ὶ | ϰοίλῃς παρὰ νηυσὶ | βαρείας | χεῖρας ἐποίσει 2 + 9 + 5 + 8 ἄλλοισιν δὴ | τ α ῦ τ ’ | ἐπιτέλλεο, | μὴ γὰρ ἔμοιγε 8 + 2 + 6 + 8 ἴ σ ϑ ’ | ἵνα ϰαὶ μετόπισϑε | τ ε ῇ | εἴπῃσϑα γυναιϰί 2 + 9 + 3 + 10
Per ottenere un approssimativo equilibrio, chi recita dovrà rallentare la dizione dei cola brevi di 2 o 3 more rispetto agli altri. Questo non solo perché chi recita è sollecitato a dare, pur nella varietà, una certa regolarità ritmica alla sua recitazione, ma anche perché il cosiddetto orizzonte di attesa del pubblico (per la prevalenza di esametri divisi equamente, come il tipo 6 + 5 + 5 + 8) va precisamente nella stessa direzione (cfr. sez. N sull’empatia). Si rileggano i versi nel
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loro contesto e si vedrà che il rallentando sul colon breve può avere anche un suo senso espressivo: Achille a Calcante («su di te nessuno degli Achei alzerà le mani»); Achille ad Agamennone («queste cose ordinale ad altri, non comandare a me»); Anticlea al figlio Odisseo («sappi queste cose per dirle poi a tua moglie»). Prove di tal genere, tuttavia, sconfinando nella stilistica, possono non soddisfare. Ma l’ipotesi qui presentata è confortata da un solido argomento linguistico. È noto che l’assenza di aumento in Omero produce forme non aumentate di tempi passati (imperfetti e aoristi) costituiti da monosillabo lungo: βῆ (andò), ἦ (disse), γνῶ, στῆ, ecc. Ora, nella stragrande maggioranza (85,4%) queste forme costituiscono da sole colon breve di 2 o 3 more (a seconda che siano o no accompagnate da un pospositivo): Il. VIII, 322 Il. I, 528 Il. III, 310
β ῆ δ ’ | ἰϑὺς Τεύϰρου, | βαλέειν δέ ἑ | ϑυμὸς ἀνώγει ἦ | ϰαὶ ϰυανέῃσιν | ἐπ’ ὀφρύσι | νεῦσε Κρονίων ἦ ῥ α , | ϰαὶ ἐς δίφρον | ἄρνας ϑέτο | ἰσόϑεος φώς
2+8+6+8 2+9+5+8 3+7+6+8
Già molti anni fa, nel 1906, Wackernagel72 aveva notato che tali forme verbali, per la mancanza dell’aumento (originariamente un fatto espressivo), si trovano ad avere una corposità morica inferiore alla loro importante funzione linguistica ed hanno quindi come bisogno di un rinforzo: secondo lui questo veniva dalla quasi costante collocazione di tali forme in principio di verso o di periodo. Aggiungendo questi casi residui (e cioè forme verbali all’inizio di verso o di periodo che non costituiscono colon a sé) ai nostri, passiamo dall’85,4% al 94,8%: ma è importante che il 90% di tutti questi casi (che è il rapporto fra 85,4 e 94,8) rispetti in più un’altra tendenza, quella cioè dell’isolamento in colon breve. La spiegazione qui proposta non si sostituisce a quella di Wackernagel, ma concorre con essa e la rafforza. Sembra quindi sicuro che il peso del quale i passati monosillabici erano venuti a mancare, per la mancanza dell’aumento e per la loro intrinseca insufficienza morica, tornasse ad essi dall’essere in assoluta maggioranza isolati in colon breve. La prova linguistica conferma con ben maggiore forza probante quanto faceva intravvedere la struttura dell’esametro come microstrofa e le conseguenti osservazioni di tipo stilistico fatte prima. È evidente quindi che il colon breve ha, relativamente ai cola più lunghi, una resa più rallentata che mette in maggior rilievo il materiale linguistico in esso contenuto; i cola più
|| 72 J. WACKERNAGEL, Kleine Schriften, Gottingen 1953, pp. 148 ss.
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lunghi sono resi, in proporzione, in presto. È così che si assicura l’equilibrio dei quattro cola che costituiscono la microstrofa.73 A noi importava qui definire e spiegare una legge di strutturazione interna dell’esametro omerico, che già, per testimonianze esterne, conoscevamo come legato alla recitazione. Ora abbiamo una prova interna: siamo riusciti a vedere le leggi che regolano l’estensione dei cola in funzione della recitatività del verso. Abbiamo stabilito così un criterio di lettura dell’esametro, intendendo per lettura una esecuzione (performance) cosciente dei valori che realizza. È come se, attraverso una registrazione magnetica, sentissimo realmente recitata la microstrofa esametrica, coi suoi “rallentando” e i suoi “accelerando”. Abbiamo ora una ragione in più – se mai ce n’era bisogno – per considerare l’esametro, fin dai suoi inizi documentati, frutto di una ormai collaudata perizia tecnica. E soprattutto esce di qui confermato il legame della forma metrica con almeno una delle manifestazioni della cultura orale, e cioè con la pubblicazione orale. La struttura del verso appare intimamente legata e funzionalizzata alla performance che ad esso è propria. In qual misura questo sia in rapporto anche con la composizione orale si vedrà da un resoconto sommario della formularità, che è ormai il momento di cominciare a trattare.
I. Formularità La principale caratteristica formale del testo poetico omerico è la formularità. Essa si presenta come ripetizione costante di versi interi o di parti di versi in situazioni usuali e ripetute (le scene tipiche) e in nessi narrativi, più o meno rilevati, anch’essi costantemente ripetuti. È il mezzo esterno e formale della stilizzazione epica. Per il valore contenutistico di «quando sorse l’aurora» noi troviamo due volte nell’Iliade e venti nell’Odissea l’intero verso ἦμος δ’ ἠριγένεια φάνη ῥοδοδάϰτυλος ἠώς.
Questo intero verso serve ad uno scopo narrativo ben preciso: ad evocare un determinato avvenimento, il sorgere dell’aurora (che, per la strutturazione in giorni del narrare epico, è assai importante e frequente); e ad evocarlo in un nesso sintattico ben preciso, di subordinazione temporale («quando»).
|| 73 Qualcosa di simile avviene per l’alessandrino francese, verso di illustre tradizione recitativa. Le affermazioni di Grammont (1913) sono oggi confermate su base sperimentale da G. FAURE, M. ROSSI, Le rythme de l’alexandrin, «Trav. de Linguistique et de Littérature» 6, 1 (1968), pp. 203 ss.
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Ma il caso più comune è quello di un nesso costituito da un nome (proprio o comune) e da un epiteto. Di qui partì Parry per il suo primo lavoro (1928). «Achille piè veloce», πόδας ὠϰὺς Ἀχιλλεύς, compare 31 volte e «Odisseo eccelso che molto sa sopportare», πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς, 38 volte nei due poemi. Importante è notare che queste due formule compaiono, come molte altre ma non tutte, nella stessa sede del verso, e cioè nella sua seconda parte. Indichiamo così il loro valore metrico: πόδας ὠϰὺς Ἀχιλλεύς ||
w h5 w h6 h ||
πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς ||
g h4 h h5 w h6 h ||
Ora, fra le tante cose che il personaggio di un poema epico può fare, succede che si debba esprimere qualcosa come «rispose». Per le formule nome–epiteto citate sopra c’è bisogno di due formule di risposta diverse, capaci di riempire la prima parte del verso, che è differente nei due casi: τὸν τὴν τοὺς
δ’ ἀπαειβόμενος προσέφη
|| h1 w h2 w h3 w h4
che precede la formula nome–epiteto di Achille, e τὸν τὴν
δ’ αὖτε προσέειπε
|| h1 h h2 w h3 g
che precede la formula nome–epiteto di Odisseo.74 Naturalmente gli eroi che possono «rispondere» sono ben più di due del tipo qui dato. In più, una notevole varietà di formule corrisponde alla varietà dei parlanti: si veda per esempio τὸν δ’ αὖτ’ Ἀλϰίνοος ἀπαμείβετο φώνησέν τε,75 dove la formula appare spezzata fra pronome e verbi. E naturalmente ogni personaggio può fare svariate azioni: Odisseo con la formula data prima, può || αὐτὰρ ὁ μερμήριξε, || ὣς φάτο γήϑησέν τε, || γήϑησεν δ’ ἄρ’ ἔπειτα, ecc.76 Tutte queste sono formule che appaiono più d’una volta, alcune addirittura svariate decine di volte: tanto basta per renderci sufficientemente sicuri della loro qualità formulare.
|| 74 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 10 ss. 75 EDWARDS, Homeric Speech ... (cit. in bibl. X), p. 4. 76 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), p. 11.
I poemi omerici come testimonianza di poesia orale | 61
Già le prime pagine del primo lavoro di Parry, da cui questi esempi sono presi, erano destinate a creare disorientamento fra gli studiosi, vorremmo dire anche fra i semplici lettori di Omero. La personalità creativa, così come si era venuta elaborando durante l’età romantica e come era stata nuovamente assunta dal neoidealismo, sembrava dissolta con lo svelare una tecnica compositiva che appariva l’esatto opposto della cosiddetta ispirazione (sezz. A, Q). Non si capivano due cose: che, per Omero, la personalità creatrice era già stata posta seriamente in discussione dall’analisi, nata da Wolf (e ben se n’era accorto Goethe); e che, volendo, una diversa forma di creatività restava comunque assicurata, solo che si considerasse il lavorare per formule – per così dire – un lavorare per unità più vaste, ma della stessa natura delle parole e dei nessi verbali. Una langue poetica più rigida delle altre (una langue orale, appunto), che non era comunque rigida al punto da impedire l’emergere di una parole. Lo sforzo degli omeristi successivi a Milman Parry è stato proprio nel senso di riconoscere questa parole (penso soprattutto al figlio Adam Parry). Se Meister (1921) aveva già accentuato il carattere artificiale della lingua dell’epos, più vero precursore di Parry era stato Witte (1913). A lui dobbiamo le prime osservazioni coerenti sul nascere di veri e propri sistemi, che ancora non avevano ricevuto il nome di formulari. Se ad un (corretto) genitivo ἡνιόχοιο deve corrispondere un accusativo dello stesso valore metrico, si crea l’eteroclito ἡνιοχῆα, invece di ἡνίοχον, che ha diverso valore metrico; su εὐρέι πόντῳ si crea εὐρέα πόντον, dal momento che εὐρὺν πόντον, di per sé corretto, ha lo svantaggio di non conservare il ritmo dattilico che la formula ha al dativo.77 Si tratta qui, come si vede, di violenze morfologiche, che Witte considerava ancora dovute alla costrizione del metro, ma che oggi si vedono meglio come produzione di una lingua formulare, che cresce epicamente su se stessa. Quando poi si vuole una formula finale diversa per «patria terra», ecco che si crea un sistema πατρὶς ἄρουρα, πατρίδος αἴης, πατρίδι γαίῃ, πατρίδα γαῖαν: e vane sono state le ricerche etimologico–semantiche di neogrammatici ed esegeti vecchio stile nel voler trovare diversi valori a ἄρουρα, γαῖα, αἴη.78 Si tratta qui di fatti lessicali, come si vede. Forse l’unico fatto che sembra ancor oggi ad alcuni uscire dalla dialettica formulare sono i vari tipi di violenza prosodica che vanno sotto il nome di allungamento epico e il cui studio è stato inaugurato da Wilhelm Schulze:79 ἀϑάνατος, con la sua sequenza di tre sillabe brevi (l’ultima può diven-
|| 77 WITTE, RE (cit. in bibl. XII), col. 2225. 78 WITTE, ibid., coll. 2244 s. 79 W. SCHULZE, Quaestiones epicae, Gütersloh 1892; per un aggiornamento della problematica, cfr. ora W. F. WYATT jr., Metrical Legthening in Homer, Roma 1969.
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tar lunga con consonante che segua e che chiuda, rendendola lunga, l’ultima sillaba), diventerà di misura coriambica, allungando la sillaba iniziale (h w h). È questa una delle cosiddette leggi di Schulze. Si tratta di fatti che appaiono in rapporto immediato con la metrica dattilica del verso, senza la mediazione di un sistema formulare. Ma ci sono altri fatti di violenza prosodica che appaiono invece in rapporto diretto con un sistema formulare: sulla formula frequente μερόπων ἀνϑρώπων si crea un μέροπες ἄνϑρωποι (w h h h h), dove l’ultima sillaba dell’epiteto viene sentita sempre come lunga in virtù del paradigma formulare. Il sistema formulare, come tale, vive sull’asse paradigmatico: la quantità breve dell’ultimo caso è come metafora della quantità lunga (richiesta dal metro) della formula più frequente; così come ἄρουρα–γαῖα–αἴη sono metafora l’una dell’altra, e come i fatti morfologici eterocliti sono metafora di quelli cosiddetti regolari. Nonostante molti tentativi recenti di riforgiare la definizione data da Parry della formula, la più valida resta ancora la sua: «un’espressione usata regolarmente, sotto le stesse condizioni metriche, per esprimere un’idea essenziale».80 Naturalmente la formula, per esser tale e appartenere all’armamentario dell’epica, deve essere tradizionale: questo concetto sarà sviluppato da Parry soprattutto nei suoi studi ulteriori.81 Bisognerà in seguito solo correggere parzialmente il concetto di assoluta fissità metrica (cfr. infra). A lui si debbono le prime descrizioni di vasti sistemi formulari. Dèi ed eroi al nominativo, al genitivo, la specializzazione di alcuni epiteti ad alcuni personaggi mentre altri epiteti sono generici (πολύμητις si applica solo a Odisseo, πόδας ὠϰύς solo ad Achille, mentre ἄναξ ἀνδρῶν, ϰρατερός, ecc. si applicano a più d’un eroe). I toponimi, le navi, i cavalli, lo scudo hanno loro sistemi formulari, alcuni dei quali sono stati ristudiati recentemente: scene di battaglia, navi, discorsi, ecc.82 Uno dei sistemi dove più delicata è la necessità di adattarsi alle varie esigenze è quello, iniziale di verso, per «disse» in fine di discorso diretto (M. W. 1 1 2 Edwards). Con valore da || h a || h w h abbiamo almeno quattro tipi,83 e cioè (con sillaba finale di volta in volta vocalica o consonantica) ἦ, ἦ ῥ’, ἦ ῥα, ὣς φάτ’, ὣς φάτο, ὣς ἔφατ’, ὣς ἄρ’ ἔφη (a cui va aggiunto l’unicum ὣς ἔφατο). La
|| 80 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 13, 272. 81 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 266 ss., 325 ss., rispettivamente del 1930 e 1932; cfr. HOEKSTRA, Homeric Modifications ... (cit. in bibl. X), p. 14. 82 Rispettivamente FENIK, Typical Battle Scenes ... (cit. in bibl. X); ALEXANDERSON, Homeric Formulae ... (cit. in bibl. X); LOHMANN, Die Komposition ... (cit. in bibl. VIII). 83 FRÄNKEL, Der homerische ... Hexameter (cit. in bibl. XII), p. 115.
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ricchezza di forme è richiesta dall’alta utilizzabilità del nesso narrativo «(così) disse». Quanto alla sede metrica, già prima di Parry84 era stata notata la frequenza 5 6 di nessi nell’adonio finale (h w h W): Ἴλιος ἱρή, πότνια Ἥρη, υἷες Ἀχαιῶν, ecc. Abbiamo già visto (sez. H) come il colon finale del verso, che con prevalenza statistica è un adonio, è il colon proporzionalmente più lungo e recitato con un tempo più affrettato rispetto al resto della microstrofa esametrica, ed è significativo che sia sede di tanto materiale formulare. Una correzione importante alla definizione parryana di formula è stata data da Hainsworth,85 che contesta l’aspetto della fissità metrica. Dal ricco materiale offerto da Hainsworth risulta che molte formule si presentano mobili (non legate, cioè, ad una precisa sede del verso), variamente modificate, passibili di espansione e di separazione. Per dare solo esempi del primo caso, è notevole che espressioni frequenti e dal chiaro aspetto formulare come μέγα ἔργον e ϰαϰὰ πολλά si presentino in tutte e quattro le posizioni possibili del verso:86 la sillaba lunga compare nel II, III, V e VI elemento lungo. Di espansione abbiamo dato sopra un esempio per formula di «dire». Questo richiede una revisione della definizione: e Hainsworth propone semplicemente «un gruppo verbale ripetuto», senza l’esigenza della fissità metrica. Un’altra correzione, almeno altrettanto importante, è stata proposta da Hoekstra, che si pone il problema della estensione del patrimonio formulare. Quanto in Omero è formulare? E quanto in Omero — si chiede con particolare accento Hoekstra — è tradizionale? Certamente non solo nessi frequentemente ripetuti sono formulari, ma anche nessi che eventualmente compaiono una volta sola, purché ci sia «sufficiente evidenza che siano stati usati dai predecessori di Omero».87 Θεὰ δασπλῆτις Ἐρινύς, per esempio, capita una volta sola (Od. XV, 234): da una parte l’epiteto, certo incomprensibile già agli antichi, mostra una sua arcaicità e tradizionalità (epiteto di divinità!); dall’altra sembra rientrare in sistemi formulari di divinità come ϑεὰ γλαυϰῶπις Ἀϑήνη e βοῶπις πότνια Ἥρη, che ne assicurerebbe la utilizzabilità come formula. È, quindi, una formula, anche se compare una volta sola. A considerazioni di tal genere è ancora aperto tutto il testo di Omero. Quando siano rette da prudenza metodica, hanno il pregio di aprire prospettive sulla fase primitiva dell’epos: sia che a
|| 84 WITTE, RE (cit. in bibl. XII), col. 2244. 85 HAINSWORTH, The Flexibility... (cit. in bibl. X), pp. 33 ss. 86 HAINSWORTH, ibid., pp. 55, 143. 87 HOEKSTRA, Homeric Modifications ... (cit. in bibl. X), pp. 13 s.
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questi momenti si dia il nome di fase pre–omerica (come fa Hoekstra), sia che si dia loro il nome di fase epica arcaica (come preferisco fare io). C’è poi un modo di procedere che permette di vedere le formule nel loro farsi. Di cronologie assolute nel campo della dialettologia greca siamo purtroppo a corto; ma le relative permettono di stabilire un prima e un dopo. La formula come spia linguistica non è fine a se stessa: tradisce uno sviluppo della formula stessa. Per esempio, λοῦσεν ϰαὶ χρῖσεν ἐλαίῳ, con il ν efelcistico che chiude una sillaba e con quello che evita lo iato, può esser nata sulla falsariga del plurale λοῦσαν ϰαὶ χρῖσαν ἐλαίῳ;88 ἡδέος οἴνου, con la non operatività del digamma originario di «vino», può esser nata sulla falsariga di ἡδέι οἴνῳ, dove il digamma era operante per evitare iato. Ma c’è di più. Usener89 aveva creduto di trovare in versi come Il. I, 141 νῦν δ’ ἄγε νῆα μέλαιναν | (Ƒ)ἐρύσσομεν εἰς ἅλα δῖαν
la prova di una sutura, all’incisione mediana, fra due diverse componenti metriche (un hemiepes femminile e un enoplio) a causa della aporia prosodica prodotta dalla presenza dell’originario digamma. Lasciamo impregiudicata la questione dell’origine dell’esametro, come abbiamo detto (sez. H): ma questa non ne è una prova. Il procedimento di Hoekstra90 fa vedere nell’incisione mediana la sutura non di due componenti metriche, ma di due componenti formulari. Due elementi formulari che, dopo la scomparsa del digamma, possono unirsi a formare un sol verso, prosodicamente ineccepibile. La storia della dizione formulare acquista, così, in profondità cronologica e storica.91 Riprendendo il problema della estensione del materiale formulare, c’è da chiedersi in concreto se una approssimazione è possibile in percentuali. Sembra in partenza difficile, ma è certo che si dovrà lavorare ancora molto, sperando in documentazione ulteriore, soprattutto linguistica. Nei suoi studi successivi Parry, seguito da Lord,92 tendeva ad estenderla molto; lo stesso fa Notopoulos,93 interessato (come vedremo, sez. O) a formularizzare e cioè – secondo lui – a
|| 88 HOEKSTRA, ibid., p. 165. 89 H. USENER, Altgriecbischer Versbau, Bonn 1887, pp. 18 ss. 90 HOEKSTRA, Homeric Modifications ... (cit. in bibl. X), p. 60. 91 Messo in luce da ROSSI, Wesen und Werden ... (cit. in bibl. X), pp. 165 s. 92 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 301 ss.; LORD, The Singer ... (cit. in bibl. X), pp. 141 ss. 93 NOTOPOULOS, Homer, Hesiod ..., specialmente pp. 180 ss.; The Homeric Hymns ..., specialmente pp. 355 ss.; Studies ..., specialmente pp. 28 ss. (tutti citt. in bibl. X).
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oralizzare Esiodo, Inni omerici e Ciclo. Da ultimo J. A. Russo94 è arrivato ad assumere sotto il concetto di formula nessi sintattici ricorrenti, del tipo τεῦχε ϰύνεσσιν e δῶϰεν ἑταίρῳ (per altro già in Parry). Il passo da questa posizione alla linguistica generativa è breve, ed è stato fatto da Nagler.95 Certi schemi sintattico–ritmici tendono a riprodursi, a generarsi da una matrice: ma allora, agli scopi puri e semplici di una definizione di quello che in Omero è formula e di quello che non lo è, tale procedere diventa pericolosamente vago. Non mancavano già in Parry spunti in tal senso,96 per quello che veniva chiamato il «gioco dell’analogia». Od. XII, 369 ἀμφήλυϑεν ἡδὺς ἀυτμή e VI, 122 ἀμφήλυϑε ϑῆλυς ἀυτή, «(mi) si sparse all’intorno un dolce odore», «(mi) circondarono grida femminili», sono espressioni diverse, che si richiamano prepotentemente l’una l’altra al di là della possibilità che si tratti di un caso. Sono le sottili operazioni della memoria analogica (il cosiddetto orecchio interno), che abbisognerebbero di approfondimento su piano linguistico–psicologico (cfr. sez. N).97 Posto che in Omero una formularità è presente, c’è da chiedersi quale sia la corretta esegesi che va condotta su questo dato di fatto. Ricordiamo ancora una volta che originariamente Parry non aveva portato prove per l’oralità, o meglio non aveva cercato affatto di dimostrarla (sez. A). La formularità è, sì, presente in altre epiche orali, ma in misura inferiore a quella omerica (cfr. sez. N);98 il grado di formularità, insomma, varia sensibilmente nelle varie tradizioni orali. Ora, è essa condizione necessaria ed eventualmente sufficiente per l’oralità? Penso che sulla sua sufficienza non sia possibile una risposta positiva: vedremo meglio in seguito come anch’essa sia un indizio, che acquisterà valore nel contesto dei molti altri. Quanto alla sua necessità, la domanda è certo mal posta: meglio sarebbe domandarsi quale può essere la sua funzione. Troppo si è parlato della formularità come espediente mnemotecnico: il cantore epico, per aiutarsi nella creazione del canto, pescherebbe in un repertorio più o meno fisso di formule. Ma una simile impostazione risente ancora troppo delle categorie della letteratura scritta: c’è un accento troppo esclusivo sul destinatore o autore, che tra-
|| 94 J. A. RUSSO, «Yale Class. St.» 20 (1966), pp. 217 ss. 95 Μ. N. NAGLER, «Trans. Amer. Philol. Ass.» 98 (1967), pp. 269 ss.: Spontaneity ... (cit. in bibl. X). 96 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 68 ss., specialmente 73 ss.; 319 ss.; cfr. A. PARRY, ibid., Introduct., pp. XXXII s. 97 Qualcosa di simile richiama G. L. BECCARIA, L’autonomia del significante, Torino 1975, a proposito di schemi sintattico–ritmici frequentemente ricorrenti in Dante. 98 BOWRA, Heroic Poetry (cit. in bibl. XI), cap. VI; LORD, The Singer ... (cit. in bibl. X), pp. 50, 53; KIRK, The Song ... (cit. in bibl. VIII), pp. 89 s.; cfr. sez. N.
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scura la componente destinatario o pubblico. Anche gli ascoltatori avevano bisogno di punti di riferimento costanti, e questi erano dati dalla fissità formulare (nonché tematica).99 Il pubblico a sua volta rimbalza le sue esigenze, le sue attese sul cantore. Questo avviene, sia pure in forma molto più mediata, perfino nella letteratura scritta, nella silenziosa composizione del libro. Nella celebrazione collettiva, che è la recitazione o esecuzione o performance della narrazione epica, questo contatto avviene in forma molto più immediata, tanto da condizionare a sua volta il processo compositivo stesso. Ne riparleremo a proposito della sinossi degli indizi di oralità e a proposito dell’empatia (sez. N). Possiamo portare qui provvisoriamente una prova, negativa, che risulterà più chiara in seguito (sez. O). I poemi omerici, con una formularità loro propria, fanno singolare contrasto con tutto il resto della letteratura greca. Le opere successive o presentano (ma solo in parte) una formularità sostanzialmente omerica (Esiodo, Inni, epigramma ed elegia) o non ne presentano alcuna, né omerica né autonoma (lirici). Se per i poemi omerici qualcuno potrà ancora avere dubbi sulla contemporaneità di parte della loro composizione con l’esistenza della tecnologia scrittoria (sez. M), per le opere posteriori questo dubbio non sussiste: da Esiodo in poi la letteratura ha a disposizione tale tecnologia e mostra di farne uso, con di fronte un Omero già troppo canonizzato per essere ancora in circolazione esclusivamente per ora vatum.
L. Economia formulare Della formularità resta da esaminare un altro aspetto. Si è visto come la lingua omerica sia polimorfa, si allontani cioè dalle caratteristiche di un sistema, che tenderebbe ad essere economico. Molto più della lingua a tale economia si avvicinano i sistemi formulari, senza però realizzarla neanche in misura molto forte. Parry, nell’entusiasmo della sua scoperta, tendeva a ipervalutare l’economia della formularità epica. Conviene intanto sgombrare il campo da quelli che doppioni non sono (che non violano, cioè, l’economia): μελαινάων ἐπὶ νηῶν e 4 5 6 ἐυσσέλμων ἐπὶ νηῶν hanno la stessa misura metrica (g h h h w h h ||), ma l’una formula comincia per consonante e l’altra per vocale, in modo da rispondere ad esigenze prosodiche diverse; ugualmente per δῖος Ὀδυσσεύς e ἐσϑλὸς Ὀδυσσεύς. In alcuni casi occorre una valutazione linguistica precisa. Le due formule di «dire» finali di verso, εἶπέ τε μῦϑον || e φώνησέν τε || («e disse»),
|| 99 DAVISON, in WACE, STUBBINGS, A Companion ... (cit. in bibl. VII), p. 216; DIHLE, Homer– Probleme (cit. in bibl. VIII), p. 74.
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sembrano non essere doppioni: ma sono in realtà diventate due formule diverse solo quando si sia persa l’operatività del digamma (Ƒεῖπε), come in Il. VII, 277 e negli Inni; prima, quando il digamma era operante (in tutti gli altri casi, per esempio Il. XI, 647), erano doppioni, cominciando tutte e due per consonante.100 Parry giustificava molti doppioni con quello che chiamava il gioco dell’analogia.101 Per ποντοπόρος νηῦς e νηῦς εὐεργής richiamava νηὸς ... ποντοπόροιο, ποντοπόροισι νήεσσι e εὐεργέα νῆα: come dire che i due diversi epiteti fanno entrambi parte di diversi sistemi formulari per «nave», in casi e numeri diversi e con valore metrico diverso. È una conflazione analogica di varie parti di sistemi associati per «nave». Ma in alcuni casi si tratta di veri e propri doppioni, senza possibilità di giustificazioni di alcun tipo, che vanno perciò accettati come tali. Gli esempi sarebbero molti, e bisognerebbe ancora setacciarli e ordinarli.102 Una formula comune come πολυφλοίσβοιο ϑαλάσσης || ha un doppione in ϑαλάσσης εὐρυπόροιο || (ambedue finali di verso). Nel sistema per «lancia» c’è, al dativo, ὀξέι δουρί || ed ἔγχει μαϰρῷ || (ambedue finali) perfettamente equivalenti e paralleli; ma al nominativo per δόρυ χάλϰεον e δόρυ μείλινον (cfr. χάλϰεον ἔγχος e μείλινον ἔγχος) si può sospettare forte arcaicità dell’epiteto μείλινος,103 così che l’altra formula potrebbe essere sorta in seguito, senza per altro rimpiazzare l’arcaismo: ma quest’ipotesi non è assolutamente provabile sulla base dell’esame dei passi singoli (si veda la distribuzione delle formule nei vari libri, che appare del tutto casuale104). In alcuni casi, trattandosi di epiteti di divinità, si può ipotizzare la maggiore antichità dell’epiteto più caratterizzante: fra ἄναξ Διὸς υἱὸς Ἀπόλλων e ἄναξ ἑϰάεργος Ἀπόλλων certo il secondo ha buona probabilità di essere il più antico; ma non andrebbe dimenticata, in favore di un insorgere coevo dei doppioni, la pluralità di appellazioni divine, che tanta parte ha più tardi nella vita e
|| 100 E cfr. in più ϰαὶ πϱοσέειπε, EDWARDS, Homeric Speech ... (cit. in bibl. X), p. 12. 101 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 173 ss. 102 L’interesse per la ricerca dei doppioni formulari è venuto crescendo man mano che si scopriva che la forte economicità postulata da Parry era solo una tendenza e non una norma rigida. Segnalazioni in ROSSI, Wesen und Werden ... (cit. in bibl. X), pp. 164, 165, 167 s., 172, dove avrei dovuto aggiungere almeno PAGE, History ... (cit. in bibl. VIII), pp. 227, 266 s., 274; oggi andrebbero segnalati ALEXANDERSON, Homeric Formulae ... (cit. in bibl. X), specialmente pp. 40– 43; EDWARDS, Homeric Speech ... (cit. in bibl. X), specialmente p. 35; EDWARDS, The Language of Hesiod (cit. in bibl. X), pp. 55–73; N. J. RICHARDSON, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford 1974, specialmente pp. 31, 47, 49–52. 103 PAGE, History ... (cit. in bibl. VIII), pp. 239 ss. 104 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), p. 183.
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nella letteratura per la formalizzazione della preghiera.105 In altri casi si può proporre recenziorità, addirittura non epicità di alcuni doppioni. Fra Φιλοίτιος ὄρχαμος ἀνδρῶν (Od. XX, 185, 254) e βοῶν ἐπιβούϰολος ἀνήρ (ibid., 235 ecc., 4 volte) il secondo, che è anonimo (Od. III, 422 non è un parallelo, ché non è anaforico), è quasi sicuramente più tardo:106 l’anonimità non è epica (cfr. sez. B)107 e il doppione può appartenere a fase più tarda. In alcuni casi la necessità della variazione può presentarsi per ragioni di contesto. Di fronte alla formula frequentissima νεφεληγερέτα Ζεύς (30 volte) in un solo caso (Il. XVI, 298) abbiamo ϰινήσῃ πυϰινὴν νεφέλην στεροπηγερέτα Ζεύς, per semplice variatio contestuale. In altri casi la variazione può essere dettata da ragioni più sottili. La formula usuale per «verso le navi» con valore di hemiepes è νῆας ἐπὶ γλαφυράς (16 volte); una sola volta (Il. XXIV, 298) si trova νῆας ἐπ’ Ἀργείων, dove a parlare è Ecuba che fa presenti a Priamo i pericoli dell’andare alle navi «degli Achei», e cioè «dei nemici», a riscattare da Achille il cadavere del figlio Ettore.108 Questo può ben essere espediente ancora orale: negandolo aprioristicamente come tale, e accreditandolo solo a composizione scritta, si attribuirebbe all’epica orale una rigidità eccessiva, legata in modo troppo esclusivo alla comunicazione di un raggio troppo ristretto di informazione. Ma anche nei casi di veri doppioni, dove a noi sia precluso per mancanza di ulteriori materiali l’accertamento di procedimenti analogici (quanto dell’epica arcaica è andato perduto?), non si può escludere un gusto puro e semplice di variatio: esso sarebbe pur sempre ristretto entro certi limiti, non confrontabili certo con la quantità di violazioni che si trovano nella poesia esametrica anche immediatamente posteriore a Omero, come vedremo oltre (sez. O). C’è solo da chiedersi se alcuni di questi doppioni non tradiscano una elaborazione della tecnica compositiva che vada oltre la fase orale. Una esemplificazione esauriente sarebbe qui fuori luogo: limitiamoci ad alcuni casi. Un nesso ἀειϰέα μήδετο ἔργα (Il. XXII, 395 = XXIII, 24), costruito sul nesso ἔργον ἀειϰές, fa vedere come doppione arbitrario un ἐμήσατο ἔργον ἀειϰές (Od. XI, 429):109 e qui almeno il sospetto di elaborazione scritta è più che lecito. Esistendo un nesso τοῖσι δὲ ϰαὶ μετέειπε per «e ad essi rispose» e dovendolo applicare a un Agelao, ci si aspetterebbe tale nesso più Δαμαστορίδης Ἀγέλαος (Od. XX, 321; XXII, 212, 241):
|| 105 ED. FRAENKEL, Aeschylus. Agamemnon, Oxford 1950, ad v. 160. 106 ROSSI, Wesen und Werden ... (cit. in bibl. X), p. 168. 107 JACHMANN, Der homerische Schiffskatalog ... (cit. in bibl. VIII), pp. 119 ss.; cfr. sez. B. 108 ALEXANDERSON, Homeric Formulae ... (cit. in bibl. X), p. 24. 109 HAINSWORTH, The Flexibility ... (cit. in bibl. X), p. 94 e n. 3.
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ma a Od. XXII, 131 = 247 troviamo τοῖς δ’ Ἀγέλεως μετέειπεν, ἔπος πάντεσσι πιφαύσϰων, dove la stessa morfologia del nome proprio (nominativo con metatesi quantitativa) fa pensare ad elaborazione molto più tarda.110 Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma – ripeto – è proprio questo delle violazioni dell’economia formulare un campo in cui la critica omerica deve lavorare e valutare. I criteri a suo tempo applicati da Parry sulla base dell’analogia andrebbero riveduti, ma solo tenendo conto di altri fattori, non negandoli in blocco. C’è per esempio da chiedersi quale ruolo può aver svolto, nel campo dei doppioni formulari ed eventualmente in altri campi, l’improvvisazione. Le opinioni avanzate su questo tema in campo omerico sono le più varie: vanno da una totale negazione a una totale affermazione, e conviene esimersi qui dal discuterle. Se improvvisazione è in sé una forma d’invenzione, si tratta di stabilire in partenza quali sono gli elementi primari che l’improvvisazione estemporaneamente combina in una sorta di bricolage. Trattare teoricamente a fondo l’argomento equivarrebbe a impegolarsi nel problema stesso dell’origine del linguaggio. È chiaro che a combinarsi le une con le altre sono unità sempre preesistenti – al momento in cui noi siamo in grado di studiare il procedimento –, unità che, con il progressivo affermarsi della tradizione epica, acquistano sempre maggiore estensione e rilevanza (formule prima meno e poi più estese ed elaborate; temi e blocchi compositivi sempre più complessi; ecc.). Se quindi è sbagliata la posizione di chi vuole il canto epico affidato ad un’improvvisazione totale e libera, è però giusto darle un posto, determinandola e qualificandola in modo il più possibile circostanziato: il cantore dispone di un certo repertorio di formule e temi (come il parlante di parole e nessi e periodi) e opera una combinazione in modi che non possono essere sempre del tutto fissi; una certa elasticità è data proprio dalle elastiche associazioni della memoria e in questo senso il criterio analogico di Parry e l’orecchio interno vanno accettati come utili strumenti euristici. Se ci raffiguriamo – come cerchiamo di fare in tutta la nostra indagine – una fase in cui l’epos cresce vitalmente su se stesso, dobbiamo ammettere che la stessa funzionale elasticità della dizione formulare lascia un certo spazio a processi d’improvvisazione. Alcune libertà e violazioni di quello che a Parry sembrava inizialmente un sistema rigido e rigidamente economico possono essere quindi dovute alla necessità d’improvvisare, beninteso usando di più o meno definite unità compositive. In altre parole: anche l’improvvisazione può essere stata alla base del fatto che la formularità ci appare oggi meno economica di quanto apparisse a Parry e la dizione formu|| 110 HOEKSTRA, Homeric Modifications ... (cit. in bibl. X), pp. 39 s.
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lare più elastica e più ricca. Vedremo in seguito (sez. O) un rinascere tardo della prassi dell’improvvisazione, ma in condizioni e con materiali ben diversi. Su un nascere e un decadere dell’economia formulare si possono riproporre i vari stadi ipotizzati da Parry stesso:111 uno stadio di sovrabbondanza iniziale, quando la tradizione non si è ancora irrigidita, quando non ha ancora raggiunto un grado abbastanza elevato di canonicità (varianti locali, prima che l’epos divenga veramente ecumenico?); uno stadio di economia, per così dire, ottimale, che per le considerazioni sopra fatte non si deve tuttavia pretendere totale; e infine uno stadio di abbandono della economicità ottenuto attraverso contaminazione di formule esistenti o di invenzione di formule equivalenti del tutto nuove, che tradisce un allontanamento dalla genuina tradizione epica orale e — a seconda del suo accertabile grado di elaborata variatio voluta e intenzionale — un passaggio dalla tradizione orale alla possibile utilizzazione della scrittura. Dove questa volontà e ricercatezza (e elaborazione!) è palese è negli autori che seguono Omero, per raggiungere un grado ancora superiore negli autori alessandrini (sez. O).
M. Mistione di oralità e scrittura Ma ancor più delle violazioni dell’economia – principio elastico, come abbiamo visto – ad una molto probabile mistione di oralità e scrittura possono far pensare le violazioni della formularità stessa, che sfumano naturalmente nel concetto di recenziorità linguistica. È a Hoekstra112 che dobbiamo la massa più compatta di osservazioni nel senso di una crescita del materiale linguistico–formulare epico su se stesso. Hoekstra sfrutta alcuni sviluppi linguistici per tracciare una storia interna delle formule: introduzione del ν paragogico ovvero efelcistico, perdita del digamma iniziale, metatesi quantitativa (cfr. sez. L). Naturalmente, in mancanza di sicuri appigli cronologici per i fatti linguistici,113 non possiamo ancorare questi sviluppi alla data d’introduzione dell’alfabeto. Ma questi fatti si possono collegare con la massa ingente di osservazioni soprattutto linguistiche la cui paternità è da dare pur sempre alla vecchia corrente analitica, ancora preziosa e da anni, in fondo, troppo poco accreditata.114 Recentemente Dihle115 ha spezzato || 111 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), p. 180. 112 HOEKSTRA, Homeric Modifications ... e, per gli Inni, The Sub–Epic Stage ... (ambedue citt. in bibl. X). 113 Cfr. le obiezioni di C. J. RUIJGH, «Lingua» 18 (1967), pp. 93–96. 114 Cfr. per es. MARZULLO, Il problema omerico (cit. in bibl. VIII), che ne fa opportunamente largo uso.
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una lancia per la mistione di oralità e scrittura con un’analisi dettagliata della cosiddetta Eneide (Il. XX, 75–352) e dell’«inganno fatto a Zeus da Hera» (Il. XIV, 153–351): due sezioni in cui, più che i fatti recenziori, si accavallano le violazioni della formularità, accanto a riusi più o meno fedeli della formularità stessa. Quello che va rifiutato della vecchia analisi è la pretesa di sceverare ed espungere (esempi illustri: Fick per la lingua; Jachmann per i contenuti): l’amalgama è irreversibile e non si possono riportare i poemi ad una loro facies totalmente orale, come non li si poteva ridurre a veste linguistica eolica (Fick). Un altro prezioso strumento di lavoro ulteriore sono i materiali forniti da Hainsworth, che, con la dimostrazione documentata della flessibilità della formula, ha liberato la formularità parryana dalla sua rigida fissità (sez. I), che tra l’altro non era stato l’ultimo degli argomenti per cui le scoperte di Parry erano state rifiutate da tanti. È ancora prematuro prender posizione di fronte a fatti come116 νῆας ἐυσσέλμους ἅλαδ’ ἑλϰέμεν ἀμφιελίσσας accanto a νῆας ἐυσσέλμους e νέας ἀμφιελίσσας («separazione» e «conflazione» di formule), perché, in mancanza di documentazione, dovremmo possedere meglio il meccanismo mentale compositivo del bardo epico: ma l’ipotesi di una utilizzazione della scrittura va vista almeno come probabile. Perché, del resto, le anomalie dal punto di vista formulare e i fatti non epici si accumulano in zone che tradiscono una loro origine più tarda, e fra gli altri, per esempio, nei paragoni (Shipp)?117 I paragoni violano vistosamente non solo l’economia, ma le stesse regole della tecnica formulare, tendendo a variare: siamo ad uno stadio avanzato dello sviluppo nel quale si fa sentire più forte che mai l’esigenza della libertà di inventare. Qui l’epica appare svilupparsi nelle medesime condizioni in cui vedremo svilupparsi la poesia posteriore (sez. O): contenuti nuovi nelle strettoie di una lingua e di un metro che sempre più si avvicinano al concetto di stile da rispettare, la cui funzionalità è ben diversa da quella della dizione formulare vera e propria, strettamente legata alla composizione e alla performance orali. Ma va ricordato forse ancora una volta che le vie della rielaborazione sono infinite: la separazione del grano dal loglio diventa impossibile. E va tenuto anche presente che spesso le sezioni più elaborate sono quelle contenutisticamente più arcaiche, più centrali nello sviluppo dell’azione. Né si può risolvere diversamente il problema, più volte dibattuto, della ripetizione di discorsi interi o di passi interi a distanza. Odisseo racconta due volte
|| 115 DIHLE, Homer–Probleme (cit. in bibl. VIII), pp. 94 ss., specialmente 109 ss. 116 HAINSWORTH, The Flexibility ... (cit. in bibl. X), p. 93. 117 J. A. RUSSO, «Arion» 7 (1968), 287 ss.
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la storia del suo arrivo in Egitto (Od. XIV, 258–272; XVII, 427–441; e cfr. la variazione all’inizio, XIV, 257, non ripresa!) con le stesse parole, dove non tutto sembra formulare, dove non tutto cioè sarebbe indipendentemente ricreabile con gli strumenti dell’armamentario formulare; e Odisseo stesso mette in bocca a Menelao esattamente le stesse parole in IV, 333–350 e XVII, 124–141. È stato Hoekstra118 a riportare recentemente l’attenzione su questi fatti, che sono numerosi. Ripetizioni di altro tipo, per le quali è da escludere il meccanismo formulare, sono i Leitmotive o ripetizioni tematiche: ἔνϑεν δὲ προτέρω πλέομεν ἀϰαχήμενοι ἦτορ (Od. IX, 62, 105, 565; X, 77, 133)119 sono ripetizioni con valore tematico, a metà fra la formula e la scena tipica, senza essere né l’una né l’altra, che collegano i vari episodi delle narrazioni di Odisseo;120 così come Αἴας δ’ οὐϰέτ’ ἔμιμνε, βιάζετο γὰρ βελέεσσι (Il. XV, 727; XVI, 102).121 Tutto questo va spiegato, insieme con tanti altri tipi di richiamo a distanza (Schadewaldt, Lesky), non tanto con una volontà unificatrice di un rielaboratore (Bearbeiter) – volontà che sarebbe comunque troppo tenue per legare insieme i poemi, che troppo spesso, per così dire, partono per la tangente –, quanto come frutti episodici di una facilitazione alla variazione compositiva che può essere offerta solo dalla tecnologia scrittoria. Una riprova l’abbiamo nel fatto che il testo omerico, in una forma che non doveva essere molto diversa da quella che è arrivata fino a noi, era già a disposizione di Esiodo, degli autori di alcuni Inni, dei lirici.122 Ora risulterà chiaro quanto all’inizio annunciavo come proposta di una impostazione nuova del problema omerico: che i poemi, cioè, non siano documento integrale di oralità – come sarebbe se con essi ci fosse data la fotografia di una fase ancora originariamente orale – bensì come testimonianza di una fase orale, negare la quale sarebbe oggi impresa disperata, ma che ci si presenta comunque contaminata con procedimenti compositivi scrittori. In altre parole: ad una fase tutta orale, anteriore alla diffusione della scrittura, segue una fase mista, in cui è ragionevole pensare che alcuni cantori per alcune sezioni del canto epico si servissero del mezzo scrittorio. Il mezzo scrittorio non serve certo alla pubblicazione (la società continua ad essere aurale), bensì alla composizione (in misura sempre crescente) e alla trasmissione. Ora, per i poemi omerici una famosa fissazione scrittoria c’è ed ha un nome: è la
|| 118 HOEKSTRA, Homeric Modifications... (cit. in bibl. X), pp. 18 ss. 119 HAINSWORTH, The Flexibility ..., p. 41; ROSSI, Wesen und Werden ..., p. 173 (ambedue citt. in bibl. X). 120 LESKY, RE (cit. in bibl. VII), col. 795. 121 L. E. ROSSI, «Riv. Fil. Class.» 92 (1964), pp. 82 ss. 122 È la tesi di MARZULLO (cit. in bibl. VIII), passim; cfr. soprattutto le pagine finali.
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cosiddetta redazione pisistratea, ma essa è totale (questa è la differenza che viene sempre dimenticata rispetto alle possibili redazioni anteriori). Chi nega recisamente la redazione pisistratea trova una giustificazione nel farlo solo nella tenacia di chi vede in tale redazione la prima fissazione scritta dei poemi: e ha ragione Heubeck123 a dire che si dovrebbe parlare «di una recensio meglio che di una redazione: il concetto di redazione evoca troppo facilmente l’immagine del poeta finale «B», al quale saremmo debitori dei poemi nella loro forma monumentale». Ha ragione chi vede nella redazione pisistratea una redazione, una delle molte, quanto dissimili l’una dall’altra non è possibile per noi dire; quella, certo, che ha avuto maggior fortuna e che è poi diventata canonica. È in questo senso che è giusto affermare che, «se Pisistrato non fosse testimoniato, dovremmo inventarlo»:124 assurdo infatti che, di fronte alla solerzia con cui Atene già nel VI secolo costruisce il suo impero culturale, non venisse apprestato un testo per le recitazioni panatenaiche.125
N. Sinossi degli indizi di oralità. Empatia. Comparazione È ora di raccogliere quanto si è argomentato fin qui in una ordinata sinossi degli indizi di oralità. Siamo partiti dall’enciclopedismo dei poemi: specchio fedele e completo di una società, che va vista in dimensione diacronica, ché molti sono gli elementi culturali che si presentano isolati, arcaici rispetto ai più recenti, ma tutti accolti in un quadro artificialmente sincronico, che è tipico di tutte le tradizioni epiche. È vano quindi tentar di sceverare e di creare un quadro, che sarebbe ancor più artificiale, con caratteristiche culturalmente unitarie. L’epica trascina i suoi materiali come un torrente i suoi detriti. È stato detto (cfr. sez. C) che l’epica orale fa una distinzione assai meno netta fra passato e presente di quanto non facciano le civiltà scrittorie: non è un caso che la vera storia nasca in Grecia in piena civiltà scrittoria. L’anacronismo può avere, al limite, una sua funzione narrativa. Ma a tutto il materiale epico nel suo insieme inerisce una funzione descrittiva e normativa, che è tanto più forte in quanto il poema epico è l’unico veicolo dei contenuti essenziali di una civiltà, è il testo di cultura che convoglia i valori universali (sez. C). L’anacronismo, l’incongruenza narrativa e molte altre caratteristiche che differenziano l’epica orale dall’opera letteraria
|| 123 HEUBECK, Die homerische Frage (cit. in bibl. VI), p. 232. 124 CARPENTER, Folk Tale ... (cit. in bibl. VIII), p. 12. 125 Per il problema, e la distinzione dei pareri, basterà rimandare a LESKY, RE (cit. in bibl. VII), coll. 832 ss. e a HEUBECK, Die homerische Frage (cit. in bibl. VI), pp. 228 ss.
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nata dalla scrittura (non ultima la strutturazione sintattica a paratassi invece che a ipotassi) non solo soddisfano pienamente il controllo dell’uditorio, ma rispondono anche alle esigenze del compositore–recitatore, che con il suo uditorio si immedesima. Legata all’enciclopedismo abbiamo visto l’ecumenicità. Il concetto di tribù o gruppo ristretto è quello che nei paesi anglosassoni viene reso col concetto di face–to–face–society.126 Anche se non siamo in grado di ricostruire in modo univoco la società che per prima ha dato origine al costume di recitare l’epos, possiamo vederne rispecchiata l’ecumenicità nell’ampiezza tematica messa in luce all’inizio (sezz. B, C). La principale caratteristica dei contenuti dell’epos è la loro tipicità: «la descrizione omerica della vita psichica mostra una marcata tendenza a rappresentare ciò che è comune e pubblicamente osservabile, a preferenza di ciò che è idiosincratico e privato».127 Tale tipicità, che porta alle varie forme di stilizzazione epica, è fatta per interessare tutti i componenti del gruppo, solo raggiungibili dalla voce di chi recita in quella celebrazione comunitaria che è la recitazione epica.128 La formularità e la tendenza all’economia formulare si sono rivelate indizi forti sul piano formale. La ripetizione stichica del verso, l’esametro, con la sua regolarità e la sua rispondenza alle attese del pubblico che ascolta, è stata vista come una funzione primaria della pubblicazione orale (sez. H). La formularità appare invece legata in primo piano alla composizione orale, ma non esclusivamente ad essa, ché anche la pubblicazione, e cioè la reazione di un pubblico, vi rientra in pieno: non quindi come puro espediente mnemotecnico (sez. I, in fine), che sarebbe solo in funzione di una composizione vista astrattamente e slegata dalla sua occasione e dai suoi destinatari, bensì come fatto di legame di gruppo, funzionalizzata alla ricettività e quindi anche alla memoria di chi ascolta. Una migliore comprensione di una realtà che a noi resta comunque sostanzialmente estranea ci potrebbe venire dalla conoscenza di studi socio– psicologici: e soprattutto da studi sui meccanismi della memoria e sullo
|| 126 È d’obbligo qui citare (lo faccio nella traduzione francese) M. MCLUHAN, La Galaxie Gutenberg face à l’ère électronique. Les civilisations de l’âge oral à l’imprimerle, Paris 1967 (Toronto 1962). Un parallelo fra la diffusione orale medievale e i mass media odierni in P. ZUMTHOR, Semiologia e poetica medievale, Milano 1973, specialmente pp. 37–42. 127 J. A. RUSSO, B. SIMON, «Quaderni Urbinati» 12 (1971), pp. 40–61, precisamente 43 (= «Journ. Hist. of Ideas» 29 [1968], pp. 483–498). Oltre agli spunti del libro di Havelock, si veda anche M. JOUSSE, Le style oral rythmique et mnémotechnique chez les verbo–moteurs, «Archives de philosophic» 2, Cahier IV (Paris 1925). 128 RUSSO, SIMON, art. cit., p. 53.
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sviluppo storico della mnemotecnica.129 Nell’entusiasmo delle prime scoperte parryane si poteva ancora dire che le formule erano un aiuto per il cantore: ma oggi abbiamo più chiara l’intima unione fra autore–cantore e pubblico, che può evitarci una visione essenzialmente riduttiva. Tale unione è l’empatia.130 L’empatia è lo stato emozionale di partecipazione collettiva che lega autore–cantore e pubblico. L’energia psico–motoria messa in moto dal regolare martellamento ritmico del verso stichico, dal concatenarsi dei contenuti più o meno saputi e riconoscibili delle formule, dal susseguirsi degli elementi narrativi tipici e stilizzati, dalle stesse novità e nel ritmo e nelle formule e nei contenuti, che creano la reazione delle cosiddette attese frustrate: e questo nell’autore–cantore non meno che nel pubblico. L’empatia è così ricavata da elementi interni al circolo della comunicazione orale. Ma non mancano anche testimonianze esterne. Non abbiamo bisogno di sfogliare lo Ione platonico per trovare una descrizione della reazione empatica: il grado di penetrazione di Platone nei meccanismi della cultura orale è ancora in discussione e dopo tutto va tenuto presente non tanto che si tratta di testimonianza lontana cronologicamente, quanto soprattutto che si tratta di una visione che rischia di essere troppo poco simpatetica, fortemente finalizzata ad un apprezzamento marcatamente qualificato della cultura contemporanea a Platone stesso, il IV secolo. Ma abbiamo alcune testimonianze esterne all’interno stesso dei poemi. A parte la forte emotività di un Odisseo al canto della saga troiana (Od. VIII, 83 ss., 521 ss.), e la virtù calmante che le «imprese gloriose degli eroi» esercitano su un Achille (Il. IX, 186 ss.), basterebbe ricordare un bel verso odissiaco che riflette proprio quella reazione collettiva al canto di cui stiamo parlando e che si riferisce al racconto di Odisseo ai Feaci (Od. XI, 334; XIII, 2): ϰηληϑμῷ δ’ ἔσχοντο ϰατὰ μέγαρα σϰιόεντα e stavano incantati (ad ascoltare) nel mègaron ombroso.
L’immedesimazione e il coinvolgimento di esecutore ed ascoltatore realizzati nell’epos arcaico sono forse paragonabili, nel mondo moderno, solo alla musica, e soprattutto alla musica dell’età romantica: i contenuti che quest’ulti|| 129 Come studio teorico sul funzionamento della memoria si può citare J. PIAGET, B. INHELDER, Mémoire et intelligence, Paris 1968. Un panorama storico della mnemotecnica, limitato al mondo antico, è H. BLUM, Antike Mnemotechnik, Hildesheim–New York 1969 (Spudasmata, Bd. 15), dove è strano che manchi almeno menzione dell’epos arcaico. Un panorama più ampio, che raggiunge lo sviluppo del metodo scientifico, è FRANCES A. YATES, L’arte della memoria, Torino 1972, (1966). 130 Cfr. Jousse; la prefazione di Gentili a Havelock; Russo, Simon, ecc.
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ma veicolava erano certo diversi, e diversa anche la collocazione sociologica del fenomeno (Adorno); ma almeno paragonabile è l’altissima percentuale di contenuti essenziali, costitutivi delle rispettive culture. Oggi, del resto, il diffondersi dei mezzi di comunicazione audiovisivi e la conseguente riduzione delle dimensioni dell’ecumene, ci riportano sotto molti aspetti ad una civiltà che tende a prescindere dalla scrittura: è, com’è noto, la suggestiva (anche se non tutta accettabile) tesi di McLuhan. È del resto comune – per venire a fenomeni musicali più vicini a noi – la svalutazione della memoria (scrittoria) sia nel jazz (che si affida a un’improvvisazione estemporanea), sia nella musica elettronica o nella musica di tipi affini (che in realtà rifiuta non solo la scrittura, ma anche ogni tipo di memoria, affidando apparentemente quest’ultima alla macchina, vero muro divisorio, e non canale comunicativo, fra emittente e destinatario). A sua volta diversa a me sembra la partecipazione che si stabilisce con il pubblico della lirica corale. Musica più complessa, fondata anche su ritmi più complessi: una specie di orpello, per attirare, o per cercar di attirare. Il vero rapporto è fra autore e committente.131 Il pubblico degli agoni o delle feste della polis a stento doveva capir le parole di un’ode di Pindaro: quello che contava era la spettacolarità della performance (musica, danza), e la ovvia notorietà del fatto che essa era celebrativa, non la performance stessa in sé e per sé (cfr. alla fine della sez. O). Tutti gli indizi che siamo venuti raccogliendo, contestualizzati e reciprocamente funzionalizzati, assumono ormai valore di prova. I poemi omerici sono epica orale. Tanto più che gli pseudo–problemi posti dalla vecchia critica analitica e falsamente risolti da quest’ultima e dalla critica degli unitari trovano nella ipotesi orale non tanto soluzione, quanto dissoluzione. Bisognerebbe a questo punto stabilire correttamente il ruolo della comparazione antropologica con altre epiche. È noto come in un secondo momento, in seguito alle sue campagne in Iugoslavia, Milman Parry aveva affidato molta della forza delle sue argomentazioni alla comparazione con l’epica iugoslava. Di più avrebbe fatto se fosse vissuto (in realtà si tratta solo di spunti), ma lo sfruttamento del materiale (per la verità ancora quasi tutto inedito e conservato nella Widener Library a Harvard) doveva essere affidato al suo allora assistente e poi allievo e successore Albert Lord. Il libro di Lord si può in sostanza definire così:
|| 131 Per la committenza dell’opera d’arte in generale sono importanti alcuni spunti di Bianchi Bandinelli. Per le opere letterarie, cfr. F. LASSERRE, La condition du poète dans la Grèce antique, «Étud. de Lettres» 5 (1962), pp. 3 ss.; B. GENTILI, Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca, «Studi Urbinati» 39 (1965), pp. 70 ss. e in St. Civ. Greci, vol. 11, cap.11, § 1.
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integrare quello che manca all’evidenza omerica, soprattutto in fatto di pratica viva di canto epico, col materiale iugoslavo. Ma giustamente Kirk132 gli ha obiettato che non solo le condizioni obiettive di rilevamento del materiale erano destinate fatalmente ad influenzare il configurarsi del materiale stesso (i canti dei bardi iugoslavi erano stati registrati su richiesta di Parry e dei suoi collaboratori, il che doveva influenzare il tipo stesso di prestazione del cantore, come in alcuni casi si può documentatamente controllare), ma – e questa dev’essere l’obiezione principale – l’epica orale iugoslava viveva in pieno contatto con una ben sviluppata civiltà scrittoria. Questo non può non condizionare il giudizio che, su piano comparativo, si dia di epiche geograficamente, cronologicamente e culturalmente lontane dall’epos omerico. Heroic Poetry di Bowra è una miniera di minuta informazione e vorrei dire di godimento di epiche a noi estranee e lontane.133 Ma la comparazione andrebbe riassunta su nuove basi: un esempio può essere quello di Heda Jason,134 che cerca di stabilire un certo numero di «determinanti» e ne verifica la presenza e la qualità, come formale–artistico, contenutistico, culturale, sociale, rapportato al mondo circostante (referenziale). Quello che colpisce è l’importanza che gli studi omerici, e in sostanza l’opera di Milman Parry, hanno avuto per lo sviluppo degli studi in altri ambienti epici.135 Sarebbe fuori luogo qui far più che i nomi di alcuni famosi poemi epici, distanti fra loro non meno che millenni: Gilgamesh (nelle varie versioni, babilonese, assira, hittita), Beowulf, la Chanson de Roland, i Nibelunghi, il Cid, l’Edda, i
|| 132 KIRK, in KIRK, The Language... (cit. in bibl. VII), pp. 79 ss. 133 Molto utile è, sempre di BOWRA, l’articolo, di poco anteriore al libro, The Comparative Study of Homer, «Amer. Journ. Arch.» 54 (1950), pp. 184–192; recentissimo e utilmente informativo è A. B. LORD, Perspectives on Recent Work on Oral Literature, in Oral Literature. Seven Essays, ed. J. J. Duggan, «Forum for Modern Language Studies» 10 (1975), pp. 1–24. 134 HEDA JASON, A Multidimensional Approach to Oral Literature, «Current Anthropology» 10 (1970), pp. 413–426. 135 T. PAROLI, Sull’elemento formulare nella poesia germanica antica, Roma (Istituto di Glottologia) 1975, pp. 19 ss. È sbalorditivo che la ricerca orale sull’epos dei Nibelunghi sia cominciata solo circa dieci anni fa. Il libro della Paroli, che tratta l’Edda, la poesia inglese antica, il carme di Ildebrando, la poesia religiosa sassone (Heliand, ecc.), i Nibelunghi, e che si presenta come un solido contributo allo studio di alcuni nessi formulari (prevalentemente ai verba dicendi), pur nella dichiarata selezione del materiale, fa creder sempre vera l’affermazione di BOWRA, art. cit. a nota 133, p. 186 (e cfr. sez. I) che i poemi omerici sono quanto mai ricchi di materiale formulare, più di altre epiche. Ma il verso greco, come nota la Paroli stessa, è notoriamente più rigoroso e ritmicamente fisso, mentre, per es., il verso germanico permette un molto maggior margine di libertà.
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canti epici slavi. Ma un fatto importante rimane per molti di essi o non chiarito o solo parzialmente chiarito: il loro rapporto con la scrittura, e cioè in che relazione le varie versioni scritte sono con la originaria crescita orale. In alcuni settori, comunque, il problema è vivamente sentito.136 Lo studio delle epiche orientali ha portato a fare delle distinzioni essenziali. Una è quella che contrappone l’epica tradizionale, legata alle sue originarie funzioni, all’epica riflessa, che si presenta sotto la forma di elaborazione colta, spesso individuale (pensiamo all’epica ellenistica o a Virgilio, per restare in un campo a noi familiare). Ma è anche importante la distinzione fra epica legata al palazzo (dove l’intento celebrativo è preminente) e quella legata al tempio (dove più ampio è lo spazio dedicato al mito). Le epiche orientali offrono un campionario quanto mai vasto, sia dal punto di vista morfologico sia da quello funzionale.137 Le stesse oscure fasi compositive di alcuni libri della Bibbia potrebbero fornire utile materiale di raffronto: ricordiamo che il grande libro di Gilbert Murray con la sua ipotesi del «libro tradizionale» nasceva dalla critica biblica.138 Potrà essere interessante ricordare quanta parte della Torah giudaica è da secoli legata all’oralità.139 Un campo che sembra lontano da Omero, quello del canto gregoriano, ne divide invece, nei più accorti e informati cultori, i problemi e i metodi: trasmissione orale, esistenza di formule stereotipate, addirittura una certa economia di espressione musicale sono voci sufficienti perché chi studia Omero non sia sordo al canto gregoriano e viceversa.140
|| 136 T. PAROLI, Modalità del passaggio dalla tradizione orale alla codificazione nella poesia germanica antica, «Annali – Studi Nederlandesi – Studi Nordici» 18 (1975), pp. 147–168 (importante per noi, p. 166, «il persistere della tradizione orale di un componimento epico anche dopo la sua prima codificazione»). Per problemi analoghi A. RONCAGLIA, Come si presenta oggi il problema delle canzoni di gesta, Acc. Naz. Lincei, Quad. 139 (cit. in bibl. XI), pp. 277–298. 137 Cfr. tutto il volume dell’Acc. Naz. Lincei, Quad. 139 (cit. in bibl. XI), e, per quanto qui affermato, specialmente S. MOSCATI, L’epica nel vicino Oriente antico, ibid., pp. 811–823. 138 BOWRA, art. cit. a nota 133, p. 184. 139 B. GERHARDSSON, Memory and Manuscript. Oral Tradition and Written Transmission in Rabbinic Judaism and Early Christianity, Uppsala 1961. 140 L. TREITLER, Homer and Gregory. The Transmission of Epic Poetry and Plainchant, «Mus. Quart.» 60 (1974), pp. 333–372; ID., «Centonate» Cant: Uebles Flickwerk or E pluribus unus?, «Journ. Amer. Musicol. Soc.» 28 (1975), pp. 1–23.
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O. Omero e la poesia posteriore Un test contrastivo di particolare efficacia è quello fornito dalla poesia posteriore ad Omero (esametrica e lirica). Alcuni degli indizi di oralità visti sopra e messi fra loro in rapporto per l’epos o mancano del tutto o sono palesemente contraddetti. Qui non ci sono dubbi cronologici: si comincia con Esiodo nel VII secolo, epoca in cui la scrittura è in uso e in cui sembra lasciar tracce nella formazione dei testi. È chiaro che la pubblicazione continua ad essere orale,141 ma non lo è più la composizione, che tra l’altro ha sicuramente a sua disposizione un testo o meglio più testi omerici in circolazione scritta. A E s i o d o si è cercato più volte di applicare i metodi dell’analisi formulare di Parry142 per affermare una sua formularità indipendente. È difficile dar percentuali (è difficile, si ricordi, per lo stesso Omero, cfr. sez. I sulla estensione del materiale formulare). Ma la gran massa di quelle che omericamente si possono chiamare formule sono appunto, in Esiodo, semplicemente formule omeriche.143 Ci sono anche espressioni singolari, ci sono fatti linguistici isolati144 e ci sono soprattutto delle rilevanti differenze tematiche rispetto all’epos: la Teogonia appartiene certo ad un sottogenere più antico dell’epos, la poesia cosmogonico–teogonica, e le Opere inaugurano un genere che, se sarà riconosciuto molto più tardi come parzialmente indipendente (il poema didascalico), era certo sentito in antico come apparentato alla narrazione epica (la comunanza del metro, l’esametro); l’epica genealogica delle Eòiai completa il quadro (sez. C). Ma questo basta solo per assicurare ad una certa tradizione poetica che fa capo ad Esiodo, e che può aspirare a una sua qualifica di beotica, una sua antichità e anche una sua originaria indipendenza: non basta per fare di Esiodo un rappresentante ancora autonomo e orale di tale tradizione. Come || 141 B. GENTILI, Lirica greca arcaica e tardo arcaica, in Introduzione allo studio della Cultura Classica, Milano 1972, pp. 57–105 pass. 142 Nel solco di Notopoulos, con diverse argomentazioni, C. O. PAVESE, Tradizioni e generi poetici nella Grecia arcaica, Roma 1972 (da integrare con Studi sulla tradizione epica rapsodica, Roma 1974) è per l’indipendenza di Esiodo da Omero, per fare di Esiodo il rappresentante di una autonoma tradizione orale. 143 Per la lingua I. SELLSCHOPP, Stilistische Untersuchungen zu Hesiod, Hamburg 1934; H. TROXLER, Sprache und Wortschatz Hesiods, Diss., Zürich 1964. Per i raffronti formulari con Omero F. KRAFFT, Vergleichende Untersuchungen zu Homer und Hesiod, Göttingen 1963 (Hypomnemata Η. 6); per formule e dizione orale EDWARDS, The Language of Hesiod ... (cit. in bibl. X), e questo nonostante le forti divergenze da formularità e da economia da lui stesso messe in luce. 144 HOEKSTRA, Hésiode ... (cit. in bibl. X). Per lessico e morfologia, cfr. nota 143. Per gli accusativi plurali brevi A. MORPURGO–DAVIES, «Doric» Features in the Language of Hesiod, «Glotta» 42 (1964), pp. 138–165.
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Omero è solo testimonianza e non documento integrale di poesia orale, così Esiodo è solo testimonianza e non documento di una tradizione autonoma che sta alle sue spalle. Per Esiodo, già, la formularità omerica è diventata uno stile poetico, uno stile che può già ambire ad una sua nuova ecumenicità (per il successo e la diffusione della poesia omerica), ben diversa però da quella che era funzionalizzata alla face–to–face–society delle origini dell’epos. Se si vuol parlare di «stile orale» lo si faccia pure: ma si tenga presente che si tratta di una «oralità di riflesso»: il patrimonio epico viene assunto e riutilizzato come, appunto, uno stile, uno stile che assicura certe ampie esigenze di comunicazione; ma la sua originaria funzionalità orale è continuamente contraddetta. Le violazioni della formularità e dell’economicità sono ben diversamente vistose che in Omero (G. P. Edwards). Vediamo, per esempio, il sistema formulare per Zeus.145 Molte volte Zeus compare con corrette formule omeriche, ma molte altre volte compare in nessi del tutto singolari, che distruggono ogni parvenza di sistema: Ζεὺς δὲ ϑεῶν βασιλεύς (Th. 886), Ζεὺς ἀϑανάτων βασιλεύς (Οp. 668), Ζῆνα μέγαν (Th. 479), Ζηνòς ἐρισϑενέος (Οp. 416), ecc. Il gusto per la variatio supera di gran lunga quello riscontrabile in Omero: Th. 923 e 944 cominciano con μιχϑεῖσ’ ἐν φιλότητι e continuano l’uno con ϑεῶν βασιλῆι ϰαὶ ἀνδρῶν e l’altro con Διòς νεφεληγερέταο,146 dove anche la struttura sintattica è variata. Il fatto stesso che i contenuti esiodei siano così differenti da quelli dell’epos, specie nelle Opere, il fatto che nonostante questo il verso sia lo stesso e la lingua sia volutamente per così gran parte la stessa (e cioè omerica), ha portato a far vedere un certo sforzo in un adattamento ancora così inedito: è quanto nota Havelock147 per Op. 11–41, dove la seconda parte del passo per lessico, sintassi e solo parziale adattamento alla formularità omerica mostra con chiarezza tale sforzo, condotto evidentemente su una versione scritta di Omero e per una redazione scritta. L’epos narrava: Esiodo, adattandone le forme, ragiona e valuta, in modi non epici. Per Esiodo non orale e scritto è oggi più d’uno studioso.148
|| 145 DIHLE, Homer–Probleme (cit. in bibl. VIII), pp. 128 s. 146 EDWARDS, The Language of Hesiod... (cit. in bibl. X), p. 57. 147 E. A. HAVELOCK, Thoughtful Hesiod, «Yale Class. St.» 20 (1966) pp. 59–72. Simile è quanto nota G. ARRIGHETTI nell’Introduzione (pp. 26 s.) a Esiodo. Letture critiche, Milano 1975: in generale la posizione di Arrighetti, per quanto concerne Esiodo, si avvicina molto a quanto è qui esposto. 148 M. L. WEST, Hesiod. Theogony, Oxford 1966, pp. 40 s.; cfr. anche «Class. Rev.» 23 (1973), p. 20; DIHLE, Homer–Probleme (cit. in bibl. VIII), pp. 123 ss.; ARRIGHETTI, cit. a nota 147; TH. G. ROSENMEYER, «Arion» 4 (1965), pp. 302 s.
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Per l’e l e g i a e per l’e p i g r a m m a arcaici149 il discorso è lo stesso, pur con importanti precisazioni. Qui è ancor più chiara l’assunzione di quello che possiamo ormai chiamare il frasario ovvero lo stile epico: per di più iscrizioni, per esempio dedicatorie o sepolcrali, si fondano di necessità su un ristretto gruppo di espressioni strettamente funzionalizzate agli scopi dei componimenti, e dare ad esse il nome di formule è lecito solo a patto di non dare al termine lo stesso valore che ha nell’epos. Di composizione orale non si può infatti parlare: e di pubblicazione orale si può parlare solo per l’elegia. Che i testi parlino in altissima percentuale il linguaggio omerico è più che ovvio, data l’affermazione di tale linguaggio come stile. Se prendiamo poi uno degli I n n i o m e r i c i più antichi, l’Inno a Demetra, ci troviamo di fronte alle conclusioni date per Esiodo, con in più, operante, la stessa influenza di Esiodo.150 Anche qui mancanza di sistemi formulari di tipo omerico nientemeno che per personaggi come Demetra, Zeus, ecc. Vediamo ben tre palesi doppioni per Demetra: 54 πότνια Δημήτηρ ὡρηφόρε ἀγλαόϰαρπε 75 Ῥείης ἠυϰόμου ϑυγάτηρ Δήμητερ ἄνασσα 492 πότνια ἀγλαόδωρ’ ὡρηφόρε Δηοῖ ἄνασσα
È proprio negli Inni che è evidente il rapido allontanarsi dalla formularità epica: quello che Hoekstra151 chiama «lo stadio sub–epico della tradizione formulare». Quello che sembra di dover del tutto escludere per giustificare i doppioni presi in esame è la prassi dell’improvvisazione, che nel caso di Omero, violatore più sobrio e funzionale, appariva ben più probabile (sez. L). Se una prassi improvvisatoria, pur qualificata con cura, è in qualche modo legata a esercizio orale della poesia, la sua mancanza è forte indizio di non oralità, e nei poeti passati ora in rapido esame il bricolage, realizzato con i frequenti e rilevanti doppioni formulari, appare più arbitrario, più studiato, più gratuito, meno (o per niente) funzionalizzato a prassi orale; tale bricolage celebrerà i suoi massimi fasti alcuni secoli più tardi fra i poeti alessandrini, come si vedrà specie per i
|| 149 B. GENTILI, Epigramma ed elegia (Fondation Hardt, XIV), Vandoeuvres–Genève 1969, pp. 39–90; Z. DI TILLIO, Confronti formulari e lessicali tra le iscrizioni esametriche ed elegiache dal VII al V sec. a.C. e l’epos arcaico: I. Iscrizioni sepolcrali, «Quaderni Urbinati» 7 (1969), pp. 45– 73; M. MORANTI, Formule metriche nelle iscrizioni greche arcaiche, ibid., 13 (1972), pp. 7–23; P. GIANNINI, Espressioni formulari nell’elegia greca arcaica, ibid., 16 (1973), pp. 7–78. 150 The Homeric Hymn to Demeter, ed. N. J. RICHARDSON, Oxford 1974. Vedi vv. 30 ss.; cfr. 337 s.; per Zeus, 47, 49; per Demetra, 47; ecc. 151 HOEKSTRA, Sub–Epic Stage ... (cit. in bibl. X).
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doppioni apolloniani, così scopertamente intenzionali ed elaborati (sez. P), in una poesia che con oralità e improvvisazione non avrà certo più niente a che fare. Viene qui a proposito la considerazione di un genere di solito ignorato, quello dei r e s p o n s i o r a c o l a r i . Dallo studio dei materiali e dalle testimonianze è possibile ricavare quella che era la prassi prevalente almeno nel santuario di Delfi:152 alle domande dell’interessato, che si recava a visitare il santuario, la Pizia rispondeva, attraverso l’intermediario di un inserviente, frasi improvvisate che spesso erano in stile omerico e in forma esametrica.153 Abbiamo qui un esempio prezioso, proprio perché tardo, di una improvvisazione orale che si serve però di una tradizione ormai del tutto irrigidita; e l’elemento d’improvvisazione insieme con la perdita della vitalità autonoma di una dizione sono quanto mai evidenti per il fatto che questi esametri mostrano una tecnica scadente (iati, violazioni di leggi esametriche, ecc.). Segno della forza di uno stile, a cui si affida la solennità dell’occasione, che però, per le difficoltà di una tecnica (quella esametrica orale) ormai lontana dall’uso vivo, tradisce il suo stridente anacronismo. La stragrande maggioranza è databile infatti dal VI secolo in poi. In Omero le violazioni dell’economia, più sobrie, tradivano un’improvvisazione strettamente funzionale; nei poeti esametrici posteriori le violazioni, ben più forti, escludono un’improvvisazione di tipo orale; negli oracoli il bricolage alle volte maldestro tradisce una improvvisazione ancora viva, ma con materiali ormai morti. Non è da vedere come una semplice beffa del caso il fatto che l’unica oralità vera e funzionale a noi storicamente e documentariamente accessibile sia una oralità di ricasco, quella degli oracoli, un’improvvisazione orale che connette fra loro materiali non più vitali, ormai staccati dal vivo della cultura attuale con quell’atto di «chirurgia sociale» di cui si parlava sopra (sez. C). Sarebbe utile un confronto fra gli oracoli esametrici e l’unico altro genere esametrico dove – per testimonianze esterne di occasione e utilizzazione – ha un senso parlare d’improvvisazione con materiali in parte omerici: quello dell’elegia simposiale (Teognide). Ma il discorso si farebbe più complicato sia perché i processi compositivi di questo genere letterario saranno stati vari, sia perché bisognerebbe coordinare la ricerca sull’elegia simposiale a distico elegiaco con quella sulla poesia simposiale lirica, così maggiormente legata alla
|| 152 Fondamentale H. W. PARKE, D. E. W. WORMELL, The Delphic Oracle. I. The History, II. The Oracular Responses, Oxford 1956 (cfr. specialmente 11, pp. XXI–XXXVI per stile e metro). Una utile sintesi è Η. LLOYD–JONES, The Delphic Oracle, «Greece and Rome» 23 (1976), pp. 60–73 (spec. 67). 153 W. E. MCLEOD, Oral Bards at Delphi, «Trans. Amer. Philol. Ass.» 92 (1961), pp. 317–325: di 581 oracoli studiati (da Parke–Wormell) 175 sono esametrici.
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musica (Alceo, Simonide, Pindaro, Bacchilide, Anacreonte, scoli attici, ecc.), alla quale ora ci volgiamo nei suoi aspetti non solo simposiali. In conclusione, le similarità con Omero hanno tratto spesso in inganno, perché si è mancato di dare ad esse il loro giusto valore: assunzione esteriore di una dizione, che ha conservato come sua funzionalità solo quella di fornire una langue. Ma i p o e t i l i r i c i non hanno neanche quelle similarità. In Archiloco per vero l’elemento omerico è massicciamente presente (anche se non se ne può concludere per un Archiloco a metà scritto e a metà orale!),154 e il discorso da fare è quello fatto per Esiodo, elegia, epigramma, Inni. Ma nei lirici successivi le similarità con Omero sono soltanto episodiche. Per questi poeti sono presenti due fatti fondamentali: l’elaborazione di complesse forme liriche, che sono legate alla musica e che sono quanto mai lontane dalla stichicità e dell’epos e del giambo (e dalla quasi–stichicità della breve strofe epodica ed elegiaca); e l’assenza totale di qualsiasi formularità, sia di accatto (omerica) sia autonoma. Di altamente formalizzato la lirica corale ha la tematica,155 che risponde alle complesse esigenze di una società in trasformazione: celebrazione delle divinità della polis negli inni religiosi, celebrazione di personalità politiche o anche di ricchi privati nei canti per i vincitori degli agoni sportivi, necessità d’intrattenere nelle più importanti occasioni sociali come il simposio. Ma il modo di configurarsi dei testi è del tutto nuovo. Parlare di una dizione lirica è difficile: gli attacchi sintattici hanno una loro peculiare scioltezza, i modi narrativi sono quanto mai lontani dal fluire regolare dell’epos (Pindaro!), e questo dipende dalle occasioni concrete, da un diverso e più libero atteggiarsi di fronte alla tradizione.156 Qui comincia ad esser lecito parlare di uno stile nel pieno senso della parola, ma di uno stile autonomo rispetto a quello, omerizzante, della prima poesia esametrica. Gli omerismi sono sempre più episodici,157 come saranno nella letteratura del V secolo. Quando Pindaro dice ἐπὶ ῥηγμῖνι πόντου (Nem. V, 13) non fa che dare una traduzione dattiloepitritica dell’omerico ἐπὶ
|| 154 D. PAGE, Archilochus and the Oral Tradition (Entret. de la Fondation Hardt, x), Vandoeuvres Genève 1964, pp. 119–179. 155 E. L. BUNDY, Studia Pindarica. I. The Eleventh Olympian Ode; II. The First Isthmian Ode, Berkeley and Los Angeles 1962; C. O. PAVESE, Semantematica della poesia corale greca, «Belfagor» 23 (1968), pp. 389–431; ID., Gli epinici di Bacchilide, «Atti Ist. Veneto» 132 (1973–74), pp. 299–328; ID., Le Olimpiche di Pindaro, «Quaderni Urbinati» 20 (1975), pp. 65–121. 156 G. ARRIGHETTI, In tema di poetica greca arcaica e tardo–arcaica (Esiodo, Pindaro, Bacchilide), «Studi Class. Orient.» 25 (1976), pp. 255–314, specialmente 257 n. 6, 292 n. 107. 157 A. E. HARVEY, Homeric Epithets in Greek Lyric Poetry, «Class. Quart.» 7 (1957), pp. 206–223; J. A. DAVISON, Quotations and Allusions in Early Greek Literature, in From Archilochus to Pindar, London, ecc. 1968, pp. 70–85.
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ῥηγμῖνι ϑαλάσσης, isolata in un contesto che è lirico, non più omerico, che anzi a Omero volutamente si contrappone. Valga per questo un altro bell’esempio. Nella Pitica IV le parole di Medea sono concluse con (v. 57) ἦ ῥα Μηδείας ἐπέων στίχες. Sembra lì per lì che si tratti di una formula omerica conclusiva di un discorso diretto, ἦ ῥα, «disse»,158 ma la sintassi rende chiaro che qui Pindaro gioca con un equivoco: ἦ qui vale «così», «tali furono le parole di Medea», e non (come Omero avrebbe concluso un discorso) «disse Medea». L’equivoco è sul doppio valore di ἦ e pare già gioco di poeta alessandrino.159 L’assunzione della lingua omerica e di omerismi isolati ha dunque portato molti a vedere nei poeti posteriori ad Omero una oralità integrale ancora operante, mentre non si tratta se non di quella che è stata felicemente chiamata gespielte Mündlichkeit, ovvero oralità fittizia.160 Se mancasse il controllo delle situazioni storiche e culturali, essa apparirebbe comunque come tale per il fatto di essere incompleta, e alle volte, come nei poeti lirici, solo episodica. L’omerizzare quindi, in qualità di oralità fittizia, diventa così un più o meno esplicito omaggio alla tradizione, della quale ci si serve — come sempre in Grecia — per realizzare contenuti nuovi. Un fenomeno analogo avviene per esempio in Orazio e nella lirica romana in generale e nella lirica moderna: «io canto», «noi cantiamo» sono un puro gesto formale e non sostanziale, dal momento che la poesia lirica ha cessato di essere musicata e cantata già nel corso del IV secolo a.C. in Grecia. In sintesi, anche se i filoni tradizionali a monte soprattutto della poesia esiodea possono essere più d’uno e distinti dalla tradizione epica arcaica, la letteratura postomerica si presenta con delle caratteristiche unitarie, che ne fanno una letteratura postomerica nel vero senso della parola. Un’ulteriore conferma viene anche dall’evidenza linguistica. Durante161 nota che «in Esiodo la lingua epica presenta un grado di evoluzione notevolmente più progredito rispetto ai testi omerici»: l’inefficacia del digamma e i genitivi in –ου irresolubili (né in –οο né in –οι’) sono in misura superiore. È uno sviluppo rettilineo, che parte dall’Iliade e progredisce nell’Odissea, a cui si potrebbe aggiungere l’aumento dei casi di muta più liquida in correptio Attica (muta e liquida che non chiudono la sillaba precedente), che mostra ugualmente uno sviluppo ret-
|| 158 Tutte raccolte in ROSSI, Estensione ... (cit. in bibl. XIII), p. 265. 159 A. ARDIZZONI, Note sul testo di Pindaro, «Giorn. Ital. Filologia» 5 (1974), pp. 252–262, precisamente 253. 160 R. HARDER, Kleine Schriften, München 1960, p. 80. 161 DURANTE, Sulla preistoria ... (cit. in bibl. XII), p. 50.
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tilineo.162 Con questo non si vuol ritornare a posizioni arretrate che fanno di Omero un modello letterario nel senso alessandrino o moderno della parola: si vuol solo affermare l’unitarietà di uno sviluppo, che al suo interno vede realizzato non il semplice imprestito letterario, ma l’assunzione di una dizione tradizionale affermata da parte di alcuni (Esiodo, ecc.) e la creazione di un nuovo stile da parte di altri (lirici). Riuso della lingua omerica: esso è ora massiccio (Esiodo, elegia ed epigramma, Inni), ora sempre più dosato, fino ad arrivare al livello della pura citazione (lirici). È giusto comunque mettere l’accento sulla persistente pubblicazione orale.163 Sarebbe più corretto chiamarla auralità, che rende questa letteratura lontana e diversa da quella che nascerà nel IV–III secolo e che sarà sempre più legata e determinata dalla sempre maggior diffusione della scrittura, anzi addirittura dalla diffusione del libro (sez. A). È chiaro che l’auralità immediatamente postomerica avrà agito anche come tale, e cioè a suo modo indipendentemente dalla scrittura, per una sempre più intensa memorizzazione e assimilazione dei poemi: allo stesso modo che certe cosiddette formule stereotipe dei tragici si saranno affermate nell’orecchio del pubblico e degli stessi tragediografi (essi stessi parte del pubblico) proprio con il loro costante e martellato ripetersi dalla scena del teatro, tanto da riprodursi più o meno coscientemente all’interno dell’opera di ogni singolo tragediografo e da un autore all’altro. Ma non si possono disconoscere le differenze da quella che sola merita il nome di cultura orale, quella dell’epos arcaico, o meglio ancora quella che l’epos arcaico ci permette di intravvedere (i poemi omerici come testimonianza!). Alla luce della sua destinazione e funzionalizzazione sociale, la letteratura dell’epoca lirica è certo più vicina all’epoca arcaica: l’esecuzione, la performance è quello che le unisce, l’occasione pur sempre comunitaria. Ambedue rientrano in una fase che è in assoluta prevalenza aurale. Ma alla luce della configurazione dei testi – abbiamo già enunciato questo paradosso (cfr. sez. A) – la lirica, anche quella arcaica, è più vicina alla poesia alessandrina che ad Omero (cfr. l’esempio pindarico dato sopra). Bisognerebbe qui parlare dei primi prosatori, Cadmo di Mileto e Ferecide di Syros; dei filosofi ionici, Talete, Anassimandro, Anassimene, e del loro ancor discusso legame con la prosa; di Eraclito con la sua prosa ritmica, particolarmente adatta alla performance; dei filosofi–poeti
|| 162 Cfr. inoltre quanto osserva J. B. HAINSWORTH, «Class. Rev.» 26 (1976), p. 52 a proposito del digamma in Esiodo: in lui tende a scomparire, mentre persiste nel beotico e nei dialetti occidentali. Questo impedisce ad Esiodo di assumere vera caratteristica «locale». 163 Cfr., oltre a nota 141, B. GENTILI, G. CERRI, Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica, Roma 1975, cap. 1.
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Senofane, Parmenide, Empedocle, dove il riuso di lingua omerica non è che la base per la contrapposizione ideologica ad Omero stesso, talora addirittura per la polemica violenta. Resterebbe confermato quanto si è detto e sul configurarsi dei testi e sulle funzioni culturali. Ma anche in queste ultime i cambiamenti sono rilevanti. Subentrano qui ulteriori differenziazioni dalla cultura di tipo epico. L’ecumenicità è sostituita da una rigorosa selezione del pubblico:164 subentra una committenza ristretta, sia di autorità cittadine sia di privati, e l’ampia partecipazione addirittura panellenica alle feste agonali, o almeno cittadina alle celebrazioni religiose locali, è una partecipazione per così dire di secondo grado, più subita che vissuta in prima persona (cfr. sez. N). Ne viene di conseguenza che l’enciclopedismo epico viene qui sostituito da una altrettanto rigorosa selezione della materia: sia l’attualità sia il mito sono selezionati in rapporto ai committenti. Le scelte discendono naturalmente da una funzionalizzazione nuova, la valutazione dei contenuti in dimensione diacronica e cioè storica. Si attualizza il mito proprio distanziandolo (non è un bisticcio verbale) e storicizzandolo, collocandolo cioè in un passato e dando ad esso valore e funzione di modello, di punto di riferimento: esso non è più appiattito nella atemporale contemporaneità dell’epos. È la nascita dell’epoca della storia, che si rifletterà anche nelle scelte storiche di attualità proprie di tanta epica ellenistica.165 L’opposizione contrastiva all’epos arcaico ci ha dato come risultato il quadro di una utilizzazione sempre più intensa e in sempre più rapida ascesa della tecnologia scrittoria. Come ogni modificazione dei mezzi di comunicazione, essa ha provocato il nascere di una nuova facies culturale, che ha portato con sé rivolgimenti sociali. «Basta una sola generazione di alfabetismo per dare almeno inizio al distacco dell’individuo dalla ragnatela tribale» (cfr. sez. C), come efficacemente dice McLuhan.166 Qualcosa di simile e di parallelo avviene nella seconda metà del secolo VII con l’introduzione della moneta. Quanto qui si è cercato di fare è stato di mettere in opera una ricognizione del passaggio da cultura orale a cultura aurale attraverso la lettura dei testi. Confortati, beninteso, da un’evidenza storica, che nei testi trova conferme e che i testi stessi ci insegna a leggere.
|| 164 Oltre a quanto cit. alla sez. N, nota 131, cfr. anche ROSSI, art. cit. a nota 36, specialmente p. 80. 165 Per un panorama K. ZIEGLER, Das hellenistische Epos, Leipzig 19662. 166 M. MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, Milano 1967, pp. 88–90.
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P. Storia della sensibilità al fattore formulare Abbiamo seguito così la storia della poesia greca fino all’età lirica nel suo rapporto di progressivo distanziamento dal padre Omero. Tale progressivo distanziamento segna anche l’inizio del manifestarsi, se non di un preciso riconoscimento, almeno di una sensibilità al fattore formulare, che è il filo conduttore dei modi del rapporto con Omero di tutta la letteratura greca. Le testimonianze di tale sensibilità possono essere implicite od esplicite. Quelle implicite vanno ricercate in tutta la poesia greca, nel riuso, cioè, che del materiale omerico fanno tutti i poeti successivi. Alcuni esempi li abbiamo già visti. È sorprendente come è in genere proprio il materiale più spiccatamente formulare ad essere riusato: e questo non certo per una sua maggior frequenza statistica (come potrebbe far pensare una valutazione puramente meccanica, quella – per intenderci – degli apparati degli auctores nella maggior parte delle edizioni correnti dei classici), ma per una precisa scelta, perché il materiale formulare è sentito – sia dal poeta sia dal suo uditorio – come più epico e quindi come più qualificante per la nuova lingua poetica. Esiodo, elegia ed epigramma, Inni attestano un attaccamento più forte, la lingua si districa con difficoltà dalla pastoia epica: la formula è comunque sempre la protagonista, sia che venga fedelmente riutilizzata sia che venga volutamente modificata. Quello che abbiamo voluto chiamare lo stile epico, contrapposto alla dizione formulare dell’epica arcaica, non viene ancora messo seriamente in discussione. Ma con la lirica, che si rinnova nel metro e soprattutto sviluppa la sua musica, il castone omerico acquista maggior rilievo proprio per il fatto di essere isolato. Un esempio fra tanti, che è particolarmente istruttivo. Anacreonte parla in un carme gliconico di una fanciulla (fr. 13 Gent. = 358 Page) e ne dà la patria (vv. 5 s.) dicendo ἡ δ’, ἐστὶν γὰρ ἀπ’ εὐϰτίτου || Λέσβου. Ora, Lesbos in Omero compare con l’epiteto ἐυϰτίμενος in quattro casi; ἐύϰτιτος compare una volta sola (Il. II, 592), applicato alla località Αἰπύ. Anacreonte pensava a Lesbos, non voleva certo alludere al passo del catalogo delle navi (come avrebbe fatto un poeta alessandrino). Sentiva l’epiteto «ben costrutto» come omerico (formulare!) nel suo nesso con Lesbos ed ha accolto la forma più rara dell’epiteto solo ai fini della sua traduzione gliconica.167
|| 167 Per questo e molti altri esempi nella lirica HARVEY, art. cit. a nota 157. Qui viene di necessità sacrificato il dramma. Si possono comunque segnalare lavori come L. BERGSON, L’épithète ornementale dans Eschyle, Sophocle et Euripide, Uppsala 1956 e, recentemente, A. SIDERAS, Aeschylus Homericus, Göttingen 1971.
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Tutta la poesia greca va quindi riletta non nella chiave della vecchia generica imitatio Homeri, bensì nel senso di una sensibilità a quanto in Omero è più propriamente specifico, e cioè alla formularità. Molto lavoro è stato già fatto in questa direzione e molto ne resta da fare. Si può accennare qui ad un genere letterario che, da questo punto di vista, è una miniera, per saggiare il grado di sensibilità degli antichi: quello della poesia epica parodica.168 La Batracomiomachia pseudo–omerica, Egemone di Thasos, Eubeo di Paros, Matrone di Pitàne, Archestrato di Gela, Timone di Phlioùs: una poesia che, a distanza cronologica da Ipponatte, che ne vien dato come l’inventore, si situa fra il V e il III secolo a.C. Sia il nudo riuso – che riassume la formula tale e quale, ma la funzionalizza ad un contesto “altro” – sia la modificazione parodica – che a suo modo realizza una forma di metafora – fanno intravvedere quanto specificamente tipico, e cioè epico, viene sentito il materiale riutilizzato. Del resto la commedia non è avara di parodia di formule: ricordiamo qui, come esempio, Cratino (fr. 68 K.). Un tipo diverso di reazione, ma non per questo meno significativo, è quello dei poeti alessandrini. È noto come, parallelamente alla polemica sul poema epico, vi sia in età ellenistica una tendenza a mostrarsi il più possibile innovatori anche in quello che si può considerare il settore più conservatore della letteratura, la poesia epica: ed è proprio qui che la reazione ad Omero risulta più evidente. Parry169 aveva già messo in rilievo la più macroscopica differenza fra Omero e Apollonio Rodio, e cioè la scarsità di epiteti rispetto all’abbondanza omerica. Ne traeva la conclusione che le Argonautiche fossero un buon esempio di poema «non tradizionale», che possiamo tradurre «non orale». Ma è una qualificazione generica, del tutto insufficiente: le Argonautiche si presentano con una facies testuale non tanto non omerica, quanto decisamente antiomerica, pur nel rispetto delle grandi forme compositive del poema epico. Abbiamo visto come Omero abbia sempre un verso e uno solo per esprimere «quando sorse l’aurora»: ebbene, il fatto che Apollonio vari sempre tale unità narrativa, facendone talvolta una barocca sequenza di più versi (I, 519–521, 1280–1282; II, 164 s., 669–671; IV, 109–113, 885), è testimonianza implicita, ma eloquente, del rifiuto della formularità epica, che può venir rifiutata solo in quanto riconosciuta e circoscritta.
|| 168 Corpusculum poesis epicae ludibundae, I, ed. P. BRANDT, Leipzig 1888; II, ed. K. WACHSMUTH, Leipzig 1885; per la Batracomiomachia, A. LUDWICH, Die homerische Batrachomiomachie des Karers Pigres, Leipzig 1896. Per un commento essenziale E. DEGANI, Poeti parodici greci, Bologna 1974. 169 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 24 ss.
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Ogni tipo di testimonianza implicita è naturalmente tale soltanto per noi, che siamo condannati a leggere i nudi testi, sėnza la possibilità di calarci negli ambienti che li hanno recepiti: ma è ovvio che tutto questo doveva diventare a suo modo esplicito nel tipo di resa, nel canto o nella semplice recitazione, e nel tipo stesso di reazione dei destinatari. Testimonianze esplicite vere e proprie sono soprattutto quelle dei grammatici alessandrini commentatori di Omero, che alle volte si trovano alle prese con epiteti che non hanno giustificazione razionale o situazionale, che sembrano contraddire il referente.170 Il cielo è detto «stellato», ed è giorno (Il. XV, 371): lo scoliasta annota che non è stellato in quel momento, ma «per natura». Lo stesso viene detto per le vesti «splendenti» che Nausicaa porta a lavare (Od. VI, 74): sono sporche, naturalmente, ma le vesti di una principessa sono splendenti per natura, soprattutto per uno scoliasta che interpreta bene il suo poeta epico. Egisto è detto «senza macchia» (Od. I, 29) proprio nel momento in cui Zeus sta per condannare il suo comportamento di adultero: e lo scoliasta si affretta a dire che tale qualifica gli si addiceva prima del misfatto oppure inerisce naturalmente alla nobiltà del suo lignaggio. Sono spiegazioni a volte ingenue, ma si tratta sempre di formule epiche, rispetto alle quali l’esegesi antica rivela una sua sensibilità a quello che appare ad essa come uno stile diverso, lo stile epico: per il quale il cielo è sempre stellato, le vesti regali sempre splendenti, i principi sempre senza macchia. In questo senso è banale, ma significativo, l’inizio del Timone di Luciano: O Zeus protettore dell’amicizia, dell’ospitalità, della consorteria, del focolare, saettatore, protettore del giuramento, adunatore di nembi, profondamente risonante col tuono, e in qualunque altro modo ti chiamano i poeti rimbecilliti, specialmente quando non sanno come fare a mettere insieme i loro versi: è proprio allora che tu, diventando venerabile sotto molti nomi, tieni su i loro versi fatiscenti e riempi quel che manca nei loro ritmi.
Ma il passo decisivo alla vera ricognizione del dettato epico in quanto ha di proprio si ha solo in epoca moderna (sez. A). Si può qui aggiungere che sarebbe interessante vedere come i singoli traduttori, in epoche e in culture diverse, si sono comportati di fronte alla formularità.
|| 170 PARRY, The Making ... (cit. in bibl. X), pp. 122 ss.
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Q. Funzione estetica dei poemi Se della funzione estetica dei poemi si parla solo ora, e in breve, contravvenendo ad un uso quasi generale fino a poco tempo fa in tema di critica omerica, è perché tale funzione, per l’impostazione storico–critica data alla nostra trattazione, deve apparire un problema di natura particolare, non del tutto assimilabile a quello che presentano le opere di letteratura che è in genere avvezza a trattare la critica letteraria. Si è detto più volte, e solo con enfasi variabile, che l’estetica del poema epico orale non può esser la stessa di quella delle opere concepite per iscritto.171 L’affermazione, così nuda e cruda, è falsa, come è anche falsa la sua contraria, sostenuta pure da alcuni. La funzione estetica, insieme con molte altre,172 è presente in ogni opera di letteratura, e deve essere comunque sempre oggetto di esame, sia pure in misura e modi diversi, a seconda anche delle epoche di storia della fortuna a cui ci si debba di volta in volta riferire. Perché è importante ricordare che il giudizio estetico varia di epoca in epoca. La storia dell’apprezzamento estetico di un’opera è in sostanza contenuta nella storia della sua fortuna: e tale fortuna, specie nel caso che sia fiancheggiata da metadiscorso letterario, trova di volta in volta dei modi di razionalizzare le sue scelte e le sue valutazioni, di darsene delle giustificazioni. Posto che l’opera, com’è stato detto, è polifunzionale, diversa è la valutazione delle singole funzioni nelle varie epoche e quella estetica, che da alcuni è stata vista come la funzione dominante in assoluto, non sfugge a tale valutazione, potendo trovarsi in epoche diverse a svolgere un ruolo subalterno rispetto ad alcune
|| 171 Un esempio di polemica è quello di ANNE AMORY, Homer as Artist, «Class. Quart.» 21 (1971), pp. 1–25 (che non vede differenze fra le due estetiche) contro A. B. LORD, Homer as Oral Poet, «Harv. St. Class. Philol.» 72 (1967), pp. 1–46 (che accentua le differenze, riprendendo le posizioni del suo Singer, cit. in bibl. X). Più equilibrate le posizioni, per es., di J. B. HAINSWORTH, Homer, Oxford 1969; ID., The Criticism of an Oral Homer, «Journ. Hellen. St.» 90 (1970), pp. 90– 98; CH. SEGAL, Andromache’s Anagnorisis: Formulaic Artistry in Iliad 22.437–476, «Harvard St. Class. Phil.» 75 (1971), pp. 35–57; A. PARRY, Language and Characterization in Homer, ibid. 76 (1972), pp. 1–22; G. S. KIRK, The Search for the Real Homer, «Greece and Rome» 20 (1973), pp. 124–139 (= Homer and the Oral Tradition, Cambridge 1977, pp. 201–217). Belle pagine sui valori artistici rappresentati da Omero sono nelle opere di Bowra e di Lesky, anche in quelle qui non citt. (reperibili col sussidio dei repertori bibliografici citt. in bibl.). Il più recente e interessante tentativo di conciliare oralità e certi valori estetici è quello di NAGLER, Spontaneity... (cit. in bibl. X), anche se concede troppo a un vago simbolismo. 172 L. MUKAŘOVSKÝ, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali. Semiologia e sociologia dell’arte. Introduz. e traduz. di S. Corduas, Torino 1971. Sulla funzione dominante e sulla polifunzionalità, specialmente pp. 178 s., 180.
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altre. Non è escluso, infatti, che almeno all’inizio l’epos orale, al momento della sua maggiore attualità e vitalità, abbia svolto addirittura in prevalenza funzioni diverse da quella estetica, funzioni che si lascerebbero approssimativamente sintetizzare nelle categorie del politico e del sociale. Si può dire che ogni opera, man mano che si allontana nel tempo e negli spazi culturali dalle istanze primarie che l’hanno prodotta, vede in ogni caso più o meno rilevatamente crescere, almeno in via relativa, la sua funzione estetica, sia essa valutata in positivo o in negativo. Solo parziale correttivo di tale stato di cose, che alle volte ignora la storia, è la considerazione e l’intelligenza storica, che si sforzi di ricostruire proprio quelle istanze che hanno prodotto l’opera. È così che l’aspetto estetico dei poemi omerici può riacquistare anche una sua calibratura e validità attuale, specie oggi che tanta luce è stata fatta sulla civiltà che li ha prodotti. L’estetica del poema epico orale presenta quindi solo angolature diverse da quelle di un’opera concepita per iscritto in una civiltà come la nostra. Si deve quindi dire che si tratta di estetiche né del tutto differenti né del tutto uguali: sono solo alcuni criteri a dover essere di necessità adattati a realtà differenti. L’apprezzamento estetico dei poemi come opera d’arte fruibile in quanto tale ha una sua lunga storia,173 che comincia in Omero stesso – ma, come s’è detto, ne è incerta la rilevanza – e continua subito dopo Omero. Quello che sorprende è in primo luogo che, essendone stato riconosciuto lo status orale solo di recente, tale apprezzamento si sia realizzato da sempre, fino a tempi a noi vicinissimi, seguendo criteri uguali a quelli delle altre opere, concepite e trasmesse fin dall’inizio per iscritto; e in secondo (e principalissimo) luogo che questo fatto non abbia impedito ai poemi di avere un loro posto non tanto paritario fra le altre opere, ma addirittura un posto di enorme superiorità. Con pochi e brevi episodi di flessione, specialmente nell’epoca del razionalismo fra il XVII e il XVIII secolo, i poemi sono stati quasi sempre considerati come i maggiori capolavori letterari in assoluto. Gli antichi vi avevano visto anche altre funzioni: per fare solo alcuni esempi, quella etica (anche se talvolta solo in negativo, com’è il caso di Senofane e dell’illuminismo greco) e quella politica (Pisistrato e le aggiunte attiche; e in generale tutta la grecità ha voluto vedervi rispecchiate le più varie esigenze di affermazione politica). Ma anche la funzione puramente estetica non è stata dimenticata. Basta ricordare l’apprezzamento che ne dà Aristotele nella Poetica (cap. XXIII), dove ne viene lodata l’opportuna selezione dei contenuti e la sapiente distribuzione compositiva soprattutto in confronto con il Ciclo; né mancano || 173 Si può rimandare alle sintetiche e lucide pagine di CODINO, Introduzione ... (cit. in bibl. VII), pp. 23–47; cfr. anche sez. A e il libro di FINSLER, cit. a nota 2.
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apprezzamenti dell’aspetto schiettamente formale, come quello di Dionisio di Halikarnassòs (De composit. verbor., cap. XVI), che loda la scelta e la disposizione nonché il collegamento dei nomi propri geografici nel catalogo delle navi (Il. II); su un altro piano ancora si pone l’autore del trattato Sul sublime, lodando la frequente «sublimità» del dettato omerico. L’età moderna si è raramente sottratta al fascino esercitato dai poemi, facilitata anche dal fatto che, per comune ammissione, l’Iliade e l’Odissea primeggiano di gran lunga su tutto il resto della letteratura epica antica e recente. Non possiamo qui seguire la storia della critica nei dettagli. Nella tematica, pur arcaica e legata a particolari situazioni culturali, diverse epoche e culture di vario livello si sono sempre riconosciute: nella ammirazione per la figura dell’eroe e nello stupore per la grandiosità dell’azione di guerra (Il.); nella descrizione di tipi umani che, per essere poco scavati dal punto di vista psicologico, non mancano per questo di avere una loro incisività (Achille iroso e generoso, Ettore magnanimo difensore della famiglia e della patria); nell’attaccamento di Odisseo, l’eroe astuto, per la sua terra e la sua casa e nella tenacia con cui persegue il programma del suo difficile ritorno (Od.); nella vivace descrizione di avventure in paesi sconosciuti e strani (Od.); nell’aderenza dei molti paragoni a fatti di natura (cfr. per tutto questo la sez. B). E l’elenco potrebbe continuare, ma sarebbe anche necessario fare i molti nomi degli estimatori – e dei pochi detrattori – antichi e moderni e dare le ragioni delle scelte critiche, quasi sempre in positivo e solo raramente in negativo. Di estetica dei poemi negli ultimi decenni si è parlato meno: un po’ per reazione alla considerazione sprovveduta che per molti secoli se ne era fatta, un po’ perché oggi, in clima di critica orale, il discorso è diventato più difficile. Ma è un problema reale, che va lentamente tornando alla ribalta. La difficoltà resta per molti quella di accordare la composizione a blocchi verbali (formule ricorrenti) e a blocchi contenutistici (temi) con la cosiddetta creatività originale (sezz. A, I). Bisogna prima di tutto considerare l’epiteto, e la formula in generale, non come una scelta occasionale e meccanica, ma come un elemento stabile e funzionale dell’armamentario dell’epos orale; e lo stesso va detto per i temi. Ma occorre anche, in omaggio ad una maggiore aderenza alle circostanze compositive iniziali, liberarsi dalla preminenza che si è sempre data (e che in molti altri casi si deve continuare a dare) all’invenzione pura e semplice – l’inventio degli antichi –, a quella che in certi ambienti si continua a chiamare originalità: qui va considerata anche la collocazione – la dispositio degli antichi –, in altre parole la composizione, la cosiddetta composizione monumentale dei poemi, che per avventura è così ben riuscita. In questo senso può avere ancora qualche ragione chi parla di un poeta, di un Omero, o qualunque nome egli abbia, che,
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selezionando dal ricco patrimonio epico ed opportunamente disponendo, ha messo insieme quelli che non si possono non definire dei capolavori sotto ogni aspetto. Molto è stato anche fatto sulla via del riconoscimento di interventi cosiddetti personali o originali, sia sul livello della dizione sia su quello della costruzione compositiva. Ma la difficoltà qui è di natura più sottile, data dalla nostra scarsa capacità di sceverare quello che dei poemi è integralmente orale, e quindi integralmente tradizionale, da quello che è intervento più personale di epoca scrittoria, e quindi assai meno integralmente tradizionale (specialmente sez. M). Ma l’elemento preminente e soprattutto inglobante resta pur sempre quello tradizionale, impostato nelle sue forme e nei suoi valori fin dalla primissima epoca orale creativa. Ogni intervento successivo, magari di epoca scrittoria, se per avventura individuato e accertato con le armi della filologia, non potrà intaccare l’ammirazione per il mondo epico nel suo complesso né accrescerà o diminuirà l’apprezzamento che per noi è oggi così importante, quello estetico. Da queste premesse, risulta chiaro come i poemi omerici siano opere che meno di ogni altra possano reggere ad una antologizzazione o esemplificazione di qualsiasi tipo. Ogni passo, per ricco di elementi autonomamente validi e a lor modo originali che esso sia, non si lascia estrapolare dal suo contesto: contesto che è non solo e non tanto contenutistico, come in tutte le opere di diverso tipo, ma soprattutto formulare e tematico. Ogni elemento compositivo, dai minori ai maggiori, si iscrive in una struttura che è perennemente presente dietro ad esso (asse paradigmatico) e intorno ad esso (piano sintagmatico), sia che tali elementi siano statisticamente molto frequenti, e quindi di tipicità accertata, sia che siano meno frequenti o addirittura unici, e quindi di tipicità incerta. Da quanto si è detto prima si capisce che non si vuole negare aprioristicamente l’esistenza di interventi del tutto originali anche nel senso più moderno della parola: si vuole solo qui affacciare il dubbio metodologico che deve guidare, soprattutto oggi, la lettura dei poemi. Con questa non retorica, ma reale recusatio dobbiamo chiudere le nostre considerazioni sulla funzione e sul valore estetico dei poemi. Il che nulla potrà togliere mai alla lettura cosiddetta ingenua, che continuerà in forme da secoli collaudate, da secoli remunerative e legate soprattutto alle temperature, spesso imponderabili, del gusto.
R. Conclusione Le argomentazioni qui esposte, per aperte che intenzionalmente siano state, tendono ad un quadro finale, ad una conclusione, della quale si resta fino alla
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fine debitori. In Homericis l’utopia sta dalla parte di chi voglia risolver tutto, non di chi si contenti di dare risultati parziali o di intravvedere prospettive nuove. Sintetizziamo qui questi risultati parziali e cerchiamo di mettere a fuoco queste prospettive. Omero è per noi un nome tradizionale che può ricoprire sia i cantori che fecero nascere e crescere inizialmente l’epos arcaico sia i più tardi rielaboratori che portarono i poemi alla forma attuale. La civiltà in cui vissero i primi cantori, il medioevo ellenico (XI–VIII secolo a.C.), fu un’epoca di cultura totalmente orale (specialmente sezz. A, N) e i poemi epici, sicuramente in numero e misura maggiore di quelli che sono pervenuti a noi, erano i veri testi di cultura di tale civiltà, con le loro caratteristiche di enciclopedismo ed ecumenicità (sezz. C, N), ricavabili dai loro contenuti (sez. B). Il circolo della comunicazione, realizzata attraverso il canale orale, coinvolgeva e faceva interagire destinatore e destinatario nel tipico meccanismo dell’empatia (sez. N). Ovviamente le memorie di un’epoca ancora anteriore, quella della guerra di Troia (secolo XIII: sez. E), non erano spente: come su questo e altro ci informa la comparazione (sez. N), un lasso di tempo di due o tre secoli può ben separare gli avvenimenti da chi imprende a cantarli; e d’altra parte l’arcaismo e l’anacronismo (sez. E) e ogni altra forma di incongruenza narrativa (sez. F) fanno parte di pieno diritto di quel particolare testo di cultura che è il poema epico (sez. E). A mediare la forma poetica esametrica, interna al configurarsi del testo, possono esserci stati in origine carmi epico–lirici o carmi lirici (sez. H). La prassi della composizione orale si affina progressivamente creando a poco a poco una lingua composita e artificiale (sez. G), che prende la forma di un sistema formulare estremamente efficiente (sezz. I, L). Veicolo naturale ne è un metro raffinato come l’esametro dattilico epico, evidentemente funzionalizzato alla performance orale, come si evince dall’analisi delle sue strutture interne (sez. H): quanto noi ne abbiamo, tecnicamente già così evoluto, non lascia se non intravvedere confusamente l’epoca dei primi tentativi. L’attività dei cantori si scontra in un certo momento, all’incirca verso la metà dell’VIII secolo, con la realtà di un mezzo tecnologico nuovo, la scrittura (sez. D). Qui si è proposto un modo particolare di leggere i poemi (sez. M), che conduce a vederne parte come eredità diretta dell’epoca orale e parte come elaborazione di civiltà scrittoria, pur se nel composto finale le varie parti risultano difficilmente districabili con sicurezza. Dell’epoca orale i poemi attuali sono quindi solo testimonianza, non documento integrale: oralità e scrittura convivono già all’interno stesso dei poemi (sezz. A, M). I poeti posteriori ad Omero (sezz. O, P) servono qui essenzialmente da contrasto per capir meglio lo specifico dell’epica più arcaica: si tratta di poeti così
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palesemente non orali, che, in virtù dell’opposizione contrastiva “orale / non orale”, fanno risaltare più vivamente gli indizi convergenti dell’oralità omerica (sez. N). La facies culturale dell’età epica creativa risulta, così, profondamente diversa da tutte quelle che l’hanno seguita. Quella immediatamente successiva (VII–IV secolo) è aurale, mentre con l’ellenismo si entra in piena civiltà scrittoria (sez. I). Fino a due secoli fa, all’epoca di Winckelmann, il cosiddetto mondo greco – o “ellenico”, con una elatio stilistica che ne voleva assicurare e conservare la canonizzazione umanistica – era sembrato ancora una cultura unitaria. Ma tale mondo era andato mostrando a poco a poco le sue diverse facce, culturalmente fra loro così poco omogenee. L’attenzione si è via via concentrata ora sull’uno ora sull’altro momento, a seconda di predilezioni e scelte operate dalle singole epoche, anch’esse varie, della cultura europea. Sull’età arcaica e classica fecero le loro prove il classicismo tedesco della fine del Settecento e il successivo romanticismo; l’ellenismo emerse come cultura autonoma e non di decadenza dalla metà del secolo scorso in poi, da quando fu riabilitato dal punto di vista storico–politico da Droysen (1836) e dal punto di vista letterario, a suo modo, da Wilamowitz nonché da chi raccolse la sua voce; la grecità tarda si è imposta autonomamente in tempi a noi ancora più vicini. Resta ancora da far molto, ma l’essenziale è, preventivamente, vedere delle differenze là dove differenze ci sono: individuare lo specifico di tali differenze può ben essere processo lento, ma lo si segue con fiducia, una volta che si sia capito di avere imboccato la via giusta. L’epoca pre–arcaica, invece, quella dell’epos integralmente orale, restava ancora saldata all’epoca arcaica ed è solo negli ultimi decenni che, specie in seguito al riconoscimento di aspetti formali dei suoi testi di cultura (la formularità di Parry), si sono poste le premesse per distaccarnela e recuperarla così nelle sue peculiari valenze culturali. Il cosiddetto mondo greco appare oggi meno unitario che mai. È, questo, un risultato tutt’altro che trascurabile dell’affermarsi sempre crescente del metodo antropologico. Resterebbe da dar ragione del fascino che i poemi hanno sempre, con poche oscillazioni, esercitato come opere d’arte (sez. Q): e non solo prestandosi a criteri di giudizio che oggi vediamo applicabili ad opere composte con strumenti e funzioni diverse (opere scrittorie), ma addirittura prestandovisi con netto vantaggio. L’Iliade e l’Odissea sono state e sono per molti i maggiori capolavori della letteratura mondiale. Nonostante il clima culturale in cui sono nate, e che ci obbliga oggi a leggerle con occhio più smaliziato di una volta, non sono una sequenza di frammenti, ma – come già si erano accorti gli antichi – opere con un centro e una struttura narrativa ben precisa. È un caso? No certo. Dobbiamo
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almeno tener conto del fatto, anche se la genesi di esso ancora nel dettaglio ci sfugge.
Nota bibliografica Con una selezione che in campo omerico non può essere che arbitraria, la bibliografia propone alcune opere che si possono considerare o essenziali o utilmente introduttive. La divisione per argomenti è approssimativa e di comodo. I. EDIZIONI Homeri opera, 5 voll.: Ilias, I–II, edd. D. B. Monro, Th. W. Allen; Odyssea, III–IV, ed. Th. W. Allen; Hymni, Cyclus, ecc., V, ed. Th. W. Allen (I–II3, 1920; III2, 1917; IV2, 1919; V, 1912). Oxford. A. LUDWICH, Homeri Carmina: Ilias, I, 1902; II, 1907; Odyssea, I, 1889; II, 1891. Leipzig. TH. W. ALLEN, Homeri Ilias, I–III, Oxford 1931. P. MAZON, Homère. Iliade: I, 1937; II, 1937; III, 1938; IV, 1938. Paris. P. VON DER MÜHLL, Homeri Odyssea, Basel 1946. G. KINKEL, Epicorum Graecorum fragmenta, Leipzig 1877. U. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Vitae Homeri et Hesiodi, Berlin 1929. II. COMMENTI K. F. AMEIS, C. ΗΕΝΤΖΕ, P. CAUER, Homers Ilias, Leipzig 1905–22; Homers Odyssee, ibid. 1905–22; con gli Anhänge. W. LEAF, The Iliad, Ed. with appar. crit., proleg., not. and appendices, I2, 1900; II2, 1902. London. W. W. MERRY, J. RIDDELL, D. B. MONRO, Odyssey, I2, 1886; II, 1901. Oxford. TH. W. ALLEN, W. R. HALLIDAY, E. E. SYKES, The Homeric Hymns, Oxford 19362. F. CASSOLA, Inni omerici, Milano 1975. III. PAPIRI R. A. PACK, The Greek and Latin Literary Texts from Greco–Roman Egypt, Ann Arbor 19652. ST. R. WEST, The Ptolemaic Papyri of Homer, Köln–Opladen 1967. H. J. METTE, «Lustrum» (Cfr. VI, Bibliografie). IV. SCOLI H. ERBSE, Scholia Graeca in Homeri Iliadem, 5 voll, (I–XXIV), I, 1969; II, 1971; III, 1974; IV, 1975; V, 1977. Berlin. W. DINDORF, Scholia Graeca in Homeri Odysseam, 2 voll., Oxford 1855. M. VAN DER VALK, Eustathii Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes, I, 1971; II, 1976. Leiden. V. LESSICI H. EBELING, Lexicon Homericum, 2 voll., Leipzig 1885. A. GEHRING, Index Homericus, Leipzig 1891. G. L. PRENDERGAST, A Complete Concordance to the Iliad of Homer, New Edition Completely Revised and Enlarged by B. Marzullo, Hildesheim 1962 (18751). H. DUNBAR, A Complete Concordance to the Odyssey of Homer, New Edition Completely Revised and Enlarged by B. Marzullo, Hildesheim 1962 (18801).
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Gli oracoli come documento di improvvisazione A stare alle testimonianze esterne che ci vengono fornite sul rituale delfico dell’interrogazione fatta all’oracolo, i responsi oracolari, quando il loro testo sia conservato, ci forniscono un documento, unico nel suo genere, di improvvisazione estemporanea. In rapporto alla configurazione del testo degli oracoli, la parte del rituale che concerne la domanda al dio e la risposta è certo la più interessante1 (Flacelière 1961, 72–7; P.–W. I, 17–45, spec. 30–4; McLeod, 320; Lloyd–Jones, 65–8; Parke, 72–89, spec. 80–5). Le notizie non sono molte né univoche, ed è strano, perché non sembra che tale rituale sia mai stato un mistero per i greci (P.–W. 1, 17). L’incertezza verte soprattutto su chi sia a rispondere alla domanda del richiedente, se la pizia, dai recessi della cella, o il sacerdote che entra in contatto col richiedente. In quest’ultimo caso il sacerdote sarebbe, naturalmente, solo un interprete autorizzato a dar forma, in versi o in prosa, alle manifestazioni ispirate e più o meno verbalizzate della pizia. Non è qui il caso di discutere questo problema né di esprimere una fondata preferenza per la seconda ipotesi. In realtà è quest’ultima a presentarsi come la più probabile, visto che sappiamo esser stata la pizia fin dai tempi antichi scelta fra contadine ignoranti ed in virtù proprio della sua ignoranza e costumatezza di vita (l’età anche giocava un suo ruolo, dovendo essere superiore ai cinquant’anni); può darsi anche che le divergenze nella tradizione rispecchino varietà di procedura a seconda dei tempi; o che molti riferimenti all’attività compositrice della pizia siano solo espressione figurata del fatto che, all’origine del testo definitivo, ci sarebbe pur sempre l’esprimersi profetico della pizia, come quando si dice che a dar l’oracolo è Apollo, primo anello della catena. Che questa catena sia Apollo–pizia o Apollo–pizia–sacerdote per noi non ha qui grande importanza: quello che risulta certo è che la risposta doveva venir subito comunicata al richiedente e che, anche nel periodo in cui i giorni d’interrogazione da annuali divennero mensili, il lavoro doveva esser molto – e fu per questo che a un certo momento si istituirono due pizie, con una terza di sostegno. In altre parole: l’improvvisazione estemporanea ci viene data per sicura, e doveva essere per di più anche veloce, per venire incontro alle esigenze di un pubblico che,
|| [Relazione di convegno (G 29.9.1977, mattina), pubblicata in C. Brillante – M. Cantilena – C. O. Pavese (edd.), I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale. Atti del Convegno di Venezia, 28–30 settembre 1977, Padova, Editrice Antenore, 1981, pp. 203–220, con Postilla nella p. 221 e Discussione nelle pp. 222–230] 1 Per la bibliografia v., in fondo, l’appendice bibliografica. https://doi.org/10.1515/9783110648126-005
Gli oracoli come documento di improvvisazione | 101
costituito com’era da pubblici ufficiali incaricati da comunità cittadine o da semplici privati, era certo numeroso, nei pochi giorni di udienza. La tematica delle risposte, concernenti affari pubblici e affari privati, era di necessità piuttosto varia: una lista è data da Plutarco, Pyth. orac. 408 b, c. Questo accresceva la difficoltà dell’improvvisazione. La prassi dell’improvvisazione riveste per noi un interesse particolare proprio nel caso di risposte in versi, che sono prevalentemente esametri, anche se risposte prosastiche sono presenti già in età arcaica, come ci informa di nuovo Plutarco, ibid. 405 e, che si pone il problema proprio del prevalere assoluto, al tempo suo, di responsi prosastici. Specie in età arcaica, come si vede dalla raccolta di Parke–Wormell, i responsi sono per la maggior parte esametrici. C’è chi crede addirittura apocrifi tutti quelli in giambi (Latte, 845S.); e c’è chi (come Parke 1945) pensa che a quelli in giambi fossero affidate le risposte negative e sprezzanti. In ragione della veneranda antichità con cui si offre ai greci la tradizione esametrica e in ragione della diffusione di tale strumento metrico, la scelta prevalente dell’esametro non è che naturale. C’è addirittura un filone della tradizione che fa nascere l’esametro dai responsi oracolari stessi (Dodds, 92.70; P.W. 1,33SS. e nn.). Ora, la tradizione epica, in quanto nata in clima orale e per lungo tempo affidata alla tecnica compositiva orale, nasceva nell’epoca creativa dalla prassi di un suo tipo d’improvvisazione (Young; Russo, 289S.; Kirk 1977, 72S. e n. 6, 137; anche Dodds 92.70), largamente legato alla memoria di quelli che possiamo chiamare, genericamente, blocchi compositivi. Ogni discorso articolato è, al momento del suo nascere, un’improvvisazione, un bricolage di elementi che possono variare da caso a caso, seguendo le vicende di una memoria che si esercita su materiali di volta in volta di diversa natura. L’oralità epica primigenia, che man mano si discosta dalle condizioni originarie coll’intervenire del mezzo scrittorio (Rossi 1978), ha a sua disposizione per l’improvvisazione una lingua tutta sua, formulare, costituitasi attraverso addirittura secoli di affinamento; una lingua che, per quanto artificiale, conserva una sua vitalità autonoma nell’ambito in cui essa viene usata e in cui ha raggiunto una sua funzionalità, e cioè la composizione dell’epos, più o meno legata alle formule. Si aggiunga che il materiale tematico è abbastanza omogeneo, formalizzabile in un numero limitato di unità compositive. L’attività più intensa per noi ricostruibile dell’oracolo di Delfi, che corrisponde anche all’apogeo della sua importanza politica, va dal VII al V sec. a.C. (Flacelière 1961, 77; McLeod, 318S.), epoca in cui l’attività compositiva orale dell’epos è cessata da un pezzo e in cui è intervenuta la scrittura a mutare la facies della cultura greca (Rossi 1978). L’improvvisazione esametrica oracolare si presenta quindi come del tutto diversa da quella epica e doveva avvenire
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attraverso l’utilizzazione o meglio il riuso di una lingua ormai canonizzata e sclerotizzata, quella dell’esametro, che continuava, sì, ed avrebbe continuato ancora per secoli, ad avere una sua vita letteraria, ma appoggiata alla tecnica scrittoria. Del processo compositivo arcaico, orale e improvvisatorio a suo modo, il responso oracolare conserva soltanto l’aspetto improvvisatorio, legato alla memoria di moduli sclerotizzati, e cioè al modello epico; definirlo anche orale mi pare improprio, se è necessario riservare la definizione di orale ai prodotti di una cultura che manchi della scrittura. È chiaro che non va sottovalutato l’aspetto aurale (Rossi 1978), che fino almeno al IV secolo dominerà in Grecia i fatti di comunicazione e che – come vedremo – avrà la sua influenza anche nella composizione degli oracoli. Quelli che, come me, credono alla determinante influenza configurante della scrittura per le redazioni ultime del testo omerico e giù giù da Esiodo in poi, non potranno definire rigorosamente orale la composizione dei responsi oracolari a noi pervenuti. Si tratta di evitare equivoci di ordine storico: è chiaro infatti che, escludendo la definizione di oralità, non penso certo all’uso della scrittura come strumento indispensabile del personale delfico. Voglio affermare soltanto che siamo in fase già aurale e non più orale. Propongo qui di verificare con c r i t e r i i n t e r n i la pratica improvvisatoria, così chiaramente attestata dalle testimonianze esterne. Leggere i testi in questa chiave sarà di qualche utilità. Ne verrà qualche conseguenza anche per la soluzione di un problema che è centrale per la valutazione storica e antropologica degli oracoli, e cioè la loro autenticità. Si dà il caso che per la grande maggioranza essi ci sono tramandati da fonti letterarie relativamente tarde rispetto ai primi prodotti, e cioè per es. Erodoto, Diodoro Siculo, Strabone, Pausania, Plutarco (P.–W. II, VII ss.). Pochi sono quelli trasmessi da epigrafi (P.– W. ii, vii). L’autenticità è stata spesso messa in dubbio dagli antichi e dai moderni: il razionalismo religioso è stato in ogni tempo incline a svalutare i fenomeni d’ispirazione mantica e a vedere dappertutto falsi opportunistici o rifacimenti post eventum. Non che questi fatti manchino, tutt’altro, e in qualche caso sono anche accertabili. Ma il fenomeno della mantica va visto nella sua giusta luce antropologica, come fa per esempio Dodds (70–5), assegnando il suo valore e le sue funzioni sia al luogo psicologico della divinazione in senso attivo sia al ruolo del divinatore in una società che ne esprime l’esigenza, sia pure in relazione a fattori politici e di propaganda. Scetticismo totale (P.–W. II, spec. XXI ss.) o negazione e bagattellizzazione del problema (per es. Latte, 846; McLeod 319.9) sono due atteggiamenti da evitare. Tanto più se sarà riconosciuto valido il criterio che qui in via sperimentale propongo: che, cioè, l a p r e s e n z a d i scorrettezze tecniche e di brutture stilistiche, più ancora che forme anti–epiche, sia garanzia di auten-
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ticità in quanto prodotto, conservato dalla tradizione, del processo di frettolosa improvvisazione. Questa proposta da una parte presuppone, e dall’altra intende verificare, una fedeltà di trasmissione che abbia origine nel considerare il responso oracolare come qualcosa di sacro e di intoccabile. Teognide, 805–10 (P.–W. II, XXXIII) ci dà una testimonianza preziosa, là dove stabilisce i doveri delicatissimi del ϑεωρός nel conservare la parola del dio; e a Sparta c’erano funzionari appositi incaricati di conservare i testi dei responsi (P.–W. II, XIV s.: Hdt. 6.57.2, Xen. Lac. 15.5 etc.). Ovviamente l’interessato poteva disporre la redazione scritta del responso (P.–W. 1, 33, 43.69). Durezze di stile epico sono presenti anche nel filone epico stesso della poesia esametrica, come hanno dimostrato ultimamente specie gli studi di Hoekstra; ma se negli oracoli rilevanti imperfezioni tecniche nel trattamento prosodico della lingua e nella struttura metrica del verso si sono conservate inalterate nella tradizione, questo vuol dire che è stata religiosamente conservata la forma data originariamente al responso dall’improvvisazione. Tanto più quando le fonti che ci trasmettono il responso siano più d’una e indipendenti, il che avviene spesso. Per le premesse qui sopra esposte su quanto intendo qui per oralità e sulle ragioni che mi inducono ad escluderla per gli oracoli, si capisce come io consideri di scarso interesse un inventario degli ‘omerismi’ più o meno ‘formulari’ presenti negli oracoli stessi. È il lavoro che ha fatto W.E. McLeod nel 1961, che ha comunque il merito di aver richiamato l’attenzione degli studiosi su questo particolare genere letterario – se così ci è lecito chiamarlo – per stabilire un suo status nei confronti degli altri. Ma le sue conclusioni (p. 322), che cioè gli oracoli sono orali fino al V–IV secolo e cioè fino a 181 P.–W., mi sembrano errate. L’omerismo è naturale e presente negli oracoli esametrici come è naturale e presente in tutta la poesia esametrica prealessandrina: e non per questo è lecito considerare orale la letteratura che contiene gli omerismi stessi. Col 400 a.C. non si crea alcun vero iato: gli omerismi saranno poi meno frequenti negli oracoli solo perché tutta la poesia esametrica, specie in età alessandrina, si emancipa sempre più da Omero, e non per generali ragioni di vero cambio di cultura, bensì per innovazioni nella lingua e soprattutto nella poetica. Non farei quindi, come invece fa McLeod, limitazioni cronologiche: la continuità è assicurata dalla continuazione dell’elemento più importante, e cioè l’improvvisazione. Noi prenderemo qui in esame alcuni oracoli particolarmente interessanti dal nostro punto di vista, alcuni considerati anche da McLeod per ragioni opposte alle nostre ed alcuni, ovviamente, ignorati da lui proprio perché privi di quegli omerismi che, a suo avviso, hanno rilevanza. Del resto più d’uno dei suoi paral-
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leli, a un controllo accurato, si rivela troppo tenue o assolutamente improbabile come fonte sia mnemonica sia scritta. È significativo che McLeod non consideri un oracolo col quale nel 480 a.C. il dio vaticina agli spartani l’alternativa fra la perdita della loro città, grande e famosa, e la morte di uno dei loro re (trasmesso da Erodoto, 7.220.3, da Eusebio e dall’Antologia Palatina, 24.96): 100 P.–W.
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ὑμῖν δ’ ὦ Σπάρτης οἰϰήτορες εὐρυχόροιο, ἢ μέγα ἄστυ ἐριϰυδὲς ὑπ’ ἀνδράσι Περσεΐδῃσι πέρσεται, ἣ τὸ μὲν οὐχί, ἀφ’ Ἡραϰλέους δὲ γενέϑλης πενϑήσει βασιλῆ φϑίμενον Λαϰεδαίμονος οὗρος. οὐ γὰρ τῶν ταύρων σχήσει μένος οὐδὲ λεόντων ἀντιβίην· Ζηνὸς γὰρ ἔχει μένος οὐδέ ἕ φημι σχήσεσϑαι, πρὶν τῶνδ’ ἕτερον διὰ πάντα δάσηται.
Nel secondo verso abbiamo una insopportabile durezza, che è o metrica (una sillaba in più) o prosodica: ἢ μέγα ἄστυ ἐριϰυδές. Impossibile l’elisione della υ; del tutto improbabile una sua consonantizzazione, come pure una sinizesi. Già nel 1939 giustamente O.J. Todd difese la lezione contro chi voleva emendarla (δῶμ’), riportandone il difetto di versificazione alla fretta improvvisatoria (p. 164) e confrontando altri esempi di esametri difettosi, come quelli famosi riportati da Platone come tali in Phaedr. 252 b. Non credo che si possano portare a conforto, come fa Todd, anche i numerosi errori degli esametri epigrafici, di cui parleremo alla fine. Todd aveva ragione a essere conservatore nel testo, qualunque sia stato il modo con cui i greci avranno letto quest’esametro impossibile: forse con una eccezionalissima vera e propria sinalefe; o forse con un’aferesi? Non parla di autenticità, ma è chiaro che l’accetta in pieno. È strano che la difesa del testo tradito, insieme colla notazione di alcune ulteriori particolarità, abbia portato Parke e Wormell nel 1949 – e restano della stessa idea in P.–W. 1,166–8 e 11,44 – a postulare la non autenticità, anche se viene accettata l’origine delfica. L’accostamento a 382.4 P.–W.
ϰαὶ Μυϰάλης ὄρος αἰπὺ ἀπεναντίον Ἐνδυμίωνος,
anch’esso ritenuto non autentico ma di origine delfica – e forse tale, in vista della forte intenzionalità del collegamento fra Magnesia sul Meandro e Delfi (P.–W. 1,52 ss.) – non dice niente né in favore né contro. Mentre la non epicità del nesso 4 Λαϰεδαίμονος οὖρος (cf. 95.4 Κέϰροπος οὖρος; cf. l’epico οὖρος Ἀχαιῶν) può far pensare, come vedremo più sotto, a poco abile riuso della lingua epica. La forma dialettale delfica βασιλῆ confermerebbe il falso secondo P– W., ma è anch’essa – a mio parere – garanzia di autenticità proprio per la sua
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eccezionalità: una forma dialettale epicorica si offre spontaneamente a chi improvvisa. La durezza di versificazione e la forma dialettale fanno concludere P.– W. per «tecnica frettolosa» (P.–W. 1949: hasty workmanship). Ma è proprio quello di cui andiamo in cerca come garanzia di autenticità! È vero che in 1,166– 8 Parke e Wormell fanno valere particolari ragioni storiche per la non autenticità: la morte di uno dei re sarebbe stato evento difficilmente prevedibile e d’altra parte Hdt. 7.239 farebbe pensare a una manipolazione di origine spartana. Qui non mi sento di entrare nella questione storica. Mi basta far notare come l’evidenza interna del testo provi la fretta improvvisatoria e di conseguenza faccia propendere per l’autenticità: un falsario sarebbe stato forse attento a non introdurre la forma dialettale, ma non avrebbe certo prodotto la bruttura del secondo verso. Se i risultati di questa mia indagine entrano in conflitto col parere degli storici, non resta che chiedere umilmente agli storici di verificare i loro pareri sia sulla base dell’evidenza documentaria sia sulla base di un corretto apprezzamento antropologico sulla probabilità o meno che un oracolo come questo, certo chiaro e niente affatto ambiguo, cogliesse nel segno, e cioè prevedesse la morte del re Leonida alle Termopili. Prima di continuare la nostra caccia all’errore, è bene ricordare un testo ben noto a chi si occupa di oracoli, e cioè l’operetta di Plutarco Περὶ τοῦ μὴ χρᾶν νῦν ἔμμετρα τὴν Πυϑίαν (De Pythiae oraculis). In essa Plutarco fa discutere ai personaggi del dialogo la scarsa qualità tecnico–poetica degli oracoli delfici in versi. Che non si tratti degli oracoli del suo tempo, bensì di tutto il corpus, è chiaro dal fatto che Diogeniano lamenta «la rozzezza e la banalità» degli oracoli (τὴν φαυλότητα ϰαὶ τὴν εὐτέλειαν), che sono «pieni e di stonature e di rozzezze e nel metro e nelle parole» (ϰαὶ τοῖς μέτροις ϰαὶ τοῖς ὀνόμασι πλημμελείας ϰαὶ φαυλότητος ἀναπεπλησμένους) – 396 c, d – proprio in occasione della citazione fatta da qualcuno di un oracolo, certo di veneranda antichità, «intorno al regno di Egòne argivo» (483 P.–W.). Il testo di quest’oracolo non è conservato. Tipica di un certo modo di affrontare l’argomento è l’affermazione di P.–W. 1,114 s.: per essere così brutto come veniva giudicato dai personaggi plutarchei, quell’oracolo non poteva essere antico, bensì doveva essere opera di un più tardo falsificatore (some later inventor). Come se un falsario dovesse avere, per confezionare il suo falso, condizioni di lavoro peggiori di quelle del personale pitico; o come se dovesse essere per forza un ignorante; o come se l’autore o l’eventuale committente del falso dovesse sottovalutare l’importanza della sua opera. Anzi, se mai avrebbe rischiato di confezionare un testo qualitativamente di troppo superiore al livello medio delle improvvisazioni delfiche! Mai come nei materiali che stiamo esaminando le equazioni ‘originale = bello’ e ‘apocrifo = brutto’, care alla vecchia filologia positivistica e alle sue propaggini attuali, si
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rivelano fuorvianti. Niente del resto contrappone, nel dialogo, il modo di far versi contemporaneo a Plutarco a quello dei tempi più antichi. Gli esametri sarebbero addirittura spesso acefali, lagaroi e miuri (379 d), casi che in realtà non si presentano per il materiale conservato. Come poi questi fatti non ostino, per il religiosissimo Plutarco, alla divinità di un oracolo che conterebbe tremila anni di esistenza (408 d), non è qui il luogo di ricordare (Flacelière 1943; Ziegler). Quanto dice Plutarco è spiritosamente confermato da Luciano (Iup. Trag. 6), quando fa rifiutare a Hermes, pregato da Zeus, di pronunciare un ϰήρυγμα in versi, poco abile nella versificazione com’egli si dichiara, simile in questo ad Apollo, che si fa deridere per la bruttezza dei suoi oracoli. Gli oracoli sono insomma l’unica poesia esametrica di cui gli antichi esplicitamente riconoscono la cattiva qualità: e a che cosa essa sarebbe dovuta se non alle condizioni in cui veniva prodotta? Un’utile lista di durezze metriche e prosodiche troviamo in P.–W. II, XXIX s. (v. anche Flacelière 1961,73 s., 117 s.). E sono opportunamente imputate ai bisogni dell’improvvisazione. Quarto e quinto piede sono contemporaneamente spondaici in 31.1, 318.2, 473.20 (sul primo esempio avremo a tornare qui di seguito); esametri con un solo dattilo sono 35.2, 46.1, 129.2, 250, 473.4, 493.9; la legge di Wernicke è violata in 226.6; aggiungo che il divieto di divisione in due – che io chiamo legge di Varrone (Varr. fr. 220, p. 259 Fun.) – è violato in 471.3. Durezze prosodiche non mancano: a parte l’inaudito 100.2, già visto, a cui va aggiunto anche 382.4 (v. sopra), c’è elisione inconsueta in 409.4 (ἐννεσίῃσ’ ἥρωα) e iati duri in 222 (ἄλλο δὲ οὐδέν), 357.2 (ἔργα ἄπιστα). Aggiungo un fatto prosodico singolare, lo iato interno con abbreviamento in ποιέω in 46.6 (ἔνϑα Τάραντα ποιοῦ), della prima metà del VI sec.: si tratta di fenomeno attico che compare principalmente nel trimetro dei drammaturghi (v. L.–S.–J. s.v.), ma mai nelle numerose occorrenze esametriche di ποιέω. Dato il numero complessivo non molto elevato degli oracoli esametrici, si tratta di eccezioni metriche e prosodiche abbastanza frequenti: sarebbe interessante fare una comparazione statistica, specie per gli iati, con Omero, Esiodo, gli Inni etc. Ma vediamo alcune palesi infrazioni del codice epico, che sono di tanto più interessanti in quanto si presentano come fatti unici nella prassi versificatoria esametrica posteriore ad Omero. È merito di Kirk, sulle orme di Leumann e Page, aver rievocato la necessaria distinzione fra fatti ‘non–epici’ o ‘non– tradizionali’ e fatti ‘anti–epici’ o ‘anti–tradizionali’ (Kirk 1960, 203 s. = 188 s., cf. 195 s. = 180 s.): i primi sono semplicemente innovazioni, i secondi sono vere e proprie infrazioni del codice. Ora, c’è un oracolo che è sicuramente autentico (P.–W. 1, 67 s.):
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2 P.–W.
Ὀρτυγίη τις ϰεῖται ἐν ἠεροειδέι πόντῳ Θριναϰίης ϰαϑύπερϑεν, ἵν’ Ἀλφειοῦ στόμα βλύζει μισγόμενον πηγαῖσιν ἐυρρείτης Ἀρεϑούσης.
Riguarda la fondazione di Siracusa, circa il 733 a.C. McLeod (p. 321) lo prende in considerazione per le ovvie formule omeriche. Ma c’è anche un anti–epicismo che si presenta come un vero e proprio fatto d’imbarazzo improvvisatorio: al v. 1 Όρτυγίη τις ϰεῖται presenta τις legato direttamente al nome geografico. Se i miei controlli sono stati accurati (Prendergast–Dunbar in questi casi ci lasciano a secco; ho dovuto servirmi del Gehring), sia nei poemi sia nella successiva letteratura esametrica fino al V sec. mai τις è legato a un nome proprio geografico senza il nome comune (terra, isola, città etc.). Il nesso più comune è con ἔστι iniziale o no di verso: Il. 2.811, 11.711, 722, Od. 4.354, 844, 13.96, 19.172. Con verbi differenti (ϰεῖται, ϰιϰλήσϰεται) Od. 7.244, 15.403; e, ovviamente, in alcuni casi c’è il solo nome comune: Il. 13.32, Od. 3.293 (con ἔστι), Od. 13.234 (con ϰεῖται); con genitivo partitivo Od. 4.607, 5.101, 13.234. L’indefinito τις è altrimenti frequente da solo (tipo ὣς ἄρα τις εἴπεσϰε) ο con un genitivo partitivo di persona (Od. 14.178) e, naturalmente, con nome comune e in più il nome proprio (Od. 9.508). Gli unici casi in cui τις è legato ad un solo nome proprio sono pochi casi di nome di persona: Il. 5.9 (Darete), 10.314 (Dolone), 13.663 (Euchenore), Od. 10.552 (Elpenore). Si può anche avanzare un’ipotesi per questo stato di cose: nell’ambito della narrazione epica, che non deve lasciare vuoti d’informazione, il nome geografico, a differenza del nome di persona, ha bisogno di essere precisamente determinato dall’indicazione della categoria geografica a cui appartiene. L’oracolo, che parla di cosa nota, si sbarazza di questo obbligo epico: ma non cessa per questo di essere anti–epico. Non so se vale la pena di segnalare un possibile ‘punto leumanniano’ – inteso in senso generativo, e non materiale – da cui sarebbe derivato l’anti–epicismo dell’oracolo attraverso un tipico processo di ‘orecchio interno’ che risulta essere una modificazione formulare – uso ‘modificazione’ nel senso della ‘flessibilità’ di Hainsworth –: Od. 7.244
Ὠγυγίη τις νῆσος ἀπόπροϑεν εἰν ἁλὶ ϰεῖται.
Il fenomeno ritorna anche in un altro oracolo: 33.1 P.–W.
ἔστι τις Ἀρϰαδίης Τεγέη λευρῷ ἐνì χώρῳ.
L’oracolo fu reso agli spartani prima della conquista di Tegea per la ricerca della tomba di Oreste (circa la metà del VI sec.: P.–W. 1, 94–6). Fuorviante è qui McLeod (p. 321), che rimanda a 381.1 P.–W. ἔστι τις... ἀνήρ, caso del tutto diver-
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so se messo in rapporto coll’uso epico (l’epica evita l’anonimato, ma qui non c’è scelta: «un certo tale» fa parte della situazione a cui si riferisce l’oracolo). Un altro caso notevole che mi è venuto di osservare è 73 P.–W.
εὐδαίμων Συβαρῖτα, πανευδαίμων, σὺ μὲν αἰεί ἐν ϑαλίῃσιν ἔσῃ, τιμῶν γένος αἰὲν ἐόντων. εὗτ’ ἂν δὴ πρότερον ϑνητὸν ϑεοῦ ἄνδρα σεβίσσῃς τηνίϰα σοι πόλεμός τε ϰαί ἔμφυλος στάσις ἤξει.
L’oracolo riguarda la distruzione di Sibari nel 510 a.C. e la sua autenticità non è contestata (P.–W. 1,152–4). Al v. 2 gli dei sono chiamati γένος αἰὲν ἐόντων. Ora, anche qui mai per una locuzione del genere manca ϑεοί: le formule usuali sono (μάϰαρες) ϑεοὶ αἰὲν ἐόντες (senza μάϰαρες solo Il. 1.290, 494, 21.518), ϑεῶν ... αἰὲν ἐόντων, ϑεοὺς ... αἰὲν ἐόντας,
le due ultime con ‘separazione’ dovuta alla prosodia. Sono, tutte queste, delle trasgressioni all’uso epico che si presentano del tutto isolate nell’ambito della poesia posteriore ad Omero (mi risulta che siano assenti anche dalla lirica): stonerebbero in chi fosse ancora nella scia dell’autentica poesia orale; d’altra parte non se le sarebbe permesse un versificatore accurato a cui la lingua epica si fosse presentata come ovvio modello da seguire obbligatoriamente. Ma vediamo ora alcune brutture, insieme con alcune costanti stilistiche che, pur rilevate da alcuni, non sono state messe a frutto per la comprensione dei modi con cui si realizza l’improvvisazione oracolare. Un oracolo fu reso agli spartani a proposito delle loro pretese sull’Arcadia, terra che il dio non voleva conceder loro: 31 P.–W.
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Ἀρϰαδίην μ’ αἰτεῖς; μέγα μ’ αἰτεῖς· οὔ τοι δώσω. πολλοὶ ἐν Ἀρϰαδίῃ βαλανηφάγοι ἄνδρες ἔασιν, οἵ σ’ ἀποϰωλύσουσιν· ἐγὼ δέ τοι οὔτι μεγαίρω. δώσω τοι Τεγέην ποσσίϰροτον ὀρχήσασϑαι ϰαὶ ϰαλὸν πεδίον σχοίνῳ διαμετρήσασϑαι.
Siamo nella seconda metà del VI sec. (P.–W. 1, 94). A parte la sovrana bruttezza ritmica del primo verso (spondaiche quarta e quinta sede: ne abbiamo già parlato), esso ha anche una inconsueta stentatezza sintattico–ritmica: il duplice asindeto, in sé fatto di immediatezza colloquiale (Ar. nub. 783), si articola rigidamente sulle due incisioni pentemimere e bucolica. C’è da notare, in più, uno stentato andamento compositivo, che porta in cinque versi a tre ripetizioni: 1 αἰτεῖς, 1–4 δώσω, 1–3–4 τοι. È troppo, anche per chi abbia presenti le belle
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pagine di J. Jackson, Marginalia scaenica, Oxford 1955, 220–2 sulla propensione degli antichi a non evitare le ripetizioni. La seconda persona, qui ossessivamente ripetuta tre volte, è caratteristica degli oracoli (P.–W. II, XXV sulla frequenza di σύ e ὑμεῖς): tradisce immediatezza quasi colloquiale (familiarity and contempt, dicono P.–W.), e ne vanno tratte le debite conseguenze su uno stile frutto di reazione immediata ed estemporanea e quanto mai lontano dall’epos. Ne fa fede anche la presenza del τοι particella in altri oracoli (P.–W., II, Index verborum: cinque casi), probabilmente apparentata etimologicamente, com’è noto, col τοι pronome personale e comunque simile (e superiore) ad esso per la caratterizzazione colloquiale: a stare a Denniston2, 537, la particella è presente in Omero più di settanta volte e sempre, meno due sole volte, è in discorsi diretti. Una certa immediatezza e colloquialità va notata anche nell’oracolo diretto a Calonda, uccisore di Archiloco (c. metà del VII sec.: P.–W. 1, 396): 4 P.–W.
Μουσάων ϑεράποντα ϰατέϰτανες· ἔξιϑι νηοῦ.
L’imperativo trova la sua efficacia anche nell’asindeto. Segnalo il parallelo con 575.2 P.–W. περιϰαλλέος ἔξιϑι νηοῦ. Un’altra ripetizione francamente brutta e sicuramente preterintenzionale è quella di 73.1–2 P.–W. (αἰεί–αἰέν), che abbiamo già visto. Vale la pena riportare un altro oracolo per intero: 94 P.–W.
ὦ μέλεοι, τί ϰάϑησϑε; λιπὼν φεῦγ’ ἔσχατα γαίης δώματα ϰαὶ πόλιος τροχοειδέος ἄϰρα ϰάρηνα. οὔτε γὰρ ἡ ϰεφαλὴ μένει ἔμπεδον οὔτε τὸ σώμα, οὔτε πόδες νέατοι οὔτ’ ὦν χέρες, οὔτε τι μέσσης 5 λείπεται, ἀλλ’ ἄζηλα πέλει· ϰατὰ γάρ μιν ἐρείπει πῦρ τε ϰαὶ ὀξὺς Ἄρης, Συριηγενὲς ἅρμα διώϰων· πολλὰ δὲ ϰἆλλ’ ἀπολεῖ πυργώματα ϰοὐ τὸ σὸν οἶον πολλοὺς δ’ ἀϑανάτων νηοὺς μαλερῷ πυρὶ δώσει, οἴ που νῦν ἱδρῶτι ῤεούμενοι ἐστήϰασι, 10 δείματι παλλόμενοι, ϰατὰ δ’ ἀϰροτάτοις ὀρόφοισιν αἷμα μέλαν ϰέχυται, προϊδὸν ϰαϰότητος ἀνάγϰας. ἀλλ’ ἴτον ἐξ ἀδύτοιο, ϰαϰοῖς δ’ ἐπιϰίδνατε ϑυμόν.
È forse del 480, agli ateniesi (P.–W. 1, 169–71). Al v. 1 è da notare il brusco cambio di persona, dalla seconda plurale alla seconda singolare, rivolte tutte e due agli ateniesi in generale, per passare al duale del v. 12, probabilmente rivolto ai due ϑεωροί; al v. 7 ϰοὐ τὸ σὸν οἶον è fortemente prosastico; al v. 11 la personificazione del sangue è quanto mai goffa.
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Un altro oracolo è tutto impostato sul δίδωμι formulare, di cui parleremo, e fa l’impressione del tipico pezzo di repertorio, depositato e negli archivi del santuario e in quelli della memoria (P.–W. 1, 199 s.): 169 P.–W.
Τρηχῖν’ ἐξεῖλες πόλιν Ἡραϰλέος ϑείοιο, ὦ Λοϰρέ· σοὶ δὲ Ζεὺς ἄτας δῶϰ’, ἠδ’ ἔτι δώσει.
Penso che una lettura più attenta della mia possa dare ulteriori frutti in questa direzione e possa ulteriormente confermare il giudizio negativo di Plutarco e di Luciano. Io credo, a differenza di Notopoulos, di Pavese e di altri, che la presenza massiccia di formule omeriche e di omerismi in generale per esempio in Esiodo o negli Inni non provi oralità del tipo omerico originario; e che una scarsa presenza di caratteristiche peculiari ad Esiodo solo (Hoekstra 1957) non possa essere vero e proprio documento di oralità autonoma, ma tutt’al più una pallida e lontana testimonianza della sua esistenza in tempi più antichi (Rossi 1978). Allo stesso modo, e a maggior ragione, anche una certa formularità oracolare non prova una oralità autonoma degli oracoli. A maggior ragione: giacché si tratta di formule non nel vero senso omerico, e cioè molto scarsamente legate al metro e a nessi fissi – pur con tutta la flessibilità che va riconosciuta ad Omero, secondo i risultati delle ricerche di Hainsworth. Perché una certa formularità oracolare c’è: ma sarebbe meglio parlare di una terminologia tecnica. Coll’aiuto dell’Index verborum di P.–W. 11 si vedano lemmi come δίδωμι, φράζω, ἥϰω e δίζημαι; si vedano le forme di ἀμείνων in fine di verso. È chiaro che, invece, la ripetizione integrale di 154 P.–W. – oracolo leggendario a Teseo, forse del V sec. – in 434 P.–W. – a Silla, I sec. a.C. –(Parke 1938; P.–W. 1, 281) non è certo da vedersi in questa luce: si può piuttosto parlare di efficienza degli archivi del santuario! In una cultura così spiccatamente aurale come quella greca non è poi strano che ci siano casi di orecchio interno o analogia fonica, come quelli che notava a suo tempo Milman Parry in Omero (M. Parry, 68–74, 319 ss., 323 e n. 1; v. anche A. Parry, ibid., XXXII s.). Alcuni casi hanno a che fare con Omero, come 44.3 P.– W. ἡ ἱερὰ χϑών, cf. Hom. εὐρεῖα χϑών; altri sono riscontrabili all’interno del corpus oracolare, come 1.1 P.–W. τὸ Πελασγιϰὸν Ἄργος ἄμεινον e 122 P.–W. τὸ Πελαργιϰὸν ἀργὸν ἄμεινον, in Thuc. 2.17.1, del 431 a.C. (P.–W. 1, 189 s.). Ugualmente mi pare significativo 273.1 P.–W. σημεῖον τόδε πᾶσι ϑεοὶ φαίνουσι βροτοῖσι, proprio perché è certamente casuale l’accostamento di πᾶσι a ϑεοί, senza che abbiano legame sintattico come nella nota formula sacrale, già micenea. Qua e là si sente anche l’influenza aurale dei poeti esametrici, dei lirici o di espressioni proverbiali. Hes. op. 285 è ripetuto in 35.7 P.–W. ἀνδρὸς δ’
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εὐόρϰου γενεὴ μετόπισϑεν ἀμείνων (P.–W. 11, XXX). In 1.8 P.–W. οὐτ’ ἐν λόγῳ οὐτ’ ἐν ἀριϑμῷ c’è la locuzione paremiaca a cui fa riferimento Call. epigr. 25.6 Pf. etc. (P.–W. 11, ad loc.). In 4 P.–W., che abbiamo già visto, c’è il ricordo di Archiloco fr. 1 W. εἰμὶ δ’ ἐγὼ ϑεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄναϰτος || ϰαὶ Μoυσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος. In 94. 1 Ρ.–W., anch’esso già passato in rassegna, c’è Callin. fr. 1.1 W. μέχρις τέο ϰατάϰεισϑε. Noto con disappunto che questo tipo di paralleli, almeno importanti quanto quelli omerici, è stato completamente ignorato da McLeod. * Per dare ai risultati della nostra ricerca il loro valore, va avvertito che, fra tutti gli oracoli qui presi in esame – e scelti proprio per la presenza in essi di ‘scandali’ di vario tipo –, gli unici su cui grava un vero sospetto di non autenticità sono 100 e 382 P.–W.: gli altri erano già generalmente apparsi, per altre ragioni, tutti autentici. Se il metodo qui applicato viene riconosciuto valido, la ricerca si può estendere a quel poco o tanto che mi sarà sfuggito nella lettura cursoria del corpus. L’esame interno dei testi ci avrebbe così confermato quello che sapevamo dalle testimonianze esterne, che cioè gli oracoli erano improvvisati. Questo ci ha fatto capir meglio alcune costanti del loro stile (pathos incisivo e diretto, di natura colloquiale); e soprattutto ci ha portati a dare valore speciale agli antiepicismi, alle manchevolezze tecniche della prosodia e della versificazione e alle goffaggini stilistiche, anche in rapporto col problema dell’autenticità. Naturalmente – ripetiamo – improvvisazione non va identificata con oralità: dell’oralità essa è uno dei modi e si realizza in maniere diverse a seconda dei diversi mezzi di comunicazione di cui una cultura dispone. Quanto a brutture e ad errori, c’è stato chi ha messo quelli degli oracoli in relazione con quelli delle epigrafi (Todd, per esempio), ma a torto. A parte il fatto che gli errori riscontrabili nelle epigrafi sono spesso di ben maggiore portata, c’è da ricordare che le epigrafi non si lasciano considerare sotto un lemma unico, comprendendo materiale di diversissima natura e destinazione. Non voremmo ripetere d’altra parte l’errore di Usener, che quasi un secolo fa nel suo Altgriechischer Versbau (1882) prendeva sul serio, dando loro valore di storia della versificazione, gli errori di alcuni committenti o scalpellini ignoranti. Se i responsi oracolari hanno un’analogia con altri generi letterari, questo avviene dal punto di vista dell’improvvisazione con i canti popolari e con i canti simposiali anonimi — e qui va compresa anche gran parte del corpus teognideo. Il canto popolare e il canto simposiale nascono da composizioni spesso improvvisate, che progressivamente acquistano sempre maggior fortuna, fino a fissarsi più o
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meno rigidamente, ma dopo essersi raffinate nel corso della trasmissione. La diversità sta nel fatto che i due generi nominati maturano, per così dire, la forma delle composizioni man mano che la tradizione le passa di bocca in bocca, di riuso in riuso; mentre l’oracolo, quando sia autentico, ha per sua caratteristica costituzionale di restare così come la prima improvvisazione l’ha formato, protetto dalla superstizione religiosa e dall’interesse pubblico o privato. Ecco perché canto popolare e canto simposiale non si sono prestati nell’antichità alle critiche di un Plutarco o di un Luciano né vi si presterebbero oggi. Una ricerca comparativa sui vari tipi d’improvvisazione poetico–musicale darebbe certo frutti di qualche rilievo. Un discorso sull’improvvisazione non può poi ignorare la polemica sul discorso improvvisato e sul discorso scritto, di cui, nei primissimi anni del IV secolo, è espressione l’orazione di Alcidamante Su coloro che scrivono discorsi scritti ovvero sui sofisti (Radermacher, Artium scriptores, Wien 1951, p. 135 ss.). È noto che Alcidamante privilegiava l’improvvisazione certo in polemica coll’uso compositivo di Isocrate e della sua scuola, uso fondato sul paziente labor limae della pagina scritta. Ma, nonostante sia richiamata l’improvvisazione epica (§ 14, p. 137.26 s. Rad.), siamo qui nel campo dell’improvvisazione prosastica oratoria, soggetta sí alle sue leggi, che sono però leggi retoriche. Per di più ad Alcidamante, e precisamente al suo Museo, risale certamente la tarda redazione che abbiamo dell’Agone di Omero e di Esiodo (§ 14, p. 42.16 Wilam.), che ‘ricostruisce’ l’improvvisazione epica (§ 16, p. 43.20 Wilam.). Περὶ ὧν ἂν ἕτερος εἴη λόγος.
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Postilla Dal momento che consegno alla stampa la mia relazione così come l’ho redatta, vorrei qui fare un’aggiunta alla sua parte finale. Il Professor Kirk, a proposito di Inno ad Apollo, v. 464 ἐπεὶ οὐ μὲν γάρ τι (un monstrum sintattico o per lo meno una goffaggine), ha parlato di «azione curativa della tradizione orale», nel senso, se l’ho capito bene, che il passaggio di bocca in bocca depura progressivamente il testo. Quest’azione si sarebbe esercitata solo sui testi della vera tradizione orale, e non sugli Inni, che da tale tradizione sarebbero ormai fuori, tanto da conservare, irrigiditi da una pronta fissazione scrittoria, fatti che una tradizione orale vera e propria avrebbe gradualmente «curati» o depurati. Penso che
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si tratti di un concetto molto utile e che lo si possa applicare a quanto, alla fine, ho detto con altre parole sul canto popolare e sul canto simposiale. Per questi due generi si può postulare un analogo processo di depurazione, dovuto alle vicende e alla durata della loro pubblicazione orale, fatto ripetitivo che ha prodotto un progressivo affinamento dei testi. Tale depurazione, come non ha toccato gli Inni, così non ha toccato gli oracoli, consegnati alla scrittura in modo definitivo al momento stesso della loro composizione improvvisatoria. In altre parole: improvvisazione seguita da fase di pubblicazione orale autodepurantesi (canto popolare e simposiale) e improvvisazione subito fissata per iscritto senza possibilità di depurare le sue episodiche aporie (oracoli). A proposito poi di 100 P.–W., e sulla prevedibilità della morte di uno dei re spartani, va ricordato che gli antichi stessi avevano notato l’ambiguità o polivalenza cronologica delle formulazioni divinatorie. Del fatto preannunciato non veniva dato mai il tempo in cui si sarebbe realizzato. Lo dice Aristotele nella Retorica (1407 b 4–5): oἱ χρησμολόγοι οὐ προσορίζονται τὸ πότε. Al passo aristotelico mi richiama Livio Barnabò, in un suo lavoro di prossima pubblicazione.
Discussione B. GENTILI È giusto esaminare il linguaggio degli oracoli servendosi di Omero come termine di confronto e sottolineando con la matita rossa e blu le espressioni «non omeriche»? È una prospettiva molto discutibile: bisogna tener conto del luogo, dell’occasione, della funzione di ciascun oracolo. È anche importante considerare il fenomeno della rifunzionalizzazione della formula epica al nuovo contesto. È chiaro che, nel riuso, non può non mutare il contesto della formula una volta che sono mutate la destinazione e la funzione. Come si sarebbe mai potuta utilizzare una formula nelle stesse identiche condizioni semantiche? Il rapsodo mantico in certi casi utilizzava la formula epica in maniera più tradizionale, in altri innovava per adattarla al suo discorso. Senza considerare poi che il formulario di cui si serviva doveva rientrare in massima parte in una tradizione oracolare. Se l’esame che tu hai fatto degli oracoli si estende al linguaggio dell’elegia e della lirica, come anche a quello delle iscrizioni esametriche ed elegiache, si nota che molte espressioni dell’epica sono riutilizzate in contesti diversi ed in situazioni diverse. Certo muta la loro qualità, ma potevano esserci poeti più abili e meno abili. Anche tra le iscrizioni alcune portano il segno di una mano più sicura ed esperta. Ma questo non significa che le realizzazioni meno riuscite sul piano dello stile debbano essere scorrette sul piano del lessico, del linguaggio formulare o del metro. A me sembra che proprio la mia rela-
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zione sulla genesi dell’esametro abbia dimostrato che gli esametri «imperfetti» o «sbagliati» di molte iscrizioni non sono in realtà esametri ma associazioni di cola metrici ben documentati nella poesia lirica. In simili casi l’errore non è del compositore antico ma dello studioso moderno che etichetta come esametro ciò che in realtà non è esametro. Del resto gli antichi prooimia e gli antichi nomoi associavano esametri veri con strutture per così dire paraesametriche, composte da cola quali l’hemiepes, l’enoplio, l’alcmanio etc. Alla fine dell’Ottocento Usener, nel suo pregevolissimo Altgriechischer Versbau, aveva additato la via giusta per interpretare correttamente questi pretesi esametri sbagliati. Quelle che tu chiami «compromissioni» con ambienti locali valgono per i responsi oracolari esattamente come per la lirica e le iscrizioni. Quanto poi alla presenza di alcuni iati in cesura pentemimere, come per esempio nell’oracolo 46,6 P.–W., si deve tener conto che iati analoghi compaiono in Omero stesso e vanno spiegati come relitti della fase iniziale della formazione dell’esametro. Per il problema rinvio alla ricerca da me svolta in collaborazione con P. Giannini. ROSSI Non si tratta di leggere gli oracoli con la matita rossa e blu a caccia di «errori», bensì con la matita epica e non epica per segnalare gli antiepicismi. Questi ultimi sono frequenti nello stesso corpus omerico e denunciano la loro non originarietà epica orale. Quanto alla rifunzionalizzazione degli elementi omerici a nuovi contesti, al loro riuso, sono d’accordo che questo riuso è normale negli elegiaci, nei lirici etc. e, se ne volessimo cercare negli oracoli delfici, ne troveremmo in massa. Ma i fatti che ho portato sono diversi e mi sembrano notevoli: alcuni, come ho messo in rilievo, sono degli hapax nell’intera poesia greca, oltre ad essere degli anti–epicismi. Queste due circostanze concomitanti devono metterci in guardia: gli oracoli sembrano comportarsi diversamente dal resto della poesia postomerica. Perché gli anti–epicismi mi sembrano qui tanto scandalosi? Perché da tutto il corpus delfico si vede un palese sforzo di essere omerici, sforzo che qualche volta non ha successo. Delfi fa una scelta linguistica precisa: Omero. Evidentemente è per ragioni di universalità panellenica. E qualche volta tradisce questa scelta senza apparente ragione, senza quella rifunzionalizzazione di cui tu parli giustamente per gli altri poeti e che c’è anche in innumerevoli passi degli oracoli ma che in alcuni casi (quelli che ho portati oggi) non mi pare agevole dimostrare. Nel giudicare l’ammissibilità di fatti di espressione e di contenuto, è giusto, come tu fai, segnalare il pericolo dell’eccesso di razionalismo, e per parte mia sono pronto a rivedere le mie posizioni su fatti singoli, ma solo su alcuni: non mi pare che gli altri poeti ci presentino brutture simili ad alcune di quelle che ho
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segnalate (che, per di più, ripeto, sono hapax). Penso che la possibilità di riuso abbia dei limiti: mi è sembrato che in alcuni casi gli oracoli sfiorassero questi limiti più di altri generi poetici, ecco tutto. E non possiamo né dimenticare né minimizzare la testimonianza degli antichi stessi (Plutarco, Luciano), che giudicavano gli oracoli come l’esempio più tipico di poesia mal fatta. E mal fatta perché? Perché improvvisare col capestro della lingua omerica, ormai non più viva come nell’epoca orale creativa, causava imbarazzo ai poveri sacerdoti delfici, che con quella lingua morta dovevano esprimersi sui più svariati casi pubblici e privati. Quanto a Usener io ammiro quanto te il suo stupendo libro. Tu stesso concedi però che alcuni dei suoi esempi epigrafici sono sbagliati: era tutto quello che in questa sede volevo dire. Gli esempi epigrafici portati da te li ho visti solo ieri, nel corso della tua relazione, e non sono in grado ancora di farmi un’idea della loro validità. Quando parlo di compromissioni dialettali negli altri poeti, penso al fatto che l’elemento omerico è in quasi tutti solo una delle componenti dei loro dialetti letterari, aperti in varia misura ad apporti diversi. A Delfi invece la lingua degli oracoli è Omero purus putus: e tanto più deve quindi colpire la presenza di una forma dialettale come βασιλῆ, forma (guarda caso) proprio delfica. Omero offriva la forma βασιλῆα: ma l’improvvisatore non è andato tanto per il sottile. Quanto alle particolarità prosodiche, è vero, come tu dici, che sono presenti anche nei lirici etc.: ma negli oracoli mi sembrano particolarmente frequenti e alcune sono degli hapax. Non credo che si possa minimizzare, per esempio, ποιέω con prima sillaba breve (46.6 P.–W.): colla enorme frequenza che questo verbo ha in Omero e in tutti gli altri esametrici posteriori, è significativo che questa misurazione non compaia mai se non in trimetro attico! GENTILI Tu pensi che i responsi oracolari erano redatti per iscritto prima di essere pronunciati o venivano scritti in un secondo tempo, dopo essere stati improvvisati? ROSSI Per decidere se gli oracoli fossero redatti per iscritto prima o dopo essere stati improvvisati ci mancano elementi, ma credo che il problema non sia rilevante. Pur se siamo in epoca scrittoria la memoria omerica è fortemente radicata e l’improvvisazione si poteva benissimo realizzare senza l’iniziale aiuto della scrittura (che poi era usata per conservare il testo dell’oracolo). Anche qui applicherei la distinzione che fa Kirk fra attività epica originaria e di riflesso (coadiuvata o no dalla scrittura): gli oracoli appartengono a quella di riflesso. Ripeto
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che penso alla lingua omerica come a qualcosa di morto, di archeologico. È come se mi mettessi a improvvisare, adesso, nello stile di Petrarca e in quello di Montale: è chiaro che mi riuscirebbe più difficile farlo nello stile di Petrarca, che è tanto più lontano dalla mia cultura e sensibilità linguistica. G. PICCALUGA C’è da chiedersi se un’impostazione rigorosamente storico–religiosa del problema trattato non possa vantaggiosamente fornire nuove prospettive a questa pur notevole comunicazione. Infatti: 1) accostando il ruolo svolto dal poeta greco nei confronti del patrimonio tradizionale a quello che nelle civiltà c.d. primitive è la sfera d’azione del myth–teller, sarebbe forse possibile inquadrare in una diversa prospettiva il problema delle varianti e dell’irrigidirsi del mito in una tradizione scritta. 2) tenendo presente l’esigenza – messa da tempo in evidenza dalla fenomenologia religiosa – di attribuire alla sfera extraumana un idioma particolare che differenzia quanti fanno capo ad essa dal modo di parlare proprio degli uomini comuni, e riflettendo su certe prerogative costanti dello stile liturgico (conservatorismo, uso di strutture arcaiche, rozzezza formale artificiosamente realizzata, etc.), si comprenderebbe forse meglio perché il linguaggio oracolare – mediante il quale si esprime la divinità – debba inevitabilmente presentare certe caratteristiche specifiche: gli dèi usano una nomenclatura diversa — così come si esprimono con voce diversa, — e si muovono in una dimensione temporale diversa — da quella degli esseri umani. ROSSI Il tuo suggerimento è molto interessante. Esiste effettivamente una lingua degli dèi e una lingua degli uomini. Non so se queste aporie, che non sono soltanto metriche, possono arrivare a configurare una lingua diversa. È importante però impostare il problema. Forse qui bisognerebbe pensare anche al resto della mantica. Ma di questa purtroppo non abbiamo i testi. Ecco perché mi limito all’oracolo di Delfi, per il quale ho un comodo corpus da sfogliare. Può darsi però che questo fenomeno di cui tu parli sia ricostruibile meglio in altri ambienti, anche se questa è una ricerca che richiede molta cautela. M. CANTILENA Non mi pare che abbia senso negare il titolo di poesia orale alla poesia degli oracoli. Essa era composta verosimilmente senza l’aiuto della scrittura e attraverso improvvisazione: era dunque orale. Poco importa se la cultura greca dell’epoca conoscesse la scrittura (tu infatti credi che nel VII secolo essa abbia già cambiato in profondità la cultura greca, cosa di cui io dubito molto). A parte il fatto che un certo limitato uso della scrittura non è incompatibile con la persistenza di una cultura orale, negheremo forse il titolo di poesia orale ai canti
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eroici serbocroati raccolti da Parry, solo perché prodotti in un periodo in cui la Iugoslavia conosceva la scrittura? La letterarietà che si venne affermando, in Grecia come in Iugoslavia, da un certo periodo in poi, non eliminò subito e dovunque le tradizioni orali; anzi, in molti luoghi una tradizione di improvvisazione proseguì fino ad un’età molto avanzata, e si può parlare per essi di isole di oralità. Condivido poi pienamente il tuo criterio cattiva dizione = improvvisazione. Proprio per questo, anzi, ritengo errata l’impostazione di chi, come il prof. Kirk, ha basato sulla cattiva qualità della dizione l’affermazione che l’Inno ad Apollo – per esempio – non era improvvisato e non era orale. A parte l’ovvia (ma spesso trascurata) considerazione che non tutti i rapsodi dovevano essere bravi come Omero, e che i sacerdoti delfici non erano nemmeno rapsodi veri e propri, c’è una considerazione del prof. Kirk che tu hai mostrato di apprezzare, quella dell’effetto «purificatore» esercitato dalla tradizione orale. Ma essa non ha agito, nel caso degli Inni Omerici, perché questi furono composti verso la fine (ma pur sempre all’interno!) della tradizione orale; e per gli oracoli, per la semplice ragione che la loro «vita» era molto breve. Essi infatti non circolavano per la Grecia nei normali repertori rapsodici, e quindi hanno mantenuto per così dire «cristallizzate», fino alla registrazione scritta, le durezze e le imperfezioni dovute alla loro genesi non letteraria. ROSSI Non sono d’accordo sulla identificazione, che tu proponi, fra improvvisazione e oralità. Dell’improvvisazione ho cercato di dire che esistono più modi, a seconda del materiale su cui s’improvvisa. Che l’improvvisazione in sé non sia oralità integrale è accettato da più di uno: anch’io sto improvvisando in questo momento, eppure non ne viene fuori un prodotto che si puό definire orale come l’epica greca originaria. Quanto ai vari modi dell’improvvisazione, ripeto quanto dicevo prima sull’improvvisazione con materiale morto (Petrarca) e vivo (Montale). Sull’uso o meno della scrittura nella redazione degli oracoli, già rispondendo a Gentili ho avanzato il parere che il fatto non sia rilevante: quello che contava era che la scrittura già esisteva e già aveva prodotto delle trasformazioni nella cultura greca. Tu neghi queste trasformazioni, e certo si potrà discutere sulla misura in cui progressivamente la scrittura avrà modificato il quadro culturale. Ma il fatto che a me sembra decisamente influenzato dalla scrittura, subito dopo Omero e addirittura internamente ai poemi stessi, è la configurazione dei testi: per non parlare di Esiodo, su cui il discorso dovrebbe scendere in particolari, i lirici, diversamente da Omero, mostrano di usare la scrittura (non hanno formularità autonoma, hanno delle complicate strutture o ‘partiture’
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ritmico–musicali etc.). Ecco: mi pare che l’esame del modo con cui i testi letterari si configurano faccia vedere bene che l’uso della scrittura ha avuto un influsso rilevante e decisivo. Ai canti eroici serbocroati non si può certo negare in assoluto uno statuto orale, ma è stato giustamente osservato che il loro convivere con una cultura scrittoria che li circonda non li rende del tutto equiparabili al corpus omerico, che originariamente si forma in una cultura totalmente priva di scrittura. Si può parlare se mai di gradi di oralità, e, se si vuole, di isole di oralità, come fai tu. Ma non vedo come questa formulazione, peraltro felice, possa applicarsi ugualmente ai canti serbocroati e agli oracoli delfici: per i primi può andar bene, visto che hanno una loro autonoma tradizione compositiva e linguistica, addirittura in parte formulare; ma gli oracoli dipendono per la lingua totalmente da Omero, lingua che, improvvisando, maneggiano con evidente imbarazzo perché non è più cosa viva. Non so vederli in nessun modo come un’isola di oralità. In questa situazione non riesco proprio a vedere che cosa resti, nella prassi oracolare, di quanto viene comunemente inteso per oralità. In sintesi: Omero è diverso dai canti serbocroati, ma anche questi ultimi sono diversi dagli oracoli. Sono contento che tu sia d’accordo, per gli oracoli, sulla improvvisazione estemporanea, repentinamente fissata, come produttrice di possibili brutture di dizione. Aggiungo un’ulteriore precisazione, che non è del resto mia: una cosa è tecnica orale (Omero), un’altra cosa è stile orale (gli altri poeti esametrici). Gli oracoli tentano lo stile orale, ma con minor successo di altri, a causa delle condizioni oggettive del loro produrre. C. PRATO A mio giudizio occorrerebbe distinguere oracolo da oracolo. Non pochi degli oracoli a noi pervenuti – alcuni ce li ha segnalati poco fa lo stesso Rossi – hanno una loro origine politica. Questo è del tutto naturale, se si ricorda che alcune città greche, ad esempio Sparta, mantennero rapporti assai stretti con Delfi, ed ebbero, come ha già ricordato il relatore, magistrati fissi, i ϑεωροί ο Πύϑιοι (un Πύϑιος fu probabilmente Tirteo), i quali avevano non solo il compito di conservare i responsi ricevuti, ma anche di curare le relazioni con l’oracolo stesso. Per tali vaticini io escluderei, in generale, il carattere dell’improvvisazione, che contrassegnerebbe, secondo Rossi, tutta l’attività oracolare. I saggi sacerdoti delfici molto probabilmente non solo prefabbricavano il responso (salvo, naturalmente, a farlo apparire come desunto dalle oscure parole dell’ignorante profetessa), ma anche lo adattavano alle esigenze dei committenti. Quanto alle «imperfezioni tecniche nel trattamento prosodico della lingua e nella struttura metrica del verso» riscontrate da Rossi nei diversi oracoli e da lui spiegate con il
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carattere improvvisato del responso, io penso che esse debbano essere esaminate caso per caso e verificate innanzitutto con i criteri propri di una qualsiasi trasmissione testuale. Ovviamente ciò non può essere fatto oggi in questa sede, ma il confronto con casi da me studiati più da vicino, mi induce a credere nella fondatezza del mio convincimento. Mi riferisco in particolare al noto oracolo contenuto in un carme attribuito da alcuni editori, compreso il West, a Tirteo (cf. n. 14 della mia edizione). Il testo, come si sa, è tramandato in Excerpta Vaticana diodorei e consiste di cinque distici, in stile prevalentemente epico, di cui il 1° e il 9° metricamente difettosi: il primo esametro infatti inizia con un δὲ (facilmente corretto da Hermann in ὧδε) mentre il quarto pentametro (v. 9) denuncia la presenza in seconda sede di quattro brevi, con iato intermedio, e la caduta di un trisillabo finale, con errori di trasmissione più o meno pacificamente sanati dai filologi; a ciò s’aggiunga la struttura del penultimo verso, studiato anche da Pavese per i suoi nessi con il testo della rhetra e formato da tutti spondei, eccetto il quinto piede. Errori dovuti, evidentemente, ad una cattiva tradizione testuale o, al limite, all’approssimativo ricordo dello storico. ROSSI Le tue precisazioni sono interessanti ed opportune. È certo necessario distinguere oracolo da oracolo. Quelli politici non presentano un materiale omogeneo e presuppongono un accordo. L’argomento non può essere affrontato in questa sede e comunque richiede una lunga familiarità con il corpus. Per quanto riguarda le «brutture» degli oracoli, esse vanno indubbiamente studiate anche in relazione alla trasmissione del testo. Posso dire in via provvisoria che gli esempi da me scelti non presentano ragionevole dubbio sull’attendibilità della tradizione. C. O. PAVESE Se gli oracoli erano improvvisati che altro era l’improvvisazione se non composizione orale? I sacerdoti avevano ereditato dalla tradizione mantica la capacità di comporre oracoli oralmente. Non è possibile supporre un iato di secoli e far derivare tutto da Omero. Se gli oracoli venivano improvvisati da Delfi, come si può dire che non erano orali e continentali? Gli oracoli inoltre presentano elementi linguistici, come Esiodo e gli Inni, che non possono essere spiegati se non con la continuità della tradizione continentale. Si pensi alla presenza dell’accusativo breve (P.–W. 220,2). Altre particolarità continentali sono le «brutture» non omeriche che tu noti: βασιλῆ non è una forma epicorica, ma presenta una sinizesi comune nella tradizione continentale.
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ROSSI Per quanto riguarda improvvisazione e composizione, direi che per l’età dell’epos vivo i due momenti vanno identificati. Per l’età successiva la situazione è diversa: tra i due momenti c’è uno iato. Non ho bisogno di parlare qui di forme dell’espressione e forme del contenuto, oggi sono concetti familiari. Si tratta di esaminare di volta in volta quali siano le unità formali del contenuto e quelle dell’espressione. Le forme dell’espressione variano di volta in volta, e a me pare che fra il momento in cui gli innografi scrivevano gli inni, Esiodo scriveva i suoi lavori e gli oracoli di Delfi rispondevano, ci sia una notevole differenza nella maniera in cui colui che scriveva si poneva di fronte al materiale. Per quanto riguarda la lingua degli oracoli, noi vediamo che il dialetto che predomina assolutamente, almeno fino a una certa epoca, è non il dialetto ionico ma quello omerico. Mi pare che su questo punto non ci sia dubbio se sfogliamo il corpus e prescindiamo da qualche eccezione che non può mutare l’impressione generale. Una forma come βασιλῆ è notevole, e capisco il tuo discorso sulla sinizesi. Ma la forma è trasmessa in questo modo e deve considerarsi una forma epicorica delfica. Se c’era una forma locale che non andava usata era proprio un delficismo, perché gli abitanti di Delfi erano quelli che più difficilmente andavano a consultare l’oracolo. Tu hai poi ricordato gli accusativi brevi di cui abbiano due o tre casi. Questi elementi non mi sembrano in definitiva sufficienti. Il corpus comprende parecchie centinaia di versi, ed è strano che non abbiamo altri dati che confermino questo giudizio: il resto è in fondo correttamente omerico. Quando tu parlavi di una tradizione mantica pensavo ad altre tradizioni mantiche più arcaiche, per le quali quanto hai detto mi sembra del tutto accettabile. Non mi sembra vero per Delfi dove mi pare di riconoscere un omericismo molto chiaro.
Relazione Vorrei fermarmi solo su alcuni dei nuovi importanti punti di vista da cui Svenbro ha considerato l’epos, e soprattutto sulla sua funzione politica. Che l’aedo debba adattarsi al suo uditorio, e che in effetti vi si adatti – a saper leggere l’evidenza offertaci dai poemi, come S. fa – è un fatto molto importante (ricordo la sua definizione della Musa come «ipostasi del controllo sociale dell’uditorio»). S. perviene così alla definizione dell’«elasticità» dell’aedo, ovvero della sua adattabilità all’uditorio, strumento di prim’ordine non solo per capire Omero e gli aedi che operano internamente al testo omerico, ma anche, secondo me, per capire un poeta come Stesicoro, che nelle modifiche al materiale epico che apporta nei suoi canti epico–lirici si comporta come un nuovo Omero, manifesta in altre parole con questo tratto dell’elasticità una delle più tipiche caratteristiche della sua omericità: cantando materia epica, si adatta agli ambienti per i quali canta apportando modifiche alla tradizione. Parlerei addirittura di elasticità stesicorea come tratto neo–epico, come ho fatto altrove, utilizzando proprio il lavoro di S. Ora, S. riconosce nei poemi stessi un campionario di vari tipi di aedo. Distinguendo nei vari aedi un atteggiamento di adattamento e un atteggiamento di contestazione rispetto all’uditorio, riconosce adattamento in Demodoco e Femio (Demodoco si adatta all’uditorio dei Feaci e Femio a quello itacense dominato dai pretendenti e poi di nuovo, alla fine, all’Itaca di Odisseo), mentre in Tamiri (Il. 2. 594–600) e nell’aedo anonimo di Agamennone (Od. 3. 267–72) riconosce contestazione: nell’uno verso le Muse (ipostasi dell’uditorio) e nell’altro verso l’ambiente dominato da Egisto in assenza di Agamennone. Considera anche un altro asse, perpendicolare a quello dell’elasticità, l’asse del tempo leggendario e del tempo attuale: e, anche se contemporanei cronologicamente nella narrazione del poema, Demodoco e Femio ben si prestano a questo ordinamento, rappresentando Demodoco una società in pace ideale e quindi distanziata in una idealizzazione mitica (come del resto è tutto il mondo dei Feaci) e rappresentando d’altra parte Femio una società in crisi, minata da un’interruzione di reggimento politico (tanto da doversi far perdonare da Odisseo, al canto 22, per aver cantato anankei, «per costrizione», nella reggia invasa dai pretendenti). È per questo che mi sembra priva di senso la critica cronologica di
|| [Relazione al convegno La parola e il marmo: una discussione, tenuta a Roma all’Académie de France a fine maggio (inizio giugno?) 1980; pubblicata in «DArch» n.s. 3. 2, 1981, pp. 39–42]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-006
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Fogelmark nella recensione su «Gnomon». A Nieddu, d’altra parte, va riconosciuto qualche fondamento là dove critica il bell’ordine del sistema costruito da S. (p. 36), la «strategia delle alternative d’azione dell’aedo»: N. afferma che questo va contro la concezione che S. ha della formazione orale (e quindi scarsamente pianificata) dell’epos, concezione che siamo in molti a condividere. A mio parere questa strategia si deve salvare non in quanto strategia della composizione bensì in quanto strategia della conservazione ovvero selezione di una tradizione orale: si sarebbero così conservate quelle figure di aedo tipiche dei vari comportamenti. Ma, se si vuole che gli esempi restino unici del loro tipo, ecco che interviene a disturbare il quadro l’altro aedo anonimo, quello di Menelao a Sparta (Od. 4, 16–18), che S. menziona (35. 101) ma mette da parte come «sprovvisto di tratti specifici»: non ci viene detto dal testo omerico se si tratta di un traditore perdonato (come Femio) o di un fedele, o eventualmente di un recente ingaggio. L’apparenza è in realtà quella di una situazione irenica, di pace, ma, comunque stessero le cose che ci vengono taciute (di proposito o per casuale arbitrio di selezione?), questo ulteriore aedo rappresenta un raddoppio rispetto agli altri sopra individuati e dai contorni precisi: raddoppio di quale fra essi, non possiamo dire. Senza contare la figura sotto molti aspetti anomala del più ingombrante degli aedi dell’Odissea, Odisseo stesso, che in molti libri racconta le novità del giorno ad un pubblico che sembra essere molto lontano da quegli specifici interessi politici (quanto a interessi e richieste del pubblico, ricordiamo che Odisseo chiede a Demodoco di cantare la guerra di Troia: Od. 8, 486 sgg.). Ma sollevare la questione di Odisseo come aedo ci porterebbe troppo lontano: tra l’altro a rimettere in discussione, certo per negarlo, l’asettico cantore di belle leggende, la Lust zu fabulieren che S., con la decisa affermazione della funzione politica, ha così opportunamente esorcizzata. Accetto quindi la strategia di S., a patto di concepirla come una strategia della conservazione, ipotesi che viene in fondo proprio confortata dalla imperfezione o ridondanza del sistema. Prendendo ora spunto da una osservazione di Nieddu fatta solo di scorcio, vorrei considerare un’altra proposta molto interessante di S., e cioè quella di assegnare all’epos, nell’epoca di formazione della polis, un’azione, come S. dice, controrivoluzionaria, in altre parole i ghene che si servirebbero dell’epos come manifesto aristocratico contro le nuove forme politiche che si vanno formando. Non è che S. si nasconda la difficoltà della lenta formazione della polis: lo dice espressamente (p. 92 sg.). Solo, vuol trovare una continuità nell’azione politica dell’epos, e non ha torto. Ma vorrei considerare una costante e una variabile. La costante è la pubblicazione (non composizione) orale dell’epos, dapprima nella società pre–arcaica ovvero omerica e in quella arcaica e poi in
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quella della polis (panegyreis, forse l’agorà, certo i banchetti); e la variabile è il tipo di società che prima usa e poi ri–usa l’epos: dapprima la società omerica, che lo crea; poi quella che S. chiama dei ghene gerarchici: e infine quella che sempre più si avvicina all’isonomìa e al livellamento, e cioè le tirannidi e la polis democratica. A me pare che si debba osservare che, rispetto alla funzione politica dell’età epica, l’epos svolga nell’età successiva una funzione politica molto diversa, molto mediata: il referente storico dell’età eroica in seguito si allontana di uno spazio che non toglie valenza politica al canto (tutta la poesia greca ha e conserva valenza politica), ma che la cambia radicalmente. Una diretta azione controrivoluzionaria dell’epos si può solo ipotizzare per un’epoca molto vicina alla società omerica (diciamo il VII sec.), quando lo spazio metaforico della parola politica è vicino allo zero o comunque minimo: quando ancora, in altre parole, i ghene si possono rispecchiare direttamente nel racconto epico. Ma dalla documentazione storica che abbiamo, che non risale più su del 600 circa, mi pare difficile ricavare una vera azione controrivoluzionaria. Vediamolo con tre esempi, tenendo presente la differenza delle tre forme politiche: ghene oligarchici, tirannidi, polis democratica. Pur essendo i ghene e le tirannidi più simili fra loro di quanto si sia pensato finora (è questo l’orientamento della ricerca più recente), vera e propria azione controrivoluzionaria ci sarebbe da aspettarsela da parte dei ghene in regime tirannico o democratico. Esaminiamo i tre esempi, ben noti a tutti, e vediamo quale funzione può aver svolto l’epos. Cominciamo dall’interpolazione ateniese per Salamina (Il. 2, 558), e cioè le navi salaminie vicino a quelle ateniesi per affermare il diritto di Atene su Salamina. Come ci testimonia Strabone (394), i megaresi sostituirono i vv. 557 sgg. con altri che non solo affermavano implicitamente l’indipendenza di Salamina da Atene, ma contenevano anche il nome di alcune località viciniori che a Salamina venivano assegnate. Interessante il fatto che l’interpolazione ateniese per Salamina venga attribuita a Pisistrato, ma anche a Solone, al momento, cioè, in cui l’azione per la conquista di Salamina venne proposta da Solone con la famosa elegia e praticamente realizzata. Anticipo già che vedo qui una chiara rivendicazione territoriale, sia da parte degli ateniesi sia da parte dei megaresi. Ma vediamo, dopo i due richiamati, un altro esempio famoso, che sembra più difficile da decifrare: l’episodio di Clistene di Sicione (Herodt. 5, 67). Intorno al 600 a. C. Clistene, un tiranno, vieta le recitazioni omeriche a Sicione, perché in Omero sono magnificati Argo e gli argivi (e non è il caso qui di sollevare la questione terminologica, per cui «argivi» sono detti tutti i greci): e contro Argo Clistene è in guerra. Per di più Agamennone, re di Micene, governa anche su Sicione. Con Omero Clistene poteva riferirsi anche al Ciclo, e precisamente alla
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Tebaide (il cui primo verso suonava «Cantami, o diva, Argo assetata») o anche agli Epigoni, in cui Adrasto ha gran parte. E c’è anche un’altra ragione, come ci dice sempre Erodoto: nell’agorà di Sicione c’è un heroon di Adrasto, capo dei Siconii in Il. 2, 572, e Clistene vuole liberarsi delle sue ossa, «trattandosi di un argivo» (eonta argeion) (5.67.1). La tradizione è infatti concorde nel presentarci Adrasto come legato ad Argo, fuggito poi a Sicione da Polibo. La continuazione della storia è ben nota: a Delfi la Pizia gli vieta la rimozione delle ossa. Quello che va notato è che Clistene cerca di liberarsi di un eroe straniero, e non di un rappresentante di ghene locali. Ora, secondo me, l’interpretazione giusta di questa notizia erodotea la otteniamo se guardiamo dalla parte opposta, cioè ad Argo, città che è governata da un’oligarchia, fedele però ancora a quest’epoca (c. 600 a. C.) alla politica inaugurata nel VII sec. dal tiranno Pheidon (v. per es. Jeffery, Archaic Greece, 134 sg.): una politica che si richiamava addirittura all’eraclide Temeno e che propugnava l’annessione, per così dire, di Agamennone re di Micene come re d’Argo e che quindi metteva insieme, sotto il dominio di Argo, sia le città di Agamennone (Micene, Corinto, Cleonai, Orneai, Fliunte, Sicione e cinque piccole città dell’Acaia) sia le città di Diomede (Argo, Tirinto, Asine, Ermione, Trezene, Epidauro, Egina). La notizia va letta, secondo me, in questo modo: Clistene di Sicione reagisce alle rivendicazioni territoriali di Argo, ma è un fatto che dobbiamo ricostruire dal quadro storico, non dandoci Erodoto alcun appiglio. Nel caso degli ateniesi e dei megaresi la cosa era invece esplicita. Per concludere, a me pare che, se una costante in questi vari fatti si può trovare, non è tanto nella rivendicazione di uno o più ghene che si rifacciano all’autorità del «monumento» omerico (o eventualmente lo manipolino) contro le nuove forme politiche in un quadro in cui queste forme politiche siano ancora concorrenziali. Insisto sull’«ancora», perché non mi sento di escludere una più antica, ma non documentata, utilizzazione dell’epos in tal senso, anche quando penso a compatte celebrazioni di ghene come quella della cosiddetta Eneide di Il. 20 e 21. La costante che vedo, e che data dalla fine del VII sec. a tutto il VI, è piuttosto la rivendicazione territoriale, sia da parte di governi oligarchici (Argo in contrapposizione alla tirannica Sicione; e poi Megara), sia da parte di governi tirannici (l’Atene di Pisistrato, con la variante di Solone). Con questo non intendo dire che nel mondo greco un’azione controrivoluzionaria mancasse totalmente: ne trovo, solo, gli strumenti non nell’epos, ma altrove, e cioè nella grande lirica corale. La poesia di generica ispirazione dorico–oligarchica ha una sua diretta funzione politica e sappiamo quanto questa poesia si contrapponga a Omero rivendicando una sua propria autorità, e non sarebbe improprio vedere in essa una funzione controrivoluzionaria nel
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senso di Svenbro: basterebbe pensare alla diffusione panellenica della grande lirica corale pubblicata nelle feste, che infiltra i suoi ideali aristocratici fra i molti cittadini di poleis democratiche presenti alle feste stesse. Ma questa è una storia che si situa cronologicamente fra il VI e il V sec. e la frammentazione del mondo tardo arcaico richiederebbe un discorso che qui sarebbe fuori luogo.
Omero Per la critica storica O. è soltanto un nome. Sotto questo nome vanno, per la maggioranza degli antichi e per una parte dei moderni, i due poemi epici che inaugurano la letteratura greca tramandata: l’Iliade e l’Odissea. In ottica comparativa, i due poemi rispondono alle caratteristiche che si assegnano alla poesia epica di varie culture, fra le quali vanno privilegiate qui il legame con una tradizione che si autoafferma (e certamente è) antica e una tendenza a idealizzare il passato che viene raccontato e a collegarlo con il mondo religioso (e di qui il nesso con la letteratura cosmogonica e teogonica, in origine strettamente omogenea all’epos). È forse impossibile trovare nella letteratura mondiale dei testi letterari che abbiano svolto una funzione altrettanto ingombrante nella produzione letteraria di una cultura e per di più per un periodo così lungo (per molto più di un millennio a partire dall’VIII sec. a. C.): i due poemi sono stati la base della cultura letteraria greca attraverso vicende storiche molto varie, e con base si vuole intendere lingua poetica, tematica, problematica etica, termine di confronto letterario e legame culturale fra genti che per altri aspetti si riconoscevano nelle loro autonome peculiarità. L’Iliade racconta una sezione in sé molto ristretta della guerra di Troia (solo una cinquantina di giorni): come si vede sia dalla dichiarazione programmatica dei primi versi («Cantami, o Diva, del Pelide Achille // l’ira funesta…») sia dal taglio della materia: l’episodio intorno al quale tutto ruota è l’ira di Achille, che porta l’eroe a star lontano dalla lotta e a rientrarvi solo per vendicare la morte dell’amico Patroclo con l’uccisione dell’eroe troiano Ettore. L’Odissea narra l’ultima parte del «ritorno» di Odisseo in patria, il suo smascheramento dei servitori infedeli, l’uccisione dei pretendenti di Penelope, il ristabilimento del nucleo familiare dell’eroe e la riaffermazione della sua signoria su Itaca: nei libri IX–XII è l’eroe stesso che racconta la prima lunga parte delle sue peregrinazioni, che sono durate dieci anni, dopo i primi dieci di assenza per tutta la durata della guerra. Questo breve schizzo dei contenuti serve per richiamare il posto che i due poemi occupano nel quadro della materia del cosiddetto ciclo epico troiano (→ CICLICA, POESIA), che comprendeva la narrazione dei prodromi e di tutte le vicende della decennale guerra e i «ritorni» in patria dei principali eroi (i Nòstoi): i poemi che contenevano tutto questo sono perduti e ne restano solo i
|| [Voce di enciclopedia pubblicata in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. XIV, Torino, UTET, 19894, pp. 898–901; sostituiva una precedente voce scritta da Carlo Gallavotti]
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titoli (Canti ciprii, Etiopide, Distruzione d’Ilio, Piccola Iliade, Ritorni e Telegonia) e pochi frammenti. Hanno ragione quanti ritengono che la materia del ciclo sia anteriore ai due poemi conservati, che sono all’origine solo una selezione antologica dell’intero ciclo stesso (come aveva formulato Aristotele nella Poetica, cap. 23). Ma, nella sua facies linguistica, il ciclo tradisce composizione posteriore ai poemi, come aveva visto Wackernagel; e non solo per questo, visto che il loro taglio narrativo mostra chiaramente di volersi «adattare» ai due poemi e in qualche modo di «completarli». Ma come ci si deve immaginare la nascita dei due poemi? E a quale momento storico risale la loro composizione? Una serie di coincidenze, cronologiche e culturali, porta a circoscrivere con una certa approssimazione l’epoca in cui possono essere stati composti. Sembra ormai chiaro che in Grecia, dopo una parentesi che va dal 1200 a. C. ca. fino alla meta del sec. VIII a. C., la scrittura venga reintrodotta nella forma alfabetica poco dopo, o intorno, al 750 a. C. ed è questo il terminus post quem per la loro composizione scritta. Ma forti indizi interni al testo, e cioè la loro «formularità» (vedi oltre), insieme con altri fattori culturali messi in luce in più di due secoli di critica omerica (dall’abate d’Aubignac a Vico a Wood a Wolf fino a Milmann Parry con le sue importanti monografie del 1928), ci fanno sicuri che la fissazione scritta dei poemi deve aver avuto alle spalle un periodo certo lungo di composizione e di trasmissione orale. È questo il punto d’arrivo, al momento attuale, della cosiddetta questione omerica presso la maggioranza degli studiosi, che si distinguono solo per alcune (sia pure importanti) sfumature. Molto importante è stata la decifrazione del sillabario miceneo (lineare B) avvenuta nel 1952 ad opera di un dilettante di genio, l’architetto Michael Ventris: si è potuto così verificare che fra 1400 e 1200 a. C. a Creta e nel Peloponneso si parlava e si scriveva greco e ci si è fatta un’idea dell’economia e della società che ruotava attorno ai palazzi regali. I greci micenei sono stati così identificati con gli «achei» di cui parla Omero (vedi oltre per la lingua), il processo di formazione dei poemi, e dell’epos in generale, è stato approssimativamente immaginato nel modo seguente. Durante il Medioevo ellenico, e cioè fra la fine del II e l’inizio del I millennio, per un periodo la cui lunghezza non è dato determinare, gli aedi o cantori hanno composto, pubblicato e trasmesso oralmente materia epica, che dopo la metà del sec. VIII, momento in cui fu introdotta la scrittura alfabetica, ha trovato la via di una fissazione scritta. Forse fin da epoca molto arcaica furono privilegiati quelli che con l’andar del tempo, e certo ormai in epoca scrittoria, andarono delineandosi come i due poemi conservati. Non è possibile pensare che i due poemi, che mostrano una strutturazione in qualche misura maturata e riflessa, siano semplicemente il frutto di una improvvisa registrazione di una qualunque fase orale. È necessario figurarseli in progressiva e continua elabo-
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razione a cavallo fra fase orale e fase scritta. Nel sec. VI ad Atene il tiranno Pisistrato ordinò una redazione, detta pisistratea, che è il secondo momento importante per la trasmissione scritta dei poemi, importante per l’influenza che l’«edizione» ateniese ebbe nella successiva diffusione del testo. I poemi appaiono essere, così, non un vero e proprio integrale documento di oralità, ma una testimonianza di oralità, ricavabile da indizi offerti dalla lettura del testo e dalle situazioni culturali. Una ulteriore importante fase della trasmissione del testo omerico è rappresentata dal lavoro filologico dei grammatici alessandrini (Zenodoto, Aristofane, Aristarco), al quale risale anche l’attuale divisione in libri (24 per ognuno dei poemi). L’oralità della cultura letteraria della Grecia pre–omerica si riconosce nella formularità (e cioè ripetizione di frasi, versi, episodi tipici) che è stata descritta per la prima volta in modo sistematico da Milman Parry nel 1928. Su base comparativa, si può dire che l’epica greca è la più ricca di formularità in confronto con altre grandi esperienze epiche, per le quali tutte l’oralità è da mettere in conto almeno parziale per la configurazione dei testi: Gilgamesh (nelle versioni babilonese, assira, hittita), Beowulf, la Chanson de Roland, i Nibelunghi, il Cid, l’Edda, i canti epici slavi meridionali (dei quali ultimi si servì Parry, che li aveva studiati in memorabili campagne di rilevamento sul posto). La formularità, comunque, non basterebbe per postulare l’oralità, anche se il sistema formulare si comporta come una lingua, con la sua tendenza alla economicità (tendenza ad avere una espressione per ogni sede metrica corrispondente a ogni necessità narrativa; ma non più che una tendenza, come è del resto nella lingua): si può dire che ne è un forte indizio. Ma ce ne sono altri, che, tutti insieme, acquistano forza di prova. La comparazione non mette a confronto solo testi letterari, ma anche culture e situazioni di comunicazione. Havelock (1962) ha parlato, per i poemi, di enciclopedia tribale, che contiene in sé i contenuti e i valori di una cultura, il suo codice etico politico, ecc., un sapere collettivo, insomma. Questo è tipico dei «libri di cultura» (secondo la definizione della scuola di Tartu) e si manifesta normalmente in culture orali, dove i membri della comunità vengono raggiunti tutti dalla voce del cantore, che reclama per i suoi contenuti una vera e propria ecumenicità. Una letteratura orale vive, poi, sulla interazione stretta fra destinatore (aedo) e destinatario (pubblico), creando una specie di empatia, ed è notevole che questa empatia sia puntualmente registrata dal testo omerico, come p. es. quando in Iliade IX (185 segg.) Achille si consola cantando a Patroclo sulla phorminx le imprese degli eroi e Patroclo «gli sta seduto di fronte, solo, in silenzio»; ed è soprattutto un verso dell’Odissea (XI, 334; XIII, 2) a rappresentare efficacemente la situazione e la temperatura della comunicazione orale: «e stavano incantati (ad ascoltare Odisseo che narrava) nel megaron ombroso». Ed
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è chiaro che, del resto, se si volesse negare l’oralità almeno originaria dei poemi si dovrebbe scendere troppo in basso per la cronologia: con la scrittura, come s’è detto, siamo almeno dopo il 750 a. C.; l’arte figurativa mostra già al principio del sec. VII conoscenza dei poemi; i contenuti sono arcaici quasi tutti, «tradizionali», e sarebbe impensabile che in breve lasso di tempo si accumulassero tanti elementi arcaici che dovrebbero essere semplicemente frutto di arcaizzazione. Insomma: i poemi, così come li abbiamo, sono il punto di arrivo di un lungo sviluppo. C’è da chiedersi quale fosse il pubblico dell’epica. Per la fase più antica sono i poemi stessi a risponderci, con Achille e Patroclo (vedi sopra), con Demodoco cantore dei feaci e Femio cantore degli itacesi nell’Odissea: si tratta delle corti micenee. Ma poi si aggiungono le recitazioni, accompagnate ugualmente dallo strumento a corda, nelle grandi panegỳreis ovvero feste panelleniche, di cui ci dà una viva rappresentazione lo Ione di Platone (vedi oltre per l’Inno ad Apollo). Il quadro storico–critico qui delineato non è accettato proprio da tutti: alcuni per di più combinano posizioni diverse, alle quali spetta ormai un posto nella storia del problema omerico. D’altra parte già agli inizi erano state fatte importanti anticipazioni per quella che è oggi la teoria oralistica. Nell’antichità c’era stata (ma isolata) la corrente dei chorìzontes, «quelli che separano», che attribuivano ciascuno dei due poemi ad un autore differente. Ma la vera questione omerica nasce con F. A. Wolf (1795), che conosce le anticipazioni di d’Aubignac (1664, ma pubblicate nel 1715) e non quelle di Vico (l’edizione definitiva della Scienza Nuova è del 1744). Wolf aveva il vantaggio di potersi documentare sul corpus scoliastico del ms. Veneto Marciano A pubblicato nel 1788 da Villoison, e sostenne che ai tempi di «O.» la scrittura non esisteva, che i canti epici non potevano essere opera di un solo autore e che erano un coacervo di canti trasmessi oralmente e messi insieme solo al tempo di Pisistrato (vedi sopra). Nel corso dell’Ottocento e fino a circa la metà del nostro secolo domina la teoria cosiddetta analitica, che profonde una gran quantità di preziose osservazioni sul testo, ma che, andando a caccia di incongruenze culturali e narrative e di recenziorismi linguistici (che certo non mancano), ha il torto di trattare il testo omerico come se fosse uno dei tanti altri testi a noi trasmessi, e cioè ideato e composto nell’ambito di una cultura integralmente scrittoria: di qui la proposta di spostamenti, atetesi, verdetti di non autenticità, tutti espedienti critici che fanno torto alla natura del testo dei poemi. L’epica, nata oralmente, trascina i suoi materiali integrandoli a sé come un torrente i suoi detriti. Per fare solo qualche nome di illustri analisti distribuiti per un secolo e mezzo, ricorderemo G. Hermann, K. Lachmann, A. Kirchhoff, U. von Wilamowitz–Moellendorff, P. Von der Mühll: assegnare ognuno alla teoria del nucleo originario, dei canti
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separati o altro porterebbe a schematizzazioni ormai scarsamente utili. L’esigenza, poi, di mettere i poemi a confronto con testimonianze storico–archeologiche nacque con le scoperte di Schliemann negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso (soprattutto Troia e Itaca), con l’ausilio delle quali si volle tentar di dare una risposta alla domanda: storia o fantasia? La guerra di Troia, che gli antichi ponevano, con variazioni, intorno al 1200 a. C., era stata una realtà? E la società rappresentata nei due poemi a quale o a quali diversi (e antropologicamente non congruenti) momenti storici si riferisce? Il dibattito non è ancora concluso: ancora recentemente M. I. Finley ha espresso dubbi non solo sulla realtà della guerra di Troia, ma anche e soprattutto sul reale accordo dei dati sulla società omerica nell’Odissea rispetto a quanto è dato ricostruire della società micenea in base a quanto ci fornisce la decifrazione dei testi insieme con l’evidenza archeologica: il «mondo di Odisseo» apparterrebbe secondo lui al Medioevo ellenico. Ancor meno convince, specie oggi, la corrente cosiddetta degli unitari, che sono ormai in netta minoranza se non addirittura in estinzione (si può fare il nome di W. Schadewaldt, 1938): i loro sforzi di eliminare le incongruenze soprattutto narrative hanno contribuito ad una più profonda esegesi, ma l’impostazione critica sembra disperata perché non vuole riconoscere all’epica il suo peculiare statuto. Da qualche decennio ha operato un’altra corrente, detta neoanalitica, che ha dato peso ai rapporti contenutistici fra i poemi e il Ciclo (p. es. T. Th. Kakridis). In verità due ordini di problemi risultano, oggi, intimamente connessi, restando però distinti: quello della realtà letteraria dei poemi e quello della ricostruzione storica. Quanto al primo, la questione omerica nelle sue impostazioni tradizionali ha perso senso: se anche si possa intravedere più di un intervento «redazionale» rispetto a una materia epica non ancora o non del tutto organizzata, finisce per emergere pur sempre la forza e il peso della «tradizione» epica nel suo complesso. Quanto al problema della ricostruzione storica, non si può chiedere ai poemi quello che non possono dare, e cioè una coerenza culturale sincronica, che contraddirebbe alla natura conservatrice dell’epos stesso. Dall’epoca micenea può venire il grande scudo di Aiace, che copre tutta la persona, la spada con chiodi d’argento (fàsganon argyròēlon, che trova corrispondenza nel miceneo pakana e akuro), l’elmo con zanne di cinghiale (Iliade X, 261 segg.: in un libro che già dagli antichi era considerato tardo, ma che, come si vede, è portatore di arcaismi); l’uso della cremazione dei cadaveri è invece non miceneo. Elementi culturali di origine mista si trovano in relazione con armi e usi di guerra, religione, usi matrimoniali, ecc. La società presenta rapporti problematici col miceneo: wànax e basilèus hanno cambiato valore, mentre lawagètas è scomparso. Si tratta, com’è ormai chiaro, della fusione di fatti e momenti
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diversi nell’amalgama della tradizione epica. Del resto il fatto che i poemi erano considerati materia lungamente viva di canto e d’intervento è attestato p. es. dalle cosiddette interpolazioni attiche in Iliade II (nel «catalogo delle navi»), riconosciute e datate già dagli antichi: Iliade Il, 557 segg. sembra una rivendicazione della atticità di Salamina, contesa fin dai tempi di Solone (sec. VI a. C.). L’argomento principale degli analisti sono state le incongruenze narrative, che sono presenti in notevole quantità. Banale è il caso di un guerriero che muore e risuscita (Pylaimenes: Iliade V, 576; XIII, 658). Ben noto è il problema del libro IX dell’Iliade, l’ambasceria mandata da Agamennone ad Achille, che all’inizio è costituita da Fenice, Odisseo ed Aiace: ma, da un certo punto in poi, le forme verbali diventano dei duali. È chiaro che qui sono in concorrenza due diverse versioni della saga che si sono sovrapposte (a meno che non si voglia accettare la giustificazione di un illustre unitario, Schadewaldt, che afferma che i duali subentrano per escludere Fenice, che come più anziano sarebbe un primus inter pares!…). E un’altra aporia è nella sutura fra III e IV dell’Odissea, dove Telemaco da Pilo va a Sparta su un carro a cavalli: fra Messenia e Laconia c’è il monte Taigeto, che solo da qualche decennio è superabile per una faticosa strada di montagna! È comunque degno di nota che i poemi di «O.», «il poeta» per antonomasia, hanno sempre esercitato un fascino costante lungo tutto l’arco di sviluppo dei vari momenti della cultura greca. Anche se la classe che vi viene celebrata è l’aristocrazia delle corti e della guerra, rappresentata in vesti eroiche, i greci vi hanno sempre letto, adattandolo e ponendolo in sintonia con i diversi momenti culturali, un codice di comportamento e politico ed etico–religioso: e in questo senso i due poemi si integrano a vicenda, essendo l’Iliade un poema di guerra e l’Odissea un poema di prevalente condizione di pace, solo prevalente però, perché i conflitti che vi sono rappresentati sono violenti. I valori etici sono costantemente rivisitati e «aggiornati», fra le altre, soprattutto dalla corrente allegorica (Teagene di Reggio nel sec. VI e più tardi dalla esegesi stoica). La ricchezza delle situazioni comportamentali è accresciuta dal grande numero di paragoni, che, per così dire, aprono l’occhio sul resto del mondo, e cioè sulle classi inferiori e soprattutto sul mondo animale e sul mondo degli elementi. Le stesse reazioni anche violentemente contrarie, come quella di Senofane, sono comprensibili proprio nel contesto costante di un successo che non viene mai meno. Ma il codice epico che più influenza la cultura greca è quello linguistico. La lingua poetica greca si misura continuamente con il modello omerico, tanto da fornire l’esempio più cospicuo di quello che si può ben chiamare straniamento linguistico. Non solo l’epica posteriore parla omerico (com’è naturale in una cultura letteraria che rispetta con scrupolo le leggi dei generi letterari), ma an-
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che la successiva lirica, la filosofia in poesia, e persino il dramma (e la prosa di Erodoto!) si sostanziano di continui richiami ad omerismi in parte allusivi e in parte addirittura creativi, continuando cioè a creare lingua secondo la morfologia e le leggi di «produzione» linguistica omerica (per es. la produttività di composti di tipo epico): la poesia alessandrina va particolarmente fiera dell’uso di tali procedimenti, anche e soprattutto quando la volontà di differenziarsi dal modello è più forte (si pensi alla «emulazione» letteraria). È lecito quindi chiedersi come suonasse in partenza la lingua omerica, quale fosse la sua capacità di configurarsi come poetica, di presentarsi (come fu nel dopo–O.) come «segnale» di poesia. Gli antichi dicevano che O. è in una forma arcaica e poetica di ionico oppure che in O. ci sono tutti i dialetti (il che è falso, perché il dorico manca!) perché aveva viaggiato molto. Non è un caso che fra le città che maggiormente si segnalavano per rivendicare la nascita di O, ci fossero Smirne e Chio, ambedue in zona di confine fra dialetti ionici ed eolici, perché è una realtà che, secondo classificazioni nate dalla documentazione dialettale, i poemi mostrano un impasto di forme eoliche e ioniche (ma vedi oltre per i dati del miceneo). Combinando i risultati dell’analisi, A. Fick notò che le parti che apparivano più antiche si lasciavano (in realtà non senza residui) «tradurre» in eolico e redasse a nuovo i poemi in eolico in una forma che secondo lui era l’originaria. Ma nel 1913 A. Meillet fece notare che alcune forme non erano né eoliche né ioniche, bensì arcadico–cipriote, rappresentando quindi una fase forse ulteriormente anteriore: e dal miceneo e dai suoi numerosi contatti con l’arcadico– cipriota è venuta recentemente una conferma a questo, tanto da spingere ormai molti a chiamare «acheo» la lingua omerica per designare la lingua dei greci così chiamati da Omero. Ma, prima che si ottenessero questi risultati in campo linguistico, e cioè al principio del secolo, già era stata data della lingua quella definizione che, nata da una vera e propria «disperazione» linguistica, risulta molto efficace: «lingua artificiale» (K. Meister, 1921; già anticipato da K. Witte). Si tratta di una mistione di forme che non costituiscono un vero sistema linguistico per la mancanza assoluta di economia (polimorfia: più di un modo per dire la stessa cosa): nessuno può aver mai parlato veramente una simile lingua, neanche nelle sue componenti semplici (eolico, ionico, ecc.). Sembra chiaro che già ai suoi inizi l’epos avesse un alto grado di straniamento linguistico. Il metro è l’esametro dattilico usato stichicamente. Esso si presenta come una sequenza di sei dattili (h j): se ne è cercato di delineare la preistoria, ma non c’è accordo fra gli studiosi (l’ipotesi prevalente è quella di una conflazione di versicoli lirici). La sua strutturazione (incisioni, cioè fini di parola normalizzate, ecc.) è molto evoluta, il che fa pensare a un lungo periodo di pratica in epoca orale.
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Verso recitativo per eccellenza, era cantilenato con l’accompagnamento dello strumento a corda (phòrminx, kithàra). La vera e propria critica letteraria si è quasi sempre espressa positivamente nei confronti dei due poemi, a cominciare da Aristotele nella Poetica. I romani ne hanno continuato la fortuna: la loro epica culmina con l’Eneide di Virgilio, che si presenta come una ripresa di ambedue i poemi (Odissea, e cioè viaggi, nella prima parte; Iliade, e cioè guerra, nella seconda). I moderni vi hanno visto spesso i maggiori capolavori letterari in assoluto, con una parentesi di minor fortuna nell’epoca del razionalismo (secc. XVII–XVIII). La loro fortuna sembra destinata a continuare. La cultura (orale) in cui i poemi sono nati ci obbliga oggi a leggerli con occhio più smaliziato di una volta: ma, in omaggio alla ormai screditata critica unitaria, va riconosciuto che non sono un intarsio di frammenti narrativi, bensì opere con un centro e una struttura narrativa che appaiono frutto di una volontà ordinatrice. Questo non può essere frutto del caso. Anche se si può dare il nome di O. a quel cantore, o meglio a quella confraternita di cantori che hanno selezionato e ordinato una materia epica ben più vasta, dobbiamo confessare che la genesi dei due poemi è un problema irrisolto e che tale forse dovrà restare. Sotto il nome di O. minore vanno alcune opere che sono state, ma solo nell’antichità, a lui attribuite. Il corpus dei cosiddetti Inni omerici comprende 33 inni a varie divinità, alcuni dei quali di considerevole lunghezza (A Demetra, Ad Apollo – che in realtà è costituito da due inni, ad Apollo Delio e ad Apollo Pitico –, A Hermes, Ad Afrodite). Tucidide, parlando di quello ad Apollo, lo definisce «proemio» (III, 104), il che ha fatto pensare che si trattasse di introduzioni al canto epico vero e proprio intonate dai cantori come preludio nelle esecuzioni. L’Inno ad Apollo ci offre (146 e segg.) la descrizione di una panègyris, in occasione della quale il popolo della Ionia si radunava per assistere ad agoni di vario tipo, tra cui quelli poetico–musicali: erano il luogo normale dell’esecuzione pubblica dell’epos (vedi sopra). I quattro inni maggiori sono databili fra il sec. VII e VI a. C. Gli altri sono tutti o brevi o molto brevi e databili ad epoche più recenti. La Batrachomyomachia, ovvero «Guerra delle rane e dei topi», è un poemetto di 303 esametri che in realtà appartiene, come si vede anche dal titolo, al genere dell’epica parodica. Ben note ne sono le varie traduzioni di Giacomo Leopardi. Può risalire al sec. VI o al V a. C. Il Margite era un poemetto, in esametri alternati a trimetri giambici, del quale ci restano solo scarsissimi frammenti, ma anche una quantità di allusioni, presso scrittori vari, che ne testimoniano la popolarità. Il titolo è il nome del protagonista, che significa «sciocco», e che diventa una designazione antonomastica di stoltezza e goffaggine. Nella cosiddetta Vita erodotea di O. sono contenute varie sequenze, alcune in forma epi-
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grammatica, attribuite ad O.; notevole è la Eiresione, un canto popolare «di accattonaggio».
BIBL.: È impossibile fornire in breve una bibliografia omerica che risponda a un criterio qualsiasi. Si è data preferenza a voci che contengono bibliografie. I dati bibliografici sono spesso abbreviati. Edizione d’uso è quella di Oxford, Homeri opera: I–II, Ilias, a cura di D. B. MONRO–T. W. ALLEN, 19202; III–IV, Odyssea, a cura di T. W. Allen 1917–192; V, Hymmi, Cyclus, ecc., a cura di T. W. ALLEN, 1912; Homeri Odyssea, a cura di P. VON DER MÜHLL, Basilea 1946; H. ERBSE, Scholia Graeca in Homeri Iliadem, 6 voll., Berlino 1969 e segg. Gli unici commenti scientifici moderni sono: G. S. KIRK. The Iliad. A Commentary, I (Books 1–4), Cambridge 1985 (continuerà sotto la sua direzione) / Odissea, 6 voll., Milano (Fondazione L. Valla) 1981 e segg. (con testo e comm. a cura di AA. VV.) / F. CASSOLA, Inni omerici, Milano (Fondazione L. Valla) 19812. Traduzioni moderne sono quelle di Iliade e Odissea di R. CALZECCHI ONESTI (Torino 19828; 19829) e della sola Odissea di G. A. PRIVITERA (a fronte della ediz. della Fondazione L. Valla; vedi sopra). Lessici: H. EBELING, Lexicon Homericum, Lipsia 1885 / B. SNELL, Lexikon des frühgriechischen Epos, Gottinga 1955 e segg. Concordanze: G. L. PRENDERGAST (Iliade) e H. DUNBAR (Odissea) riviste da B. MARZULLO, Hildesheim 1962 (1875, 1880). Bibliografie: oltre quella annuale dell’Année philologique: A. LESKY, in «Anzeiger für die Altertumswissenschaft» 4, 1951 e segg. (in seguito continuato da altri) / H. J. METTE, in «Lustrum» 1, 1956 e segg. Introduzioni generali: P. MAZON e altri, Introduction à l’Iliade, Parigi 1942 / A. J. B. WACE–F. H. STUBBINGS e altri, A Companion to Homer, Londra 1962 / G. S. KIRK, The Songs of Homer, Cambridge 1962 / F. CODINO, Introduzione a O., Torino 1965 / A. HEUBECK, Die homerische Frage, Darmstadt 1974 / L. E. ROSSI, in Storia e Civiltà dei Greci, diretta da R. BIANCHI BANDINELLI, I, 1, Milano 1978 / F. MONTANARI, in Da O. agli Alessandrini, Roma 1988. Formule e oralità: M. PARRY, The Making of Homeric Verse, Oxford 1971 / E. A. HAVELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura (1963), Bari 1973. Storia e archeologia: H. L. LORIMER, Homer and the Monuments, Londra 1950 / M. I. FINLEY, Il mondo di Odisseo, Bari 19652 / AA. VV., Archaeologia Homerica, Gottinga 1967 e segg. / M. VENTRIS–J. CHADWICK, Documents in Mycenaean Greek, Cambridge 19732 / La civiltà micenea, a cura di G. MADDOLI, Bari 1977 / AA. VV., Le origini dei Greci. Dori e mondo egeo, a cura di D. MUSTI, ivi 1985. Lingua: P. CHANTRAINE, Grammaire homérique, I–II, Parigi 19735, 19632. Metro: L. E. ROSSI, in «Studi urbinati» 39, 1965 / B. GENTILI–P. GIANNINI, in «Quaderni urbinati di cultura classica», 26, 1977. Storia della tradizione manoscritta: G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1952 / S. WEST, The Ptolemaic Papyri of Homer, Opladen 1967.
L’epica greca fra oralità e scrittura 1. Premessa generale Come premessa generale, esporrò qui brevemente le mie idee su Omero, in altre parole il mio ‘credo’ omerico, che ho esposto qualche anno fa (1978) con molti dettagli in più di quanto non possa fare ora. Dimostrare e discutere questa mia posizione ci porterebbe via troppo tempo e non sarei in grado di proporre — come invece intendo fare — le conseguenze che vedo derivarne. Del resto, non credo che oggi quelli che condividono queste idee siano pochi, com’erano ancora qualche decennio fa. Si comincia a creare una communis opinio, anche se con qualche sfumatura che diversifica le varie posizioni.
La composizione originaria dell’epos Per maggiore brevità e chiarezza esporrò a grandi linee come mi immagino il processo di formazione del corpus dell’epica greca arcaica. A cominciare da un momento che per me non è possibile precisare, i greci cantarono le gesta dei loro eroi in un verso, l’esametro (già molto evoluto al momento in cui noi lo possiamo verificare). Non c’era la scrittura e quindi la fase originaria dell’epos apparteneva a una cultura integralmente orale: di questa oralità sono spia la comparazione con altre epiche, l’enciclopedismo tribale così ben definito da Havelock, la formularità individuata da Parry, l’empatia ovvero la profonda compartecipazione del pubblico così come viene rappresentata nei poemi stessi. Poi, alla metà dell’VIII sec. a.C., interviene la scrittura alfabetica e, non molto dopo quel momento, la composizione dell’epos si giova anche del mezzo scrittorio: l’epos continua a crescere su se stesso. Fino a quando? Farò alcune ipotesi qui di seguito.
|| [Relazione di convegno pubblicata in F. Montanari et alii (edd.), Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica (Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. Incontro del Dipartimento. VII. Pavia, 17 marzo 1994), Como, Edizioni New Press, 1994, pp. 29– 43]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-008
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L’ipotesi dei redattori Il problema è capire il costituirsi di due poemi che mostrano tanti indizi di organizzazione compositiva, accanto a tanti residui di quella che a noi appare come disorganizzazione orale: l’ipotesi del redattore ovvero del rielaboratore mi sembra la più economica. L’aveva avanzata Wilamowitz, e non la ritengo affatto improbabile, a patto che non si pensi a una redazione unica. I redattori lavorarono in più d’una fase.
Le tre sfide Queste mie idee comportano per noi moderni (e specialmente per noi che insegnamo e per i nostri allievi) tre difficoltà, che si configurano per me in tre sfide: la sfida della ricerca dell’autore, la sfida dell’autenticità e la sfida dell’unità dell’opera letteraria. La ricerca dell’autore e l’autenticità sono problemi più per gli antichi che per la maggior parte di noi moderni. Possono anticipare che, a mio parere, queste tre sfide, con Omero, sono perdute in partenza. Ma vediamo come.
2. La sfida della ricerca dell’autore Cominciamo dalla prima, la sfida della ricerca dell’autore. L’autore è per definizione una personalità più o meno individuabile ed è una sfida che possiamo tranquillamente rassegnarci a perdere, se accettiamo le premesse che ho proposte in apertura: la composizione dei poemi sarebbe avvenuta in un lasso di tempo ben più ampio della vita di un uomo. L’autore unico e individuabile non è, in realtà, rinuncia da poco, per noi che siamo abituati a cercarlo e a trovarlo. Disponiamoci quindi a rinunciarvi, senza però che questo significhi relegare i poemi a prodotti di seconda scelta. Lo affermeremo con vigore alla fine, per sgominare un equivoco che rischia di pesare su alcuni di noi. In cambio della nostra rinuncia otterremo una più corretta comprensione storica dei poemi.
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3. La sfida dell’autenticità La scelta di un momento nello sviluppo dell’epos La sfida dell’autenticità è legata alla sfida precedente, pur non identificandosi con quella: è la necessità di sceverare, in un autore o in un corpus, quello che è autentico da quello che non lo è. Chi affronta Omero non credendo a un autore unico può sempre proporsi di fermare la cosiddetta composizione monumentale dei poemi (G. Murray) in uno o in diversi determinati momenti, di farne quasi delle fotografie istantanee successive, che possono essere molte: al momento della diffusione della scrittura (sec. VIII), al momento in cui ne fruiscono Esiodo o Archiloco (sec. VII), subito prima o subito dopo la redazione pisistratea (sec. VI). Chi adotti questo metodo considererà spurio tutto quello che venga aggiunto dopo il momento della istantanea scelta per l’operazione. Certo, il VII secolo fu molto importante perché fu un secolo in cui operò molto la redazione originaria del Ciclo epico, che presuppone e rispetta i contenuti dei due grandi poemi perché tende a non raddoppiarne le narrazioni (la cosiddetta legge di Monro).
La critica autenticistica nell’antichità La critica autenticistica ha precedenti illustri in tutta la critica letteraria antica: basta pensare a Il.10 (la Dolonia) e allo Scutum pseudo–esiodeo, che sono discussioni già prealessandrine; e poi, per fare un esempio, alle orazioni di Lisia, discussione che compare con dovizia di particolari in Dionigi d’Alicarnasso, e che risale agli alessandrini. Per quanto riguarda Omero, è bene anticipare quanto diremo meglio dopo, che cioè per i greci a un certo momento i poemi diventarono un testo in sé conchiuso come gli altri che stavano producendo, perché avevano perso molto il contatto con la cultura integralmente orale nella quale i poemi erano stati originariamente prodotti. Più degno di nota è che — come vedremo — si perda presto anche la nozione di quello che l’oralità comportava come conseguenze per la formazione e la trasmissione dei testi. Ma non possiamo chiedere ai greci di essere fino in fondo storici e antropologi ad un tempo.
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Le aporie o gli ‘scandali analitici’ Quello autenticistico, per Omero, è un sentiero sempre più falso, se lo si segue guidati dalle aporie o ‘scandali analitici’, come mi piace chiamarli: gli antichi li sopportavano benissimo! Ci sono: o derivano dall’autore oppure, se intervenuti dopo, sono sopportati e accettati da un eventuale ‘redattore’, proprio perché sopportati e accettati dal pubblico. In questo senso si può dire che i Greci del VII–VI sec. a.C., pur avendo perduto il contatto con le condizioni della composizione orale (perché avevano la scrittura), avevano conservato chiaro il modo con cui l’epica era costruita sotto il profilo narrativo, e quindi non si meravigliavano delle incongruenze ovvero degli ‘scandali analitici’. In origine l’epica era raccontata per sezioni, per episodi, e un’incongruenza da un episodio all’altro non faceva meraviglia. Ma poi, accorgendosi delle incongruenze, le accettavano come un fatto di stile, come una caratteristica del genere letterario. È così anche per la formularità: da fattore compositivo, tipico di una produzione orale e funzionale a questo tipo di produzione, comincia a diventare fatto di stile in tutti quegli autori che più o meno ‘omerizzano’ (per esempio gli arcaismi degli Inni omerici).
Criteri cronologici Tutto quello che si può fare in questo campo è additare criteri cronologici per cui alcune parti dell’epos appaiono essere più antiche o più recenti: ci aiutano la storia, l’archeologia, la lingua. Per esempio, lo scudo di Aiace che copre tutta la persona è sicuramente una delle antichità più arcaiche, anche se è troppo farlo risalire addirittura al XVIII sec. a.C. come fa Page. Ma attenzione: non ogni fenomeno arcaico è indizio di composizione arcaica (per esempio il digamma operante), perché può essere una semplice arcaizzazione. I fatti recenziori, invece, danno garanzia di essere più tardi, perché ci danno un sicuro terminus post quem: ma, quanto alla sezione in cui sono inseriti, possono essere indizio di una elaborazione redazionale che in parte ha rispettato ma in parte ha anche innovato. In questo senso lo stile può essere di qualche aiuto: proprio nella tranquilla omogeneità della lingua artificiale omerica ci sono ogni tanto dei fatti di lingua e di stile che fanno pensare a una intrusione più tarda rispetto alla grande epoca dell’epos integralmente orale.
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La stratificazione Ma, anche se gli studiosi hanno ottenuto molti risultati nel senso della stratificazione del testo epico, non hanno segnalato niente che l’epos, restando sempre se stesso, non potesse essere o non potesse diventare nel corso del tempo: l’epos è fatto per essere stratificato, è l’esempio più chiaro e più illustre di ‘opera aperta’. Diverso è quando scopriamo un verso o una parola non autentici in Euripide o in Teocrito: lì, sì, abbiamo il diritto–dovere di farne denuncia e di restaurare il testo originario, ma in Omero no. L’epos arcaico è un torrente che trasporta con sé i suoi detriti (com’è stato detto con un’immagine efficace) e, quando diventa un fiume, si comporta come un composto chimico irreversibile (altra immagine utile).
Valore dell’accertamento dei diversi strati cronologici Sceverare nell’epos l’arcaico dal recenziore è quindi un’operazione storica, che arricchisce le nostre conoscenze storiche, e non un’operazione critico– letteraria, perché dieci stratificazioni storiche accertate non ci dicono nulla di più o di meno sulla natura dell’epos come genere letterario che se fossero cento o mille.
Sensibilità degli antichi alle aporie Quello che sarebbe interessante verificare, sulla scorta della industriosa (e peraltro utilissima) critica analitica del secolo scorso e di questo secolo, sarebbe quanto delle aporie notate dai moderni siano state notate almeno dagli alessandrini. Siamo ben lontani da statistiche apprezzabili, e la mia è un’impressione, perché, a quanto so, una ricerca del genere non è stata fatta: non credo che queste notazioni siano molte, rispetto a quanto ha scoperto la critica analitica negli ultimi due secoli. Ma a noi interesserebbe anche sapere quanto di queste aporie era stato denunciato molto prima, e cioè nei secoli VII–IV a.C. I rimproveri che facevano a Omero critici molto severi come Eraclito e Senofane erano tutt’altro che rimproveri analitici: erano soprattutto rimproveri di natura etica. Teagene di Reggio, al principio del V sec., ha dato forse inizio alla corrente dell’interpretazione simbolica (quella che avrà successo con gli stoici) proprio per liberare Omero da queste accuse etiche. Segno che gli ‘scandali analitici’ non disturbavano troppo non solo gli ascoltatori dell’età pre–arcaica,
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che fruivano di recitazioni epiche in sezioni discrete e non continue, ma anche i fruitori successivi, che avevano da un certo momento in poi i poemi più o meno nella forma monumentale che abbiamo noi.
Che cosa dobbiamo considerare come ‘autentico’ Autentico è quindi, da quanto si è detto, tutto quello che è ‘epico’, intendendo per tale l’intero fiume della tradizione epica fino al momento in cui i poemi omerici furono sentiti come un monumento intoccabile. Questo momento viene tardi, e si potrà solo discutere se venga prima o dopo la redazione pisistratea (sec. VI): io sono incline a vedere la redazione pisistratea come l’ultimo atto di libertà nei confronti del testo dei poemi (v. paragrafo successivo): è Pisistrato che ‘chiude’ i poemi in una loro forma che è voluta come definitiva almeno per gli ateniesi (circoleranno infatti le edizioni cosiddette katà póleis e kat’ándra).
Interpolazione lecita e illecita Mi si obietterà che la redazione pisistratea è stata considerata colpevole di ‘interpolare’ il testo omerico. Ma risponderò che questo giudizio è posteriore a Pisistrato: il problema da porsi è se Pisistrato stesso si sentiva un brigante o no, ed è, questo, un problema che lascio aperto. In altre parole: l’epica è cresciuta su se stessa fino al momento in cui un’aggiunta o una modifica ha cominciato a essere sentita come un’interpolazione, e cioè come un intervento ‘chirurgico’ illecito e non più come una manifestazione in sé normale e lecita di vitalità. Poi si è fissata nel suo testo, definitivo e intoccabile. Come l’epos nell’età creativa fosse soggetto a interventi, innovazioni, modifiche, adattamenti è stato mostrato molto bene da Svenbro nel suo libro, così interessante, La parola e il marmo.
4. La sfida dell’unità dell’opera Concetto di unità e sua utilizzabilità La sfida dell’unità dell’opera è la più coinvolgente, perché è quella che insidia in modo più sottile la nostra buona fede. Noi crediamo di sapere che cos’è unità e crediamo di sapere che gli antichi la volevano in ogni opera delle loro lettera-
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ture. Quanto a quello che per noi è l’unità si può sintetizzare con formule come unità tematica, unità (e quindi coerenza) narrativa, unità fornita da un’idea di fondo, unità di stile etc. È chiaro che queste sono delle unità, ma ci dobbiamo chiedere se e in che misura gli antichi le richiedevano. In effetti gli antichi di unità di quelle qui nominate ne chiedevano poca, e soprattutto nella letteratura arcaica, da Omero a Pindaro, ma anche per esempio nella tragedia.
Esempi di mancanza di unità Possiamo proporci vari esempi famosi di effettiva mancanza di unità nel senso moderno. Le opere e i giorni di Esiodo sono piuttosto un’opera tenuta insieme da unità di cultura, ma non certo da unità di concezione costruttiva. L’Elegia alle Muse di Solone (fr. 1 G.–P.) è tenuta insieme da richiami associativi e non da una subordinazione e coordinazione dei concetti etici esposti (v. la bella analisi di van Groningen, La composition littéraire). L’epinicio pindarico non è più, oggi, una palestra per la ricerca dell’unità: è significativo che la Nemea I di Pindaro sia assente dal libro famoso di Schadewaldt sull’unità dell’epinicio (1928), perché evidentemente risultava difficile a Schadewaldt spiegare per quale passaggio razionale Pindaro, celebrando Cromio, improvvisamente dica «ma io mi dedico con tutta l’anima ad Eracle» e poi narri di Eracle bambino in culla che strozza i serpenti. Tragedie come l’Aiace o gli Eraclidi ci creano problemi. L’idea di fondo in un dialogo platonico come il Fedro è difficile trovarla, e cioè l’unità compositiva fra la teoria dell’amore nella prima parte e la teoria della retorica nella seconda. Quello che tiene insieme queste opere è la coordinazione e l’associazione, mai la vera subordinazione.
L’equivoco del principio ‘spiegare Omero con Omero’ Torniamo a Omero e rendiamoci conto che Omero viene trattato, almeno da Aristotele, come un’opera concepita in modo scrittorio, e perciò unitaria nella composizione, il che sappiamo non essere vero, solo che si creda alle premesse da me offerte in apertura. Il famoso principio — dovuto forse a Zenodoto, forse ad Aristarco, ma comunque alessandrino — Ὅμηρον ἐξ Ὁμήρου σαφηνίζειν, ‘spiegare Omero con Omero’, è sembrato tanto bello alla filologia positivistica — che trattava anch’essa Omero come un libro scritto — ma rischia di piacere troppo ancora a noi (mi permetto ora di citarmi, Rossi 1992, 105): «Omero ... non è un libro in sé conchiuso e una corretta esegesi avrebbe bisogno, per noi come
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per gli alessandrini, di tutta la tradizione epica a lui anteriore, coeva e posteriore, della quale a noi resta poco o niente e agli alessandrini restava comunque, nell’insieme, non abbastanza». Il nostro Omero, in altre parole, non basta per spiegare Omero, proprio perché l’Omero conservato è solo un pezzo di quel grande arcipelago epico da cui deriva per partenogenesi.
Dall’oralità alla concezione di Omero come libro Ma Omero non è opera in sé conchiusa non solo perché è staccato dal grande arcipelago epico, ma anche perché, almeno fino a tutto il VI secolo, è stato visto veramente come opera ancora aperta: tanto aperta da consentire che si continuasse l’operazione di intervenire nel testo come fece la commissione di esperti voluta da Pisistrato, che realizzò le famose interpolazioni attiche (Salamina nel II libro dell’Iliade). La storia del testo omerico si può considerare un lento ma deciso approdo alla concezione di qualcosa che Omero non era, e cioè un libro scritto e, in quanto scritto, soggetto a leggi in varia misura unitarie. L’approdo definitivo fu la filologia alessandrina e su quel molo i poemi rimasero attraccati fino a quando, qualche decennio fa, la critica oralistica con Parry li ha fatti di nuovo salpare verso l’alto mare dell’oralità, dove tante certezze ci mancano, ma almeno sappiamo perché ci mancano.
L’equivoco del ‘punto leumanniano’ Della scelta esegetica e storica dell’Omero in sé conchiuso, dell’Omero come libro scritto, va segnalato un esempio illustre, un libro giustamente famoso e sempre prezioso, in realtà: Homerische Wörter di Manu Leumann. Faccio un esempio del suo metodo (168 ss.). In Il. 11.140, 13.252, 15.640 sembra proprio che la parola ἀγγελίης venga usata come maschile della declinazione in alpha (ὁ ἀγγ.), uso che appare strano. In Il. 3.206 s. si legge ἤλυθε δῖος Ὀδυσσεύς / σεῦ ἕνεϰ’ ἀγγελίης, che vuol dire «venne l’eroe Odisseo a causa di ambasceria riguardante te», dove ἀγγελίης è l’atteso genitivo del sostantivo ἀγγελίη (femminile in alpha). Ma questo stesso passo si può prestare a fraintendimento, perché qualcuno può averlo inteso «a causa di te messaggero»: e così lo avrebbero inteso quelli che hanno composto i tre passi elencati sopra, che Leumann si compromette a considerare posteriori a 3.206. Questo sarebbe quello che si usa chiamare il ‘punto leumanniano’, e cioè l’origine del fraintendimento, che è sempre una creazione linguistica nuova, una parola nuova, e cioè un sostantivo
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maschile in alpha (si sa che l’errore è origine frequente di produttività linguistica). Ora, compromettersi a considerare i tre passi come posteriori proprio a 3.206 non è giusto, perché — se Leumann ha ragione a individuare il processo linguistico, come probabilmente ha ragione — non è giusto individuare proprio in 3.206 il punto leumanniano: questo potrebbe benissimo essere stato un passo perduto nel naufragio di tanta parte dell’epos. E quindi non è necessario che ad essere il precedente dei tre passi sia stato proprio 3.206. Ecco perché spiegare Omero con Omero (e cioè con l’Omero che abbiamo) a mio parere non è lecito. (v. già le giuste critiche di Ruijgh, L’élement achéen, 98 ss.).
Sensibilità degli antichi all’unità Un lavoro utile per chiarirsi (o almeno per cominciare a farlo) che cos’era unità per gli antichi è quello recente di Malcolm Heath (1989). Ma già il titolo (‘L’unità nella poetica dei greci’) ne denuncia i limiti: Heath cerca le scarse affermazioni di unità e le molte affermazioni di non–unità non nella prassi, ma solo nella teoria letteraria, e come ben sappiamo la teoria letteraria non può esser fatta risalire più indietro che a Platone e alla retorica del IV secolo. Studia cioè le leggi che io in un mio vecchio lavoro (1971) chiamavo ‘scritte’, e che sono tarde e trascura quelle che io chiamavo ‘non scritte’: queste ultime sono riconoscibili, in tutta la letteratura da Omero fino al V sec. incluso, solo analizzando le composizioni letterarie, ovvero guardando all’evidenza della prassi.
In Platone e in Aristotele Il lavoro di Heath è comunque molto utile. Mette in rilievo quanta importanza abbia il termine poikilía in Platone e nella retorica del IV sec.: ogni espediente che varii la composizione e che offra varietà al lettore per evitare il kóros (la ‘noia’) è benvenuto (importante è epeisódion fino ad Aristotele, che usa anche il verbo epeisodioûn). In fondo, il più accanito difensore dell’unità tematica per l’epos e dell’unità drammatica per il dramma è proprio Aristotele, che però è tanto lontano dall’epos originario (e del resto è lontano anche dalla sensibilità teatrale della tragedia del V secolo).
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Negli scoliasti La parte più utile del lavoro di Heath è certamente il capitolo VIII (pp. 102–23), dedicato agli scoli omerici, perché confronta la teoria tarda (alessandrina) con l’opera più problematica della letteratura greca, i poemi epici, problematica perché le condizioni della comunicazione erano così cambiate. Ma le loro notazioni sono interessanti, proprio perché le loro giustificazioni ci debbono apparire inopportune.
Le similitudini Molte pagine del libro sono dedicate a quanto gli scoliasti dicono delle similitudini. A loro piacciono molto perché «sono un riposo dalla fatica» (BT 15.362–4) e perché danno rilievo all’importanza degli eventi narrati (BT 14.394–9, 15.624 s.: Heath, p. 104). Anche qui ha grande importanza la poikilía che evita il kóros (la ‘sazietà’ ovvero la ‘noia’), lo homoioeidés (l’«uniformità», p. 107).
Le grandi disgressioni narrative Ma, oltre alle similitudini, gli scoliasti considerano sotto questo punto di vista anche sezioni più ampie, intere sezioni narrative (Heath, p. 109 ss.). Le tenzoni singolari, che interrompono il flusso principale dell’azione, e le grandi digressioni sono valutate sempre positivamente. Anche qui epeisódion e poikilía sono termini tecnici più frequenti. Il catalogo delle navi nel II libro dell’Iliade e la teichoskopía nel III sono epeisódia che variano la narrazione. Interessante anche quanto gli scoli dicono a proposito di quello che noi chiameremmo la fabula, e cioè l’ordine reale degli eventi (Heath, p. 116 s.). In riferimento ad Aristotele e al termine praxis per un testo narrativo (Heath, cap. IV), la narrazione ‘in ordine’ è storiografica, mentre la narrazione con inversioni (ex anastrophês) è tipica della poesia (B 2.494–877). Ovviamente la più palese e voluminosa infrazione dell’ordine della fabula è costituita dall’Odissea con gli apólogoi o racconti di Odisseo, che sono racconti nel racconto. L’Odissea piacque anche per questa ragione agli alessandrini e piace ai moderni teorici di narratologia.
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La mancanza di unità come fatto organico e funzionale Quello delle digressioni piccole e grandi è un buon test per capire l’atteggiamento dei commentatori di Omero. Perché le spiegazioni degli scoliasti le considero sbagliate? Perché dipendono da una considerazione di Omero come libro scritto e unitario. Perché i fatti che vogliono spiegare li fanno derivare da una scelta narrativa del cantore epico per creare varietà ed evitare la noia, mentre sono tutt’altro che frutto di una scelta: quelle forme narrative sono funzionali a un sistema della narrazione che è creato dalle condizioni della comunicazione orale, per cui il narratore orale passava da una sezione all’altra per coordinazione o per semplice associazione. Quello era l’unico modo di comporre oralmente perché era organico e funzionale al tipo di comunicazione (orale) e il pubblico recepiva quel modo di narrare come l’unico possibile. Fu solo più tardi che quel modo fu considerato come quello che in origine non era, come una scelta di stile.
5. Risultato delle tre sfide Tre sfide e tre sconfitte Credo che sia chiaro che secondo me queste tre sfide le abbiamo perdute. 1) Non siamo riusciti a riconoscere un unico autore, perché quello degli autori epici è un arcipelago sparso non solo nello spazio ma soprattutto nel tempo. 2) Non abbiamo trovato un criterio davvero valido per sceverare l’autentico dall’apocrifo, perché l’epos trascura i principi compositivi che ci permetterebbero di applicare questo criterio: l’epos nel tempo cresce su se stesso e, più che rifiutare gli interventi, per la sua natura li vuole e li ingloba. Tutt’al più possiamo sceverare il materiale più recente dal più antico, ma è operazione storica e non critico–letteraria. 3) E infine abbiamo messo in crisi tutti i nostri principi di unità, perché abbiamo visto che questi principi sono nostri o, nella migliore delle ipotesi, sono degli antichi ma sono molto più tardi dell’epoca creativa dell’epos.
Le tre sfide nel resto della letteratura greca Se vogliamo mettere a frutto questa esperienza omerica per il resto della letteratura greca, diremo che — per qualche esempio che abbiamo già visto — la scon-
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fitta nella terza sfida, la ricerca dell’unità, ci perseguita in tutta la letteratura arcaica e cominciamo a respirare soltanto con gli alessandrini e con i romani, dove ci troviamo più a casa nostra. Diversamente con le prime due sfide, la ricerca dell’autore e dell’autenticità: lì siamo su terreno più sicuro a cominciare già da Esiodo in poi, anche se la misura del nostro successo può variare a seconda dell’affidabilità degli strumenti filologici che adottiamo.
6. L’epos orale originario e l’epos scritto La vera ragione per cui abbiamo perso le tre sfide in Homericis sta nel fatto che i poemi hanno una natura singolare e diversa da tutto il resto della letteratura greca con cui siano confrontati: nascono oralmente e questo dà ad essi uno status del tutto particolare, che ci impedisce non solo di trattarli come la letteratura moderna, ma anche come il resto della letteratura greca. Ora, la registrazione di queste sconfitte ci serve per affrontare il problema della crescita dell’epos su se stesso in se stesso in età scrittoria. E qui comincia, in realtà, quello che il titolo di questa conversazione promette. È destino che ogni discorso su Omero debba cominciare sempre con una lunga premessa che oso definire metacritica, e cioè con faticose precisazioni sul codice critico che si usa. Abbiamo esaurito tempo ed energie per queste premesse, ma, se sono stato convincente, possiamo limitarci qui ad alcuni accenni che ognuno può sviluppare quanto crede.
Il distacco progressivo dall’oralilà originaria: il probabile uso della scrittura Ho parlato prima di approdo dell’epos al molo del libro. Ci corre ora l’obbligo di seguire questa navigazione lungo il lento viaggio che la allontana progressivamente dall’oralità originaria. La scrittura alfabetica nasce in Grecia intorno alla metà dell’VIII sec. a.C.: non crediamo certo che da quell’epoca in poi l’epos non fosse più produttivo e che, producendo, si astenesse totalmente dalla scrittura.
La spia dell’uso delle formule Chi ha affrontato con impegno e con larghezza di materiali il problema degli interventi presumibilmente scrittori è stato Dihle. Voglio limitarmi qui a segnalare alcuni casi, molto significativi, di variatio formulare recentemente segnalati
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(Sbardella). La Dolonia, come si è detto prima, è stata bollata già dagli antichi come recenziore (Danek). È interessante rilevare un caso di perfetta e prolungata alternanza tra due formule equivalenti, che esprimono lo stesso concetto di ‘durante la notte’ (l’episodio di Dolone avviene di notte): al v. 41 viene usata la formula νύϰτα δι’ ἀμβροσίην; poi, al 83 viene usato il doppione νύϰτα δι’ ὀρφναίην; poi al vv. 142, 276, 386 continua la perfetta alternanza fra i due doppioni. Non si riesce a sottrarsi all’impressione che questa perfetta alternanza, in un ‘agglomerato’ (secondo il termine di Leo Spitzer) contestuale piuttosto ristretto (350 versi circa), sia voluta e, se voluta, sembra propria di chi redige un testo scritto. Ancora, Il. 1, 544 serve chiaramente a variare l’emistichio formulare ricorrente a 511, 517, 560. Nell’ ‘inganno a Zeus’ (Il. 14), episodio già segnalato da Dihle per altri aspetti, abbiamo un caso ancora più singolare, e cioè due doppie formule equivalenti in agglomerato contestuale: 193 τὴν δ’ ἠμείβειτ’ ἕπειπα Διὸς θυγάτηρ Ἀφροδίτη e 211 τὴν δ’αὗτε προσέειπτε φιλομμειδὴς Ἀφροδίτη sono un caso di perfetto doppio doppione di formula nominale e di formula verbale che si alternano a poca distanza con la chiara intenzione di variare (sia le due formule verbali sia le due formule nominali sono fra di loro doppioni). Questi casi sono significativi perché sono molto rari. Ben più diffuso è il fenomeno opposto, di formule perfettamente uguali (che rispettano l’economia formulare) in stretti agglomerati: costituiscono quello che Hainsworth chiama clustering. Un caso fra i tanti (Janko) è Il. 5.711, 755, 775, 784, quattro versi molto vicini, dove ricorre sempre la formula θεὰ λευϰώλενος ῞Ηρη, con una monotonia tipicamente orale. Di questi casi ce ne sono moltissimi, tanto da far credere che la maggior parte dell’epos conservi l’originaria facies orale. E quello che se ne distacca ha tutto l’aspetto di un intervento scrittorio. Dove c’è ipotassi sintattica e narrativa, che è lontana dalla paratassi epica, il sospetto è molto forte.
7. Considerazioni conclusive Eccellenza dei poemi Non vorrei che quanto abbiamo fin qui ragionato porti a svalutare o a far svalutare la bellezza dei poemi omerici. Tutt’altro. Questa bellezza va cercata e trovata dove è e non dove non è. Non è in una concezione compositiva unitaria, che è soltanto nostra, moderna; ma è in alcuni fattori indubbiamente unificanti (l’ira di Achille, il ritorno di Odisseo) e soprattutto nel fascino di una cultura,
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quella dell’epos, che pregiava alcuni valori come la bellezza, il valore, la saggezza ma sapeva anche cantare l’amicizia, la famiglia, il dolore e il dramma della morte. I due poemi sono forse quanto di più splendido si è prodotto nella cultura che si suole chiamare europea.
Nonostante le aporie Chi ha continuato a elaborare l’epos si è posto meno che mai la preoccupazione di evitare tradimenti dell’unità narrativa, della tecnica formulare etc., proprio perché non le vedeva rispettate nel corpus epico che si trovava di fronte, come esso si configurava man mano aumentato delle aggiunte.
La mimesi dell’oralità come archeologia della comunicazione La perdita della composizione orale è cosa già antica. Ma la letteratura greca si preoccupa, specie in età alessandrina ma anche prima, di mimarla (Rossi 1992, 105 s.). Manca uno studio complessivo che renda ragione dei modi in cui l’oralità è stata mimata (ovvero falsificata con formulazioni mendaci) da raffinati letterati come Platone nei suoi dialoghi, da oratori come Demostene, da Callimaco nei suoi Inni. L’oralità si perde e, se Omero viene considerato almeno da Aristotele in poi un libro scritto, l’oralità lascia nei greci memoria di sé con quella che mi piace definire come ‘la nostalgia dell’oralità’, una specie di archeologia della comunicazione. È un po’ come se Omero fosse stato vittima di un’ingiustizia storica, cominciata già con i Greci e perpetrata a lungo anche da noi: ma i Greci ripararono in parte a questa ingiustizia rendendosi conto che la loro cultura era ancora in qualche modo legata all’oralità (era ‘aurale’) e tentando di falsificare quella condizione di comunicazione con un artificio letterario, la mimesi dell’oralità, proprio nel momento, il IV sec., in cui stavano passando a una cultura del libro che sarà alessandrina e romana.
Bibliografia La bibliografia omerica è sterminata. Un utile orientamento, ancora abbastanza recente, dà A. Heubeck, Die homerische Frage, Darmstadt 1974.
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Edizioni. Le ed. di Oxford comunemente utilizzate (e sempre ristampate) sono Il., D.B. Monro – Th. W. Allen e Od., Th. W. Allen; un’edizione recentissima dell’Il. è quella di H. van Thiel, Hildesheim 1993; sempre utile per l’Od. è l’ed. di P. Von der Mühll, Basel 1946. Commenti. Per I’ll., in 6 voll., Cambridge 1985 – (in corso di pubblicazione; vol. I a cura di C.S. Kirk); per l’Odissea, in 6 voll., Milano (Fondazione L. Valla) 1981–86 (vol. I a cura di S. West, II a c. di J.B. Hainsworth, III a c. di A. Heubeck, IV a c. di A. Hoekstra, V a c. di J. Russo, VI a c. di M. Fernández–Galiano e A. Heubeck). Papiri. St. West, The Ptolemaic Papyri of Homer, Köln–Opladen 1967. Scolî e commenti antichi. Per l’Il. H. Erbse, Berlin–New York 1969–1988; per l’Od. W. Dindorf, Oxford 1855; M. van der Valk, Eustathii Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes, I–IV, Leiden 1971–1987. Traduzioni. Il. e Od. di R. Calzecchi Onesti, Torino (Einaudi), continuamente ristampate; solo l’Il., di M.G. Ciani, Venezia (Marsilio) 1990; solo l’Od., di G.A. Privitera nella Lorenzo Valla cit. sopra. Lessici. H. Ebeling, Lex. Hom., Leipzig 1885; A. Gehring, Ind. Hom., Leipzig 1891; B. Snell, Lexikon des frühgriechischen Epos, Göttingen 1955 sgg. (molto dettagliato, ma va avanti lentamente). Le concordanze di G.L. Prendergast all’Il., 1875 e di H. Dunbar all’Od., 1880 sono ora riviste da B. Marzullo, Hildesheim 1962. Introduzioni generali, storia e archeologia. G. Murray, Le origini dell’epica greca, 19344, tr. it. Bari 1964; D.L. Page, History and the Homeric Iliad. Berkeley–Los Angeles 1959; G.S. Kirk, The Songs of Homer, Cambridge 1962; A.J.B. Wace–F.H. Stubbings (a cura di), A Companion to Homer, London 1962 (autori vari); Μ.I. Finley, Il mondo di Odisseo 1964, tr. it. Bari 1978; W. Schadewaldt, Iliasstudien, Darmstadt 19653 (la più autorevole voce unitaria); F. Codino, Introduzione a Omero, Torino 1965 (utile per storia e religione); A. Dihle, Homer–Probleme, Opladen 1970; A. Lesky, Homeros, RE, Suppl.–Bd. 11, 1968, 687–846; L.E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in Storia e civiltà dei Greci, 1. 1, Milano 1978, 73–147; J. Latacz, Omero, il primo poeta dell’Occidente, 1985, tr. it. Bari 1990; F. Montanari, Introduzione a Omero, Firenze 1990; Aa.Vv., Homer. Die Dichtung und ihre Deutung, a cura di J. Latacz, Darmstadt 1991. Importanti sono alcune pagine di H. Fränkel, Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 19683. Oralità e formularità. M. Parry, The Making of the Homeric Verse, Oxford 1971 (raccoglie tutti gli scritti, dal 1928); W. Arend, Die typischen Scenen bei Homer, Berlin 1933; A. Lord, The Singer of Tales, Cambridge Mass. 1960; J.B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford 1968; A. Hoekstra, Homeric Modifications of Formulaic Prototypes, Amsterdam 1965; L.E. Rossi, Wesen und Werden der Homerischen Formeltechnik, «Gött. Gel. Anzeigen» 223, 1971, 161–174; E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, tr. it. Bari 1973; L.E. Rossi, L’ideologia dell’oralità da Omero a Platone, in: Lo spazio letterario della Grecia antica, I, Roma 1992, 77–106. Lingua. K. Witte, Homeros. Sprache, RE VIII (2), 1913, 2213–47. J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Göttingen 1916; K. Meister, Die homerische Kunstsprache, Leipzig 1921; P. Chantraine, Grammaire homérique, I–II, Paris 19735; C.J. Ruijgh, L’élément achéen dans la langue épique, Assen 1957; M. Durante, Sulla preistoria della tradizione poetica greca. I. Continuità della tradizione poetica dall’età micenea ai primi documenti, Roma 1971; A. Hoekstra, Homeric Hexameter before Homer. Three Studies, Amsterdam 1981. Metrica. H. Fränkel, Wege u. Formen., cit., 100–156; L.E. Rossi, Estensione a valore del colon nell’esametro omerico, «Studi urbinati» 39, 1965, 239–273; B. Gentili–P. Giannini, Preistoria e formazione dell’esametro, «Quad. Urbin.» 26, 1977, 7–51.
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Bibliografia aggiuntiva citata in queste pagine G. Danek, Studien zur Dolonie, Wien 1988; M. Heath, Unity in Greek Poetics, Oxford 1989; R. Janko, Equivalent Formulae in the Greek Epos, «Mnemos.» 34, 1981, 251–263; M. Leumann, Homerische Wörter, Basel 1950; L.E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «Bull. Inst. Class. Studies», London, 18, 1971, 69–94 (ristamp. in Aa.Vv., Dizionario della civiltà classica, Milano 1993, I, 48–84); W. Schadewaldt, Der Aufbau des pindarischen Epinikions, Halle 1928; L. Sbardella, La ‘variatio’ formulare nella dizione epica, di prossima pubblicazione in «Quad. Urbin.»; J. Svenbro, La parole et le marbre, Lund 1974 (tradotto in ital. da Boringhieri); B.A. van Groningen, La composition littéraire archaïque grecque, Amsterdam 1960 (2a ed.).
Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi Questa mia è una proposta con la quale, partendo dal modo in cui fu praticata la recitazione della poesia epica arcaica, vorrei precisare il modo in cui in seguito fu redatta. Senza aspirare a completezza di materiali, mi limito a segnalare sia alcuni fatti noti, ma non sfruttati in questo senso, sia rilievi miei. Cercherò di coordinarli, arrivando a formulare una tesi in parte nuova per le Opere e giorni di Esiodo cercando anche di capire la ragione delle grandi differenze in fatto di redazione che si notano fra Omero ed Esiodo1.
1. Breve premessa sulle Opere e giorni di Esiodo La storia critica delle Opere e giorni di Esiodo è quella di un’unità spesso con grande impegno cercata e mai, a mio parere giustamente, davvero trovata. Qui l’impresa si vuol dare non per disperata, ma per inopportuna. Il concetto moderno di unità ha poco peso nella letteratura arcaica (§ 2), e specialmente nell’epica, che non nacque originariamente come “libro”, e cioè come opera in sé conchiusa, ma si sviluppò per incrementi successivi in una cultura che non conosceva ancora la scrittura. Anche le Opere e giorni di Esiodo sono poesia epica, || [Conferenza al seminario romano (G 12.1.1995, ore 15–17, Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”, e del resto l’idea era nata nel corso universitario dell’a.a 1993/1994 Esiodo, Le opere e i giorni. Il problema dell’unità e della destinazione) e relazione di convegno (maggio 1995, Facoltà di Lettere dell’Università di Genova, DARFICLET “Francesco Della Corte”), recitata poi anche in altre sedi (ancora al seminario romano G 16.5.95, ore 16–18; Università di Padova, L 11.3.1996; Università di Bari, Mt 26.3.1996, ore 16–18); pubblicata in F. Montanari – S. Pittaluga (edd.), Posthomerica I. Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, Genova, Facoltà di Lettere, 1997, pp. 7–22; ripubblicata (postuma) in A. Ercolani – L. Sbardella (edd.), Esiodo e il corpus Hesiodeum. Problemi aperti e nuove prospettive, «SemRom» n.s. 5, 2016, pp. 47–61]
1 Ho in gran parte conservato lo stile orale della relazione, per cui non abbondo in riferimenti e in rimandi bibliografici per materiale facilmente reperibile. Segnalo qui in apertura le utili raccolte di E. Heitsch (Hsg.), Hesiod, Darmstadt 1966 e di G. Arrighetti (a c. di), Esiodo. Letture critiche, Milano 1975. Mi riferirò più volte ai due commenti di M. L. West: Hesiod, Theogony, Oxford 1966 e Hesiod,, Works and Days, Oxford 1978. – Sono grato a Franco Montanari per l’invito e per i contributi suoi e dei partecipanti al convegno di Genova. Nel momento in cui licenzio questa redazione, ho di nuovo esposto queste idee, nel frattempo, anche altrove: non avendo ricevuto critiche distruttive bensì ulteriori contributi, conto di inglobarli in una successiva più ampia redazione. https://doi.org/10.1515/9783110648126-009
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destinata alle recitazioni epiche: l’idea che si tratti di un poema didascalico è antica, ma di molto posteriore a Esiodo stesso (§ 9). L’analisi esiodea ha trovato inizialmente sostegno nella teoria dei canti singoli, dei Lieder, e il più illustre rappresentante di questa corrente fu Kirchhoff2, benemerito anche nell’analisi omerica. Ma nulla obbliga a pensare che le Opere fossero un raccolta di canti non coordinati, perché certamente lo erano, e del tutto verosimilmente lo furono ad opera dello stesso Esiodo (§ 4), pur senza quelle esigenze di unità che sono solo nostre. Che alcune sezioni si configurino come una serie di “precetti” legati l’uno all’altro con maggiore o minor rigore associativo è una vecchia tesi3 che merita rispetto: i blocchi di precetti possono aver avuto estensione diversa in diverse recitazioni per raggiungere poi quella configurazione che hanno oggi nel testo che ci è arrivato. Prima di affrontare un fatto che a me pare singolare di Esiodo nell’ambito dell’epica, conviene richiamare qui quella morfologia arcaica della composizione, che è stata bene messa in luce nel corso degli ultimi decenni4: la poesia epica si costruisce per associazione tematica o verbale e per ampliamento, senza che di necessità ci sia quella coerenza logica e narrativa che noi spesso a torto le chiediamo. Alle volte il passaggio è metaletterariamente esplicito. Per esempio il v. 106 (εἰ δ᾽ ἐθέλεις, ἕτεϱόν τοι ἐγὼ λόγον ἐκκοϱυϕώσω), passaggio dal mito di Prometeo al mito delle generazioni, si presenta come quelle aggiunte erodotee che, più del necessario, tengono del facoltativo. E l’introduzione alla favola dello sparviero e dell’usignolo (v. 202 νῦν δ᾽ αἶνον βασιλεῦσιν ἐϱέω) presenta formalmente il nuovo contenuto come qualcosa di occasionale, anche se è ben radicato nel contesto generale della giustizia. In realtà la vera morale arriva molto dopo (vv. 276–279): gli animali non rispettano la dike. Ma ci sono dei fatti che sembrano andare oltre i procedimenti usuali, e sono quelli che tratterò fra poco come ‘sezioni alternative’ (§ 4). Per un più facile orientamento a proposito dei passi che tratterò, fornisco qui uno schema di
|| 2 A. Kirchhoff, Hesiodos’ Mahnlieder an Perses, Berlin 1889. Già allora K. poteva parlare, a proposito degli studi sulle Opere, di Fluth der Vermuthungen, Meinungen und Ansichten (p. V). La fase più antica dell’analisi esiodea è bene esposta nelle premesse a Hesiodi carmina. Rec. et comm. Instruxit Carolus Goettlingius. Ed. Altera, Gotha 1843. Gli orientamenti della ricerca moderna in G. Arrighetti, Esiodo fra epica e lirica, in G. Arrighetti (a c. di), cit., pp. 5–36, spec. 23–34. 3 P. Friedländer, Hesiods Ὑποθῆκαι, in E. Heitsch (Hsg.), Hesiod cit., 223–238 (1913). 4 Ricchi di preziose osservazioni in merito sono due classici: B.A. van Groningen, La composition littéraire archaïque grecque, Amsterdam 19602; H. Fränkel, Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 19683.
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comodo delle Opere5: vv. 1–10 proemio; vv. 11–41 le due contese; vv. 42–105 Prometeo e Pandora; vv. 106–201 mito delle cinque generazioni; vv. 202–212 lo sparviero e l’usignolo; vv. 213–285 la giustizia; vv. 286–382 necessità del lavoro e vita associata nella comunità; vv. 383–617 i lavori dei campi; vv. 618–694 la navigazione; vv. 695–764 precetti vari; vv. 765–828 i giorni.
2. Breve premessa sull’unità dell’opera letteraria Ho già detto che non ha senso accostarci alle opere dell’epoca arcaica e classica con il nostro concetto di unità dell’opera letteraria. Meno che mai questo è possibile con la poesia epica, la cui realtà originaria si può rendere con l’immagine di un arcipelago. L’apparente unitarietà di opere epiche arcaiche – e qui intendo ovviamente i due poemi epici maggiori – è solo il frutto di interventi graduali, che hanno adattato un prodotto di cultura orale a culture successive. È così che i poemi epici sono progressivamente diventati dei “libri” (§ 3). Se l’epica non è unitaria per definizione, e se redazioni scritte hanno progressivamente elaborato l’arcipelago narrativo dando ad esso una coerenza che resta tuttavia ancora lontana dal concetto moderno di unità, le Opere non ne hanno neanche la parvenza: non penso che possa aver successo il tentativo di giustificare, in prospettiva unitaria, non solo la compresenza di alcune sezioni, ma anche la precisa posizione che molte sottosezioni hanno nella redazione attuale. Cercherò di dare una spiegazione di questo fatto e di metterlo a frutto.
3. Breve premessa sulla poesia epica Ho avuto occasione di esporre il mio “credo” omerico già da tempo6. I due poemi maggiori, l’Iliade e l’Odissea, hanno secondo me (e secondo molti) radici in epoca priva di scrittura. Nella forma attuale i poemi tradiscono aggiunte poste-
|| 5 Lo schema non ha la pretesa di resuscitare la Liedertheorie né è una presa di posizione sulla subordinazione di alcune parti (per es. la favola dello sparviero e dell’usignolo può venire inclusa nella sezione della giustizia). 6 I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in Storia e civiltà dei Greci, vol I. 1, Milano 1978, pp. 73–147. Qualche precisazione ulteriore in L’epica greca fra oralità e scrittura, in Reges et proelia. Incontri del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. VII, Como 1994, pp. 29–43.
Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi | 155
riori all’introduzione della scrittura7 e interventi organizzativi che hanno dato un prodotto che da un certo momento in poi è stato considerato come un libro (o come due libri). Oso affermare che il libro conserva l’epica, ma la uccide come tale, ne fa qualcosa di profondamente diverso da quello che era in origine. Il tempo di elaborazione dell’epos arcaico dev’essere stato lungo: non possiamo dire quanto, ma si trattò probabilmente di qualche secolo. Una prova importante è la stratificazione cronologica dei materiali e dei fatti linguistici, che però può derivare dalla pratica dell’arcaizzare. Ma una prova decisiva è a mio parere l’elaborazione ritmica molto accurata dell’esametro8, che non si improvvisa in un periodo breve: l’esercitazione continua della facoltà compositiva ha prodotto un verso retto da due leggi costanti che evidentemente avevano a mano a mano formato l’orizzonte ritmico d’attesa del pubblico, e cioè il divieto di divisione in due (divieto assoluto)9 e il ponte di Hermann (tendenza molto forte, con poche eccezioni, su cui vd. oltre, § 8). Un’altra spia della fase avanzata di composizione dei due poemi è la cosiddetta legge di Monro10: non abbiamo nei due poemi sezioni narrative ripetute ovvero che si sovrappongano (se non, ovviamente, le scene tipiche). In più, è stato notato che il Ciclo epico di cui possediamo i frammenti (e i riassunti in Proclo) non si sovrappone mai ai due poemi con sezioni narrative uguali perché è posteriore ai due poemi stessi11 e sulla base di questi ultimi è stato costruito.
|| 7 Questa posizione, che a me sembra assai ragionevole, è tutt’altro che diffusa: vd. soprattutto A. Dihle, Homer–Probleme 1970; non conoscevo ancora Dihle quando in termini generici sostenevo la stessa tesi in Wesen und Werden der homerischem Formeltechnik, «Gött.Gel.Anz.» 223 (1971), pp. 161–174. 8 L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (a cura di), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma 1996, pp. 271–320 («Stud.Urbin.» 39 (1965), pp. 239–273 con un Post–scriptum 1995). C’è perfino chi propone di far risalire il tempo di elaborazione del verso addirittura all’età micenea: A. Hoekstra, Epic Verse before Homer, Amsterdam – Oxford – New York 1983, spec. pp. 33–53, 81–89. 9 Alcuni la chiamano lex Varronis (Varr. Fr. 220, p. 259 Funaioli), ma cf. già Aristot. met. 1093a 28 ss. 10 D.B. Monro, Homer. Odyssey. Books XIII–XXIV, London 1901, p. 325. Sulla legge di Monro, e sulle sue recenti interpretazioni, v. L. Sbardella, Tracce di un epos di Eracle nei poemi omerici, «SMEA» 33 (1994), pp. 45–162 e tavv. I–IV, spec. pp. 146–48 e 147.8. 11 Che i resti del Ciclo che noi possediamo siano posteriori ai due poemi è confermato anche dalla recenziorità di fatti linguistici, come dimostrò J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Göttingen 1916. Sul Ciclo (o, più correttamente sui cicli) in generale v. da ultimo M. Davies, The Epic Cycle, Bristol 1989 (pp. 3–6 sulla cronologia). La recenziorità del Ciclo è ovviamente redazionale: la materia mitico–narrativa è per lo meno coeva ai due poemi, se non addirittura più antica (come sostiene la scuola della neoanalisi con in testa J. Kakridis).
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Qui è in fondo il grande fascino, e il segreto, della costruzione dei due poemi maggiori: pur nell’abbondanza di spie di disordine (culturale–cronologico, linguistico, narrativo), per cui la loro origine è da far risalire a vari momenti di recitazioni di composizioni staccate, la loro organizzazione finale tradisce l’intervento di quello che opportunamente da alcuni è stato definito un “redattore” (o meglio più redattori). Un momento fondamentale della riduzione dei poemi alla forma del libro è stata certamente la redazione pisistratea nel VI sec. a. C.12 Come opere in sé conchiuse vennero poi intesi da Aristotele e dalla filologia alessandrina. Il compito di non dimenticare l’arcipelago epico da cui derivano spetta alla filologia e alla critica storico–letteraria di noi moderni.
4. Ritorno alle Opere: le sezioni alternative Lo stato attuale della composizione delle Opere attesta una fase a dir poco intermedia nella via della riduzione a una sola relativa coerenza costruttiva; la certezza me ne è venuta considerando una serie di intere sezioni che appaiono innegabilmente ripetitive, come dei veri e propri doppioni13. Come va valutata questa ripetitività? Un procedimento tipico della filologia è quello di espungere il ripetuto14 e, per condannare, si tende a scegliere quello che appare di qualità più scadente: procedimento non sempre corretto, ma qui assolutamente inaccettabile in toto, ed è significativo che nelle Opere15, specie negli studi più recenti, sia stato applicato con parsimonia o almeno con grande prudenza. Un procedimento in qualche modo analogo può essere quello del riconoscimento della cosiddetta variante d’autore16. Il concetto di variante d’autore implica però spesso nell’autore una gerarchia fra le due o più varianti, nel senso che una appaia preferibile a lui stesso (anche se non sempre è a noi possibile accertare con sicurezza quale).
|| 12 T.W. Boyd, Libri confusi, «CJ» 91 (1995), pp. 35–45 è utile come voce bibliografica recente, ma (come faceva Davison) tende a screditare la tradizione che ci informa sulla redazione pisistratea. La ritengo invece fededegna, come il classico R. Merkelbach, Untersuchungen zur Odyssee, Münche 19692, pp. 239–262. 13 Alcune delle quali già notate dalla critica, altre no. Qui cerco di dare ad esse nel loro complesso una rilevanza comune e di sfruttarle per un’ipotesi sull’uso di redigere l’epos. 14 Kirchhoff, per esempio, espungeva il secondo inverno (vd. infra). 15 Parlo qui solo delle Opere: la Teogonia presenta problemi redazionali molto più complessi, per cui la lascio da parte. 16 Parlo qui di variante d’autore solo per escluderne l’utilizzabilità e solo per eliminare, e non per incoraggiare, malintesi.
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Ma, invece di espungere e invece di riconoscere lo status di variante d’autore, la possibilità che resta, e che è in accordo con la natura della composizione e della pubblicazione dell’epica, è quella di riconoscere in sezioni ripetitive la natura di “sezioni alternative”, che potevano servire a diverse recitazioni in diverse occasioni. In altre parole: l’alternatività configura sezioni totalmente fungibili. È possibile (ed è ormai usuale) liberarsi dall’idea che le Opere fossero un coacervo di carmina separati. È molto verosimile che i cosiddetti vari carmina siano stati tenuti insieme per una recitazione da Esiodo stesso e poi, forse con disponibilità variabile di materiale, da uno o più redattori17 che trattavano materiale esiodeo. Si potrebbe quindi ammettere libertà di scelta alle sezioni alternative, senza fare d’obbligo una separazione dell’autentico dal non autentico18. Le Opere hanno una loro coerenza e unità non letteraria nel senso nostro, bensì culturale nell’affermazione della giustizia di Zeus e della necessità del lavoro; per di più le dimensioni attuali del poema non eccedono quello che poteva essere il tempo di una recitazione epica. Il procedimento dei redattori sarebbe stato allora, in qualche caso, quello di giustapporre alcune sezioni che all’origine erano alternative. Un procedimento che, per ragioni meccaniche, ha una sua storia filologica (le varianti o le glosse inserite nel testo), ma che nel caso della poesia epica ha una sua giustificazione forte: l’epica vive originariamente di una pluralità di esecuzioni. Se in Omero questo non si nota, è – lo preciserò meglio alla fine – perché la fase redazionale che ci sta di fronte appare più avanzata di quella di Esiodo. La sezione alternativa più macroscopica mi è sembrata quella dell’inverno (vv. 493–563)19. All’inizio (v. 494 ὥϱῃ χειμεϱίῃ) c’è l’indicazione della stagione20, seguita dalla descrizione dell’inverno e dei suoi effetti sugli uomini (con relativi precetti: vv. 493–503), sulla natura (vv. 504–511), sugli animali (vv. 512–518) con un ritorno gli uomini (vv. 518–523: il vecchio e la fanciulla). A questo punto, saldamente inserita nella sintassi c’è una ripetuta e assai simile indicazione della stagione (v. 524 ἤματι χειμεϱίῳ), che sembra assai strana, perché non è
|| 17 F. Solmsen, The “Days” of the Works and Days, «TAPhA» 94 (1963), pp. 293–320 e precisam. p. 301 fa l’opportuna distinzione fra rapsodo e editore. 18 Non entrano qui in discorso i Giorni, ampiamente sospettati, che però non sono nel loro complesso una sezione alternativa. 19 P. Walcot, La composizione delle “Opere e giorni”, in G. Arrighetti, Esiodo, cit., pp. 100–116, spec. 107–109, per salvare l’unità e la coerenza dei due inverni, ricorre (purtroppo qui e altrove) a espedienti di Ringkomposition multipla, troppo elaborata per essere credibile nell’epica arcaica: si tratterebbe di espedienti percepibili solo in opere di avanzata cultura scrittoria. 20 In West ad 494 e 524 passi simili.
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normale che l’indicazione di stagione venga ripetuta all’intero della sezione21. Segue una sezione di estensione non molto dissimile (40 versi contro i precedenti 31) in cui la tematica, sia pure con diverso ordine, si ripete: effetti dell’inverno sugli animali (vv. 524–533), sugli uomini (vv. 533–546: di nuovo con precetti), sulla natura (vv. 547–553), di nuovo effetti sull’uomo con numerosi precetti (vv. 554–563)22. Al di là del fatto che i fenomeni descritti e i precetti sono diversi e che diverso è l’ordine dell’esposizione, ci sono delle corrispondenze tematiche molto precise23: e non è, questo, quanto ci si aspetterebbe da due versioni dell’inverno fra loro alternative?24 La ripetuta menzione della stagione sembra una spia eloquente di un nuovo incipit, che tale in verità formalmente non è, perché nella redazione che abbiamo è, come ho già detto, saldamente ancorato dal punto di vista sintattico, senza alcuna indipendenza. A questo punto ci si potrebbe sentir chiedere di restaurare il contesto del v. 524 come un incipit, ma questo non andrebbe oltre un dispensabile esercizio umanistico di riscrittura25, reso vano dalla lecitamente ipotizzabile sutura delle due sezioni, sutura che sarebbe stata operata da un redattore che si fosse trovati giustapposti i due inverni con i loro due incipit sintatticamente autonomi.
|| 21 Così West ad loc. 22 Mi risparmio qui la discussione sull’espunzione di 561–563, voluta da Wilamowitz, accettata da alcuni, ma non per es. da Mazon e da West (v. ad loc.). 23 Fra le corrispondenze, ce ne sono alcune assai minute fra le due sezioni: il soffiare di Borea (506 e 547), l’immagine del vecchio (518 e 533), il ritirarsi in casa (520 e 554). Ma la più importante è proprio l’indicazione di stagione, segno di incipit. 24 Il singolare parallelismo era stato segnalato da H. G. Evelyn–White, Hesiod’s Description of Winter (Works and Days, ll. 493–560), «CR» 30 (1916), pp. 209–213, che proponeva una complessa analisi (493–503 prima versione con molto alien matter; 493 + 524–535 + 536 ss. versione esiodea elaborata; 504–523 + 536 ss. versione elaborata sulla seconda, ma per un uditorio ionico). Il suo merito è quello di aver segnalato molte corrispondenze, ma non ne viene fuori la divisione in due inverni con sutura a 524, secondo me sicura per l’esatta responsione tematica notata sopra nel testo. Il nome ionico del mese (504 Μῆνα δὲ Ληναιῶνα) invece del beotico Βουκάτιος può ben venire interpretato, al di là di qualunque contesto, come un voluto omaggio a un pubblico più ecumenico: e ionico non deve voler dire destinato alla Ionia, ma tale da rientrare nel mondo (linguistico e antiquario) dell’epica omerica. Anche l’invocazione alle Muse della Pieria invece che a quelle dell’Elicona (§ 6) può esser vista in questa luce. 25 L’esercizio di restauro si può anche tentare, ma a patto di dare ad esso solo il valore di un esercizio, e non di un restauro: sarebbe una riscrittura del tutto ipotetica (che dovrebbe tener conto del contesto di più di un verso), della quale non abbiamo nessun bisogno. Un caso di adattamento testimoniato è invece quello dell’ultimo verso dell’Iliade, di cui si parlerà in seguito (§ 6).
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Anche alla luce degli altri due casi che porterò, credo che nulla osti all’ipotesi che si tratti di due sezioni sull’inverno destinate a due recitazioni distinte, a due occasioni diverse. In assenza di seri indizi niente milita a favore di un’espunzione mentre molto, e a mio parere tutto, milita a favore della autenticità esiodea di tutti e due gli inverni. Questo non significa che aggiunte redazionali (intenzionalmente alternative anch’esse) non fossero possibili: e in fin dei conti per tranquillizzare gli animi di tutti, si potrà dire che le sezioni alternative sono nate almeno nell’ambiente in cui Esiodo operava. Un’altra rilevante sezione alternativa è quella della navigazione (vv. 618– 694). Segnalerò anche qui la presenza di quelli che a me sembrano essere i due incipit, di cui il secondo è in questo caso sintatticamente indipendente, per cui le due sezioni sono semplicemente giustapposte e non fuse: 618 646
εἰ δέ σε ναυτιλίης δυσπεμϕέλου ἵμεϱος αἱϱεῖ etc. εὖτ᾽ ἂν ἐπ᾽ ἐμποϱίην τϱέψας ἀεσίϕϱονα θυμόν etc.26
Le due sezioni sono qui di lunghezza molto simile (28 e 49 versi), ma siamo ben lontani dall’aver bisogno di simmetrie numeriche e sembra proprio di trovarsi di nuovo di fronte a due sezioni alternative individuabili dai due incipit. A chi obiettasse che v. 618 ναυτιλίη e v. 646 ἐμποϱίη fanno differenza, si deve rispondere che a favore dell’ovvia equivalenza navigazione/commercio sta la presenza di ναυτιλίη a v. 649, subito dopo v. 646, quasi a chiosa dell’equivalenza stessa27. La prima sezione comprende l’indicazione della stagione sfavorevole e i consigli in negativo (vv. 618–630), notizie autobiografiche riguardati la navigazione del padre da Cuma eolica alla Beozia (vv. 631–642), consigli in positivo (vv. 643–645). La seconda sezione, dopo un secondo incipit (vv. 646–649), comprende un’altra sezione autobiografica (vv. 650–662: scarsa conoscenza diretta del mare da parte di Esiodo, che si è limitato a viaggiare per e da Calcide), consigli in positivo (vv. 663–673), consigli in negativo (vv. 674–677), considerazione critica (in negativo) della navigazione in primavera (vv. 678–694). Qui le cose si fanno un po’ più complicate per la serie di sospetti e di spostamenti a cui
|| 26 West ad loc. e p. 55 (dove a n. 1 offre una storia della questione) pensa che 646 fosse all’inizio e fosse εἰ δέ κ᾽ ἐπ᾽ ἐμποϱίην ... La cosa più strana è considerare autentiche ma mal collocate le due sezioni autobiografiche, che interromperebbero la coerenza dell’argomentare: sono, invece, necessarie in tutte e due le sezioni (vd. oltre nel testo: per la navigazione, estranea al mestiere del contadino, Esiodo sente il bisogno di offrire la sua pur scarsa esperienza e la garanzia delle Muse). 27 Tutte e due le parole sono coriambiche, ma c’è differenza fra inizio consonantico e inizio vocalico, il che può aver determinato la scelta.
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i versi sono stati sottoposti28. Quello che mi fa fermamente decidere per due sezioni alternative, segnalate dai due incipit, è la presenza in tutte e due le sezioni degli elementi autobiografici che devono in qualche modo autenticare (anche in negativo, con richiamo però alle Muse, nel secondo caso29) gli insegnamenti di Esiodo al fratello. Senza entrare qui nel dettaglio dei molti problemi posti da questa sezione, per l’economia della mia proposta globale (che comprende casi ulteriori) mi pare sufficiente quanto ho segnalato: è possibile che la rielaborazione posteriore sia stata più capillare di quanto sembra essere avvenuto per l’inverno, ma la presenza delle due sezioni alternative mi appare innegabile. Quanto ai Giorni (vv. 765–828), è stato più volte sostenuto dai moderni che non sono autentici30. Ma anche qui, dove ci troviamo al di là del confine del sospetto, e cioè in piena zona sospettata, mi sembra utile segnalare un fenomeno analogo: dopo tutto fanno parte del corpus e possono ben presentare fenomeni tipici dell’uso della recitazione epica. Ecco quelli che a me sembrano i due incipit: 765 s. ἤματα δ᾽ ἐκ Διόθεν πεϕυλαγμένος εὖ κατὰ μοῖϱαν πεϕϱαδέμεν δμώεσσι etc. 769 αἵδε γὰϱ ἡμέϱαι εἰσὶ Διὸς παϱὰ μητιόεντος κτλ.
Se anche questo caso viene accettato, siamo di fronte non a due sezioni, bensì, per la brevità della prima (vv. 765–768), a due soli incipit alternativi: la ripetuta menzione di Zeus ne è, a mio parere, segnale evidente. Per di più αἵδε (v. 769) è normalmente dittico e si riferisce a quanto segue31. Il γάϱ di v. 769 sembra far difficoltà, ma lo si può far rientrare fra i casi di valore incettivo32. In real|| 28 Plutarco (teste Proclo) condannava 654–662 (proprio la seconda sezione autobiografica!), ma v. West p. 319. Mi risparmio la discussione di altri casi. 29 Considero 657 ὕμνοι, come comunemente si fa, riferito all’esecuzione della Teogonia, e diverso da 662 ὕμνοι, riferito a quanto Esiodo sta attualmente cantando, e cioè la navigazione o il poema nel suo intero. 30 F. Solmsen, art. cit. riassume e discute lo stato della questione, propendendo per un nucleo autentico. È anche il parere di P. Mazon, Hésiode, Paris 1928, p. 79 (che riprende con moderazione i risultati del suo commento Hésiode. Les Travaux et les jours, Paris 1914). 31 West ad 822 (v. qui oltre nel testo) è costretto a dare a αἵδε valore retrospective, ma i paralleli interni alle Opere che cita (688, 826, 760) non sembrano sicuri (P. Chantraine, Grammaire homérique, II, Paris 1953, p. 168s.: ὅδε annonce généralement ce qui suit). 32 J. D. Denniston, The Greek Particles, Oxford 19542, pp. 68–73. Un eventuale restauro economico, del quale peraltro si può fare a meno, non sembra possibile: né αἵδ᾽ ἆϱ᾽ (asseverativo) né αἵδ᾽ οὖν (senza altre particelle) sarebbero esiodei (vd. J.R. Tebben, Hesiod–Konkordanz, Hildesheim – New York 1977 s.vocc.) né epici (vd. L–J–S e il Lex. des frühgr. Epos); con αἵδ᾽ ἄϱα disturberebbe lo iato successivo (non ammesso con ἦμαϱ e con ἡμέϱη); la soluzione migliore
Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi | 161
tà un terzo incipit può esser visto, in prossimità della fine del poema, nei vv. 822–82533: 822
αἵδε μὲν ἡμέϱαι εἰσὶν ἐπιχθονίοις μέγ᾽ ὄνειαϱ αἱ δ᾽ ἄλλαι μετάδουποι, ἀκήϱιοι, οὔ τι ϕέϱουσαι κτλ.,
dove a militare per l’incipit sarebbe nuovamente il valore prospettico di αἵδε, mentre il μέν, seguito dal δέ, non creerebbe problemi. La collocazione, in fase redazionale, di questi versi in fine dei Giorni non sarebbe altro che un espediente di Ringkomposition: c’è solo da chiedersi se fossero i più adatti a questo scopo. A questo punto l’analisi potrebbe estendersi, ma mi fermo alle tre principali sezioni alternative già offerte, aggiungendo un’esemplificazione di poche minori. Per l’esempio di una ripetizione non contigua, ma nella stessa sezione, si può citare quella riguardante l’orinare: vv. 727–732 e 757 s. Le prescrizioni sono diverse e in realtà potrebbero integrarsi, ma evidente è la loro indipendenza in due diversi contesti di brevi precetti tutti in negativo. Un notevole esempio di sezioni alternative non contigue, e per di più in due sezioni (contesti) diversi, sono quelle riguardanti la donna–moglie: vv. 373–375 e 695–70534. Di tre precetti per l’aratura (vv. 383 s., 448–451, 614–617), il primo e il terzo si richiamano alle Pleiadi e il secondo alla migrazione delle gru. La quasi contiguità dei vv. 299–301 e 306 s. (esortazione a riempirsi il granaio) offre la quasi sovrapponibilità verbale di v. 301 e 307.
5. Il sistema esiodeo: rapporti tra Opere e Teogonia Un allargamento naturale della ricerca viene dall’utilità di obliterare i confini fra poema e poema, in questo caso fra Opere e Teogonia. Non intendo proporre una, o la, alternatività integrale fra le due versioni del mito di Prometeo nei due poemi (Theog. 507–616, Op. 42–105), anche se francamente mi sembra difficile accettare i tentativi che sono stati fatti per funzionalizzare tutte le differenze fra le due versioni ai rispettivi contesti. Tra l’altro, occorre tener conto delle pro-
|| sarebbe un μέν solitarium incettivo (costruzione del verso simile a 822, vd. infra, dove μέν è però seguito da δέ), ma da Denniston cit., pp. 380–384 risulta non essere usuale nell’epos. 33 Solo 826–828 sarebbero il vero passaggio alla Ὀϱνιθομαντεία (vd. § 6 qui oltre). 34 Le considerazioni sulla donna–lavoratrice (405–409) sono invece funzionali alla gestione dell’ οἶκος.
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poste di espunzione di antichi e moderni, che possono modificare il quadro delle differenze35. Nella Teogonia manca il nome di Pandora, presente invece nelle Opere. Forse il nome (parlante) di Pandora ha a che fare con il vaso di Pandora, da cui vengono tutti i mali dell’umanità e che è presente solo nelle Opere: e questa è vista da alcuni come la differenza maggiore, nel senso che nel primo poema la donna sarebbe il male in sé, mentre nel secondo sarebbe l’apportatrice dei mali nel vaso, e variamente la funzione della differenza viene spiegata per i due poemi. Altra differenza di rilievo è, nelle Opere, la mancanza dell’inganno di Prometeo a Zeus (Theog. 535–560), che, per il suo valore eziologico da Esiodo stesso dichiarato (v. 556 s.) per l’uso di sacrificare agli dèi solo le ossa degli animali, poteva essere opportuno in tutti e due i poemi. Si tratta pur sempre dello stesso mito, raccontato in modo diverso, e forse almeno in parte adattato al rispettivo contesto. Qui siamo in grado di registrare una alternatività, per così dire, applicata, mentre nei casi di compresenza e addirittura di contiguità notati nelle Opere questo non ci è stato possibile, per la impossibilità di ricostruire il contesto in cui le sezioni alternative dovevano essersi trovate all’atto della pubblicazione orale.
6. I proemi come sezioni alternative per eccellenza Del resto l’alternatività è fatto normale nell’epos, come risulta da quelle sezioni alternative per eccellenza che sono i proemi. Per partire proprio dalle Opere e giorni, è noto che i sacerdoti del santuario delle Muse dell’Elicona, a stare alla testimonianza del peripatetico Prassifane, avevano delle Opere un testo in cui mancava il proemio (vv. 1–10). Cratete atetizzava i proemi di tutti e due i poemi, e Aristarco quello delle Opere. Una ragione della mancanza del proemio nel testo dell’Elicona può essere il fatto che vi sono invocate le Muse della Pieria: in realtà Esiodo aveva fatto il suo omaggio alle muse locali nella Teogonia36. Ma per noi non è tanto importante darci una giustificazione della mancanza del proemio, quanto il fatto che un testo delle Opere senza proemio era in fin dei conti considerato un testo completo, e questo per la buona ragione che i proemi erano la sezione alternativa per eccellenza. È strano come un concetto così ovvio, e che emerge chiaramente da molte formulazioni degli studiosi a proposito dei proemi, abbia spesso così poco rilievo quando si parla di prassi epica in
|| 35 Per i dettagli v. i due commenti di West (alla Theog., p. 305ss.; alle Op., p. 115ss.). 36 Theog. 1, cf. Op. 658.
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generale37. E c’è chi38, da un’analisi del proemio, trova (giustamente) che esso non annuncia la materia ma si configura come un Inno a Zeus39, dal che viene ricavata la convinzione (per molti confortante) che argomento unitario delle Opere sia Zeus: il che è vero (Zeus custode della giustizia), ma solo in termini troppo generici per soddisfare qualsiasi esigenza di unità. La verità è che l’inno è il vero proemio della recitazione epica ed è, come tale, fungibile (§ 7). Il proemio delle Opere che noi abbiamo è uno dei proemi possibili per la recitazione, e possiamo verificare questo in tutta la poesia epica in generale. Note sono le varianti alternative al proemio dell’Iliade che possediamo40, evidenti resti di versioni diverse con proemi che non hanno avuto la fortuna di quello che la tradizione manoscritta ha privilegiato. L’epos è la negazione del libro in sé conchiuso. L’Iliade aveva una variante nell’ultimo verso, che addirittura la attaccava all’Etiopide; e le stesse Opere, a detta degli scoli, sarebbero state seguite da una Ὀϱνιθομαντεία41. L’indicazione più chiara in questo senso, metaletteraria e preziosa, è l’esortazione alla Musa di Od. 1. 10, che è pregata di cominciare ἀμόθεν, “da un punto qualsiasi”, il che rende fungibile ogni possibile proemio ad ogni possibile sezione narrativa dell’epos. È appena necessario ricordare il secondo proemio dell’Iliade, in 2. 484 ss., che introduce il catalogo delle navi. In effetti, se guardiamo senza pregiudizi ai due proemi più famosi, a quelli dei due poemi omerici, ci rendiamo conto che non sono del tutto ‘soddisfacenti’42 ma questo non è strano, perché è ovvio che non dovessero essere gli unici. Recentemente uno studioso43 ha posto la questione in termini addirittura divertenti: ne parafraso il pensiero. Se leggessimo i primi versi dell’Iliade in un papiro, e non conoscessimo la storia, il greco che vi leggeremmo ci direbbe più o meno che «Achille figlio di Peleo, un potente eroe, si adirò per qualche || 37 G.S. Kirk 1985, per esempio, nel suo commento (The Iliad. A Commentary. Books 1–4, Cambridge 1985, p. 52) parla delle varianti al proemio dell’Iliade come rather unsatisfactory. È possibile immaginare (anche se è improbabile) che ad essere il più diffuso sia stato il migliore (nonostante quanto dirò più oltre nel testo), ma dovere di ogni editore moderno è di registrarli tutti, dando il giusto (relativo) peso al giudizio sulla loro qualità. 38 H. Diller, Die dichterische Form von Hesiods Erga, in E. Heitsch, Hesiod, cit., pp. 239–274 (1962), precisam. pp. 248s. 39 E così viene spesso chiamato dagli esegeti. Sugli inni come proemi v. qui oltre, § 7. 40 V. il materiale nel comm. cit. di Kirk ad Il. 1. 1. 41 Che Apollonio Rodio atetizzava. V. nota di West 1978 ad 828, che è incline a ritenerla autentica. 42 Per usare la parola di Kirk cit. sopra in nota. 43 R. Renehan, The Heldentod in Homer: One Heroic Ideal, «CPh» 82 (1987), pp. 99–116 precisam. 115 (segnalatomi da Harry Gotoff, che qui di nuovo ringrazio).
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ragione contro un popolo nemico chiamato Achei e ne uccise molti in battaglia». È chiaro che questo proemio parla dell’ira, della μῆνις, ma non è certo escluso che in qualche altro proemio la stessa ira fosse annunciata con più precisione (e da questo punto di vista una delle varianti che abbiamo44, pur stretta in tre versi, è più concisa ma più chiara). Aggiungo solo che, quanto all’Odissea, il proemio è correttamente l’annuncio della narrazione di un νόστος, ma l’esemplificazione di un episodio, quello dei bui del sole, fa pensare alla volontà di privilegiare uno degli episodi degli ἀπόλογοι o gli ἀπόλογοι in generale. C’è stato chi ha detto che «il rilievo dato a quest’episodio è sorprendente»45: ma dovrebbe sorprendere meno, una volta accettate le considerazioni qui esposte. Con quanta diversa cura sono concepiti i proemi di poesia epica nata come opera scrittoria, come libro. Basta guardare, solo per fare due illustri esempi, ad Apollonio Rodio46 e all’Eneide di Virgilio, senza bisogno di commenti: i loro proemi sono gli unici, sono stati composti per quell’unica occasione che era la pubblicazione della loro opera, in altre parole il proemio è per loro il vero incipit. Quello che va messo in luce è che l’importanza dell’incipit nasce proprio quando la poesia diventa libro, e quindi altro dall’epica, che era poesia senza incipit e senza fine, vero “ciclo” che si può aprire dovunque, ἀμόθεν. L’uso del titolo comincia, a suo modo, dalla poesia lirica in poi, dove l’incipit ha tra l’altro anche il valore di un titolo: la letteratura greca conosce molto tardi l’insorgere del titolo vero e proprio47.
|| 44 Trasmessa dall’ Anecdotum Romanum (I, p. 3 Erbse, ripubblicato, con abbondante informazione sul codice e sulla storia editoriale, da F. Montanari, Studi di filologia omerica. I., Pisa 1979, pp. 43–56) e testimoniata da Aristosseno: ἔσπετε νῦν μοι Μοῦσαι, Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχουσαι ὅππως δὴ μῆνίς τε χόλος θ’ ἕλε Πηλείωνα Λητοῦς τ᾽ ἀγλαὸν υἱόν· ὁ γὰϱ βασιλῆϊ χολωθείς etc. Nicanore e Cratete conoscevano invece (ibid.) Μοῦσας ἀείδω καὶ Ἀπόλλωνα κλυτότοξον come proemio nella copia di Apellicone di Teo: un chiaro incipit innico. 45 St. West, ad Od. 1. 7–9 nel commento della “Lorenzo Valla” (Milano 1981). 46 Che, in più, lega l’incipit del quarto libro all’explicit dell’intero poema: L.E. Rossi, La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio, «RFIC» 96, (1968), pp. 151– 163. 47 E. Nachmanson, Der griechische Buchtitel, Göteborg 1941; E. Schmalzriedt, Peri physeos. Zur Frühgeschichte der Buchtitel, München 1970.
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7. Gli Inni omerici come proemi Negli Inni omerici abbiamo una raccolta di proemi48. Si potrà dubitare della natura semplicemente proemiale dei quattro inni maggiori, che danno impressione di autonomia con la loro larga estensione narrativa, ma è significativo che Tucidide (3. 104. 4) chiami πϱοοίμιον l’Inno ad Apollo, che è proprio uno di quei quattro49 (e che unisce due inni distinti, il delio e il pitico). Quelli brevi hanno per lo più le dimensioni di un proemio e ne avevano sicuramente la funzione. La frequente formula finale con la quale il cantore dice che «passerà ad un altro canto» fa pensare alla continuazione con la narrazione epica vera e propria. Pindaro (Nem. 2. 1 ss.) ci informa che gli Omeridi cominciavano «dal proemio di Zeus». Del resto l’uso di cominciare con una invocazione alla divinità era rituale anche nel simposio.
8. Risultati per una valutazione comparativa di Omero e di Esiodo La selezione degli episodi nei due poemi omerici può essere cominciata già in fase integralmente orale, per poi aver concentrato la sua operatività nelle progressive fasi della redazione scritta: la legge di Monro non si è imposta certo di colpo, e sembra verosimile che la sua operatività si sia perfezionata in un periodo non breve, e cioè la fase finale della prassi orale (sec. VIII a. C.) fiancheggiata e seguita dalla fase scrittoria. Le Opere di Esiodo hanno avuto una loro storia di libere recitazioni epiche molto più breve, tutta nell’ambito di un secolo (il VII a. C.) o meno ancora, perché la scrittura, ormai affermatasi, era lì a consentire una fissazione scritta dei materiali. E questa avvenne con la differenza, rispetto a Omero, che abbiamo avuto modo di verificare: le sezioni alternateve abbondano. Del resto la comparazione ci segnala esempi di doppioni redazionali, per esempio, nel Pentateuco: non si tratta solo del caso, ben noto, del doppio racconto della creazione nel libro della Genesi, ma anche dei doppioni di norme e leggi negli altri libri.
|| 48 Due ottime esposizioni della natura degli Inni omerici sono N. Richardson, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford 1974, pp. 3s., pp. 324 s. e, più estesamente, F. Cassola, Inni omerici, Milano 1975, pp. IX–LXVI. 49 Per l’Inno ad Apollo (e per gli inni in generale) v. A. Aloni, L’aedo e i tiranni. Ricerche sull’inno omerico ad Apollo, Roma 1989.
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Mi corre l’obbligo di segnalare alcune lucide pagine di Gilbert Murray50, nelle quali viene notato a livello fenomenologico il diverso tipo di redazione che presentano i due poemi omerici e i due poemi esiodei: questi ultimi vengono addirittura definitivi come un “caos”. Le differenti versioni avrebbero prodotto raccolte fatte da un redattore fra quanto gli capitava sottomano51 generando doppioni (da Murray non analizzati, ma dati per noti). Mi ha confortato trovare un parere del genere espresso in efficace sintesi da uno studioso così autorevole in epicis, anche se nessuno di noi sottoscriverebbe per Esiodo la definizione di “caos”. In fondo chi ha giustapposto le sezioni alternative ha continuato, a suo modo, il mestiere del cantore epico, che operava sovrapponendo (o sostituendo). Si è parlato sopra di ampliamento come uno dei procedimenti tipici della prassi epica: nei casi che abbiamo esaminati l’ampliamento arriva fino al raddoppio, realizzando una tipologia che doveva caratterizzare anche l’epica omerica in un tempo che ha preceduto quello della creazione dei “poemi monumentali”, per usare la ben nota definizione di Gilbert Murray. Solo, nella redazione scritta dei due poemi omerici l’eliminazione dei raddoppi è stata operazione graduale, che è poi arrivata a un suo finale perfezionamento. Del resto la presenza già iniziale di varianti si adattava bene ai contenuti e alla forma di un poema come le Opere, ricco di materiale etico–esortativo, esposto per sua stessa natura al raddoppio alternativo: come se «le reazioni favorevoli del pubblico sotto forma di applauso»52 avessero provocato la produzione di bis. Avevo creduto di trovare una conferma ritmica della minor durata della tradizione orale delle Opere (minore elaborazione dell’esametro) in una molto più frequente53 violazione del ponte di Hermann, fondandomi sui dati normalmente utilizzati per Omero54 e su una
||
50 G. Murray, Greek Studies, Oxford 1946, pp. 26–29 e 40–42. 51 Collections by the bookmaker of what he could get. 52 La formulazione, ingenua ma efficace, è di van Groningen, La compos. Litt., cit., pp. 302s. 53 Solo una differenza molto grande avrebbe avuto senso, vista la sperequazione del materiale fra Omero (più di 27.000 versi) ed Esiodo (meno di 2.000 fra Opere e Teogonia, escludendo i frammenti). 54 La legge risale a G. Hermann, Orphica, Leipzig 1805, pp. 692ss., ma non c’era ancora vera coerenza nella considerazione di prepositive e pospositive. Il dato comunemente utilizzato (Maas, Gr. Metrik, § 87: circa 0.1%, e cioè più di 20) risulta essere valido per le violazioni gravi, mentre in Esiodo io le contavo tutte (v. qui oltre). Sulle appositive c’è spazio per valutazioni diverse: la trattazione più recente, e chiara nelle premesse, è M. Cantilena, Il ponte di Nicanore, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (a c. di), Struttura e storia, cit., I, Roma 1995, pp. 9–67 e special. 11–28.
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mia observatio nelle Opere55. Ma ora una statistica omerica del tutto attendibile56 mostra che la frequenza è sostanzialmente uguale e non fa che confermare la forte paradigmaticità del ritmo esametrico acquisita nel lungo periodo creativo dell’epica omerica. Questo non toglie verosimiglianza all’ipotesi, recentemente avanzata57, che nella parte più gnomica delle Opere (vv. 383–828) la prevalenza (non omerica) di incisione pentemimere (circa 60%, mentre in Omero è di circa il 40%) tradisca fedeltà a una tradizione sapienziale gnomologica. Una tradizione orale–aurale veramente breve o addirittura nulla come quella degli oracoli si presta a un confronto utile non solo con Omero, la più lunga, ma anche con Esiodo, che una certa durata l’ha avuta. Ho operato tempo fa58 un controllo sugli oracoli delfici, che mostrano anti–epicismi, imperfezioni prosodiche e metriche, oltre a goffaggini stilistiche, il tutto dovuto alla estemporaneità della composizione improvvisata, poi conservata per superstizione o per interesse privato e/o pubblico. Considero preziosa una formulazione di Kirk sulla «azione curativa della tradizione orale», che depura le forme nel corso della prassi orale.
9. Conclusioni su due diverse redazioni scritte di tradizioni epiche Le Opere come poesia originariamente non didascalica, ma semplicemente epica, è il punto di vista, ormai ovvio, del ‘dopo Esiodo’59: sono stati i successori, e precisamente gli alessandrini (da Arato e Nicandro in poi) e i romani, a vedere in lui il padre di un genere letterario che come tale era nato molto dopo di lui, e cioè il poema didascalico. Resta la singolarità delle Opere e giorni, un poema che, se è vero che è epico, si presenta come diverso rispetto sia all’epica co|| 55 Tenendo presente la limitazione di A. Wifstrand, Von Kallimachos zu Nonnos, Lund 1933, pp. 41, 66 e 74, per cui le pospositive obliterano parzialmente anche il confine di parola che le segue, in Esiodo le violazioni gravi sono tre su meno di duemila versi (Th. 23, 319; Op. 751; meno gravi Th. 101 = Op. 139, 257 – già omeriche – e Op. 427, 518). 56 In Omero, su più di 27.000 versi, le violazioni sono 129 (contando anche le ripetizioni), di cui gravi (con qualche ulteriore giustificazione) solo una ventina. Devo statistiche omeriche rigorose alla cortesia di Daniele Fusi, che le ha ottenute elaborando un suo programma. 57 L. Sbardella, La struttra degli esametri in Esiodo, Erga 383–828, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (a c. di), Struttura e storia, cit., I, Roma 1995, pp. 121–133. 58 L.E. Rossi, Gli oracoli come documento di improvvisazione, in C. Brillante, M. Cantilena, C.O. Pavese (a c. di), I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale, Padova 1981, pp. 203– 230. La (fuggevole e felice) formulazione di G.S. Kirk (ibid., p. 178) è da me richiamata e messa nel dovuto rilievo a p. 221. 59 S. Koster, Antike Epostheorien, Wiesbaden 1970; B. Effe, Dichtung und Lehre, München 1977. È singolare che, in presenza di una ricca teorizzazione antica sull’epos, il poema didascalico sia poco o nulla servito dai grammatici alessandrini e romani: devo questo rilievo a Giovanni Greco, che ha condotto ricerche di prossima pubblicazione.
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smogonico–teogonica sia a quella narrativa. Esiodo nelle Opere narra poco e ragiona molto60. Ma quanto qui ho cercato di proporre è stato altro, e cioè un riconoscimento della natura compositiva delle Opere, un corpus in cui abbondano le sezioni alternative. Questo ci ha consentito di penetrare in una situazione per noi privilegiata, e cioè la formazione di un corpus epico, fase che nell’Omero che abbiamo troviamo già ampiamente superata. Il punto di vista che abbiamo potuto assumere è stato quello del ‘durante Esiodo’, e cioè del come le Opere si sono organizzate secondo la loro natura di poesia epica, sicuramente anche durante la vita di Esiodo stesso (§ 2): un tempo di organizzazione piuttosto breve, proprio per la presenza della scrittura, che ha ben presto creato il corpus inglobando alcune delle varianti61 o sezioni alternative. E questo ci ha condotti a una migliore comprensione del ‘prima di Omero’, di quello che potremmo chiamare il pre–Monro. La grande differenza è che i due poemi omerici hanno avuto un tempo di composizione (e di formazione) molto lungo proprio per il tardivo apparire della scrittura e per il graduale affermarsi della stessa: è in questo senso che le Opere testimoniano una situazione compositiva che nel corpus omerico appare già superata. Esiodo provinciale, Esiodo beotico? Lo si è molto detto e molto contraddetto, ma ha la sua parte di verità e – diciamolo – di utilità per noi: il grado di ecumenicità di Esiodo, almeno nelle Opere, è inizialmente molto minore di quello di Omero. Esiodo fu amato molto più tardi, fino ad arrivare a una cultura alessandrina che era naturaliter disposta non solo a prenderlo come un libro compiuto, come era successo con Omero, ma anche a preferirlo addirittura a Omero. La sua è una fase compositiva preziosa che ci insegna molto sul modo, altrove obliterato, di crescere su se stessa della poesia epica greca arcaica sia in epoca orale sia in epoca scrittorio–aurale. Paradossalmente dobbiamo essere grati alla così breve fase aurale delle Opere, forse ristretta anche nello spazio, che ce ne ha prodotto una redazione così vicina all’epoca creativa, ricca di varianti. Che la scrittura sia stata utilizzata per la composizione, come io credo62, o che la composizione sia stata originariamente del tutto orale, come altri cre-
|| 60 Secondo la felice formulazione di E.A. Havelock, Esiodo pensoso, in G. Arrighetti, Esiodo, cit., pp. 89–99, da «YCIS» 20 (1966). 61 In Omero la scrittura ha favorito, se non altro, la creazione di varianti formulari: esemplari le pagine di G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522, pp. 201ss., dove è affermata l’influenza della tradizione manoscritta sullo scambio di formule. 62 Quanto all’uso della scrittura sono d’accordo con G. Arrighetti, art. cit., p. 26.44 e su quanto giustamente osserva a proposito di E. Meyer, H. Fränkel e E. A. Havelock.
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dono63, non tocca i risultati di questa ricerca, che, se un risultato ha, ha quello di aver chiarito il modo in cui è nata la redazione scritta delle Opere, e cioè come naturale esito di un processo così vicino al costume delle recitazioni dell’epos e così relativamente breve.
|| 63 P. Mureddu, Formula e tradizione nella poesia di Esiodo, Roma 1983.
La fortuna dell’epica greca nella letteratura italiana Traduzioni classiche, come Vincenzo Monti, e funzione che possono svolgere oggi Oggi c’è gran bisogno, richiesta di narratività, di affabulazione (la Lust zu fabulieren di Goethe a cui corrisponde il desiderio di racconto). L’empatia fra aedo e pubblico, che ci viene così ben descritta da un bel verso odissiaco (11.334 e 13.2) “e stavano incantati ad ascoltare nel mégaron ombroso” (Odisseo che racconta le sue avventure ai Feaci). Fattori che non possiamo ricostruire nella nostra esperienza: enciclopedia tribale e ecumenicità. La distanza culturale fra la Grecia arcaica e noi ci nega questa esperienza. La nostra cultura non recepisce oggi se non la narrazione, che alle volte si presenta con una suspence notevole, come nell’episodio del ciclope Polifemo l’ingegnoso modo con cui Odisseo, chiuso nella caverna, salva se stesso e i suoi compagni (legandosi sotto il ventre degli animali del gregge: il Ciclope è stato accecato e così non può vedere Odisseo e i compagni quando fa uscire il gregge dalla caverna). Gli antichi lo sapevano bene, quando ascoltavano le recitazioni dell’epos, che era a loro familiare, ma molti moderni, se affrontano la lettura, non lo sanno in anticipo. Non sto qui a elencare le ragioni che possono attirare un lettore moderno, che sono poi molto simili alla ricetta dei romanzi di grande diffusione: un intreccio di avventura, di tecnica guerresca, e qualche volta di eros (anche se molto moderato, vista la pruderie dei poeti epici). Reazione di fronte agli scandali analitici (Il. 2, catalogo, e Il. 9): gli antichi non ci facevano caso, e così il lettore moderno. A farci caso sono solo i filologi (sia gli alessandrini sia i moderni). Visto che pochi oggi sono in grado di leggere Omero in greco (e sempre meno diventeranno, se certe riforme della scuola non avranno riguardo a questo impoverimento), vorrei brevemente soffermarmi sull’esperienza linguistica della lettura in traduzione.
|| [Intervento tenuto L 12.5.1997 al Centro Congressi d’Ateneo dell’Università di Roma “La Sapienza”, per l’incontro L’epos oggi. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648126-010
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La traduzione lascia intatto il fascino della narrazione, anzi lo incrementa, come possiamo sperimentare noi filologi quando leggiamo Omero in traduzione: non siamo disturbati da questioni filologiche che inevitabilmente ci si presentano alla mente, che si evocano spontaneamente alla rilettura di tanti passi. Vorrei fare un esempio tratto dalle traduzioni. Paradossalmente Monti, notoriamente infedele (‘traduttor de’ traduttor d’Omero’), ci porta ad essere più vicini all’esperienza greca. Molte (e ottime) traduzioni moderne sono contemporanee a noi. Ce ne sono alcune, anche recenti, che sono molto buone (Privitera, Ciani, Cerri) e si presentano più piane, rispondono a un’esigenza di lingua poetica liberata da pastoie classicistiche anche nel metro e ci rendono in maniera più pura la gioia della narrazione. Ma, se c’è qualcosa che non ci danno, è quelll’aspetto straniante che per i greci aveva la lingua omerica, che non è stata mai una lingua unitaria, neanche alle origini, nella sua mistione di elementi diversi che è stata riconosciuta come ‘lingua artificiale’ da almeno cento anni. Una traduzione come quella di Monti, disciplinata nell’endecasillabo, va recuperata per una lettura almeno parziale dell’Iliade. È notoriamente bella in sé, anche se infedele: ma ci fa sentire una distanza che è analoga (analoga, non uguale) a quella che i greci sentivano. Un esempio: il finale di Il. 8, un paragone, e quindi uno degli espedienti formali a cui si affida l’epos e chi lo imita, come Gogol, e che quindi si giova di quei fattori formali che sono lingua poetica e metro: Siccome quando in ciel tersa è la luna e tremole e vezzose a lei d’intorno sfavillano le stelle, allor che l’aria è senza vento, ed allo sguardo tutte si scuoprono le torri e le foreste e le cime de’ monti: immenso e puro l’etra si spande, gli astri tutti il volto rivelano ridenti, e in cor ne gode l’attonito pastor; tali al vederli e altrettanti apparian de’ Teucri i fuochi tra le navi, e del Xanto le correnti sotto il muro di Troia. Erano mille che di gran fiamma interrompeano il campo. E cinquanta guerrieri a ciascheduno sedeansi al lume delle vampe ardenti. Presso i carri frattanto orzo ed avena i cavalli pascevano, aspettando che dal bel trono suo l’Alba sorgesse.
On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry I am honoured to accept the offer to intervene in this very interesting SO Debate (cf. SO 74, 1999, 4–91, and 75, 2000, 5–23). “In Homeric scholarship, perhaps more than elsewhere, it is a striking fact that what seems to one scholar strictly logical, almost self–evident, remains unconvincing to others”: so Minna Skafte Jensen (MSJ, SO 74, 1999, 23), with a reference to Rose 1997, 170. None of us can be an exception, both when we speak or write to an audience and when we listen to a paper or read it. I might misunderstand essential arguments, I might misuse formulations and terms. It is after all a danger one has to face anyway.1
On the real nature of archaic epic poetry The title of the debate reveals an intention to cope with a major problem of Homeric studies, viz. how did one come to the sole or the multiple redactions of an oral text and possibly when. In fact, even in the variety of scholarly positions one can hardly deny that both poems as we have them had an oral pre–history and one or more written redactions as well. One of the major problems lies precisely in the division into songs,2 and I should say it was high time to start with it. The transformation of the free flow of the many epic narrations, usual in the oral period, into two great poems or books—the two major narrative units that were chosen among the epic archipelago—was a task that must have been undertaken at a time when book–status was sought for even for a literary product that at its origin was not a book at all: it was oral, continuous and therefore reluctant to any bookish prison, as I firmly believe and as will become clear from my argument in the following lines.
|| [Saggio pubblicato in SO Debate. Dividing Homer: When and How were the Iliad and the Odyssey Divided into Songs? (continued), «SO» 76, 2001, pp. 103–112] 1 I apologize for frequently quoting some of my own works on the archaic Greek epos (see the list of Additional references). I owe more than one important suggestion to Lucio Ceccarelli, Alessandro D’Avenia, Roberto Nicolai, Livio Sbardella. 2 I shall be using ‘song’ (as the title of the debate opportunely suggests) for each of the 48 units often called ‘books’, whereas with ‘book’ I mean the book form of the poems as we have them, viz. shaped as two great poems. https://doi.org/10.1515/9783110648126-011
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I said at the very start that there is hardly a field in which scholars dissent more than in Homericis. But when one comes to the highly necessary moment of offering a possible scenario for the way in which things must have developed in the course of time, then scholars agree with each other much more than the usual labels would lead us to expect: unitarism, analysis and oral theory seem to commingle, so that nowadays I personally find it difficult to put one of the three labels on a so–called solution of the Homeric problem. Song division is a structuring device that originally was totally unforeseen. A distinction of narrative sections is obvious and is in fact even attested through the titles we find in Herodotus, Thucydides, Plato, Aristotle: it simply responded to the need of the single performance, but let us not forget that the song division we have does not always correspond to clear–cut episodes. Moreover: an isolated song might be a clear–cut episode, but how and when did song division become a device for structuring the major unit that we call a poem? With this outlook in mind I have been reading the most useful recent history of the question offered by MSJ (5 ff., 23 ff. on oral theory). Notwithstanding what I have just said on the difficulty of disentangling labels, I adopt her rough division (7 f.) of recent scholarship into oralism, unitarianism and classical analysis as useful, and I roughly agree with her assignment of single scholars to one view or the other of the Homeric problem. But again, when I come to putting a label on my own opinion of the development of Greek archaic epic poetry, I think I am of course an oralist if I consider the original epic production before literacy, viz. before the 8th century BC. But if I consider the poems as we have them I can’t help being an analyst, so many are the inconsistencies that I see in the text, following the precious treasure of observations made by positivistic research in about two centuries (I call them ‘analytical scandals’). And finally I become a unitarian when I consider the two poems transformed into two books on whose rich and incoherent material some kind of approximate unity has been superimposed. In other words: each scholar should change label according to the different object of his investigation: early epic poetry, the poems at an intermediate stage, the poems in the bookish form that we have before us. Research done under these three labels has in fact been useful and successful throughout, so we cannot dispense with the results of any one of them. However, one thing has been generally ignored, at least in explicit formulations: that we have to distinguish among the different objects—as I said—viz. original epic poetry, which was of course oral, rich in themes, not meant to be unitary at all, in its own time actualized in additional or asyndetic narrative; then the intermediate stages, that are hard to determine; and finally the poems as we have them, viz. the product of one or better of more redactors who
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using literacy have tried and partly succeeded in creating some kind of unity which in itself is far from satisfactory if the basic conception of unity is our modern one. If the actual object of research is defined and declared, many of the misunderstandings that are usual in this field can be avoided. I have recently argued (Rossi forthcoming) for three different types of unity, taking our modern one as starting point: lack of unity in original epic poetry,3 gradual increase in unity when literacy became available (from the 8th or 7th century on), and finally an increasingly modern one from the time the book as an artifact became widespread (from the 5th or 4th century on), so that the book produced the literary liber poeticus, which became usual in Alexandrian and Roman literature. In this field, as in others, we have what Droysen called ‘modernity in the ancient world’, dealing with the period that we have since become accustomed to calling Hellenistic. I shall not single out the many suggestions that come from the lively discussion of many scholars on MSJ’s views of song division: I shall only append some reflections of my own, from which it will be clear what I personally consider as acceptable in statements and counter–statements. In her paper, MSJ offers a very useful and thorough analysis of beginnings and endings of songs: it is clear that they show an overall coherence. But let me say that I cannot understand what she means when she says that song division must be ‘original’ (11) and ‘genuine’ (14). What do these two terms mean? What I think they should mean is something one could better express in different terms. That song division came about not randomly but in a very intentional and pondered way, is obvious: only, when is such development meant to have come about? At a great distance—in my opinion—from original and genuine archaic epic practice. It must have happened when original, genuine epic practice was over: oral practice of epos, the only one that we can call original and genuine, had of course no more than a rough isolation of narrative units or episodes fit for single performances.4 In the long way between epic performances and the redaction of the poems as two books, there is a stage that has often been considered as original, viz. the practice of performance at festivals that consisted of successive singers who respected a continuous narration, what was called ἐξ ὑποδοχῆς: the first core of the poems as we have them or even the poems themselves as we have them. But that kind of structuring the performances was preceded by another way of staging the song, the way we see practised in the poems: not yet competition at
|| 3 Including of course Hesiod’s Works and Days as well: see Rossi 1997. 4 I find it is otiose and therefore useless to measure even approximately the length of performances (MSJ 25 f., 30 f., all.).
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festivals, but less ritual entertainment such as we see with Achilles in the Iliad and with Demodochus, Phemius and Odysseus in the Odyssey. Free narrative oral performances must have ruled out any kind of overall systematic regularity, and MSJ has apparently just that way in mind (ex. gr. 25, 27, 74 ff.). But her very useful pointing out the skilful devices of division (16 f.), such as morning, night, summary, etc., proves nothing else than the skill of the redactor or redactors. Moreover, I would point out here an apparent paradox: the more regular song divisions appear, as in fact they do appear, the less original and genuine these divisions must have been. Add what I think to be an important clue. If we scrutinize the very useful categories pointed out by MSJ, we see that the structuring into ‘morning’ at song beginning (3x Il., 9x Od.) and ‘sunset at song end (3x Il.,7x Od.), to which one has to add ‘somebody is awake’ at song beginning (3x Il., 2x Od.) and ‘going to bed’ at song end (4x Il., 7x Od.), is frequent enough to appear meant for a continuous narration, for the structuring of a great poem, and not so much for single performances. Even more as such I view the frequent occurrence of ‘summary’ both at song beginning (17x Il., 4 Od.) and at song end (11X Il., 11X Od.) and finally ‘rounding off’ at song end (14x Il., 21x Od.). Of course there are exceptions and inconsistencies: MSJ is fully aware of them and tries to justify them in one way or the other or simply accepts them as such: but, on the contrary, I think that one should go the other way round, justifying the nearly overall dominating regularity which is so contrary to an oral culture. The closer structure and unity are to our standards, the further away from epic fluidity they are. It is now clear, I hope, that I cannot help thinking of a long oral phase, which must remain the very core of every oral creed. He who believes that the song division may reflect anything ‘original’ is simply paying lip service to oralism. At this point I declare my sympathy for one of the sub–labels of Homeric scholarship, the so–called neoanalysis, especially as represented by a scholar such as Wolfgang Kullmann, who in his important book Die Quellen der Ilias (1960) recognised the antecedents of the great poems in the Epic Cycle. Of course not in the form in which we have the fragments of the Cycle itself,5 but as the former mass of songs orally composed and transmitted. I need to free myself from the opinion that the Iliad as it is was composed by a single poet, but this does not diminish the importance of what K. stresses, viz. that the Ilias had a || 5 Already Aristarchus held the view that the Cycle was later than the two poems. Wackernagel 1916, 181 ff. saw in the language clear signs of a later redaction.
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long prehistory: whether one is unitarian or analytical is not essential,6 provided one tries to gain an idea of the nature of what the redactor or the redactors did. Why on earth is a word such as ‘redactor’ (Wilamowitz’ Bearbeiter) so carefully avoided nowadays? When I hear the word ‘poet’ I feel rather uneasy, so heavy I feel in it the burden of romantic aesthetics. Do we need to think that the author of a patchwork (needless to say, of the highest quality) was working as a romantic poet did? Perhaps because many think that to define his work as patchwork is equal to disparaging it, whereas one should bear in mind that he (or better they) assembled not only linguistic blocks (formulas) but narrative (and cultural) blocks as well, what from Arend (1933) on we call ‘typical scenes’. Linguistic and cultural mixture (war, family, burial customs, etc.) pleads for juxtaposition of cultural strata in the same way as refinement in verse rhythm (Hermann’s bridge and avoidance of mid–verse caesura) pleads for a long development in time. He who put the whole thing together found much that was already there as composed poetry.
The transcription One view I can hardly accept is that one single scribe (or two or three) should have written down the poems—by dictation that could have been either external or internal—on the occasion of one or more definite performances at a festival. Historism has taught us to envisage graduality and I am sure that we have here a typical case. Between the rise of literacy (8th century) and its full exploitation (in the so–called lyric age, from the 7th century on) there was room enough for a period of gradual writing down that must exempt us from too tight precisions. And between the first (gradual) redactions and, for instance, the Pisistratean one in the 6th century7 we have room enough for different geographical sites, for more scribes and even poets, for gradual stages of a growing literary structure.8 I believe that recently I have been lucky enough to detect a different redactional stage in a parallel epic tradition, Hesiod’s Works and Days (Rossi 1997). I
|| 6 Kullmann himself (1960, 360 ff.) lists three unitarian and three analytical positions that can share and utilize his achievements. 7 Cassio (forthcoming) argues with solid linguistic evidence for a redaction in Pisistratus’ time. 8 The question of the 24 letters of the alphabet has been abundantly dealt with in the present debate with pros and contras as far as its antiquity is concerned. Anyway, let us not forget that Livius Andronicus in the second half of the 3rd century wrote his Odyssey without book division, which was introduced later by the grammarians.
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have identified some repetitions, recognizable through identity of themes and through traces of more than one incipit: viz. two winters (493—523, 524–563), two navigations (618—645, 646–694), besides other minor ones. I have called them ‘alternative sections’, in the sense that they must have been thematic variants intended for different performances, and certainly composed by Hesiod himself; the same applies to the two Prometheus sections in the Theogony and in the Works and Days. Whoever assembled and wrote down the materials that formed the Works and Days and the Theogony9 as we have them—Hesiod himself or somebody else—juxtaposed more than one version of the same subject (meant for different performances), so as to produce a patchwork, precious for us, which witnesses an intermediate stage in the long way from original epos to an approximately unitarian book. I have then compared Works and Days with the Iliad and the Odyssey. In the great Homeric poems we find no repetitions of narrative units, viz. no alternative sections, as clearly stated first by D.B. Monro (1901, 325), so that we usually speak of ‘Monro’s law’. I am fairly confident this means that in the two poems we have a redactional stage that is more developed than the one we have in Hesiod. This does not imply that Hesiod is older than Homer; on the contrary, it confirms his later chronology (7th century); the time that had elapsed between composition and redaction was much shorter, since literacy was there at hand; the Homeric poems, on the contrary, had a much longer time in between so that they could reach a more developed stage of redaction, a redaction without alternative sections. Literacy was introduced when epic oral practice was still in its heyday, in the 8th century, and the process of using it for Homeric poetry must have been slower, whereas Hesiod found literacy already available at the outset and so he offers us the welcome opportunity to compare two different epic redactions: his own, quicker and less accurate, and the Homeric one, which through comparison reveals a longer elaboration with more accurate results (Monro’s law).10 The succession of different phases of redaction was in fact the consequence of original epic practice and of its very nature. The Homeric redaction must have begun as a slow process out of the live epic practice of performance. The oral culture of archaic Greek epos has been recognised, described, accepted by practically all scholars in recent decades and it must be our starting point. Of course
|| 9 Of course the case of the Theogony is much more complicated: I hope to cope with it in the near future. 10 The idea of the ‘curative action’ of a tradition (more relevant if the tradition is long) first came to me from G.S. Kirk commenting on the Homeric Hymn to Apollo (v. 464): Rossi 1981, 221.
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it has always been mine as well: my Homeric creed I offered a long time ago.11 Later I have tried to summarise my view of the problem, suggesting three different kinds of challenge and maintaining that all three have been defeated (Rossi 1994): the challenge of authorship, lost because epic poetry is the product not of a single personality but of a whole culture, as Gianbattista Vico very clearly saw in the 18th century; the challenge of authenticity, lost because it is a consequence of the first one and because, even if we detect different chronological strata, we have to accept the final product as we would do with the water of a river next to its mouth and as it was accepted by all those who introduced their own new cultural and poetic materials respecting what was already there; and finally the challenge of unity in our sense, which I have already briefly dealt with above.
Some remarks on early epic practice Here I shall append a few new remarks of my own concerning the habit of focusing on the single episode, so that an overall coverage of the longer story (Iliad, Odyssey, entire cycles) was something that came only later, at the moment of successive redactions, when the creative stage was mainly behind. In my opinion, by far the most important word for Homeric poetics is at the very start of the Odyssey (Od. 1.10): τῶν ἀμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν (‘Muse, begin to tell us the tale from any point of the story’). The epic narration is precisely a ‘cycle’, with practically no beginning and no end: one has simply to establish from where to begin the performance. When Odysseus invites Demodochus to sing of the Trojan horse, he begins the narration (Od. 8.500) ἔνθεν ἑλών ὡς οἱ μέν ἑυσσέλμων ἐπὶ νηῶν βάντες ἀπέπλειον..., viz. ‘beginning from the point when on the ships they sailed away’. The main thing is to establish where from one starts, since one can start from anywhere, the whole being a cycle, the Epic Cycle. And further; how does Odysseus introduce his apologoi? In Od. 9.14 he says τί πρῶτóν τοι ἔπειτα, τί δ’ ὑστάτιον καταλέξω; It must have been a usual introductory formula.12 Traditional epos lives through performance, which is every time bound to a specific occasion, viz. the performance itself of that day. Nothing is more alien to epos than the fixity of an unchangeable text. I have often wondered what καὶ
|| 11 Rossi 1978; see also Rossi 1995, 23–67. 12 Cf. Il. 5.703, 11.299, 16.692 for the topical list of the killed warriors: ἔνθα τίνα πρῶτον, τίνα δ’ὕστατον ἐξενάριξαν (–ξεν, –ξας).
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ἡμῖν (‘to us as well’) might mean in Od. 1.10. I do not see any sense in ‘us’ meaning ‘mankind’ as a polar opposite of gods; the Muse sings to men. In my opinion it means ‘tell the tale to us as well, here and tonight, as you have told it to many others and elsewhere in the past’: the single performance is bound to the hic et nunc. And so is the theme of song, since it can be a quite new one, that is even more appreciated by the listeners: Od. 1.351 f. τὴν γάρ ἀοιδὴν μᾶλλον ἐπικλείουσ’ ἄνθρωποι ἤ τις ἀκουόντεσσι νεωτάτη ἀμφιπέληται, so that the narrative can be steadily added to through ‘news from the world’. Epic poetry in its original phase is an ‘open book’. Moreover, I should say that even the proems of both poems are not the proem of each poem, but an occasional one, aimed at a single performance but then chosen as the proem of the poem. Otherwise the proem of the Iliad would be clearer and more informative on the subject of the poem as it is:13 if we had only those few verses we would think that a Greek warrior named Achilles went mad, armed his troops and went fighting against the Greeks, something similar to the individual deed of Ajax. The same applies to the proem of the Odyssey that in announcing Odysseus’s nostos singles out one episode only, the killing of the Sun’s cattle. How very different the proems of the Argonautica and of the Aeneid: they were meant to introduce that poem, which unlike archaic epos was thought of and built as a unitary book. They served their aim in a very thorough, simple and clear way. Proems were originally the alternative section par excellence, which is clear through the alternative proems that are attested for the Iliad14 and after all the Homeric Hymns are simply a collection of proems ready for use in single performances. All in all: the overall narration made out of the many episodes, the poems as two books, cannot have been actualized all of a sudden in the still creative epoch and occasioned by an actual performance at a festival or by the commission of a tyrant. It must have been a gradual process and the division in songs came about when this process was at its end, when literacy and later the book as an artifact won the long war against true epic oral practice. That’s why I find it difficult to think of one or two or so and so many redactors or poets (MSJ 22, 33 ff.): I think that the one responsible for the actual version of the poems was the last redactor, who and whose milieu were influential enough to impose that
|| 13 I owe this observation to Renehan 1987, 115: he is very witty indeed when he suggests what the proem could mean to somebody who would read only those few verses. The same for the proem of the Odyssey (Rossi 1997, 17—19). 14 Rossi 1997, 16 ff. (see Montanari 1979, 43—56). Even the proem of the Works and Days is a proem.
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text as the text of the poems. Those who still stick to the idea of a strong poetic personality will have to discard much of the evidence we have for more than one redactor coping with great blocks of material which they might have added to later with the help of literacy. Of course adaptation to literacy leads to the belief that there must have been written additions, which is what MSJ herself (24, 27) believes: she speaks of “oral or written or something in between” and of “gradual ‘textualization’ over the centuries” up to Hellenistic times. I believe this to be an interesting starting point for new investigations.15 If after this we try, as we have to, to determine when this last redaction, structured into single songs, was actualized, we might wonder whether it was before Pisistratus, or through his commission, or after him, and we might choose one hypothesis or another. What I think we cannot do is to ignore that the Iliad and the Odyssey are quite a long way from original archaic epos and that much of the genuine nature of their origin is not mirrored in their written redaction: that’s why I suggest calling them simply a witness of oral poetry, not a document (Rossi 1978). From a broader literary–historical point of view I should say that the two great poems as we have them, viz. as two books, are the greater betrayal of a literary genre, viz. of original archaic epic poetry. The formalists used to call this ‘metamorphosis of the forms and of the functions’: new structuring versus archaic free narrative flow, new hypotaxis versus archaic parataxis. To summarize through another paradox, the two poems were viewed in good faith as two unitarian books by a great literary critic as late as Aristotle and were revered as a literary model, again in good faith, by late and fatally unepic poets such as Apollonius and Virgil.
Additional references16 Cassio, A.C. forthcoming: Archaioi Homerikoi: le più antiche edizioni dell’epica e la filologia dei rapsodi. Dihle, A. 1970: Homerprobleme, Opladen. Kullmann, W. 1960: Die Quellen der Ilias (Troischer Sagenkreis) (Hermes Einzelschriften, 14), Wiesbaden.
|| 15 MSJ quotes as adherents to this view, apart from G. Murray, also Nagy 1996a, 1996b, de Vet 1996 and myself: I had first suggested it in 1971, but I did not know that while I was writing, Dihle 1970 had just appeared: a valuable and welcome analysis advocating the mixture of oral and written layers. 16 For the main Bibliography, see SO 74, 1999, 84–91.
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Monro, D.B. (ed.) 1901: Homer, Odyssey. Books XIII–XXIV, London. Montanari, F. 1979: Studi di filologia omerica, Pisa. Renehan, R. 1987: “The Heldentod in Homer: One Heroic Ideal”, Classical Philology 82, 99–116. Rossi, Luigi Enrico 1968: “La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio”, Rivista di filologia 96, 151–163. — 1971: “Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik”, Göttingische Gelehrte Anzeigen 223, 161–174. — 1981: “Gli oracoli come documento di improvvisazione”, in: I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale. Atti del Convegno di Venezia, 28–30 sett. 1977, Padova, 203–230. — 1994: “L’epica greca fra oralità e scrittura”, in: Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica, Como, 29–43. — 1995: Letteratura greca, Firenze. — 1997: “Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi”, in: Posthomerica I: Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, ed. F. Montanari & S. Pittaluga, Genova (Facoltà di Lettere), 7–22. — forthcoming: “L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi”, forthcoming from a meeting in Pisa (7.6.1999). Wackernagel, J. 1916: Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Göttingen.
L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita 1. Premessa Riproporre l’epica greca e latina in una serie di traduzioni italiane implica uno sforzo di sintesi culturale che è bene far partire, sia pure in estrema sintesi, fin dalle origini dell’epica europea, che è greca e che, nella sua forma originaria, era integralmente orale. Ovviamente, in quella forma, non ci è conservata. Non dobbiamo perdere di vista questo dato di fatto, che è di fondamentale importanza perché la fase orale dev’essere stata molto lunga e ha lasciato tracce inconfondibili. La più efficace conferma della natura orale originaria dell’epica greca ci è venuta da una vicenda storica, la ormai da tutti accettata assenza di scrittura in Grecia dal tempo del sillabario miceneo (XV–XII sec. a.C.) fino all’VIII sec. a.C., quando compaiono i primi documenti di scrittura alfabetica; ed è questo l’intervallo di tempo in cui sembra essersi formato l’epos greco, senza che se ne possa precisare il confine superiore. La presenza di una vasta rete di formule fisse, messa in luce da Milman Parry nel 1928 (e le “scene tipiche” inizialmente enucleate da Arend pochi anni dopo), nonché la particolare elaborazione ritmica dell’esametro, che obbedisce a regole precise e determina così un preciso orizzonte d’attesa ritmico da parte del pubblico, fanno pensare a un periodo non breve di composizione e di pubblicazione integralmente orali. La cultura greca ci offre il più vasto campionario di modi della comunicazione letteraria: oralità integrale (fino all’VIII sec. a.C.), convivenza di oralità e scrittura (VIII–IV sec. a.C., l’epoca che è stata chiamata “aurale”), cultura del libro (dall’Ellenismo al mondo greco–romano, fino ad oggi). L’epica greca nasce integralmente orale per poi trasferirsi nella stesura scritta, conservando una difficilmente valutabile ulteriore vitalità creativa, che porta ad aggiustamenti, aggiunte e a
|| [Redazione ampliata della conferenza (S 29.5.1999) tenuta al Convegno Internazionale sulla letteratura epica “Le vie del cavaliere”, promosso dall’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, Palermo, 29–30 maggio 1999 (conferenza poi replicata all’Università di Siena Mt 14.3.2000); pubblicata come introduzione ne L’epica classica nelle traduzioni di Caro, Dolce, Pindemonte, Monti, Foscolo, Leopardi, Pascoli e altri, Scelta e introduzione di Luigi Enrico Rossi, Apparati di Sebastiano Triulzi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003, pp. III–XIII]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-012
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una o più redazioni finali. Queste ultime, che rispecchiano più o meno fedelmente quella che abbiamo di fronte noi, non sono databili con sicurezza: ma forti indizi ci portano ad ipotizzarla fra il VII e dopo la metà del VI sec. a.C.: a quest’ultimo termine cronologico risale la cosiddetta redazione pisistratea, promossa da Pisistrato, tiranno di Atene (§§ 4, 5).
2. La questione omerica La cosiddetta questione omerica ha nel mondo moderno una storia di almeno duecentocinquant’anni: da qualche decennio anche la filologia europea si è accorta dell’importanza di Vico (l’ultima edizione della Scienza nuova è del 1744); la prima edizione degli scoli omerici del Veneto Marciano A è di Villoison (1788), sulla cui base si fondò Friedrich August Wolf nei suoi Prolegomena ad Homerum (1795) e da lui si fa cominciare la storia propriamente filologica della questione omerica. Pensare ai poemi come creazione originaria di un singolo autore, Omero, è un esercizio critico condannato all’insuccesso: troppe sono le incongruenze narrative messe in luce dalla critica a n a l i t i c a , a cui si contrappone quella u n i t a r i a , che cercava (e cerca) con scarso successo di giustificare le aporie. Già il nostro grande Vico si era reso conto che Omero era solo l’ipostasi della voce collettiva di un popolo. In realtà, da quando si è aggiunta quella che, da Parry in poi (1928), viene chiamata la teoria o r a l i s t i c a , trovo difficile applicare a studiosi contemporanei, e a me stesso, un’etichetta che sia fedele al “credo” professato. Generalmente si omette di precisare quale è la fase epica che si prende in considerazione, visto che normalmente si dà per scontato che si parli della redazione che abbiamo, anche se affiora in molti la percezione delle fasi anteriori. È bene quindi specificarle con precisione e confessare come si articola il mio “credo”. Quando penso alla prassi epica prima dell’introduzione della scrittura alfabetica, mi sento oralista; quando penso alla lunga storia delle redazioni finali, non posso fare a meno di sentirmi analitico, per le troppe aporie; ma nello stesso tempo, quando considero la redazione che ho di fronte, rispetto la visione unitaria perché è innegabile che vi siano stati uno o verosimilmente più interventi che hanno risposto a un’esigenza di unità, perseguita con parziale ma non totale successo. Del resto i greci all’unità dell’opera letteraria nel nostro senso moderno erano poco sensibili: basti pensare, ancora nel V sec. a.C., alla impassibile accettazione da parte del pubblico del dramma attico di una quantità di aporie drammaturgiche, sulle quali sarebbe interessante soffermarsi. L’epos omerico ha vissuto per primo una per così dire prematura riduzione a liber, essendo per natura alieno da ogni prigione libresca. Un
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altro corpus epico ha avuto la stessa sorte, quello esiodeo: poco tempo fa1 ho creduto di identificare segni di redazione nelle Opere e i giorni di Esiodo: fra altre meno rilevanti, le sezioni riguardanti l’inverno (493–524 + 524–563) e la navigazione (618–645 + 646–694), ambedue con incipit rivelatori e con contenuti fedelmente ripetuti, sembrano la giustapposizione di quelle che si possono considerare “sezioni alternative”, destinate ad essere fungibili e non giustapponibili, e cioè destinate a diverse occasioni di recitazione, e quindi palese opera di uno o più redattori. I poemi omerici non hanno nulla di simile (mancano ripetizioni di episodi, secondo quella che viene chiamata “legge di Monro”), segno che la redazione è stata frutto di lavoro più lungo e accurato. Esiodo, figlio di ambiente più remoto, la Beozia, e nato in piena epoca scrittoria (VII sec. a.C.), ha avuto tempi più brevi di esecuzione, redazione e fissazione. È interessante notare questa differenza fra due tradizioni epiche, l’una più lenta e quindi più selettiva come quella omerica e l’altra più breve e quindi meno accurata come quella esiodea. Del resto la fungibilità, ovvero la sostituibilità, di sezioni dell’epos è evidente anche nel caso dei proemi. Non solo sono attestati altri due proemi dell’Iliade, oltre a quello che ha trovato posto nella vulgata, ma l’Odissea ha un proemio che, così com’è tramandato, sembra poco adatto ad annunciare tutto il poema, visto che menziona una sola delle avventure del protagonista, quella dei buoi del Sole. Insomma: abbiamo nella vulgata, secondo me, non i due proemi, ma semplicemente due dei proemi che venivano fatti precedere a una recitazione dell’epos. I proemi sono la sezione alternativa per eccellenza. Nell’antichità esisteva un testo delle Opere che mancava di proemio: segno che un testo epico veniva considerato integro anche senza proemio. Del resto che cosa è la raccolta dei cosiddetti Inni omerici se non un prontuario di proemi (come già li chiamava Tucidide) adatti ad essere premessi a una recitazione epica determinata? Parlare di poesia epica costringe quindi a prendere le mosse da lontano, da un tempo che è anteriore ai due grandi poemi omerici. In mancanza di dati certi, si è costretti a ricostruire la preistoria, che è orale, della redazione scritta che possediamo: di qui le divergenze fra i vari studiosi, del passato e del presente, nel tentativo di creare un verosimile scenario per tale preistoria. Se ne presenta
|| 1 Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in Posthomerica I: Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento. A cura di F. Montanari e S. Pittaluga, Genova (Facoltà di Lettere) 1997, pp. 7–22.
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qui uno personale, ovviamente debitore della ricca ricerca anteriore, per il quale chi scrive si dichiara pienamente responsabile2. Quello che vorrei proporre all’attenzione è il fatto che l’epica greca arcaica — in altre parole l’Iliade e l’Odissea insieme con i resti del Ciclo epico — è un’esperienza unica nell’ambito dell’epica europea. Non si tratta solo della prima esperienza epica del nostro mondo, ma anche di un’esperienza che è restata, fin dalle sue origini, un unicum. E questo per due ragioni, strettamente legate fra loro: perché affonda le sue radici in oralità integrale e perché, di conseguenza, è un’epica che non convive con la storia. Chiarirò fra poco questa mia formulazione (§ 6). Non posso tacere il disagio di un classicista costretto a “giocare fuori casa” in un mondo culturale quale è il nostro in cui operano etnologi, antropologi (per le opportunità offerte alla comparazione culturale), studiosi delle letterature moderne e contemporanee (per la metamorfosi delle forme e delle funzioni), e invoco quindi clemenza con una captatio benevolentiae. Ma questo disagio lo affronto volentieri perché lo considero il prezzo, tutto sommato modesto, per poter rappresentare anche a me stesso l’epos greco arcaico in una luce diversa da quella consueta anche a noi filologi e storici della letteratura greca, e cioè alle sue origini non come il testo letterario più venerabile di tutta la nostra letteratura occidentale, ma come una manifestazione di letteratura a suo modo popolare sia alle origini sia in tutta la sua vita ulteriore nel mondo greco. In fondo, tutta la letteratura greca arcaica e classica è da considerarsi popolare, nel senso che si rivolge a un pubblico di volta in volta “ecumenico” e presente (si pensi anche al dramma attico, destinato alla polis di Atene), tipico di una face–to–face society, e non è il caso qui di fare ora precisazioni sul concetto di “popolare”, che sarebbero in sé opportune ma che ci impegnerebbero troppo a fondo. Rinunciamoci, contentandoci di segnalare con forza la grande differenza che intercorre fra i poemi omerici e quello che noi oggi intendiamo come opera letteraria: il far scendere l’epos arcaico dal piedistallo della letteratura, concetto per noi legato ad accurata fissazione scrittoria, è per noi un passaggio obbligato per capirne la genesi e la funzione. L’epos era destinato, come ogni prodotto letterario della Grecia arcaica e classica, a una precisa occasione comunitaria che costituiva il momento della sua pubblicazione. Lo scenario che possiamo, e dobbiamo, ricostruire è un
|| 2 Per brevità mi riferisco qui alla mia più estesa formulazione del mio “credo omerico” e alla più recente: I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in: Storia e civiltà dei Greci, I. 1, Milano 1978, 73–147; On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry, “Symbolae Osloenses” 76, 2001, 103–112.
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gruppo di ascoltatori, piccolo nelle corti e poi ampio e variato nelle grandi festività, che ascolta le vicende degli eroi narrate in una lingua composita, addirittura artificiale, alla quale però il pubblico si è mano a mano assuefatto, anche perché le vicende erano note attraverso chissà quante mediazioni: i racconti intorno al fuoco, ai quali raramente pensiamo, saranno stati versioni in lingua addirittura colloquiale che avranno contribuito alla diffusione del materiale mitico dell’epos, per cui, a ogni esecuzione solenne e formale, tutti o almeno i più non avevano difficoltà a capire e ad orientarsi. L’accentuata artificialità della lingua poetica, disciplinata per di più dall’esametro dattilico, avrà potenziato l’effetto di straniamento, del resto comune, in diversa misura, a ogni esperienza poetica.
3. La documentazione: i due poemi maggiori e i cicli Per noi l’epica greca è la coppia di Iliade e Odissea, ma questi sono solo due poemi fra i tanti che circolavano sotto il nome di “Ciclo”. In realtà i cicli di racconti epici erano più d’uno ed è un gran peccato che ce ne rimangano solo miseri frammenti. È utile darne una breve visione d’insieme. C’era il Ciclo troiano, alla cui tematica appartengono i due poemi omerici, costituito da vari poemi: i Canti Ciprii con i dieci anni della guerra di Troia, che erano l’antefatto dell’Iliade (nella quale si raccontano solo alcune decine di giorni dell’ultimo anno della guerra stessa); l’Etiopide, che faceva da seguito ai fatti dell’Iliade e che raccontava di Achille come antagonista dell’amazzone Pentesilea, come uccisore di Memnone re degli Etiopi e come illustre vittima e che si concludeva con la contesa per le armi di lui fra Odisseo e Aiace; la Piccola Iliade, in cui si raccontava la follia di Aiace per esser stato privato da Odisseo delle armi di Achille, e la Distruzione d’Ilio; seguivano, tematicamente, i Nostoi ovvero i Ritorni degli eroi da Troia (Diomede, Nestore, Neottolemo, Menelao, Agamennone; la stessa Odissea è uno dei Nostoi); ultimo del ciclo troiano era la Telegonia, in cui si narravano le vicende di Telegono, figlio di Odisseo e della maga Circe, fino all’uccisione del padre da parte del figlio. Di grande importanza per i greci, era il Ciclo tebano, che raccontava la storia mitica della città di Tebe con le vicende di quella famiglia reale: Laio, il figlio Edipo e i loro discendenti: i poemi erano l’Edipodia, la Tebaide, gli Epigoni e l’Alcmeonide. C’era anche il Ciclo delle imprese di Eracle, di cui sono testimoniati La presa di Ecalia e l’Erakleia. Altri cicli rispecchiavano interessi locali, come per esempio il Ciclo argivo e i Canti di Naupatto; la Teseide, con le imprese del mitico re di Atene, era importante per l’Attica.
Per precisare il valore, reciprocamente diverso, dei due poemi e dei cicli, vediamo chiaramente che i nostri frammenti di questi ultimi derivano da rielaborazioni tarde, le quali, pur nate dai cantari originari, sono, per chiari indizi
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linguistici, posteriori all’Iliade e all’Odissea. Per quanto riguarda la tematica, pensiamoli però sullo stesso piano, e cioè gli uni e gli altri proiettati sullo stesso livello cronologico pre–arcaico e cioè mitico, che era integralmente orale e anteriore a tutto quello che abbiamo e quindi anche anteriore alla divisione in poemi e in cicli. È per questo che a suo tempo definii tutto quello che a noi resta, di necessità tramandato attraverso la scrittura, come t e s t i m o n i a n z a (e quindi n o n d o c u m e n t o ) di una poesia orale e mantengo la mia immagine di a r c i p e l a g o e p i c o per tutto il materiale narrativo in versi che in epoca pre–arcaica circolava. Per il distacco e l’organizzazione dei singoli cicli e dei singoli poemi dal grande magma mi sembra utile l’immagine della p a r t e n o genesi. La designazione “ciclico” per l’epos non omerico è attestata nel famoso epigramma (28. 1 Pf.) nel quale Callimaco disprezza l’epos di grandi dimensioni a favore di composizioni più agili; ritorna poi negli scoli omerici. Ma la distinzione fra i due poemi omerici e il resto del ciclo è netta nella Poetica di Aristotele (capp. 8 e 23), dove chiama quei poeti semplicemente «gli altri» (59 a 31, 37). È interessante quello che Aristotele dice: che l’Iliade e l’Odissea hanno una vera unità d’azione, mentre i poeti del ciclo mettono insieme materiale vario senza unità, e che da ciascuno dei due poemi i tragediografi possono ricavare una sola tragedia o anche due, mentre dai poemi del ciclo ne possono ricavare molte, il che viene visto da lui come un difetto del ciclo. Aristotele era ovviamente un unitario.
4. Natura orale dell’epos originario La natura originariamente orale dell’epos arcaico, ricavata dagli indizi menzionati in precedenza, ci viene confermata da quanto leggiamo nei poemi stessi, da quello che è d’uso chiamare “evidenza interna”. I poemi non solo ci presentano una cultura priva di scrittura (malgrado timidi tentativi di alcuni moderni per il contrario), ma ci offrono anche figure in carne e ossa di cantori ovvero aedi all’opera, che prendono lo strumento a corda e cantano senza alcun aiuto di testo scritto: Femio alla corte di Odisseo a Itaca e Demodoco alla corte dei Feaci. Si tratta di corti regali, ma il canto delle imprese degli eroi era presente anche negli accampamenti militari (Achille nel IX canto dell’Iliade). L’estensione a un pubblico più vasto è avvenuta gradualmente, come vediamo nell’VIII canto dell’Odissea, dove alcune esecuzioni avevano luogo nel relativamente ristretto mégaron del palazzo e altre invece davanti ad ascoltatori più numerosi al di fuori di quello spazio: indicazioni sociologiche più precise ci sono vietate dalla mancanza di documentazione, ma è chiaro che questa è la fase intermedia che portò poi alla estensione massima, raggiunta dalle folle delle feste, le quali, oltre che agli agoni ginnici, partecipavano anche alle gare rapsodiche di reci-
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tazione dell’epos (ricordiamo che le feste di Olimpia vengono datate tradizionalmente al 776 a.C.). La natura orale della pubblicazione portava con sé, come requisito naturale, che il racconto fosse strutturato per episodi. Alcuni studiosi moderni si sono cimentati con un problema vero, ma per noi senza soluzione e dopo tutto senza importanza: la durata di una esecuzione rapsodica. Senza soluzione semplicemente perché dovremmo essere informati dei vari ambienti in cui l’epos si raccontava: e, siccome lo si raccontava in giro per la Grecia, le consuetudini potevano variare da luogo a luogo. La redazione pisistratea del VI sec. aveva come scopo di permettere di cantare l’epos «in successione» (ἐϰ διαδoχῆς), il che significa che la strutturazione a poema continuato non era originaria, bensì frutto di una redazione ordinata per successione di eventi e certo non destinata a una esecuzione integrale. È per questo che il problema è in sé anche senza importanza.
5. La spirale infinita La definizione di s p i r a l e i n f i n i t a per l’epos arcaico mi sembra la più adatta a dar conto dei contenuti dell’arcipelago epico di cui si parlava prima: correggerei così la definizione e l’immagine di “ciclo”, dal momento che il circolo fa pensare a qualcosa di chiuso e compiuto, mentre l’epos ha avuto una sua fluidità nell’epoca creativa orale, che era sempre disponibile a nuove aggiunte, per cui la definizione di c i c l o a p e r t o sarebbe già migliore, se suggerisse, come quella che propongo, un’apertura cronologica di sviluppo. I due poemi omerici sono stati definiti “libri di cultura”, nel senso che vi sono depositati i principali elementi di una cultura, come nella Bibbia: ma nel caso dei due poemi sarebbe più giusto definirli “spezzoni” di un grande libro o meglio contesto di cultura, del quale il più è andato perduto. Come nelle visioni d’insieme delle epiche del Vicino e Medio Oriente (Mesopotamia, mondo ittita, mondo ebraico, Persia), anche nel mondo greco i primordi della narrazione epica vanno visti nella volontà di rappresentare la storia del mondo, a cominciare dalla cosmogonia e dalla teogonia: la Teogonia di Esiodo (VII sec. a.C.) è posteriore alla formazione dei poemi omerici, ma è significativo che opere simili venissero attribuite dalla tradizione a lontane figure mitiche, e quindi per gli antichi anteriori anche ad Omero, come Orfeo e Museo, per sottolineare che le imprese degli eroi erano precedute dalla creazione del mondo e dall’organizzazione del sistema degli dèi. È qui che ha inizio tematicamente la spirale epica, che, da quel punto, si snoda in narrazioni che in sé possono non aver fine, se non con la chiusura dell’epoca creativa del mito eroico, come vedremo in seguito (§ 6). Se
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nei poemi un episodio segue all’altro, anche i poemi stessi si legano l’uno all’altro: gli ultimi versi della Teogonia esiodea annunciano quella che ne sarebbe la continuazione, e cioè il Catalogo delle donne, sempre esiodeo, nel quale si narravano le congiunzioni di dèi con donne mortali, e quindi una a n t r o p o g o n i a e r o i c a , perché da quelle congiunzioni nascevano gli eroi, considerati come semidèi e vantati come antenati delle famiglie nobili. Del resto anche l’Iliade ha una variante, nel suo ultimo verso, che la attacca al poema ciclico che seguiva, l’Etiopide. Sono tutte tracce della solidarietà narrativa di una materia molto ampia, che da una parte travalica i confini di quelli che erano poi diventati poemi indipendenti, ma dall’altra ci dà anche testimonianza della attitudine di questo enorme materiale a configurarsi in unità discrete, dove la continuità era riposta nella memoria degli ascoltatori, che dalle molte esecuzioni rapsodiche ascoltate in altre occasioni ricordavano episodi antecedenti e successivi: una frammentarietà, quindi, solo momentanea e virtuale, che si iscriveva in un tutto che era niente di più e niente di meno che la poesia epica in toto, la grande spirale. Della frammentazione in episodi abbiamo vari titoli parziali (in Erodoto, in Tucidide, in Platone etc.), ma abbiamo anche preziose testimonianze interne ai poemi stessi. A mio parere il verso metaletterario più importante dell’epica greca è il decimo verso dell’Odissea, quello che chiude il proemio: 1.10 τῶν ἁμόϑεν γε, ϑεά, ϑύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν, «di queste vicende, o dea figlia di Zeus [la Musa], comincia da un punto qualunque a raccontare anche a noi». È strano che la parola–chiave ἁμόϑεν sia stata così frequentemente fraintesa dai traduttori, mentre significa precisamente quello che ho reso nella traduzione. La spirale epica ha una sua consistenza che è però fluida, può cominciare ad essere narrata da un punto qualunque. Per di più anche a noi significa che l’aedo canta a più d’un pubblico, e qui viene pregato, attraverso l’invocazione alla Musa, di narrare qui e ora in questa precisa occasione. Segnalo casi analoghi come Il. 1.6 (nel proemio: l’aedo comincia dal momento della lite fra Achille e Agamennone) e Od. 8.500 (Demodoco comincia a cantare dal momento in cui i Greci abbandonarono Troia, lasciando in città il cavallo del famoso inganno). L’importante è chiarire da dove si comincia, visto che si può cominciare da dovunque. Quando Odisseo, da vero bardo epico, comincia a raccontare le sue avventure ad Alcinoo e alla corte dei Feaci, comincia con quella che dev’essere stata una formula introduttiva frequente (Od. 9.14): «Qual cosa racconterò per prima, quale per ultima?».
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Proprio parlando dell’epica greca, Borges ci offre una delle sue formulazioni fulminanti3: «Il concetto di testo definitivo non ha a che fare se non con la religione o con la stanchezza». È in fondo il concetto di “opera aperta”, ma è più efficace rappresentarcela come una “non opera”, per cui rimando alla definizione, ricordata sopra, di “arcipelago”, che è la negazione più totale dell’unità tipografico–libresca come la concepiamo noi moderni. Fino a oggi, almeno: la rivoluzione informatica ha volatilizzato anche la scrittura e il segno pittorico e ci confronta ogni giorno di più con la produzione di opere sempre più fluide e sottoposte a quella che viene chiamata “interattività”.
6. Le favole antiche Nel titolo di queste mie pagine avevo promesso un’epica come spirale infinita e spero di aver mantenuto la promessa. Ma l’epica greca è una spirale infinita solo in potenza, da un certo punto in poi, però, non più in atto. A un certo punto muore come tale perché interviene la storia e allora quella spirale, con la sua avvincente sinuosità, diventa piano piano una linea retta, la linea retta della storia con il suo puntiglio dell’accertamento delle testimonianze e con la sua conseguente successione cronologica. In Erodoto (un epico in prosa, se ci si consente il paradosso) la linea qualche sinuosità ce l’ha ancora, ma con Tucidide diventa davvero una linea retta: Tucidide (1.10.5, 11.1) ingloba la guerra di Troia nella storia, e allora deve dire (con quel puntiglio di cui parlavo prima) che non è stata così grandiosa come Omero diceva perché i greci di quel tempo erano pochi e poveri. Dalla spirale narrativa epica, con le sue diramazioni fluide, si passa così alla linearità dell’esposizione storica. È un luogo comune, ma è uno di quelli veritieri, che nella nostra cultura occidentale la storia nasce nel V sec. a.C. ad Atene e interrompe quindi, secondo la mia immagine geometrica, la spirale dell’epica. È il momento di affermare con tutto il possibile rilievo quello che annunciavo in principio: che, cioè, l’epica greca all’origine non convive con la storia. Gli aedi qualche volta, all’interno del ciclo troiano, raccontano di eventi recenti o contemporanei: nell’Odissea questo avviene con Femio a Itaca nel I canto, con Demodoco tra i Feaci nell’VIII e con Odisseo nei canti IX–XII (il racconto delle sue imprese): ma più che di storia si tratta qui di eventi, di cronaca, e questa osmosi fra canto ed evento è già inglobata nel mito epico stesso e nella sua narrazione: è, per così
|| 3 J.L. Borges, Discusión, Madrid 1976, p. 90: «El concepto de texto definitivo no corresponde sino a la religión o al cansancio».
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dire, una mimesi della storia ante litteram, perché la storia stessa è mito. La riduzione a libro del fluido canto epico sarebbe avvenuta al più tardi, come si è detto, con Pisistrato nel VI sec., ma già nell’VIII o nel VII l’epos sarà stato fissato per iscritto in varie redazioni sparse e diverse, a cui quella pisistratea avrà attinto per la sua selezione e il suo ordinamento. E fra VI e V sec. ad assumere la tematica dell’epos è la tragedia attica, che però ne travisa forme e contenuti per adattarli a una funzione nuova, che è storica e quindi politica: gli eroi (quei «babbei sublimi», come li ha definiti Cioran) scendono dal loro piedistallo epico, si umanizzano e si mescolano, con accorti anacronismi per conservare la loro paradigmaticità, alle vicende politiche della città (responsabilità etica, pace/guerra etc.). La tragedia è la presa d’atto della metamorfosi della forma e della funzione dell’epos, che, fissato nei due grandi poemi isolati dal resto, da spezzone diventa libro di cultura come punto di riferimento dell’identità comune e, soprattutto, della tradizione letteraria, che lo tiene costantemente presente. Ma la spirale potenzialmente infinita dell’epica si è per sempre interrotta: tutto quello che seguì fu radicalmente diverso, pur continuando a chiamarsi poesia epica (§ 8).
7. Epicedio sull’epos originario Se avrò intuito giusto, nessuno potrà impedirmi di rimpiangere questo unicum della nostra cultura, e quindi di piangere con Leopardi intonando anch’io un mio privato epicedio per le favole antiche così come venivano raccontate all’origine. Oppure potrei comandare con Nietzsche e con la sua rabbia il fuoco del plotone d’esecuzione che nel 1871 tuonò in Europa con La nascita della tragedia. La mia sarebbe un po’ come l’alternativa di Don Chisciotte, che nella Sierra Morena4 si chiedeva se dovesse, per la sua amata Dulcinea, sospirare e piangere come fece Amadigi per la Signora Oriana oppure sradicare alberi, turbare le acque delle chiare fonti e distruggere tutto e tutti come fece Orlando quando impazzì per Angelica la Bella. Finì prudentemente per scegliere le lacrime di Amadigi e forse anche a noi, in tempi di diffusa violenza, conviene piangere la fine della spirale dell’epica con la malinconia, così urbana e così comitale, di Giacomo Leopardi. Non che ai greci stessi mancasse una certa n o s t a l g i a d e l l ’ o r a l i t à , che li portò spesso a operarne una sorta di mimesi. Per la prima basterebbe il Fedro di Platone con la sua condanna della scrittura proprio verso la fine dell’e-
|| 4 Cervantes, Don Quijote, parte I, cap. 25.
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poca “aurale” (IV sec. a.C., § 1), durante tutta la quale la letteratura, compreso il rapsodo che cantava l’epos, si configurava come spettacolo (per cui sarebbe giusto parlare di epoca “aurale/visiva”)5. Per la mimesi mi limiterò a ricordare Platone stesso nei suoi dialoghi e gli oratori attici, che nelle redazioni scritte delle loro orazioni offrono squarci di imitazione dell’immediatezza e dell’improvvisazione proprie della comunicazione orale. Perfino la letteratura dell’epoca ellenistica pratica spesso questa forma di mimesi.
8. La fortuna dell’epos dal mondo antico al moderno L’epica greca arcaica è certamente il genere che, nella sua lunga fortuna che arriva fino ai nostri giorni, è stato più bruciantemente tradito. La stessa tragedia, che condivide con l’epos i fasti di una fortuna duratura, si è trasformata nel dramma moderno illuminato dalla speranza (penso a George Steiner, La morte della tragedia), ma le sue trasformazioni sono meno appariscenti. Nulla era più alieno all’epos originario che il presentarsi come opera conchiusa. Eppure non solo i poemi omerici sono stati considerati già nell’antichità come opere unitarie, ma hanno anche dato origine a successivi prodotti epici in quella forma. Per non parlare di alcuni precedenti, basterà qui menzionare le Argonautiche di Apollonio Rodio (III sec. a.C.) e l’Eneide di Virgilio. Le condizioni della comunicazione erano radicalmente cambiate con l’avvento del libro e quindi del liber, e questi poemi non hanno nulla dell’andamento circolare o spiraliforme dell’epos originario, che siamo stati in grado di intravvedere dalla redazione scritta dei due grandi poemi omerici: hanno un andamento lineare, e cioè un inizio, un centro e una fine, e soprattutto un fine al quale tendono in linea retta. Basterebbe confrontare i proemi di questi due poemi con quelli dei due poemi omerici: sono veramente tutti e due il proemio di un liber, con l’annuncio preciso di quanto verrà effettivamente narrato. La funzione che rimane immutata nella produzione epica successiva, anche se sono cambiate le forme, è quella che si può chiamare una costante antropologica: il piacere del narrare e soprattutto il piacere di ascoltare la narrazione. È la Lust zu fabulieren di Goethe, che nel nostro mondo si realizza con il romanzo e con il cinema. La fortuna del racconto epico resiste nel medioevo, bizantino e latino, continuando nel mondo moderno: ma il discorso si farebbe qui troppo lungo e sarebbe fuori luogo. A suo luogo invece è il rilievo che l’impresa edito-
|| 5 Mi permetto di rimandare al mio Lo spettacolo, in I Greci. A cura di S. Settis, 2. II, Torino 1997, 751–793.
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riale qui presentata, per la quale ogni parola di elogio sarebbe insufficiente, dà al perdurante protagonismo dell’epos antico, greco e romano, come modello, come punto di riferimento, come palestra per esercitare l’identità linguistica e politica della cultura italiana, oltre che europea. Le belle pagine introduttive di Sebastiano Triulzi mettono in luce la funzione di reagente e linguistico e politico che l’amore per l’epica greca e romana ha esercitato. Del resto ogni traduzione, come bene disse Croce nell’introduzione al suo Goethe, è un atto d’amore. Lo testimoniano, proprio in questi ultimissimi anni, le numerose traduzioni italiane che, con diverso orientamento formale (verso libero, prosa) e linguistico (livello stilistico più o meno sostenuto), raggiungono un pubblico vasto e variamente acculturato, comunque assetato di antico e desideroso di una narratività diversa da quella della cronaca o del romanzo. E infine — confessiamolo senza falsi pudori — anche per il filologo di professione è spesso benvenuto un “piacere del testo” che prescinda dall’ansietà dell’apparato critico ed esegetico che la lettura in lingua originale non manca mai di generare. È ipocrita negare che la traduzione lasci intatto il fascino della narrazione, anzi lo incrementa in noi che greci e latini non siamo. Quello che resta perduto anche in chi ancora oggi, in tempi duri per la cultura classica, conosce il greco, è 1’ e m p a t i a fra aedo e pubblico, che ci viene così ben descritta da due bei versi odissiaci (11. 333 sg. e 13. 1 sg.), nei quali viene dipinto il pubblico che ascolta le avventure di Odisseo nella reggia di Alcinoo: «Così disse, e tutti in silenzio stavano incantati nel mégaron ombroso». Virgilio nell’Eneide (2. 1), all’inizio del racconto di Enea alla corte di Didone, riprese queste parole con la pietas devota dell’emulo: conticuere omnes intentique ora tenebant. Ma l’incantesimo dell’empatia fra aedo e pubblico, tutti illetterati in una cultura integralmente orale, era, da secoli, pura archeologia culturale, archeologia della comunicazione letteraria.
Le immagini viventi nella critica d’arte antica 1. Premessa Ringrazio gli organizzatori per l’invito. Dopo che uno di loro, Riccardo Palmisciano, è stato tante volte, a cominciare da anni lontani, ospite mio nel seminario romano, sono felice di ringraziarlo per essere oggi io ospite suo a Napoli. Credo di aver capito che nel programma di questa giornata di studio c’è l’intenzione non tanto di fornire risposte più o meno definitive o anche solo provvisorie, ma piuttosto di prospettare problemi, di inventare domande: è stato detto giustamente che è più difficile (e più utile) fare domande che fornire risposte. Seguirò questo suggerimento. Penso che lo Scudo sia un ottimo punto di partenza sia per parlare dell’ekphrasis sia per parlare di Omero e soprattutto dell’epica in generale.
2. Lo Scudo come archetipo e come falso padre dell’ekphrasis L’ekphrasis è un espediente fortunato della composizione letteraria1, che è presente abbondantemente nelle opere di letteratura. Ma si tratta normalmente della descrizione di opere o reali o che reali potrebbero essere. La teoria2 ci parla di πράγματα, di τόποι, di πρόσωπα, di καιροί e – molto divertente – πολλῶν ἑτέρων (Hermog. II, p. 16 Sp.). descriptio (Quint.). Ma lo Scudo è la descrizione di un manufatto creato dalla fantasia, con delle caratteristiche per di più del tutto irreali, con figure che si muovono, che cantano etc. (§ 3). La categoria della || [Abbozzo di redazione scritta dell’intervento tenuto alla Giornata di studi, organizzata da Matteo D’Acunto e Riccardo Palmisciano, su Lo scudo di Achille nell’Iliade, Università di Napoli “L’Orientale” 12.5.2008. La stesura scritta è sicuramente posteriore all’intervento, il quale secondo la testimonianza di Palmisciano fu totalmente orale ed estemporaneo, e basato solo su un handout in cui era stato riprodotto il testo dello Scudo con poche note autografe (vd. M. D’Acunto – R. Palmisciano [a cura di], Lo scudo di Achille nell’Iliade. Esperienze ermeneutiche a confronto. Atti della Giornata di studi Napoli 12 maggio 2008, [«AION» 31, 2009]), Pisa–Roma, Fabrizio Serra editore, 2010, p. 9); evidentemente Rossi voleva redigere un testo scritto per la pubblicazione negli Atti della Giornata. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi (l’handout era tra le carte dello studio); la cura del testo e le parti aggiunte si devono a Giulio Colesanti] 1 Rimando alle pagine di Lausberg 1949, I 544. 2 Teorici: Elio Teone (progymn., Alex. I–II p), Ermogene (di Tarso; 160–225 p), Aftonio (Elio Festo Aftonio, Antiochia, IV–V p) https://doi.org/10.1515/9783110648126-013
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descrizione s’incrocia qui con la letteratura dei δαίδαλα, dei θαύματα, con l’opera dei παραδοξόγραφοι, e cioè delle cose portentose, non reali, che suscitano meraviglia. movimento: Il. 18.478–608 Il. 11.25–28, 38–40 Hes. scut. 154–8, 210 ss., 228–34, 251–7, 274, 277, 280 Eur. El. 471–5, 1137 s. Eur. Phoen. 1125–7, 1137 s. Theocr. 1.27–62; 15.80–83 Mosch. 2.37–40, 43–47, 50–3 Erod. 4.20–28, 66–68 Ap. Rh. 1.735–41, 752–8, Paus. 1.20.3, 22.6, 5.10.6, 7 ss. Ach. Tat. 1.1.3, 1.1.9– , 1.1.13 Long. Soph. praef. 2 ss. Philostr. im. 1.11.2, 1.13.9, 1.23.5, 1.26.2–3 Quint. Sm. 5.80–89, 5.57–67, 5.66–8, 6.220–6, 6.232–6, 6.265–8 5.20–127 (v. qui sotto) Nonn. 25.388–93, 417 s., 434–8, 472–80 Cat. 64.105–15, 125–30, 251–64 Verg. v. sopra, 8.642–5, 655–8, 663–6, 671–4 Verg. Aen. 1.464–493 (464 Sic ait atque animum pictura pascit inani) Ov. met. 6.75–7, 90–2, 103–8 Petr. 29.6, 83.3, 89 ss. Plin. 35–28, 99 Apul. 5.4, 5.1 ekphraseis: [da Reverberi, da Downey e Friedländer] Il. 3.125–8 (tela di elena) Il. 3.328–338 (armatura di Paride) Il. 5.722–733 (armatura di Atena), 738–747 (egida, elmo, asta) Il. 11.24–45 (armatura di Agamennone) Il. 11.632–635 (coppa di Nestore) Il. 16.131–139 (armi di Patroclo) Il. 18.478–608 (scudo di achille) Od. 7.82–97 (palazzo di Alcinoo) ps–Hes. Scutum 139–317 (scudo di Eracle) Aesch. Sept. 387–650 (gli scudi dei 14 eroi) Soph. O. C. 668–719 (Colono) Eur. El. 432 ss. (le armi di Achille) Eur. Ion 184 ss. (decoraz. del tempio di Apollo a Delfi) Herodt. libri I e II: 1.194.1–3 (imbarcaz. dei Babilonesi), 2.96.1–5 (imbarcaz. egizie), 2.124– 5, 1–5 ... (piramide di Cheope) Thuc. 1.24–27 (Tracia) Polib. 31.3–4 (giochi in onore di Dafni), 2.14 ss. (Celti), etc.
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Diod. 17.114 (funerale di Efestione), 18.26 (carro funebre di Alessandro) Call. fr. 114 (immagine di Apollo) etc. Theocr. 1.27–62 (coppa), 15.82–87 (arazzi della reggia di Alessandia) Herod. 4.20 (opere nel tempio di Asclepio) Mosch. (mito di Europa) Ap. Rh. 1.737–760 (mantello di Giasome) Lucian. .... Immagini, Difesa delle immagini, Zeuxis (discobolo), Toxar. 6 ss.(tempio di Orfeo) Pausan. Ach. Tat. 1.1–2.3 Heliodo. 3.4–5–24 Longo Soph. praef. 2–4.2 Philostr. Quint. Smirn. 5.20–127 (scudo di Achille), &.200–294 (scudo di Euripilo, con scene di movimento) Nonn. 1.45–92 (Europa), 3.131–179 (palazzo di Elettra), 5.135–189 (collana di Armonia), 25.380–572 (scudo di dioniso), 41. 295–302 (peplo di Armonia) Claudian. rapt. Pros. 1.1238 (tessitura di Proserpina), 2.30 (storia di Diana) Onorio cons. Hon. 4.520 ss. Procop. (Teseo e Arianna) Cat. 64 Verg. ecl. 3.36–39 (coppa decorata con edera), 4 (età dell’oro), georg. 3.12 (frontone di un tempio da erigersi sul Mincio), En. 1.446–493 (tempio di Giunone a Cartagine), 5.244– 267 (8 doni dati da Enea ai vincitori dei giochi per Anchise), 6.20–30 (tempio di Apollo a Delfi), 8.625–733 (scudo di Enea) Ovid. met. 6.75–104 (tela di Aracne), 6.105 ss. (tela di Pallade) Petron. 29.6 (affreschi nella casa di Trimalcione), 29.52 (coppe istoriate di Trimalcione), 29.83 (quadri della pinacoteca della città) Stat. Theb. 545–551 (coppa di Adrasto) Plin. nat. hist. 33–37 (opere d’arte da lui conosciute) Apul. met. 5.4, 2.4, 5.1 (statue)
3. Riflessioni sull’ekhphrasis: le figure in movimento e le figure sonore nello Scudo Come si configura – ekphrasis: 1) scene in movimento; 2) scene statiche udito: S(uono) vista: Mov(imento), T(atto) [odorato] [gusto]
Col(ore)
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handout
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[Resoconto dell’intervento di Rossi nella redazione di Maria Arpaia[3] (prima parte) Partendo dall’assunto che, secondo gli antichi, il genere ecfrastico deve essere caratterizzato da una compresenza dei cinque sensi, lo studioso ha rintracciato nei versi in questione le espressioni che rinviano alla percezione attraverso l’udito, la vista e il tatto. Infatti, dal punto di vista visivo il movimento lento delle spose che portano le torce accese (vv. 490–493) si oppone a quello concitato dell’agguato e della battaglia nella città in armi (vv. 520–540), che a sua volta fa da contrappunto al turbinio festoso delle danze (vv. 590–605). Dal punto di vista acustico, il suono di flauti e cetre dell’imeneo nella scena iniziale (v. 495) richiama quello agreste del canto di Lino (v. 570), mentre le pietre lisce su cui siedono gli anziani (v. 504) e la terra morbida arata tre volte (v. 541) conferiscono alla descrizione la dimensione del tatto. I colori scuri (la terra annerita dietro gli aratri dei contadini al v. 548; i grappoli della vigna neri al v. 562, come nero è il sangue divorato dai leoni al v. 583) determinano una meravigliosa sinestesia mentale in cui il potere della parola concede all’uditorio di vedere e percepire con gli occhi della mente. A un tale effetto sensoriale si aggiunge anche la suggestione di una descrizione taumatografica: il poeta, rappresentando oggetti meravigliosi, ci fa vedere anche cose che non esistono nella realtà.] – figure in movimento nelle ekphraseis drammaturgiche: Ifigenia nella parodo dell’Agamennone: Bonanno 42 s. (“la nostra scena diapangelias”, per cui si può davvero dire che Ifigenia viene uccisa sacrificalmente davanti agli spettatori (efficacia della descrizione di una parte lirica rispetto ai racconti dell’angelos in trimetri)
4. La teoria antica e la teoria moderna sull’ekphrasis: le ragioni di una quasi assenza la critica retorica e la critica d’arte antica – una cosa è la prassi, una cosa la teoria retorica – rapporto fra poesia e arti figurative: Simon. .... (Robert, Webster)
|| [3 M. Arpaia, [Cronaca della Giornata di studi] “Lo Scudo di Achille nell’Iliade. Esperienze ermeneutiche a confronto”, Napoli (Università di Napoli “L’Orientale”)”, 12 maggio 2008, «Maia» n.s. 60 (3), 2008, pp. 509–515, a pp. 511–512. La parte qui riportata e quella inserita alla fine del contributo sono riprodotte con il consenso dell’Autrice.]
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– fra ekphrasis e thaumata, paradoxographoi la teoria: Ael. Theo (Alessandria, I–II p; progymn.) Hermog. (di Tarso, 160–225 p) Aphton. (Antiochia, IV–V p) (Aelius Festus Aphthonius) ekphrasis = descriptio (Quint.) tipologie: Spengel II 16, II 46 (Aphth. + animali, piante), III 251: occasioni, luoghi, tempi, stagioni (Long. praef. 2) saphéneia, enàrgeia (= evidentia (Cic. or. 6.20), demonstratio) mìmesis – Importanza dell’ekphrasis: Weber [1917], sugli epigr. non epigrafici
5. Lo Scudo come indizio dell’esistenza di una larga parte dell’arcipelago epico Se lo scudo non è un’ekphrasis, in realtà è qualcosa che è per noi ben più interessante. Non voglio soffermarmi sulla f u n z i o n e dello Scudo nell’economia (si fa per dire) del poema: quello di indagare la funzione di un singolo elemento nel quadro di una composizione letteraria è esercizio che andrebbe limitato a quelle opere che, concepite in maniera più o meno unitaria e magari da un singolo autore, offrano uno spunto adeguato. Ma questa impostaziome critica, che da molti viene estesa a tutte le opere che abbiamo, fallisce totalmente quando ci si trovi di fronte a quelle che definirei opera/non–opere, nel senso che la loro genesi riveli l’assenza di una concezione unitaria o la non perfetta riuscita o compiutezza di un progetto progressivamente unificante. È questo il caso di Omero. – il mio credo epico[4]
|| [4 L’appunto indica che Rossi voleva inserire in questo punto una breve esposizione delle sue teorie omeriche, con rimando a L. E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in: Storia e civiltà dei Greci, I. 1, Milano 1978, 73–147 (versione estesa); e anche a Id., On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry, “Symbolae Osloenses” 76, 2001, 103–112 (versione breve).]
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Sulla base di queste considerazioni penso che sia piuttosto il caso di domandarsi quindi non tanto quale funzione svolga lo Scudo in un poema che sulla via dell’unità si è soltanto incamminato, quanto piuttosto di che cosa lo Scudo sia s p i a , i n d i z i o , ... ciclo, enciclopedia tribale (Havelock), a r c i p e l a g o e p i c o [5] [Resoconto dell’intervento di Rossi nella redazione di Maria Arpaia (seconda parte) Lo scudo diventa simbolo, quindi, della totalità dell’esistenza, in cui è racchiusa sia la sfera sensoriale che quella del reale e dell’immaginario, una sorta di “enciclopedia tribale” in miniatura in cui sono compresi tutti gli aspetti della cultura. Lo studioso ha considerato, infatti, questa sezione un “naufragio di epica esiodea”, cui si avvicina per le caratteristiche delle tematiche proposte: la natura antropizzata, il lavoro dei campi, la pace e la guerra.][6]
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|| [5 Rossi aveva già enunciato il concetto di ‘arcipelago epico’ in vari suoi scritti di epica, e in particolare nella prolusione tenuta il 15.4.2008 alla Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” di Roma (poi pubblicata postuma: La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico, «Critica del testo» 13/3, 2010, pp. 69–81.] [6 Rossi in quest’ultima parte del testo doveva probabilmente sviluppare l’idea che, secondo quanto testimonia Palmisciano (cit.), lanciò a Napoli durante il suo intervento: lo Scudo come sintesi di ogni epos possibile.]
Le immagini viventi nella critica d’arte antica | 201
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La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico* In una mia visita recente a Parigi sono rimasto colpito da una bella statua nei giardini del Lussemburgo, vicino all’angolo sud–est del palazzo. Si tratta dell’ A c t e u r g r e c dovuto allo scultore di metà Ottocento Arthur Bourgeois (1838–1886), che rappresenta un attore in posa molto dinamica, con la maschera sulla fronte e in mano un foglio su cui c’è evidentemente la sua parte nella rappresentazione scenica, che lui si sta ripassando (v. fig. 1)1. Quello che mi ha colpito è stato il fatto che, a differenza di tanta scultura dell’Ottocento e in genere moderna legata in modo più o meno pronunciato all’antico, il personaggio rappresentato non è né giovane né bello secondo ben noti canoni classicistici, ma è espressione di un molto avanzato realismo (penso, non so se a ragione o no, a Courbet). Questo mi ha reso la statua dell’attore del Lussemburgo parti-
|| [Conferenza (Roma “La Sapienza” Mt 15.4.2008, ore 11, e altrove: vd. nota *, a cui si deve aggiungere Roma “Tor Vergata”, Mc 1.4.2009, ore 16); pubblicata postuma in «Critica del testo» 13/3, 2010, pp. 69–81] * [Il presente lavoro rappresenta un adattamento della prolusione tenuta da Luigi Enrico Rossi il 15 aprile 2008 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà di Scienze Umanistiche, e recitata poi nel settembre dello stesso anno a Buenos Aires e a Córdoba (Argentina). La versione scritta dell’intervento non era stata completata da Rossi e alcune osservazioni si trovavano ancora allo stato di semplice abbozzo. La curatrice (Serena Pirrotta) ha provveduto a sistemare per la pubblicazione il materiale lasciato incompiuto da Rossi, con integrazioni basate sulla registrazione video della prolusione (reperibile online sul sito http://www.uniroma.tv/?id_video=5450) o attinte (fatti salvi i necessari interventi di adattamento al contesto presente) da un lavoro pubblicato da Rossi nel 2003 (L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita, spec. pp. IV s. e VIII s.; v. Bibliografia), nel quale venivano discussi alcuni dei problemi oggetto anche della prolusione. Le parti integrate dalla curatrice per esigenze redazionali sono state messe tra parentesi quadre, sia nel testo sia nelle note. Tra parentesi graffe vengono invece riportati i passi tratti dal lavoro del 2003 citato sopra; eventuali omissioni nella citazione vengono segnalate tramite [...]. Quello che, negli appunti lasciati da Rossi, si addiceva più a una nota a piè di pagina che al testo vero e proprio, è stato messo in nota dalla curatrice, ma senza alcuna parentesi, in quanto praticamente corrispondente alla formulazione originale. Per quanto riguarda la bibliografia si riporta fedelmente quella stilata da Rossi negli appunti; si tratta evidentemente di lavori che Rossi aveva presenti al momento dell’elaborazione, anche se non vi rinviava esplicitamente. Eventuali integrazioni della curatrice in bibliografia sono segnalate con parentesi quadre]. 1 Ne debbo le bellissime foto alla competenza editoriale dell’amico Piero Gamacchio, che le ha commissionate a un fotografo professionista. https://doi.org/10.1515/9783110648126-014
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colarmente simpatica, perché si sottrae a canoni stancamente umanistici. Ma subito dopo è subentrato quel nostro professorale e persecutorio spirito storico– critico, che mi ha rivelato che in realtà il realismo si limita all’aspetto fisico ma si ferma alla soglia della ricostruzione storica perché ne resta decisamente fuori: nessun attore greco – diciamo – del V secolo a. C., l’epoca del grande teatro attico, si sarà mai trovato a ripassare la sua parte con in mano dei fogli di un qualunque materiale scrittorio. Siamo molto male informati sui materiali scrittori dell’epoca, ma in questa sede la cosa non deve preoccuparci: tutto doveva avvenire senza quel sussidio visivo, in una cultura di comunicazione orale e – secondo la definizione di W. J. Ong – aurale, o meglio aurale–visuale. L’immagine di questa statua ci dà l’avvio per una sistemazione un po’ schematica dei vari approcci che possiamo esercitare di fronte all’antichità classica. L’approccio che viene in mente immediatamente è quello che noi chiamiamo u m a n i s t i c o . L’atteggiamento umanistico è il trasferimento di noi moderni nel mondo antico – pensiamo a Machiavelli che in abiti curiali legge Tito Livio. Ma, se ci confondiamo con gli antichi, facciamo torto alla nostra cultura, che da quella è profondamente diversa. In più l’approccio umanistico ha quella funzione modellizzante per cui niente è bello se non quello che è consacrato da canoni classicistici, sia nelle arti figurative, sia nella letteratura; ciò rende l’approccio umanistico fortemente inattuale. Un altro è l’approccio a t t u a l i z z a n t e , che trasferisce gli antichi da noi. In questo modo però facciamo torto agli antichi, perché li facciamo vivere e ragionare come noi. Questa attualizzazione dell’antico la si può perdonare a qualche infelice professore di scuola secondaria che fa i suoi sforzi tremendi per interessare il pubblico giovanile, ma dovrebbe essere soltanto una cosa occasionale, un passaggio limitato. Se noi traduciamo il mondo antico in termini moderni, niente ci impedisce di fare quello che, ahimè, molti fanno, cioè di vedere Omero al tavolo di lavoro che scrive, magari col calamaio, e allude come fosse un Apollonio Rodio, oppure di considerare Saffo femminista (in realtà i due mondi, maschile e femminile, erano separati e autonomi, non c’era rivalità), o Alceo antitirannico (mentre era uno dei tanti aspiranti tiranni in lotta fra loro per il potere) e così via. L’unico approccio giusto è ovviamente quello s t o r i c o , che sentiamo di dover praticare ogni giorno nel nostro mestiere di filologi e di storici perché evita ogni indebito spostamento di culture e si mantiene in uno spazio storico mediano che ci fa capire, e non solo sentire, la distanza del mondo antico da noi. In altre parole, è il modo di spiegarci storicamente gli eventi. Che poi gli altri due approcci, magari in momenti di entusiastico calor bianco, vadano praticati nei fine settimana è cosa che consiglio sempre agli allievi, perché le idee migliori vengono quando ci avviciniamo ai testi antichi senza mediazioni di correttezza teorica: ma solo
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sabato e domenica, perché lunedì si ricomincia a fare le persone serie, e cioè i filologi e gli storici. Ora, lo scultore dell’Attore greco del Lussemburgo evita con sano istinto le parzialità dell’umanesimo, ma cade poi in una scorretta attualizzazione, e cioè il foglio di carta con la parte dell’attore: quello che simpaticamente lo salva è che secondo me lo fa inconsapevolmente, a differenza di tanti studiosi che ancora oggi lo fanno – sempre a mio parere – o con prava determinazione alla ricerca di un futile successo o per inconsapevole pigrizia mentale. Ora, nell’epoca del teatro attico, nel V secolo a. C., la scrittura alfabetica c’è da un pezzo, e cioè fin dall’VIII secolo, ma una quantità di occasioni di comunicazione si realizzavano in maniera che Ong, appunto, definì a u r a l e , o, come preferisco dire, a u r a l e – v i s u a l e : non certo scrittoria, quindi. Chi comunica parla e chi parla agisce anche in modo attoriale. Agli albori della documentazione greca della comunicazione letteraria, e cioè in quell’VIII secolo a. C. che ospita il momento ancora (oralmente) produttivo dell’epos, abbiamo tre testimonianze splendide e assolutamente preziose, che qui propongo all’attenzione. Devo ancora trovare uno studioso del passato che le metta in relazione l’una con l’altra. Sono passi normalmente ignorati: presentandoli vorrei fornire solo una pennellata sui rapporti di comunicazione. Il cantore epico, l’aedo o rapsodo, è dato c o m e g u a r d a t o , e n o n c o m e a s c o l t a t o 2. Ecco i passi: Hom. Od. XI, 362–369
365
τὸν δ’ αὖτ’ Ἀλκίνοος ἀπαμείβετο φώνησέν τε· “ὦ Ὀδυσεῦ, τὸ μὲν οὔ τί σ’ ἐΐσκομεν εἰσορόωντες ἠπεροπῆά τ’ ἔμεν καὶ ἐπίκλοπον, οἷά τε πολλοὺς βόσκει γαῖα μέλαινα πολυσπερέας ἀνθρώπους ψεύδεά τ’ ἀρτύνοντας, ὅθεν κέ τις οὐδὲ ἴδοιτο· σοὶ δ’ ἔπι μὲν μορφὴ ἐπέων, ἔνι δὲ φρένες ἐσθλαί, μῦθον δ’ ὡς ὅτ’ ἀοιδὸς ἐπισταμένως κατέλεξας, πάντων Ἀργείων σέο τ’ αὐτοῦ κήδεα λυγρά.
Hom. Od. XVII, 518–521 ὡς δ’ ὅτ’ ἀοιδὸν ἀνὴρ ποτιδέρκεται, ὅς τε θεῶν ἒξ
||
2 [A proposito del sub oculos ponere, della dimensione visiva della comunicazione letteraria, trovo negli appunti di Rossi un riferimento al concetto di enargeia, che nella teoria retorica antica era la qualità specifica della descrizione, dell’ekphrasis. Rossi nella nota rimanda alle osservazioni di Too 1998, p. 100s.]
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520
ἀείδῃ δεδαὼς ἔπε’ ἱμερόεντα βροτοῖσι, τοῦ δ’ ἄμοτον μεμάασιν ἀκουέμεν, ὁππότ’ ἀείδῃ· ὣς ἐμὲ κεῖνος ἔθελγε παρήμενος ἐν μεγάροισι.
Hes. Op. 1–103
5
10
Μοῦσαι Πιερίηθεν ἀοιδῇσι κλείουσαι, δεῦτε Δί’ ἐννέπετε, σφέτερον πατέρ’ ὑμνείουσαι. ὅν τε διὰ βροτοὶ ἄνδρες ὁμῶς ἄφατοί τε φατοί τε, ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε Διὸς μεγάλοιο ἕκητι. ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει, ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει, ῥεῖα δέ τ’ ἰθύνει σκολιὸν καὶ ἀγήνορα κάρφει Ζεὺς ὑψιβρεμέτης, ὃς ὑπέρτατα δώματα ναίει. κλῦθι ἰδὼν ἀίων τε, δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην.
[In tutti e tre i passi viene sottolineata la natura non soltanto “aurale” ma anche e soprattutto “visuale” della comunicazione. In particolare, nel passo delle Opere e i giorni, che pure si riferisce ad un contesto diverso (Esiodo non parla di aedi o cantori, ma si sta rivolgendo a Zeus)], è interessante il ricorrere del nesso verbale del vedere e dell’ascoltare (“sentimi, guarda, ascolta”)4. Mi sembra che queste pennellate di situazione fanno capire la consapevolezza che gli antichi avevano del tipo di comunicazione e del modo in cui questa comunicazione avveniva. Ricorderò ora alcuni dati di fatto e, allo scopo di proporre scenari verosimili, darò alcune definizioni di nuovo schematiche e, in virtù della loro schematicità, utili perché chiare. La scrittura sillabica micenea scomparve dopo il 1200 a. C. e la scrittura alfabetica entrò in Grecia nell’VIII secolo: l’epos cosiddetto omerico non può essere stato redatto prima di quel momento ma, portando vari segni di maggiore arcaicità, è più che verosimile che si sia formato in epoca integralmente orale con tecniche sia compositive sia espositive totalmente orali: è l’epoca dell’oralità integrale. Poi subentrò la scrittura, ma questa influenzò solo la composizione, perché la pubblicazione continuò ad essere orale: siamo, come già accennato sopra, nell’epoca aurale, o meglio aurale–visuale, l’epoca che va dalla lirica arcaica al dramma, e cioè dal VII al IV secolo a. C.
|| 3 Debbo la segnalazione di questo passo ad uno studente, Virgilio Irmici. Per la discussione del passo ringrazio Andrea Ercolani, al quale devo anche la segnalazione di Plat. Ion. 530b, in cui si fa riferimento alle vesti splendide del rapsodo Ione. 4 Devo a Mario Capaldo la segnalazione, a questo proposito, di Herod. I, 8 (ὦτα γὰρ τυγχάνει ἀνθρώποισιν ἐόντα ἀπιστότερα ὀφθαλμῶν).
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Ma a un certo punto il testo scritto comincia a diffondersi sempre più anche perché si diffonde il materiale scrittorio, tanto da promuovere il libro come manufatto e il liber come nuovo istituto letterario: i poeti arcaici e classici (dagli inizi fino a parte del IV secolo) componevano per occasioni d’incontro con pubblici sia ristretti (le corti per l’epos, il simposio per i lirici) sia ampi (gli agoni per l’epos, la polis di Atene per il dramma attico) e non si sognavano certo di raccogliere le loro composizioni in un liber letterario con un ne varietur: se quindi è impensabile all’origine un epos organizzato e una raccolta di liriche di Archiloco o di Saffo, quando nel III sec. a. C. è la volta di un Callimaco, ecco che compare il primo caso di opera omnia d’autore. È l’epoca del libro, che dura fino a oggi. È la vicenda della scrittura, prima inesistente e poi diversamente condizionante: p o s s i a m o p a r l a r e d i u n a c o m u n i c a z i o n e i n f e r mento di frequente trasformazione. Risparmio ai miei lettori informazioni dettagliate sull’epoca integralmente orale, quella cioè della formazione dell’epos omerico, per la quale rimando a Sbardella 2006 e a Ercolani 2006. Qui vorrei ora fornire due contributi forse non trascurabili, e cioè 1) all’approccio oralistico a Omero, che è il mio; e 2) a una revisione delle Opere e i giorni di Esiodo, opera quanto mai epica e quanto mai simile ai poemi omerici quanto a fatti redazionali. Per quanto riguarda il primo punto vorrei partire da un passo omerico che è secondo me una delle cose più preziose che ci siano rimaste in fatto di formulazione metaletteraria: il decimo verso dell’Odissea, quello che chiude il proemio. Non mi soffermo adesso su questo proemio: magari potrò tentare di scandalizzare qualcuno dicendo che questo non è il proemio dell’Odissea ma un proemio di una recitazione di materia odissiaca. Guardiamo l’ultimo verso: 1.10 τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν, {“di queste vicende, o dea figlia di Zeus [la Musa]5, comincia da un punto qualunque a raccontare anche a noi”. È strano che la parola chiave ἁμόθεν sia stata così frequentemente fraintesa dai traduttori6, mentre significa precisamente quello che ho reso nella traduzione.} {Nell’epoca creativa orale l’epos ha avuto una sua fluidità, che era sempre di|| 5 [In questo caso le parentesi quadre sono di Rossi] 6 [Rossi non aveva trovato traduzioni soddisfacenti del verso; nei suoi appunti riporta quella di E. Romagnoli (“donde che sia movendo”), segnalatagli da Angela Maria Nicolò Punzi, l’unica, fra quelle a lui note, a rendere in maniera corretta τῶν ἁμόθεν. Nella sezione antologica relativa ad Omero in Storia e testi della letteratura greca (Firenze 2002) Vol. 1 si riporta il proemio dell’ Odissea con la traduzione di G.A. Privitera, ma nella nota 36 a p. 67 Rossi dichiara esplicitamente di distaccarsi dalla traduzione dello studioso per quanto riguarda il decimo verso (“racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus”), traducendo invece: “racconta, donde vuoi, anche a noi, o dea figlia di Zeus”.]
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sponibile a nuove aggiunte}: l’immagine di “ciclo”, utilizzata di solito in relazione all’epos arcaico, mi sembra dunque inappropriata, {dal momento che il circolo fa pensare a qualcosa di chiuso e compiuto [...]; la definizione di “ciclo aperto” sarebbe già migliore, se suggerisse [...] un’apertura cronologica di sviluppo}. In realtà le immagini più idonee a definire il materiale narrativo in versi che circolava in epoca arcaica mi sembrano quelle dell’arcipelago epico e della spirale infinita, da me tempo fa introdotte. {La spirale epica ha una sua consistenza che è peró fluida, può cominciare ad essere narrata da un punto qualunque, come appunto nel v. 10 dell’Odissea. Per di più anche a noi significa che l’aedo canta a più d’un pubblico, e qui viene pregato, attraverso l’invocazione alla Musa, di narrare qui ed ora in questa precisa occasione. Segnalo casi analoghi, come Il. 1.6 (nel proemio: l’aedo comincia dal momento della lite fra Achille e Agamennone) e Od. 8.500 (Demodoco comincia a cantare dal momento in cui i Greci abbandonarono Troia, lasciando in città il cavallo del famoso inganno). L’importante è chiarire da dove si comincia, visto che si può cominciare da dovunque. [...] Proprio parlando dell’epica greca, Borges ci offre una delle sue formulazioni fulminanti7: «Il concetto di testo definitivo non ha a che fare se non con la religione o con la stanchezza». È in fondo il concetto di “opera aperta”, per cui rimando alla definizione, ricordata sopra, di “arcipelago”, che è la negazione più totale dell’unità tipografico–libresca come la concepiamo noi moderni}8. Sulla base di quanto detto fin qui, presenterò adesso alcune mie idee su Esiodo che mi sono venute un po’ di anni fa, nel 1993–94, quando feci un corso sulle Opere e i giorni. [Quelle idee sono confluite in un lavoro] pubblicato nel 19979. I c o r s i sono stati per me sempre occasione di riflessione viva sul campo, specie quando mi sono trovato a dover rispondere alle domande degli allievi, che, per disarmate che siano, sono sempre preziose, perché sono spesso disarmanti. Mi piace ricordare questo perché oggi mi trovo a vivere una singolare
|| 7 {J.L. Borges, Discusión, Madrid 1976, p. 90: «El concepto de texto definitivo no corresponde sino a la religión o al cansancio».} 8 [Negli appunti di Rossi si trova un riferimento a Batrach. 1 ἀρχόμενος πρώτης σελίδος (“cominciando la prima pagina”), verso che rimanda ad un orizzonte completamente diverso rispetto, ad es., al proemio dell’Odissea. Nel caso della Batracomiomachia il poeta invoca le Muse al momento di scrivere la prima pagina (σελίς la prima colonna di scrittura del papiro): siamo già in piena civiltà della scrittura.] 9 [Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in: Posthomerica I: Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, a c. di F. Montanari e S. Pittaluga, Genova (Facoltà di Lettere) 1997, pp. 7–22].
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coincidenza: sono infatti alla fine della mia carriera di docente, che non significa però abbandono delle vecchie abitudini: corsi, seminari, esami, che continuo con gioia. Specie al mio seminario, che quest’anno compie quarant’anni di vita, devo l’esistenza di un nutrito gruppo di allievi di varie generazioni, che nel 2003 mi hanno offerto uno splendido volume di studi in mio onore10. Gli allievi, le cosiddette “Brigate Rossi”, mi hanno permesso di realizzare varie imprese che senza di loro non sarebbero state possibili: la storia letteraria e l’antologia, firmata da me e da Roberto Nicolai, pubblicate dalla Le Monnier, e la rivista, ora decennale (fondata da me, da Maria Grazia Bonanno e dal compianto Roberto Pretagostini), i “Seminari Romani di Cultura Greca”, pubblicata dalla Quasar (ringrazio anche gli editori). O g g i , i n s o m m a , è p e r m e un giorno importante. Con questo i miei debiti non li pago certo, ma almeno li dichiaro. Ma torniamo ad Esiodo. In quel mio scritto del 1997 {ho creduto di identificare segni di redazione delle Opere e i giorni: fra altre meno rilevanti, le sezioni riguardanti l’inverno (493–524 + 524–563) e la navigazione (618–645 + 646– 694), ambedue con incipit rivelatori e con contenuti fedelmente ripetuti, sembrano la giustapposizione di quelle che si possono considerare “sezioni alternative”, destinate ad essere fungibili e non giustapponibili, e cioè destinate a diverse occasioni di recitazione, e quindi palese opera di uno o più redattori. I poemi omerici non hanno nulla di simile (mancano ripetizioni di episodi, secondo quella che viene chiamata la “legge di Monro”), segno che la redazione è stata frutto di lavoro più lungo e accurato. Esiodo, figlio di ambiente più remoto, la Beozia, e nato in piena epoca scrittoria (VII sec. a. C.), ha avuto tempi più brevi di esecuzione, redazione e fissazione. È interessante notare questa differenza fra due tradizioni epiche, l’una più lenta e quindi più selettiva come quella omerica e l’altra più breve e quindi meno accurata come quella esiodea.} L’esempio di Esiodo, con la convivenza di più “sezioni alternative” in un’unica redazione, come le osservazioni fatte sull’arcipelago epico e la spirale infinita, mostra quanto poco sensibili fossero i greci {all’unità dell’opera letteraria nel nostro senso moderno11. E potremmo continuare: basti pensare, ancora || 10 [R. Nicolai (a. c. di), Rhysmos. Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a Luigi Enrico Rossi per i suoi settant’anni, Roma 2003.] 11 [Nell’articolo del 1997 (v. nota 9) Rossi scrive a questo proposito (p. 9): «non ha senso accostarci alle opere dell’epoca arcaica e classica con il nostro concetto di unità dell’opera letteraria. Meno che mai questo è possibile con la poesia epica, la cui realtà originaria si può rendere con l’immagine di un arcipelago. L’apparente unitarietà di opere epiche arcaiche – e qui intendo ovviamente i due poemi omerici maggiori – è solo il frutto di interventi graduali, che hanno adattato un prodotto di cultura orale a culture successive. È così che i poemi epici sono
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nel V sec. a. C., alla impassibile accettazione da parte del pubblico del dramma attico di una quantità di aporie drammaturgiche, sulle quali sarebbe interessante soffermarsi}12. Mi pare che con queste mie considerazioni le cose che vanno al loro posto siano più d’una13. ***
|| progressivamente diventati dei “libri”. Se l’epica non è unitaria per definizione, e se redazioni scritte hanno progressivamente elaborato l’arcipelago narrativo dando ad esso una coerenza che resta tuttavia ancora lontana dal concetto moderno di unità, le Opere non ne hanno neanche la parvenza: non penso che possa aver successo il tentativo di giustificare, in prospettiva unitaria, non solo la compresenza di alcune sezioni, ma anche la precisa posizione che molte sottosezioni hanno nella redazione attuale». — Riguardo al concetto di unità trovo negli appunti per la prolusione un riferimento al cap. 10 del trattato Sul Sublime, in cui lo Pseudo– Longino cita Plat. Phaedr. 264c 2–5; a questo proposito Rossi rimanda a Too 1998, p. 195. — Sull’unità dell’opera letteraria cfr. L.E. Rossi, L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in: G. Arrighetti (a. c. di), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del convegno, Pisa, 7–9 giugno 1999, Pisa 2000, in cui si ribadisce la distanza fra il moderno concetto di unità dell’opera letteraria e la visione degli antichi.] 12 [Negli appunti Rossi rimanda all’Agamennone di Eschilo, un caso evidente di aporia drammaturgica da lui ricordato spesso anche a lezione: all’inizio della tragedia la sentinella notturna di guardia ad Argo scorge il segnale di fuoco che annuncia la vittoria dei Greci, e dopo neanche poche scene – secondo la finzione scenica il giorno dopo –, velocissimo, fa la sua apparizione Agamennone di ritorno da Troia, «neanche avesse preso un aeroplano», come commentava efficacemente Rossi.] 13 [Prima di questa affermazione conclusiva negli appunti di Rossi si trova un accenno, non ulteriormente sviluppato, al carattere non didascalico delle Opere e i Giorni di Esiodo, argomento affrontato nella Letteratura greca del 1995 e accennato anche nell’articolo del 1997. Nella Letteratura greca, a p. 73, Rossi afferma: «L’opera (sc. le Opere e i Giorni) non presenta una vera unità, certo non quella che potremmo richiedere noi [...]. Si possono, certo, individuare due grandi argomenti del poema, che sono la giustizia e il lavoro. Le sezioni dedicate ai precetti per il lavoro sono sembrate sufficienti per classificare il poema come epica didascalica, e cioè poesia destinata all’insegnamento, ma questa categoria fu creata molto più tardi, in epoca alessandrina (Arato), e fu poi utilizzata dai romani (Virgilio). Ora, la poesia didascalica vera ha la funzione di aiutare la memorizzazione attraverso il verso. Ma si vuol pensare davvero che Esiodo volesse insegnare il mestiere ai contadini suoi compaesani? Niente di più improbabile, visto anche l’alto livello letterario che, in quest’epoca, poteva essere rivolto solo a quei destinatari panellenici che si riunivano per le esecuzioni pubbliche dell’epos nelle feste. In altre parole: Arato e Virgilio guardarono ad Esiodo come modello per i loro poemi didascalici, ma per Esiodo stesso e per i secoli immediatamente successivi le Opere erano semplicemente epos, non poema didascalico: il fattore che lo identifica nell’epos è l’uso dell’esametro, perché l’esametro è il verso dell’epos. Esiodo è poeta epico, non ancora didascalico».]
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Spero di essere riuscito nel mio intento, quello cioè di sfatare alcuni pregiudizi filologici e storico–letterari. In realtà nella tenacia con cui molti, oggi, si sentono ancora legati a vecchi approcci vedo il generoso ma ingenuo desiderio di salvare l’alta qualità di quelle che si vogliono considerare come o p e r e l e t t e r a r i e p e r f e t t e , e quindi unitarie in senso moderno (come, a torto, nel caso di tutti e due, di Omero e di Esiodo) e, in più, come attribuibili a un singolo autore (come, a torto, nel caso di Omero). Spero di aver mostrato che si tratta in tutti e due i casi di quelle che vorrei chiamare non opere unitarie ma c o n g l o m e r a t i 14. Chi si è convinto vada, vi prego, da quegli ostinati unitari e comunichi loro che anche un conglomerato può essere un monumento di grande importanza storica e anche – perché no? – un capolavoro di grande bellezza, purché lo si sappia collocare nella sua epoca e nei suoi modi della comunicazione. Uno degli esercizi della filologia per salvare l’unità dell’opera è stato per lungo tempo quello di espungere il ripetuto (Kirchhoff espungeva il secondo inverno!). In realtà l’unica unità vera era quella dell’esecuzione15. Perché dobbiamo omologare q u e s t i s p l e n d i d i p r o d o t t i a n t i c h i ai nostri modi e criteri di valutazione? Archiviato l’umanesimo con i suoi canoni modellizzanti fuori stagione, dobbiamo però anche sforzarci di rifuggire dall’approccio attualizzante, quello che oggi è il più praticato perché appare come il più praticabile: chiamiamolo, in contesto con il nostro visitare l’antico, l a n o s t a l g i a d e l m o d e r n o . È uno sforzo che vale la pena di fare e spero che ci troveremo in molti a praticarlo.
Bibliografia A. Andrisano (a c. di), Biblioteche del mondo antico. Dalla tradizione orale alla cultura dell’Impero, Roma 2007 J. Balogh, Voces paginarum, I–II, in «Philologus», 82 (1927), pp. 84–109, 202–240 R. Barthes, Critique et vérité, Paris 196616
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14 [A questo punto negli appunti di Rossi si trova una nota incompiuta: «Escludo di usare il termine corpora perché ...». Rossi si riferiva probabilmente al fatto che il termine corpora sottintende inevitabilmente il concetto di liber, rinviando a insiemi librari di opere individualmente unitarie.] 15 Formulazione di Roberto Nicolai. 16 [Rossi riporta una segnalazione telefonica di G. B. Conte (datata Velletri 2.04.08) riguardo alla critique des beautés di Roland Barthes e rimanda a Norbert–Bertrand Barbe, Petit dictionnaire des termes de l’esthétique barthésienne, Bes Edition 2004.]
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G. Cavallo (a c. di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Bari 1975 P. Chantraine, Les verbes grecs signifiant “lire” (anagignosko, epilégomai, entunchano, analégomai), in Mélanges H. Grégoire, Paris 1950, pp. 115–126 L. Del Corso, La lettura nel mondo ellenistico, Bari 2005 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano 1990 A. Ercolani, Omero. Introduzione allo studio dell’epica greca arcaica, Roma 2006 E. Lohan, De librorum titulis apud classicos scriptores Graecos nobis occurrentibus, Diss. Marburg 1890 R. Ortolano, La lettura tra pensiero e voce: interiorizzazione ed espressione vocale. Considerazioni sul lessico del leggere e in particolare sull’uso di ἐπιλέγομαι in Erodoto, Tesi di laurea specialistica, discussa il 10.7.2008, relatore L. E. Rossi, correlatore M. Broggiato J. E. Powell, A Lexicon to Herodotus, Hildesheim 1960 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Roma 2006 C. Schrader, Concordantia Herodotea, Hildesheim etc. 1996 [Y. L. Too, The Idea of Ancient Literary Criticism, Oxford 1998] U. von Wilamowitz–Moellendorff, Euripides Ion, Berlin 192617 L. E. Rossi, sull’epica greca arcaica: – Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik, in «Gött. Gel. Anz.», 223 (1971), pp. 161– 174 – I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in: Storia e civiltà dei Greci, Vol. I.1, Milano 1978, pp. 73–147 – L’ideologia dell’oralità fino a Platone, in Lo spazio letterario della Grecia antica, Vol. I, Roma 1992, pp. 77–106 – L’epica greca fra oralità e scrittura, in Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica, Como 1994, pp. 29–43 – Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in Posthomerica I: Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, a c. di F. Montanari e S. Pittaluga, Genova 1997, pp. 7–22 – On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry, in «Symbolae Osloenses», 76 (2001), pp. 103–112 – L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita, in: L’epica classica nelle traduzioni di Caro, Dolce, Pindemonte, Monti, Foscolo, Leopardi e altri. Introd. di L. E. Rossi, apparati di S. Triulzi, Roma 2003, pp. III–XIII L. E. Rossi, sui vari tipi di approccio all’antico: – Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia, in «Ann. Scuola Normale Pisa», S.III, V.4 (1975), pp. 1333–1354 – Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer), in «Riv. di filol.» 104 (1976), pp. 98–117 – Letteratura greca. Con la collaboraz. di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze 1995 (pp. VII–885)
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17 [Qui Rossi riporta una segnalazione di Andrea Ercolani riguardante la definizione, a p. 19 del commento di Wilamowitz, di rhesis angeliché come “rein episch”.]
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– Insegnare e imparare il greco oggi: la lingua e la cultura, in «Scienze Umanistiche» 2 (2006), pp. 87–102
1. Arthur Bourgeois (1838–1886), Acteur grec.
5. Hesiod 5.1 Hesiod als epischer Dichter Hesiods Person und Werk wurden grundsätzlich von C. G. HEYNE (1729–1812) und mit Nachdruck von F. A. WOLF (1759–1824)1 in den Mittelpunkt der wissenschaftlichen Diskussion nicht nur der Klassischen Philologie, sondern in gleicher Weise der Geschichts– und Religionswissenschaft gestellt.2 Insbesondere beschäftigte und beschäftigt die Forschung bis heute die Frage der Originalität und der Einheit von Theogonie und Werken und Tagen, aber auch des Frauenkatalogs. Die dabei eingenommenen Standpunkte lassen sich wie in der Homerforschung als ,analytisch‘ und ,unitarisch‘ beschreiben. Die einen betrachteten Theogonie und Werke und Tage als Gedichte, die in mehreren, sukzessiven Redaktionen ihre heutige Gestalt bekommen haben, die anderen dagegen sahen in ihnen einheitliche Werke, Produkte der dichterischen Inspiration eines einzelnen Individuums. Die Oral–Poetry–Forschung lieferte neue methodische Zugänge zu einer genaueren Kenntnis der technischen Aspekte der Komposition epischer Gedichte der archaischen Zeit, die eine unmittelbare Auswirkung auf die Deutung von Hesiods Dichtung hatten, besonders im Hinblick auf die Sprache und Formelhaftigkeit der Diktion. Die erweiterte Kenntnis der Literaturen des Vorderen Orient ermöglichte schließlich eine neue Sicht auf Theogonie und Werke und Tage aus komparatistischer Perspektive.3 Hesiods Gedichte sind hexametrische epische Dichtung, in der der Mythos als Dominante (Theogonie, Frauenkatalog, Aspis) oder Subdominante (Werke) präsent ist. Jeder Versuch, Hesiods Werke unter formalen und inhaltlichen Kriterien enger einzugrenzen, muß fehlschlagen. In einer mythologischen Erzählung wird auf einer exemplarischen Ebene die Erfahrung einer Gemeinschaft
|| [Capitolo di storia letteraria, scritto a quattro mani con Andrea Ercolani (ma il § 5.4 Hesiods Erzähltechnik è stato scritto da Antonios Rengakos e non viene qui riprodotto); pubblicato postumo in B. Zimmermann (Hrsg.), Handbuch der griechischen Literatur der Antike, I, Die Literatur der archaischen und klassischen Zeit, München, Verlag C. H. Beck, 2011, pp. 78– 100, 110–123] 1 Theogonia Hesiodea, Halle 1783 (mit den Bemerkungen C. G. HEYNES). 2 Zur Forschungstätigkeit in früherer Zeit vgl. J. A. FABRICIUS, Bibliotheca Graeca, I, Hamburg 1790, 567–617. 3 Einen Überblick über Hesiods Werke unter Einbeziehung der Forschungsdiskussion bietet MOST (2006) XI–LXXV; vgl. auch SCHWABL (1970) 461 ff.; zur Homer–Forschung s. S. 54 ff. https://doi.org/10.1515/9783110648126-015
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reflektiert, wobei diese Erfahrung unterschiedliche Ausprägungen haben kann: historische im eigentlichen Sinne, soziale, religiöse, ethisch–moralische, technische, usw. Unter diesem Gesichtspunkt ist Mythos ein allumfassendes Konzept, das die heroische Tat ebenso wie Weisheitserfahrung, kosmogonische Konzeptionen ebenso wie die Theodizee–Problematik oder die Begründung der geschichtlichen und politischen Gegenwart durch genealogische oder aitiologische Verankerung in der Vergangenheit umfaßt. Im Epos, das in der frühen archaischen Zeit der wichtigste Überlieferungsträger des Mythos ist, wird der Mythos in eine literarische Form gebracht. Hesiod ist aus dieser Sicht in derselben Weise wie Homer ein epischer Dichter im vollen Wortsinn. Jede Behandlung archaischer epischer Dichtung muß die diachrone Entwicklung berücksichtigen. Das Epos durchlief Phasen der Komposition und Evolution innerhalb einer weiten Zeitspanne, in der sich das soziale und kulturelle Umfeld der Verfasser und Rezipienten und vor allem das Kommunikationssystem, das von den ,dunklen Jahrhunderten‘ bis zur archaischen Zeit auch nach der Einführung der Schrift von der mündlichen Vermittlung von Dichtung bestimmt war, ständig veränderten. Eine Kultur wird mündlich genannt, wenn sie den Gebrauch der Schrift nicht kennt. Betrachtet man die drei für Dichtung konstitutiven Phasen der Komposition, Veröffentlichung und Überlieferung,4 wird Literatur5 als mündlich definiert (,primäre Mündlichkeit‘), wenn gleichzeitig folgende Bedingungen erfüllt sind: 1. mündliche Komposition; 2. mündliche ,Veröffentlichung‘, als mündlicher Vortrag vor einem Publikum verstanden; 3. Mündliche Überlieferung des Texts ohne schriftliche Fixierung. Wenn dagegen Komposition, Veröffentlichung und Überlieferung der Schrift anvertraut werden, wird dies als schriftliche Kultur (,literacy‘) definiert. Eine Kultur wird als ,aural‘ definiert (ONG 1970), wenn sie sich bei der Komposition und Überlieferung der Schrift bedient, die Veröffentlichung und Verbreitung der Dichtungen aber mündlich bleibt. Die älteste uns bekannte historische Phase Griechenlands, die mykenische Zeit, kennt eine Form von Silbenschrift (Linear B). Es wäre jedoch falsch, für diese Zeit von einer schriftlichen Kultur zu sprechen, da die Verwendung der Schrift auf den Bereich des Palastes beschränkt war und allein der Archivierung und Buchführung diente.6 Die folgende Epoche der ,dunklen Jahrhunderte‘
|| 4 Vgl. R. FINNEGAN, Oral Poetry: Its Nature, Significance and Social Context, Cambridge 1977, 16–24. 5 Unter ,Literatur‘ wird die Ausarbeitung einer Erzählung in Form eines Textes verstanden, wobei die schriftliche Fixierung keine Rolle spielt. 6 Die Schrift war kein Kommunikationsmittel, sondern Archivierungswerkzeug, wie die Schreibmaterialien (Tontäfelchen, die zum Transport wenig geeignet waren und nur eine begrenzte Textmasse aufnehmen konnten) und die Typologie der Schrift selbst (Silbenschrift, die auf eine größere Zahl von Zeichen zurückgriff und aufgrund der Auslassung vokalischer Notierung oft nicht eindeutig war) belegen. Die Existenz einer spezialisierten Klasse von
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zeichnet sich durch eine vollständige Mündlichkeit aus. Zwischen dieser Phase einer primären Mündlichkeit, in der Komposition, Veröffentlichung und Überlieferung der Dichtung dem gesprochen Wort und dem Gedächtnis anvertraut waren, und der relativ homogenen schriftlichen Kultur, wie man sie ab dem ausgehenden 5. Jh. v. Chr. kennt, gab es eine lange Übergangszeit, in der man sich zur Komposition und Überlieferung zunehmend der Schrift bediente, die Veröffentlichung und Verbreitung des Texts aber mündlich blieben und weiterhin dem Vortrag vor einem Publikum anvertraut waren (,performance‘).7
Die hesiodeische Dichtung entstand, selbst wenn man eine Datierung ins 7. Jh. v. Chr. annimmt, in einer Kultur, in der Mündlichkeit das vorherrschende Medium der Tradition war. Auch wenn für die Komposition mit großer Wahrscheinlichkeit – jedenfalls teilweise – auf die Schrift zurückgegriffen wurde,8 erfolgten Veröffentlichung und Verbreitung eines Textes durch Rezitation vor einem Publikum. Es ist unvermeidlich, daß sich die mündliche Form der Verbreitung auch auf den Text der Dichtungen selbst auswirkt, der in einem gewissen Maße flexibel und fluktuierend und noch nicht in einem festen Modell verankert ist. Da das bei dem Vortrag anwesende Publikum jedesmal unterschiedlich ist, muß sich die epische Rezitation tendenziell eher den Erwartungen des Publikums anpassen als einem ,Urtext‘ treu bleiben. Mit der mündlichen Verbreitung ist bei Hesiod ebenso wie bei Homer die Frage nach der Einheit der Texte und Originalität des Dichters verbunden. Wer nach Einheit in den epischen Dichtungen der archaischen Zeit sucht, läuft Gefahr, einen uns vertrauten Begriff, nach dem Einheit als eine durchkomponierte, unveränderliche, von einem Autor festgelegten Textform verstanden wird, auf eine Kultur zu übertragen, die diese Vorstellung weder in der Praxis noch in der Theorie kannte. Die Vielfalt der Anlässe der einzelnen Rezitationen machte eine Auswahl von Episoden erforderlich, die je nach der Zusammensetzung des Publikums zu Varianten im Text führte. Den deutlichsten Hinweis auf diese Praxis liefert das Proömium der Odyssee: der Sänger bittet die Muse „irgendwo“, „an irgendeinem Punkt“ (10 ἁμόθεν) anzufangen. Dies ist gleichbedeutend mit der Forderung, aus mehreren Möglichkeiten eine einzelne Episode oder narrative
|| Schreibern zeigt darüber hinaus, daß die Verwendung der Schrift außerhalb des Palastes nicht allgemein verbreitet und das kommunikative System überwiegend, wenn nicht sogar vollständig, mündlich war. 7 Zum Kommunikationssystem in Griechenland bis zum 4. Jh. v. Chr. grundlegend E. A. HAVELOCK, Preface to Plato, Cambridge (Mass.) 1963. 8 DIHLE (1970) 120–143; E. A. HAVELOCK, Thoughtful Hesiod, YClS 20 (1966) 59–72.
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Einheit zu wählen.9 Die Dichter schöpften gleichsam aus einem epischen Reservoir, aus einer Vielzahl von mythischen Episoden, die sie zu je neuen Werken zusammenfügten, die somit eine je neue Form und Einheit gewannen (s. S. 86 zur Theogonie). Die ,Einheit‘, wenn man den Begriff denn verwenden will, kam durch den Aufführungszusammenhang, den ,Sitz im Leben‘ zustande, und die Originalität des Dichters oder Sängers bestand darin, ständig neue, der jeweiligen Aufführungssituation angepaßte Variationen zu einem Thema zu kreieren und den traditionellen Stoff ständig neu zu arrangieren.10
5.2 Leben Auch wenn viele Nachrichten der antiken biographischen Tradition über Hesiod in ihrer Zuverlässigkeit fraglich sind, ist doch die Historizität Hesiods durch die in seinen Werken enthaltenen autobiographischen Informationen gesichert, die in der Forschung allerdings teilweise11 oder ganz12 in Zweifel gezogen wurden. Hesiod (Ἡσίοδος, äol. Αἰσίοδος, böot. Εἰσίοδος)13 ist der erste uns bekannte Autor der griechischen Literatur. Hesiods Familie stammte aus dem äolischen Kyme. Um der Verarmung zu entgehen, emigrierte sie nach Askra, einem böotischen Ort in der Nähe von Thespiai (op. 630–640).14 Hesiod war in einen Streit
|| 9 L. E. ROSSI, L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in: G. ARRIGHETTI/M. TULLI (Hgg.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Pisa 2000, 17–29; ders., On the Written Redaction of Archaic Greek Epic Poetry, SO 76 (2001) 103–112. 10 Methodisch wichtige Bemerkungen dazu bei E. KRUMMEN, Pyrsos Hymnon. Festliche Gegenwart und mythisch–rituelle Tradition bei Pindar, Berlin – New York 1990, 1–30 (zu der Einheitsdiskussion der Pindarforschung). 11 Z. B. R. LAMBERTON, Hesiod, New Haven – London 1988. 12 G. NAGY, Hesiod and the Ancient Biographical Traditions, in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 271–311. 13 Die Annahme, daß ,Hesiodos’ (theog. 22) ein sprechender Name sei (ἱεὶς ὠδήν „derjenige, der den Gesang von sich gibt“, d. h. „der Sänger“: F. G. WELCKER, Die Hesiodeische Theogonie, Elberfeld 1865, 5; Αἰσίοδος < αἶσα d. h. ὁ τὴν αἶσίαν ὁδὸν πορευόμενος, „derjenige, der den Weg des Gesangs verfolgt“: W. PAPE/G. BENSELER, Wörterbuch der griechischen Eigennamen, I, Braunschweig 1911, 40; F. BECHTEL, Die historischen Personennamen des Griechischen bis zur Kaiserzeit, Halle 1917, 29), bedeutet nicht unbedingt, daß er eine fiktive Figur ist, da die griechischen Eigennamen alle mehr oder weniger ,sprechende‘ Namen sind. Zu der Hypothese von Hesiod als ,sprechendem Namen‘ vgl. G. NAGY, Hesiod and the Poetics of Pan–Hellenism, in: ders., Greek Mythology and Poetics, Ithaca 1990, 36–82, weitere Literatur bei H. MEIER– BRÜGGER, Zu Hesiods Namen, Glotta 68 (1990) 62–67. 14 Der Name des Vaters soll Dios gewesen sein (z. B. Certamen 4, Suda η 583), man sah einen Bezug auf ihn in op. 299 (δῖον γένος); SCHMID (1929) 249, Anm. 1. Zum historischen, archäolo-
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mit seinem Bruder Perses um das väterliche Erbe verwickelt (op. 27–29).15 Er reiste zur See nach Chalkis auf Euböa, um an den Leichenspielen zu Ehren des Amphidamas teilzunehmen (op. 650–659). In einer Art Legitimierung seines Gesangs stellt sich Hesiod in seiner ,Berufung zum Dichter‘ (theog. 22–25) als einen nicht–professionellen epischen Dichter dar. Die älteste antike Überlieferung zu Hesiods Leben ist im Certamen Homeri et Hesiodi, in dem Wettstreit zwischen Homer und Hesiod, zu finden, von dem eine Version aus hadrianischer Zeit (2. Jh. n. Chr.) erhalten ist (s. S. 13 f.). Das Certamen ist von grundlegender Bedeutung sowohl für die Kanonisierungstendenzen der antiken Literaturkritik, die in Homer und Hesiod die epischen Dichter schlechthin sah,16 als auch für die Rezeptionsgeschichte des hesiodeischen Texts (s. S. 117 ff.). Die zweite Linie biographischer Überlieferung wird durch die Vitae repräsentiert, die in der Regel Nachrichten autoschediastischen Charakters mit verschiedenen Anekdoten verbinden.17 Die wichtigsten erhaltenen Texte sind:18 (1) Papyrus Flinders Petrie XXV1 (Nr. 9); (2) Tzetzae vita Hesiodi (Nr. 10): Es handelt sich um biographisches Material, das Iohannes Tzetzes (ca. 1110–1185) gesammelt und als Einleitung seiner Edition von Hesiods Werken vorausgeschickt hat. Die Informationen stammen hauptsächlich aus Proklos, der sich seinerseits an Plutarch und dem Certamen orientiert; (3) Vita Hesychii e Suida (Nr. 11 = Suda η 583).19 Weitere Nachrichten finden sich in zahlreichen Passagen verschiedener Autoren, die nicht im einzelnen aufgelistet werden können (Sammlung der Testimonien bei JACOBY 1930 und MOST 2006, 154–281).20
|| gischen und kulturellen Hintergrund von Askra vgl. A. T. EDWARDS, Hesiod’s Ascra, Berkeley – Los Angeles – London 2004. 15 Zu diesem Punkt, mit jeweils unterschiedlichen Rekonstruktionen, vgl. SCHMID (1929) 251 mit Anm. 4; J. LATIMER, Perses versus Hesiod, TAPhA, 61 (1930) 70–79; B. A. VAN GRONINGEN, Hésiode et Persès, Amsterdam 1957, 4 ff.; WILL (1957); VERDENIUS (1962) 160 f.; WILL (1965); M. SKAFTE JENSEN, Tradition and Individuality in Hesiod’s Works and Days, CM 27 (1966) 1–27; VERDENIUS (1985) ad 28 und 35, und neulich MARSILIO (2000) 1–13 und 43–54. 16 Das wird deutlich auch aus der Bemerkung Herodots (2,53,2) und den Versuchen, Homer durch Verwandtschaftsbande mit Hesiod zu verbinden (z. B. Suda η 583). 17 Vgl. M. LEFKOWITZ, The Lifes of the Greek Poets, London 1981, 1–11. 18 In der Numerierung von U. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Vitae Homeri et Hesiodi, Berlin 1929. 19 Eine im cod. Parisinus gr. 425, 19v–20r enthaltene vita Hesiodi ist publiziert worden von T. JANZ, Un manuscrit méconnu d’Hésiode et son histoire: le Paris. gr. 425, Scriptorium 56 (2002) 7 f. 20 Genannt seien wenigstens Aristot. Fr. 75 und 524 ROSE, Paus. 9,31,3–5 und 9,38,3–4, Plut. mor. 162 b–f und Lukians Dialog mit Hesiod. Erhalten sind Inschriften mit der Nennung von Hesiod: z. B. IG VII, 4240b–c, IG XII.5, 444. Es gibt eine Reihe ihm gewidmeter Epigramme: Anth. Pal. 7,52–55, 9,64.161.572. Zu den von der Theorie der Metempsychosis beeinflußten Nachrichten über Hesiods Leben vgl. R. SCODEL, Hesiod redivivus, GRBS 21 (1980) 301–320.
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Die antiken Quellen liefern für Hesiod keine sicheren chronologischen Hinweise: Einige hielten Hesiod für älter als Homer, andere für seinen Zeitgenossen, wieder andere für später.21 Die moderne Forschung setzte gemeinhin Hesiod nach Homer an und sieht aufgrund des in seinen Gedichten gespiegelten sozialen und kulturellen Umfelds die wahrscheinlichste Periode für seine zeitliche Einordnung meist in der ersten Hälfte des 7. Jh. Die communis opinio hinsichtlich der relativen Datierung ist allerdings in den letzten Jahren durch WEST (1966, 46 ff.), der die Ilias in die Mitte des 7. Jh. setzt, erschüttert worden (s. S. 28). Die Theogonie entstand nach West zwischen 730 und 690 v. Chr. Die Erwähnung der Spiele für Amphidamas (op. 654) könnte einen genaueren chronologischen Anhaltspunkt bieten: Amphidamas soll während des lelantischen Krieges zwischen Chalkis und Eretria gestorben sein (Plut. mor. 153 f.), bei dessen zeitlicher Einordnung (um 700 v. Chr.) allerdings eine Unsicherheit von einigen Jahrzehnten bleibt.22
5.3 Werk Das unter Hesiods Namen überlieferte Corpus besteht aus unterschiedlichen Gedichten, deren Echtheit teilweise schon im Altertum angezweifelt wurde. Für hesiodeisch werden übereinstimmend nur Theogonie und Werke und Tage gehalten. Der Frauenkatalog – oder wenigstens ein ursprünglicher Kern – gilt gemeinhin für authentisch.23
|| 21 Z. B. Suda η 583, Gell. 3,11,1; vgl. auch Ephoros, FGrH 70 F101b, 102a. 22 Vgl. MAZON (1914) 137 f. und JANKO (1982) 94–98; die Chronologie ist ganz unsicher, vgl. A. BRELICH, Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica, Bonn 1964. Zu den Versuchen, eine zuverlässige Chronologie auf der Basis archäoastronomischer Untersuchungen zu erstellen, ausgehend von den Angaben zur Sichtbarkeit des Arkturos am Horizont (op. 564 ff.), vgl. ALLEN (1915) 92 und 96–99 sowie M. E. DEHOUSSE, Détermination astronomique du temps d’Hésiode, CielTerre 89 (1973) 38–44; ders., An Astronomical Determination of the Time of Hesiod, Mankind Quarterly 24 (1983) 439–445. 23 Zu den narratologischen Aspekten in den verschiedenen Werken Hesiods, die hier nicht ausgeführt werden, vgl. RENGAKOS (2009) sowie S. 101 ff. Viele der im folgenden behandelten Aspekte werden auch in F. BLAISE/P. JUDET DE LA COMBE/P. ROUSSEAU (Hgg.), Le métier du mythe. Lectures d’Hésiode, Lille 1996 diskutiert.
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5.3.1 Theogonie Die Theogonie24 erzählt in einer relativ kohärenten Systematisierung die Geschichte der Götter von ihren Anfängen bis zur letzten Phase, der endgültigen Gründung der Herrschaft des Zeus, die der Abfolge der Götter ein Ende setzt. Die Erzählung konzentriert sich um zwei Hauptkerne: (1) der Kosmos und der Ursprung der Götter (mit ihren aufeinanderfolgenden Generationen); (2) die Abfolge der Götter (d. h. der Bericht über die Konflikte zwischen den Göttern verschiedener Generationen um die Herrschaft). Innerhalb dieser Erzählstränge werden einzelne Mythen unterschiedlicher Natur und Typologie eingefügt: Gründungsmythen, aitiologische Mythen, Verwandlungsmythen, Genealogien, Kataloge.25 Die Theogonie wird allgemein als Hesiods ältestes Werk angesehen.26 Sie hat für die Geschichte der griechischen Literatur eine herausragende Bedeutung, da sie die einzige archaische Dichtung ihrer Art ist, die in direkter Überlieferung erhalten ist. Andere Werke ähnlichen Inhalts, von denen wir Kenntnis haben,
|| 24 Spuren theogonischen und/oder kosmogonischen Inhalts finden sich auch bei Homer, wo es sich jedoch um sekundäre Aspekte handelt (Il. 8,479–481: Iapetos und Kronos; 14, 203 f.: Kronos; 14,302: Okeanos und Tethys; 15,185–199: Aufteilung des Universums unter den Söhnen des Kronos). Zu den kosmogonischen Vorstellungen im homerischen und hesiodeischen Epos vgl. G. ARRIGHETTI, Cosmologia mitica di Omero e Esiodo, in: ders. (Hg.), Esiodo. Letture critiche, Milano 1975, 146–213. 25 Vgl. z. B. theog. 154–210: In aitiologischer Art wird der Ursprung des Namens ,Aphrodite‘ von ,Schaum‘ abgeleitet; ihr kultischer Beinamen ,Urania‘ wird als ,Tochter des Uranos‘ erklärt, ,Kythereia‘ als ,gelandet auf der Insel Kythera‘; ,Kyprogenes‘ als ,geboren auf der Insel Kypros‘, ,Philommedes‘ als ,geboren aus Genitalien‘. Daneben finden sich Spuren eines Verwandlungsmythos (der Samen des Uranos entspricht dem Schaum des Meeres); vgl. W. HANSEN, Foam–born Aphrodite and the Mythology of Transformation, AJPh 121 (2000) 2–18. Ein Gründungsmythos ist vielleicht in theog. 1001 zu sehen: Medeios als eponymer Heros des Stamms der Meder. Katalogpassagen sind theog. 11 ff., 76–79 (Musen), 240–264 (Nereiden), 337–345 (Flüsse), 346–362 (Okeanostöchter), 720–819 (der Tartaros und seine Bewohner; die Katalogelemente sind eingeleitet durch ἔνθα [729.734.736.758.767.775. 807]), 881–944 (die Gattinen des Zeus). 26 Diese Annahme stützt sich allerdings auf einen Zirkelschluß: Da Hesiod in op. 654–657 berichtet, er sei nach Chalkis auf Euböa gereist und habe dort eines seiner Gedichte vorgetragen, vermutete man, daß es sich bei diesem Gedicht nur um die Theogonie handeln könne. Es versteht sich von selbst, daß ein solches Argument alles andere als zwingend ist, auch wenn es oft widerspruchslos angenommen wird; vgl. zuletzt MARSILIO (2000) 44 und 81 Anm. 158 mit Hinweis auf WEST (1966) 44–46. In op. sind Anspielungen auf theog. gesehen worden, die die Priorität der theog. beweisen sollten: op. 11 spiele auf theog. 225 an, op. 48 auf theog. 538–541, op. 659 auf das Proömium der theog., so z. B. VERDENIUS (1985) 15 (ad 11).
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sind entweder ganz verlorengegangen oder nur in wenigen Fragmenten erhalten.27 Der Titel informiert, wie im Altertum üblich,28 direkt über den Inhalt, die Geburt der Götter mit den damit verbundenen Ereignissen, und wurde dem hesiodeischen Werk wahrscheinlich von der alexandrinischen Philologie verliehen.29 Inhalt und Aufbau: Proömium (1–115) Die ersten Wesen: Chaos, Gaia, Eros (116–122) Die erste Generation der Götter (123–210) Die Kinder des Chaos und ihre Nachkommen (123–125) Die Kinder der Gaia, durch Parthenogenese und in Verbindung mit Uranos (126–153) Die Abfolge der Götter: die Kastration des Uranos und die Geburt der Aphrodite (154– 210) Die zweite Generation der Götter (211–239) Die Kinder der Nacht (Nyx), einschließlich Eris und ihrer Nachkommen (211–232) Die Kinder des Pontos (233–239) Die dritte Generation der Götter (240–885) Nereus und seine Nachkommen (240–264) Thaumas und seine Nachkommen (265–269) Die Nachkommen von Phorkys und Keto (270–336) Die Kinder von Tethys und Okeanos (337–370) Die Kinder von Theia und Hyperion (371–374) Die Kinder von Kreios und Eurybia (375–388) Styx und seine Nachkommen (389–403) Die Nachkommen von Phoibe und Koios, einschließlich Hekate (404–452) ,Hymnos‘ auf Hekate (414–452) Die Nachkommen von Kronos und Rhea (453–458) Die Abfolge der Götter: Kronos wird überlistet; die Geburt des Zeus (459–506) Die Nachkommen von Iapetos (Titanen, Prometheus) (507–616) Die Abfolge der Götter: die Titanomachie (617–731) Der Tartaros und seine Bewohner (732–819)
|| 27 Andere Werke ähnlichen Inhalts sind nach den antiken Quellen: eine Theogonie des Musaios (2 A 4; 2 B 1 ff. DK), ein kosmogonisches Gedicht des Epimenides von Kreta (6. Jh. v. Chr.; 3 A 1 DK), in dem die ersten Ursprünge Ἀήρ (,Luft‘) und Νύξ (,Nacht‘) waren, eine Theogonie in Prosa des Pherekydes von Syros (6. Jh. v. Chr.; vgl. 7 B 1 DK). Wir wissen durch Photios (Bibliothek, cod. 239, p. 318b, Z. 22 ff.), daß der Epische Kyklos mit einem theogonischen Gedicht begann. Erhalten sind außerdem die Fragmente der Orpheus zugeschriebenen Theogonien (vgl. 1 A 1 DK; Fr. 1–378 BERNABÉ). HÖLSCHER (1968) kommt zu dem Schluß, daß alle diese verschiedenen Theogonien unabhängige Traditionen repräsentieren. 28 Vgl. E. SCHMALZRIEDT, ΠΕΡΙ ΦϒΣΕΩΣ. Zur Frügeschichte der Buchtitel, München 1970. 29 Die erste Bezeugung des Titels Θεογονία findet sich bei Chrysipp (z. B. Fr. 908, SVF II p. 25– 6 f.).
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Die Abfolge der Götter: Typhoeus (820–868) Die Nachkommen von Typhoeus (869–880) Die Abfolge der Götter: Zeus festigt seine Herrschaft (881–885) Die vierte Generation der Götter (886–962) Die Gattinnen des Zeus und seine Nachkommen (886–929) Poseidon und seine Nachkommen (930–933) Die Nachkommen von Ares und Aphrodite (933–937) Andere Verbindungen der Götter (938–962) Zweites Proömium (963–968) Verbindungen von Göttinnen und Sterblichen (969–1018) Drittes Proömium und Überleitung zum Katalogos (1019–1022)
Für den narrativen Aufbau der Theogonie ist die Bedeutung der abschließenden Verse 1019–1022 hervorzuheben: Während die Theogonie mit Vers 1019 f. endet, schlagen die folgenden Verse eine Brücke zum Katalogos (s. S. 94 ff.). In der Forschung wurden diese letzten Verse für unecht gehalten30 und als eine spätere redaktionelle Ergänzung betrachtet, die darauf abziele, den mythischen Stoff der Welt der Götter mit den Taten der Heroen in einem narrativen Kontinuum zu verbinden.31 Solche Scharniere, die thematisch verwandte Erzählungen verbinden, sind relativ häufig und lassen sich plausibel auf die Praxis der rhapsodischen Rezitation zurückführen, die eine direkte Überleitung von einem Thema zum nächsten verlangt, das als natürliche Folge des ersten erscheint.32 Einflüsse altorientalischer Mythologie und Literatur: Die Mythen der aufeinander folgenden Göttergeschlechter der Theogonie haben besonders enge Beziehun-
|| 30 Mit seltenen Ausnahmen (z. B. ALY in der Ausgabe von 1913) athetiert die Mehrheit der Editoren seit WOLF (1783, ad 1020) die Verse, in dessen Nachfolge die späteren Herausgeber stehen. 31 Die Theogonie endet in P13 (= P.S.I. 1191 + P. Oxy 2639), aus dem 2.–5. Jh. v. Chr. mit dem Kolophon ησιοδου θεογονια nach 1020. In vielen Handschriften sind zudem die Verse 1021– 1022 von anderer Hand hinzugefügt oder durch eine Lücke von V. 1020 getrennt. Für eine mögliche Erklärung der Hinzufügung mit ausführlicher Diskussion dieser Verse vgl. SCHWARTZ (1960) 435; WEST (1966) 48 f. und 437 (ad 1019 ff.). Wo die ,ursprüngliche‘ Theogonie endete, ist umstritten, vgl. z. B. die Standpunkte von WEST (1966) 397–399 und M. D. NORTHRUP, Where Did the Theogony End?, SO 58 (1983) 7–13. Man vergleiche das unten S. 89 Anm. 49 diskutierte Ende der op. und ferner das Ende von Hom. Il. 24, wo nach dem Scholion zu V. 804a zum Kyklos übergeleitet wurde. 32 Vgl. die Gedichte des Kyklos in der Zusammenfassung des Proklos, die höchstwahrscheinlich redaktionell verbunden waren, um entsprechend der agonalen rhapsodischen Praxis ein Kontinuum zu bilden, vgl. J. S. BURGESS, The Tradition of the Trojan War in Homer and the Epic Cycle, Baltimore – London 2001, 7–46.
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gen zu mythischen Traditionen des Vorderen Orients (s. S. 16 f.).33 Der Kampf zwischen verschiedenen Göttergenerationen um die Vorherrschaft, der in der Begründung einer dauerhaften kosmischen Ordnung endet, ist in erhaltenen babylonischen und hethitischen Texten ebenso präsent wie in der durch die Übersetzungen des Philon von Byblos bekannten phönizischen Tradition. Das babylonische Gedicht mit dem Titel Enûma Eliš erzählt von zwei ursprünglichen Gottheiten, Apsû und Tiâmat, der Entstehung der Götter und den aufeinander folgenden Machtkämpfen, die mit dem Sieg von Marduk über Tiâmat enden. Von diesem Gedicht sind Fragmente von über 900 Zeilen erhalten. Die Herkunft und Datierung der Fragmente ist unterschiedlich: die ältesten stammen von etwa 1000 v. Chr. Das nach einem traditionellen Typus gestaltete Gedicht ist jedoch sicherlich noch älter, wie das sumerische kulturelle Umfeld und die akkadische Sprache, in der es überliefert ist, zeigen. In einem ohne Titel erhaltenen hethitischen Text ist, wenn auch lückenhaft, eine ältere hurritische Tradition dokumentiert, in der sich im Kampf um die Herrschaft zunächst Alalu und Anu, dann Anu und Kumarbi und schließlich Kumarbi und ein Wettergott gegenübertreten. Die Fortsetzung der Handlung ist durch einen längeren und besser erhaltenen Text bekannt, den Gesang des Ullikummi: Kumarbi versucht, den Gott des Himmels zu vernichten und zeugt mit einem Stein einen Steinriesen, Ullikummi; dieser beginnt einen Kampf gegen den Wettergott, in dem er unterliegt. Die Hurriter wurden von den Hethitern im 14. Jh. v. Chr. unterworfen. Die von den Hethitern aufgenommene mythische Tradition der Hurriter ist also unabhängig von der Datierung der Texte, die sie überliefern, ganz dem 2. vorchristlichen Jahrtausend zuzuschreiben. Philon von Byblos (1.–2. Jh. n. Chr.) liefert die griechische Übersetzung einer Phönikischen Geschichte (τὰ Φοινικικά, FGrH 790 F 1–7), die er einem gewissen Sanchuniaton zuschreibt. In Philons Erzählung wird die Folge der Göttergenerationen und Machtkämpfe mit Erzählmotiven beschrieben, die denen der hesiodeischen Theogonie ähnlich sind (Feindschaft gegen die eigenen Söhne, Kastration des Vaters, Aufteilung der Macht). Die Authentizität von Philons Bericht ist unter der Annahme, er gehe von der hesiodeischen Version aus und verbinde sie mit phönizischen Elementen, in Zweifel gezogen worden. Allerdings scheint die Übereinstimmung zwischen der phönizischen Erzählung bei Philon mit den oben beschriebenen hurritischen–hethitischen Mythen Phi-
|| 33 Zum Verhältnis zwischen den theogonischen Mythen Hesiods und nahöstlichen Traditionen vgl. A. LESKY, Zum hethitischen und griechischen Mythos, Eranos 52 (1954) 8–17; ders., Griechischer Mythos und Vorderer Orient, Saeculum 6 (1955) 35–52 (= HEITSCH 1966, 571–601); P. WALCOT, The Text of Hesiod’s Theogony and the Hittite Epic of Kumarbi, CQ 6 (1956) 198– 206; W. G. LAMBERT/P. WALCOT, A New Babylonian Theogony and Hesiod, Kadmos 4 (1965) 64– 72; WALCOT (1966); WEST (1966) 18–31 (mit Bibliographie 106 f.); HÖLSCHER (1968); L. ANDERSEN, Some Models of the Theogony of Hesiod, MT 27 (1976) 3–19; WEST (1997) 276–305; RUTHERFORD (2009).
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lons Quellenangabe zu bestätigen, so daß die von ihm überlieferte Tradition bis zum Beweis des Gegenteils als echt angesehen werden sollte.34
Mythen, die die Abfolge der Göttergenerationen und Machtkämpfe zwischen den Göttern erzählen, waren also schon lange vor Hesiod im Vorderen Orient im Umlauf: „the obvious and inescapable conclusion is that the Succession Myth came to Greece from the East“ (WEST 1966, 28). Es stellt sich die Frage, wann der kulturelle Kontakt zwischen Nahem Osten und dem griechischen Raum, der die Zirkulation dieser Mythen möglich machte, zustande kam. Die Abfolgemythen sind im Vorderen Orient seit mindestens der zweiten Hälfte des 2. vorchristlichen Jahrtausends bezeugt, und für diese Zeit ist ein intensiver kultureller Kontakt zwischen der Ägäis und dem Nahem Osten dokumentiert, der die Übernahme dieser Mythen durch die Griechen in diesem Zeitraum nahelegt. Allerdings ist auch seit dem 9. Jh. v. Chr. ein wachsender wirtschaftlicher und kultureller Austausch im Mittelmeerraum bezeugt, besonders zwischen den Phöniziern und den Griechen aus Euböa. Die Aneignung einiger mythischer orientalischer Segmente ließe sich – so vor allem BURKERT (1984) – also auch in diese Epoche einordnen. Dagegen könnte man anführen, daß die Mythen der hesiodeischen Theogonie in der Form eines ziemlich kohärenten Systems dargeboten werden, das eine längere Phase der Aneignung und Bearbeitung voraussetzt und direkt auf die mykenische Zeit weist (KIRK 1962, 90; WEST 1966, 28 f.). Die Kontinuität zwischen mythischen Traditionen der Hocharchaik und der mykenischen Zeit ist nicht von der Hand zuweisen,35 die kultische Verehrung einiger Gottheiten besteht ohne Kontinuitätsbruch seit der mykenischen Zeit fort wie z. B. der Zeuskult auf dem kretischen Berg Dikte (KN Fp 13 di–ka–ta–jo di–we, Dativ δικταίῳ Διί:, ,dem Zeus von Dikte‘). Im hesiodeischen Mythos ist Zeus auf der Insel Kreta geboren und aufgewachsen (theog. 468–484; WEST 1997, 1–9).
Ein anderes Problem ist die Frage, ob und in welchem Maße Hesiods Theogonie individuelle innovative Elemente enthält. Nach einem Teil der Forschung, der vor allem durch WEST (1966, 34 f.) repräsentiert wird, gehen alle Aspekte des Mythos, die als ,nicht traditionell‘ angesehen werden können, auf Hesiod zurück. Dies betreffe vor allem die Herstellung von verwandtschaftlichen und nachbarschaftlichen Bezügen zwischen wesensverwandten Gottheiten, die dem Dichter nicht durch kultische Praxis vorgegeben worden seien. Ohne die Möglichkeit solcher originärer Erfindungen ausschließen zu wollen, erscheint es jedoch als eine petitio principii, jeden nicht aus anderen Quellen bekannten
|| 34 HÖLSCHER (1968), S. RIBICHINI, Rileggendo Filone di Biblo. Questioni di sincretismo nei culti fenici, in: C. BONNET/A. MOTTE (Hgg.), Les syncrétismes religieux dans le monde méditerranéen antique, Bruxelles – Roma 1999, 149–177. 35 So schon M.P. NILSSON, The Mycenaean Origin of Greek Mythology, Los Angeles 1928 und ders., The Minoan–Mycenaean Religion and Its Survival in Greek Religion, Lund 1950.
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Aspekt in Hesiods Werk eigener Innovation des Dichters zuzuschreiben.36 An eine individuelle Erfindung Hesiods sollte man wohl weniger bei der Stoffindung denken als bei der Anordnung dieses Stoffs zu einem relativ kohärenten Ganzen. Wenn hinter Hesiod wie hinter Homer eine frühere epische Tradition steht, die im Lauf der Generationen immer reicher ausgebaut wurde, dann dürfte die wichtigste Leistung Hesiods in der Form der Darstellung und der Anordnung des Stoffs, also in der narrativen Technik (s. S. 101 ff.), bestanden haben. Das Proömium (1–115): Das den Musen gewidmete Proömium der Theogonie folgt teilweise der formalen Struktur eines Hymnos. Die adhortative Selbstanrede oder –ermunterung in V. 36 τύνη, Μουσάων ἀρχώμεθα („gut, laßt uns bei den Musen anfangen“) und die relativische Prädikation, die die Vorrechte und Aufgaben der Musen erklärt (36 ff.), sind Darstellungselemente, die syntaktische und inhaltliche Parallelen in den homerischen Hymnen aufweisen.37 Ein Vergleich der Verse 1–34 mit 35–115 legt den Verdacht nahe, daß es sich um eine Dublette handelt (s. jedoch S. 102 f.). V. 1 Μουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ’ ἀείδειν und V. 36 τύνη, Μουσάων ἀρχώμεθα κτλ. sind eindeutig zwei Eröffnungen, wie V. 33 f. und 104–115 zwei Schlußwendungen sind. Für diese Besonderheit des Proömiums der Theogonie sind zwei verschiedene Erklärungen vorgeschlagen worden: (1) Es handle sich um ein im wesentlichen einheitliches, aber zweigeteiltes Proömium, dessen besondere Struktur auf dem innovativen Anspruch Hesiods gegenüber der Gattungstradition beruhe. Hesiod habe dem Proömium eine persönliche Prägung geben und so die Originalität des Werks betonen wollen: Deshalb habe er auf einen ersten Abschnitt ,autobiographischer‘ Art (die ,Dichterweihe‘) eine zweite, traditionelle Einleitung folgen lassen.38 (2) Die V. 1–115 repräsentierten nicht ein einheitliches Proömium; vielmehr seien sie zwei ursprünglich getrennte und dann redaktionell in einem einzigen Corpus zusammengestellte Proömien.39
|| 36 Das methodische Problem dieser Auffassung besteht darin, daß wir, um zu klären, was dem Dichter bekannt war und was nicht, nur die uns zur Verfügung stehenden Quellen befragen können, die zum großen Teil literarisch und nur in weit geringerem Umfang epigraphisch oder archäologisch sind und deshalb ein äußerst partielles Bild vermitteln. Insgesamt ist die Vorstellung von Hesiod als Innovator jedoch ziemlich verbreitet; vgl. vor allem K. VON FRITZ, Das Hesiodeische in den Werken Hesiods, in: Hésiode (1962) 1–60 und F. R. ADRADOS, Las fuentes de Hesíodo y la composición de sus poemas, Emerita 54 (1986) 1–36. 37 Z. B. die homerischen Hymnen auf Apollon 1 ff. und Demeter 1 ff. 38 So z. B. P. FRIEDLÄNDER, Das Proömium von Hesiods Theogonie, Hermes 49 (1914) 1–16 (= HEITSCH 1966, 277–294); K. VON FRITZ, Das Proömium der hesiodeischen Theogonie, in: Festschrift Bruno SNELL, München 1056, 29–45; G. ARRIGHETTI, Esiodo. Teogonia, Milano 1984, 129f.; P. PUCCI, Inno alle Muse (Esiodo, Teogonia, 1–115), Pisa – Roma 2008. 39 Es ist sogar vermutet worden, daß die Theogonie in ihrer ganzen ,ursprünglichen’ Form, d. h. die V. 1–963, ein Präludium zu einem anderen Gedicht gebildet habe, so G. NAGY, Hesiod, in:
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Diese zweite, analytische Position stützt sich auch auf religionsgeschichtliche Überlegungen: das erste Proömium ist den helikonischen (1 Μουσάων Ἑλικωνιάδων), das zweite den olympischen Musen (37 ἐντὸς Ὀλύμπου) gewidmet, was auf einer historischen Ebene unterschiedliche kultische Bezugspunkte und religiöse Traditionen durchscheinen lasse, die nur schwer in einem einheitlichen Werk hätten nebeneinander stehen könnten.40 Die Hypothese von zwei unabhängigen Proömien scheint besser mit der Kommunikationssituation vereinbar, in der das archaische Epos angesiedelt war. Epen wurden zu bestimmten, jedes Mal unterschiedlichen Gelegenheiten vorgetragen. Besonders für den Beginn des Vortrags wurde der Sänger stark von dem Anlaß beeinflußt, bei dem er ein Gedicht vortrug. Daß die Theogonie anläßlich rhapsodischer Agone aufgeführt worden ist, scheint angesichts interner Indizien wahrscheinlich: Man denke an das Zepter (σκῆπτρον 30), das die Musen Hesiod überreichen, um seinen Gesang vorzutragen. Wenn man also unter Berücksichtigung des Aufführungskontexts annehmen muß, daß die Theogonie bei mehreren Gelegenheiten vor einem jeweils unterschiedlichen Publikum dargeboten wurde, erscheint die These plausibel, daß die zwei Proömien für verschiedene Gelegenheiten – als autonome Gebilde und voneinander unabhängig – verfaßt wurden. Ob von Hesiod selbst oder von einem anonymen Rhapsoden in seiner Nachfolge, ist dabei von untergeordneter Bedeutung. Erst später wurden sie dann redaktionell zu einem einzigen, aber nicht einheitlichen Gebilde verbunden. Dieser redaktionelle Vorgang könnte schon in relativ früher Zeit stattgefunden haben. Dem Vortragenden wäre die Wahl zwischen den beiden Proömien anheimgestellt gewesen. Es ist zu berücksichtigen, daß ein Rhapsode bis mindestens zur ersten Hälfte des 6. Jh. nicht einfach Texte wiederholte, die er Wort für Wort auswendig gelernt hatte, sondern einen großen gestalterischen Freiraum hatte. Man könnte somit vermuten, daß die überlieferte Textfassung auf einer Art von ,Notizheft‘ für den rhapsodischen Vortrag zurückgeht. Man sollte außerdem bedenken, daß auch andere Passagen der Theogonie in das Werk, das wir besitzen, eingebaut worden zu sein scheinen: 720–819 (Tartaros), 820–880 (Kampf von Zeus und Typhoeus), 886–1022 (Gattinnen des Zeus). Es handelt sich um Abschnitte, deren Echtheit und Zugehörigkeit zum Werk in Frage gestellt worden sind. 41
|| T. J. LUCE (Hg.), Ancient Writers, New York, 1982, 53 ff.; diese Hypothese scheint vor allem angesichts der ungewöhnlichen Ausdehnung, die ein solches Präludium hätte, nicht haltbar. 40 Das betonte schon O. F. GRUPPE, Über die Theogonie des Hesiods, ihr Verdärbnis und ihre ursprüngliche Gestalt, Berlin 1841, 1–62. Aber das Problem ist auch auf andere Weise gelöst worden: Der Wechsel des Beinamens der Musen kennzeichne eine Veränderung der Erzählperspektive, von einer epichorischen und lokalen zu einer allgemeinen und universalen (u. a. J. STRAUSS CLAY, Hesiod’s Cosmos, Cambridge 2003, 57). Im Proömium hat die analytische Kritik eine erhöhte Zahl von späteren Eingriffen festgestellt: z. B. W. J. C. MÜTZELL, De emendatione Theogoniae Hesiodeae, Leipzig 1833; K. LEHRS, Quaestiones epicae, Königsberg 1837, 177–252; GOETTLING (1843) passim in den Anmerkungen zum griechischen Text; ALY (1913) 25 ff. 41 So z. B. KIRK (1962) 73 ff.; speziell zu 866–1022 vgl. WEST (1966) 397–399 mit weiterer Literatur; zu den Argumenten der Vertreter der gegenteiligen Ansicht z. B. S. SAÏD, Les combats de Zeus et le problème des interpolations dans la Théogonie d’Hésiode, REG 90 (1977) 183–210.
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Wie auch immer man die Frage des Proömiums löst, besteht kein Zweifel daran, daß es einige bemerkenswerte Besonderheiten aufweist. Die explizite ,Anwesenheit des Autors‘,42 der über sich selbst spricht, ist gegenüber der homerischen Tradition ein auffallendes Novum.43 Als ,autobiographische Informationen‘ können die explizite Erwähnung von Hesiods Namen (22), die Pronomina der ersten Person (με/μοι: 24.30 f. 33.35), das Verb in der ersten Person (32: κλείοιμι) und besonders die an Hesiod gerichteten Anweisungen der Musen (33 f.) angesehen werden. Es sind die Musen, die Hesiod zu einem Sänger machen (22–34). Sie übergeben ihm ein Zepter, den Stab des Sängers (30), hauchen ihm „göttlichem Gesang“ und Wissen über Gegenwart, Vergangenheit und Zukunft ein (31 f.) und bestimmen den Stoff des Gesangs (33 f.): den Stamm der Götter „die immer sind“, und die Musen selbst, die immer zu Beginn und am Ende besungen werden müssen. Gerade in diesen Versen zeigt sich die Besonderheit des Proömiums, das nicht nur das Thema definiert und seinen Wahrheitsanspruch mit göttlicher Inspiration begründet, wie dies schon die Eröffnungsverse von Ilias und Odyssee tun, sondern sogar Hesiod allein zum Hüter des Wissens macht, indem er aus dem Schatten herausgerufen wird, der den homerischen Dichter verbirgt. Zum ersten Mal in den uns bekannten Texten tritt die Figur des Dichters in den Vordergrund, der für sich eine besondere Autorität beansprucht, die er mit dem ihm direkt von den Musen gegebenen Auftrag begründet.44 Da im archaischen Griechenland Dichtung nicht nur als eine Form der Unterhaltung (τέρψις), sondern auch als ein Aufbewahrungsort für Wissen und Erinnerung angesehen wurde, ist die Behauptung, zum Dichter berufen worden zu sein, gleichbedeutend damit, Autorität für die eigenen Worte zu beanspruchen.45
|| 42 M. GRIFFITH, Personality in Hesiod, ClAnt 2 (1983) 37–65. 43 C. CALAME, L’ispirazione delle Muse esiodee fra tradizione orale e scrittura: autenticità o convenzione letteraria?, in: G. CERRI (Hg.), Scrivere e recitare. Modelli di trasmissione del testo poetico nell’antichità e nel Medioevo, Roma 1986, 85–101. 44 Zu den hier nur angedeuteten soziopolitischen und literaturgeschichtlichen Fragen, die das Proömium aufwirft, vgl. J. SVENBRO, La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca, Torino 1974, Kapitel II mit einer Besprechung der früheren Interpretationen, die sich – im großen und ganzen – in der Vorstellung treffen, daß das Proömium die Individualität des Autors mit der Absicht hervorhebe, die Überlegenheit des Geistes über den Stoff herauszustellen, so W. LUTHER, ,Wahrheit‘ und ,Lüge‘ im ältesten Griechentum, Bonn – Leipzig 1935; K. LATTE, Hesdiods Dichterweihe, AA 2 (1946) 152–163; wieder aufgenommen z. B. von W. KRAUS, Die Auffassung des Dichterberufs im frühen Griechentums, WS 68 (1952) 65–87. 45 M. DETIENNE, Les maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris 1967; G. NAGY, Authorisation and Authorship in the Hesiodic Theogony, Ramus 21 (1992) 119–130.
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5.3.2 Werke und Tage Gattungsfrage: Die Werke und Tage46 sind das ungewöhnlichste epische Gedicht der archaischen griechischen Literatur, das sich aufgrund seiner Einzigartigkeit einer Klassifizierung zu entziehen scheint. Während andere Werke in der Art der Theogonie bezeugt sind, sind die Werke ohne Parallelen.47 Bei einem Verständnis von epischer Dichtung als Medium eines autoritativen, das kulturelle Gedächtnis einer Gesellschaft formierenden Diskurses einer mündlichen Kultur über unterschiedliche Aspekte sowohl der historischen als auch intellektuellen Erfahrung, die Kenntnisse verschiedener Art umfaßt, sind die Werke als eine Verherrlichung der mit der Erfahrung des Individuums in Arbeit und Gesellschaft verbundenen Werte erklärbar. Sie stellen eine Alternative zur Verherrlichung der heroischen und damit aristokratischen Ethik der homerischen Gedichte dar. Die Werke bieten in knapper Form Verhaltensmuster für den einzelnen innerhalb der Gesellschaft, indem sie wie die Weisheitsliteratur des Vorderen Orients moralische Erfahrung vermitteln (s. S. 91). Der soziokulturelle Kontext, in dem die Werke anzusiedeln sind, ist die bäuerliche Gesellschaft des archaischen Böotien,48 deren Lebenswelt in allen Aspekten (zwischenmenschliches Verhalten, soziale Beziehungen, Verbindung mit Institutionen, Arbeitsrhythmen und –zeiten) dargestellt und in der ihr eigenen Würde gezeigt wird. Inhalt und Aufbau: I. Werke Proömium (1–10) Die zwei Formen der Eris (11–26) Der Streit mit Perses (27–41) Prometheus und der Mythos von Pandora (42–105)
|| 46 Der Titel Ἔργα καὶ ἡμέραι ist bei Luc. Dialog mit Hesiod (6) bezeugt; in der Regel wird das Werk im Altertum als ἔργα (z. B. Plut. mor. 736e) zitiert. 47 Es finden sich höchstens einzelne vergleichbare Elemente in den homerischen Dichtungen: aus der Vergangenheit gewonnene exemplarische Geschichten wie Nestors Erzählung (Il. 11,668 ff.) oder ,theologische Lektionen‘ wie die Litai (Il. 9,502 ff.) oder Ate (Il. 19,91 ff.). Bei den späteren Texten, die gewöhnlich in der Tradition der hesiodeischen Werke gesehen werden, handelt es sich tatsächlich um typologisch verschiedene Gedichte. Kritische Reflexionen über die ,Lehrhaftigkeit‘ der Werke bei M. HEATH, Hesiod’s Didactic Poetry, CQ 35 (1985) 245–263 48 Vgl. JAEGER (1934) 89–112; WILL (1957); M. DETIENNE, Crise agraire et attitude religeuse chez Hésiode, Bruxelles 1963; WILL (1965). Zuletzt zusammenfassend M. VETTA, Esiodo e i due santuari dell’Elicona, in: M. VETTA/C. CATENACCI (Hgg.), I luoghi e la poesia nella Grecia antica, Alessandria 2006, 64–66
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Der Mythos der Zeitalter (106–201) Das goldene Zeitalter (106–126) Das silberne Zeitalter (127–142) Das bronzene Zeitalter (143–155) Das Zeitalter der Heroen (156–173) Das eiserne Zeitalter (174–201) Die Fabel von Nachtigall und Habicht (202–212) Ermahnungen an Perses (213–335) Moralische Unterweisungen (335–382) Die bäuerlichen Arbeiten (383–617) Saat und Ernte (383–404) Das Pflügen und der Herbst (405–492) Die Jahreszeiten mit ihren unterschiedlichen Arbeiten (493–617) Winter (493–563) Frühling (564–581) Sommer (582–608) Herbst (609–617) Die Schiffahrt (618–694) Das soziale Leben (695–764) Die Ehe (695–705) Die Freunde (706–716) Verhaltensregeln (717–764) II. Tage Günstige Tage (765–779) Günstige und ungünstige Tage (780–804) Günstige Tage (805–821) Neutrale Tage (822–825) Schluß (826–828)49
Die Werke bestehen in der überlieferten Form aus zwei großen thematischen Sektionen: aus den Werken, dem ersten und umfangreicheren Abschnitt, dessen Thema man mit ,Arbeitsethik‘ wiedergeben könnte, und den Tagen, einem kurzen Anhang, einer Art Kalender mit der Angabe günstiger und ungünstiger || 49 Auch im Fall der Werke scheinen die letzten Verse als Scharnier zur Verbindung mit der thematisch anschließenden Ornithomanteia gedient zu haben: Aus dem Proklos zugeschriebenen Scholion zu V. 828 erfahren wir, daß τούτοις (sc. zu diesen Schlußversen) δὲ ἐπάγουσί τινες τὴν ὀρνιθομαντείαν , ἅτινα Ἀπολλώνιος ὁ Ῥόδιος ἀθετεῖ. Vgl. ferner Paus. 9,31,5, der in seiner Liste hesiodeischer Gedichte ὅσα ἐπὶ Ἔργοις καὶ Ἡμέραις erwähnt, wie es scheint, um anzuzeigen, daß mit diesem Werk andere ἔπη verbunden waren. Außerdem endete der Text in einigen Exemplaren mit Vers 825: z. B. in P5, wo man nach μήτηρ in V. 826 die Worte ησιοδο[υ εργ]α και | [ημε]ραι liest; vgl. WEST (1978) in app. crit. ad locum; unverständlich WEST (1978) 364 ad 828, „the link between the end of the Theogony and the beginning of the Catalogue is an altogether different matter“.
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Tage. Die beiden Hauptabschnitte setzen sich aus einer Reihe von ,Themenkernen‘ zusammen, die ein inkohärentes und uneinheitliches Ganzes bilden: „die Einheit der Verse besteht wirklich nur im Titel“ (ALY 1913, 23). Die Ermahnungen an Perses, der Abschnitt über die bäuerliche Arbeit, die Beschreibung der bäuerlichen Arbeiten in den verschiedenen Jahreszeiten, die Ausführungen über die Schiffahrt, der Kalender: all dies sind Elemente, die sich nicht problemlos miteinander in Einklang bringen lassen. Die Frage der Einheit des Gedichts stellt sich also zwangsläufig. Der fehlende Zusammenhang und das Ungleichgewicht zwischen den verschiedenen Teilen ist als Ergebnis einer redaktionellen Tätigkeit, der Sammlung von disiecta membra erklärt worden.50 Dagegen hat eine andere Forschungsrichtung, die heute als communis opinio angesehen werden kann, den Zusammenhalt der Werke an einigen zentralen Themenkomplexen festgemacht: an der Arbeitsethik und Geltung der Gerechtigkeit oder auch am καιρός, der rechten Zeit. 51 Der am stärksten als spätere Hinzufügung verdächtigte Abschnitt ist der Kalender (765– 828).52 Da er nicht vorher angekündigt worden ist und geringe Übereinstimmung mit dem vorangegangenen Text zu haben scheint, führte dies zu der Annahme, daß er entweder vom Dichter selbst (WEST 1978, 45) oder von fremder Hand (u. a. WILAMOWITZ–MOELLENDORFF 1928, der die Athetese des ganzen Abschnitts vorschlägt)53 nachträglich eingefügt worden sei. Doch ist auch die Ansicht vertreten worden, der Kalender, eine Bearbeitung
|| 50 Z. B. A. KIRCHHOFF, Hesiodos’ Mahnlieder an Perses, Berlin 1889 und in ähnlicher Weise ein Großteil der Forschung des 19. Jh. 51 M.P. WALTZ, Hésiode et son poème moral, Bordeaux 1906; P. MAZON, Hésiode. Théogonie, Les travaux et les jours, Le bouclier, Paris 1928, 71 und 83 f.; J. KERSCHENSTEINER, Zu Aufbau und Gedankenführung von Hesiods Erga, Hermes 79 (1944) 149–191; VERDENIUS (1962). NICOLAI (1964) ist das beste Beispiel unitarischer Analyse, die eine kohärente und logische Anordnung nicht nur des Ganzen, sondern auch der einzelnen Teile annimmt. Vgl. zuletzt auch H. ERBSE, Die Funktion des Rechtsgedankens in Hesiods ,Erga‘, Hermes 121 (1993) 12–28. 52 Die Vermischung von Zeitrechnungssystemen, des Mondkalenders (in ziemlich mechanischer Weise zur Zählung der Tage verwendet: 765–828) und einfacheren, auf den Bewegungen der Sterne und Sternbilder (383 f.: Pleiaden; 417 f.: Sirius; 565 ff.: Arkturos) oder Tierwanderungen (448 ff.: Kraniche; 568 f.: Schwalben) beruhenden Systemen wurde von M.P. NILSSON (Die älteste griechische Zeitrechnung. Apollo und der Orient, ARG 14, 1911, 423–448) als Beweis gegen die Echtheit des Abschnittes II. ,Tage’ angesehen; vgl. auch F. SOLMSEN, The ‘Days’ of the Works and Days, TAPhA 94 (1963) 293–320. Dies wirft aber keine Schwierigkeiten auf, da der Rückgriff auf mehrere unterschiedliche Systeme gebräuchlich war, wobei jedes einzelne einen anderen Zweck erfüllte; Einzelheiten bei WEST (1978) 376–381 (mit weiterer Literatur). 53 Der Abschnitt galt jedenfalls als hesiodeisch, wie Heraklit Fr. 106 DK bezeugt.
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anderer früherer Kalender, sei echt und völlig kohärent mit den vorausgehenden thematischen Abschnitten.54
Bei einer Gewichtung unitarischer und analytischer Positionen scheinen gegen einen strikten Unitarismus Bedenken angebracht. Hesiods Werke werden wie jeder epische Text der archaischen Zeit Änderungen und Erweiterungen ausgesetzt gewesen sein, die verschiedenen zufälligen, mit der Gesellschaft und der jeweiligen Gelegenheit zusammenhängenden Erfordernissen dienten. Da die Werke wie jedes andere epische Gedicht bei verschiedenen Gelegenheiten, in verschiedenen Kontexten und vor einem jeweils unterschiedlichen Publikum vorgetragen wurden, scheint es plausibel, daß verschiedene Textfassungen von ein und demselben Werk – oder von Abschnitten eines Werks – existierten und daß dann aus verschiedenen mündlichen Vortragskontexten stammende Textsegmente in ein einziges Textcorpus Eingang gefunden haben (s. S. 93 f.). Interpretationsprobleme der Werke: Im Text der Werke finden sich eine Reihe von besonderen Erzählelementen und Ausdrucksmitteln: (1) der Pandoramythos (42–105);55 (2) der Mythos der Zeitalter (106–201); (3) die moralische Unterweisung durch die Fabel (αἶνος) vom Habicht und von der Nachtigall (202–212); (4) die Häufigkeit von Sentenzen (γνῶμαι) und Sprichwörtern; (5) Rätsel; (6) direkte Ermahnung mit Anrede des Adressaten; (7) die Beschreibung der landwirtschaftlichen Arbeiten (besonders 383–492); (8) der Kalender (765–828). Eine angemessene Bewertung dieser Elemente ist nur durch einen komparatistischen Zugang möglich, der die nahöstliche Weisheitsliteratur berücksichtigt.56
|| 54 A. PÉREZ JIMÉNEZ, Los Días de Hesiodo. Estructura formal y análisis de contenido, Emerita 45 (1977) 105–123; A. LARDINOIS, How the Days fit the Works in Hesiod’s Works and Days, AJPh 119 (1998) 319–336. 55 Die Geschichte von Prometheus und Pandora ist der Gründungsmythos der menschlichen Gesellschaft: Opfermahl (zentrales Element des Götterkults), eheliche Verbindung und produktive Arbeit sind die Pfeiler, auf denen die archaische griechische Gesellschaft ruhte. Vgl. dazu besonders J.–P. VERNANT, Le mythe ‘prométhéen’ chez Hésiode, in: GENTILI/PAIONE (1977) 91– 106 und P. PUCCI, Il mito di Pandora in Esiodo, in: GENTILI/PAIONE (1977) 207–229. 56 Die Berührungspunkte zwischen der hesiodeischen Tradition einerseits und den Traditionen des Nahen Ostens andererseits werden von WEST (1997) 332 folgendermaßen dargelegt: „Hemerology and bird omens; elements of the form, style, and substance of the Semitic wisdom poem; animal fable; the myth of the metallic ages; the myths of the succession of kings of heaven, the defeat of a monster by the storm–god, and the imprisoning of the Former Gods below the earth, in a poem divinely revealed: Hesiod displays a truly extraordinary accumulation of oriental materials“.
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Unter Weisheitsliteratur versteht man eine literarische Produktion, die die von einer Gesellschaft durch empirische Erfahrung erworbenen Kenntnisse sammelt und aufbewahrt.57 Bei dieser Herangehensweise ist der Mythos von Pandora zur Erklärung des Übels in der menschlichen Existenz vergleichbar mit dem von Eva, der ersten Frau, verschuldeten Ende des paradiesischen Urzustands im Garten Eden im Buch Genesis. Der Zeitaltermythos illustriert und erklärt die Schwierigkeit der condicio humana, die sich, ausgehend von einem ursprünglichen Idealzustand, immer mehr verschlechtert:58 Eine derartige Reihenfolge von Menschgeschlechtern findet man in Daniel 2,39 f. (RUTHERFORD 2009, § 1.2.2). Auch die Fabel von Nachtigall und Sperber findet sich als Medium moralischer Unterweisung in der Weisheitstradition (z. B. 2 Könige 14,9–10; 2 Samuel 12,1–4).59 Die Gnomen sind über den ganzen Text der Werke verstreut; im Alten Testament bilden die Sentenzen, die auch in den Weisheits– und Prophetenbüchern stark vertreten sind, sogar ein ganzes Buch, die Sprüche. Die Anrede der Rezipienten, mit denen eine Ermahnung eingeleitet wird (z. B. 27–29.213.248 f. usw.), gehören ebenfalls zur Weisheitsliteratur (z. B. Jesus
|| 57 Zusammengefaßt werden hier die Analyse und die Ergebnisse von G. VON RAD, Weisheit in Israel, Neukirchen–Vluyn 1970, aus dessen Darstellung die Berührungspunkte zwischen den Werken und der hebräischen Weisheitsliteratur unmittelbar deutlich werden. Außer in den Inhalten nähert sich die hesiodeische Dichtung der jüdischen Weisheitsliteratur auch in anderen Aspekten an: in der Figur des Dichters als Vermittler zwischen menschlicher und göttlicher Ebene, in der Autorität, die er für seine Worte in Anspruch nimmt, in seiner Rolle als Lehrer einer Gemeinschaft; vgl. dazu zuletzt die von J. KATZ/K. VOLK, ‘Mere bellies’?: A New Look at Theogony 26–8, JHS 120 (2000) 122–131 vorgebrachte Deutung von theog. 27 f. Eine reiche Sammlung von Vergleichsmaterial findet sich bei WEST (1978) 3–25 und WEST (1997) 306–332. Die komparatistische Betrachtung der Werke geht auf DORNSEIFF (1934) zurück und wurde danach vor allem von P. WALCOT, Hesiod and the Didactic Literature of the Near East, REG 75 (1962) 13–36, KRAFFT (1963) 92–96, WALCOT (1966) Kapitel 4 und RUTHERFORD (2009) § 1.2.3 weitergeführt. Hervorzuheben ist umgekehrt der Einfluß, den die hesiodeische Dichtung auf die jüdische Literatur der hellenistischen Zeit ausgeübt hat; vgl. z. B. J. P. OLESON, An Echo of Hesiod’s Theogony vv. 190–2 in Jude 13, NTS 25 (1979) 492–503. 58 Zum Mythos der Zeitalter ist viel geschrieben worden. Eine Sammlung von Beiträgen bietet HEITSCH (1966) 439–648; weitere Literatur bei VERDENIUS (1985) 79 Anm. 341; vgl. außerdem C. W. QUERBACH, Hesiod’s Myth of the Four Races, CJ 81 (1985/1986) 1–12; G.W. MOST, Hesiod’s Myth of the Five (or Three) Races, PCPhS 43 (1997) 104–127; C. CALAME, Succession des âges et pragmatique poétique de la justice: le récit hésiodique des cinq espèces humaines, Kernos 17 (2004) 67–102. 59 Die orientalische, wohl ägyptische oder mesopotamische Herkunft der Fabel ist allgemein anerkannt; vgl. den Überblick bei R. DITHMAR, Fabel, in: R. W. BREDNICH (Hg.), Enzyklopädie des Märchens IV, Berlin – New York 1984, 727–745. Zu Hesiods Fabel von Habicht und Nachtigall vgl. WEST (1978) 205 ad 202–212; J. DALFEN, Die ὕβρις der Nachtigall: zu der Fabel bei Hesiod (Erga 202–218) und zur griechischen Fabel im allgemeinem, WS 107/108 (1994/1995) 159– 177; M. DAVIES, Homer and the Fable, Prometheus 27 (2001) 193–210. Zur Fabel im allgemeinen G.–J. VAN DIJK, ΑΙΝΟΙ, ΛΟΓΟΙ, ΜΥΘΟΙ. Fables in Archaic, Classical, and Hellenistic Greek Literature with a Study of the Theory and Terminology of the Genre, Leiden 1997; zur Fabel s. S. 321 ff.).
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Sirach 6,23; Weisheit Salomos 6,1). Die bäuerlichen Arbeiten haben eine wichtige Parallele in Jesaia 28,23–28. Die Nennung der günstigen und ungünstigen Tage, an denen bestimmte Tätigkeiten erlaubt oder verboten sind, scheint eine universelle kulturelle Konstante zu sein.60
Beziehungen zur Theogonie: Zwischen den Werken und der Theogonie lassen sich zahlreiche Verbindungen auf verschiedenen Ebenen nachweisen. Es gibt formale Bezüge, die von der wörtlichen Übernahme einzelner Wendungen bis zu der ganzer Verse reichen (z. B. op. 71 f. = theog. 572 f.; op. 302 = theog. 593; op. 70 ~ theog. 570 f.), ebenso wie inhaltliche Übernahmen, Wiederholungen von Themen (z. B. Zeus und die Gerechtigkeit) oder von mythischen Erzählungen (Prometheus und die Frau: op. 47–105 und theog. 521–616 und 593– 599.605). Die formalen Übernahmen werden verständlich, wenn man berücksichtigt, daß es sich um traditionelles Material handelt und es daher besonders im Fall von formelhaften Textsegmenten nicht erstaunlich ist, daß diese auch in anderen Gedichten wiederverwendet werden. Bei den inhaltlichen Übernahmen sind es vor allem Themen, die ethische Belange der Gesellschaft ansprechen. So muß es z. B. nicht Wunder nehmen, daß die mit Zeus verbundene göttliche Gerechtigkeit in beiden Werken präsent ist. Bei parallelen Behandlungen derselben Geschichte wie der von Prometheus und dem Ursprung der Frau sind die Gemeinsamkeiten und Unterschiede unter Berücksichtigung der unterschiedlichen Kontexte, in die sie eingefügt sind, zu beachten. Anstatt Bedeutung und Intention der Geschichten miteinander in Einklang zu bringen und in den verschiedenen Versionen Phasen einer geistig–gedanklichen Entwicklung zu sehen, sollte man eher von unterschiedlichen Gedichten ausgehen, die für örtlich und zeitlich getrennte Aufführungen und vielleicht auch Zuhörerschaften bestimmt waren, so daß die erzählten Geschichten jede für sich allgemeine, für die Entstehungszeit relevante Themen und Konzepte aufweisen, aber je nach Rezipientenkreis eine bestimmte Sicht– und Darstellungsweise anwenden. Erbschaftssteit: Der Erbschaftsstreit mit dem Bruder Perses spielt in der Ökonomie des Gedichts eine zentrale Rolle. Perses ist der erste Adressat von Hesiods Lehren; der Streit, den Hesiod zu Beginn erwähnt (27–41), bildet den Anlaß für die Abfassung des Werks. In narrativer Hinsicht ist also die Figur des Perses ein zentraler Knotenpunkt, um den herum sich die Darstellung organisiert.
|| 60 Vergleichbare Kalender finden sich u. a. in der sumerischen, babylonischen, assyrischen, ägyptischen, römischen und irischen Kultur; WEST (1978) 348; genauere Analyse bei WEST (1997) 328–332.
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Es bleibt die Frage, ob die Darstellung des Anlasses der Dichtung wörtlich zu nehmen ist (NICOLAI 1964, 193 f.) oder ob Perses ein fiktiver Adressat ist, dessen Funktion allein in der Rechtfertigung der Werke besteht.61 Zwischen diesen beiden entgegengesetzten Positionen hat sich ein Mittelweg herausgebildet: Perses sei eine historische Person, mit der Hesiod tatsächlich einen Streit und an die er tatsächlich Ermahnungen gerichtet habe, doch habe Hesiod gleichzeitig die reale Person seinen literarischen Bedürfnissen angepaßt und Aspekte von Perses’ Verhaltens betont, die ihm Gelegenheit zu moralischer Unterweisung gegeben hätten (WEST 1978, 40). Eine Klärung der Frage ist nahezu unmöglich. Die Vermutung, daß die Person des Perses ein rein literarisches Mittel sei, das dann topisch wurde (vgl. z. B. Theognis’ Kyrnos), kann mit guten Argumenten weder ausgeschlossen noch bewiesen werden.
Unabhängig von seiner Historizität steigert Perses als Bezugspunkt der Ermahnungen deren Wirkung. Ein reale oder als real dargestellte Situation trägt dazu bei, der moralischen Botschaft größere Wirksamkeit zu verleihen: Perses wird eine Art von ,Sitz im Leben‘ der Vorschrift, die eine um so größere Wirkung entfalten kann, als sie zur Lösung eines konkreten Problems in einer konkreten Situation als Orientierungshilfe für das Verhalten eines einzelnen konzipiert ist.62 Das Proömium und alternative Textabschnitte: Schon Proklos hatte Kenntnis von einer philologischen, das Proömium betreffenden Streitfrage: „Daß einige das Proömium tilgen wie u. a. Aristarch, der die Verse athetiert, und Praxiphanes (Fr. 22b WEHRLI), der Schüler des Theophrast, ist uns nicht unbekannt. Letzterer behauptet, auf eine Kopie des Texts ohne das Proömium gestoßen zu sein, die ohne die Anrufung der Musen begann“.63 Krates von Mallos (Fr. 78 BROGGIATO) athetierte sowohl das Proömium der Werke als auch das der Theogonie. Pausanias (9,31,4–5) bezeugt die Existenz einer am Helikon aufbewahrten Kopie des Texts der Werke und behauptet, mit eigenen Augen eine durch das Alter beschädigte Bleiplatte (μόλυβδον) gesehen zu haben, in die der Text der Werke ohne Proömium eingeritzt war. Man wird, ausgehend von diesen Nachrichten, kaum annehmen, daß das Proömium aus Lokalpatriotismus – die Böoter hätten es nicht ertragen, daß als Heimat der Musen Pieria und nicht der Helikon ange|| 61 So die antike Philologie (Prolegomena B ad op. p. 3,13 PERTUSI) und ein Teil der modernen Forschung (z. B. DORNSEIFF 1934). In moderner, literaturwissenschaftlicher Terminologie könnte man ihn als ,impliziten Leser‘ (ISER) bezeichnen. 62 Vgl. J. U. SCHMIDT, Adressat und Paraineseform. Zur Intention von Hesiods Werken und Tagen, Göttingen 1986; S. TILG, „Grosser Narr“ und „göttlicher Spross“ (Μέγα νήπιε Πέρση V. 286, 633; Πέρση, δῖον γένος V. 299): zur Arbeitsparainese in Hesiods Werken und Tagen, Hermes 131 (2003) 129–141. 63 Vgl. Proklos, In Hesiodi opera, prolegomena p. 2,ll,7–14 PERTUSI.
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geben wurde –,athetiert‘ wurde; vielmehr sollte man diese Informationen in den weiteren Rahmen der dem mündlichen Vortrag anvertrauten Distribution epischer Texte einordnen und folglich die Schwankungen des Texts mit verschiedenen lokalen epischen Traditionen in Verbindung bringen. Damit stellt das Proömium der Werke, wie dies auch bei dem doppelten Proömium der Theogonie der Fall sein könnte, ein fluktuierendes Textsegment dar, das, je nach Gelegenheit verändert, eingefügt oder ausgelassen oder überhaupt durch ein anderes ersetzt werden konnte.64 Die Auffassung, daß die Werke aus mehreren, ursprünglich für verschiedene Gelegenheiten und Zuhörerschaften bestimmten Rezitationssegmenten komponiert sind, findet eine Bestätigung in dem Vorhandensein von alternativen Textabschnitten (ROSSI 1997). In der Passage über den Winter finden sich zwei Angaben der Jahreszeit (494 ὥρῃ χειμερίη, 524 ἥματι χειμερίῳ): Dies ist ein Hinweis darauf, daß wir es mit zwei für verschiedene Anlässe bestimmten Abschnitten zu tun haben, die die Winterzeit zum Inhalt haben, (493–523 und 524–563) und die durch zwei ähnliche Ankündigungen der Jahreszeit eingeleitet wurden, wobei die zweite vom Redaktor syntaktisch angepaßt wurde. Beide Teile haben darüber hinaus denselben Inhalt, wenn auch in variierter Reihenfolge. Im ersten Abschnitt wird die Wirkung des Winters auf Menschen (493–503), Natur (504–511), Tiere (512–518) und erneut Menschen (518–523), im zweiten auf Tiere (524–533), Menschen (533–546), Natur (547–553) und Menschen (554–563) beschrieben. Ebenfalls ein Agglomerat alternativer Segmente ist der Abschnitt über die Seefahrt (618–694): Von den beiden Eröffnungen (618.646) ist die zweite syntaktisch unabhängig.65 Abgesehen von den Einleitungen stimmen die beiden Partien darin überein, daß sie autobiographische Nachrichten (631–642 ~ 650–662) sowie Ratschläge im Positiven und Negativen (618–630, 643–645 ~ 663–694) enthalten. Die Tatsache, daß zwei voneinander getrennte autobiographischen Blöcke vorhanden sind, müßte als Bestätigung dafür angesehen werden, daß es sich um zwei alternative Passagen mit identischer Thematik handelt (anders ARRIGHETTI 2001). Man hat allerdings bereits in der Antike (Plutarch bei Proklos) und in einigen modernen Editionen den einen oder den anderen Block athetiert. Als andere, weiter voneinander entfernte Alternativpartien kommen in Betracht: 727–732 ~ 757 f. (Urinieren), 373–375 ~ 695–705 (Frau–Ehefrau), 383 f. ~ 448–451 ~ 614–617 (drei Alternativen über das Pflügen). Aneinander angrenzende Textsegmente scheinen die Verse 299–301 ~ 306 f. (Füllen des Kornspeichers) zu sein. Im Teil über die Tage (765–929) kann man zwei mögliche alternative Eröffnungen in den Versen 765 f. ~769 erkennen. Betrachtet man Hesiods Werk im ganzen, sind auch die Prometheus–Erzählungen in theog. 507–616 und op. 42–105 zu be-
|| 64 Von geringer Bedeutung ist bei dieser Sichtweise die zudem unlösbare Frage, ob die Verse 1–10 von Hesiod selbst stammen oder nicht. 65 In 618 steht ναυτιλίη und in 646 ἐμπορίη, das jedoch als mit ersterem gleichbedeutend empfunden wird (649).
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rücksichtigen, die eindeutig für verschiedene Gelegenheiten und Kontexte bestimmt waren.
Der Charakter der Werke als Weisheitsliteratur kann zwar die Anhäufung derartiger Inhalte erklären, da diese literarische Form dazu neigt, Erfahrungstatsachen in ihrer ganzen Fülle und Komplexität zu vermitteln. Aber dies allein reicht zur Erklärung der formalen Ausarbeitung von zwei in ihrer Anlage derart ähnlichen Abschnitten nicht aus. Vielmehr erklärt die epische Rezitationspraxis mit ihrer interaktiven Dynamik zwischen Vortragendem und Publikum die Existenz dieser Dubletten, bei denen es sich um für verschiedene Aufführungen bestimmte Alternativen handelt, die daher zugleich ähnlich und verschieden sind. Es ist bemerkt worden, daß es bei Homer keine den hesiodeischen Alternativpartien vergleichbare Phänomene – die mehrfache Behandlung ähnlicher Inhalte – gibt (,Monros Gesetz‘).66 Dies könnte als Folge einer redaktionellen Bearbeitung angesehen werden, die länger dauerte als die der hesiodeischen Werke, die in größerer zeitlicher Nähe zu den Rezitationen schriftlich redigiert wurden (ROSSI 1997, 19 f.).
5.3.3. Frauenkatalog Gattung, Autorfrage: Der in daktylischen Hexametern verfaßte Frauenkatalog ist eines der bekanntesten Beispiele epischer Katalogdichtung. Er ist fragmentarisch durch Papyri und Zitate antiker Autoren erhalten. Er enthält eine Folge von Heldengenealogien und stellt den Versuch da, in einer Art enzyklopädischen Repertoriums die Ursprungsgeschichten verschiedener Geschlechter dazustellen, deren Ahnherr aus der Verbindung eines Gottes mit einer sterblichen Frau hervorgegangen war. Das Werk stellte das natürliche Pendant zur Theogonie, deren konzeptionelle – und im Altertum manchmal auch redaktionelle – Fortsetzung es war. Auch in diesem Fall handelt es sich nicht um das einzige Werk seiner Art. Neben den Genealogien und Katalogpassagen in den homerischen Dichtungen – z. B. dem Schiffskatalog (Il. 2,484–762) oder dem Stammbaum des Glaukos (Il. 6,150 ff.) – haben wir Kenntnis von anderen Dichtern, die einen ähnlichen Stoff behandelten (Asios von Samos, Kinaithon von Sparta).67 Vergleichbare Formen genealogischer Dichtung sind darüber hinaus || 66 D. B. MONRO, Homer. Odyssey. Books XIII–XXIV, London 1901, 325. 67 Über Asios und Kinaithon schreibt Pausanias (4,2,1), daß sie ,Genealogien verfaßten’; vgl. auch die Testimonia bei BERNABÉ (1987) 116.127. In beiden Fällen ist die Datierung unsicher: Asios gehört wahrscheinlich ins 6. Jh., Kinaithon wahrscheinlich ins 7./6. Jh. Über die bei Paus.
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in zahlreichen anderen Kulturen dokumentiert (WEST 1985, 11–27), ebenso wie viele einzelne, von Hesiod behandelte genealogische Mythen Parallelen in den mythischen Traditionen des Vorderen Orients finden (WEST 1997, 434–494). Hesiods Autorschaft des Katalogos ist von der modernen Forschung aus inhaltlichen und sprachlichen Gründen in Frage gestellt worden,68 wenngleich die antiken Zeugnisse das Werk aufgrund seines Charakters und Inhalts in der Regel übereinstimmend Hesiod zuschreiben. Allerdings kann man auch im Fall des Katalogos Hesiod, wenn er denn der Autor ist, nicht als ,Erfinder‘ der Gattung, sondern als Bearbeiter eines schon vorher bestehenden komplexen und vielfältigen mythischen Stoffs betrachten, der zumindest zu Beginn stark ortsgebunden war (WEST 1985, 125.137 ff.164 ff.). Genealogien sind ein extrem variabler Stoff, der jedesmal, wenn ein Geschlecht seine Führungsrolle verlor und durch ein anderes ersetzt wurde, Veränderungen unterworfen war, so daß der Katalogos, in dem verschiedene genealogische Traditionen zusammenliefen,
|| 9,29,1–2 erwähnten Chersias von Orchomenos und Hegesinos von Salamis, die genealogische Dichtungen verfaßt zu haben scheinen, ist so gut wie nichts bekannt; selbst ihre Existenz ist zweifelhaft; vgl. dazu BERNABÉ (1987) 142–144 (mit Literatur); ihre Historizität wird von WEST (1985, 4) nicht bezweifelt. Wir kennen außerdem einige anonyme Dichtungen, die sehr wahrscheinlich – zumindest teilweise – einen genealogischen Inhalt aufwiesen: die Phoronis (wahrscheinlich 7./6. Jh. v. Chr.; vgl. BERNABÉ 1987, 118 ff.) und die Naupaktika (6. Jh. v. Chr.?; BERNABÉ 1987, 123 ff.). Genaueres bei WEST (1985) 3–11. In der Historiographie sind Genealogien seit Hekataios von Milet üblich; zu den Beziehungen zwischen Hesiods Werk und genealogischen Konzeptionen der Historiographie vgl. FOWLER (1998). 68 Vgl. z. B. WEST (1985) 125 ff. und besonders 130 ff. WEST schlägt für den Katalogos eine Datierung ins 6. Jh. vor, die mit der von ihm für Hesiod angenommenen (s. S. 81) nicht vereinbar ist; vgl. ferner HIRSCHBERGER (2004) 42–51 mit einer Datierung zwischen 630 und 590 v. Chr.; auf eine andere Hypothese wird bei E. IRWIN, Gods among Men? The Social and Political Dynamics of the Hesiodic Catalogue of Women, in: HUNTER (2005) 35 Anm. 1 hingewiesen. JANKO (1982) kommt auf der Basis einer sprachlichen Analyse zu einer relativen Chronologie, nach der der Katalogos älter als die Theogonie ist. Als Beleg für die Unechtheit des Werks sind auch konzeptionelle Unterschiede gegenüber der Theogonie angeführt worden wie z. B. das Fehlen jeder genealogischen Logik (SCHMID 1929, 262). Einige syntaktische Wendungen seien daneben nicht hesiodeisch, vor allem das die einzelnen Abschnitte jeweils einleitende ἢ οἵη (WEST 1985, 164 ff.). Ein terminus post quem ist wahrscheinlich in der Kyrene–Ehoie zu sehen, die die Gründung der Kolonie in Libyen 631 v. Chr. voraussetzt. Auf alle Fälle sind zumindest der Katalogos und die Theogonie in der Phraseologie und im Wortschatz einheitlich (vgl. z. B. KIRK 1962, 65 f.), was für die Verfechter der Unechtheit ein Problem darstellt; oft sind die Übereinstimmungen als Interpolationen beseitigt worden; vgl. SCHMID (1929) 268 und Anm. 13. Zur genealogischen Konzeption der Theogonie vgl. P. PHILIPPSON, Genealogie als mythische Form. Studien zur Theogonie des Hesiod, in: HEITSCH (1966) 651–687.
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zahlreiche Modifikationen erfahren haben muß, die sowohl durch seine spezifische Funktion als auch durch die epische Vortragspraxis bedingt waren. Titel, Inhalt und Aufbau: Über Struktur und Inhalt des Katalogos haben wir keine sicheren Informationen, und die vorgeschlagenen Rekonstruktionen sind größtenteils Vermutungen, die sich auf die Nachrichten antiker Autoren und den Wortlaut der erhaltenen Fragmente stützen. Große Unsicherheit lastet schon auf dem Titel, der jedenfalls nicht vom Autor stammt. Die antiken Zeugnisse nennen als Titel, die immer ein und dasselbe Werk zu bezeichnen scheinen: Γυναικῶν κατάλογος (Paus. 1,43,1 etc.), Γυναικῶν ἡρωινῶν κατάλογος (Suda η 583), Κατάλογοι (Schol. AD Hom. Il. 2,333–335; proleg. in Hes. op. p. 3,1,9 PERTUSI etc.), Ἠοῖαι (z. B. Hesych. η 650), Μεγάλαι ἠοῖαι (Paus. 2,16,4; 9,31,5 etc.), ἡ ἡρωικὴ γενεαλογία (Tzetzes; vgl. Hes. Fr. 9 M.–W.), ἔπη ἐς τὰς γυναῖκας (Paus. 1,3,1; vgl. 9,31,5), περὶ γυναικῶν (Serv. in Verg. Aen. 7,268). Einigkeit herrscht in der Forschung darüber, daß die Bezeichnung Katalogos und Ehoien auf dasselbe Werk zu beziehen ist (z. B. Hesych. η 650); die erste Bezeichnung bezieht sich auf die Typologie des Texts und seinen Inhalt; die zweite leitet sich von der überleitenden Wendung her, die regelmäßig am Anfang jeder neuen Sektion des Werks steht und das neue Thema einleitet: ἢ οἵη (,oder welche‘, ,oder wie diejenige, die‘: Fr. 23a,3; 26,5 usw.). Umstritten ist dagegen, ob die Erwähnung von Ehoiai und Megalai Ehoiai sich auf zwei verschiedene oder auf ein einziges Werk bezieht.69
|| 69 Angesichts der Typologie und Funktion des Gedichts, durch die dieses schon an sich ständigen Veränderungen unterworfen war, scheint es wahrscheinlich, daß sich hinter den verschiedenen Titeln ein einziges Werk verbirgt, das wahrscheinlich in – in Umfang und Inhalt – unterschiedlichen Versionen in Umlauf war. So schon U. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Lesefrüchte, Hermes 40 (1905) 123: die Megalai Ehoiai seien „eine Ausgabe der Eoeen + Zusätze“. Nach SCHWARTZ (1960) 23 f. sind der Katalogos (oder die Ἠοῖαι) und die Μεγάλαι Ἠοῖαι ein einziges Werk, dessen unterschiedlicher Titel auf zwei Editionen zurückgehe, auf eine alexandrinische und eine pergamenische. Die Frage wird ausführlich diskutiert von A. CASANOVA, Catalogo, Eèe e Grandi Eèe nella tradizione ellenistica, Prometheus 5 (1979) 217– 240: Die externen Zeugnisse und die interne Evidenz machten es unwahrscheinlich, daß Katalogos und Große Ehoien unterschiedliche Gedichte seien; die Unterschiede beträfen die gelegentliche Hinzufügung von unbekannten Nachkommen und die Einfügung besonderer, die Personen des Katalogos betreffender Episoden. Es sei also sehr wahrscheinlich, daß „le Grandi Eee fossero un’edizione particolare del Catalogo delle donne“. Daß es sich um verschiedene Werke handelt, ist die Überzeugung von WEST (1985) 1 ff., der auf F. LEO, Hesiodea, Göttingen 1894, 8 ff. verweist (vgl. auch RZACH 1912, 1204f.), von HIRSCHBERGER (2004), G. B. D’ALESSIO, The Megalai Ehoiai: A Survey of the Fragments, in: HUNTER (2005) 187f. und anderen. Das Adjektiv μεγάλαι beziehe sich auf eine größere Gesamtzahl von Büchern als bei den Ehoien (d. h. dem Katalogos). Zur Frage vgl. ERCOLANI (2001) 204 Anm. 63 (mit Bibliographie) und jetzt CINGANO (2009) 118 f.
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Der Katalogos bestand aus fünf Büchern (Suda η 583), begann mit einem Proömium, dessen überlieferter Beginn an die Theogonie anschließt, und folgte dem Prinzip einer genealogischen und chronologischen Anordnung, die mit der letzten Heldengeneration, der des Troianischen Krieges, endete. Eine detaillierte Rekonstruktion des Inhalts der einzelnen Bücher ist angesichts der knappen Textgrundlage und spärlichen Nachrichten schwierig.70 Das starke Vorkommen von mit Böotien verbundenen Mythen (Europa, Proitos, Alkmene und Herakles) könnte ein Hinweis auf einen böotischen Ursprung des Katalogos sein. Dies wäre mit einer hesiodischen Urheberschaft des ursprünglichen Kerns des Werks oder dessen Zuschreibung an Hesiod gut vereinbar.71 WEST (1985) spricht sich dagegen aus: „the Ehoiai were not floatsam but organic, immovable parts of the whole“ (122). Die Erzählung entfalte sich nach einem geographischen Darstellungsprinzip: „if we take the geographical centres of gravity in each genealogy, we find that there is a general progression from west to east across Greece“ (166).72 Die strukturelle Einheit des Gedichts werde außerdem durch die Anwesenheit von Deukalion zu Beginn garantiert. Seine Nachkommen, Hellen mit seinen drei Söhnen Doros, Xuthos und Aiolos, bestimmten die ganze Darstellung und repräsentierten die griechischen Stämme insgesamt. Die beiden Deutungen müssen allerdings nicht als sich grundsätzlich ausschließende Grundsatzpositionen angesehen werden, da die erste den Ursprung, die zweite die Struktur des Gedichts betrifft.
Funktion: Der Katalogos ist nicht das einzige Beispiel von Katalogdichtung. Die Existenz einer beachtlichen Zahl von Passagen und ganzen Gedichten in Katalogform wirft die Frage nach ihrer Funktion auf. In erster Linie hat der Katalog eine technisch–poetische Funktion: Er ist ein Strukturelement mündlicher Komposition. Listen, in Form von Genealogien und Katalogen, sind ein fester Bestandteil mündlichen Tradition.73 Auf einer kulturgeschichtlichen Ebene
|| 70 Der wichtigste Versuch einer detaillierten Rekonstruktion des Inhalts des Katalogos bleibt der von WEST (1985); vgl. außerdem HIRSCHBERGER (2004). Zu einzelnen Aspekten vgl. F. PONTANI, Catullus 64 and the Hesiodic Catalogue: A Suggestion, Philologus 144 (2000) 267–276 und CINGANO (2005). 71 Z. B. WALTZ (1907) 221 f.; vgl. außerdem KIRK (1962) 69 zu einer ,böotischen Schule’ von Katalogdichtung, die auch den Schiffskatalog in Hom. Il. 2 beträchtlich beeinflußt habe. Zu der Alkmene–Ehoie, die dem Anfang der Aspis entspricht, s. S. 98 f. 72 Stamm des Deukalion: Peloponnes – Ätolien – Mittelgriechenland – Thessalien; Stamm des Inachos: Argos – Theben; Stamm des Pelasgos: Arkadien; Stamm des Arkas: östliches Arkadien; Stamm des Atlas: Lakonien – östliche Argolis – östliches Böotien – Euböa – Troas; Stamm des Asopos: Ägina, Salamis; athenische Genealogien: Attika. 73 Zu Katalogen in mündlichen Kulturen vgl. besonders GOODY (1977) 52–111. Zum Katalog als Strukturelement mündlicher Komposition vgl. A. ERCOLANI, Omero. Introduzione allo studio dell’epica greca arcaica, Roma 2006, 66 und 79 Anm. 13 (mit Bibliographie). Zur hesiodeischen Dichtung (Theogonie und Katalogos) vgl. die Überlegungen von WALTZ (1907) 210, VAN GRONIN-
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bilden die Kataloge dagegen eine Art Datenspeicher. Genealogien sind eine besondere Form der Katalogdichtung und erfüllen spezifische Funktionen. Die genealogische Dichtung dient der Bewahrung der Erinnerung an vergangene Generationen in einer im weitesten Sinne historischen Perspektive. Im Einzelfall erlaubt die genealogische Rekonstruktion, die Gegenwart auf eine heroische Vergangenheit – und damit auf einen Gott – zurückzuführen und so der gegenwärtigen historischen Situation Fundament und Legitimation zu verleihen. Über diese Rückführung der Abstammung einer Familie auf einen mythischen Ahnherrn wird einem Geschlecht ein höherer Status verliehen und die jeweilige Machtstellung legitimiert. Diese begründende Funktion der genealogischen Dichtung ergibt sich nicht nur durch die Analyse einzelner hesiodeischer Passagen, sondern auch aus einem ethnographischen Vergleich74 und legt den Charakter eines ,offenen Texts‘ des hesiodeischen Katalogos nahe, der in unterschiedlichen Fassungen in Inhalt und Umfang – auch mit größeren Unterschieden je nach der geographischen Region – in Umlauf gewesen sein muß. Ein Beispiel kann zum besseren Verständnis der Funktion des Katalogos beitragen. Von Pausanias (2,26,7) erfahren wir, daß Fr. 50 M.–W. des Katalogos, das die messenische Arsinoe zur Mutter des Asklepios machte, nicht als urspüngliche mythische Überlieferung, sondern als eine ad hoc gemachte Erfindung galt. Der Text des Pausanias zeigt, daß die Herstellung einer genealogischen Verbindung innerhalb des Katalogos eine politische Funktion innehatte. Pausanias kennt eine einzige ,hesiodeische‘ Tradition des Mythos von Asklepios, die Abfolge Arsinoe–Asklepios, die für ihn eine gezielt promessenische Version darstellt (ἐς τὴν Μεσσηνίων χάριν). Diese Formulierung ist vollkommen verständlich, wenn man die Geschichte der messenischen Unabhängigkeit betrachtet. Nach der Schlacht von Leuktra (371 v. Chr.) begannen die Messenier nach der Lösung von Sparta und der Erlangung der Unabhängigkeit mit einer historiographischen und mythographischen Konstruktion, um ihre Existenz als unabhängiger Staat auf neue Paradigmen zu gründen. Es ist erwiesen, daß die Figur des Asklepios eine wichtige Rolle als Gründungsmythos im unabhängigen Messene gespielt hat, und in diesem Rahmen war die Tradition eines messenischen Asklepios als Sohn einer messenischen Arsinoe in gewissem Sinne notwendig. Die Vermutung liegt also nahe, daß der hesiodeische Katalogos durch die Einfügung der promessenischen Version über die Mutter des Asklepios ,aktualisiert‘ worden ist (ERCOLANI 2001, 203 ff.).
|| GEN (1958) 84 f. und 121, KIRK (1962) 67 f., die alle die Anpassungsfähigkeit der dichterischen Form des Katalogs hervorheben. KIRK (1962) 70 f. spricht von einer elastischen Struktur der hesiodeischen Gedichte insgesamt. Speziell zum Katalogos und der mündlichen Tradition vgl. M. CANTILENA, Le Eoeae e la tradizione orale, Athenaeum 57 (1979) 139–145. Zur Form des Katalogos vgl. auch FOWLER (1998) und I. RUTHERFORD, Mestra at Athens: Hesiod fr. 43 and the Poetic of Panhellenism, in: HUNTER (2005) 99–117. 74 GOODY (1977) hat gezeigt, wie die genealogischen Rekonstruktionen bei jedem politischen Umschwung modifiziert und aktualisiert werden.
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5.3.4 Schild des Herakles (Aspis) Der Schild des Herakles ist ein episches Gedicht kleineren Umfangs (480 Hexameter). Der im Altertum verbreitete Titel war wohl einfach ,Schild‘ (Ἀσπίς),75 nach dem Inhalt des zentralen Abschnitts, der Beschreibung der Darstellungen, die den von Hephaistos für Herakles geschmiedeten Schild schmücken. Inhalt und Aufbau: „Ehoie“ der Alkmene (1–56) Kyknos und Ares (57–77) Herakles und Iolaos (78–121) Das Anlegen der Waffen (122–138) Der Schild des Herakles (139–320) Die Schlange in der Mitte, die Zwietracht, die Geister der Schlacht, die zwölf Schlangen (144–167) Der Kampf zwischen Ebern und Löwen (168–177) Lapithen und Kentauren (178–190) Ares und Athene (191–200) Apoll und die Musen (201–206) Der Hafen; der Fischer (207–215) Perseus, verfolgt von den Gorgonen (216–237) Die Stadt im Krieg (238–270) Die Stadt im Frieden (270–313) Okeanos (314–320) Einleitung zum Kampf (320–412) Kampf mit Kyknos (413–423) Begegnung mit Ares (424–462) Epilog (463–480)
Verhältnis zum Frauenkatalog: Aus der Hypothesis A76 zum Schild geht hervor, daß der Anfang des Gedichts bis Vers 56 „im vierten Katalog überliefert wird“ (φέρεται ἐν τῷ τετάρτῳ Καταλόγῳ). Dies wird bestätigt durch zwei Papyri des Katalogos, POxy 2355 und 2494A = Fr. 195 M.–W. Der erste Vers beginnt mit der Formulierung, die im Katalogos einen Abschnitt über ein bestimmtes Geschlecht einleitet (ἢ οἵη), und die ersten 56 Verse bilden die ,Ehoie‘ der Alkmene. Somit überschneidet sich der Schild teilweise mit einem Abschnitt des Katalogos. Diese Tatsache hat – vor allem mit der Schildbeschreibung in Ilias 18 im
|| 75 Vgl. z. B. Athen. 180e, außerdem die Papyri. Der noch heute übliche Titel Ἀσπὶς Ἡρακλέους, Schild des Herakles, findet sich zuerst im Codex Marcianus 464 des Demetrios Triklinios. 76 Erhalten sind fünf Einleitungen (Hypotheseis). Die reichste und wahrscheinlich älteste ist die von den Herausgebern mit dem Buchstaben A bezeichnete; RUSSO (1965) 37 und 52.
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Hintergrund – dazu geführt, den Schild als ein mehr oder weniger gelungenes Werk eines Rhapsoden zu betrachten, der homerische und hesiodeische Stoffe ausgeweitet und miteinander verbunden habe. Der Inhalt des Gedichts ist traditionell. Der Heraklesmythos war Thema verschiedener epischer und nicht–epischer Werke.77 Traditionell sind auch die Erzählmotive: Das Anlegen der Waffen (122–138) ist eine typische homerische Szene, die Ekphrasis (139–317) verweist auf die Beschreibung des Schilds des Achill in Ilias 18, der Zweikampf ist ein in der Ilias weit verbreitetes Motiv.78 Formal stimmt der Schild also im wesentlichen mit der übrigen archaischen epischen Produktion überein.79 Bedenkt man, daß es sich um traditionelle mündliche Dichtung handelt, erscheint es nicht erstaunlich, daß derselbe Erzählblock in verschiedenen Werken erscheint. Der Versuch, direkte Abhängigkeiten zwischen epischen Texten – z. B. zwischen dem Schild und Ilias 18 – festzustellen, ist dementsprechend müßig.80 Nichts spricht – in anderen Worten – gegen die Annahme, daß der Schild eine ausführlichere Version einer tradi-
|| 77 Vgl. Aristoteles, Poetik 1451a 16 ff. Eine Herakleia hatten die Epiker Kinaithon, Panyassis und Peisandros verfaßt (vermutlich auch andere Autoren: vgl. M. DAVIES, Epicorum Graecorum Fragmenta, Göttingen 1988, 142 f.). Stesichoros schrieb ein Gedicht über Kyknos (Fr. 207 PMGF = schol. Pind. O. 10,19b). Zu dem Verhältnis zwischen scut. und Kyknoslegende vgl. R. JANKO, The Shield of Herakles and the Legend of Cycnus, CQ 36 (1986) 38–59. 78 Nach P. VENTI, Per un’indagine sulla formularità dello Scudo di Herakles, Lexis 7–8 (1991) 26–71 und PAVESE/VENTI (2000) 209 ff. war die Kompositionsweise des Gedichts von formelhafter Art. Im Schild gibt es zahlreiche Wiederholungen hesiodeischer Verse: z.B. 75 f. = op. 148 f. (76 = theog. 152 = 673), 400 = Fr. 121,1; mit Änderungen: 376 = op. 509 (vgl. Il. 11,494): Hält man nicht alle diese Passagen für interpoliert, dann ist daraus zu schließen, daß der Schild zu derselben dichterischen Tradition gehört wie die übrigen hesiodeischen Gedichte, die ihrerseits Berührungspunkte mit der homerischen Tradition aufweisen; auch im Schild gibt es, wie zu erwarten, Wiederholungen von homerischen Wendungen und ganzen Versen; vgl. PAVESE/VENTI (2000) 209 ff. 79 Vgl. auch L. ANDERSEN, The Shield of Heracles. Problems of Genesis, CM 30 (1969) 10–26. Die von RUSSO (1965) 34 besonders aufgrund eines Vergleichs mit der bildenden Kunst bestimmten termini intra quos für die Abfassung zwischen 590 und 570 v. Chr. sind eine mögliche Hypothese. Das Zeugnis über Stesichoros ließe dagegen an eine frühere Datierung ins 7. Jh. v. Chr. denken. Zur Diskussion vgl. jetzt auch CINGANO (2009) 109 ff. 80 Die Beziehungen zwischen Aspis und Ilias 18 stehen im Zeichen einer wechselseitigen Kontamination schon in alter Zeit; vgl. N. NATALUCCI, PBerol. 9774: lo scudo di Achille e lo scudo di Eracle, in: M. CANNATÀ–FERA/S. GRANDOLINI (Hgg.), Poesia e religione in Grecia. Studi in onore di G. Aurelio Privitera, Napoli 2000, 487–497. Die Vorstellung einer vollständigen Abhängigkeit des pseudo–hesiodeischen Werks von der homerischen Vorlage ist deshalb zu revidieren.
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tionellen Erzählung darstellt, die nur teilweise in den Katalogos eingegangen ist. Die Frage der Autorschaft: Die Echtheit der Aspis wurde schon in der antiken Forschung kontrovers diskutiert (Hypothesis A). Aristophanes von Byzanz hatte Zweifel an seiner Echtheit und hielt ihn für das Werk eines anonymen Nachahmers der iliadischen Schildbeschreibung. Auch Megakleides von Athen, ein Peripatetiker des 4. Jh. v. Chr., der sich mit epischer Dichtung beschäftigte (so z. B. Athen. 512e), hielt ihn für unecht, da die Annahme unlogisch sei, daß Hephaistos für Herakles einen Schild angefertigt habe, da seine Mutter Hera Herakles nicht wohlgesinnt gewesen sei. Apollonios Rhodios hielt ihn dagegen für echt – sowohl aufgrund seines Charakters81 als auch deshalb, weil Iolaos auch im Katalogos als Wagenlenker des Herakles erscheint. Lange vor ihm hatte schon Stesichoros von Himera die Meinung vertreten, die Aspis sei ein Werk Hesiods. Die moderne Forschung tendiert entschieden dazu, das Werk für unecht zu halten und eine Imitation des Schilds des Achill unter Umarbeitung von homerischem und hesiodeischem Material anzunehmen (z.B. RUSSO 1965, 7). Auch die böotische Herkunft der Aspis, an die das Thema (Herakles, böotische Mythen) denken läßt, bleibt letztendlich unbeweisbar.82
5.3.5 Andere Hesiod zugeschriebene Werke, das Corpus Hesiodeum Aus Pausanias (9,31,5–6) gewinnt man eine Liste von Hesiod zugeschriebenen Werken: (1) Verse für die Frauen (d. h. der Katalogos); (2) die Megalai Ehoiai; (3) Theogonie; (4) ein Gedicht über den Seher Melampus;83 (5) ein Gedicht über den Abstieg des Theseus und Peirithoos in die Unterwelt; (6) Vorschriften des Chiron für die Erziehung des Achill; (7) Werke und Tage; (8) Orakelverse; (9) Erklärung von Wundern. Pausanias’ Bericht scheint nicht so sehr Titel zu liefern, unter denen die verschiedenen Gedichte zirkulierten, als vielmehr Angaben zum Inhalt der einzelnen Werke zu geben. Eine weitere Liste findet sich in der Suda (η 583): (1) Theogonie; (2) Werke und Tage; (3) Schild; (4) Katalog der He|| 81 Der griechische Ausdruck ist ἔκ τε τοῦ χαρακτῆρος, aber es ist nicht klar, was unter ,Charakter‘ zu verstehen ist: vielleicht die Form der ,Ehoie‘, vielleicht stilistische Merkmale. 82 Anders RUSSO (1965) 34 f. und 212; P. GUILLON, Études béotiennes. Le Bouclier d’Héraclès et l’histoire de la Grèce centrale dans la période de la première guerre sacrée, Aix–en–Provence 1963. 83 Vgl. A. LÖFFLER, Die Melampodie. Versuch einer Rekonstruktion des Inhalts, Meisenheim am Glan 1963.
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roinen; (5) Epikedeion für Batrachos; (6) Ein Gedicht über die Idäischen Daktylen. Die Hesiod zugeschriebene literarische Produktion war also ziemlich umfangreich,84 wobei die grundsätzliche formale und inhaltliche Einheitlichkeit des Corpus gewahrt blieb: Es handelt sich immer um epische Dichtungen in daktylischen Hexametern, die mythische Erzählungen und didaktische Stoffe im weitesten Sinne – z. B. Chirons Vorschriften, Orakeldichtung – enthalten und darin mit Hesiods wichtigeren Werken übereinstimmen.85 Angesichts dieses Befunds stellt sich die Frage, warum Hesiod eine so umfangreiche und verschiedenartige Produktion zugeschrieben wurde. Hesiod galt mit Homer zusammen als die größte Autorität in mit Göttern und Heroen zusammenhängenden Fragen. Mit einer der griechischen Welt fremden, aber dennoch zutreffenden Formulierung könnte man Hesiod als die größte Autorität auf dem Gebiet der Moraltheologie und Dogmatik nennen. Eine mythologische Version in ein hesiodeisches Werk einzufügen oder überhaupt ein Werk Hesiod zuzuschreiben, bedeutete, diesem Text höchste Autorität zu verleihen. Um Hesiod als Autor zu beschreiben, sollte man die Vorstellung von einem ,individuellen Autor‘ durch die einer ,individuellen Autorität‘ ersetzen,86 die den Wahrheitsanspruch eines beliebigen Textes begründen und auf die man jede Aussage, die Gültigkeit und Wahrheit beanspruchte, zurückführen konnte. Hesiods Werke sind wie die homerischen zumindest seit dem 6. Jh. und vielleicht schon früher in Buchform auf– und abgeschrieben worden, jedoch keineswegs als ein abgeschlossener und unveränderlicher Text. Von Büchern in diesem ,modernen‘ Sinne kann man erst seit der alexandrinischen Philologie sprechen. Wie bei den homerischen Gedichten handelt es sich auch bei Hesiod um ein ,traditionelles Buch‘, um ,Kultur–Texte‘, die den jeweiligen aktuellen Bedürfnissen ständig angepaßt wurden. . . . . .[*]
|| 84 Einzelne Testimonien teilen weitere Titel mit: Κήυκος γάμος (Plut. symp. 8,8,4 = mor. 730 f.), Μεγάλα Ἔργα (Athen. 8,66, usw.), Ἀστρονομία (Plut. mor. 402 f), Κεραμεῖς (Pollux 10,85). 85 Vollständige Sammlung der Quellen bei JACOBY (1930) 123–127; detaillierte Diskussion der einzelnen Hesiod zugeschriebenen Werke bei SCHWARTZ (1960) 13–32 und 199–264. Schon die alexandrinische Kritik hatte ausführlich über die Echtheit einiger Werke und Abschnitte von Werken Hesiods diskutiert (s. S. 118 f.). 86 Die Begriffe ,individueller Autor’ und ,individuelle Autorität’ stammen von AVERINCEV (1998) 18. Zu der Definition des Begriffs individuelle Autorität’, der für die Literaturen des Vorderen Orients und besonders die jüdische Literatur charakteristisch ist, vgl. AVERINCEV (1998) 9–41, besonders 18 ff. [* Il § 5.4 Hesiods Erzähltechnik è stato scritto da Antonios Rengakos.]
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5.5 Sprache, Stil, Metrik Die hesiodeischen Gedichte sind in der Kompositionstechnik mit den homerischen vergleichbar und in den Rahmen einer mündlich–formelhaften dichterischen Tradition einzuordnen (HOEKSTRA 1957; KIRK 1962). Einige Beispiele können die insgesamt der homerischen ähnliche Formeltechnik Hesiods illustrieren: Die kleinste Einheit ist die von Name + Epitheton, z. B. μητίετα Ζεύς (theog. 56.520.904 etc.). Durch Zusammensetzung formelhafter Wendungen werden oft ganze Hexameter gebildet (vgl. z. B. theog. 21 und 105 mit 33 und 110 sowie 702 und 840). Wichtiger ist das Vorhandensein von Formelsystemen, die je nach Kontext verschiedene Ausdrücke von ähnlichem Inhalt verwenden. So wird z. B. die Klausel εὐρύοπα Ζεύς verwendet, wenn das vorausgehende Wort mit einem langen Vokal oder einem Konsonanten endet (theog. 514, op. 229.239.281), dagegen μητίετα Ζεύς, wenn das vorausgehende Wort mit einem kurzen Vokal schließt (theog. 56.520.904.914; op. 104).106
Die im Vergleich zu den homerischen Dichtungen höhere Verletzung der Formelökonomie107 ist allerdings ein Zeichen dafür, daß der hesiodeische Text in der erhaltenen Form deutliche Elemente einer individuellen formalen Gestaltungsabsicht aufweist. In einzelnen Textabschnitten – besonders dort, wo sich eine Variation von Formeln beobachten läßt – ist eine gezielte Absicht zu erkennen, vom Modell abzuweichen. Dies läßt sich auf einen wahrscheinlich durch die Benutzung der Schrift bedingten (oder besser ermöglichten) Willen zur Innovation zurückführen. So läßt sich die Änderung in der Wortstellung zwischen theog. 443 (ἐθέλουσά γε θυμῷ) und 446 (θυμῷ γ’ ἐθέλουσα) – die beiden im Abstand von vier Versen stehenden abschließenden Halbverse sind prosodisch gleichwertig
|| 106 Auch der sog. ,enjambement–test‘ bestätigt die Nähe der hesiodeischen zu den homerischen Gedichten hinsichtlich der Kompositionstechnik. Die von EDWARDS (1971) 93–100 (besonders Tab. 10, 96) gesammelten und diskutierten Daten sind vergleichbar mit den von M. PARRY (The Making of Homeric Verse, Oxford 1971) für die homerischen Gedichte ermittelten und bestätigen den mündlichen (traditionellen und formelhaften) Charakter der Komposition. Die quantitative Analyse der hesiodeischen Formelhaftigkeit bestätigt dies, vgl. PAVESE/VENTI (2000) 39–46: die Theogonie habe eine Formeldichte von 51,11%, die Werke von 36,70%, der Schild von 51,95%, die Fragmente des Katalogos von 54,18 %. Im Fall der Werke erklärt sich der geringe Wert, „because its themes are rather scarcely attested“ (PAVESE/VENTI 2000, 43). 107 Zu einer detaillierten Diskussion der Formelökonomie vgl. L. E. ROSSI, Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik, GGA 233 (1971) 161–176. Zu den Verletzungen des Ökonomieprinzips bei Hesiod vgl. EDWARDS (1971) 54–73, der sie jedoch nicht auf die Verwendung der Schrift zurückführt. Überlegungen zur Formelökonomie in Zusammenhang einer Analyse der einzelnen Formeln bei MUREDDU (1983).
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– aus einem Streben nach Variation erklären, das im Gegensatz zu der den Formelsystemen eigenen Tendenz zur Ökonomie und dem Merkmal der mündlichen Komposition steht, ein und dieselbe metrische Position mit identischen Textsegmenten zu füllen (vgl. auch theog. 543 ~ 559 = op. 54; theog. 625 ~ 634).108 Wie die homerische ist auch die hesiodeische Diktion eine Kunstsprache, die keinem in historischer Zeit im griechischen Raum gesprochenen Dialekt entspricht, sondern aus einer Vermischung von aus verschiedenen Dialekten stammenden sprachlichen Elementen besteht, wobei die Zuweisung einzelner sprachlicher Phänomene an einen bestimmten Dialekt oft umstritten ist. Außer Frage steht, daß in unterschiedlichem Ausmaß verschiedene Dialekte in Hesiods Diktion nebeneinander stehen:109 (1) Ionisch–attisch: allgemein der Vokalismus η für langes α; ionisch ist der Genitiv in –εω, mit Quantitätenmetathese, metrisch gestützt in Fäl-
|| 108 Vgl. auch op. 678 und 682; eine Liste der Variationen findet sich bei EDWARDS (1971) 54–56. Zur Rolle der Schrift bei der Komposition vgl. DIHLE (1970) 120–143 (wenn auch mit den Vorbehalten von MINTON 1975); speziell zu Hesiod KIRK (1962) 67; T. G. ROSENMEYER, The Formula in Early Greek Poetry, Arion 4 (1965) 295–311; G. ARRIGHETTI (Hg.), Esiodo. Letture critiche, Milano 1975. Ein weiterer Unterschied zwischen den homerischen und hesiodeischen Gedichten wird in der narrativen Technik gesehen: Bei Homer zeige sich eine strenge Beachtung eines linearen und chronologischen Fortgangs der Erzählung, die niemals in der Zeit zurückgeht und nacheinander gleichzeitige Ereignisse beschreibe (,Zielinskis Gesetz’; T. ZIELIŃSKI, Die Behandlung gleichzeitiger Ereignisse im antiken Epos, Berlin 1901, 419), während es bei Hesiod eine solche Rückkehr zu einem früheren Punkt mit Wiederaufnahme des Berichts gebe wie in theog. 617 (ὡς πρῶτα: Rückkehr zur Zeit des Uranos) und 711f. (πρὶν δ’). Zu ZIELINSKIS Gesetz in der Theogonie vgl. R. M. FRAZER, Hesiod’s Titanomachy as an Illustration of Zielinski’s Law, GRBS 22 (1981) 5–9. Die Beobachtungen ZIELINSKIS sind allerdings kritisiert worden, vgl. zusammenfassend ARRIGHETTI (2001) 251. Ebenfalls auf der Ebene der Erzähltechnik beobachtet man in Hesiods Dichtungen einen vergleichsweise geringen Einsatz der direkten Rede: in der Theogonie in 26–28.164–166.170–172.543 f.548 f.559 f.644–653.655–663; in den Werken ist sie kaum präsent (453 f.503). Ganz gering ist die Verwendung der indirekten Rede (nur theog. 392–396), was einen weiteren Unterschied zu den homerischen Gedichten darstellt. Auf der lexikalischen Ebene bemerkt man bei Hesiod eine größere Häufigkeit abstrakter Begriffe; vgl. SELLSCHOPP (1934) 88 ff.; nützlich J. PÉRON, L’analyse des notions abstraites dans les Travaux et les Jours d’Hésiode, REG 89 (1976) 265–291; zur Diskussion eines aufschlußreichen Beispiels (theog. 55) vgl. KIRK (1962) 77. 109 Zur hesiodeischen Sprache, wenn auch mit abweichenden Schlußfolgerungen: A. RZACH, Der Dialekt des Hesiodos, Jahrbücher für klassische Philologie, Supplementband 8, 1876, MORPURGO–DAVIES (1964), TROXLER (1964), EDWARDS (1971) 101–121, WEST (1966) 79–91. Speziell zu den nordöstlichen Elementen J. L. GARCÍA RAMÓN, En torno a los elementos dialectales en Hesiodo, I, El elemento occidental, CFC(G) 11 (1976) 523–554. Vgl. zuletzt die ausgewogene Diskussion der Kunstsprache Hesiods bei A. C. CASSIO, The Language of Hesiod and the Corpus Hesiodeum, in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 179–201.
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len mit folgendem Konsonanten (z. B. theog. 994). Gelegentlich sind sog. hyperionische Züge zu bemerken: z. B. Ἑρμείην in op. 68.110 (2) Eventuelle Äolismen: theog. 585, op. 63: καλόν (mit kurzem α); op. 752 ἴσον (mit kurzem ι); op. 683 αἴνημι; op. 666 und 693 καυάξαις; op. 696 τριηκόντων, wahrscheinlich lesbisch.111 (3) Nordwestliche Dialekte, besonders dorisch, theog. 30 ἔδον und op. 139 ἔδιδον: 3. Person Plural des athematischen Aorists, nur im nordwestlichen Raum bezeugte Formen; theog. 41, 129 θεᾶν und op. 145 ἐκ μελιᾶν: Genitiv Plural auf –ᾶν; theog. 321.825 ἦν: 3. Person Plural, die Form ist weder ionisch noch homerisch (ἦσαν oder ἔσαν); fraglich ἐν– mit Akkusativ;112 op. 698 τέτορα: thematischer Akkusativ Plural mit kurzem Vokal; Infinitiv auf –εν: ἀποδρέπεν op. 611.113 Ein Musterbeispiel für das artifizielle Nebeneinander verschiedener Dialektformen bieten theog. 992 Αἰήταο (äolisch) und 994 Αἰήτεω (ionisch), in beiden Fällen ist die Richtigkeit der Form durch das Metrum gesichert.
Problematisch bleibt die Frage nach dem Verhältnis zwischen hesiodeischer und homerischer Diktion. Aus der Übereinstimmung sprachlicher Formen und Formeln und manchmal sogar ganzer Verse (z. B. theog. 13 ~ Il. 10,553; 15 ~ Il. 13,43; 952 ~ Od. 11,604 usw.114) wurde meistens der Schluß gezogen, daß die
|| 110 Direkter attischer Einfluß auf den Hesiodtext ist festgestellt worden in den Formen λαμπράν (theog. 19 und 371); καλόν (mit kurzem α) (theog. 585, op. 63); ἴσον (mit kurzem ι) (op. 752); ἔαγε (op. 534). καλόν und ἴσον werden von TROXLER (1964) 48 für attisch gehalten, aber WEST (1966) 82 hält es für möglich, daß es sich um ionische Formen der Inseln handelt, während sie nach EDWARDS (1971) 107 wahrscheinlicher Äolismen sind. Zu ἔαγε vgl. WEST (1966) 82. Das ionische Element in der hesiodeischen Diktion ist gelegentlich überbewertet worden aufgrund von op. 504 (μῆνα δὲ Ληναιῶνα, κάκ’ ἤματα, βουδόρα πάντα), wo der ionische Monatsname Ληναίων genannt wird, der nach Plutarch Fr. 71a SANDBACH in etwa dem böotischen Βουκάτιος entspricht (so z. B. HOEKSTRA 1957, 199). Dazu vgl. aber A. STEITZ, Die Werke und Tage des Hesiodos, Leipzig 1869, 236f. und FICK (1887) 49: Der Text in der überlieferten Form könnte für ein ionisches Publikum angepaßt worden sein, und βουδόρα πάντα in der Klausel läßt die Möglichkeit einer anderen ,böotischen’ Version, die z. B. μῆνα δὲ Βουκάτιον, χαλέπ’ ἤματα, βουδόρα πάντα gelautet haben könnte (mit paretymologischem Spiel Βουκάτιον/βουδόρα), zumindest durchscheinen. 111 Andere Äolismen wie op. 22 ἀρώμεναι, 280 εἰ γάρ τίς κ’ ἐθέλῃ, 392 ἀμάειν, 510 πίλνᾳ/πιλνᾷ, 526 δείκνυ, sind in der Deutung umstritten: vgl. EDWARDS (1971) 108–110. Daß die Gedichte Hesiods ursprünglich im äolischen Dialekt verfaßt gewesen seien, war die Überzeugung von FICK (1887). 112 Vgl. theog. 487.890.899; dazu CASSIO in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 190 f. 113 Unsicher, WEST und MOST haben den Imperativ ἀπόδρεπε im Text; vgl. WEST (1978) 312. Hinzuzufügen sind wahrscheinlich lokale nordwestliche Dialektformen (dazu WEST 1978 ad locos): op. 408 τητᾷ (die Form erscheint wieder bei Pindar und war vielleicht in den Dialekten des Festlands gebräuchlich), 427 κᾶλα (lakonische Dialektform?), 576 τημοῦτος. 114 Ausführlichere Diskussion mit reicher Materialsammlung bei SELLSCHOPP (1934) 42–81 und EDWARDS (1971) 166–189.
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hesiodeische Dichtung die homerische Diktion voraussetze.115 Ein Teil der Forschung hielt dagegen einige Elemente sowohl der Phraseologie der Ilias als auch der Odyssee116 für nachhesiodisch und kam zu dem Schluß, daß zwar insgesamt die hesiodeische Diktion die homerische voraussetze, für einzelne Textabschnitte aber das Gegenteil gelte: Es gebe also wechselseitige Anleihen.117 Andererseits haben das Vorkommen nordöstlicher Elemente (und besonders dorischer Endungsmorpheme) in der Theogonie und den Werken und die Unterscheidung eines vom homerischen unabhängigen ,hesiodeischen‘ Formelsystems dazu geführt, die hesiodeische Dichtung als Teil einer eigenen poetischen Tradition zu sehen: Hesiod ist nach dieser Auffassung der Vertreter einer epischen Tradition des griechischen Festlandes, die sich in Inhalt und Sprache von Ilias und der Odyssee unterscheide.118 Die Frage muß zwar offen bleiben; es
|| 115 Diese Schlußfolgerung setzt die zeitliche Priorität der homerischen gegenüber den hesiodeischen Gedichten voraus (z. B. KRAFFT 1963), was jedoch keineswegs als sicher gelten kann; gelegentlich ist man sogar zu dem Schluß gekommen, daß die homerischen Gedichte das Bezugsmodell für die hesiodeische Produktion darstellen, so z. B. NEITZEL (1975). Diese Forschungsrichtung mußte die Bedeutung der nordwestlichen sprachlichen Besonderheiten herunterspielen und für sie neue Erklärungen finden; vgl. besonders MORPURGO–DAVIES (1964) und EDWARDS (1971) 118 ff. und 141–165. In einigen Fällen scheint es sich um die Anpassung von Formeln unter Verwendung lokaler sprachlicher Besonderheiten zu handeln (z. B. op. 675, das aus der Wiederverwendung der nominativischen homerischen Formel von Il. 15,626 im Akkusativ hervorgegangen sein könnte). Jeder Versuch, die nordwestlichen Elemente zu beseitigen, stößt sich aber an τέτορα in op. 698. 116 Z. B. SELLSCHOPP (1934) besonders 76 ff. mit detaillierter Analyse der den hesiodeischen Dichtungen und der Odyssee gemeinsamen, aber in der Ilias nicht belegten sprachlichen Elemente. Vgl. außerdem MUNDING (1959). 117 Vgl. schon WILAMOWITZ–MOELLENDORFF (1928) 148 f. Trotz der gegenüber den Ergebnissen von SELLSCHOPP (1934) und MUNDING (1959) kritischen Haltung von KRAFFT (1963) gelangen neuere Untersuchungen zur Ilias zu ähnlichen Schlußfolgerungen. In vielen Fällen liege das Bezugsmodell außerhalb der homerischen Gedichte, und nicht selten sei es in den hesiodeischen Dichtungen zu erkennen; vgl. P. ROTH, Singuläre Itarata der Ilias (Φ–Ω), Frankfurt/M. 1989; N. BLÖSSNER, Die singulären Iterata der Ilias. Bücher 16–20, Stuttgart 1991; P. CSAJKAS, Die singulären Iterata der Ilias. Bücher 11–15, München – Leipzig 2001. Die Verwendung des Begriffs ,Modell‘ innerhalb einer mündlichen Kultur birgt allerdings methodische Gefahren. EDWARDS (1971) 166 ff. und besonders 188 f. betont zu Recht, daß in einer mündlichen Dichtungstradition nicht von der Abhängigkeit zwischen ,Texten‘ gesprochen werden kann. 118 Eine Liste hesiodeischer Formeln, die sich nicht bei Homer finden, bei PAVESE (1972) 121– 165. Diese ist jedoch deutlich zu verkleinern, vgl. MUREDDU (1983) 129 ff., Anm. 160. PAVESE/VENTI (2000), die nicht nur das Epos, sondern auch die sonstige dichterische Produktion der archaischen Zeit, soweit sie Züge von Formelhaftigkeit aufweist, untersuchen, heben erneut die Besonderheit von Hesiods Formelsprache hervor, die zu der homerischen parallel laufe und nicht von dieser abhänge. Für MUREDDU (1983, 128 f.) sind die der hesiodeischen Diktion eige-
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ist jedoch zu bedenken, daß selbst unter der Annahme von ursprünglich zwei getrennten epischen Traditionen mit unterschiedlichen sprachlichen Merkmalen die mündliche Verbreitung des epischen Texts – und zwar sowohl des homerischen als auch des hesiodeischen – sicherlich zu einer Vermischung der Elemente beider Traditionen geführt hat und daß der mit der Zeit immer größere Einfluß der homerischen Tradition deutliche Spuren in der epischen Diktion insgesamt hinterlassen hat.119 Wiederholungen sind ein typischer, in erster Linie auf das mündliche Kommunikationssystem zurückzuführender Zug der griechischen archaischen Dichtung, die im Epos oft durch die formelhafte Diktion bestimmt sind, sich jedoch nicht allein als Folge der Formelhaftigkeit erklären lassen. In der mündlichen Kommunikation dient die Wiederholung nicht nur dazu, den vermittelten Ideen und Vorstellungen mehr Nachdruck zu verleihen (SELLSCHOPP 1934, 106–118), sondern verhilft auch dazu, das Verständnis und gegebenenfalls das Memorieren des Textes zu erleichtern. Das Ausmaß der Wiederholungen in den hesiodeischen Texten ist unterschiedlich und reicht vom Insistieren auf einem bestimmten Wortschatz bis zur Wiederholung ganzer Verse oder Versgruppen (auch zwischen verschiedenen Werken).120 Wiederholung innerhalb eines Verses: op. 313.352.369 usw. – Wiederholung eines Schlüsselbegriffs in folgenden Versen: theog. 395 f.550 f.; op. 29 f.253 f., usw.; theog. 65 und 67;
|| nen Formeln (insgesamt etwa sechzig) lokale Erscheinungen, die mit einer mythischen Tradition in Verbindung stehen „che potremmo forse definire ,beotica‘, in cui non sono da escludere resti pregreci e apporti orientali“ – Mythen, die, da sie der homerischen Erzählung fremd sind, zwangsläufig keine Formelparallelen in Ilias oder Odyssee finden konnten. 119 Zu der epischen Diktion und der Formelsprache Hesiods – auch in Bezug auf die Mündlichkeit der Komposition – siehe (mit unterschiedlichen Ergebnissen) J. A. NOTOPOULOS, Homer, Hesiod and the Achaean Heritage of Oral Poetry, Hesperia 29 (1960) 177–197; EDWARDS (1971); HOEKSTRA (1957); PAVESE (1972) und (1974); MINTON (1975); B. PEABODY, The Winged Word: A Study in the Technique of Ancient Greek Oral Composition as Seen Principally through Hesiod’s Works and Days, Albany (NY) 1975; M. L. WEST, Is the Works and Days an Oral Poem?, in: C. BRILLANTE/M. CANTILENA/C. O. PAVESE (Hgg.), I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale, Padova 1981, 53–67; MUREDDU (1983); PAVESE/VENTI (2000) 13–52. 120 Eine Auflistung von in den hesiodeischen Gedichten mehr als einmal wiederholten Versgruppen, einzelnen Versen und Halbversen bietet P. F. KRETSCHMER, De iteratis Hesiodeis, Breslau 1913. Zu ,externen Wiederholungen‘, also dem Vorkommen von hesiodeischem Text auch in anderen Gedichten (ohne daß daraus ein Abhängigkeitsverhältnis ableitbar wäre), vgl. PAVESE/VENTI (2000).
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429–447,121 450 und 452, usw., op. 299–316.354–358. Häufig sind Anaphern: theog. 27 f.121.211 f. und passim; op. 5–7.150 f.317–319 und passim.
Besonders charakteristisch für die Werke sind Gnomen (z. B. op. 293– 295.346.352; theog. 603–612: Vorschriften über die Ehe, die thematisch an den Inhalt der Werke erinnern; Fr. 321.361 und passim). Die Allgemeingültigkeit wird sprachlich oft durch das indefinite Relativpronomen unterstrichen, wodurch das Gesagte auf eine allgemeine und beispielhafte Ebene erhoben wird (op. 210 ὅς κ’, 225 οἳ δέ, 238 οἷς δ’ und passim).122 Neben den Gnomen sind auch Sprichwörter in eigentlichem Sinne zu finden (op. 25 f.218.265 f.319.464; theog. 35123). Auf funktionaler Ebene sind den sentenzenhaften Aussprüchen und Sprichwörtern die Rätsel (γρῖφοι) vergleichbar,124 die den Zuhörer zu Interaktion zwingen, indem sie zum Verständnis eine Deutung und Lösung erfordern und so eine gesteigerte Aufmerksamkeit wachrufen.125 Vergleiche und Metaphern dienen in der archaischen Dichtung, besonders im Epos, nicht nur als poetischer Schmuck, sondern ermöglichen, indem sie eine Analogie zu einer dem Publikum bekannten Realität schaffen, ein unmittelbares Verständnis besonders von emotionalen Situationen und abstrakten Begriffen; man denke z. B. an die Definition der Muße durch die Gegenüberstellung von Drohnen und Bienen (op. 303–307, theog. 594–599).126 Auf funktion-
|| 121 Der Abschnitt ist hinsichtlich der Textkonstitution problematisch. Klar ist jedoch das Beharren auf der Vorstellung vom freien Willen der Götter, ausgedrückt durch die Wiederholung des Verbs ἐθέλω (429 f.432.439.443.446). 122 Zu den gnomischen Elementen der Werke vgl. A. HOEKSTRA, Hésiode, Les Travaux et les Jours, 405–407, 317–319, 21–24. L’élement proverbiale et son adaptation, Mnemosyne 3 (1950) 89–114; PELLIZER (1972); J. A. FERNÁNDEZ DELGADO, Poesía oral gnómica en los Trabajos y los Días; una muestra de su dicción formular, Emerita 46 (1978) 141–171; SBARDELLA (1995). 123 ἀλλὰ τίη μοι ταῦτα περὶ δρῦν ἢ περὶ πέτρην; Die Bedeutung ist umstritten, vgl. die Diskussion bei WEST (1978) 167–169; zuletzt M. JANDA, Über ,Stock und Stein‘. Die indogermanische Variationen eines universalen Phraseologismus, München 1997. Der Ausdruck erscheint auch in Od. 19,163 οὐ γὰρ ἀπò δρυός ἐσσι παλαιφάτου οὐδ’ ἀπὸ πέτρης und wird, von dort ausgehend, häufiger in der griechischen Literatur zitiert (z. B. Plat. apol. 34d, rep. 544d; Plut. mor. 608c). 124 Vgl. die ,kennings‘ der englischen Tradition oder die ,kenningar‘ der altnordischen Epik. 125 op. 524: der Polyp oder wahrscheinlicher die Schnecke, vgl. TROXLER (1964) 23; E. F. BEALL, Notes on Hesiod’s Works and Days, 383–825, AJP 122 (2001) 159 f.; op. 571 f.: die Schnecke; op. 605: der Dieb; op. 742 f.: das Schneiden der Fingernägel; theog. 440: γλαυκή δυσπέμφελος, das stürmische Meer. 126 Z. B. theog. 40, 702 f., 862–866 und passim; ausführlicher ist das Bild der zwei Wege in op. 286–293 gestaltet, vgl. auch 216 f. Einzelne Metaphern – wahrscheinlich handelt es sich um
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aler und konzeptioneller Ebene tritt auch die Fabel von Habicht und Nachtigall (op. 202–212) in den metaphorischen Diskurs. Der αἶνος127 ist eine Ausdrucksform autoritativen Sprechens in einer mündlichen Gesellschaft.128 Durch die Analogie zwischen den (zum realen Erfahrungshorizont des Rezipienten gehörenden) Figuren der Fabel und dem (mit den Figuren der Fabel vergleichbaren) menschlichen Verhalten wird eine moralische Unterweisung in Form einer Erzählung übermittelt. Nicht nur in Hesiods Werk, sondern überhaupt in der archaischen Dichtung wird häufig mit der Etymologie von Namen gespielt. Das entspricht einer Denkweise, nach der der Name mit der Existenz einer Person oder Sache gleichbedeutend ist und einen Wesenskern der Sache oder Person zum Ausdruck bringt. Etwas zu benennen bedeutet, es ins Leben zu rufen.129 Diese Vorstellung findet ihren Ausdruck in ,sprechenden Namen‘, die die griechische Namensgebung insgesamt charakterisiert und sich in dem sprichwörtlichen nomen est omen zusammenfassen läßt.130 Etymologisierende Wortspiele, Etymologien und Paretymologien, sind in Hesiods Werk häufig.131 Der Vers der hesiodeischen Dichtung ist der daktylische Hexameter, der keine vom homerischen Hexameter verschiedenen Merkmale – weder in den Zäsuren noch in prosodischer Hinsicht – aufweist (s. S. 17 f.).132 Es ist festgestellt worden, daß besonders in den Werken Gnomen und Sentenzen in Kola in der || erstarrte Metaphern – finden sich z. B. in theog. 691: „fliegen“, von den von Zeus geschleuderten Geschossen; 978: „Kranz“ für „Stadtmauer“ und passim. 127 So wird die Fabel von Hesiod selbst in op. 202 genannt (vgl. aber auch Od. 14,508; Archil. Fr. 174,1 IEG). Der αἶνος ist eigentlich eine Fabel oder Geschichte mit einer hinter den Bildern verborgenen impliziten Botschaft an den Adressaten; vgl. die Ableitung von αἰνίττομαι, ,in Anspielungen sprechen‘, ,durch Symbole sprechen‘. Zum αἶνος vgl. SELLSCHOPP (1934) 84–86. 128 Vgl. dazu G. NAGY, Pindar’s Homer, Baltimore 1990, 30f.: in einer Reflexion über das nicht bezeugte Verb *αινομαι im Vergleich zu seiner verneinten Form ἀναίνομαι hebt NAGY die funktionale Wirkung des αἶνος auf gesellschaftlicher Ebene hervor: „... ainos is authoritative speech: it is an affirmation, a marked speech–act, made by and for a marked social group“. 129 Das wird e contrario durch das Verbot bewiesen, furchterregende Gottheiten zu nennen, die sonst erscheinen könnten; vgl. z. B. theog. 148 und 310. 130 Z. B. theog. 140 f.144 f.195–200.207–210 und passim; op. 81 f. und passim. In diesem Zusammenhang sind auch relativische Expansionen in epexegetischer Funktion wie theog. 1– 4.141.215 f. usw. oder op. 253 f. zu sehen, die auch dem homerischen Epos nicht fremd sind (z. B. Il. 13,299 f.; 19,91 und passim). 131 RZACH (1912) 1199 f.; TROXLER (1964) 12f.; D. DE SANCTIS, I nomi delle Sirene nel Catalogo di Esiodo, SIFC 96 (2003) 197–206. 132 Behandlung der hesiodeischen Metrik bei TROXLER (1964) 29–52; speziell zu einigen prosodischen Besonderheiten vgl. A. VON BLUMENTHAL, Prosodisches bei Hesiod und Tyrtaios, Hermes 77 (1942) 103–104.
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Form eines Paroemiacus stehen, um den Wert der Aussagen zu unterstreichen (z. B. op. 23.179.217).133
5.6 Überlieferung Die Dichtungen Hesiods sind wie das homerische und das archaische Epos überhaupt Bestandteil einer mündlichen Tradition. Sie wurden an bestimmten öffentlichen und privaten Anlässen vorgetragen, in der Regel im Kontext eines Agons. Mag auch die Schrift bei der Abfassung eine Rolle gespielt haben, erfolgte die Verbreitung der Werke nicht durch schriftliche Exemplare, da in der griechischen Kultur bis zum ausgehenden 5. Jh. v. Chr. Schrift hauptsächlich zur dauerhaften Archivierung, nicht als ein Mittel zur Verbreitung eines Texts eingesetzt wurde. Sicherlich existierten von Anfang an ein oder mehrere geschriebene Exemplare – gleichsam als Kleinod zur Bewahrung des Textes, nicht als ,Buch‘ zur Lektüre.134 Die verschiedenen Exemplare, die sich wahrscheinlich insofern voneinander unterschieden, als sie eine in einem bestimmten Kulturraum zirkulierende Fassung aufzeichneten, wurden an verschiedenen Orten aufbewahrt, vor allem in Heiligtümern und Tempeln, wie aus Pausanias (9,31,4–5) hervorgeht. Die Mündlichkeit der Verbreitung durch Sänger und die Interaktion mit dem Publikum hatten zur Folge, daß der Text ständigen Änderungen unterworfen war (= Varianten der mündlichen Tradition). Eine Spur dieser Änderungen zeigt sich innerhalb der handschriftlichen Überlieferung, in Codices und Papyri, noch deutlicher aber bei einem Vergleich der uns bekannten Textversion der Theogonie und der Werke mit den antiken Zitaten und Testimonien. Die Existenz unterschiedlicher hesiodeischer Überlieferungstraditionen scheint, wenn auch ex silentio, durch die von Aristoteles und seinen Schülern unternommenen Echtheitsdiskussionen bestätigt zu werden. Dennoch wurde nach unserer Kenntnis die erste philologische Edition und Kommentierung erst von den alexandrinischen Philologen durchgeführt, die auch die Frage der Authentizität des hesiodeischen Corpus aufgriffen.135 In diesem Zusammenhang || 133 Hierüber PELLIZER (1972) und SBARDELLA (1995). 134 Vgl. jedoch die völlig konträre Betrachtung von W. BLÜMER, Interpretationen archaischen Dichtung: die mythologischen Partien der Erga Hesiods, I–II, Münster 2001 und ders., Hesiods Gedichte: Schriftlichkeit und Mündlichkeit in der archaischen griechischen Lehrdichtung, in: M. HORSTER/C. REITZ (Hgg.), Wissensvermittlung in dichterischer Gestalt, Stuttgart 2005, 45–68. 135 Wie im Falle der homerischen Epen nimmt man in der Forschung teilweise, ausgehend von einer Stelle in Plutarch, Theseus (20), eine ,peisistratidische Redaktion von Hesiods Gedichten
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stellt sich die Frage, ob – erstens – die alexandrinische Philologen eine einzige Tradition des hesiodeischen Textes vor sich hatten, die sie korrigierten und herausgaben, oder ob sie eine Auswahl unter mehreren unterschiedlichen Textversionen zu treffen hatten und ob – zweitens – der erhaltene Hesiodtext allein und direkt auf die alexandrinischen Editionen zurückgeht. Bezüglich der ersten Frage legen die Zeugnisse nahe, daß es nicht eine einzige kompakte und homogene Vulgata gab, sondern voneinander verschiedene Textversionen existierten, ohne daß eine reductio ad unum möglich wäre. Der Fall des Katalogos, der in verschiedenen, stark unterschiedlichen Versionen in Umlauf gewesen sein muß, zeigt, daß es kurz vor der hellenistischen Zeit keine einheitliche Tradition des Hesiodtextes gab. Das scheint auch durch die zusätzlichen oder fehlenden Verse, von denen wir wissen, bestätigt zu werden. Darüber hinaus lassen die zahlreichen Abweichungen zwischen dem Text der Handschriften und den Zitaten antiker Autoren, die sich nur zum Teil als Fehler, da man aus dem Gedächtnis zitierte, erklären lassen, in vielen Fällen vermuten, daß der Text, aus dem zitiert wurde, von dem uns überlieferten abwich (z. B. op. 121–123 und Plat. Crat. 397e–398a, rep. 469a).
Was die zweite Frage angeht, ist zu beachten, daß gerade die alexandrinischen Philologen beträchtlich in die Überlieferung der hesiodeischen Texte – mit Sicherheit in die der Theogonie – eingegriffen und einen kanonischen Text erstellt zu haben scheinen. Die Abweichungen in den Codices und Papyri lassen jedoch die Vermutung zu, daß der alexandrinische Text nicht sofort und überall maßgeblich wurde, so daß die – wahrscheinlich lokalen – Varianten lange fortbestehen konnten und in den mittelalterlichen Handschriften Spuren hinterlassen haben. Es aber war der alexandrinische Text, der sich zunehmend verbreitete, und es erscheint daher plausibel, den Hauptstrang der Überlieferung auf die alexandrinischen Editionen, die wohl wie im Falle Homers keine Vulgata darstellten, sondern in mehreren divergierenden Versionen im Umlauf waren, zurückzuführen.136 Die Überlieferung des Hesiodtexts seit hellenistischer Zeit unterscheidet sich nicht von der anderer griechischer literarischer Texte. Sie durchlief kritische Phasen (Übergang von der Buchrolle zum Codex; Übergang von Majuskel– zu Minuskelschrift) bis zu den ersten gedruckten Ausgaben (beginnend mit
|| an; zu der sog. peisistratidischen Edition vgl. GOETTLING (1843) LXVI, und dann KRAFFT (1963) 11 und 20 f., WEST (1966) 50 Anm. 1 und SOLMSEN (1982) 1 Anm. 2.; vgl. jedoch die skeptischen Bemerkungen PFEIFFER (1978, 21–24); zu Homer s. S. 50. 136 Zu einer Rekonstruktion der Geschichte der hesiodeischen Texte bis in alexandrinische Zeit vgl. SOLMSEN (1982) und (zu von den hier vertretenen abweichenden Positionen) WEST (1966) 48–52.
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der um 1482 in Mailand erschienenen editio princeps der Werke und der von Aldus Manutius besorgten der Theogonie, Venedig 1495; LANDFESTER 2007, 280– 282). Papyri: Erhalten sind insgesamt 158 Papyrus–Fragmente, die Teile von theog., op., scut. enthalten. Es ist dies wahrscheinlich eine in römischer Zeit zusammengestellte kanonische Auswahl hesiodeischer Werke.137 Die Papyri sind nach dem auf JACOBY (1930) zurückgehenden Brauch fortlaufend numeriert. Keines dieser Exemplare enthält Scholien, nur ein einziges weist kritische Zeichen auf (П 44; vgl. WEST 1978, 198, ad 181–186). Der von ihnen übermittelte Text weist gegenüber den mittelalterlichen Handschriften Varianten auf und enthält im Vergleich zu diesen manchmal zusätzliche Verse; die umfangreichsten Beispiele sind П 8, der vor op. 174 vier zusätzliche Verse aufweist, und П 19, wo anstelle von op. 314–316 acht andere Verse stehen oder Auslassungen (z. B. П 3, der theog. 111 ausläßt, П 28, der theog. 736–739 ausläßt; П 38 der op. 124 f. ausläßt; Überblick bei WEST 1966, 65 f.). Mittelalterliche Handschriften (LANDFESTER 2007, 281): Sie gehen wahrscheinlich größtenteils auf die alexandrinischen Editionen des Texts zurück.138 Erhalten sind ca. 260 Handschriften für die Werke, 69 für die Theogonie139 und etwa 60 für den Schild. Die ältesten Exemplare der Theogonie stammen aus dem 11. und 12. Jh. (B = Paris. suppl. gr. 663, P = Paris. suppl. gr. 679), das älteste Exemplar der Werke aus dem 10. Jh. (C = Paris. gr. 2771). Gesonderte Erwähnung verdient der zwischen 1316 und 1319 von Demetrios Triklinios geschriebene Codex Marcianus 464.140 Insgesamt ist die von WEST (1978) 84 f. für die Werke getroffene Feststellung zu berücksichtigen, daß die handschriftliche Tradition der Werke Hesiods nicht in toto von einem einzigen Archetyp in Minuskelschrift auszugehen scheint. Sie erweist sich als stark gegliedert und komplex, und es ist wahrscheinlich, daß noch den byzantinischen Philologen mehrere alte Exemplare in Unzialschrift zur Verfügung standen.141
|| 137 Pap. Schøyen MS 5068, der op. 360–366 und 378–384 enthält, wird ins 2./1. Jh. v. Chr. datiert und wäre damit zur Zeit der älteste hesiodeische Textzeuge; vgl. R. PINTAUDI, Il più antico testimone degli Erga di Esiodo: Papiro Schøyen MS 5068, in: D. ACCORINTI/P. CHUVIN (Hgg.), Des Géants à Dionysos, Alessandria 2003, 163–166. 138 Daß die originalen Handschriften Hesiods, „probably wooden tablets or animal skins“, „the ultimate ancestors of the medieval and renaissance manuscripts“ (WEST 1966, 48) gewesen seien, ist eine ebenso richtige wie unbeweisbare Behauptung. In einem System mündlicher Kommunikation wie der griechischen der archaischen Zeit ist die Vorstellung von einem ,Original‘ des Autors ohne Sinn. WESTS Rekonstruktion der handschriftlichen Tradition bleibt aber sowohl für die Theogonie als auch für die Werke grundlegend. 139 Mitgezählt sind dabei auch zwei verlorene Handschriften, von denen man jedoch Kenntnis hat; vgl. WEST (1966) 52 Anm. 2. 140 Dazu G. DERENZINI, Demetrio Triclinio e il codice Marciano Greco 464, SC 3 (1979) 223–241. 141 Zu den mittelalterlichen Handschriften vgl. WEST (1966) 52–61 (Theogonie) und WEST (1978) 78–86 (Werke), der auch eine stemmatische Rekonstruktion vorschlägt. Zur Tradition der Theogonie vgl. M. L. WEST, The Medieval and Renaissance Manuscripts of Hesiod’s Theogony, CQ 14
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5.7 Rezeption Wie die homerischen Gedichte fanden auch Hesiods Werke sofort weite Verbreitung.142 In der Reihe von Erziehern der Griechen, die Aristophanes in den Fröschen aufstellt (1030–1036), erscheint Hesiod als Lehrmeister „des Acker-baus, des Säens und Erntens und Pflügens“ (vgl. auch Plat. apol. 41a). Hesiod– Reminiszenzen hat man ebenso in der archaischen griechischen Lyrik – so als einen der deutlichsten Fälle das Thema der Gerechtigkeit in Solons Dichtung – wie in der attischen Tragödie gesehen. Im Aischylos zugeschriebenen Prometheus wird der vorher, soweit bekannt, nur von Hesiod dargestellte Prometheus–Mythos behandelt.143 Platon liefert im Ion (531a) ein wichtiges Zeugnis zur Verbreitung von Hesiods Werk, wenn Sokrates Ion fragt, ob er allein in der Rezitation und Erklärung Homers kompetent sei, oder auch Hesiod und Archilochos in seinem Repertoire habe. Ein ähnliches Zeugnis findet sich in Platons Nomoi (658d), wo vom Rhapsoden gesagt wird, er verstehe sich auf den Vortrag von Ilias und Odyssee oder auch von einigem aus Hesiod. Mit Aristoteles und seiner Schule wird die griechische Dichtung zum Gegestand systematischer Erforschung. Aristoteles widmete wie Homer auch Hesiod ein eigenes Werk mit dem Titel Hesiodeische Fragen (ἀπορήματα Ἡσιόδου), das wahrscheinlich dem Modell von πρόβλημα und λύσις, also der Abfolge Interpretationsproblem und Lösungsvorschlag, verpflichtet war. Chronologischen Fragen widmete sich Herakleides Pontikos, ein Schüler von Platon und Aristoteles, in seinem Werk Über das Alter von Homer und Hesiod (Περὶ τῆς Ὁμήρου καὶ Ἡσιόδου ἡλικίας, Fr. 176–178 WEHRLI). Mit Echtheitsfragen beschäftigte sich der Aristoteliker Praxiphanes (Fr. 22b WEHRLI). Werke über Homer und Hesiod, von denen nichts erhalten ist, schrieben Hekataios von Abdera (FGrH 264 T 1) und Antidoros von Kyme (Schol. Dion. Thrax, p. 448,6; vgl. PFEIFFER 1978, 197 f.). Kritik an Hesiods Werk sollen Xenophanes (vgl. Diogenes Laertios 5,87) und Heraklit (22 B 57 und 106 DK)144 geäußert haben. Einen der ersten wichtigen Schritte in der Hesiodforschung markiert das
|| (1964) 165–189; zu den Werken grundlegend A. RZACH, Neue handschriftliche Studien zu Hesiods Erga, WS 20 (1898) 91–118 und M. L. WEST, The Medieval Manuscripts of the Works and Days, CQ 24 (1974) 161–185. Zur hesiodeischen Paradosis allgemein vgl. N. A. LIVADARAS, Ἱστορία τῆς παραδόσεως τοῦ κειμένου τοῦ Ἡσιόδου, Athens 1963. 142 Vgl. das Zeugnis von Hdt. 2,53,2: Homer und Hesiod sind die, die den Griechen ihre Götter gaben (οἱ ποιήσαντες θεογονίην Ἕλλησι). Die Verbindung ,Homer und Hesiod‘ erscheint oft in den platonischen Diskussionen (vgl. z. B. rep. 363a, 377d). 143 Die loci similes sind in der Ausgabe von A. RZACH, Hesiodi carmina. Accedit Homeri et Hesiodi certamen, Leipzig 1902 zusammengestellt; vgl. auch PAVESE/VENTI (2000). 144 Vgl. dazu D. BABUT, Héraclite critique des poètes et des savants, AC 45 (1976) 464–496.
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Museion des Alkidamas, in dem eine deutliche Bevorzugung der hesiodeischen Epik – zumindest der Werke – gegenüber Homer erkennbar ist.145
Mit der Zeit wurde Hesiods Dichtung als ideales Medium für ,technische‘ Unterweisung wahrgenommen. In einem Mißverständnis der ursprünglichen Funktion des hesiodeischen Epos als ,Kulturbuch‘ wurden unter den nunmehr radikal veränderten Kommunikationsbedingungen seit dem 4., aber besonders im 3. Jh. v. Chr. die Werke von einigen Schriftstellern als das Lehrgedicht schlechthin betrachtet und zum Modell gelehrter Werke gemacht. Der Begründer dieser neuen Art von Dichtung war Aratos von Soloi, dessen wahrscheinlich zu Beginn des 3. Jh. entstandenen Phainomena sich deutlich auf Hesiods Werke beziehen.146 Der alexandrinische literarische Geschmack ist durch Kallimachos bezeugt, der in Epigramm 27 PFEIFFER Hesiod und besonders Aratos lobt und das Proömium der Theogonie in der Eröffnung der Aitia evoziert.147 Ein überzeugter Anhänger der kallimacheischen Poetik, Euphorion von Chalkis (geboren um 270 v. Chr.), schrieb nach der Suda (ε 3801) ein Werk in Hexametern über Hesiod. In der Nachfolge des Arat stehen die Gedichte des um die Mitte des 2. Jh. v. Chr. aktiven Nikander von Kolophon, die Theriaka und die Alexipharmaka. Die hesiodeischen Gedichte wurden sowohl von der alexandrinischen als auch von der pergamenischen Philologie behandelt (MONTANARI in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS 2009, 332 ff.). Die Arbeit der hellenistischen Philologen hatte im wesentlichen zwei Ergebnisse: (1) die Erstellung von Textausgaben, mit Sicherheit aber nur der Theogonie, und (2) die Authentizitätsdiskussion einzelner Werke des hesiodeischen Corpus. Apollonios Rhodios, aller Wahrscheinlichkeit nach der Begründer der ,hesiodeischen Frage‘, hatte sich mit Hesiod in einem dreibändigen Werk beschäftigt, in dem er die Echtheit der Aspis verteidigte, die der Ornithomanteia zurückwies und vermutete, daß ein Teil
|| 145 Zur Kritik der Schule des Aristoteles an Hesiods Werken vgl. MONTANARI in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 315 ff.; zu den antiken Autoren, die sich wahrscheinlich mit Hesiod befaßten, vgl. ALLEN (1915) 85 ff. 146 Es genügt, an die Aufnahme z. B. des Zeitaltermythos und den Exkurs über Dike in Phainomena 96 ff. zu erinnern. Zu einer genaueren Untersuchung vgl. G. LUCK, Aratea, AJPh 97 (1976) 213–234; EFFE (1977) 40–56; C. FAKAS, Der hellenistische Hesiod. Arats Phainomena und die Tradition der antiken Lehrepik, Wiesbaden 2001. 147 Zur Hesiodrezeption bei Kallimachos vgl. H. REINSCH–WERNER, Callimachus Hesiodicus. Die Rezeption der hesiodischen Dichtung durch Kallimachos von Kyrene, Berlin 1976.
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des Texts im Proömium der Theogonie (nach Vers 26) ausgefallen sei.148 Eine kritische Edition des Hesiodtexts (wahrscheinlich die erste) wurde nach dem Scholion zu Vers 5 der Theogonie (vgl. auch ad 116a) von Zenodot von Ephesos erstellt. Umstritten ist, ob er ein Hypomnema über Hesiod verfaßte.149 Auch Aristophanes von Byzanz besorgte eine Edition des hesiodeischen Texts150 und setzte die Debatte um die Echtheit des Corpus fort, wobei er den Schild und die Ermahnungen des Chiron für unecht erklärte.151 Aristarch athetierte in der Nachfolge des Praxiphanes das Proömium der Werke und erstellte wahrscheinlich eine Ausgabe der Theogonie,152 die er vielleicht in einem Hypomnema kommentierte und erklärte.153 Von Bedeutung ist, daß Aristarch den Katalogstil der hesiodeischen Dichtungen herausstellte und für ein besonderes Unterscheidungsmerkmal der hesiodeischen Dichtung hielt, das er auch als philologisches Kriterium für die Bewertung des homerischen Texts ansah: in den Homerscholien finden sich oft Bemerkungen zu von Aristarch aufgrund ihres ,hesiodeischen Charakters‘ für unecht gehaltenen Stellen der Ilias und Odyssee.154 Aristarchs Schüler, Dionysios Thrax, blieb den hesiodeischen Interessen seines Lehrers treu. Bekannt ist von ihm eine Glosse zum Text von Werke 57 (φερέοικος verstanden als κοχλία: vgl. das Scholion zur Stelle), woraus man den Schluß ziehen könnte, er habe einen Kommentar zu diesem Text verfaßt.155 Demetrios Ixion, auch er Schüler (und dann Kritiker) des Aristarch, soll nach dem Eintrag || 148 Vgl. SCHWARTZ (1960) 614f. Die Verteidigung der Echtheit der Aspis hat ihre Ursache wahrscheinlich in einer polemischen Auseinandersetzung mit Megakleides von Athen (vgl. Hypothesis A); dazu MONTANARI in: MONTANARI/RENGAKÖS/TSAGALIS (2009) 323 ff. 149 SCHWARTZ (1960) 614; anders PFEIFFER (1978) 149 f. 150 Das geht mit Sicherheit aus dem Scholion zu theog. 68 hervor, wo es heißt: ἐπεσημήνατο, d. h. er setzte ein σημεῖον, ein kritisches Symbol, zum Text. Aristophanes wird auch im Scholion zu theog. 126 zitiert. 151 Vgl. Quintilian 1,1,15. PFEIFFER (1978, 256) vermutet, daß die Fragen zu Hesiod im von Aristophanes erstellten Supplement zu den Pinakes des Kallimachos diskutiert wurden. 152 Aus Suda α 3924 erfahren wir, daß Aristonikos von Alexandria neben anderen Werken auch eine Abhandlung Περὶ τῶν σημείων τῶν ἐν τῇ Θεογονίᾳ Ἡσιόδου (Über die kritischen Zeichen zu Hesiods Theogonie) schrieb. Wenn es sich um die diakritischen Zeichen Aristarchs handelte, würde daraus hervorgehen, daß Aristarch eine Edition zumindest der Theogonie erstellte, in der diese Zeichen Verwendung fanden. Diese Überlegung beruht aber lediglich auf Indizien. Aristonikos wird im Schol. ad theog. 178 zitiert. 153 Spuren von Aristarchs Hesiod–Exegese sind erhalten in den Scholien ad theog. 79, 114–115, 138, 153a; op. 97. Zu der Möglichkeit, daß diese Erklärungen auf einen Kommentar zurückgehen, vgl. PFEIFFER (1978) 269. 154 Schol. ad Il. 18,39, ad Od. 15,74 und passim. 155 Die Frage ist umstritten, da die Beobachtung in einer seiner Arbeiten über Sprache enthalten gewesen sein könnte.
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der Suda (δ 430) eine Auslegung Hesiods (ἐξήγησις εἰς Ἡσίοδον) verfaßt haben. In Pergamon beschäftigt sich besonders Krates mit Hesiod. Spuren seiner Exegese sind in den Scholien erhalten.156 Auf rein exegetischem Gebiet spielte die stoische Schule, besonders Zenon (4.–3. Jh. v. Chr.)157 und Chrysipp (3. Jh. v. Chr.), eine wichtige Rolle, die sich der Erklärung der hesiodeischen Texte mythologischen Inhalts widmeten, den sie allegorisch deuteten.158 In der römischen Literatur wurde die hesiodeische Dichtung zum Modell für Vergils Georgica und Bucolica.159 Besonders die Werke beeinflußten Vergil direkt und durch die Vermittlung der Phainomena Arats und durch Nikanders Georgika auch indirekt. Der hesiodeische Einfluß ist deutlich in einzelnen Formulierungen (z. B. op. 589 und Georgica 3,145, op. 414 und Georgica 1,92), aber auch in strukturellen Parallelen zu erkennen. So könnte z. B. die Szenenfolge in der sechsten Ekloge die Reihenfolge Theogonie, Katalogos und Werke in der hesiodeischen Dichtung widerspiegeln, mit einem Fortschreiten der Erzählung vom Kosmos zu den Taten der Helden (der Bezug auf Hesiod wird in den Versen 69 ff. deutlich gemacht).160 Eindeutiger und offensichtlicher ist hesiodeisches Material in den Georgica verwendet: die inhaltliche Nähe von Vergils Werk macht Hesiods Werke zum natürlichen Bezugspunkt.161 Die Rezeption des Hesiodtexts in der Kaiserzeit und in der byzantinischen Literatur würde eine eigene Abhandlung verdienen. An dieser Stelle kann die Entwicklung nur in groben
|| 156 Vgl. Krates Fr. 78–81 BROGGIATO mit dem Kommentar von BROGGIATO (2001) 239–241. 157 SVF I Fr. 100.103–105.118.121.276; vgl. außerdem Cicero, De natura deorum 1,36; vgl. auch K. ALGRA, Comments or Commentary? Zeno of Citium and Hesiod’s Theogonia, Mnemosyne 54 (2001) 562–581; MONTANARI in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 325 ff. 158 Z. B. Fr. 908 (Chrysipp, SVF II, 256 f.), der bei der Diskussion über den Sitz der intellektuellen Fähigkeiten des Menschen den von Hesiod in theog. 886–890.900.924–926 und in Fr. 343 behandelten Mythos der Geburt der Athene aus dem Kopf des Zeus heranzieht. Beispiele allegorischer Interpretation in den Scholien zu theog. 120.135b.274 und passim. Chrysipp wird ausdrücklich z. B. im Schol. ad theog. 459 zitiert. Die ,allegorische‘ Deutung des Hesiod zeigt bis heute Nachwirkung, z. B. bei MARSILIO (2000) 15–29, der op. 422–436 als Metapher des formelhaften Dichtens versteht. 159 Vgl. insgesamt LA PENNA (1960); speziell zu den Georgica auch G. KROMER, The Didactic Tradition in Vergil’s Georgics, Ramus 8 (1979) 7–21. 160 Der mythische Kern der sechsten Ekloge könnte aus der hesiodeischen Dichtung stammen: das Chaos aus Theogonie; Deukalion und Pyrrha aus Katalogos; die Saturnia regna aus Werke; Prometheus aus Theogonie, Werke, Katalogos; die Mythen von Hylas, von Pasiphae, von den Proitiden und Dionysos, von Phaethon aus Katalogos. Auch in der vierten Ekloge ist Hesiod präsent (Bucolica 4,38 f. und op. 236 f., Bucolica 4,34 f. und op. 161 f.): LA PENNA (1960) 216ff. 161 Vgl. das erste Buch der Georgica mit Werke 383 bis Ende, unter Ausschluß des für Vergil nicht relevanten Abschnitts über die Schiffahrt; vgl. EFFE (1977) 80–97.
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Zügen dargestellt werden.162 In der lateinischen Literatur finden sich einerseits vor allem Hinweise auf die Werke in der Agrarschriftstellerei, von Varros Res rusticae bis Columellas De agri cultura (EFFE 1977, 97–103), und in astronomischen Schriften (Hyginus, Manilius; EFFE 1977, 106–126), andrerseits aber auch zahlreiche Bezugnahmen in der Dichtung von Properz über Ovid bis zu Statius und Silius Italicus. Besonders häufige Erwähnung findet Hesiod in Plinius’ Naturalis historia und bei Gellius. Quintilian nennt Hesiod den ersten Dichter einer ,äsopischen Fabel‘ (1,1,15; 5,11,19) und äußert sich über seinen Stil (10,1,52). Interesse an Hesiod zeigt Plutarch, der eine nicht erhaltene Hesiod–Vita und einen vierbändigen Kommentar über die Werke verfaßte.163 Die wenigen in Zitaten des Proklos erhaltenen Fragmente behandeln hauptsächlich Fragen der Echtheitskritik: Auf der Grundlage moralischer Überlegungen athetierte Plutarch die Verse 267–273.353–355 (oder vielleicht nur 354f.).375.757–759. Die Verse 317 f. hielt er für unecht, da er sie für eine Interpolation aus Od. 17, 347 und Il. 24, 45 hielt. Unbekannt sind die Gründe, die ihn dazu brachten, die Authentizität der Verse 244f.561–563. 650–662 zu bestreiten. Erwähnung verdient Athenaios von Naukratis (Ende 2. Jh.), der sich zwar nicht mit der Interpretation des Hesiodtexts beschäftigte, aber in den Deipnosophistai zahlreiche Stellen aus hesiodeischen Werken zitiert (M.–W. p. 196 sub Athen.). Der Deutung der Werke widmete Proklos (sehr wahrscheinlich der Neuplatoniker des 5. Jh.) ein selbständiges Werk.164 Die Hesiodscholien sind wertvoll, weil sie Material aus alexandrinischen Hypomnemata und exegetisches Material späterer Philologen und Grammatiker überliefern, wie z. B. von Seleukos (1. Jh.; Schol. ad theog. 114–115, 160, usw.) und Apollonios Dyskolos (ad op. 58).165 Nur gelegentlich finden sich in den Scholien christliche Deutungen und Bemerkungen (ad op. 171 und 408; vielleicht auch die numerologischen Scholien zu 596b.770b.809a; WEST 1978, 69). Nach einer langen Zeit allgemeinen Niedergangs der Studien kehrt Hesiod mit der byzantinischen Philologie in den Mittelpunkt des Interesses zurück. Hier seien nur zwei Gelehrte genannt: Johannes Tzetzes (ca. 1110–1185), Verfasser eines Kommentars zu den Werken, der älteres Material verwendet und gelegentlich eigene Lösungen anbietet, und schließlich Manuel Moschopulos (ca. 1250–1310), ebenfalls Verfasser eines Kommentars zu den Werken, den Demetrios Triklinios (ca. 1280–1340) für seine Scholien zum Hesiodtext verwendete.166
|| 162 Vgl. G. ROSATI, The Latin Reception of Hesiod, in: MONTANARI/RENGAKOS/TSAGALIS (2009) 343–374. 163 Vgl. Gellius 20,8; vgl. Plut. Fr. 25–112 SANDBACH (Moralia, vol. VII). 164 Zum Kommentar des Proklos, der in Form von Scholia erhalten ist, vgl. PERTUSI (1951a, b, c), PERTUSI (1955) XIV f., C. FARRAGIANA DI SARZANA, Il commento procliano alle Opere e i Giorni. Plutarco fonte di Proclo, Aevum 52 (1978) 17–40; P. MARZILLO, Der Kommentar des Proklos zu Hesiods „Werken und Tagen‟, Tübingen 2010. 165 Vollständige Auflistung der antiken Gelehrten bei PERTUSI (1951b) 157. 166 Zu weiterer Information über die Tätigkeit der byzantinischen Philologie vgl. WEST (1978) 69 ff. und 82f. Zu Moschopulos und der Wiederverwendung seines Kommentars durch Demetrios Triklinios vgl. S. GRANDOLINI, Manuelis Moschopuli commentarium in Hesiodi Opera et dies, Roma 1991, VIIff., zu den Scholien des Tzetzes A. PONZIO, Gli scoli di Tzetze agli Erga di Esiodo: elementi per la costituzione del testo e rapporti con il commentario plutarcheo, in: P.
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260 | Sezione 3: Epica arcaica
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A. Ercolani – L. E. Rossi, Hesiod | 261
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Andrea Ercolani/Luigi Enrico Rossi
| Sezione 4: Lirica
[Scheda bibliografica] Lyrica Graeca selecta, ed. D. L. Page (Oxford Classical Texts), Oxford, Clarendon Press 1968, pp. VIII–268. Per la prima volta la lirica greca entra negli OCT, in forma di agile libretto, che si presenta come una editio minor di Lobel–Page, Poet. Lesb. Fragm. (1955) e di Page, Poetae mel. Gr. (1962). La scelta è dettata da ovvii criteri di opportunità, anche se si potranno lamentare alcune assenze (partic. sensibili in Simonide; e poi, p. es., perché escludere i due Filosseni?). Due novità: Alc. 138 (298 L.–P.) è completato dal papiro ed. da R. Merkelbach, «Zeitschr. f. Papyrol. u. Epigr.» 1967, 81 sgg.; e, in appendice, sono dati i framm. della Gerioneide di Stesicoro dal P. Oxy. 2617 (vol. 32, 1967), che permettono inoltre di capir meglio il metro di framm. già conosciuti (PMG 181–186: in 185.1 [LGS 55.1] torna in onore una congettura di Kaibel, a suo tempo accettata da Ed. Fraenkel: in 185.5 [LGS 55.6] il ϰατάσϰιον di Ateneo viene modificato allo scopo di adattarlo alla misura g h g g h). L’apparato dei testimonia è ridotto all’essenziale (ma perché non dare maggior spazio, alle volte, ai lessici, che glossano ἅπαξ o parole rare? Sarebbe stato almeno «poetarum amatoribus gratum»), e cosí pure quello del testo. Manca un index verb., ma c’è la concordanza con Bergk e Diehl. Un’osservazione di ordine colometrico: P. insiste a scrivere su due linee i quattro versi (come già li considerava, prima ancora di Bergk, il grammatico di P. Oxy. 220, che cita il solo primo dimetro come esempio di anacreontico) di Anacr. PMG 396 (LGS 323). ma si tratta di quattro normali dimetri anaclomeni. Se dà fastidio ὡς δή in fine di v. 3, si pensi che, da una parte, le due appositive insieme possono ben formare ortotonica, e che d’altra parte non mancano in Anacreonte esempi di vero e proprio εἶδος Σοφόϰλειον, accettati del resto anche da P. (vd. PMG 357 = LGS 301. 4, 7, nonché la sinafia di v. 10). Comunque qui, e altrove, si vorrebbe che P. non continuasse a stampare δ’, τ’ etc. all’inizio del v. successivo, com’era (cattiva) abitudine degli alessandrini (vd. A. Körte, «Glotta» 3, 1912, 153–6). La stampa è pressoché perfetta: prima di 144 dovrebb’esser ca– duto Μελῶν ϑ, prima di 264 Μ. ᾱ, prima di 300 Μ. γ̅. Il libro sostituirà nelle università inglesi, per la parte lirica, l’invecchiato Oxford Book of Greek Verse; speriamo che venga largamente introdotto anche nelle università italiane.
|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 96, 1968, p. 504]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-016
Modi di esecuzione musicale e configurazione dei testi nella lingua greca arcaica. L’iperbato artificioso. Relazione conclusiva di un seminario diretto da L. E. Rossi nel corso di Letteratura greca, corso sdoppiato, anno accademico 1977–78. Partecipanti attivi: Paola FERRETTI Sandra MAZZA Rosa PIGNATIELLO Riccardo RIBUOLI Filippina RUSSO Giovanna SALVATORI Claudio SENNI Maria TENTONI Chiara TESTA Giannella UNGARELLI Laura ZAMPETTI Partecipante non attivo: Roberto CALDERAN (Massimo VETTA ha collaborato per Bacchyl., Dith.) Il punto di partenza per le ricerche qui presentate è stata una serie di premesse e di ipotesi di lavoro, che, come si vedrà, hanno trovato puntuale conferma. 1. La c o n f i g u r a z i o n e d e i t e s t i avviene a seconda a) del tipo di c o m p o s i z i o n e , che è o r a l e in civiltà orale e cioè mancante della scrittura (l’origine dell’epos omerico) e s c r i t t a in civiltà che dispone del mezzo scrittorio (a cominciare da poco prima del 700 a.C., le ultime redazioni e aggiunte del testo dei poemi omerici e tutta la letteratura posteriore: v. Rossi, 1978); e b) a seconda del t i p o d i o c c a s i o n e a cui l’opera è destinata e funzionalizzata e del tipo di d e s t i n a t a r i o . La letteratura greca, fra il 700 e il IV secolo in gran parte compreso, è stata prevalentemente destinata a pubblicazione orale, per cui pare opportune di parlare di epoca ‘ a u r a l e ’ (la lirica, la tragedia etc.). A parte eventuali testimonianze esterne, che possono infor-
|| [Relazione di consuntivo, stilata da Rossi, dei lavori del seminario della cattedra di Letteratura greca di Rossi (Roma “La Sapienza”) dell’a.a. 1977–78. – Inedito, testo dattiloscritto (con parti redatte a mano) ritrovato nello studio di Rossi in via Aventina (insieme ad altri materiali dei seminari sull’iperbato); cura del testo di Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-017
L’iperbato artificioso | 267
marci su tali condizioni di pubblicazione, il testo stesso può aiutare ad individuare (od essere alle volte il solo a fornirci) il codice e il messaggio, e in conseguenza anche il destinatario. 2. La configurazione dei testi letterari si realizza, naturalmente, a livello linguistico. L’aspetto linguistico qui preso in considerazione è l ’ o r d i n e d e l l e p a r o l e precisamente in un suo aspetto particolare, e cioè l’ i p e r b a t o , che è anche (a partire dalla teoria antica) categoria retorica (σχῆμα λέξεως). L’iperbato è la distanza, maggiore o minore, fra elementi del discorso sintatticamente legati tra loro. Il greco e il latino, in ragione della loro elevate demarcazione morfologica, hanno una libertà di collocazione delle parole molto maggiore delle lingue europee moderne, ma ci sono dei limiti oltre i quali si può parlare di ‘deviazione’ dalla norma della lingua comunemente parlata o scritta. Si escluderanno qui gli iperbati che verranno definite ‘ n a t u r a l i ’ in quanto ampiamente consentiti e statisticamente frequenti in testi a livello o registro non particolarmente elevato; e si considereranno come vere deviazioni gli iperbati a r t i f i c i o s i , quelli cioè che si presenteranno come vere deviazioni. 3. La ‘deviazione’ nell’ordine delle parole complica ed eccezionalizza in maniera più o meno elevata il messaggio, rendendo più difficile la comunicazione fra destinatore e destinatario, e cioè la decodificazione del messaggio stesso. Si tenta qui di dare una spiegazione funzionale dei fatti, tenendo conto, in una civiltà prima orale e poi aurale come quella greca dalle origini fino all’età ellenistica esclusa (che si avvia ad un prevalere della comunicazione scritta), del fatto che i modi di esecuzione sono quasi sempre legati alla musica, in misura però diversa di volta in volta, il che deve portare a considerare con diversi citeri la configurazione dei testi. 4. I modi di esecuzione variano a seconda che il testo sia destinato ad una esecuzione a solo o ad una esecuzione affidata ad un coro. La r e s a a s o l o può essere o il semplice parlato senza accompagnamento musicale (il dialogo della tragedia), o un recitative più o meno ‘arioso’ (la cosiddetta παρακαταλογή: l’epica in epoca arcaica e sub–arcaica, l’elegia, il giambo), o infine il canto spiegato (la lirica cosiddetta monodica dei poeti arcaici). L a r e s a d i u n c o r o è invece musicale in senso pieno. Si aggiunga che l’accompagnamento musicale è dato dallo strumento a corda (φόρμιγξ, κιθάρα, λύρα, βάρβιτον) o dallo strumento a fiato (l’αὐλός), senza che sia sempre possible distinguere (l’elegia per es. simposiale può avere sia l’uno sia l’altro, mentre il coro è generalmente accompagnato dall’αὐλός; la citarodia è naturalmente accompagnata dallo strumento a corde). Tali diversi modi di esecuzione influenzano naturalmente la configurazione dei testi poetici, in ragione di quella che possiamo chiamare la loro c o m p r e n s i b i l i t à ; quando il modo di esecuzione sia noto, si tratta
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soltanto da parte nostra di una ricognizione ed eventualmente di una corretta esegesi di quanto il testo presenta (sarà il caso di Pindaro e della lirica corale); in altri casi, in cui il tipo di esecuzione debba essere necessariamente frutto di congettura, occorre partire dal testo e, dalla ricognizione dei suoi elementi configurativi linguistici, dovremo recuperare modo di esecuzione e presumibile occasione di pubblicazione (sarà in gran parte il caso di Stesicoro). In occasione di una lettura integrale del corpus delle Istmiche di Pindaro, si è partiti dalla constatazione, elementare per qualunque lettore anche superficiale, della elaborata complicatezza del suo stile sotto l’aspetto dell’ordine delle parole, complicatezza che ne rende difficile la comprensione perfino ad un destinatario lettore. Non vale qui se non in misura minima la considerazione del fatto che noi siamo estranei a una sensibilità linguistica per noi così lontana sia dal punto di vista tipologico sia cronologico: perché vedremo che gli antichi stessi erano coscienti di tale difficoltà (Pindaro stesso e i suoi commentatori alessandrini). L’ i p e r b a t o è sembrato un buon test per la facilità della sua individuazione e per la possibilità della sua quantificazione statistica. A questo scopo ci si è domandati quale potesse essere l’unità di misura a cui riferirsi. Per il verso recitativo stichico (e cioè ripetuto stichicamente: esametro e trimetro) e per la prosa l’unità può essere il verso stichico per la poesia e la riga (più o meno omogenea nelle edizioni moderne) per la prosa. Ma per la poesia lirica, specie per la complicata metrica della poesia corale, è sembrato ingannevole e insicuro rifarsi sia al verso sia al colon, per la notevole variabilità di lunghezza sia del verso sia del colon (quando quest’ultimo sia individuabile: ché ci sono casi in cui il colon è difficilmente individuabile: v. Rossi 1966, 195–99, Rossi 1975, 1266s.). L’unico elemento sicuro è sembrato quindi l a p a r o l a f o n e t i c a (ted. Wortbild), intendendo per tale non la parola tipograficamente isolata nelle edizioni moderne, bensì la parola ortotonica saldata a quelle che da Hermann Fränkel in poi si usa chiamare a p p o s i t i v e (prepositive e pospositive: v. H. Fränkel 1955, 142–47). Per una lista delle appositive v. Dover 1960, 12ss., sulle cui pagine è sembrato opportune fare qualche precisazione. In conclusione: l’aggancio statistico alla parola porta a stabilire un rapporto fra numero degli iperbati e numero delle parole: quanto più basso sarà tale rapporto (un iperbato per ‘x’ numero di parole), tanto più elevato sarà il numero degli iperbati. EXCURSUS sulle appositive. Mancanza o presenza di accento non è determinante per la non ortotonia e l’ortotonia di una parola: per molte appositive l’accento è consegeuenza di prassi grammaticale alessandrina (v. il libro di B. Laum, Das Alexandrinische Akzentuationssystem, Padeborn 1928). Lo status di appositiva di una parola accentata si ricava dalla
L’iperbato artificioso | 269
sua analogia categoriale rispetto ad appositive non accentate o dalla sua analogia funzionale. Questo è un capitolo che andrebbe in testa in ogni trattazione dell’ordine delle parole in Greco, e così fa Dover 12ss.: la posizione della appositive è fissa (le prepositive precedono le parole a cui si legano e le pospositive le seguono: l’uso di questi termini è utile per evitare l’equivoco con proclitiche – termine inventato da Hermann – ed enclitiche, che sono senza accento). Diamo qui una lista di prepositive e pospositive, prendendo liberamente (e liberamente modificando) da Maas 135ss., H. Fränkel 142–7, Dover 12ss. (v. anche Rossi 1965). Prepositive: a) congiunzioni (ἀλλά, ἤ, καί, εἴτε, ὅτι, etc.); b) l’articolo, anche nelle sue forme accentate; c) le negazioni; d) le preposizioni (εἰς/ἐς, κατά, περί, etc.). Pospositive: a) le particelle ἄρα (ῥα), αὖ, γάρ, γε, δαί, δή, δῆτα, θην, μέν, μήν (μάν), οὖν (ὦν), περ, τε; b) τοι, sia con valore di particella sia di pronome; c) gli altri pronomi personali non ortotonici, come με, μου (μευ), μοι, σε, σου, σοι, οἱ, μιν (νιν), σφε; d) ἄν (κε, κα); e) pronomi, aggettivi e avverbi indefiniti (τις, πως, etc.); f) νῦν; g) i presenti di φημί e εἰμί, meno la 2a persona. Gruppo di prepositiva + pospositiva forma parola ortotonica (Vendryes 90s.; H. Fränkel 145s.):
Quando ci si è accinti all’individuazione e schedatura statistica degli iperbati, si è rimasti colpiti dalla s c a r s e z z a d e l l a l e t t e r a t u r a s u l l ’ a r g o m e n t o . Non che manchi una letteratura sull’ordine delle parole in greco: principale strumento di lavoro è il libro di Dover, che offre la sua interessante distinzione fra ‘nucleus’ e ‘concomitant’ (e cioè fra parti più o meno importanti del discorso, portatrici cioè di maggiore o minore informazione: la traduzione degli strumenti di Dover in termini di informatica sarebbe oltremodo agevole). Ma ci si muove quasi esclusivamente sul piano linguistico e cioè sul piano dell’iperbato linguistico ovvero, come lo abbiamo definito, ‘naturale’ (e così nella letteratura elencata da Dover, opportunamente integrata con altre voci: v. qui in fondo BIBLIOGRAFIA); l’iperbato ‘artificioso’ e cioè retorico in senso lato è quasi costantemente trascurato, per cui ci si è trovati a doversi costruire i criteri di classificazione. Si è cominciato coll’escludere i casi di iperbato naturale. Soprattutto coll’aiuto della utile dissertazione della Lindhamer, che studia i prosatori, si sono esclusi i casi di
270 | Sezione 4: Lirica
SOST./AGG. (O GEN.) + VERBO/SOST. + AGG. (O GEN.)/SOST.
es.
Stesich. Lille (ed. Parsons, ZPE 26, 1977) 201 μὴ χαλεπὰς ποίει μέριμνας P. I. 1. 31 ὑψίπεδον Θεράπνας οἰκέων ἕδος
GEN. + SOST. + GEN.
es.
Stesich. Lille 213 ϑανάτου τέλος στυγεροῖο 227 μάντιος φραδαῖσι θείου
OGGETTO + COMPLEM./AVV. + VERBO
es.
P. I. 1. 15 ἁνία τ’ ἀλλοτρίαις οὐ χερσὶ νωμάσαντ(α)
PREDIC. NOMIN. + COPULA + COMPLEM.
es.
P. I. 1. 30 ὁμόδαμος ἐὼν Σπαρτῶν γένει
Da un esame più accurato dei materiali offerti dalla letteratura sull’argomento si possono trovare altre categorie, che vengono comunque considerate nelle selezioni e valutazioni statistiche. Si sono esclusi anche alcuni casi messi in rilievo come usuali da Ed. Fraenkel, Ikrt. u. Akz. 162–8, e cioè: – nessi molto stretti, e saldati dall’uso, che si possono presentare separati: es. Κ 546 ἦ τίς σφωε πόρεν θεός (cfr. in lat. bonam … operam, ubi … gentium, quis … deus); etc. Fraenkel dà anche (p. 166) interessanti casi di formule omeriche (da rapportare a quanto risulta da Hainsworth!). Importante il nesso di teonimo con epiteti. Stesich. Lille 205 θεοὶ θέσαν ἀθάνατοι P. I. 6. 8 σωτῆρι … Ὀλυμπίῳ – numerali: es. Ι 149 ἑπτὰ δέ οἱ δώσω εὖ ναιόμενα πτολίεθρα κ 40 πολλὰ μὲν ἐκ Τροίης ἄγεται κειμήλια καλὰ Φ 518 οἳ δ’ ἄλλοι πρὸς Ὄλυμπον ἴσαν θεοὶ αἰὲν ἐόντες – possessivi: es. ο 533 ὑμετέρου δ’ οὐκ ἔστι γένευς βασιλεύτερον ἄλλο Ψ 83 μὴ ἐμὰ σῶν ἀπάνευθε τιθήμεναι ὀστέ’, Ἀχιλλεῦ Ο 724s. ἀλλ’ εἰ δή ῥα τότε βλάπτε φρένας εὐρύοπα Ζεύς || ἡμετέρας P. I. 6. 42s. εἴ ποτ’ ἐμᾶν, ὦ Ζεῦ πάτερ, || θυμῷ θέλων ἀρᾶν ἄκουσας.
Questo è quello che Fraenkel definisce ‘iperbato enfatico’ (emphatische Sperrung), riscontrabile frequentemente anche in prosa e frequente in poesie con caratteristiche di ‘normalità’ linguistica. D’altra parte si sono considerate come iperbati a r t i f i c i a l i : 1) gli iperbati che, normali da un punto di vista liguistico, si presentavano distribuiti fra tre versi o anche fra due, a meno che non si trattasse di un semplice enjambement (fine di un verso e immediato inizio del successive). Il criterio è stato qui alle volte un po’ personale (difficile la valutazione, qualche volta: e per Bacchilide difficoltà di valutazione del verso, in un’edizione come quella di Snell(–Maehler), che privilegia il colon rispetto al verso,
L’iperbato artificioso | 271
v. premesse di Snell e critica di Irigoin, «REG» 75, 1962, 62). Le oscillazioni possibili non sono apparse comunque tali da pregiudicare il valore dei rilevamenti statistici. 2) lontananza (anche tenue) del relativo dal nome che precede (es. P. I. 1. 12, 13) 3) i casi in cui ci sia incrocio doppio o multiplo (vari tipi di chiasmo, per cui v. la Sulzer, 13ss.): es. P. I. 1 . 64–66 εἴη μιν εὐφώνων πτερύγεσσιν ἀερθέντ’ ἀγλααῖς || Πιερίδων … || … φράξαι χεῖρα A B C D B D C A Questi casi sono stati contati per due. Nell’esempio pindarico, incorniciato da A … A εἴη … φράξαι (vale per uno), c’è l’incrocio di B, C e D che facciamo valere per due (visto che D … D πτερύγεσσιν … ἀγλααῖς rientra nel caso SOST. + VERB. + AGG.). 4) quando ci sia l’articolo (palesemente accertabile come tale, e non come pronome alla maniera omerica) molto separato dal nome.
Per dare ora un’idea della complicatezza e dei metodi d’analisi a cui può arrivare Pindaro, vediamo quest’esempio dalla Istmica 7, vv. 12–14 (v. Sulzer p. 48):
L’iperbato b può tranquillamente escludersi, in quanto rientrante nella categoria (v. sopra) AGG. + VERBO + SOST., e il fatto che si presenti in enjambement fra la fine di un verso e l’inizio immediato del successivo non lo fa rientrare nei casi da considerare. L’iperbato c è separato da troppi elementi del discorso (posposizione della congiunzione causale οὕνεκεν, oltre a verbo con determinazione avverbiale). Quest’ultima condizione non sarebbe stata considerata sufficiente in sé, ma la distribuzione a distanza di ben tre versi fa sì che, anche senza l’inserzione di οὕνεκεν, l’iperbato si sarebbe contato come artificioso. Siamo quindi finora a un iperbato artificioso. Quello a non verrebbe considerato tale, visto che ἤ e οὕνεκεν sono due prepositive, tanto che, se la frase si fosse presentata come ἢ οὕνεκεν ὀρθῷ ἔστασας ἐπὶ σφυρῷ non sarebbe stata neanche presa in considerazione, come ordo verborum del tutto naturale, e come tale neanche elencato sopra fra i naturali (determinazione verbale in forma di complemento + verbo è un’unità ovvia, che può essere preceduta dalla congiunzione, che si riferisce al verbo colla sua determinazione verbale presa nella sua unità: v. Dover 25ss.). Ma è la sua disposizione chiastica coll’iperbato normale b a indurre a considerarlo artificiale. Nei vv. 12–14 si riscontrano quindi, agli scopi del rilevamento statistico, due iperbati artificiosi.
272 | Sezione 4: Lirica
Vediamo ora i rilevamenti statistici degli iperbati artificiosi. Cominciamo con le Istmiche di Pindaro. I. 1
1
3s.
12 (relat.)
13
13 (relat.)
15s.
17s. (ἡρ. … κράτ.)
22–28
(στεφάν. … τῶν) 22s. (λάμπει … σφίσ.) 36–38 (ἅ) 43–45 45s. (δόσις … ὀρθῶσαι) 47 47 (vale due: tre intrecci) 52s. 52s. 52–54 (ἔοικε … κελαδῆσαι)
60–62
64–66 (εἴη … φράξαι)
64s.
64s. (incastro
ABC/ACB vale due! v. supra) 68 parole 79x4 = c. 320, hyp. art. 22, rapp. 14,54 [Ungarelli e tutti, 4.78, rivista da me] I. 2
1s. 7s. 8 15s. 19s. 26 35s. 36s. 39s. 43 parole 217 , hyp. art. 10, rapp. 21,70 [Mazza, 5.78]
I. 3–4
5s. (ὄλβος … θάλλ. ὁμιλεῖ) 9 10 (τρ. … ἦτορ) 9–11 (Μελ. … δεξαμ.) 12 (ἐν) 36 36s. 40–43 (φάμαν … ἅ τε) 52s. 53b (relat.) 53b–54 (φοίνιον … μομφάν) 55 (relat.) 62s. 65 (relat.) 71b–73 (ἀνήρ … υἱός) 88 89b–90 parole 91x5 = c. 455, hyp. art. 17, rapp. 26,76 [L. E. Rossi, 5.78]
I. 5
2s. 2s. 5s. 5s. 8s. 12 15 17–19 48s. 59–61 59–61 (la parte narrativa è particolarmente piana!) parole 261, hyp. art. 11, rapp. 23,72 [Salvatori–Senni, 5.78]
I. 6. 1–42, 49–51, 55–75
1 1–3 7–9 17s. 19–21 22 (μυρίαι non numer.) 22 (ἔργων … κέλ.) 25
28 (τὸν ... ἥρ. μόχθ.)
28–30 (Her. ... figlio di Alcm.)
32s.
33s.
36 37s. 37–40 39s. 50 57s. (ἦλθ. ... Πυθ.) 57s. (ταμ. … κώμων) 57s. (ἦλθ. …Εὐθ.) 69 (ξυν. … κόσμ. … προσ.) 73
parole 308 , hyp. art. 22, rapp. 14 vv. 42–49 , 52–5 (inno a Zeus per imeneo e disc. genetliaco): 43 46 47s. 53s. parole 52 , hyp. art. 4, rapp. 13 tot.: parole 360 , hyp. art. 26, rapp. 13,84 [L. E. Rossi, 5.78]
L’iperbato artificioso | 273
I. 7
3s. 3s. 10 10 12–14 12–14 18s. 18s. 45s. 46s. parole 201, hyp. art. 10, rapp. 20,10 [Ungarelli, 5.78]
I. 8 (e 9)
1–3 2 9–10 12s. 15–15a 19s. 27 30 38s. 47s. 49s. 52 52–4 59s. 64s. 66s. parole 361+30 = 391, hyp. art. 16, rapp. 24,43 [Ferretti–Tentoni, 5.78, rivista da me]
I. 9
non ha hyp. art.
TOTALE Pind. Isthm.: parole 2205, hyp. art. 112, rapp. 19,68 Confrontiamo subito Pindaro con Stesicoro, confronto che, come diremo alla fine, è stata la domanda iniziale che ci si è posta. Per le edizioni, si sono usate: – Poetae Melici Graeci, ed. D. Page, Oxford 1962; – Supplementum Lyricis Graecis, ed. D. Page, Oxford 1974; – Stesicoro di Lille (Pap. Lille 76 a, b, c): P. Parsons, «ZPE» 26, 1977, 7–36 (testo 14–19). Si sono presi in considerazione solo i frammenti di una certa estensione e, fra i minori, solo quelli di senso compiuto. Fra quelli papiracei del Supplementum, va a me la responsabilità di avere escluso S 88, S 89. 5–11, S 148 fr. 1 col. I. 2–9, dove lo stato troppo lacunoso impedisce ogni tipo di rilevamento. L’impressione è, comunque, sempre di ordo molto piano e semplice (in S 89. 7 ho rilevato un nesso diviso: θεᾶς ἰότατι δαεὶς σεμνᾶς ᾿Αθάνας). C’è da notare, preventivamente, che gli iperbati artificiosi in Stesicoro lo sono in realtà meno che in Pindaro. Questo deve far leggere le statistiche anche in senso qualitativo.
Pap. di Lille, vv. 201 –234: 214s. 223 (ὅς) 223s. 225s. 227 parole 118, hyp. art. 5, rapp. 23,60 [Ribuoli, 4.78, controllata da me] PMG, solo i framm. 178, 179, 181, 187, 192, 200, 209. 1–4, 210, 211, 212, 219, 221, 223, 232, 235, 240, 243, 244, 245, 278: 200 200 212 (τοιάδε) parole 180, hyp. art. 3, rapp. 60 [Salvatori, Testa , Zampetti, 5.78] Supplementum, solo i framm. S 7, 11. 1–10, 16–26, 13. 2–5, 14, 15. II, 17 parole 178, hyp. art. –, rapp. – [Pignatiello, Ribuoli, Russo, 5.78] TOTALE: parole 476, hyp. art. 8, rapp. 59,50
274 | Sezione 4: Lirica
Continuiamo con Bacchilide, Epinicio 5 e Ditirambi 15–20. epin. 5
19s.
24
29s.
39s.
61s.
64–68
100s.
100–2
110s.
118s.
170–2 191s. (19 s. αἰετὸς εὐρυάνακτος ἄγγελος || Ζηνὸς ἐρισφαράγου: a incrocio, ma lo si valere per uno visto che l’altro è un nesso di teonimo con epiteti, v. sopra)
parole 585, hyp. art. 12, rapp. 48,75 [L. E. Rossi, 5.78] dithyr. 15–20 15:
–
16:
2–4 20–2 27–9
17:
21–3 29–32 29–33 36–8 41–3 43s. 58s. 58s. 68s. 69s. 101–3
18:
5–7 13–4 16s. 16s.
19:
12–4 19–23 19–25 25–8
20:
5–6
110s. 110s. 115s.
parole 917, hyp. art. 26, rapp. 35,26 [Salvatori, Ungarelli, assistiti da M. Vetta, 5.78] controll. in semin. solo i casi messi in rilievo TOTALE: parole 1502, hyp. art. 38, rapp. 39,52 Va notato che l’Epinicio 5 è prevalentemente narrativo e i Ditirambi lo sono praticamente in modo esclusivo. La narratività non impedisce a Bacchilide di allontanarsi sensibilmente dalle statistiche di Stesicoro (diversità di genere e di destinazione ne restano confermati). Per il confronto con Pindaro vedi le considerazioni finali. Concludiamo il rilevamento con dei testi corali che avevano una destinazione certamente diversa da quella dei testi esaminati finora, e cioè con un saggio dalla tragedia attica: le parti liriche di Euripide, Baccanti: 88–91 123–5 1025s. 1163
166s.
530–2
553s.
569–71
602s.
997–1000
1020–22
(esclusi, come naturali: 126s. 399–401 408s. 547–9) parole 1235, hyp. art. 11, rapp. 112,27 [Zampetti, 5.78: controll. in semin. solo i casi messi in rilievo]
L’iperbato artificioso | 275
Ed ecco, in forma tabulare, i risultati finali delle statistiche:
parole
hyperb. artific.
rapporto
2205
112
19,68
476
8
59,50
Bacchilide, epin. 5 e dith. 15–20:
1502
38
39,52
Eur. Bacch., parti liriche:
1235
11
112,27
Pindaro, tutte le Istmiche: Stesicoro: PMG, Supplem., Lille: ( non tutto )
I campioni statistici non rispondono tutti all’esigenza di estensione: Stesicoro è in quantità assai minore, come materiali, ché ci siamo trovati (v. sopra) a dover escludere parte della documentazione per eccessiva frammentarietà e d’altra parte molti dei frammenti di PMG sono brevi, anche se si è avuto cura di escludere quelli non di senso compiuto. Ma le cifre parlano molto chiaro, e vale la pena arrotondarle per fornire nuovamente la chiave di lettura delle statistiche, che deve portarci ad una loro utilizzazione. La tabella sopra riportata ci dice che Pindaro ha circa 1 iperbato artificioso ogni 20 parole circa (cifra altissima), Bacchilide ne ha 1 ogni circa 40 parole (la metà, quindi), Stesicoro 1 ogni 60 parole circa (1/3 rispetto a Pindaro) e infine Euripide ne ha 1 ogni 120 parole circa (1/6 quindi rispetto a Pindaro, 1/3 rispetto a Bacchilide, 1/2 rispetto a Stesicoro). La progressione crescente del numero degli iperbati è quindi la seguente, riportando tutto a 6: Euripide 1 Stesicoro 2 Bacchilide 3 Pindaro 6. Che cosa può significare questo risultato? Bisogna qui fare un passo indietro e presentare nella sua integrità l’esigenza di chiarimento storico e l’ipotesi di lavoro che sono state alla base di queste ricerche. La difficoltà di ‘lettura’ del testo di Pindaro, come si diceva all’inizio, è cosa ben nota. È una realtà della quale era ben cosciente Pindaro stesso, quando diceva, nell’O. 2. 83–88 a Terone di Agrigento nel 476:
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πολλά μοι ὑπ’ ἀγκῶνος ὠκέα βέλη ἔνδον ἐντὶ φαρέτρας φωνάεντα συνετοῖσιν· ἐς δὲ τὸ πὰν ἑρμανέων χατίζει. σοφὸς ὁ πολλὰ εἰδὼς φυᾷ· μαθόντες δὲ λάβροι παγγλωσσίᾳ κόρακες ὣς ἄκραντα γαρυέτων Διὸς πρὸς ὄρνιχα θεῖον·
85
versi che, nella traduzione di F. M. Pontani, suonano: Molti rapidi dardi stanno sotto il cubito entro la mia faretra, parlano a chi capisce; per il volgo c’è bisogno di interpreti. Poeta chi molto sa d’istinto: chi sa per studio, blatera procace, come là quei due corvi a vuoto garruli contro il divino uccello di Zeus.
E lo scoliasta commenta (schol. P. O. 2. 153a, b Drachm.) alle parole, per noi importantissime, “per il volgo c’è bisogno di interpreti” (85 s. ἐς δὲ τὸ πὰν ἑρμανέων χατίζει): “a. Andando verso il volgo e i molti e i volgari c’è bisogno di interpreti. b. Ovvero parla delle sue composizioni: sa infatti che fa uso di molti miti e di figure complicate e di stile variegato: ha infatti molti i p e r b a t i . La mia poesia invero, dice, ha bisogno di interpreti.”
È notevole che lo scoliasta parli proprio dell’iperbato (v. ancora, da Drachmann, indice, XVI e XX, O. 1. 68, 69; 3. 19s.; 4. 1e; 10. 74d; P. 1. 84, 3. 198c, 9. 156a; N. 2. 9c; 6. 17b, 7. 110, 9. 102a; I. 6. 27; l’avverbio ὑπερβάτως: P. 8. 142; I. 8. 75; per la sensibilità degli antichi all’iperbato v. Kells, 189 e n. 1: Subl. 22, dov’è detto che l’eccitazione produce iperbato; Plat. Prot. 343e (de), 344a, a proposito dello scolio a Scopa; etc.). Ora, da una lettura superficiale del molto che in questi ultimi dieci anni ci è stato restituito di S t e s i c o r o si ricava l’impressione che il suo stile sia notevolmente più semplice, più lineare. Questa impressione è stata abbondantemente confermata dale risultanze statistiche circa l’iperbato: Stesicoro ne ha almeno tre volte meno di Pindaro, e dico almeno perché, come si è notato, gli iperbati che possono definirsi artificiosi in Stesicoro in genere non lo sono in misura rievante, il che fa propendere per una valutazione anche qualitativa ol-
L’iperbato artificioso | 277
tre che quantitativa delle statistiche, e precisamente nel senso di una misura d’iperbati ancora inferiore, rispetto a Pindaro, di quanto dicano le nude statistiche. Con Stesicoro abbiamo sperimentato in questi ultimi anni una delle più notevoli rivoluzioni nella valutazione storica e letteraria d’un autore quando lo si conosceva ancora poco: lo si riteneva simile a Pindaro non solo nella metrica (pur con incertezze), e questo resta vero, ma anche nella destinazione e nel modo di esecuzione, e cioè lo si considerava un poeta corale. Recentemente (Rossi, conferenza di Siracusa, 9.77)[*] ho accettato il parere , espresso da poco da alcuni studiosi, che Stesicoro fosse non corale, ma monodico e precisamente citarodico, un poeta cioè le cui composizioni erano cantate a solo e accompagnate dallo strumento a corda, qualcosa di simile a quanto era avvenuto per l’epos omerico. Con in più una compromissione musicale più ampia, ricavabile per noi (per cui la musica è sempre perduta) dalla complessa struttura delle sue partiture ritmiche, che derivano dalla metrica dattilica dell’esametro omerico (come dimostrerò altrove, e come è già ampiamente implicito nel lavoro di M. W. Haslam, “Quad. Urb.” 17, 1974, 7–57), ma che innovano nel senso di una forte liricizzazione rispetto alla stichicità della metrica esametrica. Stesicoro, in altre parole, canta quello che in Omero era cantilenato sul ritmo regolare e ripetitivo dell’esametro; ma quello che è qui interessante è che, a differenza di tutti gli altri poeti ai quali veniva accostato, e cioè ai veri poeti corali (Alcmane, Simonide, Bacchilide, Pindaro), canta esclusivamente materia epica narrativa, senza intrusione di altri elementi (gnome, kairòs, realia religiosi), che erano funzionali alle destinazioni, diverse, dei carmi di quegli altri poeti. Stesicoro, pur cantando, r a c c o n t a : e racconta come raccontava Omero. Ho proposto la definizione di e p i c a a l t e r n a t i v a , un’epica cioè che si proponeva invece della, e in luogo della, epica omerica. Per questo ho proposto di vederlo operare nel quadro delle panegyreis o feste intercittadine nelle quali era presente anche la recitazione dei poemi epici tradizionali. Si vede bene a cosa miriamo con queste considerazioni: a vedere la più piana semplicità dello stile narrativo stesicoreo funzionalizzata alle sue esigenze, appunto, di narratore. Chi racconta ha l’esigenza di esser seguito in tutte le pieghe del suo racconto: e del resto Pindaro, anche nelle parti in cui è narrativo, in cui cioè presenta pezzi del mito, racconta in modo diverso, non solo selezionando brevi frammenti della narrazione epica, del ‘ciclo’ della poesia epica, ma anche alle volte presentando la narrazione con degli audaci hystera protera se non addirittura con delle semplici brevi allusioni (gli hystera protera vanno visti, || [* Citata anche in Bibliografia, sarà poi pubblicata come Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, “Orpheus” n.s. 4, 1983, pp. 5–31 (vd. le pp. 341–363 di questo volume)].
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in termini di narratologia moderna, come una forte divergenza per es. fra ‘intreccio’ e fabula, per prendere due termini usati da C. Segre, Le strutture e il tempo, Torino 1974, p. 14 e pass.). Nulla di tutto questo in Stesicoro, che nella sua narrazione, per quanto possiamo seguirla nei suoi frammenti più estesi, segue la successione cronologica alla maniera dell’epos tradizionale. La elaborata sostenutezza e complicatezza dello stile pindarico, qui da noi quantificata con il test dell’iperbato, prende maggior rilievo dal fatto che di lui sappiamo bene, per testimonianze interne al suo testo ed esterne ad esso, quale era il modo di esecuzione: coro accompagnato da musica. Se per Stesicoro abbiamo dovuto correggere le nostre vedute anteriori e mettere in moto il meccanismo della congettura (ma sufficientemente fondata da poterla prendere per certa), per Pindaro sappiamo bene quali erano le occasioni a cui erano destinati i suoi carmi corali: quelli religiosi erano commissionati dalle amministrazioni cittadine per celebrare le divinità nelle feste religiose e quelli profani (per usare una distinzione degli antichi) per celebrare le vittorie di private cittadini o di individui di sangue nobile e regale nelle gare sportive della feste panelleniche (Olimpiche, Pitiche, Istmiche e Nemee). Questi dati di fatto ci invitano a considerare con più attenzione codice, messaggio e destinatario della poesia pindarica. È chiaro che la folla delle grandi feste cittadine o panelleniche si trovava nella condizione di non capire nella sua interezza il dettato pindarico, secondo quanto dice egli stesso quando – lo abbiamo visto – nell’O. 2 parla di “folla bisognosa d’interprete”. Che cosa coglieva tale folla del complicato dettato verbale di Pindaro? Certo non tutto: in condizioni notevolmente diverse, possiamo confrontare quanto doveva succedere allora con l’appercepibilità del materiale verbale dell’opera lirica moderna, nella quale or sì or no s’intendon le parole (ma soccorrono i libretti, che l’appassionato d’opera porta con sé alle rappresentazioni o segue alla radio o nell’ascolto dei dischi). Questo era ovviamente negato al pubblico delle feste antiche, che del dettato pindarico coglieva l’intenzione genericamente celebrativa (com’è stato messo in luce specialmente dagli studi di Bundy, 1962, in poi) e magari alcune parole–chiave particolarmente messe in rilievo dall’esecuzione musicale del coro. Frammenti di testo, cementati dalla performance musicale e orchestica, che insieme coi brandelli di testo – per così dire – costituiva il messaggio ad essa diretto, in un codice che i destinatari–folla conoscevano bene e apprezzavano per quello che era. E le massime morali aristocratiche, e i miti alle volte sottilmente legati all’occasione e alla persona del dedicatario (città o private), tutto questo andava perduto? Lo sarebbe stato, se unico destinatario fosse stato la folla. Ma non si può pensare ad una ridondanza funzionale di tale portata. Va ricordato che di questi carmi, fossero per le città o per i singoli, destinatari erano anche, e forse addirittura in
L’iperbato artificioso | 279
primo luogo, le autorità cittadine stesse e i singoli stessi, per i quali il materiale verbale era t u t t o convogliato nel messaggio, senza esclusione. Per costoro l’etica, le sottili implicazioni del mito e quant’altro vi fosse nel testo del poeta era prodotto di un preciso rapporto di committenza, che creava nei destinatari delle precise attese, attese non ovvie e uniformi come potevano essere quelle del pubblico delle recitazioni arcaiche dell’epos (v. Rossi 1978), bensì precise, individuali e idiosincratiche, tali da venire formulate all’atto stesso della commissione dei carmi ai poeti corali. I carmi venivano certamente composti su precise indicazioni dei destinatari diretti e vivevano di una vita propria, per es. nel caso degli epinici, nella patria e nella casa dei vincitori, dove venivano rieseguiti per cerchie più ristrette, forse letti monodicamente, certo meditati e gelosamente custoditi negli archivi di famiglia, dove l’attività filologica dei posteri li ha ritrovati per convogliarli alla filologia alessandrina. L’apparente aporia costituita da questi due così diversi livelli di a p p e r c e p i b i l i t à del messaggio verbale si risolve assumendo almeno due destinatari, i committenti e le folle: il che porta di conseguenza a postulare almeno due diversi codici (uno prevalentemente verbale e uno prevalentemente musicale– orchestico) che producevano almeno due differenti messaggi. I valori veicolati da un’ode di Pindaro erano diversi per i privati che li avevano commissionati e per i pubblici che li ascoltavano e li vedevano orchesticamente realizzati colla danza nelle feste pubbliche. C’è da chiedersi, a questo punto, se la maggiore semplicità di Bacchilide (che secondo le nostre statistiche ha la metà degl’iperbati di Pindaro) risponda a una differenza di statuto della lirica corale bacchilidea rispetto a quella di Pindaro. Ci manca purtroppo il confronto con Simonide, malauguratamente troppo frammentario per permetterci delle valutazioni. Ma, per quanto riguarda Bacchilide, per il quale le condizioni e le occasioni e i destinatari erano gli stessi che per Pindaro, c’è soltanto da dire che egli ha semplicemente fatto minor uso di quella che dall’esempio di Pindaro era evidentemente una possibilità, della quale Pindaro ha fatto largo uso. Pur dovendo rimanere un certo iato fra i due tipi di destinatario, così chiaramente individuabili nel caso di Pindaro, bisogna ammettere che esso era minore nel caso di Bacchilide: un fatto di scelta, che in nessun modo smentisce il valore dei risultati ottenuti dalla nostra valutazione di Pindaro. Bacchilide doveva essere più popolare, come del resto provano i frammenti di polemica fra poeti (anche se sono certamente meno di quanto certa critica tende a credere) che ci sono rivelati sia da testimonianze esterne di concorrenza fra di loro sia dagli accenni interni ai testi. Per di più Bacchilide racconta in misura vicina a quella di Stesicoro: è a mezzo, per l’iperbato, fra Stesicoro e Pindaro. Per Pindaro abbiamo del resto testimonianze che, pur più tarde,
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ci fanno capire che la sua poesia veniva intesa come qualcosa di remoto e di arcaico e di poco popolare nel senso sopra detto. Stesicoro con un codice unico, relativamente piano e semplice, nel quale prevale il messaggio verbale, funzionalizzato ad una narrazione continua e con alto grado di appercepibilità, rinforzato dal tipo di escuzione, monodico– citarodica; Pindaro e Bacchilide con un codice verbale complesso, in diverso grado, tanto da apparire funzionalizzato alla appercepibilità dei destinatari diretti, mentre il codice della esecuzione pubblica coinvolgeva altri elementi (musica, danza). Questi risultati hanno fatto sorgere il problema di un altro genere di poesia corale, quello delle parti corali della tragedia attica, e hanno risvegliato l’esigenza di verificare quello che dalla conoscenza della situazione storico–sociale della polis attica del V secolo appariva già a priori come un messaggio diretto ad un unico destinatario, e cioè al pubblico del teatro. In altre parole: le riflessioni del coro tragico, o eventuamente i suoi interventi nell’azione come avviene in certi tragediografi e in certe tragedie, dovevano avere lo stesso grado di appercepibilità del dialogo in trimetri giambici, detto dagli attori. Il coro canta, in condizioni e con mezzi non molto dissimili da quelli in cui si realizzava nella esecuzione il coro pindarico e bacchilideo. Ebbene, i risultati statistici dell’iperbato sono sorprendenti, pur ancora limitati come sono, per ora, ad una tragedia sola: le Baccanti di Euripide. Qui gli iperbati artificiosi sono presenti sei volte meno che in Pindaro, tre volte meno che in Bacchilide, due volte meno che in Stesicoro (che, ricordiamolo ancora una volta, era monodico). Non si poteva avere conferma più lampante del fatto, ben noto, che il pubblico del teatro seguiva con intenso interesse non solo la musica e le evoluzioni di danza del coro, ma anche le sue parole, tanto che il poeta sentiva il bisogno di parlar piano e liscio, pur nella sostenutezza del lessico, che era del resto familiare al pubblico, imbevuto com’era della conoscenza dei poeti del suo passato e della loro Dichtersprache. Ma la sintassi ha infinitamente meno salti, il discorso viene seguito nella sua interezza. Insomma: il pubblico seguiva le parole del coro non meno di quelle del dialogo in trimetri, e i poeti lo sapevano bene. I rilievi statistici dovranno continuare, e ci permetteranno di stabilire ulteriori distinzioni di situazioni storico–poetiche. Ma i divari statistici stabiliti dalla nostra prima, e ridotta, campionatura sono così ampi da non farci aspettare sorprese di rilievo. Dalla storia della musica greca nel V secolo e dall’esame delle partiture ritmiche delle parti liriche dei poeti drammatici sappiamo che, da Eschilo a Euripide, la musica vive una stagione di intense evoluzione verso il più complicato, il più elaborato: e sarà interessante verificare fino a che punto i testi si siano configurati in modo da adattarsi, certo del tutto spontaneamente, alle mutate condizioni del gusto musicale. Per esempio, una congettura che si
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può anticipare è la seguente: Eschilo e Sofocle, che hanno una ritmica più semplice e componevano una musica più severa e lineare, si potranno essere permessi più licenze sintattiche di quanto possa aver fatto Euripide, che componeva per una musica più evoluta e più complessa, come anche le sue partiture ritmiche ci confermano. Ma un risultato del genere, ammesso che lo si ottenga, andrebbe pur sempre temperato in vista della acerba polemica musicale che, già dopo la metà del V secolo, opponeva una musica nuova che ‘uccideva’ la parola e una musica del buon tempo antico in cui la parola era padrona e signora dell’esecuzione (v. l’iporchema di Pratina, le polemiche di cui ci è testimone Aristosseno etc.). Alla parola in sé e ai suoi autonomi valori semantici si dava sempre meno valore, col ditirambo nuovo che si sviluppa proprio al tempo di Euripide e dal quale Euripide è fortemente influenzato. Senza dover qui postulare pluralità di codici e di messaggi e di destinatari come al tempo di Pindaro, c’è da dire che la parola serve sempre di più esclusivamente come supporto per la voce che canta e modula musicalmente, in corrispondenza allo svilupparsi del virtuosismo musicale e vocale. Ma è troppo presto per anticipare più di quanto abbiamo anticipato qui: la verifica verrà da un più esteso esame dei testi e della loro configurazione, magari selezionando altri livelli su cui porre l’esame di essa. Quello che risulta dalle ricerche fin qui condotte è comunque lo stretto legame che esiste fra la composizione letteraria e la sua destinazione, destinazione che determina poi il suo modo di esecuzione. Il configurarsi del materiale verbale è in stretto rapporto funzionale con il modo in cui esso veniva eseguito, pubblicato. A risultati analoghi ero arrivato anni fa studiando la divisione in quattro cola, di diversa estensione, dell’esametro omerico, la cui strutturazione si presenta a noi già singolarmente matura e funzionalizzata al lento recitativo accompagnato dell’epica (si veda il mio lavoro su “Stud. Urbin.” 39, 1965, 239– 73, spec. le conclusion 268s.).
Bibliografia selettiva È per gran parte desunta da Dover, p.IX ss., dove è però più abbondante per il periodo anteriore al 1960. H. Amman, Wortstellung und Stilentwicklung, “Glotta” 12, 1923, 107–112 H. Ammann, Untersuchungen zur homerischen Wortfolge und Satzstruktur mit besonderer Berücksichtigung der Stellung des Verbums. I., Freiburg 1922 (Sperrung 43s.) H. Ammann, Untersuchungen zur homerischen Wortfolge und Satzstruktur. Il. “IF” 42, 1924, 149–78, 300–322 F. Antinucci, Fondamenti di una teoria tipologica del linguaggio, Bologna 1977
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H. Boldt, De liberiore linguae Graecae et Latinae collocatione verborum, Diss. Göttingen 1884 C. Bossler, De praepositionum usu apud Pindarum, Diss. Darmstadt 1862 P. Brandt, De particularum subiunctivarum apud Pindarum usu, Diss. Leipzig 1898 F. Dornseiff, Pindars Stil, Berlin 1921 K. J. Dover, Greek Word Order, Cambridge 1960 H. Eggers, De ordine et figuris verborum quibus Horatius in carminibus usus est, Diss. Louvain 1877 (o 1878) (144 pp.) Ed. Fraenkel, Iktus und Akzent im lateinischen Sprechvers, Berlin 1928 (spec. pp. 162–8) Ed. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, I–III, Oxford 1950 (Index, s.v. ‘hyperbaton’) H. Fränkel, Der homerische und der kallimachische Hexameter, in: Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 1955, 100–156 (= 31968) H. Frisk, Studien zur griechischen Wortstellung, Göteborg 1932 (184 pp.) Th. D. Goodell, The Order of Words in Greek, “TAPA” 21, 1890, 5–47 F. F. P. Harre, De verborum apud Pindarum conlocatione, Diss. Ber1in 1867 W. Havers, Zur ‘Spaltung’ des Genetivs im Griechischen, “IF” 1912–13, 230–44 J. H. Kells, Hyperbaton in Sophocles, “CR” 11, 1961, 188–95 S. Lauer, Zur Wortstellung bei Pindar, Winterthur 1959 Luise Lindhamer, Zur Wortstellung im Griechischen. Eine Untersuchung syntaktisch eng zusammengehöriger Glieder durch das Verbum, Diss. München, Borna–Leipzig 1908 A. Loepfe, Die Wortstellung im griechischen Sprechsatz, Diss. Freiburg/Schw. 1940 K. Orinsky, Die Wortstellung bei Gaius, “Glotta” 12, 1923, 83–100 (Hyperbaton: natürliches und künstliches) E. Rickmann, De cumulandis epithetis quas leges sibi scripserint poetae Graeci maxime lyrici, Diss. Rostock, Cervimontii 1884 (41 pp.). H. Schöne, Umstrittene Wortstellungen des Griechischen, “Hermes” 60, 1925, 144–78 R. Stein, De articuli apud Pindarum usu, Diss. Breslau 1868 Asta–Irene Sulzer, Κλυταῖσι δαιδαλωσέμεν ὕμνων πτυχαῖς (O.I.105) oder Zur Wortstellung und Satzbildung bei Pindar, Zürich 1961 G. Thomson, Simplex ordo, “CQ” 15, 1965, 161–75 T. B. L. Webster, A Study on Greek Sentence Construction, “AJP” 62, 1941, 385–415 H. Weil, De l’ordre des mots dans les langues anciennes comparées aux langues modernes, Paris 1879 A. Wifstrand, Von Kallimachos zu Nonnos, Lund 1933 Si fa riferimento anche alle seguenti pubblicazioni: J. B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford 1968 P. Maas, Griechische Metrik, Berlin 31929 (e traduz. ingl. e ital.) L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, “Stud. Urbin.” 39, 1965, 239–73 L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, “RFIC” 94, 1966, 185–207 L. E. Rossi, Verskunst, in: Der kleine Pauly, 5 (1975), 1210–18 L. E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in: Storia e civiltà dei greci, Milano (Bompiani) 1978, vol. I. 1
L’iperbato artificioso | 283
L. E. Rossi, Panegyreis e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa (relazione, non ancora pubblicata, tenuta a Siracusa il 27.9.77 al convegno ‘Polis e tempio in Sicilia e Magna Grecia’) J. Vendryes, Traité d’accentuation grecque, Paris 1945 Edizioni seguite: Per Stesicoro: Poetae melici Graeci, ed. D. Page, Oxford 1962 Supplementum lyricis Graecis, ed. D. Page, Oxford 1974 P. Parsons, “ZPE” 26, 1977, 7–36 (testo 14–19) (P. Lille 76 a, b, c) Per Pindaro: Pindari carmina cum fragmentis. Ed. B. Snell. I4. Epinicia, Leipzig 1974 Per Bacchilide: Bacchylidis carmina cum fragmentis. Post B. Snell ed. H. Maehler, Leipzig 1970 Per Euripide: Euripidis fabulae. Ed. G. Murray, III2, Oxford 1913
Greek Monodic Poetry and the Symposion Oxford, Michaelmas Term 1979 Nellie Wallace Lecturership Faculty of Literae Humaniores, Course for Honour Moderations Prof. L.E. Rossi Greek Monodic Poetry and the Symposion Schools, Lecture Room 15, F. 12 I.
(19.10.79)
Il. (26.10.79) Theogn.)
Greek Monodic Poetry and the Symposion. Introduction. A History of Sympotic Singing Habits in the V–IV Cent. (&
III. (2.11.79) A Survey of Indisputably Sympotic Poetry (Themes; Alc., Anacr., Bacch., Pind.). IV. (9.11.79) Poem and Fee in Greek Archaic Poetry, both Choral and Monodic (Pind. I. 2. 1–11). V. (16.11.79) Refusal and Recusatio. Epos and Wars in the Symposion (mainly Anacr. fr. eleg. 2 W., Theogn. 757–64, Xenoph. 1, Ibyc. 282 P.). VI. (23.11.79) Stesichorus as an Alternative Epic Poet. Religious Festivals and Literature. VII.
(30.11.79)
VIII. (7.12.79)
Iambus. Elegy. A Short Survey of Sympotic Song VII–IV Cent.
Seminar sessions: I. II.
(30.11.79): Magdalen College, Lecture Room A, 5–645 pm (13.12.79): Magdalen College, Lecture Room A, 4–630 pm
|| [Corso tenuto a Oxford sul finire del 1979, presentato qui in forma parziale: delle lezioni IV e VI esistono versioni in italiano (vd. in questo volume, pp. 324–332 e 341–363), la lezione II è prevalentemente in forma di appunti, delle lezioni V e VIII rimangono solo gli appunti su cui è stato improvvisato il discorso. – Inedito, ritrovato tra le carte di Rossi nel suo studio di Via Aventina a Roma; cura del testo di Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648126-018
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Oxford, Schools, Lect. Room 15 Fr. 19.10.79
Ladies and Gentlemen, first of all, let me thank most warmly those who invited me to come here and deliver these lectures. It is difficult for me to say adequately how glad I am for the opportunity I have been offered. It is a great pleasure to be here again among old and new friends and I am sure that my views on the subject I have chosen and they have kindly accepted will be not only enriched, but also substantially corrected. To this purpose I ask my patient audience to intervene whenever they want, and I shall have to choose between answering at once and postponing my answer. Anyhow I have the privilege of living in one of your colleges, at Magdalen (and my thanks are also due to the President and to the friends who wanted me to be a guest of theirs): so you can find me any time you want. Let me now apologize for a couple of things. First my English: please warn me, if I am unintelligible; otherwise, as Archilochus said, for ills without remedy the gods have given endurance. Then my Greek pronunciation, particularly as far as accent is concerned. I shall read many texts with metrical ictus, so that there will be no problem. But for prose and single words I know that you say anthrópos with the Latin accent, and not ánthropos with the Greek one. I shall try and follow your way as far as I am able to and I shall translate into Henninian my customary Erasmian accent (the booklet by the Dutch scholar Hennin, Utrecht 1684, is very entertaining reading, by the way). The framework in which I am trying to view Archaic Monody is still a temptative one. Please do intervene, especially in the next lectures when we shall be discussing the texts themselves perhaps in a more seminar–like way.
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I. Introduction I shall start by explainig at once the title of this course. Monodic, as everyone knows, means sung by a solo voice, of course with instrumental accompaniment, which in Greece was always a solo: either a wind or a string instrument (no polyphony at all; small orchestras only in Hellenistic and Roman times). Monodic is opposed to choral, which means sung by a chorus with the same type of instrumental accompaniment, provided we bear in mind that the wind instrument accompaniment was by far the most common one for choruses. In order to give you a clear idea of the poems and the authors we are going to deal with, let me list the different kinds of Greek archaic poetry according to metre: leaving aside the epic hexameter, which has a history of its own, we have elegy, iambus, and finally what the ancients used to call ‘melic poetry’ (the title of Page’s collection is well chosen: Poetae melici Graeci). Only later, in Alexandrian and Roman times (Pfeiff. 182s.), the name λυρικός–lyricus came into use. So that I shall use it often for the whole of monodic poetry as a useful and comprehensive enough term, since elegy and iambus were also sung, even if not exactly in the same way (West’s title is Iambi et Elegi Graeci ante Alexandrum c a n t a t i , and he is right in pointing out the fact that elegy and iambus were also sung). We had better stop for a moment and digresss on MODES OF RENDERING. As it is well known, we can with some oversimplification distinguish three of them, in ancient Greece, allowing for differences of time and literary genre: 1) Spoken: hexametric compositions from the sub–archaic age on, spoken part of drama, delivery of speeches in classical times (and add Herodotus since he was recited in public, and perhaps also the Ionian philosophers in VI century lonia); 2) Recitativo (the musical technical term is very useful), what the ancients called parakatalogé: a kind of sing–song intonation, with different degrees of musicalità (which is familiar to us if we recall operatic experiences like ltalian melodrama of the first half of last century, which anyhow began with the recitar cantando of the Camerata fiorentina): we are told that this mode was invented by Archilochus (Plut. mus. c. 28) and was in use for elegy and iambus, in fact – as I should like to stress – for stichic or quasi–stichic kinds of poetry; 3) Full song: this was the case for all the poems whose rhythmical scores – so to say – are for us the more complicated: we patiently scan them, sometimes succeeding in giving a scansion intelligible to us, sometimes not. In a society which was so dependent on external occasions, and where every occasion required a specific literary genre, and which attached formal characteristics (music and rhythm among others) to every genre, the mode of
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rendering is a very important feature to be reconstructed. In an attempt to distinguish the various stages of Greek culture, starting from the orality of Homer, I have tried to show that we can recognize three of these cultural stages: the oral one (Homer before literacy), the aural one (between VII and IV cent.: literacy is wide–spread already, but it is used only for composition, not for publication), and lastly here comes the age of books, from the Alexandrian age on. We are interested now in the second or aural stage, and we understand that the act of performing was at the time very important. For some literary genres we can be sure about their choral character: thanks to evidence internal and external to the texts, nobody can doubt that some compositions were meant for choral performance: songs sung for great public ceremonies for the gods, such as hymns, paeans, dithyrambs, prosodia (or processional songs), partheneia (or songs of young maidens) hyporchemata etc. (I realize that I am giving the list of Pindar’s religious works!), and on the other hand songs for men (according to Plato’s distinction, [resp. 10. 607a]) such as epinikia (or victory songs for athletic contests) or threnoi (or choral songs for funerals). But we also are sure about the monodic or solo performance of other genres: elegy and iambus (and under iambus I include of course trochaic tetrameters and epodes – and I realize that I have given the list of Archilochus’ works!). There are even poets, between VII and V cent., who have specialized in solely monodic genres, viz. in elegy and/or iambus: Archilochus, Callinus, Tyrtaeus, Mimnermos, Solon, Phocylides, Hipponax, Semonides, Theognis. But among the poets who deserve the name of m e l i c , the ones who used the more complicated metrical forms, we very rarely are entitled to say that they have composed either only choral or only monodic poetry: perhaps Arion alone was purely choral, the inventor of the dithyramb according to Herodotus (1. 23), and Anacreon alone seems to have been only monodic, but as far as Simonides, Bacchylides, Pindar are concerned we are sure that they have composed both for a chorus and for a solo; Alcaeus and Sappho are to be considered separately (let’s recall Alcaeus’ religious hymns, which could have been choral, and the special situation of Sappho and her circle of girls, the thiasos); about Stesichorus we shall talk in one of our next meetings. But what about Alcman (who wrote the choral partheneia) and Ibycus? We might be very often in great doubt whether or not we have to allow the coexistence of the two kinds of performance, and accordingly of different kinds of genre and of destination. We have already said that in archaic Greece the public or semi–public occasion was essential for the choice of the genre with its formal characteristics. When of a composition we happen to know the destination and consequently the genre, we are in a position to give it its right place in history. But if we don’t
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know it, as often happens with fragments of poets who we suspect to have composed for both kinds of performance, it can be of some help to be able to suggest some speculation on performance. Of course we have to bear in mind all the formal characteristics of the genres, which are mainly the following (Gen. lett. 71): the overall structure of the work, theme of set of themes, language and dia1ectal colour; style in the proper sense; and lastly, metre and music. But in many cases we have to be content with Gottfried Hermann’s ars nesciendi, ‘resignation to not knowing’: if we opened Page’s anthology and we tried to answer the question ‘choral or monodic?’, I am afraid we would be at a loss more often than we are inclined to think. But at least we are asking the question. I am not able to give you here a recipe good in every case. But I would like to avoid both the agnosticism of many scholars, who don’t even ask the question while discussing every detail of the wording of the texts they have before them, and the exaggerated confidence with which some people take (or rather took) for granted what in fact is totally uncertain. The ideal position is not to neglect real difficulties, not to ignore empty cases in the grid: at least one has to make an attempt to fill them (philology can be defined an a t t e m p t in detection). In fact the agnostic position of those who don’t even ask the question is becoming increasingly rare nowadays. It was widely held by positivistic philology, mainly concerned with texts and their restoration. But in becoming more sensitive to the historical problem of destination we have the example of the scholars of the romantic age: if I mention the names of a Boeckh, of a Müller or of a Welcker everybody will know what I mean. Welcker has been very important for the whole of melic poetry: and he had an understending of the importance of the symposion in Greek life (Kl. Schr. II 215). Coming back to the distinction between monodic and choral, I know an objection can be made: that it is a distinction which does not go further back than Plato (leg. 764 d–e; Harvey 159. 3 ), that is the middle of the IV century (the objection has been recently made by Calame in his excellent book on partheneia, [Les Choeurs de jeunes filles en Grèce archaïque, I–II, Rome 1977]). But this is only the question of establishing the date of a c l a s s i f i c a t i o n , and, if you want, of a terminology (μονῳδία/χορῳδία): not of a real and historical state of things, which has been present for centuries before Plato and before his possible source. So, facing the fact that internal and external testimonia tell us that such and such composition was either monodic or choral, I hope nobody will feel ill at ease if we owe to the IV century a classification which we should have been obliged to find anyhow nostro Marte, on our own. Now, having reviewed the o c c a s i o n s for which choral poems were composed (mainly the ones of religious or civil character), let’s see which other
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ones would be s u i t a b l e f o r m o n o d i c p o e t r y . Of course you will recall the citharodic contests held at festivals: but in one of our next lectures (discussing Stesichorus) we shall see that citharody proper had a special role of subject–matter, mainly related with epos, and the bulk of the poetry we are going to review is going to show different features as far as subject–matter or theme are concerned. There is in fact a great institution of Greek life, extending at least in its mature form from the VII cent. on, which has been sometimes neglected: t h e s y m p o s i o n , or the drinking party. We shall presently review its features and history quite briefly. But we can say right now that at the drinking party the Greeks sang, and that they sang a solo songs (if you except the invocation to the gods, made at the beginning by the whole party). It is remarkable that there is no exhaustive study of the symposion as an institution (there are some on the symposion as a literary genre), and I very much hope that the archaeologists will one day collect all the figurative evidence for it (a repertory of this kind is still missing). I firmly believe that the symposion was an essential institution of Greek life, both in so far as concerns habits in the most general sense and in political life. It was the locus, the place where people met in the best conditions not only for entertaining themselves, which they did with great pleasure, but also for discussing important matters of mutual interest. Since the symposion we know from texts or testimonia is usually the meeting of the upper class, even if we did not have positive evidence in this direction, we infer that many of the leading political ideas were discussed in it. Of course there will have been gatherings of poor people, let’s say of the sailors in Piraeus: but for obvious reasons they did not enter history. When I speak of upper class I think especially of the Doric aristocracy: but a glance at the Attic symposion, at its usages and at its poetical texts, shows that modern terms do not give always the idea of ancient historical reality: nobody believes that Cleisthenes or Pericles were the presidents of a constitutional representative republic. These few hints will make clear, anyhow, that I am perfectly aware of the fact that we shall have to allow for differences in the symposion both chronological and geographical: Anacreon’s Attica of the end of the VI cent. is not the Theognidean Megara of the same time or a little later, the Athens of the VI cent. is not the Athens of the end of the V as depicted by the comic poets, the Sparta of the VII cent. is not what we expect Lesbos at the same time to be. Sappho is (quite) a special case: the gatherings of her thiasos never give more space to the sacred, and are very near to the athmosphere of Alcman’s choral parthenia (Lasserre 1974; Calame). But let’s view it as a local ‘translation’ of the symposion. As for the sacred, also the other kinds of symposion give it much space. But later on this important subject.
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It is high time that I formulate in the most cautious way my main contention: viz. that s y m p o t i c d e s t i n a t i o n m i g h t w e l l b e t h e great unifying feature of monodic poetry as a whole. What I mean is that the destination of monodic poetry must have been m a i n l y sympotic. I will not dare force or squeeze every single early non– choral composition into the frame of a drinking–party. But let’s put it this way: that (even when I am not able to demonstrate things beyond doubt) I suggest or even strongly recommend this key for reading or re–reading archaic monody. Of course I do not intend to reject in advance the arguments of anybody maintaining that such and such a monodic poem could have had another destination or was composed for another occasion, provided he supplies two proofs: 1) that the composition is not at all suitable for the symposion; 2) that it is suitable for another occasion. I am afraid it would often be quite difficult to find or to invent one: since Greek poems were always composed for an occasion, it would be strange not to be able to find one for a great part of this poetry. The argumentum ex silentio would have here a very strong weight. I don’t intend anyhow to be apodeictic. To rule out possibilities would be a mortal sin in a field where so much is unknown. But: is it possible we should not know anything of other occasions suitable for many poems? I am confident that this method of considering archaic monody which I am suggesting can at least serve as a test, as a kind of chemical reaction that can lead us to a better understanding of our texts and of the culture to which they belong. All in all: I am simply stressing the strong bias f o r , and not a g a i n s t , sympotic destination. To sum up, I would like to summarize some fallacies which could linger consciously or unconsciously: 1) that the symposion was the same thing in every place and in every time and that it was only an occasion for entertainment; on the contrary, there were differences; and it has been in my opinion one of the most serious and important features of Greek life for centuries; this answer of mine is not new at all; it is only stressed in a special way; 2) that the Greeks at the symposion did not do anything else but sing: in fact, among other things, they also talked and talked about important subjects; this is also not new at all: one only needs to look at the sources; 3) that the songs expressly composed for the symposion were only a few, the ones we are used to view as such; in my opinion they were much more than that, and this assumption still lies on my personal responsibility. I hope I will not turn out to be too bold. My attempt will be to enlarge the volume of acknowledged sympotic poetic literature in three directions: how
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much of archaic melic poetry (Alcm., Ibyc., Simonid., Pind., Bacchyl.) can be viewed as monodic and sympotic? How much can be sympotic in the elegists? Are we entitled to view iambus as sympotic? A short outline of our course, now, hoping that we shall have time to deal with all I would like to deal with. If anybody is interested in subjects we have to leave out, I can give bibliographical references. 1) A short survey of what the symposion was and its antiquities: what people used to do when meeting (allowance for differences of time and space, when detectable). 2) We shall single out one of the features: the songs or, better, the singing (not all that was sung had been composed for the symposion, especially in later times). A short history of sympotic song, which is our subject. I should better say: a history of a habit of singing, and of singing what kinds of songs. I shall give the references to the sources; perhaps it will be of some use to have next time Aristophanes’ comedies (vesp. 1219–64; nub. 1353–72; ach. 938–75); other fragmentary evidence will be hinted at. 3) I shall offer then a short survey of indisputably sympotic songs: Pindar (pp. 100–104 Sn.–M.4, 1975), Bacchyl. (pp. 91–106 Sn.–M., 1970), carmina convivalia (which should be called in the great majority carmina convivalia Attica: 472–482 P.), Theognis (West’s first volume). This will provide us with a certain know1edge of the usual set of themes of sympotic poetry. 4) After that, we shall tackle the problem of the fee in sympotic poetry. Sympotic poets did not live out of nothing. Much has been said on the payment of choral poetry, but little or nothing on the economics of sympotic song. Here differences in time will be evident, since the history of the symposium (from VII cent. on) overlaps with the introduction of coined money (gemünztes Geld). Starting point: Pind. I. 2. Then we shall go on to suggest sympotic character for poets and poems which are not obviously considered as such: 5) A group of poems of the VI or V cent. will be scrutinized, from which it will turn out that epic subjects were and had been sympotic (Xenophanes B 1 D– K = W., Anacr. fr. eleg. 2 W. = 56 Gent. = 96 D., Theogn. 763f.; Ibyc. 282 P. (to Policrates), cf. 288; add Stesich. 210 P.?) 6) Stesichorus as a monodic citharode as a possible author for symposia (not mainly so, of course; here we shall talk about panegyreis). The text will not be necessary, thougt it will be useful to have one. Of course, a certain knowledge of Stesichorean poetry is essential.
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7) The problem of iambus and of invective in the symposion. If possible, a few hints at archaic elegy (Solon etc.). It would be desirable to have both volumes by West. 8) Having some time left, we could scrutinize other single poems or fragments: I would be very glad if somebody would suggest personal contributions. Let’s list the s o u r c e s for the reconstruction of the symposion. As I have already said, no comprehensive work on this subject exists and we have no exhaustive collection of archaeological and literary sources. – Archaeological sources. We won’t be able to deal much with them, important as they are, especially for determining the chronology of local sympotic habits. Modern comprehensive literature is astonishingly scanty. The sources are at least of three types: 1) architectural remains of rooms intended for symposia, either attached to temples or to public buildings (this chapter would also include furniture, as it can be reconstructed for the various epochs: seated symposion [heroic, up to VII cent.], leaning symposion [on the κλίνη, the little bed], from about 600 B.C. [Fehr, 1971]); 2) scenes mainly on vases and any other form of figurative art; 3) the vases themselves and their shapes: let’s name κρατήρ and λέβης (for mixing wine and water), ὑδρία (a water–jar), οἰνοχόη (for pouring wine), κύλιξ– κάνθαρος–σκύφος (drinking–cups). – Some epigraphical sources, for later periods, are useful since they inform about special associations having regular meetings – Literary sources. They are too of different types. The most important of all, especially for the archaic age, are: 1) the certainly sympotic poetic texts that give us information about the symposion itself: sympotic songs having the symposion as their subject. “Give me more wine”, “Don’t drink too much”, “At the party I like to sing about this and this”. I shall call them m e t a – s y m p o t i c . It would be of great interest to establish every time what the function of this metasympotic theme is in relation with the others (myth, politics, love, ethics, etc.). 2) The texts of any other kind that give us information about the symposion: poets, historians, orators, dramatists, and later grammarians and lexicographers. There also are works of a special kind which we can call συμποσιακά, treatises on the symposion (Aristotle, Aristoxenos, Didymos, Athenaeus etc.). 3) Those works of literature in which a symposion is portrayed stand separately, as for instance Plato’s and Xenophon’s Symposia and Athenaeus himself
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(II A.D.). These works reflect a feature which was quite usual at drinking– parties, viz. entertainment, conversation. We have to reject two widely held views on this kind of literature: first that they are only a literary stylization of the real symposion, because the real one did not have serious conversation: this is contradicted by the sources, full of hints at conversation, as we shall see; of course in literary symposia the conversation is stylized and not ‘recorded’, as it were. Secondly, that the talks in themselves, stylized as they are, reflected what was really said there: this might have been sometimes the case (recitation of Kunstreden), but it was in no way usual in the centuries we are considering. If we restrict the category of symposion–literature to the works whose frame is a symposion we leave out – and we should not – the much wider kind of the d i a l o g u e . Of course the whole of dialogic literature in antiquity owes its origin to the custom of conversing at symposia. But this is totally outside our subject and let it suffice to have hinted at it. It is not easy at all to give a general scheme of the symposion while not disregarding its history and its local differences as far as they are known to us. The Homeric poems are full of eating and drinking but, as was once observed by Wackernagel, a characteristic pruderie of the heroic age prevents the singer from informing us about the specific acts of eating and drinking, while telling us that the heroes talked about important matters (what we shall call βουλεύεσθαι) and that at evening they listened to narration of heroic deeds or mythological tales (Phemius, Demodocus, Odysseus himself, not to speak of Achilles and Patroclus in Il. 9). What prevents us from considering this the true symposion is the lack of the later strong distinction between meal (the classical deipnon) and drinking–party proper (the symposion proper). Though many functions of the later symposion were alive in the meal of the heroes, we shall leave it out because we shall be mainly talking of archaic sympotic poetry. The distinction between these two episodes of daily life is made clear by the fact that, after having cleaned the remains of the meal from the table and the room, the beginning of a new phase is stressed by the libation to the agathos daimon (with pure wine in small cups) and by the invocation to the god and the heroes made by all the presents: the paian, which is the clear sign that the symposion retains at least formally a sacral origin, just as Attic tragedy did. Useless to recall the sacral implications of wine and its god Dionysus, formally considereded a latecomer in the Greek Olympus and now after the appearance of his name in the Mycenaean tablets traced back into the depths of the dark ages. A few words on t e r m i n o l o g y would be appropriate here, since the sources tend sometimes to confuse the three stages of the whole of the evening
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entertainment: first the δεῖπνον, then the συμπόσιον, and lastly the κῶμος, the merry sally made by the participants to the house of somebody else, singing in the streets and singing at their arrivaI at the other’s house. Confusion in terminology, especially in sympotic poetry, needs not worry us, common as it is. After the invocation to the god, came the choice of the “king of the party”, the συμποσίαρχος. He had to decide on proportion between wine and water to be drunk (which varied from place to place and from time to time; Greek wine was perhaps stronger, and fear of drunkenness much more widespread than in our world), and on many other details of the development of the party. Then the party began. A very important element was the d r i n k i n g itself: being the wine a factor which so strongly affected the behaviour of the συμπόται, we have lots and lots of testimonia informing us on the different attitudes towards drunkenness itself, with its various degrees, from light to deep oblivion of one’s own personality. That is to say that the ethos of the symposion was different from case to case. The sketch I am going to give now of songs sung at the symposion and of their typology and subject is provisionally today the one we have from sources of the peripatetic school. It will be clear next time, when we shall attempt to give the real development of sympotic singing, that this sketch relates only to the end of the time we are considering, the V–IV cent. B.C. We have to neglect now the question of etymology and extent of meaning of the word usually employed to designate the songs: σκόλιον (etymologies in antiquity: from σκολιός ‘crooked’; from δύσκολος ‘difficult’; and e contrario ‘easy’). Dicaearch. (fr. 88 W.), Aristox. (fr. 125 W.), Plutarch’s quaest. conviv., more than one passage in Athenaeus and Proclos (Phot. p. 321 a 4 Bekker) inform us that (being the guests usually about ten) there were three types of song: 1) the general paean sung by all; 2) short songs, in themselves improvised, sung ἐκ διαδοχῆς by each guest in turn going from left to right (ἐπὶ δεξιά): this is what the Belgian scholar Severyns (Mél. Bidez, Brux. 1934, 835 ff.) calls chansonnette and we can translate this with ‘short song’, short improvised song. It is not to be forgotten that the passing of the song–task, the διαδοχή, from guest to guest was underlined by the passing from each other of a myrtle branch (μυρρίνη); 3) at last comes what in many sources was called properly ‘skolion’: that is a passage or a whole composition of the poets of old, not necessarily intended for the symposion, sung not by any guest at random or by all of them, but by the συνετώτατοι, the most clever ones, the ones who had the ‘know–how’, appa-
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rently because of the fact that this last performance required more musical skill than the former ones. In order to give an immediate idea of the supply of texts, as it were, we can exemplify the second type, the short songs with the main bulk of what is published in the lyric anthologies as carmina convivialia, intended as a repertory of ready improvisation, so to say. The third kind, the one for the experts, we may call ‘ a u t h o r ’ s s o n g s ’ or ‘songs with a pedigree’ and they can be any of the great compositions, even if not sympotic, of poets such as Stesichorus, Alcaeus, Ibycus, Simonides, Anacreon and so on, according with what we learn of Greek day–life of the V and IV cent. mainly from the comic authors. We shall see this next time in detail, but we must anticipate now, in order to understand the restricted moment depicted by our sources, that we are in the V and IV cent., and of course in the subsequent development of the Greek symposion up to Roman times, viz. in a phase when o r i g i n a l songs expressly composed for the symposion were either no more in use or as well as dying out (we shall see the case of Aristotle, end of the IV cent.). So there was a strong tendency to what I would like to call re–use, in addition to total disregard of the sympotic or different original destination of the songs sung. This was in no way the case before the V–IV cent. Before that the poets composed (or perhaps sometimes improvised, as we can surmise for elegy) single compositions expressly for the single occasion, and if these songs went later from table to table for an immediate re–use, they were nevertheless sympotic songs with sympotic themes and apt to the sympotic atmosphere. You can now understand why I have restricted my history of the symposion so that I won’t go further down than the V–IV cent. B.C.: since I am interested in the poems composed for the symposion, after that chronological boundary the creative symposion dies out completely. I wonder if I can afford to explain a strange passage and at the same time offer a hint of what the transitional age between original and non–original sympotic poetry could have been like. Critias, the Athenian aristocrat of the end of the V cent. (his key year is 411), a poet and politician who will be discussed later, once composed a panegyric of Anacreon (B 1 D–K: remarkably it is in hexameters!), where he calls him “sweet author of songs for women, excitement of the symposia, cozener (ἠπερόπευμα) of women, antagonist (or adversary) (ἀντίπαλον) of auloi, friend of the barbiton (φιλοβάρβιτον). Why should Anacreon be adversary of the flute? Not certainly because of the slack ethos of the instrument, as we know from the so–called doctrine of musical ethos, since Anacreon was just the right example for the slack ethos of Ionian music and poetry (add
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that, besides barbiton fr. 472, Anacreon has also auloi, fr. 375. 1; but of course both instruments were used in the symposion, from the times of elegy on, West 12, see also Campbell, JHS 1964). On the other hand we can’t interpret ἀντίπαλος as meaning ‘matching, corresponding’ because in this sense it is used for things and perhaps Critias, wanting to say that Anacreon was “just as an aulos”, would have said it in a more elegant way and above all not in connection with the following mention of barbiton. In dealing with the classical theory of lyric poetry, Harvey (CQ 1955, 162) observed that the guests could not accompany themselves with the lyre (but with the barbiton) while holding the myrtle branch in their hands and that the short songs (the chansonettes) must often have been accompanied by the aulos viz. by someone else (Ar. vesp. 1219; the αὐλητρίς was sent away in Plat. symp. 176a–77d). The stringed instrument was the accompaniment par excellence for an author who wished to sing his own songs. So, if I may suggest this explanation of the puzzling words of Critias, saying that Anacreon is αὐλῶν ἀντίπαλος and φιλοβάρβιτος, he wanted perhaps to say that Anacreon was an originaI composer of drinking songs, which Critias a century later still was himself, but in a time when this capacity was dying out, as we see from the habits portrayed in the commedie of his fellow citizens at the same time. But if the Greeks at symposia only sang, this would have made their parties rather concert–like. What made them an important feature of their political and social life, and what gave significance also to what was sung at them, was the fact that they talked. It is for the sake of turning into a new light their songs that we now linger for a moment on this part of the sympotic entertainment, surely the most important. Because I firmly believe that there is a strong parallelism with what people sang and what people talked about: gossip, love, politics (we shall see this reading the texts). Among the many testimonia, I shall single out only a few. When Plato, symp. 176a–77d gets the flute–girl to be sent away in order to start conversation, to use West’s words (p. 15) “that this is not an exceptional departure from routine for the sake of Plato’s literary purposes is indicated by the description of the educated man’s symposion in Prot. 347cd and by Ades. eleg. 27 W.”, a charming poem, to which we can add more and more (Aly 559.43 ff., from Reitzenstein 39s., is wrong in considering normal the Kunstrede). Light talk is also attested in Theognis (295–8, 309–12, 563–6, 757–64). Everybody knows the charming episode told by Ion of Chios (fr. FGrHist 392 F 6 = TrGF Soph. T 75 Radt, ap. Athen. 13. 603e ff.) about Sophocles amiably conversing andstealing a kiss from the boy who poured the wine to the guests. More serious were surely the things said about himself and his war deeds by Cimon around 462 B.C. (Ion Ch. fr. 2 Blum., ap. Plut. Cim. 9): “after the libations, he
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sang and then, as usual, having talk begun to shift into drinking …”. The correspondence of poetry with what was discussed in conversation is noticed by Dion. Hal. imit. 22. 8 = Alc. test. 173 Gall.: “if you take away the metre from Alcaeus’ songs, you have a political talk (ῥητορικὴ πολιτεῖα)”, and we imagine what Alcaeus’ symposia must have been like, if we remember that his songs were called στασιοτικά. But the most extensive testimonium of this kind is given us by Plutarch in his quaest. conv. 7. 9: he offers a chapter with the title “That talking about important matters while drinking (βουλεύεσθαι παρὰ πότον) is no less Greek than Persian habit”. There he lists institutions where he knows that this happened: and they range from Cretan Andreia to Spartan Phiditia (or Syssitia) to Athenian Prytaneion and Thesmotheteion; he also quotes Plato’s project of the νυκτερινὸς σύλλογος (leg. 968a), which was an institution with these characteristics in charge of the most important decisions (see on all this also the useful article by Trumpf, ZPE 1963). It is of great interest to have an archaic testimonium of the Spartan Syssitia, where the sympotic usage seems to have been much the same, from a (perhaps) sympotic fragment by Alcman (98 P.): “in the feasts and the thiasoi with the guests of the Andreia it is suitable to sing the paean”. This is a subject where I must ask the historians to help me. All the history of Greek associations or clubs (Franz Poland, 19242 ) might partly give us precious materials and partly be integrated with what we know about the symposion and its political importance. I believe that, putting together the relevance of the clubs, the habit of talking politics and the political subject or set of themes in sympotic poetry, the sympotic moment turns out to be a key for understanding how Greek political and social life was organized. The institutional differences between city and city and in different times will not go as far as to reduce the symposion to a simple gathering of merry–makers. This is not to say that only serious matters were discussed. Conversation on varied topics, and even on amusing ones, is richly attested: to quote only one example, adesp. eleg. 27 speaks of φλυαρεῖν. Short tales such as Αἰσωπικὸν γέλοιον ἢ Συβαριτικόν (Ar.Wasps 1259) or riddles (poetic or not: Hermann–Blümner 249, West 17. 26); games such as the kottabos (vying for throwing the rest of the wine from the cup into a target) and many others (see Pollux); all this belonged to the usual stock–in–trade of the symposion. Dance and performances of various kinds were in use especially later: let’s think of the mimus in Xenophon’s Symp., though it must also have occurred earlier (Hippocleides’ dance before Sikyon’s tyrant Cleisthenes in Herod. [6. 126–30]). And one more thing was part of the symposion: love itself, about which so much was sung and said, was a real element of the real symposium: we could read the wonderful verses in Sophocles’ Ajax (1199ff.) where the
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sailors lament the loss of the joys of the drinking party, adding love to them; and so many sympotic vases show erotic scenes. This would lead us to the question of the presence of women: it is to be denied, in the archaic and classic symposion, save for the presence of ἑταῖραι or prostitutes. On homoerotic love we can recall Sophocles and the cup–bearer quoted above. What were the occasions for a symposion? (Mau, RE 4.1, 1900, 1201–3; Hug, RE 4.A.1, 1931, 1267.54 ff.). Here more than elsewhere it is difficult to disentangle the age and quality of the sources, which usually reflect a local usage: how far it is possible to extend what we know of one place to another is not always easy to ascertain. One can also distinguish roughly between p u b l i c and p r i v a t e occasions, but if we give, as we have to, a modern sense to these words, sometimes the distinction is at vanishing point. For example: a wedding was one of these occasions, but the bridegroom had to introduce his new wife to the phratria, so that it is not easy to say whether we must consider this occurrence as private or public: both, I should say. And how far can we consider private the symposia of the Sicilian tyrants, for whom Pindar wrote drinking–songs? The tyrants are a very peculiar feature of Greek history. Still we can consider private occasions the feast for a new– born child (the dekate, something like our baptism), private offerings, departure or arrival of a friend, feasting a victory (in any kind of contests: Agathon in Plato’ Symp. celebrating his victory in the theatrical contests), a birthday, the funeral meal for a dead (M. Alexiou, The rit. Lam. in Gr. Trad., Cambr. 1974, pp. 104 f., 125 (Mod. Gr.); 226.13 she quotes an unpublished paper, J.S. Morrison, “Wisdom and the Common Meal in the Seventh Century”). And of course any reason could be good enough to get people together for a meal and an after meal entertainment. But much more important for us are the p u b l i c occasions mainly the meetings of ἑταιρεῖαι or clubs. I have to hint at least at all this: the ἀνδρεῖα, φιδίτια, συσσίτια; the δημοθοινίαι, the meals of the φυλή, the δῆμος, the φρατρία; the σίτησις ἐν τῷ πρυτανείῳ at Athens; philosophic schools meeting (Epicurus’ birthday, D.L. 10. 18) (Mau; also Trumpf, ZPE 155 f.). In IV cent. Athens it was for Plato a matter of fact that one had to look for political success through the political clubs (Theaet. 173d σπουδαὶ δὲ ἑταιριῶν ἐπ’ ἀρχὰς καὶ σύνοδοι καὶ δεῖπνα καὶ σὺν αὐλητρίσι κῶμοι). Suffice it to say that Critias not only wrote songs for the symposion, but also wrote politeiai, constitutions, where he deals also with sympotic antiquities (B 34, 35 D–K) such as drinking– cups and symposion beds at Sparta. The symposion was an obvious part of common political life. What we have called the συμποτικά–literature was in fact originally part of political treatises, and not simply antiquarian scholarship.
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I am not able to give here what is still a desideratum, a collection of evidence for all the antiquities of the symposion and a complete picture of what this fundamental institution was like. With sympotic evidence we shall be concerned only in so fact as it has to do with a single feature of the symposion, the habit of singing and the songs. This will be our subject in the next two meetings. Of course we shall start from the songs that are ascertained as sympotic. Then I shall try to enlarge the range of sympotic literature. Wether I shall succeed or not in convincing you, I don’t know; but I hope that this approach to the whole of monodic poetry will lead us at least to envisage some problems, if not to give a satisfactory solution to them.
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II. A History of Sympotic Singing habits In the description of sympotic singing habits given by Dicaearch.–Aristox.– Procl. we have seen that the songs sung were the following: 1) the paean, 2) the chansonnette, 3) the skolion for skilled people (synetotatoi). It is quite easy to see that the situation depicted by these sources is a late one, let’s say V–IV cent. They perfectly match the evidence of this time. Let’s see some live testimonia in detail for songs type 2 (chans.) and 3 (author’s skolion), neglecting the paean.
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What seems in this period to be originally composed for the symposion, according to the sources, is not much: at most the true skolia (type 2, the chansonnettes), when they were improvised. The rest is re–use, both of older sympotic poetry and of older non–sympotic poetry, beyond the re–use of collected repertoire–chansonnettes. From sympotic poetry of the V cent. (Theognis, Attic sc., and we shall see more, presently) it is remarkable how little is personalized, as well as nothing. Other ages were more personalizing, which means that there was a much more widespread habit of composing for the single symposion. How much was reused in this time, the time of Pindar and Bacchylides, not far away from Aristophanes, but continuing a much older habit, we do not know, since we do not possess indirect sources as we do for the times of Aristophanes; but that things must have been different is sure from the fact of personalized poetry (Aristotle at the end of the IV cent. is a late exception for a provincial prince, not the rule). I think that often failing to grasp the importance of the symposion is at least partially due to the fact that the symposion depicted mainly in the comic poets of the sec. half of the V cent. and reflected in the grammatical sources has been seen as the only one, without asking what it could have been like before that. Suffice it to say now that the main distinguishing feature was the finalized composition of original poems; into details we shall go next time, reviewing quickly the whole of that poetry, and if we can also some specimina of the texts of the fifth cent.
Next time bring: Pindar, the fragments (pp. 100–104) Bacchylides (fr. 20 B) Poetae Melici Graeci (or at least Lyrica Graeca selecta) West’s I–II volumes
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III. A Survey of Indisputably Sympotic Poetry A few words on the outline I gave you last time as a handout. It should serve as a chronological and generic aid. The first part shows the attribution of choral and monodic poetry to the different poets as I view it: the problems are there given as solved. I have warned you. The second part, on the bottom of the sheet, shows the developement of Greek archaic culture as I view it, as far as oral composition and publication, written composition and oral publication, and finally the age of the book are concerned: viz. under the viewpoint of a model of communication (sender–message–addressee and contest, contact, code following Jakobson, Style in Lang., ed. Sebeok, 1960, 353, 357). In the period we are considering, VII–IV cent., what is the poetry we can safely define as sympotic or convivial? We will all agree that we can safely consider as such the following authors, either taking the whole of their poetical compositions or only a part of them: among the melic poets Alcaeus (the whole), Anacreon (the whole), Bacchylides (part), Pindar (part), all the Attic scolia and what else is collected under the heading of carmina convivalia; add some other melic compositions by so–called minor authors (Timocreon); among the elegists Theognis (Sappho stays for herself with the peculiar usages of her thiasos: but she will prove most useful as far as love is concerned). All the rest is for us still no–man’s land: archaic elegy and iambus, melic poets such as Alcman, Stesichorus, Ibycus, Simonides, and of course all the extant fragments incerti loci of Bacchylides and Pindar that are not assigned to choral songs and do not enter the Alexandrian categories of erotika or encomia. We have before us a bulk of poems and fragments dating roughly from 600 to 400 BC. To the VII century we shall only arrive when we shall deal with elegy and iambus, trying to enlarge our sympotic corpus. Let us begin by having a quick survey of the carmina convivalia because of their being so convenient for us: they reflect the singing habits we already know from last time (V–IV cent.) and they offer us a great variety of subject matters or themes and metres. We then peruse Page’s Poetae melici, starting from p. 450 (Lyr. Gr. sel. 238 ff.): METER: it looks mainly aeolic (certainly because aeolic poetry was felt specia-lized in symposion. As far as subject matter is concerned, let us summarize what we have seen in detail: 1) RELIGION, invocations to the gods. This would most probably account for songs of type 1, the paean. [It is interesting to remark that not only the collection of carmina convivalia but also another sympotic corpus, the Theognidean one, begins with sacred songs (Th.: Apollo, Artemis, Muses, Charites). This would
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confirm the hypothesis that the carmina convivalia stood before Athenaeus in the form of a collection, if not really circulating in book form as early as the V cent. As Wilamowitz used to think.] We have seen 4 occurrences (884–7). All other subjects would account for type 2, the chansonnette. Some of them have more than one theme: there is a certain amount of overlapping. The other themes are: 2a) POLITICS, either contemporary or recent, belonging to the repertory of the political clubs (5 occurr., among which the Harmodios shows 5 variants): 888, Pandrosos; 891, Alcaeus’ ship; 893–6 + 911, the Harmodios; 906, the Kedon; 907, the Leipsydrion. 2b) POLITICS with a general ETHIC overtone (5 occurr.: 891, 897, 908, 909, 912). 3) ETHICS tout court in a more general sense, sort of behaviouristic utterances (6 occurr.: 889, 890, 892, 903, 910, 913). 4) LOVE, erotic themes (6 occurr.: 900–901, 902, 904–5, 913). 5) what I have called the first time METASYMPOSION, descriptions or exhortations regarding the symposion in the symposion itself (4 occurr.: 890, 902, 906, 913). 6) MYTH, taken from the epic heritage (2 occurr.: 898–99). We have no time now to make the same survey of the Theognidean corpus, which belongs to the same kind of singing culture. Suffice it to say that the same set of themes is present and that the metrical form is that of the elegiac couplet, which means that elegy (allegedly in its origin used for lament and mourning: Page, Gr. P. & Life, 1936) had at some time specialized as sympotic. How early and with whom, we better postpone it to our next meetings, as planned. Now, as I announced last time, we have to review the melic poetry older than the fifth cent. Some of it is indisputably convivial. Only we have to change and dismiss our clothes of fake Athenians of the V cent. or of lousy Alexandrian grammarians: we have to put on the clothes of equally lousy modern historians and realize that his other sympotic poetry was much different from the one we have seen so far. We are dealing now with the creative epoch, and the poems we are going to consider are some of the ones which so far appeared as type 3, only they are original, expressly composed for the symposion and mostly for a single symposion, and part of them, as we are going to see, with a very personalized dedication. After having isolated and listed the main features, metre and subject matter, I would like now to establish their value as a tool. They will be a guideline for our reviewing poetry indisputably sympotic: one expects to find much the same situation earlier too, given the conservative character of an institution
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which as late as the V cent. still preserves its ties with its sacred origins (the paean) and which is mainly aristocratic (Sport des Adels, hobby of the nobility, Hirzel, Der Dialog. Ein literarhistorischer Versuch, 1895, once said). Furthermore, these tolls will serve us in order to make our attempt in detection of sympotic character in other poems or kinds of poetry. METER: we have to get rid of: in melic poetry the difference of rhythmical score between choral and monodic is at vanishing point. We shall see that even the triadic structure, once considered as typical of choruses, is common to both. 1) I would begin with the METASYMPOTIC one. Of course you might object that a sympotic subject or scene could be part of narration, let’s say of an epic or epicizing one. There are such scenes in Homer, as there are the ones we have seen on the comic stages; I have a list for Pindar’s epinikia, for inst.: O. 1. 16f., O. 7. 1ss., P. 4. 294ff., N. 9. 48ff., I. 6. 1ff. etc.. They are not metasympotic, of course, but simply sympotic, inserted in a different structure. But here comes the important tool of STRUCTURE: when we are sure that a composition dealing with sympotic matters, such as exhortations or prescriptions or description, is self– contained in its overall structure, what other occasion would you suggest if not the drinking–party? Its frequence (we shall see presently) in sympotic poetry promotes it to a bi–univocal correspondence with the symposion itself. The symposion itself is a self–contained space, a microcosm of its own (we shall deal with this topic at the end of term, having some time left). 2) Second I would place POLITICS. If it is right to assume – as you remember from our first meeting – that the symposion was a political institution and that people talked and sang as well about political matters, we find it quite natural that political themes are there in the songs. This is born out by the texts and by the sources. But: is politics typical only of sympotic songs? Not really. Epinikia and the choral sacred songs are full of politics: in order to try to assign to convivial destination a political poem or fragment we should be sure at least about its being monodic, and this proves sometimes difficult, sometimes impossible. Of course archaic elegy and iambus will come later. They are waiting behind us as ghosts. 3) Next comes EROS, in my opinion. Here the question is a little more complicated. I believe we have three ways of dealing with erotic themes: the simply erotic or sexual utterance, fit for the symposion and of course also fit for erotic popular songs, such as the deuro de of the Eccl. we saw last time. Then we have the still personal and in someway pathetic, but more ceremonial love of Sappho’s thiasos: after some recent research in this field (Merkelbach «Philol.» 101, 1957, Gentili) we have relieved the poetess from many a modern attempt to enter her privacy, and we have given her her locus in the ceremonies of the thiasos.
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Similar to this kind is the love expressed by poets like Ibycus and Pindar for youths of noble or high birth: gesellschaftlich Huldigung, social homage, said long ago Welcker. Lastly there is the eros of Alcman’s partheneia: that is the most ceremonial, such as the admiration for one or the other participant of the chorus: it has much to do with sacrality and with gods such as Aphrodite and Eros. This last type, being at home in choral poetry, happens to be the most alien to the drinking party. Of course here too consideration of structure is essential. So, sommaring up: straightforward eros, ceremonial eros of Sappho’s thiasos, encomiastic eros of Pindar and Bacchylides (and at least of Ibycus as we shall see), sacred eros of choral songs such as parthenia. 4) Quite ambiguous is ETHICS: in fact it is at home everywhere. 5) Ambiguous as well is MYTH: it also is at home everywhere. 6) Lastly, RELIGION. This is important, but in the symposion it is confined mainly to the paean, song. no. 1, and we are in fact rather looking after original examples of no. 3. Among these I would range the so–called short hymn by Alcaeus and Anacreon. So I would suggest to take the themes as guidelines for reading archaic monody indisputably convivial and as tolls to test possible sympotic quality of non–defined melic poems. This is – I repeat – my decreasing order: metasymposion (without restriction), love (with some restrictions), politics (with caution), ethics (with g r e a t caution), myth and religion (great care in ascertaining the structure of the composition). Let us now see how these tolls work for reading archaic sympotic poetry, assuming a certain conservatism. Let’s see if we have to detract, to add to, or else to change something in the picture. So we peruse (or rather I have done this, and I give you my results) Alcaeus, Anacreon, Pindar and Bacchylides. Only after that we shall be able to pass to our no–man’s land, the rest of the Melici, elegy and iambus. What are the external testimonia telling us that the poems of these four poets are sympotic? Sometimes the poems themselves (we shall see presently), sometimes ancient testimonia (it is a great pity that for many poets we still have no complete collection of texts). We cannot deal with this now: believe me, please, this is well explored land. In Alcaeus we have aeolic metre (the kind we have found in the Attic scolia). As far as subject matter is concerned, I have noticed the following in Alcaeus (let’s not forget that we are dealing with tricky fragments: a fragment is a fraud, you know):
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1) POLITICS 40 occurrences (he was said in antiquity to have written stasiotika): e.g. 70 (symp. + ψόγος), 71 (non erotic), 206 (pol. + metasymp.) 2) METASYMPOSION 24 occ.: e.g. 347 (with re–use of Hes.) 3) EROTIC themes (love) 13 occ.: e.g. 374 (κῶμος) 4) ETHICS 13 occ. 5) MYTH 12 occ. 6) RELIGION 7 occ. (hymns). The rest will come after I shall have dealt with Anacreon: 1) EROTIC themes 60 occurrences: e.g. 429 (pol.? no!) 2) METASYMPOSION 28 occ.: e.g. 433, 434 3) POLITICS 9 occ. (but I have been generous) 4) ETHICS 2 occ. 5) MYTH 2 occ. 6) RELIGION 2 occ. (hymns) Instead of putting a digression in the middle, I would like to start with Alc. 346 L–P (Lyr. Gr. Sel. p. 86). This fragment has not been dealt with sufficiently, I think. The first verse puzzles me, but its first word should solve the main problems. “Let us drink”, πώνωμεν: this is the ‘signal’ (in the terminology of literary criticism) that we are before a metasympotic poem. All metasympotic poems at the present tense describe a ‘lived’ experience of full symposion, a present celebration of a party. So, I cannot understand how scholars could interpret τί τὰ λύχν’ ὀμμένομεν; as “why do we wait for the lights to be on?”, in the sense that “we should begin at once to have the party, although there still is daylight: let us not wait for the lamps to be kindled, let’s start just now”. Page, S&A 307 f. doesn’t say anything on lamps, save quoting for the antiquity of this object an important article by J. D. Beazley («JHS» 60, 1940, 22–49). Gow–Page (Meleager, II p. 128) say that λύχνα must be the lamps “which will light the symposion”. Does this make any sense? “Let us not wait for the lights of the symposion?” meaning that there still is daylight. The πώνωμεν of the first verse and all the rest of the poem which is preserved describe as contemporary, in the usual metasympotic way, a normal symposio, viz. a symposion held not by daylight (and it would be the only occurrence), but at night, as usual. What if we took τὰ λύχνα to mean the torches, held by the slave, which will show us the way in the dark streets of town? The way back home with torches is a topos, especially with the comic poets (Ar. vesp. 249, Alex. 148). It is strange that everybody had seen the similarity of situation and of vocabulary with another poem, an epigram by Asclepiades, AP 12. 50. 5f. It is a metasympotic epigram (though I don’t believe it to have been sung at parties, given we are in the Hellenistic age, where much has become Buchpoesie, book–poetry). It has four couplets, where the third one, 5f., sounds: πίνωμεν Βάκχου ζωρὸν πόμα· δάκτυλος ἀώς· ἦ πάλι κοιμιστὰν λύχνον ἰδεῖν μένομεν; “Let’s drink the pure drink of Bacchus; δάκτυλος ἀώς; are we really to wait for seeing the lamp that brings us to bed?”
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Here we have no doubts: κοιμιστάν means “that sends to sleep”, λύχνον is a singular, which does not hurt (of course it could also be a collective noun, but I would find it improbable): G–P agree that here λύχνον (II,p. 128) has to mean “the torches which will conduct the revellers to bed”, unlike Alcaeus, who should, according to them, offer another meaning. Strange, since they advocate a dependence of Asclepiades from Alcaeus (be it as it may: I would consider this a widespread topos, so that there wouldn’t be any need of postulating a dependence). Πάλι = again, in the usual way (usually, a symposion stops before dawn, so that it is normal to have slave and torch. Important: δηὖτε as a ‘signal’ of frequent, or even everyday, happening. But that we have to do with torches and not with lamps, viz. that the situations a nocturnal one of people wanting to stay up for the party until daylight and after, is confirmed by Alcaeus himself in fr. 429: we get there the information (D. L. 1. 81) that Alcaeus once called Pittacus ζοφοδορπίδαν ὡς ἄλυχνον “a man who has meals in the dark, in the sense (adds the commentator) that he was without λύχνος (torch)”; and the source goes on saying that he was ἀγάσυρτον (cf. Anacr. 350 P.) in the sense of “poor dirty man” (ἐπισεσυρμένον καὶ ῥυπαρόν). Now, Alcaeus’ point could not be that Pittacus used to eat and drink in the dark, which would not make sense, but that he was so poor and miserable (a topos of invective) that he couldn’t affond having a slave bringing him home after the party with a torch. As I said, the comic poets are full of this topos. The “waiting for the morning” topos must have been a widespread one, so that I suspect that a very corrupt passage in Eur. Cyclops, v. 514 could be healed having this in mind: 511 Ἡμιχ. καλὸν ὄμμασιν δεδορκώς καλὸς ἐκπερᾷ μελάθρων. — φιλεῖ τις ἡμᾶς. — λύχνα δ’ †ἀμμένων δαΐα σὸν χρόα χὡς† τέρεινα νύμφα
λύχνα δ’ ἀμμένειν ἔασον Diggle
But if all this holds good, what are we to do with Alc. δάκτυλος ἀμέρα and Ascl. δάκτυλος ἀώς? G–P, loc. laud. (the same as Page, S&A 307f.) say that ἀμέρα = ἀώς*, and that in both cases it must mean “there is but a finger’s time left before dawn, before daybreak, before day comes” viz. there is 1/10 of inch of night left (δάκτυλος being a measure, 1/10 of an inch). All right, this is what we need in both places, but how can Gow—Page accord this (right) meaning with what they believe Alcaeus means (‘waiting for the lamps of night?’)? In that case for Alcaeus they should advocate the meaning “there is only 1/10 of inch of daylight left, before night comes”, which, as we saw, is awkward. I feel some embarassment with the idiom δάκτυλος ἀμέρα and δάκτυλος ἀώς meaning what they should mean. Are the lexicographers of some help? They say: δακτύλου ἡμέρα· ἐπὶ τῶν εὐημερούντων, Suid. s.v. δάκτυλοι (then it adds nonsense), cf. Hesych (gen.), Zenob. 111. 10 L—S (= Suid.), Arsen. δακτύλως ἡμέρα, Zonar 464 Tittm. (nothing). A genitive of time
|| * I am not inclined to believe this. If we would, then the sentence would have a general meaning and be equivalent to ‘time is waiting but a second’. Only in this case I would compare Petron. 41. 10 dies – inquit (scil. Dama) – nihil est. Dum versas te, nox fit. Itaque nihil est melius quam de cubiculo recta in triclinium ire.
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would perhaps be good: are we to take the expression in the two poets as petrified in the nom. δάκτυλος or have to emend to δακτύλου (—ω Alc.), which we can thanks to the correptio epica? I don’t dare suggest about what I am thinking of and I ask for your help. But the δάκτυλος ἀμέρα/ἀώς problem, solve it as you want, would not prove as taken the hint at another example of the same topos, a metasympotic occurrence, and therefore a sympotic fragment in Ion. Ch. 745 P. We are here in no—man’s land: poets or fragments where we do not know if they are sympotic or not. Ion is said (sch. Ar. pac. 834ff.) to have composed inter alia σκολιὰ (sic) καὶ ἐγκώμια καὶ ἐλεγεῖα; in fact he wrote in many genres (as Call. ia. 1 tell us). This fragment sounds: ἀοῖον ἀεροφοίταν ἀστέρα μείναμεν, ἀελίου λευκᾷ πτέρυγι πρόδρομον “we waited for the air—floating star, the announcer, with the white wing, of the sun”. It seems to belong to the same topos, doesn’t it? And it is perhaps a mere coincidence, but perhaps not, that the dialogue in Ar. Peace 832—41, whose scholia preserved for us Ion’s fragment, runs in the following way: (Trygaios and his servant are talking about Trygaios’s trip in the sky) SERV. “We become stars, when we dy?”, TR. “Yes, definitely”, “And who is there as star?”, “Ion of Chios, who once sang about the morning star; and they call him ‘the star’”. SERV. “And what are the falling stars, falling in fire?”, TR. “They are rich stars coming back home from a deipnon ἰπνοὺς ἔχοντες, having torches, and in the torches there is the fire”. Is this a confirmation of the undoubtedly metasympotic character of Ion’s fragment? Did Aristophanes hint at Ion’s song about the morning star and did he go on talking about drinking—stars on purpose? Be it as it way with Aristophanes, I think we don’t need his confirmation. Do you believe with me that we have annexed to our sympotic district a fragment of Ion of Chios conquered from no—man’s land? You will let me know about this all. The digression brought us in medias res. Let us now restart from where we left last time.
So far we have found much the same mixture of themes we already knew from the carmina convivalia and from Thegonis. But that is not the whole thing: there is something new, and very interesting too. Additional categories common to Alcaeus and Anacreon at a time are: NATURE (hints at natural landscape much in the way of Alcman’s night in fr. 89 P.): Alc. 6 occ., Anacr. 2 occ. INVECTIVE or ψόγος: in Alcaeus 19 occ. mainly in political poems, in Anacreon 23 everywhere. This is an anticipation of what we shall discuss when we come to iambus: you see my point, it is a first sally in no man’s land. I view this as very important. Exemples: Alcaeus: all political occurrences against his foes (well known); Anacreon: 349 (source!), (384), 388 (cf. 372), 381b.
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Still, there is another novelty: p e r s o n a l a d d r e s s e s . There are at least 10 occ. of them in Alcaeus and 7 in Anacreon. Exemples: Alcaeus: 335 (metasymp.), 350 (pol.); Anacreon: 374 (metasymp., erotic), 366 (erotic with invective). What is remarkable is that they are very discrete and as it were cursory addresses: no solemnity, they are in no way a dedication of the song. If we peruse now Bacchylides ἐρωτικά (p. 91 Sn.–M.) 17 (metasymp.), 18 (er.), 19 (er.) ἐγκώμια 20 B (p. 96): Address v. 17 (solemn!), 20 c (p. 99) Addr. v. 6 s. Pindar 118 and 119 (Addr.), 120 and 121 (!!), 122 (shifted Address), 123 (indir. Addr.), 124ab (solemn Addr.) we see that, on the contrary, the addresses are much more solemn, they are the raison d’être, the essential part of the song, viz. the most personalized way of composing for a single occasion, that of dedication in great solemnity a song to a patron. Now, this is a shibboleth or a distinguishing feature not between different styles or poets, but of course between different sub–genres of sympotic poetry (the same poet, Pindar, has both types, see 127): of course we expect Pindar and Bacchylides to have sent most of their drinking songs to their mighty patrons all around the Greek world, or even to have composed them while staying with them from time to time (I anticipate here the distinction between resident and itinerant poet). What about Alcaeus? He does not look as if he had ever made anything of this kind, at least in the preserved fragments. This seems quite natural: he was steadily in his political club, hetairia, and he did not have any mighty patron above him: he was a primus inter pares and at most we can say that he had anti–patrons, Myrsilos and Pittakos. But what about Anacreon? We know that he stayed first for many years at the court of Polycrates in Samos (Barron, «CQ» 1964) before he came to Athens in about 523 at the court of the sons of Peisistratos. Now, we have a bunch of precious testimonia collected under Page’s fr. 483: Polycrates was present in his poetry in many addresses (cf. 491, 493, 495), and Strabo goes so far as to say that “all his poetry is full of mention of Polycrates’ name”. V e r y interesting indeed. As far as I know nobody has pointed out that he too must have been very much in the same track as Pindar and Bacchylides in tributing homage to a tyrant with that special kind of sympotic song which led the Alexandrians to call enkomion what in Pindar’s time was a skolion (Pindar fr. 122. 14). Encomiastic poetry was in no way confined to epinikion or threnos. Interesting too that so far we haven’t found any evidence for the Athenian stay of Anacreon (but 495 P.! Pl. Charm. 157e): no one tells that Anacreon eulogized Hippias and Hipparchos: he might have done so,
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but we have good reasons to surmise that in Athens the milieu must have been quite different from that of Samos: the politicians who held the power were every moment on the brim of disaster, so that they were much more the head of a club happening to be in the ‘knob room’ at the moment (we have had an opportunity to review Athenian history of the time reading the carmina Attica). After all Cleisthenes and his reformations was not far, and Anacreon must have survived the end of the sons of Peisistratos (514–11), until Cleisthenes in 509 came with his democratic reformations. People have tried to find a difference between Anacreon’s Samian and Athenian style, so far unsuccessfully: t h a t must have been the main difference, but Τύχη has deprived us of his ἐγκώμια to Polycrates. I hope that you will be a little willing in a few lectures’ time to accept encomiastic sympotic interpretation of, let’s say, Ibycus’ poem to Polycrates (282 P.). Apart from the fact that having found ψόγος or invective in poems recognized as sympotic (Alcaeus, but especially Anacreon) will perhaps ofter some justification, at least, for my bold contention that iambus can be sympotic as well and that sympotic poetry does not need necessarily to be eulogistic in every single composition and in every moment of history and in every spot of the map of Greece.
Appendix Anacreon is a gold cave. He is not solely the erotic poet of the revels, as he is generally considered. He preserves for us another rare exemple of sympotic funeral song: I believe this to be fr. 419 P. for the dead Aristocleides, and cf. 485 P. In order to make it possible for everyone who wants to discuss or even to polemize against what I say I invite right now those who are interested, to come to lecture room A at Magdalen on Friday Nov. 30th let’ say at 3pm or 4. We shall fix it more precisely later on, perhaps. But if anybody wishes to discuss before that date, please let me know. Next time: The problem of the fee both in choral and in monodic poetry. The handout of Pind. I. 2. 1–11 and scholia will be enough. Before we leave for no– man’s land, it is good to enquire about a possible sympotic fee and pay our ticket in advance.
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IV. Poem and Fee in Greek Archaic Poetry, both Choral and Monodic (Pind. I. 2. 1–11) [vedi la successiva versione, più estesa e in italiano, nelle pp. 324–332 di questo volume]
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V. Refusal and Recusatio. Epos and Wars in the Symposion
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VI. Stesichorus as an Alternative Epic Poet. Religious Festivals and Literature 1) Seminar in Magdalen, Fr Nov. 30, 5pm: would the students who are interested in it put down their name on this sheet? 2) Next time: VII. Iambus and Invective (+ perhaps some other snapshots in melic no–man’s land). Please bring: of course West I–II, and it will be good to have at least LGS. 3) Title today: Stesichorus as an Alternative Epic Poet. Religious Festivals and Literature. I can offer to the students a copy for xeroxes of a bibliography (selective, and besides only up to mid–1978) of: i) Festivals, epic poetry at festivals, connection between polis and temple; ii) Stesichorus (only recent works). [vedi la successiva versione, in italiano, nelle pp. 341–363 di questo volume]
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VII. Iambus Give handouts: bibliographies, plates of epodic str. & asyn. Next time: Elegy, but things are in fact mixed up in El. & Ia., so that today we shall be saying things valid for both. BRING: West I–II & LGS again. SEMINAR MEETING today at 5pm to 6.45 in Magdalen, Lect.–Room A. I shall be at the lodge until 5 min. to 5. If late, ask the porter. I won’t ask to write down the name, if someone else, in addition to the ones who announced themselves last time, is intended to come. Whoever comes, will be very welcome indeed. Footnote to Pind. I. 2 (the fee): F. J. Nisetich (Univ. Mass., Boston), [Convention and Occasion in Isthmian 2], «Calif. St. Class. Phil. » 10, 1977, [133–56] writes on I. 2, but nothing on οἱ πάλαι φῶτες and on fee.
It is a pity we won’t be able to deal very much with melic no–man’s land, unless we do that in the seminar session or next time, but iambic–elegiac no– man’s land is highly interesting, since it involves two so big and main genres of Greek archaic poetry. Let’s recall some of our scanty knowledge of the destination or the function of the poems. I hope we agree on how we ranked subject–matter (a capital feature of genre) in our third lecture: first of all we had METASYMPOTIC theme; then POLITICS; for both we could really find no other place or locus fit for these two themes than the symposion (and this will be of great importance when next time we shall talk specifically about elegy, political elegy, including war–elegy). Third came EROS, but we saw, in melic poetry, that we also have a kind of erotic theme, the most ceremonial one, which is in fact more apt to grand choral melic poetry. Tricky and ambiguous remain ETHICS and MYTH. But I think we are now in the condition of ranking a little higher RELIGION, especially if we keep in mind what we have not dealth specifically but for which I rely on your own memory, viz. the short religious invocations of Alcaeus, Anacreon and, in elegy, Theognis: these compositions short as they are, are most fit for the introductory songs of the symposion what by the peripatetic and Alexandrian sources, but also by Alcman 98, is called paean. Unlike melic–lyric poetry, in elegy and iambus we don’t have the difficulty of establishing the mode of rendering: we know it was monodic, accompanied either by aulos or lyre. Much of what we are going to say about elegy applies to iambus as well, but the reverse is not totally true. Dover is in fact right when in his Hardt–Archilo-
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chus he says that in elegy and iambus the difference between the two genres as far as ethos in general and subject matter are concerned is at vanishing point: and it is not without significance the fact that Archilochus composed in both genres in a time, VII cent., when strong differentiation and specialization between genres was not very usual, owing to a certain, as it were, unitarian way of looking at life and at occasions. Another author in utramque is Solon. People like Hipponax and Semonides wrote only iambic poetry. But in fact one must allow for some difference between the two genres: some very daring sexual utterances are at home in iambus, not really in elegy. Of this opinion are both West and Lloyd–Jones (Sem. 13); and Lloyd–Jones is right in saying that lament for dead friends is more at home in elegy than in iambus. It is not necessary to deal in detail with TERMINOLOGY. What is IAMBUS, in fact? Not only poetry written in iambic trimeter, but also (and this terminology is to be found with the Alexandrians, which would not mean much, but also earlier: for evidence see Dover and West) long verses, such 4tr. cat., and epodic composition (that’s why I gave you the epodic–asyn. Plates). Iambus is rather the designation of a genre than of a metrical pattern (the only great exception in Greek Literature, which otherwise identifies the two factors), and means mainly a composition the content of which is mainly invective or more or less harmful abuse; iambizein means to make fun of; iambikè idéa is then the gist of what we can by and large call the genre we are dealing with. When I first thought of iambus being fit for the symposion, I was perhaps living in the VI cent. Even more than in the V: because I was thinking of praise as an essential feature of convivial song. Of course I had in mind Pindar, Bacchylides and also of course Ibycus, if we accept him as sympotic in his Polycrates’ song (we should deal more with it): anyhow, I am certain that what led the Alexandrians to call the sympotic songs by Pindar and Bacchyilides encomia has been the encomiastic tone of those poems. But we must think in historical terms, and bear in mind that sympotic poetry has had different moments (I think time is more important than geography, owing to many unifying features in the Greek world, especially if we deal with a matter of the oligarchies, conservative and ‘international’ or ‘inter–poleis’, so–to–say). The VI cent. has been the heyday of praise. Both before and after things were different. The after we have dealth with in our II lecture. We are now in the iambic–elegiac BEFORE. So, at the very first moment I thought that the symposion would not be just the right place for invective and abuse. But much of this we have seen in Alcaeus and in Anacreon, certainly sympotic poets (our pivot, our firm point of reference; let’s not forget that sometimes we are on well known land, not always in no–man’s land). I am glad to be able to quote at the very start Lloyd–Jones’
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words in his edition with commentary of Semonides (p. 13): “The iambus was in iambic metre, either the trimeter or the tetrameter. Like the song in lyric metre, it was recited at the symposion, the drinking–party”. Let’s now see how this fits in very well in what we can say about Greek culture at least in the archaic period. There is a most important article by Gregory Nagy in «Arethusa» 1976: Iambos: Typologies of invective and praise. He does not mention the symposion, but by his careful analysis, reinforced by a good knowledge of anthropology, brings him to assert (p. 194) that “the traditional function of invective in Hellenic society is an inheritance that can be traced all the way back to Indo–European society”. He considers invective and praise rightly as to social functions and, basing among others on Dumezil’s Servius et la fortune (1943), he says that “Indo–European society operated on the principle of counterbalancing praise and invective, primarily through the medium of poetry”. He finds the same thing in Indic and Old Irish and he recalls some hints in Detienne’s most international book Les maîtres de vérité (1st ed. 1964, 2nd 1973). Nagy is right in saying also (p. 195) that “the traditional diction of praise– poetry (what I consider to be the VI cent., the century in which I was in when I first thought of sympotic iambus) has also inherited, besides psogos, several other words that serve to mark invective as a foil for praise: momos, neikos, eris, echthos, oneidos, phthonos”. It would be very opportune, had we the time, to review Pindar’s poetry in this light, but all of us are able to make a quick mental survey right now. But a psogos which would not be just a foil for praise, as it is in the encomia (let’s forever call in this way sympotic poetry of the VI cent.), but which would be there for its own sake, independent psogos as it were, what was it there for? If we believe in the high importance of the symposion as an institution for political life, we are able to view in the right light Alcaeus’ abuse against his political foes; and even in Anacreon we found such feature: Anacreon, a poet whom we are used to consider devoted solely to love. But, if we view the symposion as an enclosed space, of course a political space, we can understand that cursing upon your foes, who are outside this space, is quite a normal feature, which we would have to reconstruct if we did not have it attested as we of course do. Psogos non sympotic: recognisable through the simplicity of the composition or structure; more popular; that’s why as well as nothing has survived. But, in order to be as synthetic as possible and to come to some texts, let me quote evidence which is interesting, exactly because it is late. Plutarch, in his quaest. conv. 2. 1. 4.
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adesp. eleg. 27 W. (II p. 16 West = 917 Page) Theogn. 1041f. (493–6 exclusion of that: interesting! aristocratic!) Archil. 129 W. (interesting as well for hetairia) spartan behaviouristic rule: (Janni, 1965, p. 43ff.) Archil. friends ill–treated Anacreon (firm ground, symp.): Megistes (Page, WS 1966) No wonder that later sympotic theory, such as Plutarch q.c., would only speak of what I would like to call i n t e r n a l p s o g o s : what I shall call e x t e r n a l p s o g o s was at that late time ruled out by the fact that the symposion wasn’t any more the ‘enclosed political space’ it was in archaic and even still in classical Greece. Later the political function of the symposion had totally died out. There only was internal psogos left. Of course we needn’t now go into external psogos: Alcaeus with his competitors among Lesbian oligarchs, Theognis against the opposite party etc. We can only add that the iambikè idéa is continued in comedy, which takes over the heritage with its komoidein, and we all know what the onomastì komodein meant for Athens of the V cent. And what the komodoumenoi meant (on a scholary basis of research) for the Alexandrian scholars.
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VIII. Elegy. A Short Survey of Sympotic Song VII–IV Cent.
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Dare e avere nella lirica greca arcaica. Il problema dello scambio e del compenso nella lirica monodica e corale In tema di rapporti economici del poeta arcaico, si è parlato sempre, finora, della poesia corale, sia quella per gli dei (canti corali religiosi), sia quella per gli uomini (epinicio e threnos). Essendo gli epinici la presenza più corposa nella documentazione, l’epinicio è stato ulteriormente privilegiato sugli altri canti corali, quelli religiosi. Desidero anticipare subito che il perno cronologico che a me sembra fondamentale è l’introduzione della moneta coniata, che avviene all’inizio del VI secolo. Ora, l’epinicio viene tradizionalmente introdotto da Simonide negli anni 530–520, proprio gli anni in cui, come vedremo, l’uso della moneta si diffonde ampiamente: si capisce così come le testimonianze di prezzi pagati in moneta siano non dico numerose, ma presenti, e che abbiano fatto portare in primo piano l’epinicio stesso rispetto al resto della poesia arcaica. Ma ci sono altri generi poetici che sono di molto anteriori all’epinicio e ci sono altri rapporti economici anteriori e diversi dall’economia monetaria. È per questo che ho pensato di vedere anche la poesia monodica dal punto di vista del compenso. Il rapporto della poesia monodica tramandata con il simposio in generale è discorso da fare in altra sede e non è qui del resto premessa necessaria. A mio parere della poesia monodica una parte molto maggiore di quanto si creda in genere era simposiale. Posso comunque limitarmi qui a usare come pezze d’appoggio carmi sicuramente simposiali e tengo a mettere l’accento sulla grande importanza politica del simposio come istituzione nella vita privata e soprattutto pubblica dei greci. Pindaro apre la sua seconda istmica, databile intorno al 470, con dei versi che gli esegeti si sono preoccupati di spiegare soltanto in uno dei loro aspetti, a mio parere il meno interessante: quello della loro funzione all’interno dell’ode. || [Conferenza tenuta in inglese Mc 11.10.1978, ore 18, al Department of Antiquity della New York University, e V 9.11.1979 al Magdalen College di Oxford (“Nellie Wallace Lecturership”); Rossi ne aveva poi preparato una versione in italiano, databile all’incirca al 1980, che è quella che qui si presenta (integrata, all’inizio e alla fine, da due parti in italiano accluse alla conferenza di Oxford). – Inedito, ritrovato tra le carte di Rossi nel suo studio di Via Aventina a Roma (insieme alle due versioni in inglese); la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-019
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L’ode è un epinicio – potremmo dire – in memoriam per Xenocrate, morto da poco, volto a celebrare una sua vittoria istmica (12–17) e a ricordarne quella pitica del 490 (P. 6) e una ateniese (18–20); ma il dedicatario è Trasibulo, figlio di Xenocrate, a cui Pindaro si rivolgeva anche nella P. 6 e a cui è ispirato e dedicato anche il carme conviviale fr. 124 a.b [Sn.–M.]. Ed ecco le parole di Pindaro [nel testo di Snell–Maehler: Α΄ οἱ μὲν πάλαι, ὦ Θρασύβουλε, φῶτες, οἳ χρυσαμπύκων ἐς δίφ͜ρον Μοισᾶν ἔβαινον κλυτᾷ φόρμιγγι συναντόμενοι, ῥίμφα παιδείους ἐτόξευον μελιγάρυας ὕμνους, ὅστις ἐὼν καλὸς εἶχεν Ἀφροδίτας ͟ εὐθρόνου μνάστειραν ἁδίσταν ὀπώραν. ἁ Μοῖσα γὰρ οὐ φιλοκερδής πω τότ’ ἦν οὐδ’ ἐργάτις· οὐδ’ ἐπέρναντο γλυκεῖαι μελιφθόγγου ποτὶ Τερψιχόρας ἀργυρωθεῖσαι πρόσωπα μαλθακόφωνοι ἀοιδαί. νῦν δ’ ἐφίητι τὠργείου φυλάξαι ͟ ῥῆμ’ ἀλαθείας ἄγχιστα βαῖνον, ‘χρήματα χ͜ρήματ’ ἀνήρ’ ὃς φᾶ κτεάνων θ’ ἅμα λειφθεὶς καὶ φίλων.]
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“Quelli di una volta, o Trasibulo, che salivano sul carro delle Muse dalla benda d’oro colla cetra dispensatrice di gloria, con agile leggerezza scoccavano i loro dolci canti pederotici, qualunque giovane vi fosse, bello, che vivesse la stagione dolce dei frutti, quella che rammenta di Afrodite dal bel trono. Giacché allora la Musa non era ancora amante del guadagno né era un’artigiana prezzolata; e non si vendevano da parte di Tersicore dal canto di miele i dolci canti dal suono morbido inargentati in volto. Ora essa (scil. Tersicore) comanda di rispettare le parole così vicine al vero dell’argivo (Aristodemo), che diceva ‘ricchezze, solo ricchezze è l’uomo’, avendo perduto nello stesso tempo i beni e gli amici.”
Una volta i bei giovani si cantavano gratis – sembra dire Pindaro – mentre oggi quei canti si usa pagarli. La domanda che si sono posti praticamente tutti gli interpreti, e praticamente l’unica, è stata quella del perché Pindaro, rivolgendosi a Trasibulo, parli di danaro e, praticamente, di compenso in danaro per l’operare poetico. Qualcuno ha messo anche in questo la seconda istmica in rapporto colla sesta pitica, più vecchia di circa vent’anni (490). Gli scoli (ad I. 2, inscr.a) c’informano che sia la vittoria istmica sia quella pitica (del 490) erano state cantate anche da Simonide (= fr. 513 P.). Può darsi – è stato detto – che Pindaro avesse fornito la sua ode pitica non richiesto, e che ora ricordi la cosa al suo reale dedicatario, Trasi-
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bulo; e che questo avvenga in un momento in cui Trasibulo, che tra l’altro non è più il bel giovane di vent’anni prima, è coinvolto nelle difficoltà in cui versa la casata degli Emmenidi di Agrigento. Si tratterebbe comunque di una ‘ammonizione’, come del resto dicono gli scoli stessi (ibid.). Per questo problema, la soluzione certo più convincente è quella che mette l’accento sulla convenzionalità del topos del pagamento, o meglio della liberalità del committente. “Ora la musa impone il pagamento”, dice Pindaro: e ‘‘ora” (νῦν δέ), come precisa Pavese “si riferisce al presente momento celebrativo”[1]; quindi – continua Pavese in una convincente riconsiderazione della questione[2] – Trasibulo, che accetta ora (o almeno ora) il precetto del pagamento, riceve indirettamente la lode per la liberalità, che altrove in Pindaro è così frequente. Tale interpretazione si può integrare con l’osservazione di Thummer[3] che il tema rientra in quello, variamente sviluppato dalla topica dell’epinicio, della valorizzazione del canto del poeta, nel senso che il pagamento sia visto come un ‘impedimento’ (sul quale tema v. I, 82ss.) che il poeta supera per cantare il cliente. Ma non tanto, direi, in relazione colla P. 6, quanto piuttosto – come si vedrà meglio in seguito – in relazione coll’encomio (o scolio simposiale) proprio a Trasibulo di cui si è già parlato (fr. 124 a.b [Sn.–M.]), e che certamente risaliva ad anni prima, quando Trasibulo era ancora giovane (sarà stato più o meno coevo alla P. 6). Ma il problema più interessante, e che non è stato praticamente toccato dagli interpreti, è quello di sapere chi sono in realtà i πάλαι φῶτες del v. 1, che – a quanto sembra dire Pindaro – cantavano i giovani gratis. Alcuni commentatori ed esegeti (ad es. Dissen [1830]) si contentano di riportare i nomi dati dagli scoli (ad 1a, 213.22s. Dr.), perfino senza citarli. Questi nomi sono illuminanti: Alceo, Ibico, Anacreonte. Le parole dello scolio possono ben essere un autoschediasma, ma per una volta possono essere un autoschediasma che coglie nel segno: tanto che, anche se non fosse stata fatta in antico, l’ipotesi meriterebbe di esser fatta oggi, ed avrebbe ugualmente, a mio avviso, le carte in regola per cogliere nel segno. Pindaro parla di poeti pederotici (vv. 3–5) e i poeti nominati dagli scoli sono fra quelli che, nel mondo antico, erano particolarmente noti per la loro ispirazione erotica in generale e pederotica in particolare. È chiaro che quella degli scoli è una esemplificazione pura e semplice, che non esclude altri poeti che presentino nella loro produzione, e nell’apprezzamento che ne diedero gli antichi, caratteristiche simili: questo è provato conte-
|| [1 Pavese 1966,] 111 (v. già Bundy [1962]). [2 Pavese 1966,] spec. 110–12. [3 Thummer 1968–1969], I, 82s.; II, 36.
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stualmente dalle parole che seguono: “e gli altri che prima di lui si sono impegnati in canti pederotici”. Ma già l’esemplificazione ci illumina sul valore che i grammatici alessandrini davano a πάλαι. Verrebbe infatti naturale intendere che πάλαι si riferisca ad un passato molto remoto: ma i commentatori alessandrini non hanno esitato ad includere nell’esemplificazione non solo poeti come Alceo, a cavallo fra VII e VI sec., e Ibico, il cui floruit si pone circa alla metà del VI, bensì anche Anacreonte, i cui ultimi anni di vita alla corte dei Pisistratidi ad Atene avevano coinciso coi primi anni della vita di Pindaro (nato fra il 522 e il 518). Del resto πάλαι può riferirsi anche ad un passato recente (v. L–S–J, s.v., II; ed anche sub I i casi connessi con un presente verbale, ὁρῶ … πάλαι Soph. Ai. 5, ‘è un pezzo che sto vedendo’). Né si può dire che la parola φῶτες allontani i poeti a cui Pindaro allude in un remoto passato: φώς è comunemente usato da Pindaro per ‘uomo’[4], senza una addizionale connotazione di stile elevato che non sia quella contestuale del normale elevato livello stilistico dei suoi carmi. Ma si dia pure a πάλαι la virtù di riferirsi ad un passato remoto: vedremo che sarà inevitabile riconoscere nelle parole di Pindaro il riferimento ad usi che si praticano da molto tempo, secoli addirittura, e che però arrivano fino al tempo suo. È indubbio comunque che a πάλαι del v. 1 si contrappone il νῦν del v. 9, che viene così ad assumere, oltre al valore di presente circostanziale di cui parlavamo sopra, anche il valore di presente generico: ‘una volta’/’oggi’. Questo va ammesso, nonostante il valore quasi ‘formulare’ di νῦν nel senso chiarito prima: la contestualità dei vv. 1 e 9 parla chiaro. C’è quindi indubbiamente in Pindaro l’intenzione di contrapporre un uso antico (o affermatosi in antico) a qualcosa di diverso che si fa oggi. Vedremo che si tratta dell’accentuazione voluta di un equivoco, che non sarà il solo ad esserci offerto da Pindaro. Ma Pindaro non è uno storico della letteratura: è un poeta che tra l’altro si muove nel circolo ristretto di una serie di convenzioni tematiche, com’è stato ormai messo in luce dalla critica più recente[5], e le sfrutta a piacer suo manipolando la realtà storica. Se vogliamo rintracciare la tematica pederotica o genericamente erotica nei lirici arcaici, ci troviamo di fronte al panorama praticamente completo della lirica monodica fra il VII sec. e l’età di Pindaro. È difficile trovare autori di cui non restino frammenti con questa tematica o di cui non sia almeno tramandato che hanno prodotto composizioni di tal genere. Quale era il luogo naturale di ‘pubblicazione’ della poesia erotica? Naturalmente il simposio. Le notizie che abbiamo su questa istituzione fondamentale della vita associata greca sono scarse, visto il grande arco di tempo in cui || [4]V. Slater [1969] s.v. [5] Bundy [1962], Pavese [1966], Thummer [1968–1969], Lloyd–Jones [1973] etc.
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l’uso simposiale è stato in vigore e la varietà di panorama storico–geografico che un panorama esaustivo dovrebbe considerare. Si dovrebbero considerare anche differenze di ordine sociale: il simposio infatti era pratica diffusa a tutti i livelli sociali, o almeno a più d’uno, e già un’analisi della raccolta conviviale attica tramandataci da Ateneo, e che nelle antologie liriche va sotto l’intestazione di Carmina convivialia, può dar lumi in tal senso. Ma i documenti e le testimonianze che ci sono rimaste si riferiscono quasi esclusivamente alla classe sociale più elevata: i poeti che abbiamo passati in rapida rassegna componevano le loro liriche erotiche simposiali o per ambienti tirannici (tipici in tal senso Ibico alla corte di Policrate a Samo, Anacreonte a quella di Policrate a Samo e a quella dei Pisistratidi ad Atene), o per hetairìe oligarchiche (Alceo, Teognide) o comunque per ambienti chiusi e dai confini politici ben delineati. Per evitare infatti l’equivoco che la parola ‘sociale’ può ingenerare nella Grecia arcaica, è più opportuno parlare di una selezione di ordine politico. Il caso di Saffo si può mettere a parte, visto che è improprio nel suo caso parlare propriamente di simposio: ma le occasioni d’incontro della vita associata del tìaso femminile, non assimilabili al simposio vero e proprio per la presenza di una componente sacrale e rituale che vi aveva gran parte, non si contrappongono al simposio vero e proprio: ne tengono semplicemente il posto, ne sono un parallelo diverso, ma analogo per quanto riguarda la celebrazione del fatto poetico–musicale. Si è visto che non ho fatto qui distinzione fra elegia e lirica monodica in senso stretto. La differenza fra questi due grandi tipi di poesia doveva risiedere soprattutto nel modo di esecuzione musicale, e possiamo aggiungervi, per i giambografi arcaici (Archiloco, Ipponatte e gli altri), anche un terzo tipo, il giambo. Si può qui opportunamente aprire una parentesi: quanto della poesia arcaica monodica (elegia, giambo, lirica monodica) non era destinata al simposio? Anche se la sua tematica non era sempre amorosa, io penso che per almeno tre secoli, il VII, il VI e il V, il suo luogo sociologico naturale fosse quasi sempre il simposio. Politica, parenesi etica, amore sono i tipici temi che i greci dell’età arcaica trattano nel luogo dove più naturale è l’incontro, lo scambio intellettuale e il contatto politico, e cioè il simposio. Tanto più che le varie tematiche s’intrecciano continuamente l’una coll’altra, quella politica con quella etica (Solone, per es.), quella amorosa con quella etica e politica insieme (Teognide è l’esempio più macroscopico, ma naturalmente anche Alceo etc.). Un altro luogo, urbanistico e sociologico, di grande rilievo per la grecità, arcaica e non, è naturalmente l’agorà, su cui tutti conoscono le pagine famose di Burckhardt. Ma soprattutto qui sono necessarie distinzioni di epoca e di ambiente politico: l’agorà di Mileto nel VII e nel VI sec. non è fatto di cui si possano trovare veri equivalenti nella Grecia propria contemporanea. A parte gli ana-
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pesti di marcia, palesemente destinati ad accompagnare la marcia dei soldati in guerra (v. frr. [856–857] P.), sono tentato di vedere una destinazione simposiale a tutto o quasi tutto quel grande corpus di poesia greca arcaica che va sotto il nome di elegia e di giambo: e dicendo quasi tutto intendo veramente quasi il cento per cento. Qualche problema sorgerebbe per la famosa elegia di Solone per Salamina. Vediamone i primi due versi: Sol. fr. l W.
αὐτὸς κῆρυξ ἦλθον ἀφ’ ἱμερτῆς Σαλαμῖνος, κόσμον ἐπέων ᾠδὴν ἀντ’ ἀγορῆς θέμενος.
È noto che agorà può scambiarsi con ekklesia[6]. Si sa la leggenda: in Atene sarebbe stato proibito di parlare di Salamina come tema tabu dopo gli insuccessi subiti contro Megara e Solone, fingendosi pazzo, avrebbe cantato di fronte al pubblico (o all’ekklesia) l’elegia, che constava di cento versi. Pur restringendo il valore di agorà ad ekklesia, resta ancora il valore di ‘discorso’ (v. L–S–J) e d’altra parte ἀντί può valere sia ‘di fronte a’ sia ‘invece di’. Le due interpretazioni “un canto di fronte all’assemblea” o “un canto invece di un discorso” fanno pensare all’ekklesia. Se non ci fosse questa difficoltà, sarei tentato di considerare anche questa elegia soloniana come un pezzo destinato ad un ristretto gruppo politico nello spazio riservato al simposio e la leggenda della recitazione di fronte a un più vasto pubblico una interpretatio – diciamo – Clisthenica sorta almeno un secolo dopo, quando la conduzione politica della polis ateniese era veramente cambiata[7]. Ma questa mia è solo una provocazione, per presentare con tutta la sua possibile violenza provocatoria l’ipotesi che praticamente la totalità della lirica arcaica non corale, e cioè in vario modo accompagnata dalla musica ma cantata da un solista, fosse destinata al simposio, indipendentemente dai suoi contenuti (su Stesicoro v. cap. a parte)[8]. La specializzazione simposiale della poesia erotica è comunque fuori discussione. Basterebbe ricordare i versi di Bacchilide (pae. 4.79) συμποσίων δ’ ἐρατῶν βρίθοντ’ ἀγυιαί, παιδικοί θ’ ὕμνοι φλέγονται.
e di Pindaro (O. 1. 14–17) ἀγλαΐζεται [scil. Ierone] δὲ καί
|| [6] Hignett [1952]. [7] Sui problemi della riforma soloniana rimando solo a Masaracchia [1958] e a Hignett [1952]. [8 Si allude al saggio poi pubblicato come Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, «Orpheus» n.s. 4, 1983, 5–31]
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μουσικᾶς ἐν ἀώτῳ, οἷα παίζομεν φίλαν ἄνδρες ἀμφὶ θαμὰ τράπεζαν.
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Ecco quindi il primo degli equivoci pindarici: dall’epinicio, sia pure da un epinicio che ha della lettera poetica e che comincia come uno scolio erotico simposiale, allude a poesia di un altro genere, alla vera poesia erotica simposiale. Ma fino a che punto è un equivoco, e Pindaro ha coscienza della differenza tra scambio e compenso? Il secondo equivoco: è mai vero che questo tipo di poesia, dal 650 circa, fosse prodotto gratis? [Dobbiamo considerare un] diverso concetto del pagamento: in economia monetaria e non. La poesia simposiale conserva gli usi di un’economia premonetaria: compenso nella forma di mantenimento a corte, da parte di un hetairìa, qualcosa di simile allo scambio dei doni o delle prestazioni. Oppure con Pindaro (e forse anche con Simonide) anche la poesia simposiale ‘firmata’, ‘d’autore’ è pagata in danaro di volta in volta? Ce lo potrebbe far supporre l’encomio di Pindaro a Trasibulo (fr. 124 a.b [Sn.–M.] v. 6), forse in connessione con P. 6 (490), e quello a Senofonte corinzio (fr. 122 [Sn.–M.]), sicuramente in connessione coll’O. 13 (464)? Ci mancano testimonianze: ed è significativo che chi si è occupato del problema del pagamento della poesia[9] ha parlato solo della lirica corale, e praticamente solo degli epinici. Ma la prassi simposiale è premonetaria, e per le situazioni che troviamo testimoniate e che possiamo ipotizzare per i poeti arcaici ha continuato ad essere ‘retribuita’ in forme non monetarie. È significativo che l’epinicio, che dal 520 (data convenzionale come quella del più antico epinicio databile di Simonide, fr. [509 P.]) in poi entra nel sistema letterario greco come istituzione nuova, sia dato anche come il primo componimento ad essere pagato in economia monetaria. Heurema nuovo come segno di un bisogno nuovo, di una funzione nuova: quella di una borghesia che ha disponibilità di mezzi monetari e che estende il ‘potere d’acquisto’ al carme di vittoria sportiva. Il carme simposiale, invece, è una istituzione di vecchia, antichissima data. La novità sta qui, nell’ e v e n t u a l i t à del fatto del pagamento. In mano a questi poeti [scil. Simonide, Bacchilide e Pindaro] lo scolio prende un nuovo status, quello di carme simposiale su ordinazione e pagato. Ricapitoliamo. Pindaro non può confrontare colla realtà odierna gli epinici di una volta e per la definizione (παιδεῖοι ὕμνοι) e per la difficoltà storica (l’epinicio firmato ha mezzo secolo di vita e a quanto sappiamo è stato pagato sem|| [9] Gzella [1971].
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pre, è nato in funzione del pagamento: il pagamento è connaturato ad esso, la sua produzione, destinata ad atleti che provengono da tutto il mondo greco, è per sua natura professionale e itinerante); né può parlare di poesia religiosa soprattutto per la definizione: l’eros dei canti sacri non può chiamarsi παιδεῖος ὕμνος. C’è poi un’altra considerazione, che ho ritardata fino a questo momento. Pindaro non parla semplicemente di canti erotici, παιδεῖοι ὕμνοι, ma precisamente di canti erotici dedicati, εἰ τις ἐὼν καλός etc. Ora, il canto simposiale personalizzato e dedicato è tipico del VI secolo, e basta che pensiamo a Ibico, A Policrate, per citarne uno anteriore all’uso della moneta e composto da un poeta residente, e a quelli di Pindaro e Bacchilide (a Senofonte corinzio, a Teosseno, ad Alessandro figlio di Aminta). A Trasibulo Pindaro aveva dedicato uno scolio vent’anni prima (fr.124 a.b [Sn.–M.] ὦ Θρασύβουλ’, ἐρατᾶν ὄχημ’ ἀοιδᾶν …). Tutti questi canti ci sono stati tramandati sotto il titolo di enkomia (o erotikà) che, come si sa, era il titolo dato dagli alessandrini agli scoli conviviali. Non sappiamo di altri canti erotici dedicati che non fossero conviviali. Se quindi siamo convinti che Pindaro nell’I. 2 parla di canti simposiali pagati di oggi e non pagati di ieri, qual è l’acquisto in termini più generali? Che il simposio fosse anteriore all’introduzione della moneta lo sapevamo già prima. Che quindi prima di Simonide il canto simposiale non venisse pagato a dracme e a talenti, e certo di regola neanche con gli altri mezzi premonetari perché mancava il tipico rapporto contrattuale, non c’era bisogno che venisse Pindaro a dircelo; ma è lui il solo a dirci che anche questo genere, così conservatore, cambia statuto coll’introduzione della moneta. A mio parere sono due le cose che Pindaro ci comunica. Esplicitamente ci dice di questo cambiamento di statuto, che, dal punto di vista della produzione di questi canti li avvicina al mercato contrattuale dell’epinicio; itineranza, professionalità e contrattualità sono e dell’epinicio e, ora, anche del canto simposiale: uno scolio si può ordinare così come si ordina un epinicio. E implicitamente, con il pathos e la dettagliata insistenza dell’apertura dell’ode, strofe–antistrofe e parte dell’epodo, ci comunica il trauma che la società degli ottimati vive a questo proposito: come dire che neanche il simposio, sede tradizionale della cerimonialità oligarchica, può sfuggire ai cambiamenti imposti dalle nuove leggi del nuovo mercato. Escludiamo naturalmente ogni vibrazione moralistica moderna su denaro e mercede: per spiegarci il trauma basta che pensiamo alla società mista, nobiliare e mercantile, dell’epinicio, e che la trasferiamo di peso al simposio, dove accanto al nobile Trasibulo della stessa dedica personale gode anche il borghese Senofonte corinzio. Questa è la grande novità.
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Il simposio dell’età dell’epinicio [dura] grosso modo 60–70 anni, quando la società conservatrice pindarica convive con la società mercantile in ascesa. [È questo] un altro discorso, per il quale mi sembra che la testimonianza di Pindaro sia un punto di partenza obbligato, e per l’importanza del simposio in sé e per l’importanza del suo mutato statuto dopo almeno duecento anni dai tempi di Terpandro in poi. E che la testimonianza di Pindaro sia l’unica non fa che rendercela più preziosa.[*]
[Bibliografia] [E. L. Bundy, Studia Pindarica, I: The Eleventh Olympian Ode, II: The First Isthmian Ode, Berkeley–Los Angeles 1962] [L. Dissen, Pindari carmina quae supersunt cum deperditorum fragmentis selectis ex recensione Boeckhii, Sect. I – Carmina, Sect. II – Commentarius, Gotha–Erfurt 1830] [S. Gzella, Problem of the Fee in Greek Choral Lyric, «Eos» 59, 1971, 189–202] [C. Hignett, A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Oxford 1952] [H. Lloyd–Jones, Modern interpretation of Pindar: the second Pythian and seventh Nemean odes, «JHS» 93, 1973, 109–137] [A. Masaracchia, Solone, Firenze 1958] [C. O.] Pavese, [χρήματα χρήματ’ ἀνήρ e il motivo della liberalità nella seconda Istmica di Pindaro,] «QUCC» 22, 1966, 103–112 [W. J. SLater, Lexicon to Pindar, Berlin 1969] [E. Thummer, Pindar. Die Isthmischen Gedichte, I–II, Heidelberg 1968–1969]
|| [* Tutto questo saggio sarà poi riassunto da Rossi in appena una riga nel capitolo su Pindaro della sua Letteratura greca (Firenze, Le Monnier, 1995, p. 178): “Dove la committenza aristocratica appare particolarmente frequente è negli scoli simposiali”.]
Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso Rimarrebbe deluso chi cercasse nel simposio greco i precedenti di quella propensione alla spettacolarità che è tipica del convito romano, medievale e rinascimentale. Per circoscrivere questa delusione entro limiti ben definiti bisogna dire fin dal principio che il simposio greco all’origine è un’istituzione unica nel suo genere, senza alcuna continuazione storica in istituzioni simili. La documentazione è scarsa, ma sufficiente a darcene un’idea: è scarsa soprattutto in rapporto all’immensa importanza che esso ebbe nella Grecia arcaica e nella Grecia classica. Il compito di aprire con la Grecia un discorso sullo spettacolo simposiale è un compito difficile: ma conto di cogliere lo specifico del simposio arcaico proprio nel suo essere alieno dallo spettacolo propriamente detto e nel suo accoglierne solo forme mediate. Vedremo che lo spettacolo entrerà nel simposio proprio quando esso perderà caratteri e funzioni originari. Il simposio è un’istituzione politica. I greci che si riunivano a bere insieme lo facevano a titolo di appartenenza ad un gruppo politico e sempre con la coscienza di celebrare un rito in parte sacrale e in parte precisamente politico. Per celebrazioni di rilievo, o anche a scadenze fisse, il bere insieme era la cornice sociale entro cui si stabiliva il contatto e lo spazio simposiale era il luogo da cui emanavano deliberazioni importanti per la vita pubblica. Qui bisognerebbe fare una lunga parentesi costituzionale, ma ci contenteremo di una parentesi breve, che risponda almeno ad alcune domande. Come si configurava quel potere politico che aveva creato lo spazio simposiale? I greci dell’epoca omerica erano governati da vari re, attorno ai quali si stringeva una nobiltà guerriera che era inferiore al re solo in alcuni momenti della gestione del potere: altrimenti essi conservavano la loro autonomia e la loro giurisdizione. Quest’epoca è stata paragonata, con qualche efficacia, al feudalesimo. La relativa autonomia della nobiltà diede come ordinamento cronologicamente successivo quello di oligarchie fondate sulla discendenza dalle famiglie nobili: la famiglia nobile è quello che in greco si chiama genos. Questo periodo, che è quello arcaico e che nella maggior parte delle comunità cittadine si estende dal VII al V sec. a.C., è l’età
|| [Relazione di convegno (G 27.5.1982), pubblicata in F. Doglio (ed.), Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti italiane del ‘400. Atti del VII Convegno di Studio del Centro di Studi sul teatro medioevale e rinascimentale, Viterbo 27–30 maggio 1982, Viterbo, Stabilimento Tipolitografico Agnesotti, 1983, pp. 41–50]
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d’oro del simposio, nella quale la funzionalità politica del simposio stesso è al suo apice. A riunirsi sono gli appartenenti a una hetairìa, parola che si può tradurre con «confraternita» e che è bene intendere più o meno come «partito politico». Naturalmente in questo periodo ci sono numerose lotte tra nobili e reazioni dal basso al potere dei nobili e, d’accordo col popolo, alcuni nobili che diventano più influenti e più forti degli altri si fanno tiranni. Anche il simposio dei tiranni con i loro consiglieri è un momento di splendore: penso ai tiranni siciliani, di Siracusa o di Agrigento, come Gelone, Ierone, Terone, che commissionavano i canti che si cantavano ai loro simposi a poeti come Simonide, Bacchilide e Pindaro. Poi viene la democrazia (e qui ci riferiamo soprattutto ad Atene, che conosciamo di gran lunga meglio di tutte le altre città), e allora a simposio si riuniscono quelli che di volta in volta si trovano a ricoprire le massime cariche dello stato e soprattutto quelli da cui il più dipende: penso a personaggi come Pericle, che aveva cariche determinate ma potere molto più ampio. Possiamo qui parlare dei maggiorenti della città–stato. Questa breve introduzione politica risponde ad una semplice esigenza di inquadramento, ed è sufficiente a darci un’idea della funzione che il simposio svolgeva. Era la consacrazione di un legame, quello fra i componenti del genos e della hetairia e fra i vari maggiorenti, uniti da un interesse che poteva essere quello del partito politico rappresentato dal genos o dalla hetairia oppure quello, più ampiamente nazionale o meglio cittadino, rappresentato dai maggiorenti della città democratica. Questa funzione di legame politico spiega l’alto grado di ritualizzazione del simposio, che si manifesta nella ideologia addirittura sacrale del simposio stesso: esso è posto sotto la protezione degli dei e soprattutto di alcuni dei. Fondamentali sono due divinità: Zeus nella figura di Zeus Hòrkios o «Zeus del giuramento», che è preposto all’osservanza dell’unità della consorteria e che punisce chi viola i patti comuni; e Dioniso come divinità del vino e dell’ebbrezza. All’inizio di ogni simposio i greci pregavano gli dei. Come si svolgeva un simposio? Ho detto che quello originario è quello arcaico, fra il VII e il V secolo; ma le uniche notizie un po’ dettagliate in argomento ci vengono da fonti che ci descrivono soprattutto la fine del V sec., e precisamente ad Atene. Per quanto riguarda le procedure siamo quindi costretti a farci un’idea del simposio dell’età d’oro da quelle di un’epoca in cui la sua funzione comincia a venir meno, come vedremo. Ma è già qualche cosa, soprattutto perché dalla sopravvivenza dei testi letterari destinati al simposio – dalle poesie cantate – vediamo che alcuni aspetti dovevano essere gli stessi che in antico, come per esempio la consacrazione agli dei e le preghiere iniziali. Alla fine del vero e proprio pasto venivano allontanate le tavole con i resti del cibo, veniva spazzato il pavimento e si portavano le cosiddette seconde tavole, con il
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corredo di vasi per bere e con cibi leggeri per invito al bere, come dolci, frutta, noci, mandorle, miele, formaggio. Anche in altre culture il momento del bere è tenuto distinto dal momento del pasto. Immaginiamoci dunque una sala non grande, così come ce la presentano i ritrovamenti archeologici, con un numero di convitati che oscilla intorno a dieci. I convitati sono coricati su lettini, appoggiati al gomito sinistro e con la destra libera, un costume che viene alla Grecia dall’oriente nel corso del VII secolo. Il primo brindisi è al «buon demone», e si fa porgendo in circolo una grande coppa di vino. Poi viene l’invocazione agli dei, in genere tripartita: una coppa a Zeus Olimpio, una agli eroi e una a Zeus Salvatore. Si elegge il re del convito, colui che deve stabilire le leggi del convito stesso: quanto e come si deve bere, soprattutto la misura della miscela di acqua con vino (variabile da luogo a luogo, certamente a seconda della forza del vino e della natura del simposio); e le regole del canto e di eventuali giochi. Poi i convitati cantano tutti singolarmente, uno dopo l’altro passandosi un ramoscello di mirto, delle brevi composizioni accompagnati dallo strumento a fiato o dalla lira, e possiamo chiamare queste composizioni col nome di «canzonette». Questo era il momento dell’improvvisazione: le canzonette venivano improvvisate, su ritmi semplici e su tematica varia: tematica etica, politica, erotica, mitologica o addirittura simposiale. Una delle tecniche più comuni era la concatenazione di tema e variazioni: un proponente improvvisava su un tema e uno o più rispondenti rispondevano al tema variandolo. La capacità d’improvvisazione era molto apprezzata e relativamente diffusa, ma non si escludevano mezzi che aiutassero l’improvvisazione e la memoria nella forma di repertori di canti simposiali, come quelli che ci sono stati tramandati nel corpus teognideo e nel corpus dei carmi conviviali attici. In queste raccolte troviamo accostate alcune canzonette a botta e risposta, e cioè il tema che viene poi variato nello stesso ritmo. Veniva poi un altro momento del canto. I convitati che più ci sapevano fare, e quindi non tutti, cantavano dei carmi dalla struttura ritmica e musicale più complicata. Questi li possiamo definire «carmi d’autore», perché erano quelli composti da poeti alla moda per i padroni di casa che li commissionavano. Anche di questi abbiamo dei resti, anzi, di questi abbiamo una documentazione quanto mai abbondante. È un po’ di tempo che sto pensando che tutta la poesia arcaica composta per esecuzione a solo, e cioè la poesia monodica, fosse originariamente destinata al simposio, e in origine non a un simposio qualunque, come erano le canzonette dei repertori, ma ad un simposio determinato, carmi addirittura dedicati ad un ospite e alla sua cerchia, o meglio alla consorteria politica. A tutti noi sono presenti i carmi di Alceo, un nobile strettamente legato al suo partito politico, che diresse le sue appassionate invettive contro i suoi nemici politici, soprattutto Mirsilo e Pittaco. La tematica è quella che si ritrova
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anche nelle canzonette, ma la composizione è più ampia e complessa e per di più fortemente personalizzata, in grazia della dedica al committente. La documentazione di questo costume letterario è, come dicevo, molto più ampia di quanto si sia finora creduto: la grande lirica arcaica, quando non sia composta per un coro come nel caso di canti processionali per feste religiose e di canti di vittoria nei giochi sportivi, è a mio parere sempre destinata al simposio, che era il luogo naturale sia per la sua ispirazione sia per la sua esecuzione. L’età d’oro di questa produzione va fino al principio del V sec., e l’ambito dei nomi che io mi sento di proporre va oltre i soliti poeti tradizionalmente considerati simposiali, come Alceo e Anacreonte, o poeti di cui sono attestati anche canti simposiali, come Bacchilide e Pindaro: aggiungerei Archiloco, Alcmane, Ipponatte, Ibico, Simonide, per nominare solo i più conosciuti. La stessa Saffo rientra in questo costume: le sue canzoni venivano cantate nelle riunioni del suo tiaso femminile, della sua consorteria di donne tenute insieme dal rango sociale e da cultura comune. La prassi simposiale del canto dura poi più a lungo di quanto sia durato il costume di scrivere carmi simposiali: e in seguito il posto della canzone d’autore viene preso dal canto di un carme d’autore riusato, sia che fosse originariamente composto per il simposio sia che si trattasse di carmi con diversa destinazione originaria (carmi corali, per esempio). La presenza di musica e poesia è un altro degli elementi di ritualizzazione del simposio, insieme con le preghiere iniziali e con fatti di etichetta come la nomina del re del simposio. Ma tale presenza, pur singolarmente protagonistica, non deve far pensare che al momento del bere i greci cantassero soltanto. L’attività prevalente, come ci viene concordemente attestato dalle fonti, era il conversare comune e quello che i greci chiamavano «deliberare ovvero prendere vicendevolmente consiglio in occasione del bere», bouléuesthai parà pòton: ed è significativo l’uso di un verbo che richiama al valore politico del simposio. Dal quadro sommario che ho dato il simposio si presenta come uno spazio eminentemente politico, luogo funzionale ad una consorteria o ad un gruppo legato da interessi e cultura comuni per un incontro istituzionalizzato ed altamente formalizzato. Ma quello che voglio qui far notare è la sua natura di spazio chiuso ed autosufficiente. Uno spettacolo nel senso che questo convegno ci propone per il mondo medievale e rinascimentale, ed anche per il mondo romano, non solo non è attestato per l’epoca da me proposta come confine, il V sec., ma è anche reso improbabile dalla stessa architettura delle sale da banchetto, che, come dicevo all’inizio, sono sempre piuttosto piccole e quindi poco adatte ad ospitare spettacoli. Ma è soprattutto la natura di spazio chiuso ad escludere questi elementi esterni. La consorteria è gelosa della sua esclusività: ogni intru-
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sione di elementi estranei all’intimità del convito tradirebbe la sua funzione eminente di spazio riservato. Si può dire peraltro che il simposio, in quanto autosufficiente, ha una sorta di sua spettacolarità interna, a patto che si accetti una definizione larga di spettacolo e che si rinunci ad ogni requisito di professionalità. Penso soprattutto ai canti d’autore eseguiti dai commensali più competenti e più capaci in fatto di musica: costoro si propongono alla ristretta comunità come dei solisti che strappano l’applauso. Se viene passata per buona la mia definizione di spettacolo interno, va ricordato che si tratta di uno spettacolo avvolgente e coinvolgente, dotato di un alto grado di empatia, così com’era empatica la partecipazione dell’ascoltatore arcaico al canto del rapsodo epico. In altre parole: la partecipazione dei presenti doveva essere molto intensa. Questo è confermato sia dall’ambiente fisico e psicologico che siamo stati in grado di ricostruire sia dalla grande virtù psicologica che la musica possedeva in Grecia, secondo le testimonianze degli antichi stessi. Del resto, per tutta l’epoca arcaica è inconcepibile una poesia che sia separata dalla musica: e l’intima atmosfera simposiale avrà conferito a queste audizioni concertistiche libere una forza di suggestione per noi difficilmente afferrabile. Ma c’è un altro aspetto di spettacolo interno a se stesso che si può considerare, uno spettacolo più mediato, ma non per questo meno reale e vissuto. Della tematica dei canti che abbiamo prima passato in veloce rassegna voglio selezionare qui ora i temi simposiali e quelli politici. È singolare che le canzoni cantino così spesso e così in dettaglio il simposio stesso: è la tematica che voglio chiamare «metasimposiale». Sentiamo Alceo a Lesbo poco dopo il 600 a.C. (le traduzioni sono di Pontani) (346 L–P): «Beviamo! Perché attendere i lumi? Il giorno vola. / Prendi le coppe grandi variopinte, amico. / Il vino! Ecco il dono d’oblio / del figliolo di Sèmele e di Zeus. / E tu versa, mescendo con un terzo due terzi, / e le coppe trabocchino, / e l’una l’altra spinga.» E ancora (338 L–P): «Piove. Il cielo trabocca di tempesta. / Fiumi rigidi, ghiacci. / ... / Fiacca l’inverno: attizza / il fuoco e mesci senza più misura / vino di miele. / Fascia le tempie d’una lana soffice.» E Anacreonte, fra Samo e Atene intorno al 520 a.C. (43 D, 33 G): «Presto, ragazzo, una coppa! / Un brindisi, d’un fiato! / Tu mesci dieci mestoli / d’acqua, cinque di vino: / ch’io voglio fare un’orgia / ma senza esagerare. / No, non così, non questo / fragore di schiamazzi! / Non cerchiamo di fare / una bevuta scitica! / Sorseggiamo, fra dolci / musiche d’inni.» E un altro carme (96 D, 56 G): «Non mi piace chi beve presso un cratere colmo / narrando risse e guerre lacrimose, / ma chi mescendo amore e poesia, non pensa / che al piacere diletto». Questa tematica ci fa vedere un simposio che si fa spec-
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chio a se stesso, spettacolo a se stesso. Il rito simposiale del bere e del cantare veniva vissuto con singolare intensità, come ci attestano le canzoni. Un altro aspetto interno è quello dato dalla tematica politica, quella che prende di petto la situazione esterna e ostile alla consorteria, e ci dà un tipo di atteggiamento raro nella poesia antica, che normalmente è una poesia celebrativa e di lode. Qui abbiamo invece l’invettiva e il biasimo, o la sanguinosa presa in giro, che gli antichi chiamavano scomma. Troppo note sono le maledizioni e le ingiurie scagliate da Alceo contro i suoi nemici politici. E quando Archiloco insulta Licambe, o Ipponatte attacca Bupalo, si tratta di nemici della consorteria, unanimemente presi in giro o insultati da tutti i partecipanti al simposio. Archiloco (88 D): «Padre Licambe, che ti venne in mente? / Chi t’ha sconvolto l’anima, / già così saggia? Adesso farai ridere / di gusto tutta la città». Peccato che ci restino solo frammenti, ma recentemente il già famoso papiro di Colonia ci ha restituito una lunga sezione di carme di Archiloco, ricco oltre tutto di oscenità, oltre il limite, pur largo, che eravamo disposti a concedere alla poesia antica. Le numerose apostrofi d’invettiva che troviamo nei poeti arcaici sono sempre rivolte al di fuori dello spazio simposiale: il destinatario degli insulti è solo evocato, mai alloquito direttamente, per il semplice fatto che non è presente. La presenza dei nemici al simposio sarebbe un non–senso, se si pensa che il simposio è istituzionalmente il luogo della concordia. E questa rassegna dei nemici politici in città è una specie di passerella sulla quale essi sono esposti al ludibrio dei commensali e allo sfogo della loro concorde animosità. Lo spazio del simposio rimane chiuso e protettivo: i mostri dello spazio esterno vengono evocati da una parte per esorcizzarli, e dall’altra per sortire quell’effetto galvanizzante e di solidarietà di gruppo che è la funzione principale del simposio. Uno spettacolo tutto mediato attraverso la parola cantata. Questa parola cantata non era altro che la stilizzazione della conversazione politica viva, del bouléuesthai parà pòton. Un carme politico, come ce ne sono alcuni, ricco di particolari di attualità sarà stato l’avvio alla conversazione e al consultarsi sul da fare: gli insulti e l’invettiva erano parte integrante di questi manifesti politici, e avranno scaricato l’emotività. Solo in rari casi è ammesso non più che lo scomma o la benevola presa in giro del simposiasta presente, e in questo caso colui che è preso in giro diventa elemento di spettacolo per gli altri: ma si tratta di casi rari, per i quali c’è tutta una precettistica di moderazione. Un meraviglioso carme elegiaco anonimo (27 W.), nella consueta tematica metasimposiale, dà le regole per il simposio, che deve muoversi fra il serio e il faceto, finalizzando il faceto al serio (la traduzione è mia): «Salute a voi, convitati...: dopo aver cominciato da un discorso buono, finisco con un discorso buono. Quando noi amici ci uniamo per un’impresa come questa, bisogna che ridiamo e scherziamo rispettando l’equi-
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librio, e che stando insieme ci diamo buon tempo, chiacchierando fra di noi e scherzando quel tanto che ci porti al riso. Ma poi segua la serietà, ed ascoltiamo a vicenda quelli che parlano: questa è la virtú del simposio. E obbediamo al re del bere, perché questo è proprio degli uomini dabbene, e porta buona fama». Ci sono altri elementi di spettacolo, che mi sembrano però di minore interesse, come per esempio gli esecutori o le esecutrici di musica strumentale: in realtà si tratta di musica di accompagnamento al canto. Ben note sono le suonatrici di aulòs, come quella che nel Simposio di Platone (176 e 6) viene fatta allontanare per consentire ai convitati di intrattenersi in dotti ragionamenti. Altri intrattenimenti simposiali possono rientrare nella definizione di spettacolo nel senso prima chiarito, come i giochi che si praticavano: principale fra tutti il còttabo, il lancio delle gocce finali di vino rimaste in una coppa contro un bersaglio che si doveva centrare e che era normalmente un’altra coppa. Sia la tematica erotica dei canti sia le rappresentazioni vascolari ci tramandano poi la presenza di etere e di amasi al simposio, i quali non erano però partecipanti a pieno diritto, bensì invitati occasionali e temporanei. L’eros non poteva mancare in una struttura che istituzionalizzava l’utile con il dilettevole, il serio con il faceto. Un elemento spettacolare interno al simposio era anche il komos. Il komos era un’allegra sortita che i commensali, sciolto il simposio, facevano fuori della casa ospitante: si usciva in allegra processione e si andava a fare la serenata davanti alla porta chiusa della donna amata o dell’amasio, oppure si andava alla casa di qualcuno dove era ancora in corso un simposio, e anche qui la citazione d’obbligo è il Simposio platonico, dove verso la fine i convitati di Agatone si vedono arrivare Alcibiade con un gruppo di amici. In questo modo un simposio si fa spettacolo all’altro: i due piccoli universi chiusi si aprono l’uno all’altro, senza tradire l’omogeneità della loro composizione: si tratta pur sempre, in Platone, della intellighenzia cittadina che partecipa sia all’uno sia all’altro simposio, e non c’è quindi disparità di classe sociale–politica. Quello che salta agli occhi, anche in una testimonianza relativamente tarda come quella di Platone, è il persistente piccolo numero dei partecipanti, e anche questo è importante per differenziare il simposio greco dai conviti delle società successive. Un archeologo potrebbe confermarmi questo fornendomi le misure, ben più grandi, del triclinio romano. Per i greci «poca brigata, vita beata» era la norma: il loro simposio era istituzionalmente legato ai piccoli numeri, nella ricerca di una totale omogeneità dei componenti. Che qualcosa cambi dalla metà del V sec. in poi ce lo direbbe già il fatto che da quell’epoca in poi non si compone più poesia espressamente destinata al simposio. Dal VII al V secolo – lo ripeto ancora una volta – il simposio è il luogo
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di tutta la poesia monodica, per cui il rapporto con quella che noi chiamiamo letteratura è strettissimo: la storia della lirica è la storia del simposio: Se questo sodalizio a un certo momento cessa, è segno che l’istituzione non è più quella che era in origine. E abbiamo la controprova sul terreno della storia politica. Le costituzioni oligarchiche erano ormai in minoranza e facevano posto alle democrazie, come succedeva ad Atene. Lo spazio del simposio come luogo di coesione politica venne preso a poco a poco dalle istituzioni democratiche che, su scala di suffragio più ampio, svolgevano la stessa funzione. Questo non vuol dire che il simposio scomparisse del tutto, ma si venne man mano privatizzando e, da luogo politico, divenne spazio più genericamente civile. E il luogo dei canti d’autore venne ora preso da forme di spettacolo vero e proprio. Una fonte per noi preziosa di questo periodo di passaggio è il Simposio di Senofonte, il fratello minore di quello platonico. Anche in esso si racconta un intrattenimento simposiale di Socrate con amici. La composizione risale alla prima metà del sec. IV, ma il tempo della narrazione è la fine del V. Naturalmente ancora si usa invocare gli dei all’inizio, e così fanno i commensali e Socrate. Ma poi la conversazione è continuamente inframmezzata dalle esibizioni di due ragazze, una flautista e una virtuosa ballerina, e di un ragazzo che sa suonare la kithara e danzare. A conclusione i due ultimi inscenano un mimo, l’incontro amoroso di Arianna e Dioniso. Questo è il preludio ad una civiltà simposiale del tutto diversa: in età ellenistica ci saranno banchetti dati dai sovrani con profusione di elementi spettacolari. Lo spettacolo esterno viene chiamato a riempire un vuoto. La chiusura e l’autosufficienza dello spazio simposiale arcaico avevano qualcosa di esoterico: solo i pari avevano diritto ad entrarvi, ogni presenza estranea era esclusa per una norma che voleva una segregazione quasi protettiva per i membri del gruppo e che fra l’altro escludeva la divulgazione di quanto si discuteva e si deliberava. Dall’epoca di Socrate in poi, giù giù fino ad Ateneo ed oltre, il dialogo simposiale diventa la forma letteraria in cui vengono presentate le discussioni di filosofi e di dotti. Era la borghesizzazione del simposio. A noi quest’ultimo tipo è più noto, per ovvie ragioni di abbondanza di documentazione e di tenacia di una tradizione letteraria. Ma il simposio teneva, nella vita della Grecia arcaica, un posto ben più rilevante di quello che poi conservò dalla fine del V secolo in poi. La chiusura dello spazio simposiale e la sua autosufficienza, caratteristiche che si rifletterono nella mobilitazione spettacolare di tutti i partecipanti e nella esclusione del vero e proprio spettacolo esterno, erano caratteristiche che non si sarebbero riscontrate mai più in seguito.
Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa* 1. Stesicoro è un poeta che possiamo dire di conoscere in maniera soddisfacente solo da una decina d’anni, da quando cioè si sono venuti pubblicando alcuni papiri di estensione tale da darcene un’idea meno approssimativa di quella che avevamo prima. A qualcuno potrebbe venire spontaneo il confronto con Bacchilide, del quale solo negli ultimi anni del secolo scorso gli ingenti ritrovamenti papiracei ci dettero la fisionomia quasi a tutto tondo. Ma Bacchilide appartiene a generi letterari sui quali eravamo già abbastanza informati attraverso Pindaro: i ritrovamenti papiracei, quantitativamente superiori ai nostri attuali su Stesicoro, ci dettero senza dubbio di meno quanto ad informazione nuova. Invece i nuovi ritrovamenti stesicorei ci hanno dato delle grosse sorprese: quello che di Stesicoro ignoravamo, e che oggi sappiamo, fa di lui non solo uno dei poeti più importanti della lunga storia della letteratura greca, ma anche il rappresentante
|| [Conferenza letta in varie sedi (vd. n. *), pubblicata in «Orpheus» n.s. 4, 1983, pp. 5–31] * Il presente lavoro è, con qualche ritocco, la relazione tenuta il 27.9.1977 a Siracusa nella sede dell’INDA nel quadro del Colloquio Internazionale «Polis e tempio in Sicilia e Magna Grecia» (Catania – Siracusa – Agrigento, 26–29.9.1977). È per questo che conserva un tono “orale”. Naturalmente furono omessi allora sia i passi in corpo minore sia le note; le due parti di testo chiuse in parentesi quadre (ai §§ 1 med. e 3 fin.) sono state aggiunte ora. La bibliografia in fine serve a sciogliere le sigle date nel testo (non ho aggiunto voci e ne ho aggiornate solo alcune: lavori visti a suo tempo in manoscritto e poi pubblicati). Il lavoro è stato nel frattempo presentato come conferenza nelle seguenti sedi: Princeton University, University of Colorado (Boulder, Colorado), University of California at Los Angeles (UCLA), Duke University (Durham, North Carolina), Harvard University (Cambridge, Massachusetts), Brown University (Providence, Rhode Island) fra l’Ottobre e il Dicembre 1978. Ha fatto anche parte di un seminario per graduate students alla Columbia University (New York) nel semestre autunnale 1978. Ha fatto altresì parte, come una delle lezioni, del mio corso (Greek Monodic Poetry and the Symposion) tenuto a Oxford nell’Ottobre–Dicembre 1979 come «Nellie Wallace Lecturership». Ringrazio qui i miei ospiti di allora e ora, in modo speciale, il Direttore di Orpheus, che, in vista delle perduranti difficoltà per la pubblicazione degli «Atti» del Colloquio siciliano del 1977, ha voluto ospitare qui il mio lavoro, che, dopo quasi sei anni, rischiava di invecchiare troppo. Ma per fortuna alcune delle parti più originali (e forse più controverse: vorrei che la pubblicazione fosse stimolo alla ulteriorre discussione) sono testimoniabili nella loro cronologia, oltre che dai partecipanti al colloquio siciliano, alle conferenze e seminari tenuti in America nel 1978 e al corso oxoniense del 1979 (l a s i m p o s i a l i t à t o t a l e , o q u a s i , d e l l a l i r i c a m o n o d i c a , vd. §§ 1 med. e 3 in.), anche attraverso seminari romani cominciati in anni già lontani (l’iperbato, vd. § 1 med., dal 1977–78). Questi lavori sono in corso di revisione e saranno pubblicati al più presto. https://doi.org/10.1515/9783110648126-021
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unico di un genere letterario di cui non avevamo idea precisa e che possiamo definire ‘ e p i c a i n t e g r a l e i n t e g r a l m e n t e l i r i c i z z a t a ’ . In altre parole: Stesicoro, a differenza di tutti i suoi colleghi arcaici e tardo–arcaici, non è altro che una traduzione integrale dell’epica nelle forme metriche e musicali della lirica. Stesicoro racconta come racconta Omero, ma, a differenza di Omero, canta. Questa caratteristica era già stata divinata da alcuni. Per es., in Schmid–Stählin, I, 1, pp. 484 s. (1929) lo troviamo definito «l’Omero lirico»; e Hermann Fränkel nel 1951 (p. 3651 = p. 3193) ripeteva il giudizio che «le sue composizioni sembra che fossero di natura totalmente narrativa». Questo prima che nel 1956 (nel vol. 23 dei Papiri d’Ossirinco) venissero pubblicati i primissimi papiri di una qualche estensione (P. Oxy. 2359, fr. 1 = 222 P., dai Cacciatori del cinghiale, e 2360 = 209 P., dall’Orestea). Ma è chiaro che si era tutti da sempre influenzati dal giudizio datone da Quintiliano.
Già Quintiliano, che leggeva il suo Stesicoro per intero, lo definiva felicemente con queste parole (10,1,62): «Quanto sia vigoroso il talento di Stesicoro lo mostra la stessa materia da lui trattata, che ne fa il cantore di poderose guerre e di famosissimi guerrieri e il reggitore del peso del canto epico sulla lira (epici carminis onera lyra sustinentem). Attribuisce infatti ai personaggi che agiscono e parlano la dovuta dignità (scil. l’ethos epico); e, se avesse conservato senso di misura (si tenuisset modum), avrebbe potuto diventare un vero emulo di Omero: ma è come straripante e si effonde in particolari (redundat atque effunditur), il che, se da una parte è difetto che gli va rimproverato, dall’altra è pur sempre difetto nato da ricchezza (copiae vitium est)». (Cfr. D. H. imit. 2,2,7, p. 205,11 s. U.–R.: Schmid–Stählin, I,1, p. 485, n. 5).
È un giudizio che vediamo puntualmente confermato dal molto in più che oggi possiamo leggere del poeta: fino a dieci anni fa o poco più dovevamo un po’ credere a Quintiliano sulla parola, tanto brevi erano i frammenti che la tradizione indiretta ci aveva conservati. Un altro aspetto sul quale eravamo male informati era la costruzione metrico–musicale. Fino a poco tempo fa si poteva ancora disputare se la sua composizione strofica fosse più vicina alla semplicità di Alcmane o alla complessità di Pindaro, e addirittura se fosse triadica o no (per es., Crusius; Maas, col. 2460, rr. 58–63; 2461, rr. 40–45; Schmid–Stählin, I, 1, p. 486): oggi sappiamo che è triadica e decisamente vicina a quella di Pindaro, e anche in questo un critico di un secolo anteriore a Quintiliano, Dionigi d’Alicarnasso, aveva avuto da dirci qualcosa, là dove parlava di modulazione ovvero di varietà ritmica (comp. 19, p. 85,12 ss. U.–R.):
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«I poeti melici arcaici, dico Alceo e Saffo, facevano strofe di piccola dimensione, in modo che nei pochi cola introdussero poche modulazioni (scil. ritmiche), e raramente usarono dell’epodo; mentre Stesicoro e Pindaro, facendo periodi più ampi, le distribuirono nei molti versi e cola non per altro che per amore della modulazione stessa».
Oggi siamo in grado di toccare con mano anche questo importante aspetto formale della sua produzione, e cioè la grande estensione della strofe. Credo di essere in grado di mostrare — e lo farò altrove — che anche nella forma metrica interna Stesicoro deriva recta via da Omero: parte da una ritmica dattilica per approdare gradualmente ai dattilo–epitriti, che ben conosciamo da Pindaro e Bacchilide. Da una elaborazione dei materiali offerti da Haslam (1974), si vede che i dattilo–epitriti sono frutto di un progressivo allontanamento dalla metrica dattilica: i cosiddetti dattilo– anapesti o anapesti lirici (Ed. Fraenkel 1918) di Stesicoro (e anche di Ibico), come quelli dei Giochi per Pelia, della Gerioneide, dei Cacciatori del cinghiale, costruiti come sono tutti su ritmo dattilico–anapestico e quindi a elemento biceps (costituito cioè da doppia breve, quasi mai contratta in una lunga) chiuso fra due elementi lunghi, lasceranno gradualmente il posto a dei ritmi in cui il flusso dattilico–anapestico è sempre più regolarmente interrotto dall’elemento libero, per lo più monosillabico (o una sola lunga o una sola breve) e dalla cellula cosiddetta cretica (cellula ‘e’ di Maas): dalla Erifile e dalla Distruzione d’Ilio, che sono miste, si passa all’Elena, alle Palinodie, ai Nostoi, all’Orestea, al recente frammento papiraceo di Lilla. In questi ultimi carmi la forma dattilo–epitritica si presenta sempre più normalizzata proprio nella forma che sarà usuale nei poeti corali della fine del VI e della prima metà del V secolo. Importanti conferme vengono poi dallo stile metrico dei tragici.
Stesicoro parte da Omero anche in questo e, nel creare un genere ritmico nuovo, finisce per non discostarsi molto da lui. Le cellule dattiliche dei dattilo–epitriti gli permettono di conservare fatti lessicali e prosodici omerici (Nöthiger), che del resto gli risultava ancor più facile conservare nelle composizioni dattilo– anapestiche. E anche nell’ordine delle parole, narrativamente piano, è vicinissimo a Omero e lontanissimo dall’artificialità di Pindaro: su questo aspetto si sente il bisogno di un’indagine puntuale, che confermi l’impressione che tutti abbiamo. [Come test per l’artificialità dell’ordo verborum e per quantificare statisticamente il comportamento di testi opportunamente selezionati (vd. oltre), ho pensato, già da alcuni anni, di offrire delle statistiche sull’iperbato. Ora, l’iperbato è definito genericamente sia dai grammatici antichi sia dai linguisti moderni, né è stata fatta mai una distinzione sistematica fra l’iperbato l i n g u i s t i c a m e n t e n o r m a l e ovvero prevedibile (rientrante cioè nell’orizzonte d’attesa del parlante) e quello decisamente eccezionale ovvero ‘ a r t i f i c i a l e ’ , che cioè va al di là della normale routine linguistica. Vale la pena ricordare che il greco, come del resto il latino e molte altre lingue arioeuropee anche moderne, è
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lingua a forte caratterizzazione flessionale, il che notoriamente permette di estendere il campo dell’iperbato normale, al punto da non farlo sentire più, in sostanza, neanche come iperbato. In altre parole: il vero iperbato è quello artificiale, e ovviamente il confine varia da lingua a lingua. Con l’aiuto dei partecipanti al mio seminario degli anni 1977–78, 1978–79 e 1980–81 si è creata una griglia tipologica del tutto inedita: mancavano, in altre parole, strumenti di lavoro, che ci siamo dovuti costruire ex novo. Essendo il lavoro di redazione finale a buon punto, posso anticipare qui alcuni risultati, che mi sembrano oltremodo interessanti. In occasione del controllo finale, le statistiche potranno variare di qualche poco, ma le loro enormi divergenze da autore a autore (dovrei dire da genere a genere) sono tali da rassicurare sul quadro generale che qui offro in anteprima. Si tratta di stabilire quanti iperbati artificiali siano reperibili in alcuni testi significativi. Il primo problema che ci si è posto è stato quello dell’aggancio statistico per i rapporti numerici: scegliere il verso (tanti iperbati per tanti versi) sarebbe stato inopportuno, trattandosi di lirica, che varia enormemente quanto alla lunghezza dei versi. Non resta che legarsi al numero delle parole (naturalmente la parola metrica, nella misura in cui coincida con la parola fonetica: per questa distinzione vd. il mio Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, StudUrb (Ser. B) 39, 1965 (Studi in onore di G. Perrotta), pp. 239– 273, e precisam. p. 245 e n. 22). Un’indagine a tappeto prima su tutte le Istmiche di Pindaro e poi su tutti gli Epinici ha dato come risultato un iperbato ogni 20–30 parole; in Stesicoro (che però — non va dimenticato — offre una base statistica enormemente minore) si ha un iperbato ogni 60–80 parole. Stesicoro risulta così essere dalle due alle tre volte più lineare e piano di Pindaro quanto all’ordo verborum. Un’indagine su qualche libro omerico (e qui ne bastano pochi, vista la omogeneità della dizione) ha dato come risultato un iperbato (non starò sempre a ripetere che si tratta di iperbati artificiali) ogni circa 400–500 parole. Stesicoro scrive in metri lirici: vale più, quindi, la sua distanza dal suo confratello lirico Pindaro che quella da Omero, che scrive in esametri. Ma Stesicoro è sicuramente monodico e mal si presta ad un paragone con il Pindaro corale. Usando l’utile modello di comunicazione di Roman Jakobson (Linguistics and Poetics, in: Style in Language. Ed. by Th. A. Sebeok, Cambridge Mass. 1960, pp. 350–377, poi tradotto in francese e, in italiano, da Feltrinelli), il messaggio viene diretto da un destinatore a un destinatario seguendo le regole di un codice. Gli Epinici di Pindaro erano eseguiti nelle feste panelleniche da un coro che cantava e danzava: il codice e il messaggio erano quindi non solo verbali, ma anche musicali e orchestici. Lo ‘spettacolo’, preso nella sua globalità, era diverso da quello offerto dalla lirica monodica, dove mancava l’elemento orchestico e dove presumibilmente la musica era più trasparente, per quanto atteneva al suo competere con la parola (per di più: esecuzione corale versus esecuzione monodica!!). I musicologi si sono posti assai di rado (e la cosa sorprende) il problema della comprensibilità dei testi d’opera, per esempio: certo se ne intendevano, ma ovviamente su un piano empirico, gente come Gluck, Mozart, Schubert, Rossini e Verdi. Abbiamo allora voluto confrontare i risultati ottenuti sul Pindaro corale degli Epinici anche coi risultati offerti da testi che avevano lo stesso codice e lo stesso messaggio (verbale–musicale–orchestico). Bacchilide ha dato un iperbato ogni 40–50 parole: è quindi circa due volte più lineare di Pindaro, ma lo scarto statistico è tale da non far trarre conclusioni esplosive (è una semplice scelta stilistica). La bomba è scoppiata, invece, con i cori dei tragici, che hanno dato un risultato sorprendente per chi conserva solo impressioni di lettura: un iperbato (ovviamente, ripeto, artificiale) ogni circa 200 parole e più, e
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cioè un messaggio verbale circa dieci volte più lineare, quanto ad ordo verborum, di quello di Pindaro! Si possono interpretare queste statistiche? Il problema sta, naturalmente, nel ruolo da assegnare di volta in volta alla parte verbale del codice/messaggio globale. Per quanto attiene al l e s s i c o dei lirici arcaici (parzialmente ripreso dai drammaturghi), se ne presuppone ovviamente un notevole grado di conoscenza da parte dei vari pubblici. Ma come mai Pindaro — e, poco meno, Bacchilide — sono così involuti nell’ordo verborum, e invece i tragici nei loro cori sono così enormemente più semplici e piani? (A dispetto — ripeto — delle nostre impressioni di semplici lettori). La conclusione provvisoria a cui siamo arrivati è la seguente, e mi sembra di grande interesse per la storia sia della cultura greca nel suo insieme sia dei modi della comunicazione dei testi poetici nell’antichità. La comprensibilità del messaggio verbale dell’Epinicio pindarico da parte del pubblico delle feste panelleniche doveva essere alquanto bassa. Pensiamo, in più, all’azione di ‘interferenza’ e disturbo del canto e della danza. I raffinati artifizi del dettato verbale pindarico andavano dunque perduti? No, se si propone che Pindaro si rivolgesse (come certamente si rivolgeva) ad almeno d u e d e s t i n a t a r i d i s t i n t i : da una parte il pubblico delle feste e dall’altra i singoli committenti dei suoi carmi. A questi ultimi il messaggio verbale era diretto nella sua totalità (e quante volte sarà stato perfino concordato fin nei minimi dettagli!), mentre il pubblico delle feste coglieva, di questo messaggio verbale, forse solo o principalmente alcune parole–chiave e, ovviamente, la generica intenzione celebrativa (e non si dimentichi che era un pubblico panellenico, proveniente per di più da regioni di vario livello culturale, che aveva anche delle sue frontiere dialettali da superare). Per il resto, al grosso pubblico era diretto il messaggio nel suo insieme, non solo quindi nella sua parte verbale, ma anche nella sua parte musicale e orchestica. Lo ‘spettacolo’, insomma. E i cori delle tragedie attiche, cantati e danzati davanti a un pubblico che, se alle Grandi Dionisie comprendeva anche i sudditi dell’impero e qualche forestiero, era linguisticamente e culturalmente molto più omogeneo? Sembrerebbe che qui il drammaturgo potesse permettersi uguali se non maggiori libertà. Ma non se le permette: anzi, semplifica in una misura tale, da far escludere che si tratti di una semplice scelta stilistica. È evidente che il drammaturgo attico ha un solo d e s t i n a t a r i o , il pubblico del suo teatro, al quale vuole far pervenire anche il messaggio verbale nella sua interezza. Nella tragedia attica il coro, quando non sia coinvolto nell’azione, canta comunque, danzando, cose che al pubblico del teatro di Dioniso non interessano certo meno di quanto viene semplicemente recitato negli episodi. Nei cori si dibattono i grandi problemi etico–politici del momento, che coinvolgono tutti i destinatari nella cavea. Di qui una enormemente maggiore scorrevolezza dell’ordo verborum, che indubbiamente doveva facilitare la decodificazione del messaggio. I risultati della ricerca — che ci ha portato molto lontano da Stesicoro — mi sono sembrati di interesse notevole: spero che qualcuno colga la provocazione, che sarà co-
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munque documentata in dettaglio al momento della pubblicazione integrale della ricerca1].
Se ho voluto mettere sùbito in luce questi due aspetti formali — e cioè l a t e c n i c a n a r r a t i v a integralmente omerica e l a f o r m a m e t r i c o – m u s i c a l e decisamente lirica — è perché li ritengo importanti per una valutazione globale dell’opera di Stesicoro. È infatti giunto il momento di riproporci, o addirittura di proporci ex novo, il problema della d e s t i n a z i o n e ovvero della precisa f u n z i o n e che le sue composizioni avevano. Definirlo come un poeta fra epica e lirica, come molti hanno fatto, è solo un generico punto di partenza. Di tutti i poeti lirici arcaici e tardo–arcaici, corali o monodici, nessuno è così vicino a Omero come Stesicoro, perché nessuno si può definire così integralmente epico nel modo di raccontare e così vicino all’epica nelle forme metrico–musicali. È questo fatto a metterlo — come dicevo in apertura — in una categoria letteraria del tutto a parte: è l’unico lirico che veramente c o n c o r r e con Omero (e coll’epica in generale) nel raccontare, e nel raccontare in modo esclusivo, la materia dell’epos in forme quanto mai ad esso vicine. Suonerà quindi ovvia una ulteriore definizione della produzione stesicorea che qui anticipo e che chiarirò meglio nel séguito: quella di e p i c a a l t e r n a t i v a rispetto all’epica esametrica tradizionale. La destinazione dei suoi carmi è il fatto principale sul quale dobbiamo riflettere: testimonianze esplicite mancano, ma vedremo che si lascia proporre una ristretta rosa di possibilità. Per gli altri lirici abbiamo testimonianze molto esplicite, alcune contenute nei carmi stessi, che non ci lasciano margini di dubbio. Opportunamente semplificando, possiamo dire che l a l i r i c a m o n o d i c a ( g i a m b i c a , e l e g i a c a e m e l i c a ) è in grande prevalenza, e forse nella sua totalità, s i m p o s i a l e 2; mentre la grande lirica corale, per la quale i nomi che emergono sono quelli di Alcmane Simonide Bacchilide Pindaro, è destinata a solenni occorrenze pubbliche, che la critica più tarda ha distinto fra ‘sacre’ e ‘secolari’ (εἰς θεούς e εἰς ἀνθρώπους; da Platone in poi, Harvey; Rossi 1971, pp. 74 s.), a seconda che le grandi occasioni fossero da una parte le feste religiose legate ad un santuario e dall’altra le celebrazioni dei vincitori negli agoni ginnici, e i canti per funerali. Naturalmente, come si sa, la distinzione fra
|| 1 Questo lavoro, coll’attribuzione ai singoli dei singoli contributi, verrà pubblicato prossimamente con il titolo Modi di esecuzione musicale e configurazione dei testi nella lirica greca arcaica. L’iperbato artificioso. 2 Sto lavorando da tempo a trasformare il corso oxoniense dei 1979 nella parte a me assegnata di un lavoro di maggior respiro sul simposio come istituzione politica, al quale collaboreranno sia storici sia archeologi.
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monodico e corale non coincide con singoli autori: Pindaro, per far solo un nome, ha composto anche monodicamente per il simposio (vd. i frammenti degli ‘encomi’, 118–128 Sn.–M.). Che cosa si può dire per Stesicoro? È l’unico autore per il quale sembra aver avuto un senso l’uso di dare un titolo ai suoi carmi, in qualunque momento quest’uso sia cominciato: proprio come avvenne coll’epica, alle cui sezioni gli antichi, in epoca non più orale, diedero dei titoli. Al ciclo degli Argonauti si rifanno i Giochi per Pelia; al ciclo troiano la Distruzione d’Ilio, il Cavallo di legno, i Nostoi, l’Orestea, l’Elena, le Palinodie; al ciclo tebano l’Euròpeia e l’Erifile; al ciclo di Eracle la Gerioneide, il Cerbero, il Cicno e forse la Scilla; i Cacciatori del cinghiale alla saga calidonia. Non tutti sono attestati colla stessa autorità documentaria. C’è chi nega recisamente l’autenticità dei titoli stesicorei (Kannicht, I, p. 29, n. 7, sulla scia di Wilamowitz, Einleitung, pp. 124 s.), ma essi sono talmente numerosi e il fatto è talmente eccezionale nel contesto della restante lirica, che la situazione non cambia molto anche se a intitolarli sia stato l’uso più tardo, come accade per le sezioni epiche in Erodoto, Platone, ecc. È già di per sé significativo che prima o poi si sia sentito il bisogno di dare titoli a questi carmi così come li si davano alle sezioni dell’epica. Fra i nomi generici dati alle sue composizioni (ποιήματα, ᾠδαί, μελοποιία, ὕμνοι, ᾄσματα, προοίμια (?), παιᾶνες: Schmid– Stählin, I, 1, pp. 473 s.; 473, n. 2; 473, n. 5; 484, n. 3; 484, n. 6), quello che ha portato più fuori strada è δαμώματα nel fr. 212, 1 P. Questo termine non significa «canti popolari», bensì «canti pubblici»: sch. Ar. pac. 797: δ.· δὲ τὰ δημοσίᾳ ᾀδόμενα, Hsch. s.v.: δ.· ϰοινώματα, δημοσιώματα. Per i titoli di Bacchilide e di Corinna il discorso sarebbe diverso, ma anche in queste composizioni c’è un flusso narrativo fortemente unitario.
Adesso, per di più, è l’eccezionale lunghezza dei suoi carmi a mettere in crisi la definizione di lirica corale. Tale lunghezza è testimoniata dalle note sticometriche dei papiri: forse più di 1300 cola per la Gerioneide, e, se si legge ‘pi’ invece di ‘gamma’, da 1600 in su nel nuovo Papiro di Lilla. Si può anche negare valore a queste cifre, ritenendo che un rotolo di papiro dovesse contenere più d’una composizione (G.P. Ancher ap. Meillier, pp. 305–307; per una sola composizione è invece Page 1973, p. 52). Ma la sola scala narrativa, riscontrabile in più d’un lungo frammento (specie nella Gerioneide, nella Distruzione d’Ilio e nel Papiro di Lilla), è inconfrontabile con quella di tutti gli altri lirici e tutto concorre così a farci avvicinare le dimensioni dei carmi stesicorei più a quelle di una distesa e lunga sezione epica che non a quelle dei carmi completi che abbiamo degli altri lirici. Ora, tali dimensioni rendono i carmi stesicorei adatti al modo di recitazione dell’epos e non ad una esecuzione corale: ecco un altro fatto formale che le ultime scoperte hanno rimesso in discussione, giacché prima nessuno dubitava della qualità corale di Stesicoro. Oggi si devono leggere diversamente alcune testimonianze antiche, come due della Suda (s.v. Στησ. e s.v. ἐπιτήδευμα) e una del De musica dello Pseudo–Plutarco (1132 b c) (West
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1971, pp. 307–311; Pavese, pp. 230–249), e si tende a fare di Stesicoro un citarodo monodico e delle sue composizioni dei carmi cantati da un solista coll’accompagnamento dello strumento a corda, a differenza di un coro, che è normalmente accompagnato dall’aulo (vd., per es., Abert, p. 532). A fare di Stesicoro un poeta corale aveva finora contribuito la sua generica somiglianza cogli altri poeti corali dorici. Si era aggiunto anche un equivoco, che ha tenuto il campo per qualche tempo e che oggi sembra chiarito: la t r i a d i c i t à , che, come si è detto, è stata accertata solo recentemente, non comporta necessariamente esecuzione corale, come si vede, ad es., da alcuni cosiddetti encomi ovvero scoli conviviali (Harvey, pp. 174 s.), come quello di Ibico a Policrate (282 P.) e quello di Pindaro a Teosseno (123 Sn.), che sono triadici e d’altra parte sicuramente monodici perché simposiali (Harvey, p. 174; van Groningen, pp. 15 s.; Pfeiffer, pp. 130,282 = pp. 217,427; West 1971, pp. 312 s.; Pavese, p. 245). La testimonianza della Suda s.v. Στησ. è singolarmente equivoca: nello spiegare il nome d’arte ‘Stesicoro’ mescola stranamente coralità e citarodia: «venne chiamato Stesicoro perché per primo istituì un coro con citarodia». Vedremo alla fine come si può spiegare questa testimonianza. Due parole sulla cronologia e sulla biografia, per avviare un inquadramento storico. Le date della Suda (632/29 – 556/3) sono palesemente artificiali: sono solo l’espressione implicita del fatto, altrove messo in rilievo dalle testimonianze, che Stesicoro è posteriore ad Alcmane (nascerebbe quarant’anni dopo il floruit di Alcmane: torneremo su questa precisazione cronologica) e anteriore a Simonide (morirebbe l’anno stesso della nascita di quest’ultimo: West 1971, p. 302). I suoi luoghi di nascita sono dati variamente: Matauro, che, dopo esser stata colonia di Zancle, passa a Locri (Vallet 1958, pp. 135 s,; Bérard, pp. 206 s.; Musti 1976); Locri stessa; e infine Imera (Vallet 1958, pp. 260 ss.), colonia di Zancle. Non possiamo ora entrare in discussione su questo argomento, secondario per i nostri assunti: ci basta accettare per la sua attività una datazione approssimativa, che è la prima metà del VI secolo, e una altrettanto approssimativa localizzazione dell’origine, che può essere la Sicilia o la Magna Grecia. Più importante, e anche più sicuramente determinabile, è che — come vedremo — è legato a Locri per le sue due Palinodie, a Sparta per la sua Orestea e forse a Imera per la sua Gerioneide, che rivela interesse per l’estremo occidente (la Spagna e Tartesso come affermazione degli interessi coloniali di Imera nell’estremo occidente: Dunbabin, p. 301). Tutt’altro che un poeta locale, come si vede. 2. Quanto alla sua omericità, vorrei stornare l’equivoco di una interpretazione brutalmente positivistica del fenomeno, nel senso — tutto positivistico — del
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graduale sviluppo organico delle forme. Stesicoro è stato preceduto, nel continente, almeno da un poeta come Alcmane, che nel VII secolo innova già in misura molto maggiore rispetto ad Omero sia nelle forme metrico–musicali sia nel modo di trattare la narrazione epica. Stesicoro si presenta in sostanza come un conservatore, in forma tanto più accentuata quanto più è evidente che il suo è un r i t o r n o a d O m e r o . Questo è il senso che dobbiamo dare alla precisazione cronologica fornita dagli antichi di uno Stesicoro posteriore ad Alcmane. Sempre nel quadro della profonda osmosi culturale fra madrepatria e colonie, non è forse azzardato dire che questo ripartire ex novo da Omero, così intenzionale proprio per l’esistenza di esperimenti innovatori precedenti, può avere un suo senso in ambiente coloniale. Treu (col. 1256) parla di «conservatorismo di zona culturalmente periferica», e forse ha ragione, almeno per la fase di avvio. Forse non è un caso che l’Orestea, sicuramente destinata a Sparta, sia nella forma metrico–musicale già più lontana da Omero, e cioè già in dattilo–epitriti normalizzati. Le composizioni dattilo–anapestiche, in quanto più aderenti alla ritmica omerica, possono essere più legate all’attività in patria e, sempre solo come ipotesi di lavoro, possono considerarsi cronologicamente anteriori (vd. sopra, per la metrica). Haslam è però prudente in fatto di cronologia.
Ma per impostare correttamente il problema di Stesicoro come poeta epico alternativo, occorre chiedersi che vita conduce ai tempi suoi l’epica recitativa vera e propria, e cioè Omero e gli altri poemi epici: è questo un indispensabile punto di riferimento per chiarirci quale f u n z i o n e p u ò a v e r s v o l t o , i n a l t e r n a t i v a , l ’ e p i c a l i r i c a . Ho avuto occasione di professare altrove il mio ‘credo’ sulla cosiddetta questione omerica (Rossi 1978). I poemi, così come li abbiamo, nascono da una elaborazione plurisecolare che comincia nel medioevo ellenico, in assenza del mezzo scrittorio e quindi con caratteristiche tipiche di una cultura orale: l’enciclopedismo, l’ecumenicità, la formularità sono indizi interni al testo; esterna, ma testimoniata nei poemi stessi, è l’empatia, e cioè l’intima partecipazione comunitaria alla ‘esecuzione’ da parte dell’aedo e del pubblico. La comparazione antropologica ci aiuta a valutare questi indizi, che, presi insieme, danno la certezza della n a s c i t a o r a l e d e l l ’ e p o s . Almeno alla fine del secolo VIII subentra la scrittura, e questo non è senza influenza sulla ulteriore crescita dell’epos su se stesso: colla scrittura comincia una cultura che si può chiamare a u r a l e , che affida al mezzo vocale non più la composizione ma la sola pubblicazione, e che durerà fino all’avvento del libro, in crescente diffusione dalla fine del V secolo in poi. La scrittura influenza sensibilmente le redazioni ulteriori. In questo modo i poemi omerici si presentano non come documenti integrali di oralità, bensì come testimonianze di una più antica elaborazione orale, poi contaminata colla scrittura. Da Esiodo in poi la poesia greca ha di fronte il modello, letterariamente consacrato, di Omero. Gli stessi storici e archeologi sono scettici non solo sul conservarsi di scuole orali locali, ma anche sulla loro stessa esistenza originaria (Snodgrass, p. 431). A
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distinguere civiltà orale da civiltà aurale ci porta la lettura del testo omerico i n r a f fronto contrastivo col diverso modo di configurarsi del testo d e i p o e t i p o s t e r i o r i , che o non presentano una formularità autonoma, come Esiodo, o non ne presentano alcuna, come i lirici. Per di più, la forma metrica dei lirici è tale da non adattarsi a composizione orale (non stichica, ricca di modulazioni ritmiche, ecc.).
A noi non interessa qui risolvere il problema del luogo sociologico in cui i poemi epici sono nati, anche se in realtà l’ipotesi più accreditata appare la più verosimile. Devono avere ragione, per le origini, quelli che parlano di ristretti pubblici regali o aristocratici, secondo quanto ci fornisce l’evidenza di Femio e di Demodoco. Ma sicuramente la diffusione a strati più ampi e a livelli sociali più bassi dev’essere cominciata molto presto (Kirk, pp. 274–281). Ci interessa invece preventivamente individuare i luoghi, eventualmente diversi, in cui i poemi hanno vissuto i primi secoli della loro fortuna, la cosiddetta epoca lirica. Si tratta principalmente delle f e s t e r e l i g i o s e in cui i poemi venivano recitati, in genere nel quadro di una gara di recitazione, e specie in quelle feste che avevano il nome di panegyreis. Efficace Wolf, già nel 1795 (p. 1001 = 763): i rasodi populorum conventus regumque epulas obibant. Ora, non tutte le feste religiose erano delle panegyreis: tali erano solo quelle a cui concorreva gente da ogni parte, da comunità diverse che si erano stabilite un luogo sacro d’incontro (Ziehen, Paneg., col. 581). Va ricordata a questo proposito l’istituzione delle amfizionie. Bisogna comunque avvertire che in molti casi non è agevole distinguere fra lo status di vera panegyris e quello di festività puramente locali3. La prima testimonianza di recitazione epica in una festività sacrale è quella che ci conserva Esiodo (op. 650–653): nel VII secolo era andato a Calcide a gareggiare per le feste in onore di un eroe, Alcidamante. Erodoto (5,67) ci testimonia l’agone eroico (Adrasto, Melanippo) a Sicione, in cui si recitava Omero. Ma qui interessano soprattutto le vere e proprie panegyreis. I Delia, o panegyris di Delo, sede certo molto antica di gare di recitazione rapsodica, ci sono pittorescamente testimoniati dall’Inno omerico ad Apollo Delio (vv. 146–164). La tradizione che attesta una gara a Delo fra Omero ed Esiodo (Ps.–Hes., fr. 265 Rz. = 357 M.–W.) dev’essere riportata a questo quadro. Benemeriti sono quegli omeristi che per primi hanno ricondotto l’attenzione sui Panionia, che si celebravano nel santuario di Posidone Helikonios a Micale, originariamente punto
|| 3 Una raccolta di materiali sulle panegyreis è segnalata ancora come un desideratum da Nilsson, 1955, p. 828. Un inizio in tal senso è in Maria Rosa Pallone, Epica e agoni poetico– musicali nella Grecia arcaica, Tesi di laurea, Roma 1979–80 (alcuni agoni minori). La studiosa sta continuando le sue ricerche, che saranno prossimamente di dominio pubblico, per completare l’epoca arcaica e per il materiale dell’epoca classica ed ellenistica.
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d’incontro delle dodici città ioniche (Murray; Wade–Gery 1952; ecc.). Lascia solo in dubbio l’affermazione che le panegyreis fossero il luogo originario di formazione dell’epos (Pagliaro; Durante; Schadewaldt, p. 163). La cronologia di queste celebrazioni è approssimativa: i Panionia possono essere sorti verso il 700 (Wilamowitz; Ziehen, Paneg., coll. 601 s.), i Delia probabilmente anche prima (Whitman, p. 329, n. 48). Per i Panathenaia, invece, abbiamo un ancoraggio cronologico preciso: ad inaugurare, o meglio a regolare le recitazioni sarebbe stato Pisistrato (566 a.C., Eusebio). E che si trattasse di una vera panegyris è confermato dalla tenace memoria che nei Panathenaia, certo molto antichi, si conservava dell’originario sinecismo (Schachermayr ap. Fauth). Restando in Grecia propria potremmo elencare altre panegyreis, fra cui le festività panelleniche di Olimpia, di Delfi, di Nemea e dell’Istmo, che tali venivano anche terminologicamente definite. C’erano poi i Pamboiotia e gli Ptoia in Beozia, gli Hyakinthia a Sparta, gli Eleusinia attici (Ziehen, Paneg.). Non per tutte queste feste sono espressamente testimoniate le recitazioni epiche. Per Olimpia si sa che il rapsodo Cleomene vi recitava i Katharmoi di Empedocle durante la vita dell’autore, quindi in pieno V secolo (Dicaearch. ap. Athen. 13,620 c = fr. 87 Wehrli). Per Delfi sappiamo che un certo Stesandro di Samo, forse alla fine del VI secolo, vi avrebbe recitato citarodicamente Omero «cominciando dall’Odissea» (Timomach. ap. Athen. 638 a = FGrHist 754 F 1; Pavese, pp. 247 s.). Al V secolo si riferisce lo Ione di Platone per gli Asclepieia di Epidauro.
Come stavano le cose in Sicilia e in Magna Grecia? Abbiamo poco materiale, ma la situazione non poteva essere molto diversa da quella della madrepatria. Le feste più importanti di cui abbiamo notizia sono quelle di Hera Lacinia presso Crotone. Che posto vi avevano le recitazioni epiche? La diffusione panellenica dell’epica, ricostruibile fin dal medioevo ellenico (Snodgrass, specialmente pp. 429 ss.; per l’arte figurativa vd. bibl. ap. Rossi 1978, sez. E), è un fatto che si è realizzato soprattutto nella rinascenza culturale dell’VIII secolo (Snodgrass, pp. 416 ss.): basterebbe la coppa di Nestore di Ischia (circa 725) a testimoniare anche in area periferica la familiarità coll’esametro e coi modi dell’epos. I coloni che dalla fine dell’VIII secolo sciamarono in Occidente dovevano aver portato con sé il patrimonio epico. Abbiamo una testimonianza preziosa per Siracusa, che va letta correttamente (sch. P. N. 2,1 c): «Omeridi chiamavano in antico quelli che facevano parte del genos di Omero, i quali anche cantavano i suoi carmi trasmettendoseli l’un l’altro (ἐκ διαδοχῆς): e in séguito anche i rapsodi che non si richiamavano più ad Omero per discendenza. Famoso fu Cineto, che dicono aver composto molti carmi ed averli inseriti nei poemi omerici ... Questo Cineto fu il primo che recitò (ἐραψῴδησε) i poemi omerici a Siracusa nella 79a Olimpiade (504–1), come dice Ippostrato» (FGrHist 568 F 5).
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Questo non può significare che i poemi omerici furono introdotti a Siracusa così tardi, solo alla fine del VI secolo. La testimonianza va letta nel senso di una semplice organizzazione degli agoni rapsodici avvenuta in quegli anni e analoga a quella che mezzo secolo prima aveva realizzata Pisistrato ad Atene, organizzazione che presupponeva una prassi già da lungo tempo affermata. Anche nelle colonie, dunque, recitazioni omeriche. Erano gare di esecuzione: si gareggiava per avere il premio di miglior esecutore, come vediamo ancora nello Ione di Platone. Ma c’erano in Grecia, nelle feste, gare letterario–musicali di altro tipo, fra cui quelle che a noi più interessano sono le g a r e d i c i t a r o d i a . In queste venivano presentate delle composizioni del tutto nuove, originali. Il primo vincitore nei Karneia di Sparta sarebbe stato Terpandro (Athen. 635 e), il grande musicista del VII secolo; e vi avrebbe vinto anche Perikleitos lesbio (Ps.–Plut. mus. 1133 c). Molti altri citarodi avrebbero gareggiato nei Gymnopaidia di Sparta, nelle Apodeixeis d’Arcadia, negli Endymatia di Argo (Ps.–Plut. mus. 1134 b c). Meglio che sulle altre feste siamo, anche qui, informati sui Panathenaia attici (Ziehen, Panath., coll. 480–483; Parke, p. 35). A Delfi la citarodia aveva un carattere sacrale particolare, dovendosi celebrare Apollo, il dio titolare della specialità musicale. Per le colonie d’occidente si deve tener presente che i contatti di una città come Locri con Sparta sono strettissimi proprio sul piano musicale. Xenocrito di Locri avrebbe fatto parte della seconda riforma musicale spartana a metà del VII secolo (Ps.–Plut. mus. 1134 b) e avrebbe addirittura collaborato con Xenodamo di Citera e altri alla fondazione dei Gymnopaidia spartani (ibid.). E al poeta Xanto (Page, PMG, pp. 363 s.), sicuramente un occidentale (Ziegler, RE 9 A 2, 1967, col. 1374), Stesicoro doveva molto (Ps.– Plut. mus. 1134 e), specie per il fatto di aver scritto tutti e due una Orestea (Bowra, p. 82). A Locri non mancava una ricca tradizione musicale locale (Pi. O. 10,13; 11,15; P. 2,18; fr. 140 b), che curava precisamente la monodia (carm. pop. 853 P.; Bowra, pp. 83 s.). Si delinea così intorno a Stesicoro una fitta trama storico– musicale che lo lega alla Grecia propria e a una Locri (Vallet 1958; Gigante) musicalissima e monodica. Tutto questo ci dà per sicura una diffusa prassi citarodica agonale anche in occidente.4 Alla base delle nostre integrazioni (lecite, anzi necessarie: vd. § 4, fin.) c’è anche non tanto l’assunto antropologico che l’agonismo in generale fosse elemento essenziale di tutta la vita greca, come suonava una famosa formulazione di Burckhardt, quanto piuttosto il dato di fatto storico che l’agonismo era parte integrante almeno delle feste religiose (Brelich 1969, pp. 449 ss.). Di queste || 4 Dalla tesi di M.R. Pallone (vd. nota precedente) aggiungo qui, per la Magna Grecia, gli agoni citarodici di Sibari in onore di Era attestati da Ael. v.h. 3,43 per la fine del VI secolo a.C.
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l’agonismo — e quello musicale non meno di quello sportivo — rappresenta il più delle volte l’aspetto che maggiormente si stacca dalle origini sacrali per rientrare in una sfera che possiamo definire p r o f a n a o s e c o l a r e . Si può ben parlare di una fondamentale ambiguità delle panegyreis, divise com’erano fra il loro valore e aspetto sacrale ed il loro lato profano o secolare. Più volte è stato messo in luce (Ziehen, Paneg., p. 582; Nilsson 1940, pp. 97–101; Id. 1955, pp. 826–831) l’aspetto gioiosamente profano delle giornate agonali delle panegyreis, tanto che la loro atmosfera, una volta celebrati i riti sacri, veniva paragonata dagli antichi stessi all’ethos dell’agorà (Ziehen ibid.). Non voglio certo alimentare un equivoco, quello di ‘profano’ come ‘popolare’: si sa che una caratteristica della religione greca è quella di essere essa stessa strettamente legata al popolo, almeno nella Grecia storica, nel senso della mancanza di sacralità formulare e sacerdotale. Per ‘profano’ intendo qui semplicemente quello che esula dal quadro cerimoniale della festa o che ne sta ai margini. E bisognerebbe anche parlare di ‘politico’ per quanto pertiene alla sfera di competenza della polis, in un quadro di rapporti fra autorità sacrale e potere politico come vanno configurandocelo archeologi e storici. È anche in questo senso che le panegyreis rivelano la loro polivalenza. In qualità di luogo d’incontro fra varie poleis — come sono alcuni grandi santuari extraurbani della Magna Grecia su cui ci hanno illuminato Vallet (1968, pp. 91–94), Pugliese Carratelli (Santuari 1962; 1965) e altri — sfuggono a un controllo politico diretto delle singole poleis e trovano la loro ragion d’essere in una concordia che confluisce in una sfera diversa dal politico locale perché ad esso sovraordinata, e cioè nella sfera del sacro; senza che i valori politici si annullino, bensì in un loro superiore coordinamento. Diversa, per es., la situazione dei Dionysia attici, dove il politico cittadino è direttamente in primo piano, proprio perché sono istituzione locale di una città singola, il cui internazionalismo o interpolitismo è solo un fatto interno di politica coloniale e imperialista ateniese. Nessuno si sognerebbe di sostenere seriamente, al di là di alcuni fatti esteriori e formali, come l’ara di Dioniso e la presenza del sacerdote, che la tragedia attica in pieno V secolo fosse sentita prevalentemente come fatto sacrale. Abbiamo la testimonianza esplicita degli antichi col detto οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον, «niente a che fare con Dioniso», che avrebbe portato ad introdurre il dramma satiresco per ricordare ai pubblici le ormai dimenticate origini sacre, anche se in realtà il dramma satiresco fu introdotto almeno anche per ragioni diverse, come ho cercato di mostrare altrove (Rossi 1972).
E anche in altri casi di feste locali, il sacro è perfettamente integrato nel politico. Basterà ricordare lo Heraion di Perachora, la cui rilevanza politica e la cui integrazione nella struttura della polis sono confermate dal passaggio del controllo da Argo (solo congetturato) a Megara e infine a Corinto (Salmon). Del resto sia il
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wanax miceneo sia il successivo basileus hanno insieme e potere politico e carattere sacrale, anche se quest’ultimo sembra meno accentuato (Sarkady; ecc.). La stessa cosa è stata vista in Magna Grecia: ricordo i lavori di Musti su Locri, dove si afferma l’integrazione del santuario nella città: «il quadro delle forme amministrative — sono parole di Musti — è un po’ lo stesso in tutte le città greche, in cui il santuario è un organo dello stato e, come tale, soggetto all’autorità dei collegi di magistrati della polis»; e qui si entrerebbe nel discorso sugli Hieromnamones (Musti 1974, specialmente pp. 12 ss.; Id. 1976; Torelli). Anche se i dati a disposizione per Locri non risalgono più in su del IV secolo, non pare azzardato congetturare situazioni simili in epoca più arcaica, per la semplice ragione che le colonie sono più conservatrici della madrepatria. I santuari locali sono quindi, come si vede, strettamente legati alla politica della città a cui appartengono. Le loro celebrazioni hanno carattere politico locale e le opere letterarie originali che ad esse erano destinate venivano commissionate ad artisti, per così dire, di fiducia. Invece le panegyreis interpolitiche, col loro internazionalismo affidato alle forme del sacro, erano la sede più adatta per le attestate recitazioni agonistiche dell’epos. L’epos aveva ormai acquistato intorno al VII secolo la sua fissità monumentale (come dicono gli omeristi) e presentava la sua caratteristica di patrimonio comune a tutti i greci. La distanza del passato mitico assicurava il superamento di ogni particolarismo locale e le panegyreis favorivano la diffusione panellenica dell’epos stesso. Omero non è mai stato la Bibbia greca: ma, se è diventato l’autore almeno più rispettato, lo si deve proprio alle panegyreis. Nelle giornate secolari e profane degli agoni, se c’era qualche cosa che rimaneva legato al pretesto sacrale in quanto sovrapolitico, questo erano le recitazioni rapsodiche dell’epos. Il rispetto quasi mistico che circonda l’epos è evidente ancora nello Ione, pur mediato dall’ironia platonica. Tutt’altro era stato il suo habitat originario: l’eminente funzione politica locale dell’aedo omerico pre–arcaico appare quanto mai evidente nell’importanza che ha l’aedo anonimo di Agamennone nell’Odissea (3, 267–272), detentore di autorità e poteri. Lo mette in luce Jesper Svenbro (specialmente pp. 16–35), il quale vede la musa dell’epos come una “ipostasi del controllo sociale”. Alla sua primitiva integrazione nella società l’epos viene sottratto — sono ancora parole di Svenbro — con un atto di “chirurgia sociale”, che ottiene il risultato di fissarlo nella sua rigidità di composizione monumentale. Insomma: l ’ e p o s n a s c e l a i c o n e l l e c o r t i a r c a i c h e e s i consacra, canonizzandosi, nelle panegyreis. 3. Riprendiamo le fila. Stesicoro citarodo; recitazioni omeriche e gare citarodiche nelle panegyreis. Quale poteva essere la sede più probabile delle composi-
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zioni di Stesicoro? Proprio le gare citarodiche, nelle quali egli doveva presentarle nello stesso contesto che ospitava le gare di recitazione epica. C’è una sua caratteristica che quadra perfettamente: l’apparente assenza, nei frammenti superstiti, delle apostrofi personali, così frequenti negli altri lirici arcaici corali, dove il destinatario, polis o privato, viene apostrofato sia nell’incipit sia nel mezzo sia alla fine. Non credo che si tratti di un caso dovuto ai capricci della conservazione dei testi (vd. la probabile non autenticità di P. Oxy. 2735 = S 166– 219 P., con Page 1971 che lo dà a Ibico; contra West 1969, pp. 142 ss.). Penso che i carmi stesicorei del tipo attestato dovessero mancare di committente espresso esplicitamente, il che sarebbe del tutto naturale per carmi che fossero destinati a gare citarodiche: e questo non vuol dire che mancassero di destinatario. Anzi, l a p o l i v a l e n z a d i d e s t i n a z i o n e delle opere stesicoree, che ricalca quella dell’epica staccata chirurgicamente dal suo habitat arcaico (le corti e poi le panegyreis), fa pensare che una vittoria in gara citarodica fosse anche il lancio per altri tipi di diffusione, qualcosa di simile a quanto avviene nei festivals musicali moderni. Molti resti di altri poeti arcaici ci conducono ad almeno un altro tipo di destinazione. Non ho bisogno di richiamare la consuetudine del canto simposiale, che dura per secoli in Grecia, pur con differenziazioni locali: le composizioni vanno dall’elegia al giambo al carme lirico, accompagnati sia dallo strumento a corda sia dall’aulo. Lo abbiamo già anticipato prima (§ 1 e n. 2), in forma di proposta inedita. Ma nel simposio c’era anche l’epos. Lascio qui da parte le testimonianze dei poemi omerici (Femio, Demodoco) come riferentisi a un passato troppo lontano. Ma per il VI e V secolo abbiamo autori come Senofane, un poeta che vive anch’egli fra Oriente e Occidente greco, che nel fr. 1 W. esclude la materia epica come contenuto simposiale; Anacreonte che, nella spensierata Atene dei Pisistratidi, nel fr. 56 G. = el. 2 W. esclude «contese e lagrimosa guerra» e Teognide, che a 763 s. sembra esorcizzare le guerre persiane come argomento del canto. Questi ultimi due esempi (Anacreonte e Teognide) possono riferirsi all’attualità vissuta; ma di passato epico si tratta chiaramente in Senofane e, ancora, nell’ode simposiale a Policrate di Ibico (282 P.), dove, con un’abile recusatio («non ho in animo di cantare...»), il poeta inserisce nel suo canto simposiale materia epica, la guerra di Troia, raccontata in scorcio. Ibico è di qualche decennio posteriore a Stesicoro ed è anch’egli diviso fra Occidente (Magna Grecia) e Oriente (Samo). Specie da Senofane e da Ibico, proprio per i rifiuti e la recusatio, a p p a r e e v i d e n t e c h e materia epica doveva essere pur sempre ancora a suo l u o g o n e l s i m p o s i o , o che vi era stata fino a poco tempo prima. Secondo una seducente supposizione di Vallet (1958, p. 294), nei decenni che separano Stesicoro da Ibico può essere intervenuto un cambiamento di gusto
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nel pubblico (simposiale, aggiungiamo noi). Sembra quasi di intravvedere un Ibico che si contrappone a Stesicoro: non più l’epica per esteso, ma di scorcio. Uno Stesicoro che va di residenza in residenza a cantare i suoi carmi anche nei simposi è un’ipotesi che ha molto a favore e niente a sfavore. I l p u b b l i c o simposiale sarebbe, così, il suo destinatario finale, mediato attraverso l’occasione vittoriosa della gara citarodica; e sarebbe anche il suo finanziatore. Credo che la raffinata citarodia stesicorea avesse le carte in regola per essere accetta a ristretti pubblici aristocratici, sia coloniali sia metropolitani, che dovevano ormai fastidire l’epos tradizionale e ritenerlo ormai inadatto come intrattenimento simposiale. È chiaro che non escludo gli ambienti dei tiranni: ma questi, nel VI sec., sono diffusi in Grecia e non ancora in Occidente, dove cominciano in grande stile solo intorno al 500 a.C. fra Reggio, Siracusa e Agrigento (isolato è Panezio di Leontini, alla fine del VII sec., vd. Polyaen. 5,47: Vallet 1958, pp. 107 s.; sulle tirannidi vd. Andrewes, Berve, la Mossé). Mi pare corretto quindi, per l’Occidente, parlare semplicemente di oligarchia coloniale.
Del resto di Stesicoro venivano testimoniati anche carmi pederotici (Ath. 13,601 a: παίδεια ovvero παιδιϰά), il che fa pensare che il suo canto simposiale non fosse alieno da forme poi diventate più usuali e che fosse anche in grado di adattarsi a gusti già mutati o ad ambienti geograficamente diversi (232 P. non è un rifiuto o una recusatio, trattandosi forse di un peana, con la contrapposizione Apollo/Ade: Timae. ap. Ath. 6, 250 b = FGrHist 566 F 32; Schmid–Stählin, I, 1, p. 473). Come indizio di un certo tipo di orientamento storico–letterario, è significativo che quasi tutti abbiano negato fede a questa testimonianza antica sui carmi pederotici, e cioè simposiali, di Stesicoro. [Del resto, che canti simposiali potessero trovar posto anche nelle feste religiose ci è testimoniato, per es., dall’encomio pindarico a Senofonte corinzio (fr. 122 Sn.–M.), nonché dalla testimonianza dell’archeologia (sale per banchetto in molti santuari: basti pensare a Olimpia e a Locri). Ma trovo ora una testimonianza preziosa in Euforione di Calcide, poeta–filologo (Pfeiffer, p. 150) del sec. III a. C. Come afferma B. A. van Groningen (Euphorion, Amsterdam 1977, p. 257), Euforione deve aver avuto accesso a buone fonti, essendo stato ad Atene, essendo stato nominato bibliotecario a Pella, la capitale di Alessandro Magno, da Antioco III il Grande (223–187 a. C.), ed avendo infine viaggiato, specialmente in Epiro e in Asia Minore (nel Ponto). Nella meritoria nuova raccolta di frammenti di van Groningen, trovo varie opere filologico–erudite (v.G., pp. 226– 234). Ora, nel Περὶ Ἰσθμιῶν (frr. 180, ap. Ath. 182 e f, cfr. 635 a, f; 181, ap. Ath. 633 f), quindi in un contesto che trattava di una delle grandi festività panelleniche, Euforione parla di strumenti musicali come νάβλα(ς) (strumento a dieci o
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dodici corde), πανδοῦρα oppure –ούρα (strumento a tre corde, forse di origine orientale, cfr. Poll. 4, 60), σαμβύϰη (strumento a tre corde, di origine barbarica, a stare a Strab. 10,3,17 e a quanto dice Euforione stesso nel fr. 181: Parti e Trogloditi, e la notizia risalirebbe nientemeno che a Pitagora). Da quanto si evince dai contesti di Ateneo attribuiti ad Euforione, il dotto sosteneva che questi erano nomi nuovi per strumenti già antichi, come βάρωμος, βάρβιτον(–ος) (e cita Saffo, fr. 176 L.–P. e Anacr. fr. 149 G. = 472 P.), μάγαδις (per cui va richiamato Anacr. fr. 96 G. = 374 P., oltre ad Alcm. fr. 101 P.), τρίγωνα, σαμβύϰη. Non ho certo bisogno di documentare qui che si tratta di tutti strumenti totalmente disadatti al canto corale (e quindi alle odi religiose e sportivo–agonali) e, invece, specializzati nell’accompagnamento del canto a solo, monodico. Il contesto, che ci richiama, insieme, i giochi istmici, strumenti da simposio e poeti simposiali quant’altri mai come Anacreonte (su Saffo il discorso sarebbe lievemente diverso), danno ormai certezza al fatto che n e l l e f e s t e p a n e l l e n i c h e s i c e l e b r a v a n o s i m p o s i , per i cui canti venivano ovviamente officiati i poeti di maggior prestigio. Non so immaginare conferma migliore al fatto che Stesicoro ha veramente composto i suoi παίδεια/παιδιϰά attribuitigli dalla Suda; e questo a dispetto e delusione di quegli storici della letteratura che, se non sono affetti da inguaribile pruderie, restano ancora attaccati al poeta arcaico autore di un genere solo (a questo proposito vd. Rossi 1971). E tutto questo rafforza anche l’ipotesi dell’epos lirico stesicoreo come destinato, in prima o in seconda istanza, al simposio, ipotesi di cui si è parlato sopra]. 4. Se accettiamo uno Stesicoro citarodo, una sua partecipazione a gare musicali e una sua presenza nel simposio colla sua epica liricizzata, non avremo difficoltà a riconoscere in lui un c o n c o r r e n t e di Omero sia nelle panegyreis, nelle quali con Omero convive, sia nel simposio, dove tende a sostituirlo. Ecco perché mi piace definirlo ‘epico alternativo’. Ma Stesicoro non si è limitato sempre a tradurre liricamente le narrazioni dell’epos: da alcuni suoi frammenti vediamo che le ha anche a suo modo modificate e adattate, talvolta per riconoscibili r a g i o n i p o l i t i c h e . Questo lo adegua ad una realtà che doveva essere complessa. Vediamo i casi che si lasciano individuare. Il più evidente è quello dell’Orestea. Omero metteva la reggia di Agamennone a Micene (Od. 3,304), Stesicoro a Sparta (216 P.). Questo è stato visto dai più come un omaggio all’ambiente spartano (Vallet 1958, pp. 266 ss.; Bowra, pp. 113 s.), al quale l’Orestea doveva esser dedicata. L’accenno alla primavera nei frr. 211 e 212 P. ha fatto pensare ad una celebrazione primaverile, forse in onore di Apollo. Quanto alle due Palinodie (contra Kannicht, I, pp. 26–41, che è per un carme unico coll’Elena), sembra oggi accertato che dovessero essere in relazione con Locri e che
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si debbano collegare colla vittoriosa battaglia del Sagra contro Crotone (Vallet 1958, pp. 309 ss.; Musti 1976; Gentili). Anche qui dunque un culto spartano nel cui àmbito si cerca di riabilitare l’eroina celebrata, Elena. E certo è, secondo le testimonianze, che a ridare la vista al poeta dopo le Palinodie furono i Dioscuri, dei quali è attestato un culto a Locri (Vallet 1958, pp. 310 s.). Con una festa ateniese potrebbe essere connessa l’Europeia (195 P.: Bowra, p. 99). E c’è poi anche, adesso, il Papiro di Lilla (76 a, b, c), nel quale, in maniera innovatoria rispetto alla tradizione, è Giocasta a proporre le modalità di divisione del potere e dei beni fra i due fratelli Eteocle e Polinice (Meillier, pp. 324– 334, specialmente 328, 332; vd. anche Bollack e collaboratori). È stata proposta una spiegazione funzionale in rapporto colla profezia di Tiresia, e cioè una Giocasta come rappresentante del genos regale arcaico: anche qui, presumibilmente, un’istanza politica ben precisa, che potrebbe accordarsi bene colle esigenze dell’oligarchia o meglio della tirannide coloniale, più a lungo conservatrice nelle forme di potere che non la madrepatria. Quanto legata a Imera fosse la Gerioneide è, come si è detto all’inizio, oggetto di congettura. Stesicoro ha avuto quindi almeno qualche volta dei committenti identificabili per mezzo di interessi politici ben definiti. Naturalmente, in questi casi, quanto più locali e particolaristici saranno stati gli interessi che col suo canto era stato invitato a servire, tanto più probabile sarà stato che le feste a cui le sue composizioni erano destinate fossero non le panegyreis, bensì f e s t e l o c a l i . È quanto appare per Sparta, Locri, Atene, Imera, or ora ricordate. Stesicoro riporta così l’epos, nella sua nuova forma lirica, alla sua funzione originaria, quella politica; diventa un r i s e c o l a r i z z a t o r e d e l l ’ e p o s . Non è da escludere che per più d’una delle sue altre composizioni saremo portati col tempo e con nuovi papiri a riconoscere questo stato di cose. Ma eravamo abituati, per celebrazioni festive, a carmi corali. Dovremo dunque ammettere, nonostante tutto, la coralità di Stesicoro? Personalmente credo di no: per tutto quello che abbiamo esposto prima, la sua qualità di citarodo monodico non potrà esser facilmente revocata in dubbio. L a c i t a r o d i a è organica alla sua qualità di epico integrale e alla sua f o r m a p o e t i c a . È possibile che la notizia della Suda ricordata prima, colla sua confusione di citarodia e coralità, risalga ad un momento in cui si identificava composizione festiva per commissione (di cui poteva essersi conservata notizia) con coralità, così come certo a torto siamo portati a fare noi oggi. Dovremo piuttosto trovar luogo, nelle feste, per celebrazioni monodiche anziché corali, analoghe alla recitazione dell’epos. O, meglio ancora, dovremo pensare queste composizioni ‘politicizzate’ come direttamente destinate al simposio (vd. sopra § 3, fin.).
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Dei modi di vita del mondo arcaico conosciamo troppo poco di documentato o testimoniato: questo ci impedisce di assumere soluzioni univoche, ma non ci esime dal proporre quelle che si accordino con lo stato attuale delle nostre conoscenze. Se è doveroso porsi alcune domande, è lecito proporre alcune risposte. Il silenzio della documentazione è troppo spesso un alibi. 5. Sembra un paradosso, ma è proprio la libertà con cui Stesicoro si pone di fronte alla materia epica che dà il tocco finale alla sua patente di totale omericità. Totale appunto perché moderna e non antiquaria. Gli altri poeti arcaici utilizzavano episodicamente l’epos come paradigma, mentre Stesicoro lo riprende integralmente e alle volte lo rielabora, addirittura lo ricrea in tutto il suo contesto. È un vero alter Homerus. In verità è proprio nel riscrivere liberamente l’epos che è singolarmente omerico. Nelle sue innovazioni e nelle sue ritrattazioni (addirittura due Palinodie!) rinnova l’ideologia dell’aedo omerico originario. Un esempio soltanto, preso ancora da Svenbro. Alla fine dell’Odissea (22, 330 ss.) Odisseo salva in extremis Femio accettando per buona la sua giustificazione di «aver cantato per i proci sotto costrizione (ἀνάγϰῃ)». Diverso il pubblico, diverso il configurarsi del mestiere dell’aedo, che ha una sua “elasticità” nel modellare la tematica secondo le esigenze del suo pubblico. Stesicoro si comporta come un aedo “elastico”, non tratta la materia dell’epos come qualcosa di canonico ed immutabile. Le innovazioni accertabili bastano a presentarci la sua disinvoltura. Quanto diversamente vediamo procedere un Pindaro, quando tratta il mito di Pelope nell’Olimpica 1 (52 s.) o quando narra la lotta di Eracle contro i numi nell’Olimpica 9 (35–41) o quando a proposito della morte violenta di Neottolemo si ritratta nella Nemea 7 rispetto a quello che aveva cantato nel Peana 6! Spende parole, versi interi per mettere in rilievo i suoi interventi e per darne una giustificazione. «Che bisogno di parlare e di giustificarsi!», viene da dire col Libro di Giobbe. Ma è naturale: Pindaro prende la materia epico–mitica dall’esterno, e quindi come fissata e consacrata, la utilizza per il kairos in maniera episodica; non è tutto organicamente calato all’interno di essa come invece è Stesicoro, che nelle sue rielaborazioni del materiale epico mostra la stessa disinvoltura che era stata dell’aedo omerico. È notevole che la g n o m i c a , caratteristica della lirica corale, sia in lui quasi assente. Giustamente è stato notato che è significativo che Stobeo trovi solo due frammenti gnomici di lui da citare (244, 245 P.), che sono anche gli unici che ci siano rimasti (Schmid–Stählin, I, 1, p. 485 e n. 6): facevano forse parte di discorsi diretti?
Stesicoro epico alternativo nelle panegyreis e Stesicoro risecolarizzatore dell’epos nelle feste cittadine; Stesicoro con l’una e l’altra qualità nei simposi.
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Mi son servito di queste formule per mettere nel più forte rilievo possibile la posizione di un poeta fra istanze panelleniche, canonizzate e quasi assunte nel sacrale, e modernità laica e secolare, politica e particolaristica. Stesicoro riporta l’epos alla sua primitiva funzione di espressione non mediata di una comunità, innovando moderatamente (e certo non sempre) nei contenuti (la tematica epica) e innovando più incisivamente (ma sempre partendo dalla tradizione) nelle forme (le strutture metrico–musicali). L’assoluta unicità del suo e s p e r i m e n t o l e t t e r a r i o è ancor più chiara se lo si mette a confronto coi politici che tratteranno i poemi omerici per la seconda volta, e più violentemente che non la prima, col ferro del chirurgo: Sparta (Janni), Megara, Atene con Pisistrato, altri ancora interverranno nel vivo corpo dell’epos arcaico con interpolazioni e con adattamenti, che saranno una conferma implicita della canonicità dei testi epici: ma il tentativo di attualizzarli e di appropriarsene politicamente risulterà essere una falsificazione, non un rinnovamento. L’esperimento stesicoreo, di sostituire al vecchio un epos di forma nuova omogeneo al vecchio nella funzione, non sembra aver avuto continuatori in epoca arcaica. Ne ha se mai avuti, per lontana analogia, nell’epica storica dell’età classica e soprattutto ellenistica. E ora, colle spalle coperte dalla nuova interpretazione qui data dell’esperimento stesicoreo, potremmo riaprire il discorso su un altro capitolo della letteratura greca, quello ellenistico.
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Simposio e guerra (Callin. 1. 1 W.) Che il simposio arcaico fosse un’istituzione politica non è oggi, credo, messo in discussione da nessuno. Che fosse peraltro anche espressione dei valori della εὐφροσύνη e della χάρις è anche acquisito: anzi, è certo che la sua componente edonistica è stata la prima ad essere messa in luce, e per quello che si ricava dai testi letterari e per la documentazione specialmente vascolare. Ma il simposio è soprattutto il luogo delle decisioni politiche e non mi sembra possibile che i valori espressi del simposio e, per esempio, quelli della lotta di un gruppo siano mai stati sentiti come inconciliabili tra loro: la documentazione che abbiamo, infatti, ci testimonia piuttosto una c o m p l e m e n t a r i t à , che può tutt’al più lasciare spazio ad una ‘nostalgia per la pace’ e per la ἡσυχία che, quando è espressa, è manifestazione esplicita solo della sfera edonistica del simposio stesso. In altri termini: la guerra necessaria e incombente non è mai negata dal simposio in quanto politico; la guerra che viene rifiutata dal simposio, e cioè dalla sfera edonistica del simposio, è la guerra intesa in senso generale, mai concreto, e non credo di essere troppo audace definendo tale rifiuto una forma di ‘utopia simposiale’. Un simposio che opponesse come termini polari la partecipazione simposiale e una guerra riconosciuta come attuale e necessaria negherebbe la sua funzione principale e quindi negherebbe se stesso; mentre un simposio che esprimesse nostalgia per la pace e negasse la guerra in generale, opposta ai valori edonistici, sarebbe perfettamente in linea con il rispetto dei valori politici. Ma vediamo la documentazione letteraria, che, proprio su questo tema, è stata trattata in modo alquanto confuso. Solo per ragioni di opportunità comincerò da Callino fr. 1. 1–4 W.: [μέχρις τέο κατάκεισθε; κότ’ ἄλκιμον ἕξετε θυμόν, ὦ νέοι; οὐδ’ αἰδεῖσθ’ ἀμφιπερικτίονας ὧδε λίην μεθιέντες; ἐν εἰρήνῃ δὲ δοκεῖτε ἧσθαι, ἀτὰρ πόλεμος γαῖαν ἅπασαν ἔχει.]
|| [Saggio incompleto e non datato, ma di certo posteriore al 1981 (vd. n. 6); potrebbe risalire al 1983 (nell’a.a. 1982/1983 Rossi teneva un corso universitario sul simposio); la stesura presentata è frutto dell’unione di tre redazioni distinte, consequenziali l’una all’altra. – Inedito, ritrovato in forma dattiloscritta tra le carte di Rossi nel suo studio di Via Aventina a Roma; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-022
Simposio e guerra (Callin. 1. 1 W.) | 365
Da quando Reitzenstein1 ebbe l’intuizione della destinazione simposiale dell’elegia e interpretò κατάκεισθε come ‘giacere a banchetto’, gli esegeti, con maggiore o minore impegno, hanno accettato tale valore2 o lo hanno negato3. Fra i vari valori che κατάκειμαι può avere (‘giacere’ in generale, ‘giacere a simposio’ come termine tecnico della lingua speciale del simposio, e ‘starsene in ozio’ come metafora pregnante) chi sceglie il secondo interpreta l’esordio di Callino in questo modo: “Fino a quando starete a simposio? Quando avrete il coraggio di andare in guerra, ora che la guerra ci circonda?”. Si verrebbe così a creare una inconciliabilità fra simposio e guerra incombente e necessaria: di qui l’esortazione (simposiale!) a lasciare il simposio. Recentemente Gennaro Tedeschi[4] ha ripreso questa tesi e l’ha finalmente difesa con argomentazione onesta e precisa, e che ora la communis opinio approva. Le sue prove sono di ordine semantico e i n t e r n e al testo. Una valutazione di queste prove verrà in seguito. Certo, è suggestivo intendere l’elegia di Callino, che è costituita da parenesi guerriera, come metasimposiale. Ma credo che per questo si debba pagare un prezzo troppo alto in termini di coerenza del quadro culturale nel quale il simposio vive in tutta l’epoca arcaica. Se, infatti, la valenza politica del simposio viene accettata per tutta l’epoca arcaica – e non mi sembra che ci siano prove per rifiutarla –, Callino presenterebbe un caso, che secondo me è unico, di contrapposizione del simposio alla guerra, intesa come funzione ovvia del gruppo aristocratico che nel simposio si riconosce. Tedeschi non ignora il problema, e dà del rapporto simposio/guerra un quadro storico nel quale Callino sarebbe già un assertore della ideologia eudaimonistica del simposio in quanto contrapposta alla guerra, trovandosi costretto a mettere da parte non solo Archiloco e Alceo, ma perfino Mimnermo, che, di Callino quasi contemporaneo e a lui vicino come ambiente (Asia Minore), con il fr. 14 W. appare un tenace assertore dei valori guerrieri. Quanto a Solone (fr. 4 W.), Anacreonte (eleg. 2 W.) e Senofane (fr. 1.13 ss. W.), l’interpretazione
|| 1 [R.] Reitzenstein, [Epigramm und Skolion: ein Beitrag zur Geschichte der alexandrinischen Dichtung, Giessen 1893, p.] 50. 2 [C. M.] Bowra, Early Greek Elegists, [London 1938, p.] 14. 3 [J.] Defradas, [Les Élégiaques grecs, Paris] 1962, [p.] 23, [W. J.] Verdenius, [Callinus Fr. 1. A Commentary], «Mnemosyne» 25, 1972, [pp. 1–8, a p.] 2, cf. H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, [München 19622, p.] 171 ([M. L.] West, Studies in Greek Elegy and Iambus, [Berlin–New York 1974, p.] 11 accenna a Reitzenstein, ma non sembra darvi peso eccessivo perché cita Theogn. 825–30 a riprova della contrapposizione). [4 G. Tedeschi, L’elegia parenetico–guerriera e il simposio: a proposito del fr. 1 W. di Callino, «Riv. stud. class.» 26, 1978, pp. 203–209.]
366 | Sezione 4: Lirica
dell’opposizione va totalmente riveduta, rispetto anche a posizioni recenti. Sembra troppo far precedere da questo imponente sviluppo storico la posizione aristofanea, che non solo è voce di tempi ormai veramente cambiati, ma ha a che fare con un simposio che già ha cominciato a staccarsi dai valori di quello arcaico (pac. 1265 ss., eccl. 676–80). Per criteri interni, la via seguita da Tedeschi è pur sempre possibile. I criteri esterni, comunque, sono di tal forza, da costringere a tenere un’altra via esegetica sul testo: 1) Questo sarebbe un testo simposiale che negherebbe il simposio. Dovremmo immaginare una prima occasione di esecuzione, nella quale il simposio sarebbe negato. Poi verrebbe il riuso: e, purché la negazione del simposio si potesse dimostrare topos simposiale, la cosa andrebbe: ma si dà il caso che questa sarebbe l’unica attestazione di questo topos5, il che sarebbe in sé già sufficiente a renderlo sospetto, se non bastasse l’assurdità del simposio che nega se stesso. 2) Se poi andiamo a vedere in nome di quale valore il simposio verrebbe rifiutato, questo valore sarebbe la virtù civica e militare. Ora, in nessun testo poetico arcaico il simposio è mai visto come opposto a quel valore nella negazione del simposio stesso. Ci sono alcune negazioni in direzione opposta, e cioè il simposio che nega la guerra, ma è tra parentesi sempre la guerra e la discordia civile in generale ad essere rifiutata, mai un necessario servizio alla comunità. Ecco i testi6: [Theogn. 493–494 W. ὑμεῖς δ’ εὖ μυθεῖσθε παρὰ κρητῆρι μένοντες, ἀλλήλων ἔριδας δὴν ἀπερυκόμενοι, Xenophan. 1. 20–23 W. ὥς ᾖ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς, οὔ τι μάχας διέπειν Τιτήνων οὐδὲ Γιγάντων οὐδὲ < > Κενταύρων, πλάσμα τῶν προτέρων, ἢ στάσιας σφεδανάς, τοῖς οὐδὲν χρηστὸν ἔνεστι· Stesich. PMG 210 Μοῖσα σὺ μὲν πολέμους ἀπωσαμένα μετ’ ἐμοῦ κλείοισα θεῶν τε γάμους ἀνδρῶν τε δαίτας
|| 5 [Un caso] simile [di simposio negato è] Theogn. 825–30, [dove però l’opposizione è tra la gioia del simposio e il cordoglio per la terra patria]. 6 Vd. W. J. Slater, [Peace, the Symposium and the Poet,] «ICS» [6. 2,] 1981, [pp. 205–214, a p. 212] n. 13.
Simposio e guerra (Callin. 1. 1 W.) | 367
καὶ θαλίας μακάρων. Anacreon. 2 W. = 56 G. οὐ φιλέω, ὃς κρητῆρι παρὰ πλέῳ οἰνοποτάζων νείκεα καὶ πόλεμον δακρυόεντα λέγει, ἀλλ’ ὅστις Μουσέων τε καὶ ἀγλαὰ δῶρ’ Ἀφροδίτης συμμίσγων ἐρατῆς μνήσκεται εὐφροσύνης.]
In età arcaica, quindi, è totalmente assente il più tardo moralismo che vede nel simposio una condannabile mollezza, e questo proprio perché il simposio stesso è complementare al valore guerriero, non opposto ad esso. Non resta che rivedere l’ e s e g e s i i n t e r n a al testo.[7]
|| [7 Rossi riprese poi la questione nella sua Letteratura Greca, Firenze, Le Monnier, 1995, p. 113: “Le parole di apertura dell’elegia hanno dato occasione a un importante dibattito: μέχρις τέο κατάκεισθε; “Fino a quando volete stare a giacere?”. ‘Giacere’ è stato comunemente inteso nel senso metaforico di ‘giacere oziosi’; ma qualcuno aveva avanzato l’ipotesi, recentemente ripresa, che il verbo abbia il suo valore letterale di ‘giacere sul lettuccio simposiale’ e quindi l’esortazione avrebbe il valore di ‘fin quando starete qui a simposio, mentre bisogna combattere?’. L’ipotesi è seducente, anche se va detto che il simposio è il luogo stesso dell’esortazione, e non sembra che il simposio possa negare se stesso. È più probabile che, proprio nell’ambito del simposio e della sua funzione parenetica, i giovani vengano esortati a non giacere inerti e a prendere le armi.”]
Theogn. 313 s.: un caso di interferenza tra momento edonistico e momento politico? Sia per il rapporto interno al testo sia per il rapporto intertestuale con il ‘modello’ (carm. conv. 902 [PMG] etc., v. Renehan), μαινόμενος e δίκαιος devono esere semanticamente in qualche modo polari. Proviamo con i due unici campi semantici che sembrano possibili, quello politico e quello erotico: corrispondono infatti a due momenti fondamentali del simposio. politico
erotico
valore generale
μαινόμενος
? valore generico (trovare SINONIMI per ‘essere pazzo’ in politica)
carm. conv. 902 (bere, folleggiare)
‘essere folle’
δίκαιος
(δίκη/δικαιοσύνη)
‘risposta’ in amore
Se si tratta di interferenza tra i due momenti (campi semantici), è praticamente sicuro che punto di partenza sia il valore erotico di μαίνομαι, sia per la posizione incipitaria in rapporto con il ‘modello’ sia perché sembra essere il valore simposiale specifico (l’alternativa sarebbe un valore generico, che male si presterebbe). Proviamo a dare a δίκαιος valore erotico (che in Theogn. non ha mai!): …. [parte non sviluppata] Se invece, come è sicuro, δίκαιος va inteso in senso politico, abbiamo un caso interessante di ἀπροσδόκητον: μαινόμενος senso erotico
δίκαιος senso politico
(il ‘rimbalzo’ di ogni ἀπροσδόκητον)
senso politico
|| [Appunto non datato, conservato nelle carte di Rossi insieme al precedente saggio, e anch’esso da datarsi probabilmente al 1983 (nell’a.a. 1982/1983 Rossi teneva un corso universitario dal titolo Il simposio come istituzione politica e i suoi testi poetici: il V secolo [il simposio attico e Teognide]). – Inedito, ritrovato in forma dattiloscritta tra le carte di Rossi nel suo studio di Via Aventina a Roma; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-023
Theogn. 313 s.: un caso di interferenza tra momento edonistico e momento politico? | 369
Il risultato (folleggiare > esser dissennato in politica) è o ironico o amaramente polemico.
[Bibliografia] [M. G. Bonanno, Osservazioni sul tema della ‘giusta’ reciprocità amorosa da Saffo ai comici, «QUCC» 16, 1973, pp. 110–120] [B. Gentili, Il ‘letto insaziato’ di Medea e il tema dell’ ἀδικία a livello amoroso nei lirici (Saffo, Teognide) e nella Medea di Euripide. Saggo di semiologia, «SCO» 21, 1972, pp. 60–72] [R. Renehan, An Unnoticed Proverb in Theognis, «CR» 13, 1963, pp. 131–132]
Come i Greci usavano la poesia. La lirica arcaica e il simposio Lontani o vicini che siamo dalle esperienze scolastiche, proviamo a rileggere qualche frammento della lirica arcaica. Le occasioni non sono molte: e ci serviremo della bella traduzione di Pontani pubblicata da Einaudi. Archiloco (isola di Paro e di Taso, circa 660 avanti Cristo): “Lo scudo! Uno dei Sai se ne fa bello, adesso. Era perfetto. // Presso un cespuglio (non lo feci apposta) // lo lasciai. Ma la vita la salvai. Lo scudo? Al diavolo! // Uno più bello me ne rifarò”. Callino (Efeso in Asia Minore, stessa epoca): “Giovani, e fino a quando inerti? Quando avrete un cuore? // Non vi fa vergognare dei vicini // tanto lassismo? State qua, seduti, come in pace: e tutto è nella morsa della guerra”. Mimnermo (Colofone in Asia Minore, circa 630): “Siamo come le foglie nate alla stagione florida // – crescono così rapide nel sole –: // godiamo per gramo tempo i fiori dell’età, // dagli dei non sapendo il bene, il male”. Ipponatte (di Efeso, circa 540): “Ermete, Ermete mio, figlio di Maia, // Cillenio, ho un freddo cane, e prego te: // ... // da’ un mantello a Ipponatte e un casacchino, // scarponcini felpati e sandalini // e sessanta stateri d’oro fino”. Anacreonte (di Teo in Asia Minore, intorno al 540): “Ti prego, bionda Artemide, // cacciatrice di cervi, // figlia di Zeus, regina delle belve. // Ora miri, sul bordo del Leteo, // l’animosa città: così civile // è il gregge del tuo popolo, // che compiaciuta, ridi”. Ora, la macroesegesi di questi frammenti ha seguito vie che, dalla generazione dei cinquantenni ad oggi, non sono gran che cambiate, ma sono poco cambiate anche nella maggioranza dei ventenni e cioè: Archiloco è stato almeno una volta un vigliacco ma ha il coraggio di confessarlo; Callino è un eroe, fa del bene alla sua patria ed è degno di essere seguito anche oggi (atteggiamento umanistico); Mimnermo è un poeta triste, una specie di Leopardi del settimo secolo avanti Cristo; Ipponatte era un poeta povero e Anacreonte era un poeta pio, con la sua bella preghiera ad Artemide. Ma dove questo tipo di lettura – direi – approda a un’orgogliosa sicurezza della sua validità è soprattutto nel campo della poesia di tematica erotica, amorosa. Prendiamo per esempio Ibico (Reggio, intorno al 550): “Eurialo, germoglio delle Càriti // azzurre, cura delle Muse // dai bei capelli, Cìpride e Pèito // d’occhi soavi ti crebbero fra petali di rosa”. E di nuovo Anacreonte: “Bimbo d’occhi femminei, // cerco te: tu non
|| [Intervento per il programma di Radio Tre “Cultura: temi e problemi”, V 26.7.1985, ore 15.15– 15.30. – Inedito, ritrovato da Elena Rossi tra le carte del padre; cura del testo di Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648126-024
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senti. E non // sai che tieni le redini // di quest’anima mia”. E Pindaro (di Tebe, visse fra il 522 e il 438): “D’amare sia dato, all’amore // dare bel tempo: il limite // non varcare degli anni // con la tua brama, cuore”. A non dire, poi, di Saffo, che è il cavallo di battaglia di ogni esercitazione sentimentale, quand’altro manchi per risvegliare l’interesse, sia di scolari sia di allievi universitari sia di semplici lettori: “Quale la cosa più bella // sopra la terra bruna? Uno dice “una torma // di cavalieri”, uno “di fanti”, uno “di navi”. // Io, “ciò che s’ama”. // ... Di lei l’amato incedere, il barbaglio // del viso chiaro vorrei scorgere, // più che i carri dei Lidi e le armi // grevi dei fanti”. Sto per dire adesso qualcosa di molto traumatizzante per chi ha creduto o crede ancora che questi brani potici siano da leggere come Leopardi o Heine: ebbene, la situazione di medium di comunicazione odierna più vicina, per una superficiale comparazione, è quella della canzone e il raffronto, sempre superficiale, più pertinente per l’autore è il cantautore. Perché questi frammenti appartenevano a carmi che venivano cantati, con accompagnamento di strumento a corda o a fiato (il bàrbiton o lo aulòs), nei simposi, riunione conviviale di poche persone, normalmente da sette a dodici, che si intrattenevano con musica, giochi di società e soprattutto con quello che veniva definito il ‘parlar di politica durante il bere’. Perché il simposio è un’istituzione politica. I greci che si riunivano a bere insieme – il pasto vero e proprio precedeva – lo facevano a titolo di appartenenza a un gruppo politico e sempre con la coscienza di celebrare un rito in parte sacrale – di qui i canti di invocazione agli dèi – e in parte precisamente politico. Da questo si capisce che il vero simposio era quello della gente che contava: se si può fare qui un breve panorama storico, fra il settimo e il quinto secolo avanti Cristo i simposiasti sono o gli appartenenti a una hetairìa oligarchica, e cioè a un partito politico in concorrenza con altri per la gestione del potere, o i tiranni e i loro amici o, come ad Atene, i personaggi più in vista del partito democratico, che ha preso il potere fin dalla fine del sesto secolo. Per molti è un trauma venire a sapere che questa poesia è nata ed è fiorita come poesia di intrattenimento, qualcosa come la Gebrauchsmusik, o musica ‘di uso’, del settecento, che veniva tanto disprezzata in età romantica (Telemann con le sue ‘musiche da tavola’ etc.). I poeti non miravano a confessarci e a gridare al mondo i loro amori e i loro dolori: i loro temi appartengono a un repertorio di luoghi comuni, il che non ne diminuisce il valore, anzi lo aumenta, perché ogni poeta si sente in gara con il suo predecessore con quello che in greco viene chiamato zelos e in latino ‘emulazione’. Così lo scudo gettato di Archiloco viene ripreso da Alceo, Anaceonte e Orazio; le esortazioni guerresche di Callino sono comunissime, in poesia elegiaca arcaica; Mimnermo, con la sua malinconia, è più raro, lo ammetto, ma non tanto da poterlo considerare idiosincratico; Ippo-
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natte come poeta pitocco ha resistito a lungo, ma oggi lo si è smascherato come ‘manierista’; la preghiera di Anacreonte è comunissima, anche al di fuori della lirica; e l’amore in poeti che si sono rivelati così diversi da quello che pensavamo, è anch’esso una serie di situazioni–tipo. Si può dire che l’altro grado di ritualizzazione del simposio si rispecchia anche nell’alta formalizzazione della poesia che lo accompagna. E questa poesia molto spesso rispecchia il simposio stesso, nel senso che uno dei temi è proprio il simposio, così che si può parlare di una tematica ‘metasimposiale’: Alceo: “Beviamo! Perché attendere i lumi? Il giorno vola. // Prendi le coppe grandi variopinte, amico. // Il vino. Ecco il dono d’oblio // del figliolo di Sèmele e di Zeus. // E tu versa, mescendo con un terzo due terzi, // e le coppe trabocchino, / e l’una l’altra spinga”. E Anacreonte: “Presto, ragazzo, una coppa! // Un brindisi, d’un fiato! // Tu mesci dieci mestoli // d’acqua, cinque di vino: // ch’io voglio fare un’orgia, // ma senza esagerare. // No, non così, non questo // fragore di schiamazzi! // Non cerchiamo di fare // una bevuta scitica! // Sorseggiamo, fra dolci // musiche d’inni”. Come si vede, si tratta di situazioni tipiche, cioè di carmi che venivano commposti dai poeti per una occasione precisa, ma venivano poi ‘riusati’ continuamente. Quando ho parlato di nostre aspettative nell’incontro con la poesia greca arcaica, che cosa intendevo? È molto semplice: l’approccio a questa poesia è per noi moderni ancora dominato dalla poetica romantica, nella quale siamo ancora totalmente immersi. Niente di male in questo fatto: ogni e qualsiasi autorità culturale deve permetterci di sentire la poesia ‘nostra’ così come la sentiamo e anche di comporne di nuova, così come per la maggior parte accade nei poeti oggi produttivi. Ma di fronte a poesia di duemilacinquecento anni fa, in un ambiente così diverso dal nostro, dobbiamo operare con un minimo di accortezza antropologica e renderci conto che si tratta di cultura ‘altra’. Ora, se è consentito essere qui un po’ schematici e rozzi, si può dire che di fronte alla poesia greca (e non soltanto a quella arcaica) la nostra attrezzatura ermeneutica è un misto di poetica romantica e di critica crociano–idealistica. Vogliamo finalmente liberarcene e capire che l’opera poetica antica ha sempre un’occasione esterna per la quale è composta che influenza il suo configurarsi come testo poetico? I poeti antichi non si comportavano come i poeti romantici e tanto meno tendevano a fare dell’autobiografia. La loro originalità aveva dei limiti ben precisi e nei temi comuni che dovevano trattare e nella commissione che avevano dal committente, che era poi anche quello che li sosteneva dal punto di vista economico. Qui il discorso potrebbe allargarsi agli altri generi poetici arcaici, la lirica corale soprattutto (perché quella di cui abbiamo parlato è lirica monodica, e cioè cantata a solo): qui si tratta soprattutto di canti religiosi composti per gran-
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di festività e cantati da un coro nel santuario delle varie divinità. Qui la commissione viene dalla città stessa e la tematica è più ristretta: lodi della divinità, lodi della città, sentenziosità etica etc. Siamo sempre nei secoli settimo–sesto: e, se volessimo ora affrontare il discorso apparentemente più familiare della Atene del quinto secolo con la tragedia, gli storici e gli oratori, dovremmo anche qui rovesciare vecchi pregiudizi: ma è un discorso che conviene rimandare.
Ricchezza e povertà (a proposito di Theogn. 1153–56) Il più grande pericolo che corriamo quando leggiamo i testi greci e latini è quello di sovrapporre ad essi categorie di valutazione che sono esclusivamente nostre o, almeno, non antiche. Leggere i testi antichi vuol dire capirli, offrirne una corretta interpretazione inquadrandoli nel loro contesto storico–culturale. Si è parlato molto, in questi ultimi due o tre decenni, di ‘decolonizzare l’antico’, di togliere cioè dalla documentazione che abbiamo le indebite incrostazioni che sono derivate dal nostro millenario uso ed abuso. Uno studioso di letteratura italiana e teorico della letteratura e della cultura, Cesare Segre, ha parlato di una indebita “retroattività dei codici culturali”, che va accuratamente eliminata[1]. Dobbiamo leggere le cose antiche con occhi antichi, dobbiamo ricordarci che i vari momenti delle loro culture sono organizzati in codici diversi dal no-
|| [Questo saggio, non datato, ha un nucleo originario nel breve accenno a Theogn. 1153–56 del precedente saggio La valutazione etico–sociale della povertà. Modi del manierismo epico e bucolico alessandrino (la cui ultima stesura risale al 1983), e come parte di quest’ultimo lo conosceva e lo citava (annunciandolo come di futura pubblicazione) M. Vetta, Identificazione di un caso di catena simposiale nel corpus teognideo, in: Lirica greca da Archiloco a Elitis. Studi in onore di F. M. Pontani, Padova 1984, pp. 113–126, a p. 116 n. 7; dalla bibliografia citata (vd. n 11) sembra doversi datare al 1991, almeno nella presente stesura. – Inedito, ritrovato in un file (con un appunto del 2009) nell’ultimo pc di Rossi, e anche in una versione a stampa (con appunti autografi non di Rossi e databili a dopo il 1990) tra le carte dello studio; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 C. Segre, Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, p. 20: «Affrontando un testo antico, noi siamo portati indubbiamente a estendere il più possibile la retroattività dei nostri codici. Non si tratta solo di imperialismo del presente sul passato, bensì di un nostro istintivo aggrapparci alla nostra «competenza» semiotica: solo per l’oggi noi dominiamo completamente il nesso lingua – sistemi culturali illustrato da Lotman. A un certo punto ci accorgiamo che le estrapolazioni non sono più possibili. Il sistema linguistico del testo rivela l’illusorietà della sua trasparenza, o si scopre improvvisamente opaco. Le nostre conoscenze del sistema culturale del passato appaiono sconnesse o lacunose. È allora che inizia, con i suoi rischi affascinanti, la ricostruzione dei codici non più vigenti. Il filologo ha la chiara consapevolezza della trasformazione dei codici, del loro essere–nella–storia. La filologia aiuta dunque a superare il soggettivismo e il solipsismo di certe posizioni moderne della critica e, ahimè, della semiotica. La filologia rivendica la funzione dell’emittente, non come individuo isolato ma come membro di una comunità culturale, come espressione e interprete di un sistema di codici. La filologia deduce dalla consapevolezza della nostra storicità il riconoscimento a storicità anteriori o, in ogni caso, diverse».] https://doi.org/10.1515/9783110648126-025
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stro. Quello che per noi, per esempio, ha segno positivo può avere avuto per loro segno negativo e viceversa. Voglio fare un esempio da Teognide. Di lui ci restano composizioni in distici elegiaci contenenti per lo più principi etico–politici. Nacque a Megara e visse, secondo le testimonianze degli antichi, verso la metà del VI sec. a.C., ma secondo molti studiosi è da collocare almeno mezzo secolo più tardi[2]. Ecco il testo di due distici contigui, 1153 s. e 1155 s.: εἴη μοι πλουτοῦντι κακῶν ἀπάτερθε μεριμνέων ζώειν ἀβλαβέως μηδὲν ἔχοντι κακόν. οὐκ ἔραμαι πλουτεῖν οὐδ’ εὔχομαι, ἀλλά μοι εἴη ζῆν ἀπὸ τῶν ὀλίγων μηδὲν ἔχοντι κακόν. “Possa io, ricco e lontano dalle cattive preoccupazioni, vivere senza danni e libero dai mali.” “Non mi piace essere ricco né me lo auguro, ma possa io vivere del poco e libero dai mali.”
I due distici, lo ripeto, sono contigui, e non è difficile vedere che le due valutazioni della ricchezza e della povertà sono esattamente polari: nel secondo distico c’è una valutazione negativa della ricchezza e una valutazione positiva della povertà, mentre nel primo c’è una valutazione positiva della ricchezza, che sottintende ovviamente una valutazione negativa della povertà. Consideriamo prima di tutto il codice letterario. Secondo criteri moderni, potrebbe venire il sospetto che tale contraddizione violi quello che per noi è un criterio–valore ovvio della composizione letteraria, e cioè l’unità, che in questo caso sarebbe l’unità concettuale: non ci sembra possibile che un autore affermi e neghi la stessa cosa, per di più in stretta contiguità. Ora, a parte le considerazioni che si debbono fare sul diverso concetto di unità che gli antichi avevano anche in opere per loro stessi a loro modo unitarie[3] (faccio un esempio per tutti: || [2 Sud. 2. 692. 13 Adler fissa il floruit di Teognide alla 59a Olimpiade = 544–541 a. C. Una rassegna delle proposte di datazione di Teognide è in M. Vetta, Theognis. Elegiarum liber secundus, Roma 1980, p. XXXIII n. 40; fondamentalmente, è R. Reitzenstein, Epigramm und Skolion, Giessen 1893, pp. 58–59 e 84, a datare Teognide agli inizi del V sec. a. C., sulle base dei vv. 775–784 assegnati agli anni 480–479 a. C.] [3 Rossi tornerà sulla questione nel suo saggio L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in G. Arrighetti (ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Con-
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l’epinicio pindarico), c’è da dire che il corpus teognideo non è un’opera unitaria neanche secondo criteri antichi, perché è una raccolta di brevi composizioni in distici elegiaci, che erano destinate ad essere cantate nel simposio[4], molte delle quali non si possono neanche far risalire a Teognide stesso (ce ne sono di Mimnermo, di Solone etc.). Si tratta di una specie di prontuario per il canto simposiale, l’epoca della cui formazione non è per tutti gli studiosi la stessa, ma non si andrà lontani dal vero se la si supporrà collocata fra V e IV secolo a.C. in Attica, ricordando anche che il materiale, quasi tutto gnomico, è passato attraverso ulteriori filtri (quelli della letteratura gnomologica). Ora, all’interno del corpus teognideo numerosi sono i casi di elegie contigue che mostrano analogia di argomento oppure opposizione polare. Queste elegie contigue, che possono essere anche più di due, sono state opportunamente chiamate ‘coppie’ e ‘catene’5. È naturale trovare fenomeni del genere in una raccolta destinata al simposio, perché l’uso simposiale voleva, almeno in Attica, che una parte dell’intrattenimento musicale avvenisse in questo modo6: i simposiasti (che erano in genere in numero di poco inferiore o superiore a dieci) cantavano tutti, uno dopo l’altro, una breve composizione su proposta di uno di loro passandosi un ramoscello di mirto e dovevano rispettare nelle risposte la tematica offerta dalla proposta del primo: qualcosa di simile a quanto avveniva nel canto bucolico dei pastori, così come ci è tramandato dalla stilizzazione letteraria di Teocrito, specialmente nell’idillio V7. Niente di strano, quindi, nel
|| vegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29.] [4 Rossi stesso è stato il primo in assoluto ad affermare le destinazione simposiale di tutta la lirica monodica arcaica (comprendendo in questa definizione, oltre alla melica – esclusa Saffo –, anche elegia e giambo), nel suo corso del 1979 a Oxford (“Nellie Wallace Lecturership”) dedicato al simposio e alla poesia simposiale. All’epoca della composizione di questo lavoro, la stessa posizione era ammessa per Teognide anche da M. Vetta, Theognis. Elegiarum liber secundus, cit.] 5 M.Vetta, Identificazione di un caso di catena simposiale nel corpus teognideo, in: Lirica greca da Archiloco a Elitis. Studi in onore di F.M. Pontani, Padova 1984, 113–126. 6 Per il simposio in generale v. M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica, Bari (Laterza) 1983, spec. L’introduzione dello stesso Vetta, pp. XI–LX. Per il simposio attico v. spec. P. Von der Mühll, Il simposio greco, ibid. pp. 3–28. 7 Sul canto bucolico v. spec. G. Serrao, La poesia bucolica: realtà campestre e stilizzazione letteraria, in: Storia e civiltà dei Greci, Vol. IX, Milano (Bompiani) 1977, pp. 180–199.
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trovare casi di elegie di contenuto addirittura polare, essendo polarità e analogia espedienti equivalenti a questo scopo8. In casi meno evidenti di questo di Teognide la critica moderna cade ancora qualche volta nell’errore di voler ‘restaurare’ i testi e di renderli ‘coerenti’ secondo criteri che sono solo nostri, moderni: e allora scattano i meccanismi della correzione, dell’espunzione e quant’altro può escogitare e ha escogitato ogni critica razionalistica (il positivismo dell’Ottocento ha dato esempi anche illustri di tale comportamento). Il concetto di unità dell’opera letteraria è per gli antichi – lo ripeto – molto diverso dal nostro: e, per di più, neanche per loro la raccolta teognidea poteva valere come un’opera unitaria. Per nessuno, quindi, uno dei due distici può essere espunto: la contraddizione può e deve restare, ma bisogna in qualche modo spiegarcela. Perché, se la compresenza dei due distici ci risulta spiegata e risolta nel contesto del corpus teognideo9, essa presenta nondimeno una contraddizione concettuale nel contesto della cultura arcaica e tardo arcaica. Può sembrare strano che si possano affermare due cose in così stridente contrasto l’una con l’altra. Dei due modi di vedere la ricchezza e la povertà uno è vero e l’altro è falso, oppure tutti e due hanno diritto di cittadinanza? Si impone qui un chiarimento di ordine storico–culturale, non meno importante di quello che abbiamo offerto prima nel quadro delle istituzioni letterarie. Nella Grecia arcaica e classica la valutazione etico–sociale dominante è quella della ricchezza come valore positivo e della povertà come valore negativo. Per orientarsi sui termini dell’opposizione, bisogna dare in partenza un chiaro punto di riferimento terminologico10. Se πλοῦτος si può rendere con ‘ricchezza’, la corrispondenza πενία / ‘povertà’ non rende giustizia ai contenuti culturali. Πένης non è il povero in senso nostro, bensì colui che vive del proprio lavoro. Il vero contrapposto polare moderno alla ricchezza, e cioè la miseria, è per gli antichi l’accattone, lo πτωχός, che in realtà, almeno fino al V secolo, è fuori da ogni valutazione sociale, perché è al di fuori della società. L’opposizio|| 8 G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy. Two types of argumentation in early Greek thought, Cambridge 1966 (per il pensiero filosofico in generale). [9 Rossi quindi riconosce e identifica in 1153–1154/1155–1156 una ‘coppia simposiale’; tuttavia prima di lui già F. Wendorff, Ex usu convivali Theognideam syllogen fluxisse demonstratur, Diss. Berolini 1902, p. 63.] 10 Fondamentale resta H. Bolkestein, Wohltätigkeit und Armenpflege im Vorchristlichen Altertum. Ein Beitrag zum Problem “Moral und Gesellschaft”, Utrecht 1939 , spec. pp. 181–189.
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ne polare risulta quindi essere sempre ricchezza/povertà, ma povertà nel senso loro, e cioè la vita semplice di chi se la guadagna giorno per giorno. Cercherò di dare un quadro sintetico delle valutazioni che, nell’arco della cultura arcaica e classica, sono state date della ricchezza e della povertà. Parlerò di ‘ricchezza positiva’ contrapposta a ‘povertà negativa’ e viceversa. La ricchezza positiva è la norma in epoca arcaica e classica (diciamo, grosso modo, da Omero a tutto il V sec. a.C.): essa è sempre un bene, sia dal punto di vista etico sia da quello politico, perché il nobile è ricco e il ricco può diventare nobile, conquistando il potere, per esempio. La ricchezza è la base per la libera manifestazione della persona e, specialmente per chi ha in mano il potere, ne è il principale strumento. Pensiamo alle lodi che Pindaro fa al tiranno siciliano Ierone per il modo generoso, da tiranno illuminato, con cui spende il suo danaro. Complementare alla ricchezza positiva è la povertà negativa. A parte i mezzi scarsi o nulli che il povero ha per affermare la sua personalità, egli è anche un pericolo sociale, origine di instabilità, essendo naturale per lui ricercare il nuovo, il cambiamento, la rivoluzione. Nel corpus teognideo sono frequenti le esorcizzazioni della povertà: 351 ss. “Miserabile Πενία, va’ dagli altri”; 384 s. “la πενία, madre dell’impotenza”; 177 s. “l’uomo oppresso dalla πενία non può né parlare né agire, e la sua lingua è legata”. E molte altre ancora. Ora, come si può conciliare, dal punto di vista culturale, la presenza, nel secondo dei due distici teognidei considerati in apertura, di un’affermazione nella quale la povertà è vista in luce positiva? Teognide è un rappresentante della Megara oligarchica e, anche se i due distici appartenessero allo strato attico, in Attica nel V sec. la valutazione dominante continuava ad essere quella che abbiamo già esposta. Per risolvere questo problema storico–esegetico così importante, bisogna allargare l’orizzonte cronologico e spostarsi sulla filosofia. Per trovare documentazione di povertà positiva e di ricchezza negativa, basta considerare la filosofia post–socratica e precisamente la filosofia dei cinici, quella che da alcuni è stata definita “la filosofia del proletariato”; e anche quella degli stoici e degli epicurei (il λάθε βιώσας, il vivere nascosti), che trasmetteranno questi concetti, trasformandoli in tematica letteraria, alla letteratura più tarda, specialmente latina, anche attraverso la cosiddetta diatriba stoico–cinica: maggiori di quelli causati dalla povertà sono i danni causati dalla ricchezza. Quest’ultima spinge alla ὕβρις, alla dismisura (anche in arcaico la ὕβρις era condannata, ma derivava da spinte interiori, non dal semplice potere del danaro). E la comple-
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mentare povertà positiva si esprime nella filosofia del contentus vivere parvo (Tib. 1.1.25), del non cercare le cure e gli affanni che dà la ricchezza. Il privilegiare la vita semplice e perciò stesso felice nasce da una elaborazione etica delle scuole filosofiche, a cominciare dal IV sec. in poi. La filosofia cinica11, nel suo sovvertimento dei valori sociali tradizionali, arriva fino a dare statuto positivo allo πτωχός, all’accattone. Dal canto loro, la letteratura e l’arte figurativa dell’età ellenistica sono ricche di esempi di tematica del genere. Quest’ultima privilegia quell’ispirazione realistica che ne è una delle caratteristiche salienti (pensiamo alle tante figure senili, uomini e donne rugosi e poveri). Nella letteratura segnalo un’opera importante come l’Ecale di Callimaco, dove viene narrata la vicenda di Teseo che va ad uccidere il toro di Maratona e che si ferma nella povera capanna della vecchia Ecale che lo ospita. Non si tratta soltanto di realismo, ma anche di una specie di manierismo, per così dire, pauperistico: la povertà è addirittura vagheggiata e vezzeggiata con un sentimentalismo che ricorda la letteratura bohémienne del decadentismo europeo. Qualcosa di simile si ritrova nello peudo–teocriteo Idillio XXI, dove lo stesso avviene per la descrizione della povera e semplice vita di due pescatori. Ma questi diventano poi, nel dettaglio, sviluppi del gusto. L’importante è che povertà e ricchezza subiscono, almeno dal principio del IV secolo a.C. in poi, una rivoluzione nella valutazione etico–sociale, che poi approderà nel Cristianesimo a posizioni che è per noi troppo facile (e pericoloso!) sovrapporre a testi che sono ad esse del tutto estranei. E vediamo come possiamo ora utilizzare le precisazioni che abbiamo esposte per la lettura corretta dei due distici teognidei, e soprattutto per il corretto inquadramento del secondo. Si dovrà forse dire che il secondo distico è più tardo del primo e che magari appartiene al IV secolo o addirittura a un’epoca più tarda? Questo non sembra possibile, perché (a parte considerazioni sulla storia del testo del corpus ) deve appartenere ad un momento in cui la prassi simposiale della coppia o della catena è ancora produttiva, e non si può scendere troppo nella cronologia, perché questa prassi non è più creativa dal principio del IV secolo in poi. O, come fa van Groningen nel suo pur dotto e utile commento12, ci si può contentare di
|| 11 Per i cinici l’indispensabile strumento di riferimento oggi è G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum reliquiae, Voll. I–IV, Napoli (Bibliopolis) 1990 (v. il vol. II per i frammenti e il vol. IV per le note di esegesi). 12 B.A. van Groningen, Théognis. Le premier livre édité avec un commentaire, Amsterdam 1966, ad. loc.
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dire che si tratta di “una risposta virtuosa”? Ormai possiamo scartare questa spiegazione con un sorriso irriverente: per la cultura greca sia arcaica e classica sia posteriore la scelta della povertà non si può certo configurare come una ‘rinuncia’ nel senso cristiano del termine (neanche nei cinici). E quando poi lo stesso van Groningen aggiunge che “l’idea che vi si trova espressa è molto più rara nella letteratura greca di quanto non sia l’altra” (e cioè quella del primo distico, la ricchezza positiva), non fa che enunciare un dato di fatto senza spiegarlo; o quando ancora van Groningen dice che il secondo distico nasce dall’“amore dell’antitesi che caratterizza il pensiero greco fin dalle origini”, preciseremo dicendo che quest’amore dell’antitesi non è quello generico del pensiero greco – di cui abbiamo anche accennato sopra all’inizio –, ma è quello specifico dell’agone in ogni sua forma e qui, in particolare, quello della tecnica simposiale della proposta e della risposta; e d’altra parte questa passione dei greci per l’antitesi, e nel canto simposiale questa ‘necessità’ dell’antitesi, non li ha mai portati a formulare cose per loro gratuite o assurde. È molto ovvio pensare che le idee sulla povertà che si vanno organizzando in sistema filosofico a partire dal principio del IV secolo, e che entrano a far parte della tematica letteraria specialmente poco più tardi nella letteratura alessandrina, circolassero già nel V secolo in strati sociali più bassi. Bisognerà allora immaginarsi un simposio socialmente misto, composto di ricchi nobili e di poveretti? Certamente no: il simposio è uno spazio chiuso, riservato ai membri di una confraternita politica o quanto meno socialmente omogeneo. Non abbiamo nessun bisogno di postulare un simile assurdo. La verità, ovvia, è che la necessità simposiale dell’antitesi ha portato il rispondente, ricco e nobile appartenente alla stessa classe sociale del proponente, a pescare in un patrimonio dossografico etico estraneo alla sua classe sociale, ma ovviamente a tutti familiare in quanto appartenente a quello di classi sociali più basse, che vivevano a stretto contatto con l’ambiente dei nobili nella polis arcaica e classica. Un semplice ‘gioco delle parti’, dunque, che è fattore essenziale della prassi musicale del simposio. I singoli prodotti letterari della Grecia arcaica e classica si possono capire solo se li si riporta al loro genere letterario, che è sempre in funzione di una occasione concreta, di una celebrazione comunitaria13. Tutto appare, credo, ormai chiaro. Ma è anche vero che per arrivare a questa chiarezza abbiamo dovuto – come si diceva all’inizio – liberare il testo antico da || 13 Per i generi letterari posso rimandare al mio I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, “Bull. Inst.Class.Studies”, London , 18, 1971, pp. 69–94.
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quelle incrostazioni moderne che capita così spesso di sovrapporre ad esso e che lo rendono pericolosamente falsato.
Suggerimenti didattici. Far fare agli studenti una ricerca lessicale su parole– chiave come le seguenti: πενία, πένης, πένεσθαι da una parte e πτωχεία, πτωχός, πτωχεύειν dall’altra. A queste se ne possono aggiungere altre, che vengono più o meno precisamente determinate nel loro valore a seconda del contesto e dell’epoca in cui sono attestate: ἔνδεια, ἐνδεής, ἀπορία, ἄπορος, ἀπορεῖν, ἀχρηματία, ἀχρήματος, σπάνις, σπανίζειν etc.
Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6–9 V. e carm. conv. 891 P.) È noto che il simposio creativo, quello che compone carmi per opera di poeti che li firmano, culmina e finisce con le composizioni simposiali di Pindaro e di Bacchilide, oltre che con quelle degli elegiaci Eueno e Dionisio Calco. Nel V e nel IV secolo il simposio adotta sia la breve canzonetta improvvisata, secondo la definizione di Severyns1, sia il ‘riuso’ di carmi o parti di carmi di poeti più antichi. È chiaro che in questi casi di riuso non si può parlare di derivazione da un modello o da una fonte, secondo i criteri della critica positivistica. Se la composizione arcaica viene ripresa più o meno di peso, da una parte si può dire che si tratta dello stesso testo, e dall’altra si dovrà invece vederla in una individuallità nuova, che pone i due testi, in sé distinti, in una intertestualità di tipo particolare. Quando un’ode o una strofe di Alceo viene riusata nel simposio attico, il suo contesto socioculturale e linguistico cambia, trasferendosi dalla Lesbo del principio del VI secolo all’Atene del V. E nel caso poi che il canto riusato si sia stabilmente inserito nel repertorio del simposio attico, i due testi — perché di due testi distinti ormai si tratta — hanno ognuno una propria tradizione con vicende particolari. Ho descritto in termini astratti la situazione di un caso concreto di riuso che da una parte offre l’occasione di un restauro testuale e dall’altra si presta a considerazioni di qualche interesse sulle vicende delle due indipendenti tradizioni. Si tratta di Alc. 249, 6–9 V.: ].[ ]..oν χ[ό]ϱον αἰ..[ ]. νᾶα φ[εϱ]έσδυγον ]ην γὰϱ ο[ὐ]ϰ ἄϱηον ]ω ϰατέχην ἀήταις ἐ˼ϰ̣ γᾶς χϱῆ πϱοΐδην πλó˻ov αἴ τις δύνατα˼ι ϰαὶ π˻αλ˼ά̣μάν ἔ˻χ˼η,
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|| [Conferenza al seminario romano (Mc 2.3.1983, Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma); pubblicata in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili, I, Roma, GEI, 1993, pp. 237–246] 1 A. Severyns, ‘Proclos et la chanson de table’, in Mélanges Bidez II, Bruxelles 1934, pp. 835– 856. Per la poesia simposiale in generale vd. Poesia e simposio nella Grecia antica, a cura di M. Vetta, Roma–Bari 1983 (spec. l’introduz. del curatore) e Sympotica, ed. by O. Murray, Oxford 1990. https://doi.org/10.1515/9783110648126-026
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ἐπεὶ δέ ϰ’ ἐν π˼óv˻τῳ γ˼ένηται τῲ παϱέοντι †τϱέχειν† ἀνά˼γϰα. μ]αχάνα ἄν]εμος φέϱ[ ]εν ]. ι̣[
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e di carm. conv. 891 Page (ap. Athen. XV 695a): ἐϰ γῆς χϱὴ ϰατίδην πλόον εἴ τις δύναιτο ϰαὶ παλάμην ἔχοι ἐπεὶ δέ ϰ’ ἐν πόντῳ γένηται τῷ παϱεόντι τϱέχειν ἀνάγϰη.
Il carme conviviale è l’ottavo della raccolta trasmessaci da Ateneo, e, a cominciare da Stefano, vi si era riconosciuta una composizione di Alceo per ovvie considerazioni di contenuto (la tematica della nave e della tempesta), per la forma metrica (strofe alcaica) e per alcuni fatti dialettali, fra i quali è notevole la conservazione del vocalismo eolico in ϰατίδην nel cod. A (mentre l’Epitome ha l’atticizzazione ϰατιδεῖν). Il papiro di Alceo, del sec. I a.C. ο I d.C., comparve nel 1951, pubblicato da Lobel nel vol. XXI di Ossirinco (P. Oxy. 2298) e ci diede la conferma della paternità originariamente alcaica della strofe, restituendoci anche il contesto originario della strofe stessa, che faceva parte di un carme di più strofe (appaiono frammenti di cinque versi prima e di quattro versi dopo la nostra strofe). Ateneo ci presenta nel carme conviviale alcune atticizzazioni per così dire innocue, proprio perché usuali in casi del genere e significative per quella che appare una ‘tolleranza’ della mistione dialettale, che sarà da attribuirsi non sempre solo ad interventi della tradizione manoscritta, ma anche ad atticizzazione dovuta al riuso: 1 γῆς, 2 εἰ, παλάμην, 4 ἀνάγϰη (a parte i fatti di solo accento). Un caso, invece, di possibile atticizzazione per così dire violenta è 4 τϱέχειν, a cui purtroppo nel v. 9 di Alceo corrisponde lacuna del papiro: creerebbe infatti, trasferito in Alceo, una correptio attica non proprio normale. Non mi soffermo su questa difficoltà, che ha dato e dà da fare ai filologi2 e lascio anche da parte l’alternativa congiuntivi / ottativi in Alc. 7 / carm. 2. Vorrei invece dirigere l’attenzione sull’alternativa Alc. 6 πϱοΐδην vs. carm. conv. 1 ϰατίδην, dove mi pare che si possa raggiungere un progresso. Tutti sembrano concordi nel considerare πϱοΐδην del papiro, col suo valore di ‘preve-
|| 2 B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma–Bari 19892, p. 282 n. 135 e in Sileno 10, 1984, p. 242 s.
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dere’, lezione autentica rispetto a ϰατίδην del carme, che sarebbe inaccettabile per il significato. Πϱοοϱάω (LSJ s. v., vd. anche s. v. πϱοεῖδον) significa ‘veder davanti’, sia in senso spaziale (Hom.) sia in senso temporale (e mentale) come ‘prevedere’ (fin da Pind. N. 1, 27). Barner3 precisa che un senso spaziale di πϱοΐδην nel testo alcaico non è da escludere, visto che c’è ἐϰ γᾶς (ma vedremo che c’è una possibilità più precisa e specializzata di esprimere col verbo la spazialità). È forse da questo accenno e sicuramente su questa linea che Rösler4 fa un timido passo avanti per giustificare quella che crede (con tutti) la corruzione ϰατίδην, dicendo che sulle ragioni per la corruzione si possono fare solo ipotesi, ma che potrebbe esserci l’influenza di qualche concezione spaziale: “auf das Meer (herab)blicken und die (in Aussicht genommene) Fahrtroute betrachten”. Ebbene, mi pare che Rösler, avendo avuto una felice intuizione nel giustificare ϰατίδην come corruzione, si sia fermato a mezza strada e si sia lasciato sfuggire l’occasione di spiegarlo come lezione giusta. ‘Vedere’, ‘esplorare’ da terra il viaggio per mare: ϰατα– ‘da terra a mare’. È questo quanto spero di dimostrare in quel che segue. Vediamo che cosa ci dicono i lessici su ϰαϑοϱάω. Secondo LSJ (s. v., e vd. anche ϰατεῖδον) significa ‘guardar giù; guardar giù proteggendo (detto di dèi); vedere distintamente, avere nel proprio campo visuale; osservare, percepire, esplorare’ (e cfr. i valori di ‘esplorazione’ per sostantivi come ϰατοπτήϱ, ϰατόπτης, ϰατάσϰοπος): tutti significati di ragguardevole antichità; nei Settanta è ‘aver riverenza, rispetto per’. È strano che, con questa documentazione lessicografica, gli esegeti si siano tutti espressi in senso così negativo per il valore da dare a ϰατίδην (vd. i valori sottolineati qui sopra): basti ricordare con quanta decisione Page5, d’accordo con Lobel, esclude il valore di “to catch sight of”. Ma i lessici vanno integrati con una raccolta di materiale offerta recentemente da R. Nicolai6, che, per l’esegesi di passi di letteratura geografica, accerta che i due avverbi ἄνω / ϰάτω (e corrispondentemente le preposizioni / preverbi ἀνά / ϰατά) “costituiscono un sistema di localizzazione relativa a un punto di riferimento”, che non è mai assoluto o astratto, ma è sempre frutto di una scelta dell’osservatore, che per lo più è la posizione stessa dell’osservatore. Le due
|| 3 W. Barner, Neuere Alkaios–Papyri aus Oxyrhynchos, Hildesheim 1967, p. 117 e nn. 4, 5. 4 W. Rösler, Dichter und Gruppe, München 1980, p. 97 n. 116. 5 D. Page, Sappho and Alcaeus, Oxford 1955, p. 197. 6 R. Nicolai, ‘Un sistema di localizzazione relativa. Aorsi e Siraci in Strab. XI 5, 7–8’, in Strabone. Contributi allo studio della personalità e dell’opera, a cura di F. Prontera, Rimini 1984, pp. 101–125, e precisam. 102–112.
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coppie hanno un valore spaziale per così dire ‘in divenire’, significando ἄνω e ἀνά una direzione verso l’interno (o verso monte) e ϰάτω e ϰατά una direzione verso valle e verso la costa. Quando il punto di osservazione sia la costa, è ovvio indicare con ϰάτω / ϰατά la direzione verso il mare: tutti ricordiamo la definizione di Max Weber delle civiltà antiche come “civiltà costiere”. Aggiungo un esempio di letteratura lessicografica come Hesych. ϰ 1005 Latte, dove s. v. ϰατά gli interpretamenta ἐξ, ἀπό, εἰς sono di per sé eloquenti (vd. anche Phot. Lex. I p. 315 Naber). Mi pare anche significativo che parole come ϰάϑοδος, ϰατάβασις e specialmente ϰατάπλους, con i verbi corrispondenti, abbiano una loro bivalenza semantica fra l’‘andare’ e il ‘tornare’, che si spiega, appunto, con la scelta del punto di vista. E segnalo infine due occorrenze molto chiare: una in senso proprio (carm. conv. 917 c, 9 P. ϰαϑόϱα πέλαγος, secondo Page ad loc. del IV sec. a.C.) e una in senso metaforico (Theogn. 905 ϰατιδεῖν βιότου τέλος). Nel nostro contesto, che presenta gnomicamente la situazione di chi da terra si prepari alla navigazione, ἐϰ γᾶς (ἐϰ γῆς) ϰατίδην significherà ‘scrutare da terra’ (ovviamente con l’intenzione di prevedere il tempo che farà) e quindi ϰατίδην πλόον è la locuzione attesa per ‘scrutare da terra il momento giusto per la navigazione’: già in Hes. op. 630, 678 πλόος ha il valore di ‘momento opportuno per la navigazione’; e una conferma ne è l’endiadi ϰαιϱòς ϰαὶ πλοῦς in Soph. Phil. 1451. Che la posizione dell’osservatore sia la costa, il porto, è reso sicuro non solo da ἐϰ γᾶς, ma anche da Alc. 8 = carm. 3 “e quando poi ci si trovi in mare”. La conservazione nel carme simposiale della forma eolica dell’infinito non lascia dubbi sul fatto che la lezione autentica sia ϰατίδην7. Si tratta, a mio parere, di un termine tecnico della navigazione8, che come tale è un candidato naturale alla dignità di lectio difficilior. O meglio, in vista della documentazione portata sopra, alla lingua speciale appartiene l’intero nesso ϰατίδην πλόον: e la conservazione dell’eolismo metricamente gratuito di ϰατίδην sarà stata favorita dall’eolismo metricamente necessario di πλόον. Πϱοΐδην è una palese banalizzazione, specie se la si considera in contesto con ἐϰ γᾶς e in nesso con πλόον. Il componente ‘vedere’ ha portato con sé il componente ‘pre–’, un verbo ovvio, tanto ovvio da essere banale. E se si vuole una (pleonastica) documentazione di questa ovvietà (contiguità delle due operazioni, quella spaziale–visiva di osservare e quella mentale di prevedere), la si può trovare in Polyb. 3, 94, 7 Ἀννίβας
|| 7 Il vocalismo eolico si è potuto affermare nella scrittura dal momento in cui in Attica, dall’arconte Euclide in poi, si è distinto H da EI (debbo l’osservazione ad A. Pardini). 8 Chr. Kurt, Seemännische Fachausdrücke bei Homer. Unter Berücksichtigung Hesiods und der Lyriker bis Bacchylides, Göttingen 1979, pur utile, prende in considerazione la nave e l’equipaggio, ma non il viaggio per mare.
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... ϰατεσϰέπτετο ϰαὶ πϱουνοεῖτο πεϱὶ τῆς χειμασίας, che è un’ulteriore testimonianza di verbo di ‘vedere’ composto con ϰατα–. Una conferma decisiva viene da una considerazione strutturale e funzionale del linguaggio allegorico–metaforico di Alceo. La vera trappola, sia per chi nel corso della trasmissione del testo di Alceo ha introdotto la banalizzazione, sia per i filologi moderni che l’hanno accettata, sta nel fatto che ‘prevedere’ è in realtà tipico del lessico politico fin da età arcaica: lo troviamo per esempio in Solone (1, 67 Gent.–Pr.) nella forma πϱονοήσας e, sempre con quel verbo, in Pittaco (ap. Diog. L. 1, 78), e cioè (trappola fatale!) in ambiente alcaico: ἔλεγέ τε συνετῶν μὲν ἀνδϱῶν, πϱὶν γενέσϑαι τὰ δυσχεϱῆ, πϱονοῆσαι ὅπως μὴ γένηται. È sembrato, così, che Pittaco desse una conferma inconfutabile della bontà della lezione del papiro. Ma ‘prevedere’ è del lessico politico proprio (o di Pittaco o di chi ne riassume il pensiero): qui, al contrario, Alceo usa il lessico metaforico dell’allegoria. È appena necessario che io rimandi proprio alle pagine di Gentili9, che prende in considerazione il lessico marinaro di Alceo (e non solo di Alceo) in rapporto alla creazione di un uso allegorico che tende ad essere quanto mai ‘chiuso’, e cioè coerente, proprio per la sua funzione di lingua speciale e per così dire iniziatica per la comunicazione di contenuti politici all’interno della hetairia. Il nesso tecnico — o, almeno, specifico — ϰατίδην πλόον assicura questa coerenza dell’allegoria, mentre πϱοΐδην la compromette o almeno la sbiadisce, perché la sua generica banalità nega i diritti della lingua speciale creando un vero e proprio ‘vuoto metaforico’ coll’introduzione di una parola che qui è fuori posto, come ci mostra la provvidenziale concorrenza, nell’ambito della tradizione, con la parola giusta (che, se non ci fosse stata tramandata, avrebbe consentito la conservazione di una delle infinite corruzioni ‘nascoste’). Come chi volesse in parte decodificare l’allegoria internamente ad essa, ma che, così facendo, la danneggerebbe creando una allegoria ‘impura’, fatto inusuale in Alceo, che presenta, altrove e in questo carme, un fitto tessuto di termini della marineria. È forse per pigrizia editoriale che il ϰατίδην di Ateneo è rimasto fino al testo di Page dei carmina: tanta opposizione a questa pur preziosa lezione avrebbe dovuto logicamente portare a correggerla, e non perché una lezione eventualmente non alcaica non debba essere conservata nel testimone di un riuso simposiale (secondo me anche gli atticismi vanno conservati, fino a prova contraria), bensì perché la ragione per cui ci si era rifiutati di correggere il papiro di Alceo era stata il trovare difetti semantici in ϰατίδην: o si vuole che una versione simposiale potesse essere così scorretta da ammettere addirittura delle assur|| 9 B. Gentili, op. cit. pp. 257–283: ‘Pragmatica dell’allegoria della nave’.
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dità lessicali? A me sembra — com’è ormai ovvio — che la via sia un’altra: non solo conservare ϰατίδην nel canto simposiale, ma anche restaurarlo in quello che doveva essere il suo luogo originario, e cioè il testo di Alceo. Quanto precede è servito a recuperare un’unità testuale e a dare almeno una spiegazione per l’errore nel testo di Alceo, e cioè la banalizzazione. Ma ora bisognerà presentare per sommi capi le storie, per quanto dicevo prima indipendenti, dei due testi per cercare di individuare i possibili momenti della corruzione. Tengo comunque a mettere subito in rilievo il fatto, in sé non eccezionale, ma certo sempre interessante quando si presenta, che a conservare la lezione esatta sia stata la tradizione simposiale orale10, che per fortuna è stata rispettata dalla tradizione manoscritta di Ateneo. Ci troviamo nella situazione di chi debba considerare già corrotto il testo di un papiro alcaico del I sec. a.C. o del I d.C. rispetto ad una lezione sana trasmessa da un codice, il Marciano A di Ateneo, del sec. X. Sarebbe un caso ovvio di recentior non deterior, e niente più. Ma siamo qui in una condizione privilegiata, perché possiamo valutare la poziorità del recenziore. La raccolta dei carmi conviviali attici che Ateneo ci presenta è indubbiamente un corpus, o per meglio dire — nella sua brevità — un corpusculum (per il suo indubbio ordine interno) e, se non sarà stato formato nel V sec., come voleva Wilamowitz11, sarà almeno un poco più tardo, forse del IV, ma molto più tardo no, visto che Aristotele nella Ath. Pol. ci testimonia l’esistenza di qualcosa di simile (19, 3; 20, 5) con due carmi presenti anche in Ateneo (906 e 907 P.). La strofe di Alceo avrà avuto una trasmissione orale nei simposi fino ad almeno tutto il V sec., per poi fissarsi per iscritto nella silloge (come è avvenuto per Teognide). Il carme di Alceo, invece, arriva alla filologia alessandrina attraverso vicende a noi poco note e poi, dal II || 10 Sull’importanza della tradizione orale, sia nel mondo antico sia in quello moderno, con proposte di orientamento editoriale, vd. B. Gentili, ‘L’arte della filologia’, in La critica testuale greco–latina, oggi. Metodi e problemi. Atti del Convegno Internazionale (Napoli, 29–31 ott. 1979), a cura di E. Flores, Roma 1981, pp. 9–25. Gentili stesso ha risvegliato l’attenzione sull’improvvisazione orale nel mondo moderno in ‘Cultura dell’improvviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca dell’età arcaica e classica’, Strum. critici 39–40, 1979, p. 226 ss. (anche Quad. Urb. n. s. 6 [35], 1980, pp. 17–59). Utili contributi anche in W. Rösler, ‘Alte und neue Mündlichkeit. Über kulturellen Wandel im antiken Griechenland und heute’, Der altsprachliche Unterricht 28, 4, 1985, pp. 4–26. — W. Rösler, ‘Die Alkaios–Überlieferung im 6. und 5. Jahrhundert’, in Actes du VIIe Congrès de la F. I. E. C. I, Budapest 1983, pp. 187–190 è tornato sul rapporto fra il frammento alcaico e il carme simposiale, ma è sempre più decisamente contro il valore della trasmissione simposiale orale del carme: lo definisce “zersungen”, e cioè corrotto attraverso il riuso simposiale. 11 U. von Wilamowitz–Moellendorff, Aristoteles und Athen II, Berlin 1893, p. 316 ss.; Die Textgeschichte der griechischen Lyriker, Berlin 1900, pp. 12, 37 s.
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sec. a.C., comincia la sua storia editoriale moderna (alessandrina), di cui il papiro di Ossirinco è un testimone piuttosto vicino all’inizio. Le due autorità che vanno confrontate sono quindi, all’origine, la tradizione orale del simposio e l’edizione alessandrina, un rapporto cronologico (V sec. / II sec. a.C.) che rovescia quello della documentazione manoscritta (X sec. d.C. / I a. o d.C.). E il motivo della preferenza, confermata dai risultati dell’indagine, è la maggiore affidabilità della tradizione orale rispetto all’attività, che può essere inquinante, della trasmissione scritta, sia essa quella degli alessandrini o, in generale, quella del copista dotto. Sulla base della storia della tradizione dei due testi, c’è da fare ancora una precisazione sul modo come è stata vista la genesi del presunto errore ϰατίδην, sia per chiarirsi le motivazioni della ricerca moderna sia per proporre un diverso corso delle vicende della trasmissione. La strofe comune ai due testi è preceduta nel papiro di Alceo da un verso, il 5, che finisce con ϰατέχην ἀήταις. Non riesco a capire come chi ha notato e sfruttato questo fatto abbia potuto affermare che πϱοΐδην è la lezione giusta. Si sostiene infatti12 che per assimilazione 5 ϰατέχην abbia prodotto un ϰατίδην nel verso successivo, ma non si pensa che il ϰατίδην è presente nella strofe simposiale avulsa dal contesto alcaico, e quindi non contestuale al ϰατέχην! Coloro che sostengono questo dovrebbero precisare che l’errore avrebbe dovuto prodursi in una fase alcaica non solo prealessandrina, ma anche e soprattutto anteriore al distacco della strofe simposiale dal testo alcaico, e quindi anteriore almeno al V sec.: un ramo di una (per loro errata) tradizione alcaica che si sarebbe poi perduto. Questa posizione critica (non resa esplicita fino alle sue implicazioni ultime) verrebbe comunque a postulare un errore tipico di tradizione manoscritta (l’assimilazione: errore grafico o ‘mentale’ che sia) in un’epoca in cui la trasmissione dei testi avveniva per lo più per via orale. Ma — a mio parere — la verità è un’altra, ed è molto più semplice: il testo di Alceo, sano con ϰατίδην, ha partorito per partenogenesi la strofe simposiale (che è rimasta sana attraverso le vicende del corpus, ovvero del corpusculum, e poi di Ateneo) per passare poi alle cure della filologia alessandrina, la quale è lecitamente indiziata di aver perpetrato la corruzione con l’intenzione — forse — di correggere un termine della marineria non più compreso, o non compreso in ambiente grammaticale. O può essersi trattato di una inopportuna glossa poi entrata nel testo. Ma c’è un altro fatto, che si presenta come davvero singolare. Un passo plutarcheo, dai Πολιτιϰὰ παϱαγγέλματα, sembra a prima vista una parafrasi della nostra strofe: || 12 Barner op. cit. p. 117.
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Plut. praec. reip. ger. 798d ἔξω βλέπουσι ναυτιῶντες ϰαὶ ταϱαττόμενοι, μένειν δὲ ϰαὶ χϱῆσϑαι τοῖς παϱοῦσιν ἀνάγχην ἔχοντες.
Il passo era stato sfruttato da Bergk e da Lobel per proporre correzioni (χϱέεσϑ’, μένην) al τϱέχειν del carme conviviale, di cui ho fatto cenno sopra. Ora, se si ritiene di poter fare uso della indubbia somiglianza lessicale e situazionale dei due passi, è sfuggito il nesso ἔξω βλέπουσι, che a mio parere non può essere stato formulato sotto l’influenza di πϱοΐδην, bensì proprio di ϰατίδην con la sua valenza chiaramente spaziale (vd. più su la glossa esichiana). Si dovrà allora concludere che Plutarco ha avuto di fronte un testo di Alceo ancora sano (prealessandrino) o che ha avuto di fronte il testo del carme simposiale? Sarebbe interessante poter provare la prima ipotesi; anche se più probabile appare, se mai, la seconda, che però in fin dei conti non ci direbbe niente di nuovo sulla lezione buona, se non che un ulteriore fruitore del corpusculum l’avrebbe letta, trovata normale e parafrasata. Ma nessuna di queste ipotesi s’impone come necessaria, perché a mio parere non si tratta di una vera e propria parafrasi: in Plutarco — che facendo considerazioni introduttive cita poi il fr. adesp. 1005 Page, per di più non eolico — chi “guarda fuori” (sempre verso il mare) è in alto mare in piena tempesta, mentre nella nostra strofe la posizione dell’osservatore del contesto proverbiale è vista dal porto, prima della navigazione. La situazione è, quindi, diversa e se, da una parte, questo basta ad escludere che si tratti di vera e propria parafrasi, gli innegabili parallelismi lessicali autorizzano a pensare a testi simili, che al tempo di Plutarco erano ovviamente ben più numerosi di oggi. In conclusione: niente meno, ma anche niente più, che un conforto lessicale generico. Aggiungo una postilla. Il carme conviviale 891 è l’unico della silloge di Ateneo ad essere stato tramandato ritmicamente incompleto, e cioè mancante di tre sillabe all’inizio (differente è il caso di 888 P., che certo è mutilo di un intero verso). Il papiro di Alceo non ci è d’aiuto, perché è mutilo proprio all’inizio del v. 6. Sono stati fatti vari tentativi d’integrazione13, ma quello di integrare non è il problema più importante: il problema più importante è capire perché mai la strofe di Alceo si trova, nel testo di Ateneo, mutila dell’inizio. Gioverà, per chiarezza, elencare in ordine cronologico inverso le tre ipotesi che mi paiono possibili: 1) la mutilazione è da imputarsi alla tradizione manoscritta di Ateneo: è l’ipotesi tutto sommato più probabile, anche se sfugge ad ogni verifica14; 2) la mutilazione sarebbe stata fatta da Ateneo, “che nel citare ha trascurato un colle-
|| 13 Riportati in Barner, op. cit. p. 113. 14 S. Nicosia, Tradizione testuale diretta e indiretta dei poeti di Lesbo, Roma 1976, p. 78.
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gamento sintattico per dare maggiore autonomia alla gnome”15: abbastanza improbabile, visto che negli altri casi ha riportato tutti versi integri (a parte poi i dubbi sulla natura puramente sintattica delle tre sillabe mancanti); 3) a mutilare l’inizio sarebbe stata la stessa silloge: ebbene, questa ipotesi ha notevole fascino, perché sarebbe conferma di una silloge minor, nettamente tarda rispetto all’epoca della pratica simposiale viva, perché un vero fruitore simposiale non avrebbe certo tollerato la mutilazione, provvedendo, in caso di eventuale caduta, a integrare suo marte (e la sua integrazione sarebbe stata recepita in redazioni scritte). Ma l’attrattiva maggiore del caso qui presentato sta nel fatto che a conservare almeno una lezione sana è stata inizialmente la tradizione orale del simposio. Quanto i nostri testi, anche moderni, potrebbero giovarsi di fortuita documentazione di tradizione orale?
|| 15 Barner, op. cit. p. 117.
[Interpretazione di Sapph. 31 V.] 24.2.96, consegnata a mano Caro Glenn, il mio meraviglioso gesuita che m’insegnò greco e latino al liceo[1], un toscano di Laterina in Valdarno, diceva: “i’ tempo è poho”. Così ho pensato che le riflessioni venutemi dal tuo splendido seminario di due giorni fa[2] (uno di quelli di cui si continuerà a parlare a lungo nell’ambito del ‘loggione del Regio di Parma’[3]) era meglio che te le consegnassi scritte a mano oggi che ci vediamo a pranzo alla ‘Villetta’[4]. Prima di tutto c’è una mia idea che sarei felice di regalarti se ti piace[5], che mi è venuta rileggendo Sapph. 31 V. dopo il tuo seminario e che voglio sottoporre alla tua riflessione. Ci si è sempre chiesti che razza di composizione è e che oggi dovremmo riuscire a determinare meglio, visto che ci siamo fatti un’idea almeno di alcune delle occasioni per cui Saffo componeva i suoi carmi. Ti segnalo, nella mia Letteratura greca, un ‘servizio’ (a facility) che non viene mai offerto in libri del genere, e cioè la mezza paginetta a p. 878, l’Indice tematico selettivo, e cioè una serie di idee che circolano per il libro. Per quello che ti dico qui sopra guarda alla voce
|| [Lettera indirizzata a Glenn Most. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi e anche in versione a stampa; la cura del testo e le parti aggiunte si devono a Giulio Colesanti] [1 Si tratta di Padre Fortunato Torniai SJ, insegnante di greco e latino all’Istituto “Massimiliano Massimo” di Roma (nella storica sede di “Palazzo Massimo alla Terme”). Rossi ricordava sempre quanto doveva a P. Torniai nella sua formazione (fra le altre cose, lo aveva sensibilizzato alla problematica dei generi letterari), e anche che, per riuscire a prendere appunti senza perdere nulla delle sue lezioni, aveva addirittura imparato la stenografia.] [2 Most al seminario romano di Rossi (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”) aveva parlato G 22.2.1996, ore 16–18, di Saffo riflessiva (fr. 31 Voigt).] [3 Rossi riteneva il suo seminario (nel quale avvenivano sempre discussioni scientificamente valide, a volte anche con interventi privi di timore reverenziale nei confronti dell’oratore di turno) un banco di prova molto serio, e perciò era solito paragonarlo al loggione del Teatro Regio di Parma (ben noto, nel mondo della lirica amato da Rossi, per essere di palato difficile, e propenso a fischiare anche i più grandi cantanti in caso di prestazioni non all’altezza del classico repertorio verdiano).] [4 Storico ristorante romano, in Viale della Piramide Cestia: vicino a casa, era uno dei posti prediletti da Rossi per invitare a pranzo o a cena amici e colleghi.] [5 Non risulta che poi l’idea sia stata utilizzata o citata, come lo stesso Glenn Most mi conferma (email del 19.10.2019).] https://doi.org/10.1515/9783110648126-027
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‘occasioni della pubblicazione’ (ma ti prego, guardati tutte le voci, che ti possono servire come un filo rosso per sapere che cosa penso su una serie di problemi).
Torno a bomba. Scusami se cito troppo la mia Lett. gr. Guarda a p. 160, sub Saffo. La mia idea che 31 V. appartenga ai carmi d’addio alle ragazze che andavano spose (come per es. 94 V., e poi altri due o tre) mi è parsa adesso confermata vedendo nella letteratura secondaria che ci sono parecchi che considerano ὄττις con significato generico (‘ognuno che’ o simili): e non credo che si possa obiettare che ἰσδάνει è indicativo invece che congiuntivo, perché secondo me l’indicativo va bene lo stesso (ma forse si può fare un’aggiunta d’indagine). Se dunque ὄττις è generico, si riferisce a una situazione tipica, che si ripete e che potrebbe (o dovrebbe?) essere quella dell’incontro con l’uomo che la donna sposerà oppure addiritura che sta sposando. Sappiamo quale era il rituale del matrimonio a Lesbo intorno al 600 a.C.? Non sappiamo niente, ma quello di ‘sedere di fronte’ (ἐνάντιός τοι ἰσδάνει) potrebbe essere la posizione della celebrazione del matrimonio (analoga a quella dei due sposi inginocchiati parallelamente davanti all’altare nel matrimonio cristiano). Questa interpretazione dell’occasione (tipica) del carme leverebbe dalle nostre interpretazioni moderne un tocco di (eccessiva) modernità nel senso dell’incontro erotico individuale e non matrimoniale a due fra uomo e donna. Le ragazze uscivano forse tutti i giovedì pomeriggio da sole? Inoltre: se fosse così, tra l’altro, come farebbe Saffo a vedere i due che stanno uno di fronte all’altro? Sarebbe una guardona abusiva oppure sarebbe una guardona autorizzata a sorvegliare le ragazze nei loro incontri a causa della sua funzione di direttrice del collegio femminile per ragazze di buona famiglia (come la intendeva – memento ridere semper6 – il nostro Wilamowitz)? Naturalmente questa interpretazione richiederebbe un’indagine antropologica, che dovrebbe procedere per analogia, vista la poca informazione che possediamo su Lesbo arcaica. Ma avrebbe i vantaggi esposti qui sopra e, mi pare, non sarebbe contraddetta da alcuna seria obiezione. Che ne pensi? Le poche osservazioni che avrei voluto farti al seminario vedo che non ho tempo, adesso, a scrivertele qui (devo correre in Facoltà, prima di venire alla
|| 6 Motto del seminario, un po’ come fais ce que voudras dell’Abbazia di Thélème in Rabelais, che si potrebbe qui aggiornare come au sujet de (au sujet de Sapho): pense ce que voudras au sujet de Sapho.
Interpretazione di Sapph. 31 V. | 393
‘Villetta’). Ma da una parte sono cosa da poco e dall’altra c’è il fatto che il tuo articolo è già stampato[7]: abbiamo dunque tempo. Un abbraccio, che ti darò davvero, dal tuo Chico
|| [7 G. W. Most, Reflecting Sappho, «BICS» 40, 1995, pp. 15–38, poi ripubblicato in versione leggermente diversa in E. Greene (ed.), Re–Reading Sappho. Reception and Transmission, Berkeley – Los Angeles 1996, pp. 11–35.]
Intervento LUIGI ENRICO ROSSI*: Senza riallacciarmi ad alcuna delle relazioni di questi giorni, desidero segnalare un caso singolare, e cioè il modo come un editore può utilizzare l’eventuale presenza di tradizione orale, in qualunque modo essa sia documentabile. Me ne sono occupato recentemente nel lavoro Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6–9 V. e carm. conv. 891 P.), in Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica (Scritti Gentili), Roma 1993, 237– 246. Abbiamo la seguente situazione documentale: Alceo vive intorno al 600 a.C.; da una parte materiale alcaico ha continuato a vivere nel riuso simposiale, e cioè veniva cantato a simposio; dall’altra c’è l’edizione che di Alceo fecero i filologi alessandrini (II sec. a.C.) e che è documentata dai papiri. La tradizione orale simposiale è per noi nei resti di un ‘libro dei canti simposiali’ (trasmesso in Ateneo, II sec. d.C., attraverso il codice Marciano A del sec. X d.C.) che nelle nostre edizioni dei lirici rientra fra i carmina convivalia (e non convivialia, com’è nell’edizione di Page): una raccolta attica che risale al V/IV sec. a.C. e che testimonia il riuso simposiale dei carmi dei lirici. Una strofe alcaica, presente in ambedue questi rami della tradizione, dice più o meno che «bisogna prevedere bene il tempo che farà in mare, perché poi, quando si è in mare, è troppo tardi», e questo in un contesto che è quello dei carmi che appartengono al gruppo della ‘allegoria della nave’ e cioè della vita dello stato soggetta ai pericoli della meteorologia. Per ‘prevedere’ l’edizione alessandrina di Alceo (un papiro, il P. Oxy. 2298, del I sec. a.C. o I sec. d.C.) porta προΐδην, che ha il senso proprio di ‘prevedere’, mentre la tradizione dei carmina (il codice di Ateneo, X sec. d.C.) porta la lezione ϰατίδην, che finora era stata stranamente disprezzata: significa ‘guardare da terra a mare’, con il valore, attestato, di ‘prevedere il tempo che farà’. Ora, quell’allegoria della nave ha tutti termini della marineria e la parola tecnica ci sta benissimo, o meglio è addirittura necessaria, perché lo scialbo ‘prevedere’ sarebbe l’unico termine generico, che risulta quindi essere una banalizzazione operata da filologi alessandrini a cui il termine marinaresco, che provvidenzialmente ci arriva come lectio difficilior, non era più familiare. L’insegnamento
|| [Intervento a convegno (S 27.5.1995), pubblicato in A. Ferrari (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno, Roma 25–27 maggio 1995, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1998, pp. 521–522] * Si inserisce qui questo breve intervento, che in realtà è stato fatto dopo tutte le relazioni previste, a fine Convegno [A. F.]. https://doi.org/10.1515/9783110648126-028
Intervento in A. Ferrari (ed.), Filologia classica e filologia romanza | 395
che ce ne viene qui è la forza conservatrice della tradizione orale del canto a simposio. È come se avessimo una cassetta registrata del VI–V sec. a.C.: un caso singolare. L’unica ragione di eventuale dissenso dalla mia soluzione testuale può essere l’enorme distanza fra i testimoni delle due lezioni, e cioè un codice del X sec. d.C. (Ateneo, portatore della lezione per me giusta) e un papiro di circa mille anni prima (nientemeno che il testo alessandrino di Alceo, portatore però della lezione per me già corrotta). Presentando questo caso come fatto di recentior non deterior chiedo forse troppo? Penso di no. Il tardo Ateneo (II sec. d.C.), con il suo ancor più tardo codice (X sec. d.C.), è secondo me portatore fedele della tradizione simposiale orale (che risale al ‘libro dei canti’ ancora arcaico) e ci ha conservato un prezioso (e necessario) tecnicismo; mentre l’antico papiro porta una lezione corrotta a causa della sviata dottrina dei filologi alessandrini, che non capivano un tecnicismo marinaro, da loro sostituito con una banalizzazione. Mi domando se ci siano molti altri casi del genere, specie in una letteratura come quella romanza, che è ricca di cantari, di poesia epica, di poesia lirica che veniva eseguita e che aveva quindi un suo filone di tradizione orale, alle volte molto più fedele di quella scritta.
La lirica classica e noi. Undici domande di Roberto Antonelli a Maria Grazia Bonanno e a Luigi Enrico Rossi Secondo Hegel, nell’Estetica, la lirica dei greci e dei romani «conserva, nella misura in cui ciò è consentito alla lirica, il tipo plastico della forma d’arte classica. Infatti quel che essa espone di punti di vista sulla vita (…) nonostante ogni perspicua universalità non è tuttavia sottratta alla libera individualità di un autonomo modo di sentire e concepire e si esprime più in modo diretto e proprio che non metaforicamente e per immagini, mentre anche il sentimento soggettivo diviene per sé stesso oggettivo sia in modo più generale sia in forma intuibile». Pensi che tali proposizioni possano ancora costituire un utile elemento di confronto per la critica contemporanea? Rossi: È davvero utile partire dalla bella citazione di Hegel. Le parole di Hegel, tese a definire ‘la lirica’ in sé in chiave idealistica e romantica, si capiscono meglio — perché Hegel non ignorava la storia — se si legge quanto segue, che è più o meno: «E come l’interiorità è di natura plastica, così lo è anche l’esecuzione (musica e danza). Ora, tutto questo [storicamente corretto per quanto riguarda l’esecuzione della lirica] allontana [correttamente] la lirica greca dall’estetica romantica, dove das Innere, l’interiorità del soggetto, dev’essere in primo piano in forma pura, mentre nella lirica arcaica non è così» [chiusa la mia parafrasi]. Hegel prende così le distanze dalla lirica arcaica. Lo provano le belle analisi, che subito dopo seguono, dei vari generi lirici, monodici e corali. Lo avevano capito anche grandi studiosi nella prima metà dell’Ottocento come per es. Boeckh, Welcker. Non è molto però che oggi questa valutazione si è fatta strada: forse qualche decennio, e ci sono tanti che restano imperterriti nella loro vecchia idea che la lirica arcaica stia all’origine della lirica moderna. L’individualità dell’Io, come la intendiamo noi dopo le tante esperienze in prassi e in teoria durate più di duemila anni, è estranea all’Io lirico arcaico, che non esprimeva mai posizioni personali e idiosincratiche, ma piuttosto valori condivisi dalla comunità in cui operavano i poeti: le chiavi per capire quella
|| [Intervista pubblicata in «Critica del testo» 5/1, 2002 (Tra dispersione e riconoscimento: l’Io lirico nella contemporaneità), pp. 265–296]
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poesia in blocco sono l ’ o c c a s i o n e e l a c o m m i s s i o n e : il committente è o la polis, per la grande lirica corale sacra composta in occasione di festività sacrali, o il circolo politico ristretto per la lirica monodica simposiale o il singolo vincitore degli agoni ginnici per l’epinicio. Quando Archiloco dice che ha buttato lo scudo in un cespuglio per salvarsi la vita e che ne troverà uno migliore, non è antiomerico alla ‘poeta maledetto’, ma dice qualcosa che si adatta a un diverso tipo di vita: lui non è un eroe omerico, che per mestiere deve morire con gloria, ma è un soldato di ventura (come i suoi compagni di simposio), che deve lavorare per vivere e vivere per lavorare. E quando dice che preferisce un buon combattente con le gambe storte a un bell’eroe omerico, non fa che riferirsi alla sua guerra, che non è quella epica. E si potrebbero fare tanti altri esempi, che verrà l’occasione di fare dopo. Ne risulta un Io che è piuttosto un ‘ n o i ’ , e questo indipendentemente dal fatto che l’Io grammaticale si riferisca all’Io dell’autore o sia un Io fittizio (persona loquens, coro etc.). In altre parole, per rifarsi a Jakobson: nella poesia arcaica la funzione conativa (o della seconda persona: convincere il proprio gruppo, o i nemici, dell’eccellenza del gruppo stesso e dell’abiezione dei nemici) prevale nettamente sulla funzione espressiva o emotiva (della prima persona), che prevale invece nella lirica moderna, legata sempre molto, a mio parere, all’estetica romantica. Agli arcaici non interessavano certo i risvolti più personali dell’esperienza del poeta: interessavano valori ed esperienze comuni, che venivano celebrati in una occasione precisa, per cementare la coesione del gruppo e per renderlo più consapevole della propria identità. Con la qualifica di Io lirico noi antichisti intendiamo proprio quell’Io che non è totalmente Io, che è cioè soggetto a quella d i f f r a z i o n e f u n z i o n a l e , limitata cioè al circolo più o meno ristretto, ben diversa dalla f r a m m e n t a z i o n e di cui parla la critica moderna per la poesia contemporanea: il messaggio era formulato in un codice condiviso dal limitato circolo dei destinatari, con una autorefenzialità individuale non nulla, ma assai ridotta. Il problema, per noi, si limita a distinguere fra l’Io reale (e qualche volta autobiografico, perché no?) e l’Io fittizio, ambedue, come si dice, ‘di ruolo’. Questa distinzione è più facile per la lirica monodica, destinata al simposio; meno facile per la lirica corale, dove si annida un ulteriore Io, quello del coro che canta e danza. Non si può qui entrare in dettagli. Bonanno: Anche a me sembra bene partire dalla provocatoria inattualità dell’affermazione di Hegel, specialmente per quanto riguarda l’Io lirico greco (un discorso a parte richiederebbe quello latino, così come altra considerazione meriterebbe il ricchissimo contesto hegeliano, intriso di senso fattualmente sto-
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rico, quanto idealmente progressivo e, per forza, sistematico anche a proposito della poesia ‘classica’). Mi fermo per ora ai poeti greci arcaici perché sono questi i lirici greci. Se è vero che la dialettica, anzi, la luttuosa scissione tra soggettivo e oggettivo non si addice né ad Archiloco, né a Saffo o Alceo, né ad Alcmane o Pindaro, etc. — per non distinguere tra poesia cosiddetta monodica e corale — e se è pur vero che, per la lirica greca arcaica, non si dà alcuna soggettiva né oggettiva distinzione tra particolare e universale (malgrado lo stesso Aristotele), non si può conseguentemente accettare, si capisce col senno di oggi, che «il sentimento soggettivo diviene per sé stesso oggettivo sia in modo più generale sia in forma intuibile». Direi subito che il «sentimento soggettivo» pensato da Hegel (ma non solo) quando è espresso dall’Io poetante greco e arcaico, è un «sentimento» o un modo di essere e di fare condiviso da un gruppo, da una cerchia ristretta o da una più vasta comunità, che nel caso dell’Io corale, arriva addirittura a identificarsi con il pubblico della polis (vedi la Sparta di Alcmane). Il poeta parla di sé non solo per sé e men che mai tra sé e sé, ma anche esplicitamente per e fra gli altri: in verità i suoi, se appartenenti a un’eterìa, come nel caso di Archiloco e Alceo, o le sue, come per Saffo le ragazze frequentatrici del tiaso. Quanto a Pindaro, l’altissimo poeta risponde almeno ai suoi altolocati committenti, ma parla anche e soprattutto per sé e la propria fama für ewig, la sola che consenta anche la fama dell’encomiato vincitore o signore (le riflessioni hegeliane in proposito sono certo condivisibili); nonché la fama della civiltà greca, o siciliana che è lo stesso, del suo tempo. Quanto invece al più vecchio Alcmane, il suo Io e il suo Noi corale convivono in una società aperta: la Sparta del VII secolo a. C., per così dire, anticipa il cliché ‘illuministico’ e culturalmente aperto dell’Atene del quinto secolo, senza contare l’attitudine a far proprio il poeta non indigeno (Alcmane, ad esempio, veniva da Sardi), prima di trovarsi costretta a osservare quello stile conservatore, fin troppo obbligato a un codice di appartenenza, conosciuto come le mirage spartiate dal fortunato titolo di Ollier. Una seconda, ma forse preliminare e comunque imprescindibile precisazione, a partire ancora da Hegel, riguarda la nota triade, sistematica e in sequenza ascendente, «epica–lirica–dramma», questa sì assolutamente inaccettabile per la poesia greca e la sua presunta evoluzione (anche qui prescindiamo dalla fulgida e apparentemente contraddittoria affermazione hegeliana che l’esistenza della lirica, come categoria poetica, non si limita «nello sviluppo spirituale di un popolo» ad epoche determinate, ma può fiorire nei tempi più diversi e «principalmente … nell’epoca moderna» in cui ogni individuo si concentra sul proprio modo di vedere e sentire). Parlavamo di evoluzione inaccettabile, e non tanto perché l’arte in quanto tale non progredisce mai, in ogni tempo e luogo,
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quanto perché la poesia greca — prima della definitiva conquista mediatica del libro, che si istituzionalizza in età ellenistica, nel terzo secolo a. C. — è sempre un atto performativo. Performance è quella dell’aedo o rapsodo che interpreta a una voce, davanti al pubblico raccolto nel mégaron palaziale o radunato in un qualsiasi spazio anche ‘popolare’, le gesta degli eroi epici. Performance è l’esibizione del poeta giambico, elegiaco, ditirambico, e più in generale lirico, che interpreta il proprio canto davanti al proprio pubblico. Performance è naturalmente quella teatrale, che tuttavia altro non è che la logica prosecuzione di una poesia niente affatto letteraria (cioè comunicata per litteras), bensì squisitamente teatrale (vale a dire comunicata a parole e a gesti, con canto e musica e, se corale, anche danza) fin dalle origini. Senza contare che fuerunt ante Homerum poetae: epici, si sa, ma qui s’intende lirici, i cui carmi non ci sono arrivati, come rimpiange lo stesso Aristotele. Se non partiamo da questa realtà storicamente e filologicamente ormai acclarata (sia pure in tempi relativamente recenti) rischiamo di non capirci e di non procedere nel nostro colloquio. A che punto è allora la discussione critica sulla questione dell’Io lirico nella poesia greca? Esiste insomma un Io lirico nella poesia classica (greca)? Rossi: Alla prima parte della domanda ha risposto, con la sua competenza, Maria Grazia. Rispondo solo alla seconda parte, facendo una distinzione di fondo. Una cosa è l’Io lirico, che in greco c’è, ma viene, direi, segmentato nei nostri studi di antichistica. E una cosa è la lirica arcaica, che è del tutto diversa dalla nostra, tanto da determinare la funzione dell’Io lirico, come ho già detto e come capiterà di ripetere in seguito. È quindi ovvio che l’Io lirico dipende dalla natura e dalla funzione della poesia stessa. Bonanno: Data la mia premessa, sento di dover incentrare la risposta su un punto: l’Io lirico greco «non è un io idiosincratico», secondo una nota enunciazione di Gentili, che di lirica arcaica s’intende. Da parte mia non lo direi un Io intimistico, ma un Io esternato, partecipato, condiviso. La scoperta, come idealisticamente si vorrebbe, dell’Io da parte dei poeti greci non è dunque la scoperta dell’individualità, pretesa dalla visione romantica e comunque idealistica e poi neoidealistica, ma piuttosto la pratica e la paideia (non tanto quale insegnamento, quanto piuttosto exemplum, testimonianza vissuta o vivibile) di un modo di pensare, agire, amare, ma già di esistere e coesistere in una data società, diversa da quella ‘mitizzata’ dall’epica: una società ‘storicizzata’ e storicizzabile. A questo proposito, semmai, la critica più recente ha messo in dubbio la verità
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dell’Io lirico, sul cui statuto addirittura biografico aveva, ad esempio, giurato la filologia e la critica di marca positivistica. Potrei così ‘virare’ la domanda: «se esiste, certamente, un Io lirico greco, esiste anche in quanto autobiografico, cioè, in sostanza, ‘sincero’ e ‘veridico’?». Dovrei allora rispondere che non sono d’accordo con chi (West, Dover) parla di un Io sempre convenzionale e fittizio mettendo sempre in dubbio la verità delle storie raccontate, ad esempio, da Archiloco (il più grande poeta arcaico, a mio avviso, assieme a Saffo), il quale sarebbe un ‘bugiardo’ contafavole o cantastorie, non solo quanto alle favole esopiche narrate in tono allegorico, ma pure alle sue storie che passano per autobiografiche o comunque personali. Ho già scritto qualcosa in merito, anche per quel che riguarda Saffo, e posso, qui schematizzando, ribadire che le vicende narrate dall’Io lirico greco sono ‘veridiche’, non importa se ‘vere’ (in ogni caso molte verisimilmente si riferiscono alla realtà biografica del poeta), in quanto rispondono allo statuto di ‘necessità’ e ‘verisimiglianza’ indicato poi da Aristotele come proprio della poesia in contrapposizione alla storia. Le vicende devono essere veridiche perché esemplari e comunque controllate da un pubblico che partecipa all’esecuzione poetica: i compagni d’arme così come i concittadini di Archiloco, oppure i compagni di Alceo, o le ragazze ‘scolare’ di Saffo. In tal caso concordo con Dover: i canti sono composti all’interno di comunità relativamente piccole in cui ciascuno conosce ogni cosa dell’altro. Non sono d’accordo, invece, sugli esempi che Dover ritiene falsificabili come «non reali», perché si tratta con tutta evidenza di casi «immaginari» sì, ma in quanto metaforici: l’Io di Anacreonte annuncia di «buttarsi dalla rupe di Leucade» o di «volare verso l’Olimpo con ali leggere» solo perché, nell’un caso come nell’altro, vuol dire che è, infelicemente o felicemente, innamorato. Si sa che la metafora mente per dire la verità, specie in poesia. Funzionale mi è sembrata, e mi sembra, all’esegesi di tali ‘messaggi’ la distinzione aristotelica fra il poetare (narrare o drammatizzare) e lo storiografare. L’Aristotele della Poetica non a caso tace sull’Io lirico che parla di sé, perché evidentemente pare a lui troppo incline a riferire il particolare (kath’hekaston) tipico della storia, piuttosto che all’universale (katholou) proprio della poesia, in questo senso più ‘filosofica’ della storia. L’ansia di salvare la poesia dalla condanna platonica porta Aristotele a rifuggire dall’apprezzamento dell’Io poetico e a esaltare la mimesi tragica, dove il racconto si incarna nell’azione giocata dai personaggi. L’Io poetante, e inquietante, è finalmente sparito, fagocitato dai prattontes che sulla scena mimano in carne ed ossa la praxis mitica, nella fattispecie tragica. Omero aveva almeno avuto il buon gusto di non parlare di sé, ma di narrare in terza persona per introdurre i ‘dialoghi’ tra i personaggi, come dire l’azione teatrale in nuce, mitica e già tragica, di cui appunto sarebbe anche per
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Platone il primo inventore (basterebbe tagliare la sua voce fuori campo). Aristotele, coerentemente, stigmatizza oltre all’Io anche l’uso del nome proprio, caro ai poeti giambici (leggi, ad esempio, Archiloco) e poi ai comici attici, propensi all’onomastì komodein: sarebbe come dire «che cosa Alcibiade ha fatto», cioè storiografare e non mythous poiein, cioè inventare racconti, narrare, poetare, scrivere un testo–per–la–scena. Naturalmente si potrebbe rispondere, ad Aristotele, che anche Archiloco e altri, come Alceo, Anacreonte, etc., hanno composto ‘alla maniera di’ Omero, introducendo altri da sé a parlare: una poesia ‘drammatica’, come la chiamavano gli antichi. Lo stesso Aristotele ammette peraltro che il giambico Archiloco allo scopo di non esercitare il ‘biasimo’ in prima persona, fa parlare, però sua vece, qualcun altro. Altro è invece, senza confronti, l’Io ‘femminile’ di Saffo ad esempio nell’ode della gelosia’ (dove la gelosia non c’entra affatto), imitata non solo da Catullo: l’Io di Saffo sembrerebbe qui rientrare in pieno addirittura nel caso dell’Io idiosincratico, disamato da Aristotele, amatissimo da tutti i poeti anciens e modernes. Il ‘caso’ Saffo è quello che più di tutti, forse, mette in forse l’Io condiviso (ma non certo quello esemplare) proprio della lirica greca arcaica. Anche di questo dovremmo forse discutere più a lungo, ma una cosa almeno è certa: che, se nulla di certo possiamo dire anche a proposito di Phainetai moi kenos, ‘sembra a me simile a un dio quell’uomo che’ etc., almeno qualcosa di verosimile sì. L’ode allude in codice al matrimonio di una alunna del tiaso saffico. La ragazza, ormai donna, ha lasciato o sta per lasciare la propria comunità adolescenziale. Che il matrimonio in questione sia prefigurato o rievocato, non si può, né vale la pena di decidere. Né, tanto meno, di affermare la presenza fisica degli sposi, magari un po’ prima della cerimonia nuziale vera e propria. Poiché, se neppure Saffo si sottrae al dato che «la lirica greca nasce per un punto preciso nel tempo e per un punto preciso nello spazio» (Vetta), non siamo sempre in grado di centrare quel punto preciso nel tempo e nello spazio richiesto dall’odierno approccio storico– funzionale (Rösler). Ma basta recuperare, credo, la verosimiglianza del racconto, dopo l’identificazione, qui non certo problematica, dell’Io lirico. L’ipotesi wilamowitziana di un epitalamio è tramontata (così come superata appare la proposizione hegeliana), e non tanto perché i grandi spiriti (filologici o filosofici) soccombano al tempo, quanto perché anch’essi sono figli del (proprio) tempo che pure hanno segnato in modo indelebile, lasciandoci un’eredità (filologica o filosofica) difficile da reggere sulle nostre debolissime spalle: ma proprio il tempo, per nostra fortuna, si vendica aiutandoci a svelare, mai definitivamente però, la verità sempre nascosta, perché pudica o subdola, del testo. Così, per sgomberare da ogni equivoco questa, forse troppo appassionata, risposta alla tua domanda, sappi, caro Roberto, che, se la mia non so se vocazio-
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ne ma certo professione di filologa, mi obbliga a storicizzare, contestualizzare, leggere e rileggere la parola dei miei amati poeti (né solo greci), sono anche consapevole che la ricezione di questi poeti può essere assolutamente libera e ‘creativa’, come conviene ad ogni opera ‘classica’, per eccellenza opera aperta. Dunque: heri dicebamus. Nell’ode citata, Saffo analizza ed ‘esterna’ le proprie reazioni psico–fisiche (fisiologiche anzi, più che psicologiche) al solo vedere la ragazza (promessa o già sposa). Ciò che ha impressionato gli antichi, poeti e critici, è stato il potere ‘armonizzante’ della poesia saffica, che vince sulla disgregazione del sé e sulla ridda di passioni che lo frantumano: così, ad esempio, l’Anonimo del Sublime che cita l’ode appunto come esempio sublime di poesia. Non saprei se l’Anonimo pensasse a una sorta di ricomposizione del sé frantumato (in senso tuttavia fisiologico) e di riconquista almeno ‘a parole’ dell’Io. Un Io lirico ritrovato, per intenderci, soltanto grazie alla poesia. Come mi è già capitato di scrivere a proposito di questo canto di Saffo — né il primo, che nell’edizione degli Alessandrini è l’ode ad Afrodite, né l’«ultimo», come Leopardi, poeta e filologo, ma anche filosofo, consentirebbe — nessuno dei filologi né dei critici si è accorto che l’Anonimo, nel citarlo, parla, sì, di armonizzazione dei più disparati erotikà pathémata fino a formare una synodos, ma dice pur di sfuggita che Saffo si auto–osserva e si auto–ausculta, (in termini ippocratici): medice cura te ipsum, vorremmo dirle, ma si sa che alla diagnosi, in amore, non può conseguire una terapia. Saffo si auto–analizza fino a capire che l’aspetta (quasi) la morte, proprio perché esamina uno a uno i propri sintomi, che denunciano una distractio della coesione psichica (Privitera), ma già fisica, come fossero allotria (estranei) e dioichómena (scissi), cioè oggettivamente. Forse, valutata in termini propriamente arcaici, l’ode rappresenta la più (dis)articolata e poetica imago sia della nozione non unitaria delle parti del corpo sia della disponibilità dialogica tra l’Io e le singole parti (Snell) tipica della cultura cosiddetta omerica e comunque arcaica. Forse, l’Io liricamente appena recuperato trova subito il modo di disgregarsi, regressivamente (trasgressivamente) al primo accenno di colpo al cuore, naturalmente incurabile. Per concludere, almeno per ora, anche grazie alle ‘eccezionali’ suggestioni saffiche, ritengo che il problema dell’Io, sia monodico sia corale, nella lirica greca arcaica, non permetta una soluzione unica e totalizzante. A una tale poesia — una poesia della performance, i cui mittenti e destinatari hanno già consumato l’occasione del canto in un tempo e in uno spazio comune — non possiamo applicare regole e statuti definitivi, né di stampo romantico o idealistico, né decostruttivo o distruttivo (quello del New Criticism anglosassone), né tanto meno di obsoleta marca positivistica, ma neppure di più recente stampo semiologico. La lirica greca, occasionale e pragmatica, rifrange una realtà da cui sia-
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mo istituzionalmente esclusi: proprio in termini di semiologia del discorso, ripetiamo, non siamo noi i destinatari di quel discorso. In mancanza di verifiche extratestuali o storiche che dir si voglia (ad esempio Erodoto conferma l’esistenza di Rodopi, amante di Carasso, fratello di Saffo, che ne auspica il ritorno ‘in famiglia’ e in salvo non solo dalle onde del mare in tempesta), non possiamo che attenerci alla parola del testo. All’identità dell’Io e dei suoi enunciati (non mancano quelli rivolti a un tu) può giovare la ricerca non tanto del vero perché realmente accaduto, quanto del tipico o, meglio, del verisimile perché aristotelicamente possibile e necessario. Ai veri frammenti autobiografici sarà comunque consentito di affiorare rari nantes nel vasto gorgo della lirica greca arcaica. Oltre che a problemi di rapporti fra Io biografico e Io “convenzionale e fittizio”, si può pensare presso i lirici greci ad una distinzione sessuata fra Io maschile e Io femminile (penso ovviamente, in primo luogo, al caso Saffo e al suo valore anche simbolico nella tradizione occidentale)? Rossi: Non vedo una distinzione che tocchi l’Io lirico: il ‘ruolo’ femminile è sostenuto da parecchi Io in composizioni di poeti maschi (Alceo, per es., ripreso da Orazio). È indubbio peraltro che l’annessione di Saffo all’universo femminile è ovvio, ma non nel senso di un atteggiamento femminista di Saffo. A Lesbo intorno al 600 a. C., e a Sparta anche prima, le donne vivevano in un mondo tutto loro, tanto che per es. a Sparta c’erano agoni ginnici femminili. Per una contrapposizione sociologica e politica mancavano del tutto le premesse, e cioè una vera contrapposizione fra i due sessi, che vivevano in due sfere totalmente distinte. Se poi pensiamo al menadismo, legato ai misteri dionisiaci, si può pensare a uno sfogo catartico istituzionalizzato degli istinti della donna, repressi nella vita quotidiana, ma senza polemica nei confronti del mondo maschile. Se anche guardiamo a un’epoca successiva, all’Atene del V secolo a. C., l’unico mondo greco che conosciamo un po’ di più, è chiaro che in commedie di Aristofane come Lisistrata o le Tesmoforianti l’opposizione fra mondo femminile e mondo maschile è netta, ma comunque, più che politico–polemica, è utopistico–comica: questo rientra in una visione, alla quale aderisco, di un Aristofane che non propone ricette social–politiche, pur legatissimo com’è al mondo della polis, ma presenta situazioni comiche e alle volte utopistiche. Il suo presunto moralismo nel presentare i disordini etico–politici della vita della città serviva a uno scopo di ‘riso comico’ volto a configurare polarmente e contrario la convivenza ideale, così come questa veniva presentata in positivo nelle situazioni utopistiche. Non sappiamo con certezza se le donne fossero ammesse a teatro: comunque sia, o uscendo dal teatro o sentendosi raccontare le commedie
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da chi vi aveva assistito, dubito che registrassero (o addirittura che volessero registrare) come una vera vittoria delle donne quelle due o altre commedie. Le donne avevano canali di sfogo propri, sia istituzionali (come ho detto) sia individuali: le etère, uniche donne colte perché frequentatrici dell’agorà, potevano aspirare perfino a posizioni parapolitiche di rilievo, come Aspasia, amante e consigliera di Pericle. Per ritornare al caso Saffo, la sua descrizione di sfumature psicologiche e sintomatiche è decisamente segnata da esperienze femminili (i carmi di addio per le ragazze che uscivano dal tìaso per andare spose etc.). Quello che vorrei mettere in luce comunque, nella prospettiva performativa dei canti, destinati ad occasioni celebrative — come si diceva prima —, è che Saffo compone carmi destinati non a esprimere esperienze troppo personali e idiosincratiche, ma a fare da cornice a un’occasione comunitaria solenne, dove l’esecuzione musicale comunicava valori e disvalori che erano quelli di tutti. Non che lei non fosse vittima di quelle patologie amorose, ma non componeva i carmi allo scopo di esprimerle e basta, bensì per fornire una cornice a un evento comunitario e addirittura sacrale: era sacerdotessa di Afrodite. Concludo dicendo che Saffo è certamente per il mondo moderno il più grande personaggio femminile della letteratura greca e più popolare di un’Alcesti, di un’Antigone o di una Medea (creazioni peraltro già del mito, prima ancora che della tragedia attica). Bonanno: Non parlerei di una distinzione ‘sessuata’ tra Io maschile e femminile, tanto più che spesso (vedi ad esempio Alceo e Saffo) si canta l’eros all’interno dell’unico e proprio sesso. L’esperienza dell’Io maschile si differenzia da quella dell’Io femminile fuori dal chiuso della vita erotica: cioè nel mondo. Il maschio partecipa alla vita pubblica, guerreggia se del caso. E quando il poeta è meno compromesso con il mondo ‘difficile’ perché viziato dalla protezione di una corte, come Anacreonte, ne percepiamo il gusto per il gioco d’amore, le cui inevitabili pene sono stemperate dall’ironia. Nel caso di Ibico l’amore è invece violento e struggente, e così è del resto per l’austero Pindaro. La magniloquenza di quest’ultimo, e del suo ego, si dispiega comunque negli epinici. Come si vede, il panorama è vasto e vario. È l’occasione, si deve dire, piuttosto che il sesso, a fare il poeta. Certo, la sensibilità di Saffo è assolutamente femminile, non femminista (per carità!). Anche se la ricezione, in questo senso, presso non poche studiose soprattutto statunitensi ha prodotto studi interessanti quanto ideologicamente impegnati. Qui vale, strumentalmente, il detto je prend mon bien où je le trouve. Legittimo applicarlo simbolicamente, per così dire, in caso di emergenza: la causa femminista forse ne ha abusato, anche in funzione della difesa dell’omosessualità. E qui, credo, si è
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commesso un errore, perché l’altissima cifra poetica di Saffo, certo femminile e anche leggibile in chiave femminista, ma con juicio, non si presta allo sventolio delle (pur legittime in quanto odierne) bandiere ‘lesbiche’. Sulla contrapposizione maschile/femminile andrebbero piuttosto chiamate in causa le figure femminili del mito, rappresentato, dopo l’epos, in tragedia e in commedia. Le eroine epiche e tragiche — Elena, Clitemestra, Medea, Antigone, Elettra, Alcesti, Ifigenia etc. — ma anche comiche — Lisistrata e Prassagora o le dolcissime etere di Menandro dopo un’infelice eroina teocritea quale Simeta o l’apolloniana e appassionata Medea (si tratta come si vede di donne, non di dee, per quanto anche queste umane, troppo umane) rappresentano un mondo dove l’Io del personaggio non si confonde con l’Io autoriale come in Saffo. Ma l’Io di Saffo, così come espresso nella solita ode tramandata dall’Anonimo, ha fatto scuola, e non solo quanto alle Incantatrici di Teocrito o alle Argonautiche di Apollonio Rodio (da Catullo a Leopardi fino ai poeti del Novecento). La separazione fra i sessi, nella società greca arcaica, durante tutto il periodo paideutico, legittima l’omosessualità maschile e femminile, l’una e l’altra assolutamente normali e normalmente transitorie, dove l’Io più che mai si confonde con il Noi, anche in poesia, naturalmente. Non c’è nessuna sfida nell’Io lesbico, in senso geografico e dialettale, di Saffo. Con una formula, direi che il suo valore simbolico nella tradizione poetica europea, in senso radicale ed esemplare (se si prescinde dalle forzature attualizzanti) si riduce essenzialmente all’espressione del piacere e del dolore quotidiano, ma senza tragedie: il male di vivere e di amare, non importa chi; il sublime della vista (opsis) e della parola che la descrive. L’oro, anche dei capelli, della figlia Cleide o l’incedere dell’amata Anattoria sono soltanto due esempi indelebilmente impressi negli ‘occhi della mente’ di ogni lettore, virtualmente non solo del mondo occidentale, dove tali esempi hanno fatto scuola di poesia. Come si pone la lirica latina, in ordine alle due domande precedenti, rispetto a quella greca, e con quali conseguenze nella storia della tradizione? Come si pone, rispetto alla seconda domanda, la traduzione catulliana di Saffo? Rossi: Un discorso storico e storico–letterario su questo argomento è ampio e complesso, con alcuni passaggi poco noti. È ormai luogo comune, ma è a mio parere giusto, che la prima lirica d’amore in un senso auroralmente moderno sia l’elegia latina. I suoi legami con l’epigramma ellenistico non sono chiari, ed è un gran peccato che il nuovo Posidippo non ci dia la sezione erotica dei suoi epigrammi, ma l’epigrammatica ellenistica la conosciamo abbastanza bene e possiamo rassegnarci a questo mancato acquisto. Purtroppo non abbiamo suffi-
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cienti testimonianze dei poetae novi. Ma l’elegia latina matura (a cominciare da Catullo, e a seguire con Orazio, Properzio, Ovidio) la conosciamo bene: ci presenta le prime testimonianze a noi note di vere storie ovvero vicende d’amore fra uomo e donna, e questo è stato spiegato con la diversa posizione sociale della donna a Roma, della matrona. La donna in Grecia era o la custode della famiglia o lo strumento del piacere erotico, mentre l’omoerotismo maschile, con i suoi riti d’iniziazione e con la sua limitazione d’età all’adolescenza, non poteva prestarsi a un vero romanzo d’amore, il che invece avviene a Roma fra l’uomo e la donna. Questo, beninteso, con delle convenzioni formali, con dei ‘segnali’ di genere, che però lasciano in chiara luce la personalità di chi scrive. Catullo e Saffo? Certo Catullo la leggeva con una sensibilità romana, più vicina a noi, più moderna. In conclusione: sia in Saffo sia in Catullo c’è un Io, ma è quello di Catullo a essere vicino al nostro. Il modo con cui le vicende erano presentate era quello del personalmente ‘vissuto’ in una storia interiore: è questo che rende la cultura romana vicina a noi. La lirica greca arcaica continuava a venir letta e imitata con angolazione biografica, e così quello che era l’eros arcaico diventò amore e storia di un amore, mentre per gli arcaici possiamo dire che si trattava non di una storia, ma di ‘istantanee’. Causa e conseguenza a un tempo di tale cambiamento era anche il diverso modo di pubblicazione: a Roma niente occasione comunitaria (se non quella di un circolo letterario), niente destinazione alla musica. Una certa fedeltà formale ai modelli è stata fraintesa dai moderni: Orazio per esempio — come ho cercato di mostrare recentemente — è pieno di musica, strumenti musicali, voce: ma è una mimesi del tutto esteriore, dovuta al fatto che questi elementi erano funzionalmente presenti nei modelli, mentre in lui sono frutto di semplice rapporto intertestuale, quanto mai letterario. L’unico carme oraziano destinato alla musica fu il carmen saeculare, come ci testimonia un’epigrafe. Che i carmi di Orazio siano stati più tardi musicati (dalla tarda antichità, al medioevo, fino all’età moderna) non ci dice nulla sulla loro destinazione originaria. E allo stesso modo Orazio è pieno di aemulatio dell’eros lirico arcaico, rivissuto però in chiave nuova, più personale. Bonanno: Aggiungerei brevemente: la poesia latina, che notoriamente si ‘ispira’ a quella greca, se ne allontana per ragioni storiche e, per così dire, ambientali esprimendosi con un Io che è certo più personale, nel senso che è più facile individuarne l’identità singola, anche se non sempre singolare (così in Catullo, Properzio, Ovidio; la ‘liricità’ di Virgilio meriterebbe un’attenzione a parte). Singolare è semmai il modo di tradurre i modelli greci. Ritorno al caso notissimo di Ille mi par esse deo videtur di Catullo, che traducendo liberamente
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la solita ode di Saffo, può ben interpretarsi come il lamento di un geloso, dove però la gelosia (persino ‘motivata, eccome!’: così con animo maschilista ebbe a ‘rinfacciarmi’ spiritosamente un ascoltatore durante una mia chiacchierata sull’argomento) si spegne, sintomo dopo sintomo, mentre resta la ‘fedeltà’ a Saffo circa la reazione emotiva e la sua somatizzazione ogni volta che la «superba visione risorge», per dirla con le parole di Leopardi, o, meno poeticamente, ogni volta che Lesbia si materializza davanti agli occhi di Catullo. In che modo dunque la tradizione classica, per quel che riguarda l’Io lirico o le deduzioni che dalla tradizione classica si sono fatte riguardo all’Io lirico, è stata recepita in Occidente? Rossi: La lirica greca arcaica e tardo–arcaica si distingue da ogni forma lirica che la ha seguita, e questo per ragioni di condizioni esterne della comunicazione, che hanno configurato società particolari: auralità, e cioè natura non libresca della comunicazione (face–to–face society), seguita nel IV–III secolo a. C. dalla cultura gradualmente preponderante del libro, manufatto che ha dato origine a un’istituzione letteraria nuova, e cioè il liber poetico, ‘costruito’ dall’autore, in età ellenistico–romana. Gli arcaici non si sognavano di costruire un liber: licenziavano i loro carmi, senza raccoglierli. Parlare della lirica greca arcaica come dell’inizio dell’esperienza lirica moderna è un’ingenuità, un errore di valutazione che si è fatto fino a pochi decenni fa (per es. da Quasimodo, nella sua introduzione ai Lirici greci del 1940). Diciamocelo chiaramente: dell’Io lirico arcaico abbiamo parlato per necessità soprattutto noi antichisti, sottraendone quasi tutte le molteplici valenze (e relative distinzioni) all’ambito dell’Io lirico moderno. Ne ho parlato per decenni nelle mie lezioni, al principio col timore (alle volte a ragione) di essere bollato come eretico: i primi tempi che professavo questo credo ricevevo reazioni o del tutto negative (da parte di allievi che poi, più tardi, mi confessavano che si erano convinti) o titubanti, come quelle di chi mi chiedeva timidamente di salvare almeno Archiloco e Saffo, profondamente radicati in una tradizione scolastica che dava loro un’identità falsa. Il colmo del trauma lo ho raggiunto quando ho definito i lirici arcaici monodici come dei c a n t a u t o r i , di altissima qualità, beninteso, ma pur sempre tali. Da alcuni anni la situazione è diversa: la scuola è vischiosa, ma vivaddio non impermeabile. Quanto ha giocato l’esistenza di una lirica “moderna”, cristiano–romanza, nell’impatto della lirica greca e latina sulla nostra modernità?
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Rossi: Parlerei di un impatto, ovvero di una vera fortuna, solo dell’elegia latina e anche dell’epica latina, soprattutto Virgilio e l’Ovidio delle Metamorfosi, oltre a quello più propriamente elegiaco. Quanto ai greci, direi che la loro fortuna è stata affidata, in mancanza di sufficienti testi (lo dirò fra poco) e di una consapevolezza critica adeguata, a dei clichés del tutto falsi, come Archiloco individualmente antiomerico (ne ho già parlato), o Alceo poeta antitirannico (mentre era solo un capoparte che si contrapponeva ad altri) etc. Ovidio è stato certamente molto importante: Amores, Heroides, Medicamina faciei femineae, Ars amatoria, Remedia amoris hanno avuto grande fortuna letteraria, sia pure inferiore alle Metamorfosi, non interrotta dalla damnatio augustea (basterebbero a testimoniarla i graffiti pompeiani). Dante lo mette fra i grandi latini. La fortuna dell’Ovidio elegiaco è dovuta anche dalla richiesta di poema didascalico (che nasce in età ellenistica, e non certo con Esiodo) da parte del pubblico, che ne tesaurizza le sententiae generales in un campo sensibile come l’amore e l’eros. Il suo distacco spesso ironico e dissacrante nei confronti dell’amore e anche dell’eros hanno fatto dubitare molti critici dell’autenticità biografica, e a ragione: se il suo Io va scisso, deve esserlo però non al modo dei lirici greci arcaici fra l’Io autentico e l’Io comunitario (‘noi’), bensì fra l’Io autentico e l’Io letterario: è quando mi trovo confrontato con questi prodotti letterari che sento un forte disagio nel chiamare ‘letteratura’ quella greca arcaica e classica, così legata al momento dell’occasione. Conto di venir capito, senza entrare in spossanti questioni di terminologia. Bonanno: Certo, la non conoscenza (a prescindere dalla lingua greca) dei lirici greci, solo filtrati attraverso i poeti latini, è un dato a volte sconcertante, in quanto la «assenza più acuta presenza», detta in termini poetici, della lirica greca a volte produce casi inquietanti (perché inspiegabili) di persistenze non solo di topoi ma di modi e forme particolari. Riccardo Scarcia mi ha spesso affascinato con le sue ipotesi ricostruttive circa un rapporto greco–latino e oltre, per quanto riguarda appunto la poesia greca salvata grazie ai commenti e alle ‘glosse’ già prima della sua riscoperta e delle edizioni critiche (come quella benemerita dello Stephanus è ad esempio, in tempi più tardi e non sospetti, nella biblioteca e sullo scrittoio di Leopardi). Per conto mio, mi limito a citare il caso forse più celebre di «amor cortese», che però rinvia (senza bisogno di mediazione) all’amore «reciproco» della non meno celebre ode ad Afrodite, dove la dea «sorridente nel beato viso» rassicura Saffo, innamorata e timorosa di non essere riamata: «non aver paura perché se ora fugge, presto sarà lei a inseguirti, se per ora non ti risponde, presto ti amerà anche se non vuole». La sacra legge
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dell’antica dea dell’amore e come tale traducibile con «amor che a nullo amato amar perdona», quello stesso «amor che a cor gentil ratto s’apprende» è persino rintracciabile, non solo nella poesia del dolce stil novo dove, come si sa, «al cor gentil ripara sempre amore», ma, quanto all’ineluttabilità dell’amore, oltre che al suo legame con cortesia e gentilezza, nel Roman de la rose e nei romanzi del ciclo arturiano (Francesca e Paolo leggevano il romanzo di Lancillotto!) e nei poeti siciliani e toscani. La si trova teorizzata nel De amore di Andrea Cappellano, ma vige anche presso gli scrittori religiosi di fede cristiana, come motivo dell’obbligo ad amare Dio, a ricambiarne cioè l’amore. Per Santa Caterina «naturalmente l’anima è tratta ad amare quello da cui sé vede essere amata». Le vie dell’amore in poesia sono dunque infinite e, direi, carsiche. Scompaiono e riaffiorano, a volte a dispetto di ogni tentativo storico e filologico di pedinarle appunto in itinere. In generale mi sembra comunque si possa concedere che, pur con ogni interruzione materiale e ovviamente culturale, grazie se non altro alle solite astuzie della storia, il percorso della poesia — da greca e latina, a cristiano–romanza, umanistico–rinascimentale, e via via oltre il Seicento e il Settecento e l’Ottocento, tra classicismo e romanticismo, e fino al Novecento — dimostra una sorta di ‘ansia’ di continuità all’interno della cultura europea e occidentale. In particolare, quale è stato l’impatto storico dei lirici greci? Si può ravvisare un canone privilegiato di auctores? Rossi: Qui bisogna fare un discorso forse un po’ lungo, ma è necessario farlo, per non cadere in equivoci che hanno una lunga storia. Parlare d’impatto storico della lirica greca arcaica propriamente non si può, per quello che sto per dire. Il canone dei lirici greci conosciuti fino alla metà dell’Ottocento era molto modesto. Nell’antichità c’era un canone dei nove lirici, ma nel mondo moderno la storia della fortuna, o sfortuna, dei lirici greci è l’argomento chiave che dobbiamo affrontare. Vorrei offrire qui una breve sintesi del problema storico e critico, ripescando mie notazioni di anni fa rimaste inedite in questa forma. Il mondo antico non ha avuto, nei confronti dei suoi poeti, preoccupazioni storico–culturali: la lettura brutalmente autobiografica comincia già nell’epoca attica. Aristofane già la pratica nelle Tesmoforianti, nelle Rane e altrove: nel poeta la vita e l’opera vengono strettamente correlate l’una all’altra. Questo metodo diventa norma nel peripatetico Cameleonte, che estraeva le notizie biografiche dalle opere degli autori stessi. Del resto Aristotele nella Poetica (48 b 25) diceva che l’uomo nobile rappresenta personaggi nobili, e il contrario avvie-
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ne per l’uomo di bassi sentimenti. I temi trattati dai poeti erano interiorizzati nella personalità dei poeti stessi e, in mancanza di documentazione, si rispondeva così alla richiesta di materiale biografico, e cioè alla richiesta di nuovi modelli etici da proporsi, ora che quelli del mito erano sorpassati. Alla richiesta di biografie risponde proprio la scuola peripatetica. È ovvio che da alcune espressioni dell’Io poetico si poteva, e si può ancora oggi, ricavare materiale biografico: è chiaro però che gli antichi erano, sotto questo aspetto, assai meno prudenti di noi. Dell’elegia latina si è già parlato. Posso solo aggiungere che l’attualizzazione operata dai romani è, nella prassi, innocente e inconsapevole, viste le interpretazioni autobiografiche della teoria. Poche parole basteranno sul medioevo greco e sull’epoca bizantina: prevalsero qui preoccupazioni moralistiche, che presiedevano addirittura ai criteri di conservazione dei testi: testi considerati lesivi della morale o venivano eliminati o venivano isolati (come il secondo libro, omoerotico, di Teognide). Ed era ancora una lettura biografica che assolveva o condannava, insieme, l’opera e l’autore stesso. La storia moderna della lettura dei lirici è, come per gli altri generi, la storia del recupero dei testi, che erano stati falcidiati sia dalle varie selezioni operate sia dai danni materiali, cominciati dall’incendio della Biblioteca di Alessandria e culminati poi nella creazione del cosiddetto Impero latino nel XIII secolo (conseguenza della quarta crociata) e nella presa di Costantinopoli (1453) da parte dei turchi. La lirica è stata la più danneggiata, e azzardo una spiegazione: la massa di testi lirici era più esile rispetto a quella dei testi in prosa, e una falcidia meccanica la ha statisticamente più colpita. Passando, in questa veloce rassegna, all’Umanesimo, la prima cosa da fare è tener presente la ormai scarsa disponibilità dei testi, il corpus della letteratura greca a disposizione dei fruitori. L’umanesimo aveva molta poesia latina, ma della lirica greca aveva un corpus talmente ristretto, che quasi scompare in mezzo alla prosa oratoria e storica, all’epica, al dramma. Ha l’Antologia Planudea, che è epigramma (e che fin da allora veniva messa in rapporto con l’elegia latina). Ma per quanto riguarda la lirica arcaica, è istruttivo sfogliare la prima antologia lirica moderna, che è quella di Enrico Stefano (Henri Étienne, Ginevra 1560, se si prescinde da un precursore, Michaelis Neander, Basilea 1556). Sfogliando la terza edizione (1586: Pindari Olympia, Pythia, Nemea, Isthmia, caeterorum octo lyricorum carmina), si vede che contiene gli epinici di Pindaro, unico corpus completo, e poi scarsi frammenti degli altri otto lirici del canone alessandrino, che nell’ordine di Stefano sono: Alceo, Saffo, Stesicoro, Ibico, Anacreonte, Bacchilide, Simonide, Alcmane. Anacreonte comprende ovviamen-
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te soprattutto le spurie Anacreontiche; per il resto, i frammenti erano ricavati solo da testi largamente circolanti, come Ateneo, Plutarco, Stobeo. Mancava ancora una recensio accurata del resto della tradizione indiretta, ma soprattutto mancava l’apporto, divenuto oggi ingente, dei papiri, che cominciano ad accrescere il corpus dalla metà dell’Ottocento in poi (epocali furono il recupero di buona parte del grande partenio di Alcmane a metà secolo XIX e il Bacchilide della fine dello stesso secolo). Oggi i papiri ci hanno restituito molti testi. Si susseguono edizioni di singoli lirici nel corso del Settecento e del primo Ottocento. Le prime antologie che aspirano a completezza sono quelle di R. Brunck (1776), Fr. Iacobs (1794–1814), Fr. W. Schneidewin (1838), Th. Bergk (1843, fino alla quarta ed. del 1884). La continuazione è storia moderna e contemporanea. Va solo ricordato che l’uso di pubblicare gli autori singolarmente, con dovizia di documentazione, è stato ripreso solo di recente, con Alceo (1925) e Saffo (1927) di E. Lobel e con Anacreonte (1958) di B. Gentili. In questa situazione oggettiva di limitata presenza di testi, c’è da tener conto di un fatto fondamentale: che è del tutto naturale che la lirica europea moderna nasca sulla poesia latina e non su quella greca. Petrarca fu il creatore di un codice linguistico creato sulla lirica e sull’epica latina e di un codice tematico che deve molto all’elegia, sempre latina. Va considerato anche che la conoscenza umanistica del greco ha seguito a distanza la rinascita dei classici latini. Fra Cinquecento e Seicento Pindaro ispirò Ronsard e la Pléiade, ma si trattò soprattutto di fatti formali. La cultura che si propose di entrare (a suo modo) nello spirito dell’ispirazione pindarica fu il grande romanticismo tedesco, e basterà fare i nomi del giovane Goethe e di Hölderlin. Si dovrebbe parlare anche della fortuna di Anacreonte, specie da noi (Chiabrera), ma fondata sulle apocrife Anacreontiche, e di quella di altri lirici, ma è la fortuna di alcuni nomi riempiti di contenuti spesso arbitrari o derivati dal biografismo antico, e per mancanza di materiale testuale e, come vedremo, per scarsa consapevolezza critica. È un paradosso, ma voglio dirlo: è quasi una fortuna che ci fossero pochi testi, così che la maggior parte di essi, venuti alla luce dopo, si sono salvati dai maltrattamenti di una indebita retroattività di codici culturali. Vale la pena mettere l’accento sul fatto che il problema della lettura della lirica greca arcaica (il suo problema storico–estetico) è stato tutto impostato dalla filologia, dai filologi di professione, nel corso degli ultimi due secoli. I filologi non sono stati in grado di esportare questo problema, se non in piccola parte, nel campo della critica letteraria vera e propria in quanto la lirica ha sempre presentato difficoltà tecniche per le condizioni spesso disagevoli della sua (scarsa) conservazione e per l’equivoco, più volte evocato in questa discus-
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sione, sulla sua natura stessa e le sue funzioni. La valutazione critica doveva fondarsi su un accertamento storico (testi frammentari pubblicati criticamente) che nacque dalla ‘scienza dell’antichità’ di Fr. A. Wolf e di A. Boeckh fra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento e che si è piano piano arricchito fino ai giorni nostri. La filologia professionale possedeva l’esclusiva dei crescenti ritrovamenti di testi e li gestiva, necessariamente in proprio, in dibattiti storico– filologici. È per questo che l’apprezzamento storico–letterario corretto si è fatto strada faticosamente soprattutto ad opera dei filologi, rimanendo la cultura letteraria in senso lato in parte ancora ignara e libera di seguire vecchie vie (sbagliate) e di annettere indebitamente, fino ai nostri giorni, la lirica greca arcaica all’ampio impero della lirica moderna europea. E questo, alle volte, con risultati poetici autonomamente assai pregevoli. Come la lingua si arricchisce attraverso gli errori dei parlanti, così anche la tradizione poetica assimila e metabolizza esegesi storicamente sbagliate. La storia della lettura dei lirici è quindi, come si è detto, una storia che si svolge all’interno degli studi filologici. Il grande August Boeckh, il cui insegnamento si protrasse per circa un cinquantennio a Berlino dal 1809 in poi e che è raccolto nella sua Enciclopedia delle scienze filologiche, ha ondeggiato fra un atteggiamento hegeliano, che assegnava alla ‘liricità’ un suo luogo nello spirito, e una concretezza di storico che vedeva la lirica arcaica finalizzata a un’occasione esterna al testo. Un formidabile contributo all’intelligenza storica della lirica venne da un contemporaneo di Boeckh, da Friedrich Gottlob Welcker (1784– 1868), la cui Saffo liberata da un pregiudizio è del 1816, e fu una lezione poi dimenticata da Wilamowitz esattamente un secolo dopo (faceva di Saffo la direttrice di un collegio femminile guglielmino) e da tanti altri. Formidabile l’intuizione di Goethe: «Ogni opera d’arte è opera d’occasione». A chi chiedesse come mai questa impostazione, ancora in fieri in Boeckh e più univoca in Welcker, sia andata perduta, c’è da ricordare che il seguito della storia degli studi filologici è poi dominata dal positivismo, che da una parte ebbe l’indubbio merito, ancora oggi in attivo, di aver promosso le grandi raccolte di materiale e l’esegesi minuta dei testi, e dall’altra invece favorì una lettura dei testi avviata a una deriva facile, e cioè a una lettura attualizzante in senso moderno. E fu naturale che questo sfociasse, specie in Germania, nel cosiddetto terzo umanesimo di Werner Jaeger nei primi decenni del Novecento, che ha operato l’ultima (impropria) attualizzazione in grande stile del mondo antico (non differenziando, e assolutizzando, categorie etiche, politiche etc.; famosa, e influente, la sua Paideia). Da noi il neoidealismo crociano ha di nuovo assunto il poetico nell’empireo e ha voluto ignorare le differenze dei modi e dei contenuti del comunicare nella
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formula ‘espressione = intuizione’. La lirica arcaica, conservata di regola in frammenti, ha dato buon gioco ai fautori della poetica del frammento, che estirpa le parole non solo dal loro contesto immediato (che spesso manca, come nei frammenti, ma che va pensato come presente e che va ricostruito con ogni mezzo disponibile), ma anche dal più ampio contesto storico. È questa una vicenda ben nota, che da noi ha prodotto l’irrazionalismo di Fraccaroli e di Romagnoli e che è poi continuata, sia pure in modi meno tempestosi degli inizi. Ma questo approccio ha trovato sempre la resistenza di Giorgio Pasquali e dei pasqualiani, che ha salvato la nostra produzione filologica e storico–letteraria dalle sterili interiezioni che si esprimono con il lessico neoidealistico del bello e dell’ineffabile. E qui bisogna intendersi. La lirica arcaica, come tanti altri prodotti della cultura letteraria greca, è di altissima qualità, in altre parole è ‘bella’, e bisogna sentirlo e dirlo. Ma, per non incorrere in dannosi e secolari fraintendimenti, bisogna predicarne la bellezza solo dopo averne accertato le radici storiche. Solo così si sarà in grado di dire di quale bellezza si tratti, senza cadere in una genericità che non rende giustizia né alla storia dei greci né alla formazione e allo sviluppo della nostra cultura attuale. Come dicevo prima, la letterarietà della poesia arcaica è ridotta al minimo rispetto a tutta quella che seguì: il legame con la committenza e con l’occasione la liberava dall’erudizione, tenendola però legata a un patrimonio tradizionale ampiamente condiviso: la poesia epica e il mito, oltre a tutta la poesia anteriore («L’un poeta impara dall’altro», come diceva Bacchilide). I greci ebbero una idolatria quasi maniacale della loro tradizione, pur essendo capaci di innovare (e alle volte addirittura di trasgredire, creando attese frustrate) tra due strette sponde, quella linguistico–stilistico–metrica e quella tematica, della tradizione stessa: è questo, a mio parere, il vero miracolo greco, che si potrebbe chiamare ‘l’innovazione economica’. Bonanno: Ho già detto dell’ansia di continuità della poesia lirica, indebitamente forse personificandola, attenendomi comunque alla vecchia formula tradizione/innovazione. E all’ancor più vecchio aforisma di Bacchilide héteros ex hetérou sophós etc.: «l’uno (poeta) impara dall’altro, ed è così da sempre, poiché non è facile (all’interno di una lignée appunto poetica) aprire le porte di parole mai dette». (E neppure conviene). Passando invece all’impatto storico dei lirici greci, ovvero alla loro ricezione, non c’è dubbio che la ‘lettura’ dei romantici, poeti e non, ha determinato una sorta di riscoperta, ma anche di travisamento dell’Io lirico dei greci e dei romani. Ed è questa lettura che ha determinato un cliché certo suggestivo e produttivo per la poesia europea, anche se storicamente falso. Intanto non si può identificare, come già dicevo, l’Io dei poeti latini con l’Io dei lirici greci ar-
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caici, ma è pur vero che l’Io lirico, non importa di quale ‘letteratura’, dal romanticismo in poi, è diventato una sorta di indifferenziata ‘categoria dello spirito’. Da qui anche deriva, per quanto riguarda i manuali di storia della letteratura greca e le relative antologie di non molti decenni fa, una visione astorica per non dire antistorica, dove l’Io dei lirici greci ha subito le maggiori ‘violenze’: a quelle romantiche si sono aggiunte le positivistiche. Tra Scilla e Cariddi oggi questo Io, malgrado l’influenza del New Criticism anglosassone (di ascendenza evidentemente eliotiana), sta ritrovando se stesso in chiave filologica e critica presso i propri studiosi. E tuttavia, poeti come Goethe, Schiller, Novalis, Keats, Hölderlin, lo stesso Eliot (cito alla rinfusa) e filologi o studiosi come Welcker, Hermann, Boeckh, Müller o Wilamowitz, Rohde (cito anche qui alla rinfusa), filosofi come Schelling, Hegel, Nietzsche (già filologo allievo di Ritschl) fino ai più recenti filologi e antropologi, ci hanno consegnato un’idea della Grecia, non solo quanto alla sua poesia, ma anche alla sua sapienza (Colli), sfaccettata e contrastiva (dialettica usava dire un tempo che ora sento lontano), e comunque non sistematica, né solo per ragioni diacroniche ma anche — ed è questo l’unico ‘miracolo’ greco che sono disposta ad accettare — per differenti condizioni sincroniche. L’Io del cosiddetto «uomo greco» (Pohlenz), non solo del poeta lirico, è un Io tutt’altro che indistinto, ma distinto eppure condiviso, capace di assumere un ruolo persino attoriale sebbene ansioso di parlare di sé e della propria vita, un Io ‘diverso’ di tempo in tempo, naturalmente, ma già da luogo a luogo nello stesso tempo. Perciò, permettetemi Roberto e Chico, di esternarvi a questo punto il mio Io ossessivo professionalmente ma pure esistenzialmente (non sono una poetessa ma semplicemente una filologa che legge soprattutto i poeti lirici, comici, tragici etc. greci, meno spesso quelli latini): a volte mi capita di ringraziare quel dio o demone che mi ha distolto dalla matematica (motivo comunque per me di perenne nostalgia), per suggerirmi lo studio del greco antico. Perché solo grazie alla conoscenza, per quanto mai perfetta, di quella lingua mi è diventato possibile capire, nei limiti dell’umana comprensione, quei poeti. Nell’Ottocento poeti come Leopardi, Keats, Hölderlin, per ripetere solo tre nomi, sono stati dunque in vario modo segnati dall’impatto con la lirica greca; quanto e come pensi che abbiano pesato le relazioni con la lirica classica nella poesia dell’Ottocento? Rossi: L’unica lacuna non imputabile alla consistenza della biblioteca del padre Monaldo fu per Leopardi la mancanza di sufficienti materiali dei lirici, che, come si è detto, mancavano ancora (non fidandomi dei miei ricordi, ho
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dato un’occhiata all’indice dello Zibaldone): non vedo in lui una reale influenza della vera lirica greca arcaica, come non la vedo in un Foscolo. Keats non andò oltre qualche cliché umanistico–classicistico. Hölderlin, come ho detto, reinterpretò Pindaro, che era l’unico che si potesse leggere in maniera sufficiente: ma ne imitò liberamente l’ampio respiro metrico e ne fraintese romanticamente i ‘voli pindarici’ (che voli non sono, perché ferreo è risultato l’ordo interno delle sue odi fra occasione, mito e gnome), traendone licenza di libere associazioni e di veri ‘voli’ che sono sì poetici (romantici), ma non pindarici. Bonanno: Un excursus, hegeliano, riguarda proprio i cosiddetti «voli lirici» senza tuttavia nominare Pindaro, giudicando invece Orazio. Dopo un «corso calmo», dice Hegel, il poeta può anche passare con voli lirici «senza mediazione» da una rappresentazione ad un’altra «molto remota». Il poeta tuttavia, perché posseduto da una sorta di manía (direbbe Platone), si agita «apparentemente» senza freno e contro l’«intelletto raziocinante»: tali «slancio» e «lotta», peculiari di alcuni generi lirici sarebbero ricostruiti «artificialmente» da Orazio, il quale mima «con fine calcolo simili voli che apparentemente rompono la connessione del tutto». A proposito di Pindaro, il cui Io dichiara ex abrupto, ma secondo certe regole, di passare da un tema a un altro, credo (sto per concludere una piccola indagine in merito) che il poeta degli epinici porti a compimento un modulo tipico della lirica specie corale già rintracciabile in Alcmane e Ibico. Si tratta, per così dire, di voli ‘strettamente controllati’ fin dalle origini della lirica greca. E qui, perdonatemi, vorrei dire qualcosa (a prescindere dalla presenza dello Stephanus sullo scrittoio recanatese del conte Monaldo, presenza peraltro registrata nel Catalogo della Biblioteca Leopardi di E. De Paoli) a proposito di Leopardi ‘dialogante’ a distanza con Saffo. E non con la Saffo della leggenda, innamorata delusa di Faone e quindi suicida. Dopo Lucrezio — a mio avviso il più fedele traduttore della sindrome saffica nel De rerum natura (3, 152 ss.) dove gli effetti del ‘colpo al cuore’ di Saffo, del coûp de foudre però ripetuto all’infinito, sono giustamente e genialmente identificati con il vemens e in assoluto coinvolgente metus — Leopardi, non a caso ‘illuminista’ ma amante e appassionato non meno di Lucrezio, riscrive più volte il senso della famosa ode, e il malessere ivi descritto: il phobos improvviso. L’angoscia, lo spavento d’amore, al suo primo insorgere è in Amore e Morte 27 ss.: «Un desiderio di morir si sente» poiché «come non so: ma tale d’amor vero e possente è il primo affetto». Ancora nel «sovrano timor» di Consalvo 20 ss. e soprattutto in Aspasia 7 s. «Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina quella superba visïon risorge». Del resto nello Zibaldone (pp. 3443–46) sul tema dello “spaventare” — prima delle consimili
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riflessioni di Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso come altrove ho avuto modo di dire — Leopardi osserva che «a prima giunta» nel momento in cui la bellezza dell’amato colpisce la vista e i sensi, lo “spavento” in chi si innamora viene dal fatto che lo “spettatore” o “spettatrice” sente di non poter più fare a meno dell’oggetto amato e, nel contempo, gli pare impossibile possederlo come, lui o lei, vorrebbe. I desideri, “penosi” nella loro “durata”, sono “spaventosi” nella loro “nascita”: più di tutti il desiderio d’amore, che è anche il più “penoso” perché più “forte”. Leopardi ha introiettato non solo Saffo ma anche Lucrezio: un doppio Io, il primo lirico, il secondo comunque poetico. Non posso qui dilungarmi sulla questione della paura poetica in amore. Sulla ‘laicizzazione’ di tale paura, in Teocrito rispetto a Saffo, ho altrove già scritto qualcosa e, comunque, rinnovare qui il discorso significherebbe naufragare in un tema inesauribile. Ad esempio, sui contrastanti effetti erotico–fisiologici di caldo– freddo, proprio quelli già auto–analizzati da Saffo, si è intrattenuto Starobinsky (che però ignora Saffo) in un bel saggio di una ventina d’anni fa su Madame Bovary, appunto intitolato La scala delle temperature, dove mi ha colpito una fortuita e tragica consonanza, non solo fra le «antitesi termiche» implicanti «tutta una serie di valori simbolici legati alla retorica amorosa» (meglio, direi, alla poesia, dopo Saffo però!). Per fare un esempio: a Rouen, dopo il ballo, Emma «aveva la fronte in fiamme … e la pelle fredda come il ghiaccio», ma, come se non bastasse, alla «simultaneità delle sensazioni opposte» segue una ridda di sensazioni che si mescolano fino a quando, ai limiti dello svenimento, scompare la coscienza di sé, finché Emma morente spiava sé stessa con curiosità per vedere se soffriva. A Starobinsky credo piacerebbe (ri)conoscere che questo corpo «in ascolto di ciò che sta per prodursi nel suo oscuro destino organico» non è il «primo» in assoluto di «tutta una serie di corpi in agguato, di cui fino a Samuel Beckett la letteratura ci darà insistentemente la rappresentazione», poiché l’ombra di quel corpo si proietta all’indietro su una prima e ‘classica’ sagoma corporea in spietata autosservazione, come già notava l’anonimo testimone sulla ‘sindrome’ auto–analizzata da Saffo. E nel Novecento? Rossi: Il Novecento (parlo di quello italiano) ha guardato spesso alla lirica greca come alla manifestazione di una categoria eterna, senza riconoscerne la specificità. Avendo finalmente a disposizione edizioni critiche e molte traduzioni, è stata favorita la poetica del frammento, come dicevo, cara all’ermetismo. Parlerei paradossalmente di f r a m m e n t a z i o n e d e l f r a m m e n t o , vista la non riconoscibilità, per il non filologo, di distinzioni importanti che di-
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pendono dalla genesi, e quindi dalla morfologia, del frammento stesso: danno materiale (lacune nei codici medievali e, gravi, soprattutto nei papiri); differenza fra frammento vero e proprio e citazione; differenza fra le varie tipologie di citazione: per ragioni di lingua (spesso parole singole) o metro (spesso solo un incipit); per il contenuto, etc. Sarebbe interessante fare una s t o r i a d e l l a r i c e z i o n e d e l f r a m m e n t o : riconoscimento o negazione (più o meno consapevoli) della natura frammentaria del testo che si ha davanti. La consapevolezza di queste diverse situazioni testuali è da aspettarsi da parte del traduttore–filologo, e da qualche decennio in qua ce ne sono molti e ottimi. Trasferire tutto questo nella letteratura militante e originale è solo una possibilità astratta e teorica. Bonanno: Visto che stiamo ragionando per ‘frammenti’ vorrei qui fare almeno un’osservazione circa la cosiddetta estetica, ma già filologia del frammento, se non altro perché i miei studi (giovanili!) si sono cimentati con i frammenti comici (Aristofane, Cratete e altri) prima di passare a quelli lirici. Anche qui distinguerei tra un approccio filologico e uno non filologico, ma non per questo culturalmente meno legittimo. Mi spiego meglio. Da un lato, è capitato (non solo) a me di inorridire di fronte alla pervicacia di soi disants filologi classici, pronti ad accusare di non autenticità alcuni testi lirici recentemente tramandati da papiri (la sublime, per noi grecisti, tradizione diretta) perché le parole ivi leggibili non rientravano nel lessico familiare del poeta in questione — principalmente tramandato dalla tradizione indiretta in virtù di parole ritenute difficili, dunque hapax legómena, o grazie a versi incipitari, per ragioni metriche, oppure per ampi stralci esemplari quanto a forma e contenuto —, poeta per l’occasione sottoposto a una superciliosa vivisezione per cui andrebbe sottoscritta una lega permanente di filologi umanitari. Dall’altro, e scherzi a parte, ritengo che il frammento ‘esemplare’ abbia tutto il diritto e le prerogative per essere considerato «plasticamente» (Hegel) come una scultura o una «forma assoluta» circondata da una sorta di aigle, di aureola di cui Omero e Pindaro vedono circonfusi gli dèi: perché il frammento è, in questo caso, un oggetto solo provvisoriamente separato dal suo soggetto (l’autore), una «forma» che non è «cosa esterna, viene dall’interno, dal centro, e ritorna al centro» (così Diano in Forma ed evento). Con questo voglio semplicemente dire che la ricezione di tale «forma» nella cultura europea ha spesso percepito (al di là della filologia e della storia) la psyché, ovvero il soffio vitale più intimo, cioè il mythos, il racconto, vuoi continuato, vuoi di scorcio, vuoi per improvvisi bagliori, però sempre lirico.
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Le traduzioni della lirica greca, sp. nel XX secolo, come hanno influito sulla lirica occidentale, e con quali interrelazioni, vista la contemporanea crisi e frammentazione dell’Io lirico? Rossi: Da quanto ho detto prima si ricava una realtà di fondo: la lirica greca, da quando fu restaurata nelle sue rovine dai filologi, è stata dominio proprio dei filologi, senza un vero impatto sulla prassi poetica contemporanea. Lo si può imputare allo specialismo della confraternita, ma si è visto che era inevitabile. E ho detto già che in fondo è stata una fortuna, perché avrebbe esteso il terreno degli equivoci, già ampiamente ingombrato dagli esegeti. Quanto alla frammentazione dell’Io, ho parlato prima, per gli arcaici, di ‘diffrazione’ dell’Io. La vera e propria frammentazione di oggi la vedrei piuttosto in una frammentazione della realtà, e non tanto (o non solamente) dell’Io. Ma questo è un discorso che di necessità lascio ai modernisti. Le traduzioni? Non so dire in che misura abbiano veramente influenzato la lirica moderna: hanno favorito allusioni, qualche forma di intertestualità mediata. Ma niente di comparabile all’influenza di un testo sempre più amato e per fortuna, nella sua redazione scrittoria, integro: intendo Omero, che sta godendo di una fortuna ogni giorno crescente. La gioia del raccontare (la Lust zu fabulieren di Goethe) si lascia più facilmente trasferire, con la traduzione, da una cultura a un’altra. Quanto allo stile delle traduzioni, c’è da dire che svolgono più o meno bene un compito molto difficile; dalla vecchia totale aulicità di un pervasivo dannunzianesimo solenne, la maggiore sensibilità ai livelli di lingua originari porta ora i traduttori a sforzarsi di adeguarsi ai testi, che non sempre presentano facies aulica: Saffo, Alceo, Anacreonte, per far solo alcuni nomi, usano quasi sempre uno stile piano, configurando poeticamente i loro testi solo o quasi solo con il metro. A non dire dei colloquialismi presenti nel grande Partenio di Alcmane! Come si vede, l’amore per la lirica greca arcaica è un amore difficile. Mi pare significativo che un poeta moderno come Kavafis, di ispirazione prevalentemente omoerotica, si sia rivolto alla poesia alessandrina e a quella ancor più tarda, quasi ignorando la lirica arcaica, che pure gli avrebbe fornito abbondante materiale tematico. La sua musa storica è poi soprattutto bizantina. Bonanno: Una minima notazione. Se l’Io lirico greco era un Io condiviso, l’Io lirico contemporaneo è certo diviso, scisso o frantumato. O moltiplicato, che è la stessa cosa, come nel caso emblematico di Pessoa. Uno nessuno e centomila è, forse, l’Io poetante novecentesco. Ma se uno dice “non amo chi sono” (Montale) sa però (Brodskij) che il proprio Io può frantumarsi o addirittura scomparire assieme all’Io del lettore (quanta reciproca solitudine in questa scissione!),
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mentre per fortuna resta la lingua in cui l’Io di volta in volta dice comunque di sé, perfino nascondendosi dietro le parole. C’è qualcosa di miracolosamente ‘eterno’ nel dialogo tra i poeti, quand’anche non si (ri)conoscano a vicenda, ma solo perché appartengono a lingue storie e culture le più lontane nello spazio e nel tempo. Stando a quel poco che so per aver letto in lingua originale e a quello (un po’ di più) che ho letto in traduzione, sempre però col testo a fronte, per ascoltarne almeno la musica (l’ungherese o il russo per esempio, ma anche il portoghese) c’è sempre un momento, beninteso in poesia, in cui i cosiddetti luoghi comuni (ma perché esistenziali prima che letterari!), detti in forma di parole poetiche, mi si confondono felicissimamente nella testa, non più di filologa–storica, ma di filologa–lettrice di poesia: parole appunto veicolate dall’Io lirico di turno (condiviso a suo tempo), o diviso (sempre a suo tempo), scisso, frantumato, nascosto, sparito, ma (quasi) sempre da me ritrovato e per tutti, credo, ritrovabile. Se la storia obbliga la poesia a un percorso lineare, mai però progressivo, la poesia sembra volersi difendere chiudendosi in un processo circolare, in una sorta di eterno ritorno, a dispetto almeno prima facie della storia, che invece mira, se non alla quadratura, certo alla rottura di tale cerchio e al ridimensionamento della sua magia, gioiosa o dolorosa e persino tragica, mai però effimera, malgrado le apparenze. Che ruolo pensi abbiano giocato le differenze formali (poesia quantitativa classica vs poesia ritmico–rimica post–classica e moderna) nelle relazioni fra lirica classica e moderna (considerando ovviamente anche i vari tentativi di restaurazione di una metrica “classica” nelle lingue “moderne”)? Rossi: La lirica arcaica, e specialmente quella corale ma anche parte di quella monodica, era legata a forme metriche molto complesse, di cui però si perse presto la competenza, attiva e passiva, come abbiamo visto prima. Quella che noi chiamiamo lirica greca è al suo tramonto fra la fine del V e il principio del IV secolo a. C. Poi c’è il vuoto, che va di pari passo con la fine dell’unione di poesia e musica propiziata dall’occasione della pubblicazione, tanto da allontanare il pubblico da quella poesia, che nelle sue forme metriche (sticometria, colometria) dovette essere restaurata nel II secolo a. C. dalla filologia (Aristofane di Bisanzio). A cominciare dal IV secolo a. C., in una cultura letteraria che praticava il distico elegiaco e ben poco altro (forme semplici), per ritrovare forme di poco più complesse (strofi saffica e alcaica, asinarteti e poco altro) dobbiamo aspettare l’unico lirico greco che compare nel I secolo a. C., che altri non è se non il romano Orazio. Se consideriamo le forme più semplici, escludendo cioè la grande metrica corale e le forme più elaborate della mono-
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dica, Orazio ci offre un imponente campionario che comprende anche forme strofiche non attestate in greco, tanto che ci corre l’obbligo di ricostruirle per la poesia ellenistica creando caselle metriche vuote in attesa di nuovi testi. Per lunghi secoli, dal IV–III a. C. in poi, fino alla fine del mondo antico, Orazio può bene essere definito il maggiore poeta greco di quei lunghi secoli, come dicevo prima. Ed è al suo campionario che si ispira l’approssimazione metrica dei traduttori e degli imitatori. Direi però che la persistenza di queste poche forme nelle traduzioni in varie lingue è forse l’unico elemento di antichità che viene conservato, con tutti i compromessi che comporta la metrica barbara: grande fortuna ha avuto l’esametro accentuativo in tedesco e per noi basta ricordare le varie correnti di metrica barbara (Carducci, Pascoli etc.). Segnalo, come esempio di vera ‘traduzione metrica’ (ovvero trasposizione di un sistema metrico–linguistico in un altro), la straordinaria riuscita di molte parti liriche di Aristofane nelle traduzioni di Ettore Romagnoli (le uniche davvero belle, nella sua vasta attività traduttoria!): si tratta spesso di piccole canzoni petrarchesche, con responsione di rima fra strofe e antistrofe. Chi potrebbe pensare oggi che valesse la pena di fare lo stesso per le complesse e lunghe strofi pindariche? Pindaro ha quasi sempre la triade (strofe, antistrofe, epodo) e, visto che la media delle ripetizioni della triade va da tre a cinque, avremmo da sei a dieci ripetizioni della strofe. Che dire della Pitica quarta, che ha tredici triadi, e quindi ventisei ripetizioni della strofe? Era un virtuosismo anche allora, ed era ben pagato: uno scolio ci dice che un’ode di Pindaro costava al committente più di una statua. La lirica arcaica nella sua sostanza, insomma, resta per la cultura letteraria un oggetto misterioso, circondato spesso da un alone di ammirazione e di nostalgia umanistica. Non mi pare, inoltre, che l’Io lirico antico, così poco noto nella sua specificità e ancora oggetto di dibattito fra gli studiosi, abbia potuto avere alcuna influenza sull’Io contemporaneo. Quanto alla metrica, direi che è l’aspetto più vistoso che è stato recepito, specie fino a qualche decennio fa, in quanto fatto formale e di per sé meno problematico. Ben lungi dall’essere un deterrente, il campionario metrico oraziano ha offerto materiale per una specie di buona volontà, che si è realizzata anche sul piano teorico con i vari orientamenti ‘barbari’: accento espiratorio al posto degli ictus (di per sé convenzionali, specie in greco), vari tentativi di sopperire alla mancanza di opposizione quantitativa, verso libero con opportune strettoie etc. A conclusione di questa bella discussione desidero giustificarmi delle molte, almeno mie, ripetizioni, in parte sollecitate dalle domande e in parte perché ho conservato l’oralità originaria, pur se spesso, per le sezioni pre–scritte o ri–scritte, si tratta di mimesi dell’oralità
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(espediente molto praticato specie dagli oratori attici nelle loro redazioni licenziate per il commercio librario). Indubbiamente è un alibi che salva dal labor limae, ma ricordo che Mario Puelma molti anni fa mi disse: «Che bello! Nella resa orale sono permesse tante ripetizioni, che sono poi utili, mentre nella redazione scritta ce ne priviamo». Bonanno: Condivido in pieno, Chico, questa tua conclusiva, ed esclamativa, citazione che per primo evidentemente condividi. Il «Che bello!» di Puelma mi sentirei però di riferirlo anche alle tante felici contraddizioni, approssimazioni, addirittura travisamenti che, da filologi, abbiamo dovuto imputare alle varie ricezioni dei nostri amatissimi (ma non solo da noi) lirici greci nella storia della cultura cosiddetta occidentale. Mi veniva in mente, mentre tu parlavi, il caso del Prometeo di Eschilo (la cui paternità è sub iudice, né oggi è stata decisa, come talora si dice): a dispetto della verità storica, di cui la filologia un giorno forse verrà a capo, resta il fatto che la tragedia di Prometeo, così come l’ha raccontata il suo autore, ha avuto un Fortleben tra i più felici e perduranti nella cultura europea, non solo teatrale. E allora, non vorrei che persino la tua felicissima formula circa la “diffrazione” dell’Io lirico greco e ancor più la mia insistenza sullo stesso Io “condiviso” dal poeta greco arcaico e dal suo pubblico costituiscano un invito a qualche ulteriore equivoco. E, poiché gli esami non finiscono mai, ora vorrei correggermi almeno quanto alla (involontaria) perentorietà della mia reiterata affermazione. Non intendevo certo dire che la condivisione di alcuni valori espressi dall’Io lirico greco nell’àmbito della propria comunità consistesse in una indistinta diffusione (o, meglio, diffrazione, come tu dici) del ‘messaggio’ poetico veicolato dall’Io o dal Noi (così più spesso, ovviamente, nella lirica corale). Intanto: come vari erano i livelli della realtà cantata dall’autore arcaico e vari i piani di ricezione già del suo pubblico, così un Io non valeva l’altro, si capisce. Insomma, forse sarebbe il caso di precisare a chi leggerà quanto fin qui dicevamo, che non intendevamo (credo di poterlo dire non solo per me) inficiare l’autorialità dell’Io lirico greco. L’identità biografica, anche per il poeta greco arcaico, non ha ovviamente nulla a che fare con la nozione d’autore, anche se all’epoca non gli si riconoscevano i diritti d’autore (l’uso della sphraghís in Teognide, ma già in Archiloco, Saffo, Alceo, etc., sia pur variamente dimostra tuttavia la rivendicazione di tale diritto). Da parte mia vorrei anche ribadire che la storia della ricezione poetica ha le proprie ragioni che la filologia (e la storia) ha ragione di non (ri)conoscere, ma i filologi, ancorché grecisti e latinisti, lettori di poesia sanno che l’aisthesis di un testo di Saffo, Archiloco, Pindaro, Catullo, etc., è grande quando se ne conosce l’occasione e la commissione, insomma il
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contesto pragmatico, ma riconoscono che altrettanto grande può essere, pur se non edotta ‘scientificamente’, l’aisthesis del lettore non filologo, a cominciare dal lettore poeta — da Catullo, a Leopardi, a Quasimodo etc. — che dialoga, da sempre, con più di un poeta a lui precedente, facendone di volta in volta un proprio ‘contemporaneo’, trascinandolo, per così dire, oltre il tempo passato, non solo con sé e per sé ma per tutti i lettori contemporanei e futuri. Vorrei finire con una domanda a me ed anche a te, Chico: oggi sentiamo ‘contemporaneo’ (nel senso di Kott) l’alessandrino Callimaco (moderno per i Greci d’antan) o l’arcaica Saffo? Se non avessimo già stancato Roberto con le nostre chiacchiere, potremmo rispondere, magari concordemente. Sarà per un’altra volta, o, come si suol dire, per un’altra storia.
Introduzione alla lirica 1. L’impostazione del problema critico oggi La lirica arcaica è il terreno in cui si è fatta recentemente più chiarezza dal punto di vista del metodo e della critica, ed è utile impostare da qui il problema della distanza e della diversità della poesia arcaica (e per certi aspetti antica in generale) dalla nostra. Dal punto di vista terminologico, per noi ‘lirica’ (da λύρα, e cioè cantata con l’accompagnamento dello strumento a corda) significa tutta la poesia che non è epica (né drammatica, ma quest’ultima comincerà a comparire solo alla fine del VI secolo a.C.). Il termine ‘lirica’ è quindi a rigore troppo ampio. Gli antichi distinguevano vari generi: il giambo, la poesia composta prevalentemente in metro giambico, che si caratterizzava per l’aggressività; l’elegia, che comprendeva le composizioni in distico elegiaco (esametro e pentametro): la ‘melica’ propriamente detta (da μέλος, «canto»), che era composta in metri molto vari e che era destinata all’accompagnamento di musica piena e spiegata. Il termine ‘melico’, che di per sé appare più appropriato, fu usato frequentemente dagli antichi, ma senza che avesse una funzione oppositiva nei confronti di ‘lirico’. L’uso di chiamare ‘lirici’ tutti questi poeti invalse nella letteratura latina: in Orazio, Ovidio, Quintiliano. I filologi alessandrini avevano costruito i loro ‘canoni’ di eccellenza per le varie categorie. Per il giambo Archiloco, Semonide, Ipponatte; per i melici, come ci tramanda un anonimo epigramma dell’Antologia Palatina (9,184), Pindaro, Bacchilide, Saffo, Anacreonte, Stesicoro, Simonide, Ibico, Alceo, Alcmane: l’ordine di questi nove nell’epigramma può essere casuale, a eccezione della collocazione al primo posto di Pindaro, che fu considerato il sommo fra i melici. In seguito fu aggiunta come decima Corinna. Sotto la categoria di lirica rientra nella letteratura arcaica e tardo arcaica una gran quantità di generi o sottogeneri poetici, nessuno dei quali è a rigore assimilabile a quanto si intende con lo stesso termine oggi. Tutta la letteratura greca, fino almeno al V secolo a.C., venne composta e pubblicata, a differenza
|| [Introduzione pubblicata in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, vol. 1, Firenze, Le Monnier, 2002, pp. 207–216, 218–219 (ripresa da L. E. Rossi, Letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1995, pp. 84–97)]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-030
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di quelle moderne, per una ben individuabile occasione sociale e fece parte integrante di un cerimoniale. Ci occuperemo poco più in là della lirica corale, che veniva composta per le grandi feste religiose (la grande varietà di canti religiosi) o per le vittorie negli agoni ginnici (gli epinici), i quali ultimi rientravano poi nelle feste stesse. Il problema maggiore è per noi, a causa di un frequente errore di prospettiva, la lirica eseguita da un solista, quella che viene chiamata monodica, e cioè l’elegia, il giambo e la poesia melica monodica. Non c’è termine di istituzione letteraria che abbia cambiato più radicalmente il suo significato di quanto abbia fatto la ‘poesia lirica’. E vorremmo partire da un esempio concreto.
2. Un esperimento su Saffo: la traduzione di Quasimodo Proviamo a leggere il famoso fr. 94 V. di Saffo nella traduzione indubbiamente bella di Salvatore Quasimodo: Vorrei veramente essere morta. / Essa lasciandomi piangendo forte, / mi disse: «Quanto ci è dato soffrire, / o Saffo: contro mia voglia / io devo abbandonarti». / «Allontanati felice» risposi / «ma ricorda che fui di te / sempre amorosa. / Ma se tu dimenticherai / (e tu dimentichi) io voglio ricordare / i nostri celesti patimenti: / le molte ghirlande di viole e rose / che a me vicina, sul grembo / intrecciasti col timo; / i vezzi di leggiadre corolle / che mi chiudesti intorno / al delicato collo; / e l’olio da re, forte di fiori, / che la tua mano lisciava / sulla lucida pelle; / e i molli letti / dove alle tenere fanciulle ioniche / nasceva amore della tua bellezza. / Non un canto di coro / né sacro, né inno nuziale / si levava senza le nostre voci; / e non il bosco dove a primavera / il suono ... »
Faremo poche osservazioni, solo quelle che mirano a individuare un orientamento preciso nel traduttore. Il greco non dice «vorrei», ma «voglio, desidero fortemente» (θέλω), così che possiamo smascherare nel traduttore la volontà d’introdurre una sorta di titubanza che suona moderna; «i nostri celesti parimenti» è improprio (e tendenzialmente ermetico) per κάλ’ ἐπάσχομεν (un imperfetto), che vuoi dire piuttosto «usavamo avere insieme belle esperienze», contrapposto al δεῖνα πεπόνθαμεν (un perfetto: «abbiamo avuto esperienze dolorose») dell’inizio, e scompare così un altro nesso che evoca complicate torture psicologiche, moderne anch’esse; «corolle» è parola per noi letteraria, mentre il greco ha una parola semplicemente denotativa, che andrebbe tradotta, più semplicemente, «corone». E si potrebbe continuare. La traduzione di Quasimodo dei lirici, giustamente famosa, è del 1940. Si è scelto un carme nel quale l’ipoteca dell’ermetismo pesa poco, quasi frenata dalla nitidezza e semplicità di dizione nel modello: il testo di Saffo ha quasi, ma
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non del tutto, impedito a Quasimodo di svisarlo. Ma nella sua introduzione Quasimodo è molto esplicito nell’equiparare l’esperienza dei lirici arcaici a quella del poeta lirico moderno: «la lirica è certamente, anche per noi, storia del cuore dell’uomo»; «nella aspirazione del raggiungimento di una rigorosa purezza lirica, si ponevano le condizioni di una più approfondita ed intima lettura degli antichi poeti»; e così via. Quasimodo ha certamente trovato una sua essenziale intimità lirica e non staremo a discutere se, in quanto poeta, ha fatto bene o no a prendere i Greci, da lui letti a modo suo, come modelli. Possiamo dire che la sua poesia autonoma se ne è giovata, ma certo è che ha fatto male a teorizzare una prossimità culturale che non c’è. In realtà Saffo può aver sentito in sé quel complesso di reazioni affettive che le sue parole descrivono, e le avrà certamente sentite, ma non ha composto l’ode, almeno in via principale, con lo scopo preciso di esprimere tali reazioni. Saffo ha composto un’ode che rientra in una tipologia che possiamo definire delle ‘odi d’addio’, per salutare una delle compagne del tìaso che si allontanava per andare sposa, così come era successo per altre e come era consuetudine nel tìaso. Il corpus dei frammenti di Saffo ci presenta una certa quantità sia di carmi d’addio sia di epitalami composti in occasione delle nozze delle fanciulle, che trovavano nel tìaso le condizioni di una educazione consona all’alto livello sociale a cui appartenevano. Se noi leggiamo l’ode nell’ottica dell’estetica romantica, che sotto molti aspetti è ancora la nostra, cadiamo in una serie di errori di prospettiva, il primo dei quali è il credere che il contenuto del messaggio sia assolutamente personale e irripetibile, mentre Saffo ha comunicato contenuti a loro modo tipici, e cioè interamente condivisi dal suo ambiente. I valori che Saffo celebra – raffinatezza, bellezza, eleganza di comportamenti, ricchezza di suppellettili, lo stesso sentimento d’amore – sono valori etico–sociali comuni al suo circolo, per ristretto che esso sia, o addirittura valori iniziatici e sacrali: il pubblico della lirica arcaica è, in proporzioni moderne, sempre ristretto perché limitato a quei pochi che hanno un codice culturale e sociale, e quindi anche letterario, comune. Saffo non componeva per il pubblico panellenico dell’epos e nemmeno per un pubblico più o meno indiscriminato, come accade oggi, ma per il suo tìaso, e nel tìaso le sue odi venivano eseguite col canto e l’accompagnamento musicale in occasione delle celebrazioni comuni. La stessa memoria delle persone cantate è pensata nell’ambito del circolo, non è proiettata in una dimensione senza luogo e senza tempo. Abbiamo eliminato un fraintendimento che riguardava le condizioni della comunicazione e lo statuto della letteratura (pubblicazione orale per un’occasione): possiamo dire che, più che la funzione emotiva (prima persona), è qui presente la funzione referenziale (riferimento a
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realtà esterna, terza persona). Ma la funzione che a una lettura corretta emerge in misura maggiore è quella conativa (rivolta al destinatario, seconda persona): l’encomio della fanciulla e del ricco arredo del tìaso è una dichiarazione, a suo modo ufficiale, dell’eccellenza dell’ambiente umano e di riflesso anche dell’ambiente fisico e un’affermazione di valori, che serve prima di tutto all’interno del tìaso stesso per coltivare la coscienza di quei valori. Ci sono poi altri equivoci da eliminare, come per esempio quello di sovrapporre alla realtà di Saffo a Lesbo intorno al 600 a.C. un codice etico che è il nostro e che le è assolutamente estraneo: né si può dire che questo tipo di lettura sia stato evitato, se pensiamo a Saffo così spesso in passato vista come una poetessa maledetta alla maniera di Baudelaire, che canta amori proibiti, mentre sappiamo che l’omoerotismo in Grecia aveva uno statuto per nulla confrontabile con il nostro. E nel quadro della poesia maledetta la stessa raffinata suppellettile (corone, profumi, letti) può venir vista da molti come l’ambientazione in un appartamento parigino del Secondo impero (si pensa sempre a Baudelaire), mentre invece è l’arredo del tìaso, descritto con quella precisione con cui la poesia arcaica ambienta le sue situazioni e ne loda i valori positivi. Crediamo che, in conseguenza di questa impostazione, alla poesia lirica monodica arcaica si debba togliere, se non tutto, almeno molto di quanto oggi definiamo personale o soggettivo, per assegnarle invece contenuti totalmente condivisi dal nucleo sociale che la espresse. Ripetiamo: Saffo avrà sperimentato in sé quello di cui parla, e lo ha anche espresso con efficacia, ma non lo ha messo in codice letterario semplicemente come tale, bensì come esperienza condivisa e con la prospettiva dell’evento socialmente vissuto. La psicologia degli autori arcaici (come quella di molti autori moderni) ci è quasi del tutto preclusa, e anche la loro biografia è solo assai scarsamente ricostruibile unicamente attraverso i loro testi: la loro attività letteraria non era una confessione romantica.
3. Una verifica su Archiloco Faremo un altro esempio, quello di Archiloco, un altro poeta al quale la critica moderna ha spesso accreditato posizioni del tutto personali. Archiloco dichiara di aver gettato il suo scudo nel famoso fr. 5 W (= 8 T.). Si è parlato perfino di etica antimilitarista, ma sappiamo che era un soldato di ventura, che aveva fatto della guerra il suo mestiere! Il tema diventerà poi topico: ma in Alceo (fr. 401 B V.) non sembra ancora divenuto stilema letterario, rispecchiando, come in Archiloco, la realtà di una guerra non più omerica. Si trascura in Archiloco l’ultimo verso, dove il soldato dice che, di scudo, «se ne acquisterà uno non
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peggiore», e proprio per continuare a combattere. D’altra parte, gettando il suo scudo, ha salvato la sua vita (e lo dice), che gli è necessaria per la professione da lui esercitata (il poeta come tale può morire, ma non il soldato di ventura). Un gesto, per così dire, tattico, che viene contrapposto all’etica del combattente omerico e questo è vero, ma non per gusto arbitrario di contraddizione ‘maledetta’, bensì perché la tecnica di guerra omerica e l’etica militaresca epica (quella, per intenderei, della «civiltà di vergogna» di Dodds, per cui quello che più conta è l’onore del combattente–eroe) sono cambiate tutte e due: per l’etica dell’epos il guerriero deve morire, per acquistarsi gloria, ma questo non vale per il soldato di ventura archilocheo, che combatte per vivere e che quindi deve vivere per combattere. Quello di Archiloco non è, quindi, un gesto personale, ma un atteggiamento condiviso dal suo ambiente. E allo stesso modo, quando dice di preferire lo stratego brutto e piccolo ma forte all’eroe guerriero omerico (fr. 114 W = 96 T.), è sulla stessa linea: non è un capriccio dissacratore, ma la voce di una tecnica di guerra professionale le cui modalità e i cui scopi, insomma i suoi valori, sono altri da quelli della società omerica. Archiloco ha avuto il merito di esprimere nella sua poesia, che per tanti aspetti è omerica come tutta la letteratura arcaica, i valori nuovi della sua società, in alcuni casi in stridente contrasto con i valori omerici. La vera e violenta polemica antiomerica si farà sentire più tardi, e basti qui ricordare Senofane.
4. L’ambiente in cui nasce la lirica e la sua funzione Leggendo la lirica non bisogna dimenticare che nasce in un contesto storico del tutto rinnovato rispetto a quello dell’epica. Fra l’VIII e il VII secolo a.C. si avvia la formazione della polis, che risponde alle esigenze di un ceto artigiano e mercantile opposto alle istanze della vecchia aristocrazia terriera. Lo stesso tiranno (parola originariamente priva di connotazioni negative) è un prodotto sì dell’aristocrazia, ma si configura come un capo del popolo, le cui esigenze è disposto a recepire proprio per controbilanciare le spinte centrifughe dell’aristocrazia. Di qui le lotte fra fazioni e cioè fra tiranni o aspiranti tali, che siamo in grado di seguire così bene a Lesbo. L’intensificarsi del nuovo processo di colonizzazione è impensabile senza il movente economico–commerciale. Il simposio arcaico, che ha tanta importanza per la lirica monodica, è un’istituzione di questo tipo di società: è il luogo eminentemente politico in cui gli appartenenti a un partito, ovvero a una eterìa, si incontrano e cementano la loro concordia con il rito del bere in comune, rallegrato e celebrato dal canto. In questo senso si può dire che l’epoca lirica è il momento in cui nasce un forte
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senso di identità, ma più collettivo che non personale. Il senso di identità produce il bisogno di riconoscersi in qualcosa di positivo, che è il gruppo, il partito, la polis. Per questo la lirica è strumento di lode: ma, a differenza dell’epos che non si contrapponeva a nulla perché era ecumenico, è anche strumento di biasimo, ovviamente rivolto ai nemici del gruppo. Deve convincere dei valori positivi che rappresenta e deve combattere i valori negativi rappresentati dai nemici. La poesia diventa strumento di lotta. Anche se si parla qui di identità collettiva, non si vuole per questo negare la personalità del singolo poeta. Sull’‘io’ lirico si è pensato e scritto molto. Si è dibattuto sul momento in cui compare (già in Esiodo, o solo da Archiloco in poi). Se, svincolando l’‘io’ lirico dal piano testuale, ci poniamo sul piano del valore di ‘verità’ che comunica, l’‘io’ lirico diventa automaticamente un ‘noi’ in quanto punto di vista da cui si guarda la realtà, perché rispecchia i valori del gruppo o dell’intera polis. La lirica arcaica non è un intimistico sfogo autobiografico, perché la funzione della letteratura è diversa. Il problema del valore autobiografico della letteratura greca arcaica è un problema storico (perché vogliamo sapere quanto siamo autorizzati a ricavare dalle composizioni dei poeti per la loro biografia), ma dipende da un problema squisitamente letterario, che è quello dello statuto dell’istituzione letteraria. Quando un poeta lirico dice ‘io’ e narra qualche cosa, si tratta non di una situazione singolare dell’autore (come per noi), ma di una situazione a suo modo tipica e condivisa dalla comunità a cui il poeta si rivolge. Lo abbiamo già visto in modo chiaro in Esiodo, che racconta di sé solo quello che è tipico ed esemplare e quindi parte di un codice condiviso dalla comunità. Si tratta quindi di contenuti in sé sospetti come elementi biografici puri e semplici: possono essere adattati o anche interamente inventati. La nostra fede nelle notizie che i poeti appaiono darci non deve essere totale: e questo significa non che sono insinceri, ma che le notizie biografiche che ci forniscono fanno parte di una convenzione, la convenzione, appunto, dell’‘io’ letterario, che spesso non parla in persona propria e che sempre privilegia fattori tipici, condivisi dalla comunità. Un fenomeno a parte è l’‘io’ di un personaggio che parli in prima persona. Un po’ perché la lirica è quasi sempre conservata in frammenti, un po’ perché anche tutto un carme può essere messo in bocca a un personaggio, spesso il riconoscimento di questo espediente può essere per noi problematico. È l’espediente della persona loquens, come lo si designa di consueto. Ma spesso, anche quando sembra proprio che a parlare in prima persona sia l’autore, ci si deve lasciare aperta la possibilità di non leggere queste prime persone come
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riferite all’autore. La poesia arcaica è una ‘poesia di ruoli’, che si smaschera per la tipicità dei ruoli stessi: e l’autore può svolgere, appunto, un ruolo. Ma, con tutto quanto s’è detto, non bisogna pensare che niente sia in qualche modo ‘personale’, o anche ‘vero’, nelle parole dei lirici. La comunicazione è un composto nel quale non è mai possibile stabilire in misura precisa la mistione delle componenti. Archiloco era un individuo, e le sue composizioni comunicavano anche qualcosa di suo, di personale, non lo si può negare. «Hai afferrato una cicala per l’ala» (τέττιγα δ’ εἴληφας πτεροῦ, fr. 223 W = 167 T.), che vale «Mi hai irritato e adesso strillo contro di te», una metafora bellissima che, nell’ambito della ἰαμβικὴ ἰδέα, piace vedere come schiettamente archilochea e originale. Ma il contenuto non è certo originale o personale, se è vero che il porgere l’altra guancia non è comportamento consueto in epoca arcaica: la reazione o addirittura la vendetta era vista come restituzione di un equilibrio di giustizia. Da parte nostra, che viviamo in una cultura che ha altri meccanismi, la lettura dei poeti arcaici va costantemente ripetuta, e il tipico va sceverato dal personale, la langue dalla parole. Un’operazione che, compiuta da lettori moderni diversi, può dare risultati diversi, a seconda dell’orientamento moderno e della situazione concreta della comunicazione antica, ma mai opposti. E resta da rendere esplicito quanto è stato finora solo implicito: che l’intervento personale si realizza soprattutto sul piano formale. Se è consentito un utile paradosso, si potrà dire che i poeti greci arcaici dicono cose che sentono comuni, ma le dicono con uno sforzo continuo di dirle in maniera diversa: un paradosso che è vero di ogni poesia, ma che salta agli occhi nel nostro caso perché il patrimonio culturale comune al mittente e al destinatario è infinitamente più ampio che non nel mondo moderno. L’estrema cura formale di questa poesia – che non a caso sfrutta non solo le risorse metriche ma anche quelle della retorica – fa sì che alle volte anche da un frammento minimo riusciamo a farci un’idea di quello che doveva essere la composizione intera: ed è la cura formale il vero campo in cui la personalità del singolo si distingue. Pare un paradosso, ma non lo è: sembra difficile che in una letteratura così legata da vincoli formali si possa manifestare un’originalità nelle forme stesse, ma è quello che nella letteratura greca succede. Ed è questo, più che altri che sono stati tanto pregiati dal classicismo, il vero miracolo greco.
5. Le occasioni dell’esecuzione poetica Ora, quali sono le occasioni in cui questi carmi si pubblicano nel canto e nella musica? Occorre distinguere tra due tipi fondamentali di poesia: quella mono-
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dica (canto a solo), destinata a una fruizione comunque ristretta all’interno di un circolo (eterìa, tìaso) e quella corale (eseguita appunto da un coro), rivolta invece a un pubblico vasto, riunito in occasione di particolari cerimonie; tale distinzione è fondamentale, senz’altro presente e operante ben prima della testimonianza esplicita fornita da Platone in un famoso passo delle Leggi (6,764 d 5 ss.). Per quanto riguarda il primo tipo di composizioni, in questi ultimi anni ha finalmente preso piede negli studi l’idea che il simposio sia stato il luogo per cui è stata composta tutta la poesia monodica arcaica (con l’eccezione di Saffo, che è un’eccezione apparente, perché le celebrazioni del tìaso tenevano il luogo del simposio maschile). L’esempio classico di poesia simposiale è l’intero corpus di Alceo: ce ne parla la sua poesia al suo interno nella frequente tematica metasimposiale (il simposio che canta di se stesso) e ce ne parlano le testimonianze esterne. Il simposio è un’istituzione eminentemente politica, un momento, anzi il momento d’incontro dei partecipanti al gruppo politico, dove si celebra anche un altro rapporto importante, e cioè il parlare e il deliberare di politica (βουλεύεσθαι παρὰ πότον). E i simposiasti, oltre ad altre occupazioni più o meno ritualizzate come lo stesso bere (regolato di volta in volta dal simposiarca), il parlare libero, il gioco, l’amore ecc., cantano anche alcuni carmi, che nel caso di Alceo sono quasi esclusivamente legati alla situazione politica o addirittura bellica del momento. Ma non diversamente dobbiamo prospettarci la situazione per altri ambienti e per altri momenti storici, nei quali l’impegno politico può lasciare il posto, nei canti, a un atteggiamento più disteso e con una parola solo moderna frivolo: per fare alcuni dei grandi nomi che tutti abbiamo in mente, Archiloco, Callino, Tirteo, Solone, Alceo, Teognide sono poeti che cantano prevalentemente l’etica civile, mentre per esempio Mimnermo e soprattutto Anacreonte hanno una tematica dove la guerra e la politica non sono certamente assenti, ma dai testi conservati e dall’apprezzamento degli antichi sembra che prevalesse la tematica erotica, peraltro anche altrove mai assente del tutto. E così cantano l’amore i carmi simposiali di Bacchilide e di Pindaro, trasmessici dalla filologia alessandrina come una categoria a sé stante, composti in gran parte per il simposio delle corti siciliane. Più facile è l’identificazione dello statuto della vera lirica corale: in essa l’occasione per cui veniva composta si offre con evidenza alla considerazione dello storico, e per le notizie esterne che ne abbiamo (feste panelleniche, feste locali) e perché l’occasione stessa, di volta in volta diversa, è di norma menzionata nel testo delle odi. Insomma: la poesia antica è tutta poesia d’occasione, il che non le toglie certo totalmente la funzione espressiva (quella della prima
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persona), ma la dimensiona fortemente in rapporto con la sua funzione conativa, più che mai mirata in primo piano alla collettività. Goethe diceva che tutta la poesia è poesia d’occasione, e in qualche misura questo è vero anche per noi oggi: ma il paradosso goethiano non deve farci perdere di vista la differenza fra la lirica antica e la nostra, per la quale ultima l’occasione non è quasi mai pubblica, ma normalmente privata. L’occasione della lirica moderna è, per così dire, un evento interiore e il suo destinatario non è un gruppo socialmente omogeneo che si riunisce per un’occasione esterna, ma l’indefinibile lettore, raggiunto dai moderni mezzi di diffusione (prima fra tutti ancora la stampa), che l’autore immagina o desidera, non vede. Se l’occasione è sempre in qualche misura pubblica, occorre tener presente l’anello che congiunge il poeta a quest’occasione: è il committente. Costui instaura con il poeta un rapporto economico e contrattuale. Al poeta si ordinano i carmi e i carmi si pagano. Se alle volte il committente sembra restare nell’ombra, non significa che non ci sia: può essere un tiranno, una polis, un piccolo gruppo. La committenza è la nuova prospettiva dalla quale tutta la poesia lirica va vista. E un fatto storico che non si può negare, che ci è noto da testimonianze esterne e che lascia sempre un suo segno nella tessitura interna del carme (dedica, celebrazione ecc.): a chi sia storicamente avvertito non capiterà di scandalizzarsi come successe a chi pianse, fra Vico e Wolf, per la ‘distruzione’ della persona di un singolo Omero. La poesia lirica resta grande poesia anche se era composta per occasioni pagate.
6. La musica La musica diventò, nell’epoca lirica, vera protagonista dell’evento letterario. L’epos l’aveva avuta come accompagnamento discreto (in παρακαταλογή, una specie di ‘recitativo’), e le sue origini mitiche erano state elaborate dall’epos stesso. Basta pensare all’importanza che veniva data per l’invenzione della musica a personaggi mitici come Orfeo o Lino. Con il rendersi più complessa l’organizzazione ritmica del dettato poetico, la musica diventò più elaborata anch’essa. Bisogna tener conto del fatto che noi non possediamo partiture musicali se non a cominciare, grosso modo, dal II secolo a.C.: è come dire che per circa sei secoli di poesia, che era più o meno intensamente accompagnata dalla musica, noi non abbiamo nulla di quella musica all’infuori di testimonianze indirette (da Omero in poi) o di trattazioni teoriche (a cominciare peraltro solo dalla fine del IV secolo a.C.: Aristosseno di Taranto fu quasi coetaneo di Aristotele e suo allievo), che trattano però di una musica già evoluta rispetto a quella dell’VIII–V secolo a.C.
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Possiamo con sufficiente approssimazione ricostruire almeno tre diversi modi di resa della parola nel mondo antico: il semplice parlato, e cioè la recitazione semplice (si può parlare di musica a grado zero), che venne in uso molto tardi, ovviamente con la prosa e, nel campo della poesia, con il dialogo del dramma; il recitativo, come grado ridotto di musica, e cioè una specie di cantilena accompagnata da uno strumento, per lo più a corda (fu originariamente proprio dell’epos e poi dell’elegia e del giambo); e infine una musica a grado pieno, e cioè il canto spiegato, sia di soli sia di un coro, accompagnati o dallo strumento a corda o dallo strumento a fiato (proprio di tutta la lirica monodica e corale e delle parti liriche del dramma). L’inventore del recitativo, chiamato παρακαταλογή o καταλογή, fu, secondo la tradizione antica, Archiloco, il che fa pensare che ci fosse una differenza fra il recitativo dell’epos e il recitativo di elegia e giambo: e certamente c’era, ma noi, per prudenza, non siamo in grado di andare oltre una differenziazione generica fra quelli che abbiamo chiamati grado ridotto (recitativo) e grado pieno (canto spiegato) della musica e del canto. Alcuni vogliono specificare ulteriormente delle differenze, ma la documentazione manca e non hanno di meglio che ricorrere all’analogia della musica moderna, il che non è lecito. Gli strumenti principali erano a corda e a fiato. Quelli a corda avevano come antenata la phórminx dell’epos, seguita poi dalla kithára e dalla lyra; il bárbiton o bárbitos era molto usato nei simposi. Il principale strumento a fiato era l’aulós, solo approssimativamente assimilabile al nostro flauto; la sálpinx o «tuba» serviva a scopi militari o religiosi. Gli strumenti a percussione, come i týmpana o i kýmbala, erano usati per i culti di Dioniso e di Cibele. La strutturazione del discorso musicale era molto diversa dalla nostra. Per quanto attiene alla melodia, la trattatistica (che, come si è detto, è tarda) ci parla dei tetracordi, e cioè sistemi di quattro note che, variamente combinati, si avvicinavano a quello che noi chiamiamo la scala, ma senza che ci fosse il dominio di quella che per noi è la tonica (il do nella scala di do, il re in quella di re ecc.). Non c’era nulla di quello che è per noi l’armonia – l’accordo costituito da più suoni –, anche perché la pratica di suonare più di uno strumento insieme (l’esecuzione che per noi è quella orchestrale o di piccolo complesso da camera) era sconosciuta e tale rimase fino all’età ellenistica. L’accompagnamento dello strumento (uno solo) alla voce avveniva all’unisono o (altra differenza da noi) all’ottava superiore, e non a quella inferiore. Un ultimo fattore di diversità era il ritmo: mancava del tutto la divisione mensurale della battuta, adattandosi la musica alla parola (qualcosa di simile al canto gregoriano); e quanto il ritmo musicale potesse violare la prosodia della parola fu oggetto di disputa nel V secolo a.C. e anche nel IV tra i due opposti schieramenti dei conservatori e degli
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innovatori: fu la disputa sulla nuova musica, rappresentata soprattutto dal nuovo ditirambo, che voleva il dominio della musica sulla parola, mentre prima era stata la parola (e il suo ritmo) a dominare la musica.
7. Il ritmo e il metro La metrica è lo studio del modo in cui si presentava l’organizzazione delle lunghe e delle brevi, unico fattore configurante della poesia greca: non c’era né rima, se non eccezionalmente, né fissità dell’accento di parola. Le quantità linguistiche (lunga–breve) sono studiate dalla prosodia. L’accento di parola era musicale e non espiratorio come il nostro, e poteva quindi entrare in conflitto o in accordo con la melodia, ma i modi di questo incontro–scontro non ci sono noti (nella parola ἄνθρωπος la prima vocale, accentata, era pronunciata su una nota più alta delle altre, e fino a che punto la musica doveva rispettare questa realtà linguistica?). Il nostro ictus espiratorio, che adottiamo nella lettura su lunghe che si possono chiamare ‘lunghe–guida’ (per esempio gli elementi lunghi dell’esametro), è solo frutto di una convenzione, a noi peraltro necessaria per far capire come interpretiamo una sequenza ritmica: ai Greci ogni ictus espiratorio era estraneo. In realtà la metrica separata dalla musica e dalla ritmica è una disciplina che nasce tardi, in età alessandrina, per esigenze di impaginazione dei testi e per esigenze scolastiche: la musica degli arcaici non era tramandata e con il IV secolo a.C. finisce l’uso di presentare la poesia in esecuzione musicale. Noi dobbiamo contentarci, come in fondo fecero gli alessandrini, della semplice ‘partitura ritmica’ che ci offre il nudo schema metrico: è tutto quello che ci resta di una consuetudine esecutiva che univa parola, musica (melodia e ritmo) e danza. Questo non ci esime dallo sforzo di interpretare almeno dal punto di vista ritmico le sequenze di lunghe e di brevi che ci troviamo davanti, ma spesso dobbiamo limitarci a dei tentativi, che con rigore storico–filologico dobbiamo presentare come tali.
8 L’ethos musicale Dalla sommaria descrizione data qui sopra della musica in Grecia si ricava che essa è stata sempre di una semplicità che sconcerterebbe noi moderni, se potessimo mai ascoltarla in un’esecuzione autentica. Ma la sensibilità dei Greci al fatto musicale era grandissima: in altre parole, le loro reazioni al fenomeno
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erano molto più sensibili delle nostre, colpiti come siamo da sollecitazioni sonore di ogni tipo. Questa loro sensibilità è testimoniata da tutta la cosiddetta dottrina dell’ethos musicale, che studiava le reazioni del pubblico alla musica stessa e ne traeva conseguenze di grande rilievo per quella che si può chiamare l’educazione dell’animo o «la correzione dei costumi» (ἐπανόρθωσις τῶν ἠθῶν). Il fondamento di questa dottrina riposava sul dato di fatto che la musica si fonda su rapporti matematici (la corda che dà un suono, se è dimezzata o raddoppiata nella sua lunghezza dà un suono rispettivamente all’ottava superiore o inferiore; e così via, con rapporti frazionari più o meno complicati per altri suoni della scala). Tale rapporto matematico veniva messo in un rapporto necessario, dato da natura, con le passioni dell’animo dalla dottrina che risaliva a Pitagora, mentre dalla dottrina che risaliva a Damone, maestro di musica di Pericle nel V secolo a.C., e che continuò con Platone e Aristotele nel IV secolo a.C., tale rapporto era di volta in volta osservato dall’esperienza (una data ‘armonia’ provoca date reazioni ecc.). È per noi oggetto di meraviglia vedere quanta importanza i Greci davano all’educazione musicale e con quanto puntiglio la musica veniva pubblicamente disciplinata per ragioni che oggi chiameremmo di salute e di ordine pubblici: Damone, riportato da Platone (Repubblica 424 c 5), aveva affermato che «non si danno mutamenti nell’uso musicale senza che ci siano mutamenti grandissimi nelle leggi cittadine», legando così la musica al costume e alla politica. Per limitarci alle ‘armonie’, basterà dire che la dorica era sentita come nobile e stabile, la frigia come entusiastica e atta ad agitare l’animo (si veda in proposito anche Alcmane, fr. 146 C., p. 361), la lidia come intermedia, non senza che sulle caratteristiche di quest’ultima nascessero polemiche. Fra gli strumenti, lo strumento a corda era sentito come nobile (la lira era lo strumento di Apollo), mentre l’aulόs non perse mai una sua connotazione orientale e psicologicamente destabilizzante.
9 La fortuna dei lirici; breve storia del problema critico Il mondo antico non ha avuto, nei confronti dei suoi poeti, preoccupazioni storico–antropologiche. Spesso le notizie biografiche si estraevano dalle opere degli autori stessi: così faceva, intorno al 300 a.C., un seguace della scuola di Aristotele, Cameleonte. Si rispondeva in questo modo, in mancanza di documentazione, alla richiesta di materiale biografico, che era richiesta di nuovi modelli etici da proporsi, ora che quelli del mito erano sorpassati.
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Nell’elegia latina emerge un ‘io’ personale centrato per lo più su una vicenda d’amore con una donna (Catullo, ma anche Orazio, Properzio e Ovidio). A dominare è quindi il personalmente ‘vissuto’ in una storia interiore; e la lirica greca arcaica continuò a esser letta con angolazione biografica, ma quello che era stato l’eros arcaico così schietto e privo di complicazioni psicologiche diventò amore, e più tardi addirittura una specie di romanzo d’amore. Nel Medioevo e nell’epoca bizantina prevalsero preoccupazioni moralistiche che condizionarono addirittura i criteri di conservazione dei testi: testi considerati lesivi della morale venivano eliminati o isolati (per esempio il II libro del corpus teognideo). E fu di nuovo una lettura biografica che assolveva o condannava, insieme, l’opera e l’autore stesso. La storia moderna della lettura dei lirici è stata, come per altri generi, la storia del recupero dei testi, che erano stati falcidiati sia dalle varie selezioni operate nel corso dei secoli sia dai danni materiali, culminati nella creazione del cosiddetto Impero latino (1204), che tanti testi distrusse, e nella presa di Costantinopoli (1453) da parte dei Turchi. L’Umanesimo ebbe molta poesia latina, ma piuttosto poco di lirica greca. Per la lirica arcaica è istruttivo sfogliare la prima antologia lirica moderna, edita a Ginevra nel 1560 da Enrico Stefano (Henri Estienne): a parte Pindaro, del resto c’è ben poco. Tra l’altro, dalla metà dell’Ottocento in poi abbiamo avuto grande incremento attraverso i papiri trovati nelle sabbie d’Egitto. La lirica europea moderna nasce sulla poesia latina, non su quella greca. Petrarca si fonda sull’epica e sull’elegia latine. Fra Cinquecento e Seicento Pindaro ispirò Ronsard e la Pléiade, ma si trattò soprattutto di fatti formali. La cultura che si propose di entrare (a suo modo) nello spirito dell’ispirazione pindarica fu il grande Romanticismo tedesco ai primi dell’Ottocento, e basterà fare i nomi del giovane Goethe e di Hölderlin. Nel corso degli ultimi due secoli il problema della lettura della lirica greca arcaica, e cioè il suo problema storico–estetico, è stato tutto impostato non dai letterati, ma dai filologi di professione. Il grande August Boeckh, il cui insegnamento si protrasse per circa un cinquantennio a Berlino a cominciare dal 1809, ondeggiò fra un atteggiamento hegeliano, che assegnava alla poesia lirica un suo posto nello spirito, e una concretezza di storico che vedeva la lirica arcaica finalizzata a un’occasione concreta. Un formidabile contributo all’intelligenza storica della lirica arcaica venne da un contemporaneo di Boeckh, Friedrich Gottlob Welcker, la cui Saffo liberata da un pregiudizio è del 1816, e fu una lezione purtroppo poi dimenticata da Wilamowitz esattamente un secolo dopo. Ma dopo Boeckh la storia degli studi filologici fu dominata dal positivismo, che da
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una parte ebbe il merito di aver promosso le grandi raccolte di materiali e l’esegesi minuta dei testi, ma dall’altra ebbe il demerito di favorire una lettura dei testi avviata alla facile deriva di una lettura attualizzante in senso moderno. Tutto questo sfociò, specie in Germania, nel cosiddetto terzo umanesimo di Werner Jaeger nei primi decenni del Novecento, che ha operato l’ultima attualizzazione in grande stile del mondo antico. Da noi il neoidealismo crociano ha di nuovo assunto il poetico nell’empireo e ha voluto ignorare le differenze dei modi e dei contenuti del comunicare nella formula «espressione = intuizione». La lirica arcaica, conservata di regola in frammenti, ha dato buon gioco a chi estirpava le parole non solo dal loro contesto immediato, ma anche dal più ampio contesto storico. Ma questa posizione ha trovato sempre la resistenza di Giorgio Pasquali e dei pasqualiani, che hanno salvato la nostra produzione filologica e storico–letteraria dalle sterili interiezioni che si esprimono con il lessico del bello e dell’ineffabile. Ma bisogna intendersi bene. La lirica arcaica è di altissima qualità, e bisogna sentire dentro di sé e dire ad alta voce che è «bella». Ma, per non incorrere in dannosi fraintendimenti, bisogna predicarne la bellezza solo dopo averne accertato le radici storiche. Solo così noi moderni saremo in grado di dire di quale bellezza si tratti, senza cadere in una genericità che non rende giustizia né alla storia dei Greci né alla nostra cultura attuale. Come questo si debba fare, lo si è proposto qui con alcuni esempi e lo si vedrà nella trattazione dei singoli autori.
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Introduzione alla lirica | 437
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Introduzione alla lirica | 439
TAVOLA: cronologia dei lirici arcaici ELEGIACI, GIAMBOGRAFI
LIRICI CORALI
LIRICI MONODICI
CRONOLOGIA (a. C.)
Archiloco (Paro)
ca. 680–640
Semonide (Amorgo)
contemporaneo di Archiloco (Suda)?
Callino (Efeso)
contemporaneo di Archiloco
Tirteo (Laconia o Mileto)
flor. 640/37 (Suda)
Mimnermo (Colofone)
flor. 632/29 (Suda) Alcmane (Sardi?)
Alcmane
Arione (Metimna)
Arione (?)
Solone (Atene)
ca. 650–600 640 – dopo 561 flor. 617 (Eusebio); 628/25 (Suda); amico di Periandro (625–585); citarodo (Erodoto, Storie 1,23)
Stesicoro 632/29–556/53 (Suda) (Imera? Locri?) Senofane (Colofone)
Alceo (Mitilene)
ca. 630–
Saffo (Ereso)
ca. 630–
Focilide (Mileto)
565– ca. 470
Ipponatte (Efeso) Ibico (Reggio)
Ibico
flor. 564/61 (Suda), 536/33 (Eusebio) flor. 544/41 (Suda); o oltre?
Teognide (Megara) Anacreonte (Teo)
ca. 570 – dopo 514
Simonide (Ceo) Simonide
ca. 556 – ca. 468
Bacchilide (Ceo) Bacchilide
ca. 520 – dopo 452
Pindaro (Cinocefale)
522 o 518 – 438
Pindaro
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I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese (Macone, chria 5 Gow)* Di Macone, sicionio o corinzio secondo le testimonianze, poeta della commedia nuova produttivo in Alessandria intorno alla metà del sec. III a.C., ci sono rimasti attraverso Ateneo due frammenti comici, che già erano stati pubblicati a parte nelle grandi raccolte (Meineke, Kock, Edmonds) e, sempre in Ateneo, numerose χρεῖαι ovvero aneddoti di vario genere, per le quali la piú ricca fonte d’informazione restava a tutt’oggi il grande commento ad Ateneo di Casaubon– Schweighäuser, dei primi del secolo scorso. Di tutti i resti riuniti abbiamo adesso un’edizione commentata, degna della miglior tradizione inglese, così eminentemente rappresentata dall’autore, A. S. F. Gow.1 Le χρεῖαι si reggono su un motto di spirito o su un giuoco di parole alle volte poco perspicui.2 Ma di una almeno di esse mi pare di poter dare una spiegazione piú soddisfacente di quelle proposte finora. Macho, chria 5 Gow (vv. 25–45) = Athen. 6.244 b–d: 25
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Κληϑεὶς ἐπὶ δεῖπνον ὁ παράσιτος Ἀρχεφῶν ὑπὸ Πτολεμαίου τοῦ βασιλέως ἡνίϰα ϰατέπλευσεν εἰς Αἴγυπτον ἐϰ τῆς Ἀττιϰῆς, ὄψου πετραίου παρατεϑέντος ποιϰίλου ἐπὶ τῆς τραπέζης ϰαράβων τ’ ἀληϑινῶν, ἐπὶ πᾶσι λοπάδος τ’ εἰσενεχϑείσης ἁδρᾶς
|| [Conferenza (vd. n. *), pubblicata in «PP» 22, 1967, pp. 213–226] * Debbo preziose indicazioni alla dottrina e alla cortesia di alcuni maestri, i professori Margherita Guarducci, Scevola Mariotti, Giovanni Pugliese Carratelli, e di un amico, Domenico Musti. L’articolo è stato presentato in forma di relazione al Circolo Toscano di Diritto Romano e di Storia del Diritto (Firenze, 5–6–1967): il mio vivissimo ringraziamento, anche qui, ai Segretari del Circolo, professori Ugo Coli e Paolo Grossi, all’amico Salvatore Tondo, nonché a tutti gl’intervenuti, delle cui osservazioni ho largamente profittato. 1 A. S. F. Gow, Machon. The Fragments. Ed. with Introd. and Comm. (Cambridge, 1965). Per la personalità e la cronologia di Macone v. p. 3 ss. (per la cronologia le conclusioni a p. 10 s.: Tolemeo II Filadelfo, 283–246 a.C.). Per la χρεία come genere letterario v. p. 12 ss. Osserverei solo che mi pare improprio chiamare frammenti le χρεῖαι, visto che si tratta in genere di componimenti autonomi trasmessi per intero: userò la già antica trascrizione dei latini, chria. (I numeri accanto ai versi qui riprodotti sono quelli della numerazione continuata di Gow per tutto Macone). 2 È anche il parere di A. KÖRTE, R.E. 14.1 (1928), col. 159, che confessa di non capire molti dei Witze. https://doi.org/10.1515/9783110648126-031
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ἐν ᾗ τεμαχιστοὶ τρεῖς ἐνῆσαν ϰωβιοί, οὓς ϰατεπλάγησαν πάντες οἱ ϰεϰλημένοι, τῶν μὲν σϰάρων ἀπέλαυε τῶν τριγλῶν ϑ’ ἅμα ϰαὶ φυϰίδων ἐπὶ πλεῖον Ἀρχεφῶν πάνυ, ἄνϑρωπος ὑπὸ τῶν μαινίδων ϰαὶ μεμβράδων Φαληριϰῆς ἀφύης τε διασεσαγμένος, τῶν ϰωβιῶν δ’ ἀπέσχετ’ ἐγϰρατέστατα. πάνυ δὴ παραδόξου γενομένου τοῦ πράγματος ϰαὶ τοῦ βασιλέως πυϑομένου τἀλϰήνορος, Μὴ παρεόραϰεν Ἀρχεφῶν τοὺς ϰωβιούς; ὁ ϰυρτὸς εἶπε, Πάνυ μὲν οὖν τοὐναντίον, Πτολεμαῖ’, ἑόραϰε πρῶτος, ἀλλ’ οὐχ ἅπτεται, τοὔψον δὲ σέβεται τοῦτο ϰαὶ δέδοιϰέ πως, οὐδ’ ἐστὶν αὐτῷ πάτριον ὄντ’ ἀσύμβολον ἰχϑὺν ἔχοντα ψῆφον ἀδιϰεῖν οὐδένα.
Il parassita Archefonte, invitato a cena dal re Tolemeo quando venne dall’Attica in Egitto; essendo stati serviti a tavola pesce3 di scoglio d’ogni genere4 e autentiche aragoste e, in piú, essendo stato introdotto un gran piatto di portata con tre ghiozzi (χωβιοί) tagliati a fette e salati5 che fecero la meraviglia degl’invitati, gustò abbondantemente degli scari, delle triglie e delle φυϰίδες, lui che era abituato a saziarsi di aringhe, di sardine e di acciughe del Falero, ma si astenne con grande decisione dai ghiozzi. Essendo apparsa la cosa assai strana ed avendo il re chiesto ad Alcenore se per caso ad Archefonte fossero sfuggiti i ghiozzi, gli rispose il gobbo: ‘Al contrario, Tolemeo, li ha visti per primo, ma non li tocca, anzi ha rispetto per questo pesce e in certo modo lo teme, giacché è contro l’uso del suo paese che colui che è ἀσύμβολος faccia del male a qualsiasi pesce che abbia la ψῆφος’.
|| 3 Sul pesce come ὄψον ovvero come ghiottoneria per eccellenza v. Gow ad loc., a cui vanno aggiunti i passi dell’ediz. inglese del Thesaurus (v. s.v., come Strab. 12.3.19 p. 549 ἁλίσϰεται ἐνταῦϑα τὸ ὄψον τοῦτο e certamente anche τοὔψον di Mach. v. 43 (incoerente Schweighäuser, che traduce 28 ‘piscis (saxatilis)’ e 43 ‘obsonium’: anzi, l’uso di ὄψον in 28, 43 accanto a 45 ἰχϑύν nel senso determinato di ‘un certo pesce’ fa del primo il ‘collettivo’ per ‘pesce’). Per le traduzioni dei nomi di pesci (che saranno per lo più necessariamente approssimative) e per le loro caratteristiche ho tenuto presente soprattutto D’A. W. THOMPSON, A Glossary of Greek Fishes (London, 1947). Da non trascurare del tutto è H. A. HOFFMANN – D. S. JORDAN, A Catalogue of the Fishes of Greece..., «Proceed. Acad. Nat. Sc. of Philadelphia», 1892, pp. 230–285. Non trovo parola del ϰωβιός in R. STRÖMBERG, Studien zur Etymologie und Bildung der griechischen Fischnamen, (Göteborg, 1943). 4 Per varie questioni, che sono qui d’interesse secondario, si rimanda a Gow: così per il valore di 28 ποιϰίλων e per il valore preciso di 29 ἀληϑινῶν, su cui v. G. GIANGRANDE, «Class. Rev.», n.s. 15, 1965, p. 277, che giustamente richiama, tra l’altro, l’italiano ‘verace’. 5 31 τεμαχιστοί (che è correz. di Casaubon da –σϰοι del Marciano e di C dell’Epitome) non significherà solo ‘tagliato a fette’ (tagliato a τεμάχη), ma anche ‘salato’ (che è in genere il valore di τεμαχίζω: ‘tagliare e mettere in salamoia’, v. i lessici e Schweighäuser ad loc.).
I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese | 445
Gli animali marini πετραῖα, ovvero di scoglio, vengono contrapposti da Aristotele (hist. an. 488 b) ai πελάγια o di alto mare e agli αἰγιαλώδη o di spiaggia. In Ateneo stesso troviamo lodate, nel libro ottavo, le qualità del pesce di scoglio e per molti pesci pregiati, in vari autori, troviamo frequentemente l’aggettivo πετραῖος.6 Fra i pesci qui menzionati, l’aragosta (v. 29), pesce nobile, è di scoglio, allo stesso modo che lo sono, o per espressa designazione degli antichi o per identificazione moderna della specie, il ϰωβιός, lo σϰάρος, la τρίγλη (‘triglia di scoglio’) e la φυϰίς. Lo σϰάρος e la τρίγλη sono universalmente considerati pesci di lusso, mentre il ϰωβιός e la φυϰίς lo sono un po’ meno.7 Anzi, una delle difficoltà che Gow mette in luce è proprio il fatto che il ϰωβιός non sembra essere propriamente un pesce pregiato: ma la verità è che non sappiamo ben definirlo, visto anche che ce ne sono attestate varie sottospecie.8 Le tre qualità, invece, che il parassita Archefonte è abituato a mangiare – μαινίς, μεμβράς e Φαληριϰὴ ἀφύη – sono concordemente considerati pesci a buon mercato: si tratta di aringhe, sardine, acciughe, e sappiamo quanta importanza avesse il pesce nell’alimentazione popolare in tutta l’area occupata dai greci.9 La situazione rappresentata nella chria è quindi la seguente: Archefonte il parassita, ospite del Tolemeo, da buon attico abituato ad aringhe, sardine ed acciughe del Falero, approfitta per mangiare pesce di lusso, scari, triglie e φυϰίδες; solo, si astiene dai ϰωβιοί, che in realtà sembrano di minor pregio rispetto ai precedenti, provocando così una giustificazione che dovrebbe essere la pointe della piccola composizione. Ora, qual è il senso della battuta dell’ultimo verso? Che significa che Archefonte non tocchi il ϰωβιός per la ragione che si tratta di un pesce che ἔχει ψῆφον?10 Casaubon proponeva d’interpretare ‘qui habet ius veniendi in comitia’, come a significare, di fronte al cibo, il complesso d’inferiorità del parassita; Schweighäuser è incerto (‘sed quis quaeso speraverit, in his laceris antiquitatis
|| 6 V., anche per quel che segue, il materiale offerto da Gow e da THOMPSON, op. cit. Per πετραῖος il latino ha saxatilis. 7 Vengono per di più confusi qualche volta l’uno coll’altro, essendo tutti e due pesci che ‘fanno il nido’. 8 V. in più, Gossen, R.E. 2 A. l (1921) coll. 794–796 s.v. Schwarzgrundel. La traduzione italiana ‘ghiozzo’ è, non lo si dimentichi, approssimativa, come spesso avviene in questo campo. 9 I comici sono ricchissimi di accenni in questo senso. V., ad es., V. EHRENBERC, L’Atene di Aristofane (trad. it., Firenze, 1957, dall’ed. Oxford 19512), p. 186 ss.; ED. FRAENKEL, Elementi plautini in Plauto (Firenze, 1960), pp. 124 s., 408 ss. 10 La correzione, più che sicura, è già di Casaubon: il Marciano ha ἔχοντ’ ἄψηφον. È interessante il fatto che l’epitomatore di Ateneo non ha gli ultimi due versi, evidentemente perché non li capiva (v. l’edizione dell’Epitome di S. P. PEPPINK, Leiden, 1937–39).
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reliquiis ad liquidum omnia perduci posse?’), e propone qualcosa che, giustamente, Gow dichiara di non capire. Ma Casaubon aveva visto giusto almeno entro questi limiti: aveva riportato almeno la ψῆφος all’àmbito della sfera giuridica, dandole il valore di ‘pietruzza’, ovvero ‘voto’. Altri invece (v. ap. Gow) hanno pensato che il ϰωβιός avesse nell’intestino delle pietruzze, o che si credesse che portasse dentro dei gioielli; altri hanno inteso ψῆφοι come ‘scaglie’. Ma tutte e tre queste spiegazioni o non darebbero ragione della ripugnanza di Archefonte o darebbero uno scherzo in verità troppo scipito. Comunque, si tratta di supposizioni gratuite, che possono moltiplicarsi a piacere, vista la scarsa conoscenza che abbiamo, e che forse anche in futuro avremo, della natura del ϰωβιός. Tanto vale, quindi, cercare una spiegazione che prescinda dal ϰωβιός come tale, come dice di voler fare Gow, senza peraltro riuscirci del tutto. Propone infatti d’interpretare ψῆφον ἔχειν, alla luce di ψήφων μέρος μεταλαμβάνειν (Plat. apol. 36 b), come ‘ricevere il suffragio (degli altri commensali)’.11 Ma, se pur poco sappiamo del ϰωβιός, una cosa è certa, da quanto abbiamo esposto sopra: che esso è meno pregiato almeno dello scaro e della triglia, a non parlare dell’aragosta. E del resto, anche a poter affermare del ϰωβιός che esso è un pesce di lusso, magari addirittura il piú pregiato fra quelli che compaiono in tavola, che senso avrebbe dire che il parassita se ne astiene proprio perché è il piú pregiato? Dove sarebbe l’arguzia? Che parassita sarebbe questo, che così, senza una ragione speciale, si compiacerebbe di far complimenti alla tavola del suo ospite regale, tradendo l’ethos della sua categoria? C’è, è vero, la difficoltà dell’ammirazione dei commensali (32 ϰατεπλάγησαν) e della meraviglia per l’astinenza di Archefonte (42), che sarebbero piú facilmente comprensibili se il ϰωβιός fosse un pesce pregiato. Potremmo comunque in qualche modo spiegarcele colla preparazione, colla messa in scena del piatto (varrebbe la pena, ad es., riuscire a capire perché i pesci vengono serviti in una λοπὰς ἁδρά, v. 30).12 Ma la cosa, come vedremo, ha scarso peso per la comprensione della battuta finale.
|| 11 Certo non mi sembra che in un altro luogo di Ateneo (13.584 f) sia evidente una connexion between ψῆφοι and dinners: qui, come intende bene CH. B. GULICK nell’Ateneo della Loeb (vol. VI, p. 153), il giuoco è fra ψῆφος (che significa sia le pietruzze sulle quali è scivolato il parassita Democle, sia le pietruzze che servivano ai banchieri per far di conto) e ἀνατραπέσϑαι (che significa ‘cadere, rovesciarsi’ e ‘far bancarotta’). 12 A. BARIGAZZI, «Riv. Fil. Class.», 95, 1967, p. 340 (recens. a Gow) spiega così: ‘Per di più i ϰωβιοί sono solo tre, tagliati e messi sotto sale, come si fa coi pesci grossi, e sono ancora serviti in un grande piatto. Uno scherzo del re preparato al parassita’.
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Ultimamente B. Kannicht, in una recensione a Gow,13 ha ravvisato il senso dello scherzo in una ironia che poggerebbe su un falso (ed ironico) apprezzamento del ϰωβιός, pesce del tutto comune. La meraviglia degl’invitati (32 ϰατεπλάγησαν) dipenderebbe dal fatto che essi non si aspettano, dopo il pesce pregiato che è stato servito, roba così vile, per di piú in una λοπὰς ἁδρά. Anche 37 ἐγϰρατέστατα si riferirebbe ironicamente alla miseria di quest’ὄψον; ed anche 43 σέβεται sarebbe ironico. Tutto questo potrebbe convincere, se non ci fossero i seguenti inconvenienti: – non si vede come si potrebbe mettere l’accento sulla viltà del ϰωβιός, quando pesci veramente vili vengono effettivamente nominati (aringhe, sardine, acciughe: misero cibo da attici) e contrapposti ai pesci che si mangiano alla tavola del re; – non si dà ragione né di 43 δέδοιϰε (perché mai Archefonte dovrebbe ‘aver timore’ del ϰωβιός?) né, come si vedrà, di 44 πάτριόν ἐστιν; – non si legano fra di loro in modo soddisfacente quelle che devono essere, come si vedrà, le parole–chiave, e cioè 44 ἀσύμβολος e 45 ψῆφος, per le quali si danno spiegazioni forzate: la prima indicherebbe che chi ‘sbafa’ non deve, secondo il costume ateniese (e perché, poi, considerare ateniese un costume così ovvio?), ‘disturbare’ il padrone di casa o ospiti che contribuiscono al pasto (che qui poi non ci sono, giacché siamo a un banchetto regale, dove tutti ‘sbafano’), e lo spirito starebbe nell’ ἀπροσδόϰητον di dire 45 ἰχϑύν invece di ξένον (?!); la seconda indicherebbe (ironicamente, s’intende) che il ϰωβιός è così ... pregiato che auf ihm eine ψῆφος liegt, e cioè che deve venir ‘finanziato’ dallo Pfand di un ospite.14 Non si nega che tutto questo potesse avvenire in realtà: ma ci domandiamo, oltre ai dubbi sulla validità di un simile scherzo, se l’autore avrebbe presentato un tale stato di cose in modo così poco chiaro. Gl’interpreti hanno avuto finora un torto comune: non si sono mai chiesti se, per caso, non fossimo qui di fronte a un vero e proprio giuoco di parole, o meglio a una trama di doppi sensi piú o meno ben costrutta. Essi hanno, per di piú, seguito con accanimento la via della descrizione del pesce, che, come abbiamo visto, è impresa disperata. Ma se anche, come desidererebbe e spera Gow, potessimo sapere del ϰωβιός quello che sappiamo, ad esempio, dello storione (ἀϰϰιπήσιος) o dell’ombrina (σϰίαινα), e cioè l’indurimento osseo delle squame del primo e l’otòlite nella testa della seconda, tutti elementi che potrebbero almeno favorire un giuoco di parole con ‘pietruzza, sassolino’, avremmo assolto la prima parte del compito, direi senz’altro la meno importante, che in realtà, quasi costretti come vi siamo, possiamo con tranquillità trascurare o
|| 13 B. KANNICHT, «Gnomon», 38, 1966, p. 551 ss. (quel che riguarda la nostra chria è a p. 552 s.). 14 Giacché ψῆφος può anche valere ‘garanzia per una συμβολή’ (per σ. v. oltre), come in A. P. 6.248.5 richiamato da BARIGAZZI. recens. cit., p. 341.
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lasciare ai naturalisti: ma resterebbe l’accostamento verbale, il doppio senso piú o meno arguto, che dovrebbe darci la chiave del motto di spirito e che è passato finora sempre in seconda linea. Esso non è, a mio parere, né tanto oscuro quanto potrebbe sembrare a prima vista, né del tutto privo d’interesse, se non d’arguzia. Se ci sfugge, come abbiamo visto, il legame con la realtà naturalistica del ϰωβιός, è d’altra parte certo che ψῆφος è parola che, specie in ambiente attico, richiama subito la sfera, piuttosto ampia, delle decisioni di vario tipo che ad Atene si prendono per votazione. Il sassolino, o ciottolo levigato, è usato fin da tempi antichi per scopo di votazione e la parola è passata a significare anche la votazione stessa o il risultato di essa15 e il verbo ψηφίζεσϑαι è stato usato in via praticamente esclusiva per designare la funzione del votare con segni particolari,16 distinto dal χειροτονεῖν, che è il votare per alzata di mano. Ora, ad Atene, che è l’ambiente greco che possiamo meglio seguire almeno fino all’età di Aristotele, si vota in varie occasioni: per eleggere magistrati, per ratificare decreti, ed infine nei tribunali per cause pubbliche o private.17 L’ultima è, fin dalla fondazione dell’elièa solonica, l’occasione di voto piú diffusa e piú caratterizzante per il costume civile ateniese, soprattutto per la grande diffusione del diritto di voto, che spetta praticamente a tutti i cittadini, e per il particolare valore di tale diritto: i dicasti18 sono infatti allo stesso tempo giurati e giudici per le cause in cui siedono.19 || 15 LIDD.–SC.–J., s.v., II.5. 16 Questo rende probabile che originariamente la ψῆφος fosse il mezzo di gran lunga più comune per votare. Più tardi compaiono anche altri strumenti adattati allo scopo: v. in part. Poll. 8.16–18 (p. 112.24 ss. Bethe), dove si parla di σϰεύη διϰαστιϰά e dove si elencano anche χοιρῖναι (telline), φρυϰτοί (sc. ϰύαμοι : fave abbrustolite), σπόνδυλοι (anch’essi, sembra, pietruzze). E si pensi ai cocci (ὄστραϰα) usati per l’ostracismo e alle foglie d’ulivo usate per eliminare un ecclesiasta dalla seduta nella cosiddetta ἐϰφυλλοφορία (BUSOLT–SWOBODA, cit. sotto, 1.454.2, 2. 1024), oltre alla particolare foggia delle ψῆφοι aristoteliche, per cui v. oltre. La commedia antica è, naturalmente, ricca di allusioni al mondo dicastico e alle antichità di voto: per le χοιρῖναι, ad es., v. Ar. eq. 1332, vesp. 333; e v. ancora ϰύαμος in av. 1022, Lys. 537, 690, ϰυαμοτρώξ come epiteto di Demo in eq. 41, cogli scoli ad locc. Interessante Herodt. 9.55.2 ... ὁ Ἀμομφάρετος λαμβάνει π έ τ ρ ο ν ἀμφοτέρῃσι τῇσι χερσὶ ϰαὶ τιϑεὶς πρὸ ποδῶν τοῦ Παυσανίεω ταύτῇ τῇ ψ ή φ ῳ ψηφίζεσϑαι ἔφη... – Nelle grandi enciclopedie ‘reali’ come la R.E., il Daremberg–Saglio etc., manca una voce speciale per ψῆφος. 17 V. cit. oltre le trattazioni dei grandi manuali. Utile il panorama di J. A. O. LARSEN, The Origin and Significance of the Counting of Votes, «Class. Philol.», 44, 1949, pp. 164–181. V. anche A. L. BOEGEHOLD, «Hesperia», 32, 1963, pp. 368–372. 18 ‘Dicasti’ o ‘eliasti’, indifferentemente (J. H. LIPSIUS, Das attische Recht..., cit. oltre, I p. 150 e n. 51). 19 V. EHRENBERC, L’Atene di Aristofane, cit., p. 75.16, che cita J. F. CRONIN, The Athenian Juror and his Oath (Diss. Chicago, 1936).
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L’attività dicastica e il gusto per i processi diventano ad Atene una specie di passione nazionale, una vera e propria mania collettiva: basti pensare alle Vespe di Aristofane. Ma chi aveva pur visto, come Casaubon, il possibile valore giuridico da dare a ψῆφος, non l’aveva collegato colla possibile accezione giuridica di un’altra parola del nostro testo, ἀσύμβολος, che ci dà, insieme colla conferma del valore di ψῆφος, la chiave sicura del giuoco di parole. In contesto conviviale, com’è quello in cui ci troviamo, ἀσύμβολος richiama un particolare valore: come anche Gow c’informa, l’aggettivo viene usato sia per pasti ai quali gli ospiti non hanno contribuito, sia — ed è il nostro caso, che è di Archefonte che si parla — per ospiti che non abbiano contribuito ad un pasto comune. Συμβολαί sono, infatti, tali contribuzioni,20 che, pur in uso da tempi antichi,21 diventano particolarmente frequenti nell’Atene borghese del quarto secolo, a giudicare dall’abbondanza di allusioni in tal senso proprio nella commedia di mezzo e nella commedia nuova, dove anzi ἀσύμβολος diventa praticamente sinonimo di ‘parassita’.22 Ma ἀσύμβολος può farsi derivare, per spontanea reinterpretazione della parola, anche da σύμβολον, che è, sempre nella sfera dicastica, il gettone che viene dato al giudice e che lo autorizza a votare, a ricevere cioè le ψῆφοι colle quali esprimerà il suo voto: e, dopo il voto, gli sarà dato un altro σύμβολον, che consegnerà in cambio del soldo dicastico, del μισϑὸς διϰαστιϰός. 23 La parola avrebbe quindi il senso di ‘non avente il σύμβολον dicastico’. Ora, chi non ha il diritto di voto è semplicemente un ἄτιμος, un colpito da ἀτιμία, è colui che non ha i diritti civili, in contrapposizione a chi li ha, che è ἐπίτιμος che ha la ἐπιτι-
|| 20 LIDD.–SC.–J. s.v., IV. 21 V. p. es. MAU, R.E. 4.1 (1900), col. 1201 ss., voc. Convivium: Hom., Odyss. 1.226 ἔρανος; Hes., op. 722 s. δαὶς ἐϰ ϰοινοῦ. V. Athen 8.365 a τὰ νῦν ϰαλούμενα ἀπὸ σπυρίδος δεῖπνα, 365 d τὸ ἀπὸ συμβολῶν ϰαλούμενον. In Macone (v. 266 ss.) è descritto un picnic di questo genere. 22 Basta una scorsa all’Index di JACOBI nei Fragmenta Comicorum Graecorum di MEINEKE: Anaxandr., Mein. 3 p. 165 (v. MEINEKE–BOTHE, p. 420: ‘parasitum dicere videtur’; K. 2 p. 139, Edm. 2 p. 48); Drom., Mein. 3 p. 541 (K. 2 p. 419, Edm. 2 p. 532); Timocl., Mein. 3 p. 596 (K. 2 p. 456. Edm. 2 p. 608); Diph., Mein. 4 p. 411 (K. 2 p. 565, Edm. 3 p. 134); Nicol., Mein. 4 p. 579 (K. 3 p. 383, Edm. 3 p. 290). Le συμβολαί del parassita sono i suoi lazzi: Poll. 6.123 (p. 34.21 s. Bethe) (εἰς ϰόλαϰα) ... ἀσύμβολος, παρεχόμενος συμβολὰς τὸν γέλωτα, ... 23 LIDD.–SC.–J., s.v., I.5. Nel Thesaurus (1831–1865), mancano naturalmente le importanti testimonianze aristoteliche (la Ἀϑηναίων Πολιτεία ci è nota dal 1890). Utile W. MÜRI, Σύμβολον. Wort– und Sachgeschichtliche Studie (Bern, 1931), pp. 5 s., 35 s. Ma v. soprattutto REGLING, R.E. 4 A. 1 (1931) col. 1092, voc. Symbolon; G. LAFAYE, in DAREMBERG–SAGLIO s.v. Tessera p. 130 ss. (e ibid. E. CAILLEMER, s.v. Dikastai p. 189 s.). Com’è noto, il soldo dicastico era stato portato da Cleone, durante la guerra del Peloponneso, da due a tre oboli.
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μία.24 Ἀσύμβολος si presenta, così, con tutti gli aspetti della Augenblicksbildung, del termine scherzosamente coniato per l’occasione, col suo valore aggettivale apparentemente designante una qualità stabile, inerente al soggetto, mentre non potrebbe, dal punto di vista sostanziale, che designare una situazione o c c a s i o n a l e . L’esser dicasta, per l’ordinamento ateniese, non è, infatti, una qualità stabile, ma una funzione occasionale, che in alcuni giorni e per alcuni processi non si ha occasione di esercitare (pur essendo, beninteso, subordinata ad uno status giuridico stabile, che è quello del possesso dei diritti civili, espresso dalla ἐπιτιμία). Ed anche ψῆφον ἔχοντα ritiene tutto il suo valore (verbale) di designazione occasionale: ‘che ha in questo momento, in questa occasione, il diritto di votare’.25 Insomma, nella sfera giuridica non esiste chi sia semplicemente ἀσύμβολος, così come non esiste chi sia semplicemente ἄψηφος,26 visto che tutti e due questi stati (insieme con molti altri, privativi di diritti singoli) sono compresi nella designazione di ἄτιμος; e l’aver creato ἀσύμβολος è, anche da questo punto di vista, una pointe, che non lascia dubbi sul suo valore. D’altra parte, va aggiunto, ci si riferisce qui senza dubbio al processo e non alle altre occasioni di votazione a cui si è accennato. Si vedrà qui appresso, nella caratterizzazione del costume dicastico ateniese, quanta parte abbia la ‘temibilità’ del giudice popolare, il ‘terrore’ ch’egli incute: ed è in tale contesto che si capisce il δέδοιϰε di Macone. È questo che ci porta ad escludere l’ ἐϰϰλησία, che ha anch’essa il suo soldo esigibile col σύμβολον,27 la sua votazione a mezzo di ψῆφος; ed ugualmente l’elezione di magistrati. Che senso immediato avrebbe parlare, a proposito di queste occasioni di esercizio del voto, di ‘terrore’ ispirato dal votante? Sarà forse utile una rappresentazione schematica dello scherzo verbale evocato da ἀσύμβολος:
|| 24 BUSOLT–SWOBODA, cit., oltre, I p. 230 ss. 25 Alcune delle definizioni di Polluce, viste con attenzione linguistica, tradiscono sensibilità giuridica: 8.8 (p. 111.7 Bethe) ὁ δὲ διϰαστὴς ὀνομασϑείη ἂν ὁ διϰάζων, ὁ ϰλήρῳ λαχών, ὁ ϰληρωϑείς, ὁ τῆς ψήφου ϰύριος, ὁ τὴν ψῆφον παρειληφώς, ὁ τὸν ὅρϰον ὀμωμοϰώς, ... Tutti participi, nessun aggettivo; un solo sostantivo, ϰύριος τ. ψ., ma l’espressione è tecnica per indicare i diritti civili e ψῆφος significa ‘diritto di voto’ (Ar. resp. Ath. 9,1 ϰύριος γὰρ ὢν ὁ δῆμος τῆς ψήφου, ϰύριος γίγνεται τῆς πολιτείας. Ed espressioni come Aesch. Ag. 104 ϰύριός εἰμι ϑροεῖν ... conservano a legal ring, come nota ED. FRAENKEL ad loc.). 26 In Ar. vesp. 752 ἀψήφιστος (da ψηφίζομαι) vale naturalmente ‘che non ha votato’. 27 V. ad es. Ar. eccles. 289 ss. A proposito dei vari tipi di ‘soldo’ per funzioni pubbliche (dicastico, buleutico, ecclesiastico) v. J. J. BUCHANAN, Theorika (Locust Valley, N. Y., 1962), p. 14 ss.
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συμβολαί = contribuzione a convito in comune
~
σύμβολον = gettone dicastico
ἀσύμβολος = che non contribuisce al convito (e ‘parassita’)
~
ἀσύμβολος = che non ha gettone dicastico
Le due parole, ψῆφος e ἀσύμβολος, s’illuminano così l’una con l’altra e si confermano nel loro valore. Il senso del motto sarebbe quindi, secondo la nostra interpretazione, il seguente: Archefonte, che è ἀσύμβολος (e cioè ‘parassita’ ~ ‘privo del σύμβολον dicastico’, non autorizzato, cioè, a votare oggi e in quest’occasione), non ha il coraggio di mangiare un pesce, il ϰωβιός, che ἔχει ψῆφον (legame naturalistico col pesce, che ci sfugge ~ ‘che ha il voto dicastico’, che è autorizzato, cioè, a votare). Chi non giudica, come ancor meglio vedremo, rispetta e teme (σέβεται ... ϰαὶ δέδοιϰέ πως) chi giudica. Se avessimo semplicemente chiarito il mediocre giuoco verbale di un mediocre autore alessandrino, non potremmo dire, tutto sommato, di aver ottenuto gran che. Ma l’interesse dello scherzo di Macone sta nella possibilità, che abbiamo, d’inserirlo in un particolare quadro storico. Macone, che è attivo ad Alessandria,28 dove rappresenta anche le sue commedie e dove piú o meno apertamente ambienta parte delle sue χρεῖαι,29 non è attico di nascita, come ci comunicano le fonti. Lasciando qui da parte il problema della estensione delle istituzioni dicastiche ad altre città greche e in epoche diverse, basterà considerare il fatto che la tradizione a cui egli si riallaccia è comunque quella della commedia nuova, con tutto il suo legame storico–letterario a tradizioni attiche: e una gran parte dei suoi personaggi è legata ad Atene.30 È, anzi, interessante vedere com’egli si presenta alla critica letteraria che immediatamente lo segue, come vediamo da un bell’epigramma di Dioscoride (A.Ρ. 7.708 = Ath. 6.241 f): Τῷ ϰωμῳδογράφῳ, ϰούφη ϰόνι, τὸν φιλάγωνα ϰισσὸν ὑπὲρ τύμβου ζῶντα Μάχωνι φέροις· οὐ γὰρ ἔχεις ϰηφῆνα παλίμπλυτον, ἀλλά τι τέχνης ἄξιον ἀρχαίης λείψανον ἠμφίησας. τοῦτο δ’ ὁ πρέσβυς ἐρεῖ· «Κέϰροπος πόλι, ϰαὶ παρὰ Νείλῳ
|| 28 Gow, p. 3. 29 Tre delle sue χρεῖαι sono ambientate alla corte tolemaica: I, V (la nostra), XVIII.439 ss. (Gow, p. 20). 30 Gow (p. 20 e n. 1) elenca i passi ‘attici’ (vv. 310, 333, 349, 403, 426) ed è strano che ometta proprio il nostro v. 27 (ἐϰ τῆς Ἀττιϰῆς, rinforzato da 44 πάτριόν ἐστιν!).
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ἔστιν ὅτ’ ἐν Μούσαις δριμὺ πέφυϰε ϑύμον».31
Non è forse privo di significato il fatto che la ‘dittatura’ letteraria attica venga messa in rilievo proprio a proposito di questo poeta. La χρεία di Macone mostra infatti – e questo a me sembra il maggiore interesse di essa – una sorta di campanilismo greco, o addirittura piú precisamente attico, nella espressione 44 πάτριόν ἐστιν, riferita ad Archefonte, che viene appunto dall’Attica.32. A me par di vedere una chiara espressione di orgoglio campanilistico nella contrapposizione di un costume così tipicamente legato alla democrazia attica come quello dicastico al modo o ai piú modi completamente diversi di amministrare la giustizia nell’Egitto tolemaico. In Egitto, nel terzo secolo, vigono tre forme di diritto pubblico–privato e processuale:33 uno strettamente locale, egizio, non abolito dai persiani e rispettato anche dai Tolemei; uno greco, volto a rispondere alle esigenze della numerosa colonia greca che viveva specialmente nei porti; ed infine uno regio tolemaico, che aveva naturalmente la maggior sfera operativa, e per il quale il re era supremo giudice.34 Sottolineare ulteriormente, per converso, il peso che ha tradizionalmente ad Atene l’ordinamento dicastico come espressione di costituzionale democraticità, potrebbe apparire inutile, se non ci si offrisse l’opportunità di accentuarne alcuni tratti che illuminano il nostro passo. La commedia è, naturalmente, la nostra fonte piú ricca. Per la ‘mania processuale’ dei suoi concittadini Aristofane ha trovato un’immagine poetica (av. 39–41): οἱ μὲν γὰρ oὖν τέττιγες ἕνα μῆν’ ἢ δύο ἐπὶ τῶν ϰραδῶν ᾄδουσ’, Ἀϑηναῖοι δ’ ἀεί ἐπὶ τῶν διϰῶν ᾄδουσι πάντα τὸν βίον.
Le allusioni in Aristofane sono numerose, ed abbiamo un’intera commedia costruita sulla mania processuale, le Vespe.35 Anche se, anzi proprio perché,
|| 31 V. M. GABATHULER. Hellenistische Epigramme auf Dichter (St. Gallen, 1937), n. 67 (cf. p. 87 s.). Gow in GOW–PAGE, The Greek Anthology (Cambridge, 1965), II p. 258 corregge 3 ϰηφῆνα in ϰύφωνα (cf. Gow, Miscellanea Rostagni, Torino, 1965, p. 527 s.). 32 πάτριον è qui solenne e formulare: v. IG II–III2, 4 (Indices) s.v. πάτριος. 33 V. spec. E. SEIDL, Ptolemäische Rechtsgeschichte2 (Glückstadt etc., 1962), pp. 1 ss., 69 ss., H. J. WOLFF, Das Justizwesen der Ptolemäer (München, 1962), p. 31 ss. 34 R. TAUBENSCHLAG, The Law of Greco–Roman Egypt...2 (Warszawa, 1955), p. 479 ss.; WOLFF, op. cit. p. 5 ss. 35 Dalle altre commedie: nub. 207 s. (Strepsiade non crede di vedere Atene se non vede giudici riuniti), pac. 505 (οὐδὲν γὰρ ἄλλο δρᾶτε πλὴν διϰάζετε), αν. 109–111 (il seme dei non–eliasti si semina ancora solo in campagna) etc. — Per una valutazione complessiva della civiltà dicastica
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tutto è presentato in caricatura, meglio ne risalta, nella figura di Filocleone e nei coreuti–vespe, l’attaccamento alla funzione eliastica. Essa dà uno sconfinato senso di potere (320–22 βούλομαί γε πάλαι μεϑ’ ὑμῶν ἐλϑὼν ἐπὶ τοὺς ϰαδίσϰους ϰ α ϰ ό ν τι ποιῆσαι, e cf. 168, 340), che è del tutto ἀνυπεύϑυνος (587). Grande è la desolazione di Filocleone quando s’accorge d’aver perso l’occasione di condannare un accusato, il cane Labete (999 ss., cf. 158–160). L’agone della commedia è una esposizione dei vantaggi della condizione di eliasta: si tratta di una ἀρχή (548, 575, 620) che dà potere sull’Ellade intera (577 τῆς Ἑλλάδος ἄρχειν, cf. 517), che è grande come una βασιλεία (546, 548 s.), che rende, di fronte agli altri, simili a un dio (571), non inferiori addirittura a Zeus (620 s.). L’eliasta è tanto potente, da incutere terrore: parole come δ ε ί δ ω (427, 628–630), δ ε ι ν ό ς (551), τ ρ έ μ ω (571) etc. compaiono spesso, e rendono ragione finalmente, come s’è visto, del σέβεται e del δέδοιϰε di Macone.36 Insomma, l’esser dicasta è la caratteristica tipica e l’onore piú grande per il cittadino ateniese, che non trova per sé miglior qualifica quando ricorda le glorie delle guerre nazionali contro i barbari (1075 s., 1089 s.): ἐσμὲν ἡμεῖς, οἷς πρόσεστι τοῦτο τοὐρροπύγιον, Ἀττιϰοὶ μόνοι διϰαίως ἐγγενεῖς αὐτόχϑονες. ὥστε παρὰ τοῖς βαρβάροισι πανταχοῦ ϰαὶ νῦν ἔτι μηδὲν Ἀττιϰοῦ ϰαλεῖσθαι σφηϰὸς ἀνδριϰώτερον.
|| attica v. ad es. BONNER–SMYTH, cit. oltre, II p. 288 ss. In realtà, dure sono le critiche che si fanno al costume dicastico, deteriorato specialmente dal sicofantismo (v. EHRENBERG, op. cit., p. 486 ss., spec. 489 s.); e aperto il disprezzo, da parte di Aristofane, per eliasti ed ecclesiasti (EHRENBERG, pp. 473, 483 s.). Lo stile ‘giudiziale’ di Euripide (i ῥημάτια διϰανιϰά di pax 534, che sono ‘parolette che sanno di tribunale’, e non ‘termini giuridici’ come indica LIDD.–SC.–J.) è diventato nell’antichità categoria critica: ed è inutile richiamare qui, in proposito, l’importanza della prassi sofistica. Per testimonianze tarde, che ci documentano l’esistenza di un topos caratterizzante, basterà richiamare Lucian., Icaromen. 16 ... ϰαὶ ὁ Ἀϑηναῖος ... ἐδιϰάζετο. 36 Soprattutto i ricchi sono vittime della paura che incutono i dicasti: 626–28 ϰἂν ἀστράψω, ποππύζουσιν ϰἀγϰεχόδασίν μ’ oἱ πλουτοῦντες ϰαὶ πάνυ σεμνοί. I dicasti appartengono in genere alle classi umili (cf. vesp. 703). Lo confermerebbero anche πινάϰια διϰαστιϰά (per cui v. Sotto): secondo S. Dow, «Bull. Corresp. Hell.», 87,. 1963, cit. oltre, p. 657 per il fatto che in molti di essi c’è traccia di riutilizzazione (il nome del secondo titolare si sovrappone a quello del primo); secondo MARGHERITA GUARDUCCI, Epigrafia Greca, vol. II, cap. ‘Tessere pubbliche, contrassegni, voti’ (non ancora pubbl.: ho potuto leggerlo in manoscritto per la cortesia dell’Autrice) perché non vi si trovano nomi identificabili con personaggi di rilievo. Del resto, questo ci è confermato, nei personaggi aristofanei, dall’attaccamento al soldo dicastico come a unica o principale fonte di vita, che si configura spesso in un ‘chi non giudica non mangia’: nub. 863 s., vesp. 303 ss., 605 ss., 1113, 1120 s., Lys. 624 s. etc.
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E la tradizionale identificazione dei tribunali popolari con la democrazia viene espressa dall’apostrofe del coro di eliasti–vespe a Bdelicleone, ad essi avverso: ὦ μισόδημε ϰαὶ μοναρχίας ἐραστά (474). Che documentazione abbiamo del giudizio popolare, nelle varie fasi storiche della sua presenza? La descrizione piú ampia che ce ne vien data è quella che leggiamo nella Ἀϑηναίων πολιτεία di Aristotele, che è del 325 a.C. circa. Il sistema è abbastanza complesso, e lo si può sintetizzare qui brevemente. I giudici–giurati vengono scelti, fra i cittadini aventi diritto, con un elaborato sistema di sorteggio, che ha luogo il giorno stesso della discussione delle cause e che contempla l’uso di alcune ‘antichità’, di alcuni realia giuridici, di cui nominiamo qui solo i principali: delle tesserine (πινάϰια) su cui è iscritto il nome del dicasta (e la sigla della sua tribú, ché la distribuzione dei dicasti avviene per tribú) e che poi verranno messe nelle apposite piccole caselle di una specie di macchina per sorteggio (ϰληρωτήριον), dalla quale verrà fuori il nome di coloro che in un determinato giorno giudicheranno;37 i σύμβολα, o tesserine di controllo, di cui si è già parlato; e, per la votazione vera e propria, le ψῆφοι, che si presentavano al tempo di Aristotele in una forma particolare, atta a garantire la segretezza della votazione: dei dischetti di bronzo nel centro dei quali s’innestava un piccolo perno, che poteva essere pieno (ψῆφος πλήρης, il voto che assolve) o vuoto (ψῆφος τετρυπημένη, il voto che condanna), in modo da permettere al dicasta, che teneva il perno fra due dita, di non mostrare quale delle due avrebbe deposto nell’urna destinata ai voti da conteggiare (ϰύριος ϰαδίσϰος) e quale nell’urna dei voti di scarto (ἄϰυρος ϰαδίσϰος).38 In realtà il sistema è, nelle sue grandi linee, assai piú antico, come vediamo da quanto si può ricostruire attraverso le varie tappe, come le Eumenidi di Eschilo o le Vespe di Aristofane,39 e va tenuto presente che la ψῆφος di tipo aristotelico, così come la votazione segreta con due ψῆφοι, vengono in uso dopo Aristofane.40 È significativo, comunque,
|| 37 La miglior trattazione del funzionamento dei ϰληρωτήρια è quella di S. Dow, Aristotle, the Kleroteria, and the Courts, «Harv. St. Class. Philol.», 50, 1939, pp. 1–34. 38 Una comoda raccolta di documentazione per antichità dicastiche (con riproduzioni) è in The Athenian Citizen, Excavat. Ath. Agora, Pict. Book No. 4, The Amer. Sch. of Class. St. at Ath. (Princeton, 1960), fig. 22 e testo corrisp. (ψῆφoι e πινάϰια), figg. 23, 24 (ϰληρωτήρια). V. anche le riproduz. in J. E. SANDYS, Aristotle’s Constitution of Athens, London 1912, tav. del frontesp. Si veda anche il cap. cit. di M. GUARDUCCI, Epigrafia Greca, II (non ancora pubbl.), oltre ai lavori citt. qui appresso. 39 Per la procedura di voto nel sec. V a. C. v. ED. FRAENKEL, Aesch. Ag., ad 816 s. (II, p. 376 s.). 40 Per i giudizi prima di Aristotele v. H. HOMMEL, Heliaia, «Philologus», Suppl.–Bd. 19, H. 2 (Leipzig, 1927), p. 109 ss. (spec. p. 114 s., dov’è detto che la procedura resta sostanzialmente la stessa: ma non si parla delle antichità).
I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese | 455
che tutti i grandi manuali giuridici, nella descrizione del processo,41 si fermino ad Aristotele, e che i lavori sull’Atene ellenistica passino quasi sotto silenzio il diritto processuale dell’epoca.42 A ciò costringe una estrema esiguità di documentazione. C’è da chiedersi, quindi, se per caso nel terzo secolo, epoca in cui dobbiamo immaginare scritta la χρεία di Macone, il giudizio popolare sia ancora in uso. Tacendo i testi letterari, non resta che cercare documentazione delle principali antichità dicastiche. Le ψῆφοι conservate sono databili tutte al sec. IV a.C. (di tipo aristotelico), sia per le caratteristiche delle lettere incise su di esse sia per il contesto archeologico di ritrovamento.43 Quanto ai σύμβολα, non trovo precise indicazioni cronologiche:44 e voglio supporre, per prudenza, che non si vada oltre l’epoca accertata per le ψῆφοι. Per i πινάϰια c’è da tener presente che il bronzo lascia il posto al legno, materiale deperibile, proprio prima di Aristotele, e che tutti quelli conservati, naturalmente di bronzo, risalgono ad un’epoca che va tra il principio e la seconda metà del sec. IV.45 L’unico concreto conforto archeologico ci viene dai ϰληρωτήρια, le grosse macchine di marmo che servi-
|| 41 V. spec. J. H. LIPSIUS, Das attische Recht und Rechtsverfahren, I–III (Leipzig, 1905–15), I, p. 134 ss., III, p. 920 ss.; G. BUSOLT–H. SWOBODA, Griechische Staatskunde3, I–II (München, 1920–26 e F. JANDELBEUR, Register, 1926), I p. 509 ss. (il processo, non limitatamente ad Atene), II p. 1150 ss. (Atene); R. J. BONNER–G. SMYTH, The Administration of Justice from Homer to Aristotle, I–II (Chicago, 1930–38), I pp. 149 ss., 223 ss., 346 ss. Per il problema dell’Attica rurale v. BONNER– SMYTH pp. 318–22: le comunità non erano soppresse, c’era sicuramente autonomia (ma ricorderei Ar. av. 109–111 cit. sopra). Utile, per noi filologi, G. M. CALHOUN–C. DELAMERE, A Working Bibliography of Greek Law (Cambridge–Mass., 1927). 42 V. soprattutto W. S. FERGUSON, Hellenistic Athens. An Historical Essay (London, 1911), dove troviamo sparsi accenni (p. 289: i ricchi, nel sec. III a. C., temono ancora i processi; p. 456 : per l’età sillana si può affermare che i tribunali cessino di avere importanza in a political sense); P. GRAINDOR, Athènes sous Auguste (Le Caire, 1927; p. 134 ss.: l’organizzazione giudiziaria è incerta, per scarsità di testimonianze; sembra che Atene goda ancora di autonomia per la giurisdizione civile; ma non si sa se le cause importanti fossero già deferite all’imperatore). E niente sui tribunali trovo in J. SUNDWALL, De institutis reipublicae Atheniensium post Aristotelis aetatem commutatis, I, «Acta Soc. Scient. Fennica», 34.4, 1906. 43 A. L. BOEGEHOLD, Toward a Study of Athenian Voting Procedure, «Hesperia», 32, 1963 (pp. 366–374), p. 366.1 e tav. 85, che dà una lista di ψῆφοι pubblicate. 44 A. L. BOEGEHOLD, Aristotle’s Athenaion Politeia 65,2: The ‘Official Token’, «Hesperia», 29, 1960, pp. 393–401 (e tav. 87). 45 Arist. resp. Athen. 63.4 (p. 85.9 Opperm.) τὸ πινάϰιον πύξινoν. V. S. Dow, Dikast’s Bronze Pinakia, «Bull. Corresp. Hell.», 87, 1963, pp. 653–687: a p. 653 s. l’elenco di tutti i πινάϰια pubblicati; a p. 657 s. le precisazioni cronologiche. Dow pensa che i ϰληρωτήρια del sec. II a.C. (per cui v. qui sotto) siano, appunto, adatti a πινάϰια di legno.
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vano al sorteggio dei giudici: ne sono state trovate di risalenti al sec. II a.C.46 Questo potrebbe sembrare sufficiente a farci supporre la continuità dell’uso giudiziale ateniese nel corso del terzo secolo. La testimonianza di Macone, già preziosa per l’ambiente in cui s’inquadra, quello tolemaico, viene a darci, in piú, ulteriore conferma di tale continuità.
|| 46 S. Dow, Prytaneis, «Hesperia», Suppl. I, Athens 1937, pp. 198–215 («Allotment Machines»). Sempre Secondo Dow, «Harv. St. Class. Philol.», 50, 1939, cit., p. 3 ss., è improbabile che i ϰληρωτήρια del sec. II a.C. differiscano sostanzialmente, per il funzionamento, da quelli descritti da Aristotele. La mancanza di materiale antico può essere spiegata col fatto che molto probabilmente i ϰληρωτήρια erano, piú anticamente, di legno.
La professione dell’attore Dobbiamo alla pietas della curatrice se questo bel libro di Max Herrmann, (Die Entstehung der berufsmässigen Schauspielkunst im Altertum und in der Neuzeit, herausgegeben und mit einem Nachruf versehen von Dr. Ruth Mövius, Berlin, Henschelverlag, 1962, pp. 314) ha visto la luce, sia pure vent’anni dopo che l’a. vi aveva posto mano per l’ultima volta, nel 1942. Anche noi ne riferiamo con otto anni di ritardo e ne chiediamo scusa ai lettori. L’opera non è compiuta e porta visibili i segni di una disagiata elaborazione. Max Herrmann vi lavorò fra il 1933, anno in cui fu allontanato dalla cattedra berlinese di Storia del teatro, e il 1942, anno della sua morte in campo di concentramento. Come apprendiamo dalla curatrice, i disagi a cui dovette andare incontro furono tali da scoraggiare tempre meno solide di studioso e di uomo: limitazioni nel permesso d’accesso alle biblioteche e, alla fine, divieto totale. La sua attività precedente si era svolta particolarmente sul teatro tedesco del medioevo, del rinascimento, del classicismo, del romanticismo. Questo libro è l’unico della sua produzione che affronti l’antichità classica. Il tema della ricerca è di grande interesse e, per l’importanza che ad un certo momento viene ad assumere in Grecia il teatro come fatto di comunità, va al di là dei confini della storia letteraria in senso stretto: si tratta del sorgere della figura dell’attore professionale in Grecia (I.A), del continuare e decadere di tale figura nella tarda latinità (I.B) e del suo risorgere nel tardo umanesimo italiano (II), soprattutto nella persona di Pomponio Leto (II.A); un ultimo capitolo, che doveva esser dedicato a Francesco de’ Nobili, è purtroppo rimasto nella penna dell’a. È importante definire con precisione il soggetto della ricerca. L’a., a ragione polemizzando con chi afferma risiedere la ‘professionalità’ semplicemente in una remunerazione in danaro, afferma (p. 15) che essa si ha quando gli attori non sono tali solo occasionalmente, ma quando possono, naturalmente grazie ad un compenso, dedicarsi i n t e r a m e n t e a tale attività, senza esser costretti ad esercitarne altre per guadagnarsi il pane. Solo, la documentazione diretta in questo senso è praticamente assente, per la Grecia (p. 21). La via che segue l’a. è quindi un’altra: l’esame dei testi. È qui, a mio parere, la più grossa aporia del lavoro. L’a. infatti prende a considerare quello che la tradizione ci dà come il primo teatro vero e proprio, il carro di Tespi, e, credendo di ravvisare in questi
|| [Recensione pubblicata in «Maia», n.s. 22, 1970, pp. 172–175]
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che sono i primi drammi solo una lyrisch–epische Vortragskunst (p. 27), senza caratteristiche veramente ‘teatrali’, nega l’esistenza di un’arte scenica professionale semplicemente perché nega che si tratti di arte scenica. Noi non vogliamo qui contraddire l’a. sul piano della valutazione del teatro di Tespi, come non lo faremo in seguito per quanto riguarda Eschilo: prendiamo per buone le sue affermazioni o piuttosto non ne discutiamo la rilevanza, per domandarci se possiamo fondare l’esistenza di attori professionisti sulle qualità drammatiche più o meno spiccate della produzione di un’epoca determinata. E teniamo presente che, anche a voler fare distinzioni rigide fra generi e stili e, peggio, fra sfumature di generi e stili, coloro che ‘recitano lirico–epicamente’ il ‘non drammatico’ teatro di Tespi hanno pur sempre a che fare col teatro e niente, che non sia una testimonianza concreta ed esplicita, ci può assicurare che il professionismo non sia ancor nato. Che se poi l’a. vuole restringersi alla sola considerazione dell’attore in senso moderno, come colui che presenta sulla scena un personaggio con espedienti di mimesi psicologica piú o meno raffinata (come appare a p. 33: … in psychologischer und d a m i t – spaziato mio – auch in schauspielerischer Hinsicht), ci sarà da obiettare che una tale modernizzazione non è lecita, e perché porta a misconoscere il senso del teatro antico, che non è mai psicologistico, e perché lascia fuori elementi arbitrariamente esclusi (gli attori ‘non drammatici’ di Tespi e – perché no? – anche i cantori–danzatori della lirica corale rituale e dell’epinicio etc.), i quali avrebbero poi pur sempre in comune coll’attore in senso più ristretto una eventuale professionalità, la cui esistenza è da un certo momento in poi altamente probabile per ragioni storiche e che costituirebbe il centro di una ricerca di primario interesse. Professionalità comporta infatti ‘riconoscimento’ da parte di una comunità, sia che di tale riconoscimento si faccia veicolo, per esempio, la munificenza di un tiranno, sia che esso venga direttamente da una organizzazione più o meno democratica, com’è ad Atene sicuramente, almeno, dal quinto secolo in poi. Per le origini, quindi, per quanto interessanti sarebbero eventuali risultati concreti nel campo del teatro, non resta che rassegnarsi alla mancanza di testimonianze decisive. L’aporia metodologica si fa poi particolarmente sensibile nella considerazione del teatro di Eschilo. A parte la collocazione delle Supplici all’inizio della produzione a noi conservata di Eschilo per la valutazione delle sue qualità drammatiche poco spiccate (ein Oratorium, p. 30; – e sappiamo, col senno di poi, che, grazie alla scoperta del P. Oxy. 2256,3 1952 che ci permette di collocarle fra il 467 e il 458, dopo i Persiani e i Sette, son cadute anche le considerazioni di struttura che tutti facevano); a parte gli apprezzamenti sul valore altamente drammatico nel senso del movimento scenico e dell’animazione dei personaggi in una tragedia caratteristica come l’Agamennone (p. 31 ss.), considerazioni che
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sono spesso assai buone, pur lasciando trasparire una preoccupazione psicologistica che, come abbiamo detto, è fuori luogo; a parte tutto questo, c’è da chiedersi se sia possibile stabilire il sorgere della professionalità drammatica proprio fra il 472 (Persiani) e il 468–7 (Sette) solo perché la seconda tragedia, altamente drammatica, richiederebbe ‘attori’ nel senso più moderno della parola, mentre la prima richiederebbe solo ‘recitatori’ non drammatici. Si dovrà dunque credere che un’arte drammatica più ‘drammaticamente’ scaltrita d e b b a presupporre o fondarsi su professionalità, e d’altra parte – peggio ancora – che un’arte drammatica meno scaltrita dal punto di vista scenico e s c l u d a tale professionalità? E ci chiediamo ancora: sarebbe stato Eschilo ad adattarsi, o meglio a sfruttare un dato di fatto nuovo, e cioè la possibilità di utilizzare un personale tecnicamente formato all’azione scenica, modificando così il suo stile drammatico, oppure l’introduzione di professionisti specializzati sarebbe stata una conseguenza del mutato stile dei drammaturghi? Sappiamo che due fatti di questo genere sono normalmente concomitanti: si tratta solo di saper dare di volta in volta più peso all’uno o all’altro, e siamo sicuri che l’a., in omaggio al suo vivace senso della realtà e della concretezza storica (Grecia del quinto secolo!), sarebbe stato incline a dar più peso al primo, se si fosse posto in questi termini il problema. Ma sarebbe stato anche qui contraddetto dallo sviluppo del teatro eschileo, che non presenta un’evoluzione costante in questo senso: prescindendo dalle Supplici, per la cui cronologia bassa gli mancava ancora il papiro (che ci dà la sequenza Persiani ‘non drammatici’, Sette ‘drammatici’, Supplici ‘non drammatiche’), basterebbero le Eumenidi (458), che l’a. stesso definisce (p. 67), come il Prometeo, ein lyrisch–dramatisch–oratorienhaftes Gebilde. L’a. entra poi in chiara contraddizione con sé stesso quando (p. 94) di Epicarmo, che è più o meno contemporaneo di Eschilo ed è attivo a Siracusa al tempo dei Dinomenidi, dà una valutazione ‘drammaticamente’ positiva, ma è incline ad escludere la professionalità e perché questa gli sembra improbabile alla corte di Gelone–Ierone (??) e perché (e qui può essere l’unica considerazione veramente concreta) il numero delle commedie complessivamente abbracciante Epicarmo, Formide (o Formo) e Dinoloco gli sembra troppo esiguo per fornire un repertorio sufficiente ad un corpo di professionisti. Ma sarebbe stato interessante portare a fondo la distinzione di ambienti diversi, quello tirannico e mecenatistico dei Dinomenidi di Siracusa e quello ateniese, dove il dramma è ‘servizio pubblico’; ed eventualmente confrontare i Dinomenidi coi Pisistratidi. L’argomento è solo sfiorato, quando l’a. (pp. III s., 187 ss.) accenna alle possibilità e ai modi di ‘salario’ (vi si parla anche delle associazioni, che compaiono in età ellenistica, di τεχνῖται, su cui v. anche p. 128 e n. 113 e da ultimo L. Moret-
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ti, «Riv. di filol.» 91 [1963], pp. 38–45 con la bibliografia ivi cit.). Una sana esigenza metodologica è comunque espressa (p. 116), ed è la necessità di considerare il mondo greco città per città, se pure il buon senso debba spingerci ad escludere quasi totalmente tale tipo di ricerca, data la scarsità del materiale riguardante città diverse da Atene. Importante resterebbe quindi, comunque, non generalizzare. Per il mondo latino, ci domandiamo perché l’a. ha rinunciato, per l’epoca arcaica, agl’interessanti spunti che gli avrebbero dato fatti come, per es., il collegium scribarum histrionumque di Livio Andronico. Accenneremo soltanto al peso dato alla Terenz–Renaissance del quarto secolo d. C. (p. 131 ss.) e al nesso visto fra Elio Donato e l’imperatore Giuliano (p. 141 s.). Anche le pagine sul mimo letterario (Teocrito, Eroda: p. 160 ss.), pur senza portare gran risultati al tema della ricerca, sono ricche di osservazioni interessanti. L’umanesimo italiano occupa gran parte del libro, quasi la metà, ed è comprensibile, visti gl’interessi dell’a., decisamente diretti al teatro moderno. Assai suggestiva è la delineazione dell’attività teatrale di una personalità di primo piano come Pomponio Leto (p. 199 ss.). Solo, sembra che qui il tema della ricerca sia quasi dimenticato: l’a. si volge essenzialmente a grandi personalità di attori, come fa, per es., con Tomaso Inghirami (p. 238 ss.), e ne studia, con palese passione e simpatia, lo innerlicher schauspielerischer Drang (p. 249). Ma non va dimenticato che il libro è stato scritto sotto il peso di enormi difficoltà e che, per di più, è incompiuto. Non per questo esso merita meno attenzione (e in realtà ne ha suscitata troppo poca, finora): è pur sempre frutto di vivace intelligenza storica, proprio per la concretezza del suo tema, finora quasi del tutto trascurato, come soggetto autonomo, dagli studiosi del teatro antico.
Il Ciclope di Euripide come κῶμος ‘mancato’* Polifemo, dopo essere rientrato dal pascolo e dopo essersi intrattenuto coi suoi ospiti colle maniere poco ospitali che già la tradizione omerica gli assegnava (203–346), entra nella sua grotta per il pasto bestiale. Odisseo fa una breve invocazione ad Atena e lo segue dentro la grotta (347–55), dopo di che la scena resta vuota. Il coro esprime il suo orroroso disgusto (356–74) e subito dopo si ripresenta Odisseo che, testimone inorridito della scena di antropofagia, racconta al corifeo dell’idea che ha avuta di far bere vino al Ciclope: solo cosí, ubriacandolo, si è resa possibile l’uscita dalla grotta (426 s.) per concertare col corifeo il suo piano, l’accecamento (375–482). Dopo quattro dimetri anapestici in cui il coro esprime il suo entusiasmo per il progetto di accecare il mostro (483–6), si sente dall’interno il canto scomposto di Polifemo, come ci assicura la παρεπιγραφή di 487, ᾠδὴ ἔνδοϑεν1, e il coro continua in anapesti (488–94: annuncio dell’arrivo del mostro), che sono seguiti immediatamente da un duetto lirico con Polifemo ubriaco, che nel frattempo è comparso sulla scena (495– 518): str. 1
(XO.) μάϰαρ ὅστις εὐιάζει βοτρύων φίλαισι πηγαῖς
495
|| [Conferenza tenuta V 29.5.1970 a Oxford (vd. n. *) e Mc 2.12.1970 al seminario romano (Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma); pubblicata in «Maia», n.s. 23, 1971, pp. 10–38] * Versione ampliata di una relazione tenuta il 29–5–1970 a Christ Church, Oxford come ospite nel seminario del Prof. Hugh Lloyd–Jones. Un rinnovato ringraziamento a lui per l’invito, a lui e agli altri partecipanti per preziosi suggerimenti. Devo molto anche ad Antonio La Penna, a Scevola Mariotti e agli amici del seminario romano. Colla semplice menzione del nome mi riferirò alle seguenti edizioni e commenti: F. A. Paley, Euripides. With an Engl. Comm.2, III, London 1880 pp. 553–604; G. Murray, Euripidis fabulae, Oxford 1902; N. Wecklein, Euripides. Kyklops, hsg. u. erkl. v. N. W., Lepzig u. Berlin 1903; U. v. Wilamowitz–Moellendorff, Griechische Tragoedien, III6, Berlin 1922 pp. 3–62; J. Duchemin, Le Cyclope d’Euripide, Paris 1945. Allo stesso modo mi riferirò ai seguenti studi: G. R. Holland, De Polyphemo et Galatea, Leipziger Studien 7 1884 pp. 139–312; J. M. Stahl, De hyporchemate amoebaeo quod est in Euripidis Cyclope, Progr. Münster 1887; Lamer, Komos, R. E. 11.2 (1922) coll. 1286–1304; P. Guggisberg, Das Satyrspiel, Diss. Zurich 1947; W. Wetzel, De Euripidis fabula satyrica, quae Cyclops inscribitur, cum Homerico comparata exemplo, Wiesbaden 1965. 1 Una delle tante penetrate nel testo, v. D. L. Page, Actors’ Interpol. in Gr. Trag., Oxford 1934 p. 113 s. La παρεπιγϱαφή, del resto, non è qui necessaria all’intelligenza dello sviluppo scenico (A. W. Pickard–Cambridge, The Theatre of Dionysus in Athens, Oxford 1946 p. 105; Duchemin ad loc.): gli anapesti che seguono sono chiari al riguardo, e cf. anche l’anticipazione data nel racconto di Odisseo (423 ϰαὶ δὴ πρὸς ᾠδὰς εἷϱπε). https://doi.org/10.1515/9783110648126-033
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ἐπί ϰῶμον ἐϰπετασϑείς, φίλον ἄνδρ’ ὑπαγϰαλίζων ἐπὶ δεμνίοις τε ξανϑόν χλιδανῆς ἔχων ἑταίρας μυρόχριστος λιπαρὸν βόσ– τρυχον, αὐδᾷ δέ· ϑύραν τίς οἴξει μοι; str. 2
str. 3
(ΚΥ.) παπαπᾶ· πλέως μὲν οἴνου, γάνυμαι δὲ δαιτὸς ἥβῃ, σϰάφος ὁλϰὰς ὣς γεμισϑείς ποτὶ σέλμα γαστρὸς ἄϰρας. ὑπάγει μ’ ὁ χόρτος εὔφρων ἐπὶ ϰῶμον ἦρος ὥραις ἐπὶ Κύϰλωπας ἀδελφούς. φέρε μοι, ξεῖνε, φέρ’, ἀσϰὸν ἔνδος μοι. (ΧΟ.) ϰαλὸν ὄμμασιν δεδορϰώς ϰαλὸς ἐϰπερᾷ μελάϑρων. φιλεῖ τις ἡμᾶς. λύχνα δ’ † ἀμμένον δαΐα σόν χρόα χὠς † τέρεινα νύμφα δροσερῶν ἔσωϑεν ἄντρων. στεφάνων δ’ οὐ μία χροιὰ περὶ σὸν ϰρᾶτα τάχ’ ἐξομιλήσει.
500
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510
515
Ho riprodotto qui, con piccole modifiche, il testo di Murray2, accettando come tale il suo exempli gratia a 513, ma assegnando la prima e la terza strofe all’intero coro, invece che al primo e al secondo semicoro rispettivamente3. Il cattivo stato del testo, che lascia ancora aperti alcuni problemi testuali ed esegetici (spec. 499–502, 514s.), non è tale da impedire di fare una serie di considerazioni.
|| 2 Non scrivo Καλὸς a 512 e a 515 preferisco scrivere χὠς. Non c’è dubbio che a 510 si debba scrivere ἔνδος, e non ἐνδός, come fa la Duchemin (testo e note): v. J. Vendryes, Traité d’accent. gr., Paris 1945 p. 128 s. Il v. 499 è sicuramente corrotto (ci vorrebbe crux), come risulta dalla metrica (vari sono stati i tentativi di sanarlo). 3 V. Duchemin p. 157. Sulla base della non univoca tradizione manoscritta, alcuni vogliono dividere fra due semicori solo gli anapesti 483–6 e 487–94, altri solo la prima e la terza strofe del canto, altri e gli anapesti e le strofi. Forse la soluzione migliore è la prima, accettata dalla Duchemin, la quale porta però uno solo degli argomenti, e cioè che 488 σίγα σίγα appare rivolto da un semicoro all’altro; ma Stahl p. 5 osserva, in più, che 492 s. φέρε νιν ϰώμοις παιδεύσωμεν τὸν ἀπαίδευτον sembra far chiaro che ad communem cantum [scil. 495 ss.] altera pars chori alteram adhortetur.
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Il duetto lirico 495–518, che tiene luogo di secondo stasimo, è stato da piú d’uno4 interpretato come un ϰῶμος, e cioè come un canto cantato in occasione del ϰῶμος. La parola compare nel canto stesso (497, 508) ed esso è annunciato come tale dagli anapesti introduttivi (492 s. φέρε νιν ϰώμοις παιδεύσωμεν τòv ἀπαίδευτον). Occorre chiedersi prima di tutto che cos’è un ϰῶμος; poi, da un esame interno del canto che abbiamo davanti, controllare se le caratteristiche stabilite per il ϰῶμος siano qui presenti; e chiedersi, infine, se la situazione scenica lo renda verosimile in questo momento dell’azione. Si dà il caso che ϰῶμος è una delle parole piú polivalenti, e meno chiare nella loro origine, che ci offra il lessico greco. Le testimonianze letterarie e quelle figurative (soprattutto quando queste ultime, per es. su vasi, presentino la parola a commento di una scena) e le lucubrazioni etimologiche degli antichi e quelle dei moderni, che cercano di mettere ordine in tanta varietà, non ci hanno ancora fornito definitiva chiarezza. Alcuni dei valori piú agevolmente identificabili sono, comunque, i seguenti5: simposio (raro); danza6; accompagnamento dell’αὐλός ad una danza; processione per una festività divina (per es. la falloforia) o secolare (per es. la celebrazione di vincitori degli agoni sportivi); e finalmente, in quello che sembra essere il suo significato piú comune, una ‘sortita’ fatta dai banchettanti dopo il simposio, che li conduce alla casa di un amato o di una amata oppure alla casa di altri amici, da dove, continuando a bere ed annettendosi la nuova compagnia, si può andare ancora alle case di altri. Esempio classico di quest’ultimo tipo di ϰῶμος è il rumoroso arrivo di Alcibiade in allegra compagnia, reduce da un altro simposio, alla casa di Agatone (Plat. Sympos. 212 cd, cf. 223 b). Le testimonianze della parola presentano però spesso una certa ambiguità: essa può significare il ϰῶμος stesso (di qualunque tipo esso sia), il gruppo di persone che in esso si trovano coinvolte e, infine, il c a n t o che in tali occasioni viene cantato. Ma c’è un’ambiguità ancora piú sottile. In Grecia costume popolare e ‘liturgia’ religiosa sono sempre strettamente legati, a tal punto che spesso non si è in grado di distinguerli. Non è un caso isolato, quello di ϰῶμος con i suoi vari valori secolari e
|| 4 V. per es. Wilamowitz, Griech. Verskunst, Berlin 1921 p. 338; A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama2, Cambridge 1968 p. 125 s.; L. B. Lawler, The Dance of the Ancient Greek Theatre, Iowa City 1964 p. 113. 5 Lamer, spec. 1287–9. V. anche A. Greifenhagen, Eine attische schwarzfigurige Vasengattung u. die Darstellung des Komos im VI Jahrhundert, Diss. Königsberg 1929 pp. 35–7; e Adrados cit. oltre. Ottima resta la raccolta di passi in W. Headlam – A. D. Knox, Herodas, Cambridge 1922 ad 2. 34–7 (pp. 82–4). 6 V. anche E. Roos, Die tragische Orchestik im Zerrbild der altattischen Komödie, Lund 1951 p. 158.4.
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religiosi elencati sopra: lo stesso discorso si potrebbe fare, ad esempio, per il ditirambo e per numerose altre forme della letteratura arcaica. A questo si aggiunga l’assunzione, da parte della letteratura, di tali forme, con una fusione dei due elementi in maniera di piú o meno ricercata stilizzazione. Sull’argomento abbiamo da ultimo un bell’articolo di Adrados7, che, toccando appena il valore secolare della parola, mette in luce la caleidoscopica polivalenza del ϰῶμος rituale strettamente legato al culto di Dioniso, che secondo lui sta alla base di tutti e tre i generi drammatici, tragedia, dramma satiresco e commedia. Non c’è dubbio che qui nel Ciclope la parola designi il ϰῶμος secolare. E almeno da 507–9 è chiaro che si tratta della ‘sortita’: Polifemo, ben pasciuto ed ubriaco, si sente pronto ad andare dai «fratelli Ciclopi». È vero che nel contesto di questo stesso canto le parole ἐπὶ ϰῶμον ἐϰπετασϑείς (497) e la descrizione che segue («abbracciando l’amico e trastullandosi eroticamente con un’etera») ci riconducono alla polivalenza della parola nello stesso ambito secolare e ‘biotico’: qui sembra descritto un momento del simposio, il momento ‘sedentario’, cioè, e non quello dell’allegra sortita. Ma questo non è che una conferma dell’estrema elasticità della parola: il valore piú comune per i passi–chiave ci sarà confermato piú oltre, da un esame dell’intero dramma nel suo complesso. Definire questo canto come un ϰῶμος dovrebbe presupporre conoscenza di quello che tali canti erano. Ora, se se ne eccettui un tipo particolare, e cioè il παραϰλαυσίϑυρον, di cui parleremo piú avanti, non ce ne è stato tramandato nessuno, né intero né frammentario, né popolare né letterario, del quale ci venga detto espressamente che veniva cantato dopo il simposio. Possiamo però con buon fondamento supporre che le forme e soprattutto i temi fossero vari, della stessa varietà peraltro che ci offrono i cosiddetti ‘scoli’ cantati durante il simposio, quelli che nelle nostre antologie liriche vanno sotto il titolo di carmina convivalia e il cui corpo maggiore ci è stato trasmesso da Ateneo (frr. 884– 917 Page): temi religioso–mitologici, filosofico–popolari nella forma di sentenze o proverbi, soprattutto erotico–simposiaci e, sicuramente in circoli più aristocratici, temi politici8. Mi riferisco qui precisamente a quegli scoli che Seve-
|| 7 F. R. Adrados, Kῶμος, ϰωμῳδία, τραγῳδία. Sobre los origenes del teatro, «Emerita» 35 1967 pp. 249–94. 8 Per la tematica v. B. A. van Groningen, Pindare au banquet, Leiden 1960 pp. 11–18 e G. Giangrande, Sympotic Literature and Epigram, Entret. Fondat. Hardt, 14, Genève 1968 p. 93 ss. Per la tematica politica penso ad un’analogia coi Nursery Rhymes inglesi, che presentano spesso, stilizzati in filastrocche, contenuti politici, alle volte ormai difficilmente identificabili. Non è qui il luogo d’indagare il complesso rapporto fra scolio ed encomio (legato anche etimologicamente a ϰῶμος, come gli antichi credevano?): basti rimandare a A. E. Harvey, «Class. Quart.» 5 1955 pp. 157 ss., spec. 160–4, 174 s.
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ryns9 chiamò a suo tempo chansonnettes, quelli cioè cantati improvvisando col passaggio da un simposiasta all’altro del ramoscello di mirto, e distinti quindi sia dal peana iniziale sia dai canti piú o meno lunghi presi da testi famosi di grandi poeti. La tematica erotico–simposiaca è quella qui presente e vedremo che anche la forma metrica è ad essa accortamente adattata. Ma la situazione scenica c’impedisce di far cantare al coro e a Polifemo un vero e proprio canto di ϰῶμος come l’abbiamo, pure approssimativamente, definito sopra: Polifemo pensa alla processione comastica dai suoi fratelli Ciclopi come ad un p r o g e t t o . Quello che par certo, quindi, è che si tratti semplicemente di un canto simposiaco che a n n u n z i a il ϰῶμος vero e proprio. Possiamo definire tale canto con maggior precisione? C’è stato chi, per la particolare forma alternata del canto e per la forma compositiva che presenta la triplice ripetizione della stessa strofe, ha proposto di vedervi un tipo di i p o r c h e m a , definendolo come un canto alternato, dal ritmo semplice e vivace, in cui una delle parti danza mentre l’altra canta e viceversa10. Ma di quello a cui si vorrebbe dare il nome di iporchema sappiamo forse ancor meno che del ϰῶμος post–simposiaco11, e soprattutto le cose si complicano quando, dalle attestazioni per la lirica arcaica, passiamo alla tragedia e alle scarse testimonianze grammaticali (scoli) che lo riguardano, né si sa per certo se qui ci potesse essere la mediazione del dramma satiresco di un Pratina di Fliunte12. Il nome stesso di iporchema è estremamente generico e corrispondentemente generiche sono le definizioni che ne vengono date, come per es. Procl. chrest., ap. Phot. 320 b 33 ss. Bekk. ὑπόρχημα τò μετ’ ὀρχήσεως ᾀδόμενον μέλος. E che senso ha il fatto che qualche volta gli scoliasti al teatro ci dicano che quel canto è un iporchema || 9 A. Severyns, Proclos et la chanson de table, Mélanges Bidez, Bruxelles 1934, II pp. 835–56. 10 Duchemin pp. 157–9, che si rifà a Stahl p. 3. Stahl però non dà una giustificazione documentata sulla terminologia antica. Per di piú stranamente esclude che le menzioni di ϰῶμος nel nostro passo possano riferirsi alla comissatio (p. 3), mentre abbiamo visto che per almeno un caso questo è sicuro (508). 11 E. Diehl, R.E. 9.1 (1914) coll. 338–43; H. Färber, Die Lyrik in der Kunsttheorie der Antike, München 1936, I pp. 34 s., 55 s., II p. 41 s. 12 Per una lucida disamina del problema dell’iporchema nella tragedia, in rapporto colla teoria aristotelica del dramma, v. A. M. Dale, Collected Papers, Cambridge 1969 pp. 34–40 (1950); e su Pratina da ultimo H. Lloyd–Jones, Problems of Early Greek Tragedy. Pratinas, Phrynichus, The Gyges Fragment, Est. s. la trag. griega, Cuad. de la Fond. Pastor, n. 13 (1966) pp. 11–33. Resta comunque ferma la caratterizzazione comune di alcuni cori gioiosi di Sofocle aventi precisa funzione drammatica ‘di sollievo’, secondo la formula di G. Perrotta, Sofocle, Messina–Firenze 1935, spec. p. 156 s., anche se sia ormai consigliabile abbandonare la denominazione tecnica di iporchema (Ai. 693–718, O.R. 1086–1109, Ant. 1115–52, Trach. 633–62).
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perché era accompagnato dalla danza? Tutti lo erano: la danza non poteva essere, da sola, elemento distintivo. Forse la miglior definizione resta quella di Augusto Mancini nel suo breve e intelligente commento al dramma13: si tratterebbe di uno s c o l i o c o m m a t i c o . Mancini veramente tende a negare al nostro canto la qualità di secondo stasimo, e ne fa un semplice «intermezzo lirico». Ma tutte le parti corali del Ciclope, come vedremo meglio in seguito, presentano caratteristiche singolari rispetto alle corrispondenti della tragedia (ritornelli, riprese di canti popolari, monostroficità): e qui il discorso si dovrebbe ampliare a tutto il dramma satiresco in generale, di cui purtroppo il Ciclope è l’unico esemplare completo che possediamo14. La piú notevole singolarità è qui senza dubbio la composizione monostrofica, ripetizione, cioè, per tre volte della stessa strofe, per di piú costituita in modo molto semplice da sei dimetri ionici anaclomeni, e cioè anacreontici, seguiti da un ‘sistemino’ fatto di quattro metra ionici puri piú un ‘molosso’15. Questa della monostroficità e della semplicità di costruzione metrica è caratteristica del canto popolare: e basterà, per restare nel teatro, ricordare il γεφυρισμός di Ar. ran. 413–3916, o, meglio ancora, le brevi strofette gliconiche e ioniche di Anacreonte. Ad Anacreonte qui ci riporta, oltre la generica ispirazione simposiaco–comastica e il metro, anche l’ovvio17 accostamento di 510 con
|| 13 A. Mancini, Euripide. Il Ciclope, Firenze 41952 (11928) ad loc. e p. 66. 14 Guggisberg p. 34. Quando W. Kranz, Stasimon, Berlin 1933 p. 117 dice che das «Stasimon» [scil. quello tragico, strofico] ist ihm [scil. al dramma satiresco], wie natürlich, fremd, si riferisce alla composizione prevalentemente monostrofica che è presente nel dramma satiresco documentato. V. oltre, spec. n. 16. 15 Che alla fine abbiamo un breve sistema è reso certo dalla sinafia in 501 s. Non ha senso, quindi, parlare qui di dimetri: si tratta di cinque metra, di cui anche il quarto (w h g) è da considerarsi puro, come ovvio passaggio al longum che inizia il molosso finale. Il molosso finale si potrebbe in teoria intendere sia come metron ionico ‘contratto’ (J h h) sia come seconda parte di anaclomeno (h g h g) presentata in catalessi (h g h) e con cholosis (h h h: per il termine, proposto da Paul Maas per un tipico fatto di clausola, v. A. M. Dale, Coll. Pap., cit., p. 67.1). La seconda interpretazione mi pare migliore, ché, presentando catalessi e cholosis (due fatti comunissimi in clausola), reintrodurrebbe l’andamento anaclastico (avviato dal quarto metron, w h g) nella clausola, in analogia con Anacr. 395 P. (36 Gent.), dove abbiamo strofetta di 4 anacl + 2 ion + anacl (Dale, Lyr. Metr., cit., p. 126). 16 Ripetizione della stessa strofetta per nove volte (2ia^||2ia^|| 3ia|||) o per otto, se si voglia tenere a parte la prima, il cui primo verso è in verità 2ia invece che 2ia^. Sulla definizione di γεφυρισμός v. R. Merkelbach, «Rh. Mus.» 99 1956 p. 127 s. (canto popolare scommatico). Per altre composizioni monostrofiche nella commedia (Ar. Ach. 836 ss., eq. 973 ss. etc.) v. J. W. White, The Verse of Greek Comedy, London 1912 p. 332 s. 17 Per es. Dale, Lyr. Metr., cit., p. 126. Già Wilamowitz p. 18.1: Anschluss an bekannte Melodien attischer (wohl anakreontischer) Trinklieder (e v. anche Wecklein ad loc.). La Duchemin non
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Anacr. 396 P. (38 Gent.) φέρ’ ὕδωρ, φέρ’ oἶvov ὦ παῖ, a cui si può aggiungere anche 356 P. (33 Gent.) ἂγε δὴ φέρ’ ἡμὶν ὦ παῖ. Ma abbiamo certo qui una formula comune di invito simposiaco, tipicamente espressa in anacreontici e con minime variazioni verbali, che testimonia l’aderenza ad un genere piú che il richiamo ad un poeta determinato. È stato inoltre notato che sono presenti in questo stesso canto altri elementi popolari. In 511 ss. il coro celebra Polifemo come lo sposo che esce di casa la mattina delle nozze18, e l’ironia è pungente, viste le nozze che seguiranno (581– 9: con Sileno!). Viene qui descritta, nelle forme che erano caratteristiche di tali canti, una scena tipica d’ i m e n e o 19, dove, pur nella scarsità di testimonianze di tal genere di canti, possiamo agevolmente riconoscere nella lode alla bellezza dello sposo (511 s. anafora di ϰαλόν/ϰαλός, cf. Ar. pac. 1330, av. 1723, Theocr. 18.38) un elemento caratteristico (e si noti un richiamo a 553 e 555, nella scena ‘erotica’ fra Sileno e l’otre di vino). Sembra poi probabile che il primo ingresso in scena del Ciclope, solennemente annunciato da ἄνεχε πάρεχε (203)20, e cioè in sostanza «largo allo sposo!», fosse sentito come une très subtile annonce della strofetta imenaica in questione: espressioni simili si trovano, in contesto apertamente imenaico, in Ar. av. 1720 ἄναγε δίεχε πάραγε πάρεχε ed Eur. Tr. 308 ἄνεχε πάρεχε21. E ancora. Il coro, descrivendo la situazione dell’allegro simposiasta e riferendosi naturalmente al Ciclope, lo descrive nell’atto di abbracciare ‘amici’ dei due sessi (498–502) e di cantare ϑύραν τίς οἴξει μοι; (502). È ovvio vedere in
|| registra il confronto: il suo commento informa abbastanza bene su fatti testuali, ma è manchevole per quanto riguarda l’esegesi. A p. 58 s. mostra di non aver letto attentamente la nota di Wilamowitz, attribuendo il carattere simposiaco alla ‘bucolica’ parodo (v. oltre)! 18 Duchemin p. 165. 19 Su storia e caratteristiche formali dell’imeneo v. P. Maas, R. E. 9.1 (1914) coll. 130–4. Sulla differenza fra imeneo (vero canto per la celebrazione delle nozze) ed epitalamio (canto ἐπὶ τῷ ϑαλάμῳ) v. Färber, op. cit., I p. 37 s.; e da ultimo R. Muth, «Wien. Stud.» 67 1954 pp. 5–45, «Anzeig. f. d. Altertumswiss.» 7 1954 pp. 253–6. 20 Chiunque sia a pronunciare il verso 203, il Ciclope stesso o Sileno: v. il problema discusso in Duchemin p. 95 s. 21 Duchemin p. 92 ss., spec. 95; ma già G. Hermann, Eurip. tragg., Vol. II P. III, Cyclops, Leipzig 1838, ad loc. (πάρεχε ha anche senso osceno, ‘offrir(si)’, v. L.–S.–J., s. v., II 2: Ar. Lys. 162, 227: Luc. dial. mer. 5.4). ἄνεχε deve significare ‘tieni alta (la torcia)’, come sembra chiaro da Ar. vesp. 1326 ἄνεχε πάρεχε (che però non è in contesto imenaico). Giustamente Wecklein ad loc. dà al bastone del Ciclope (v. 210) la parte parodica della fiaccola imenaica (e cf. quello che Wecklein stesso nota a proposito del doppio senso di δαλός a 469–71). — Un altro imeneo grottesco in dramma satiresco è Aesch. Dictyulc. 821 ss. (e sull’ ‘assedio’ dei satiri alla bella Danae v. H. Lloyd–Jones in H. Weir Smyth, Aeschylus, II, London 1957 p. 535).
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queste parole un chiaro accenno al π α ρ α ϰ λ α υ σ ί ϑ υ ρ ο ν , che è la serenata che viene cantata davanti alla porta dell’amato o dell’amata e che è in realtà una delle forme che può assumere il ϰῶμος post–simposiaco, come abbiamo detto sopra22: e l’apostrofe alla porta ne è ovviamente, come si vede dalle testimonianze letterarie sia in greco sia in latino, un tema essenziale. Si è obiettato che, se è vero che il coro si riferisce a Polifemo, si rende impossibile l’allusione alla serenata: Polifemo è davanti alla sua grotta e per di piú, come vedremo meglio in seguito, il ϰῶμος post–simposiaco, che adesso è solo un progetto, non lo realizzerà mai. E si sono escogitate delle soluzioni che hanno dell’assurdo. Tyrwhitt23 voleva fare di αὐδᾷ δέ una παρεπιγραφή (ma αὐδάω è poetico; e poi, esistono παρεπιγραφαί con un legame sintattico come δέ ??) e faceva pronunciare le parole da Polifemo, intendendo che chiedesse: «chi mi aprirà la porta (della grotta)?». Non è il caso di elencare tutte le aporie, anche sceniche, di una simile soluzione (la grotta è aperta!), che tra l’altro creerebbe mancanza di responsione metrica e guasterebbe la simmetria del ‘duetto’. Reiske trovava un’altra scappatoia, altrettanto inverosimile: αὐδᾷ δὲ ϑύρα· τίς ἥξει μοι; strident fores: quis ad me veniet? Paley invece interpretava le parole come immagine sessuale e dava ad esse il valore di τίς χαριεῖταί μοι;24. La Duchemin si fa ancora eco di questi dubbi ed accetta la soluzione di Paley. A questi razionalisti verrebbe voglia di proporre un’altra difficoltà: nelle parole del coro ci sarebbe un altro elemento che non si adatterebbe alla realtà scenica attuale del Ciclope, e
|| 22 L’accostamento è troppo ovvio per elencare tutti quelli che l’hanno portato. V. Duchemin p. 162 s.: certo però non solo V. De Falco (Napoli 1936), ma anche, per es., Stahl p. 7, W. E. Long, Euripides. Cyclops, Oxford 1891 ad loc. etc. Sul παραϰλαυσίϑυρον v. P. Maas, R. E. 18.3 (1949) col. 1202 e da ultimo F. O. Copley, Exclusus amator, Madison 1956 spec. pp. 1–27, che mette giustamente l’accento sulla distinzione fra forme popolari e stilizzazione letteraria. Il fatto che il παραϰλ. è una forma del nostro ϰῶμος è confermato dal fatto che ϰῶμος e ϰωμάζειν spesso si riferiscono specificatamente al canto della ‘serenata’: cf. Theocr. 3 e v. Lamer col. 1296. Copley, op. cit. p. 145.10 riporta varie altre designazioni, come ᾠδαὶ ἑταιριϰαί (Luc. bis. acc. 31), νυϰτερινὰ ἀείσματα (Eupol. fr. 139.3 K.), τετράϰωμος, ἡδύϰωμος, ϑυροϰοπιϰόν, ϰρουσίϑυρον (Tryph. ap. Athen. 618 c), e precisa che gli strumenti d’accompagnamento potevano essere αὐλός, πηϰτίς, ϰιϑάρα, ἰαμβύϰη, τρίγωνον. Non ho potuto vedere M. Leroy, ΠΑΡΑΚΛΑΥΣΙΘΥΡΟΝ, Mélanges... off. à M. René Fohalle, 1969 pp. 223–37. 23 Prendo questo ed altri riferimenti dalla Duchemin ad loc. Ma sbaglia la Duchemin a criticare Tyrwhitt per il fatto che la porta della grotta est d’ailleurs un rocher: lo è in Omero, mentre in Euripide la grotta è aperta! È una delle innovazioni euripidee, dettata da necessità scenica, su cui v. Wetzel, spec. pp. 32, 37.7, 108 (e Schmid–Stählin, 1.3 p. 534), che rendeva in realtà inutile, per la fuga, l’accecamento (che era però elemento troppo caratteristico della ‘storia’, e in Euripide è presente) e lo stratagemma del bestiame (che in Euripide manca). V. oltre, n. 49. 24 Paley ad loc. L’allusione oscena era stata già vista da Hermann, comm. cit., ad loc.
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cioè l’etèra (499–502), che sulla scena manca25. Ma la soluzione è elementarmente semplice: il coro sta facendo una considerazione generale (495 μάϰαρ ὅστις...) e dipinge una scena di felicità... ideale, da paese della cuccagna. Se riferimento diretto alla situazione attuale di Polifemo si deve sentire, questo può ben essere proprio nelle parole finali della strofe intese come fa Paley: ϑύραν τίς οἴξει μοι; in senso osceno, perfettamente lecito visto l’οννiο e frequente valore sessuale di ‘porta’26, sarebbe cosí non solo la umoristica conclusione della situazione ideale in cui si trova il ‘beato’ fra l’amore pederastico e l’amore eterosessuale, e cioè la... drammatica grottesca incertezza; ma anche un riferimento a una situazione di altrettanto grottesca incertezza (fittizia anche là, ché anche là la scelta gli mancherà!) in cui si trova Polifemo stesso poco dopo (581– 4) e che risolverà col fare di... Sileno il suo Ganimede: οὐϰ ἂν φιλήσαιμ’; αἱ Χάριτες πειρῶσί με... ἅλις Γανυμήδην τόνδ’ ἔχων ἀναπαύσομαι. ϰάλλιστα, vὴ τὰς Χάριτας· ἥδομαι δέ πως τοῖς παιδιϰοῖσι μᾶλλον ἢ τοῖς ϑήλεσιν.27
Il pubblico potrà aver colto appieno l’allusione giocosa solo al secondo di questi due momenti, nella scena di Sileno–Ganimede: ma al primo non può aver fatto a meno di sentire anche e direi soprattutto l’allusione al παραϰλαυσίϑυρον. Comunque, sia l’un aspetto sia l’altro del doppio senso (l’allusione sessuale e la serenata) sono perfettamente in carattere coll’imeneo grottesco che seguirà a 511 ss. E del resto sia la prima sia le due successive strofi del nostro canto finiscono con un doppio senso: l’ἀσϰός di 510 creava anch’esso un equivoco osceno (che il Ciclope avrà messo in rilievo col canto e col gesto) e la «corona variopinta» che il coro gli promette a 517 s. è, qui su un piano di paratragedia en-
|| 25 Incredibili acrobazie razionalistiche fa Stahl pp. 5–7, dove le reali difficoltà testuali ed esegetiche di 498–502 non possono oscurare il fatto che il μάϰαρ non può essere che Polifemo. 26 J. Taillardat, Les images d’Aristophane2, Paris 1965 pp. 70 s., 77; G. Wills, «Class. Quart.» 20 1970 p. 113, proprio in rapporto col παραϰλαυσ. V. le sensate osservazioni di Copley, op. cit. p. 146.13, che però non accetta il doppio senso. 27 La punteggiatura della Duchemin è assurda (vuole forse unire ἅλις... ϰάλλιστα??). Tanto, comunque, par certo, che cioè dopo φιλήσαιμ’ ci voglia l’interrogativo (come fa Wilamowitz, ma non, per es., Murray). — Per il τόπος della contrapposizione fra i due tipi di amore v. Meleagr. A. P. 5. 208 e i paralleli richiamati da Gow–Page ad loc. (p. 613), a cui vanno aggiunti Prop. 2. 4. 17–22 e Strat. A. P. 12. 7 (A. La Penna, «Maia» 3 1950 p. 14).
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fatico–patetica, la corona di sangue con cui l’orrendo simposiasta avrà incorniciato il capo28. A sua volta la formula iniziale del canto, la celebrazione della beatitudine del Ciclope, 495 μάϰαρ ὅστις εὐιάζει, è una formula tipica di μ α ϰ α ρ ι σ μ ό ς 29. Tale formula, che passa dalla poesia alla prosa ed è presente anche nell’oratoria, è una predicazione di beatitudine che si applica alle occasioni e ai contenuti piú disparati: elogio delle ricchezze, del potere regio e tirannico, dell’amore, della gloria, del valore sportivo, della perizia oratoria, del buon governo, della vita felicemente trascorsa e di numerose altre situazioni e condizioni, fra cui spiccano — anche per quanto ci riguarda qui — le nozze e i misteri. Nei canti nuziali, oltre alla celebrazione della bellezza degli sposi, c’è anche in genere l’espressione dell’ammirazione e dello ζῆλος per la loro felicità30; quanto ai misteri, comune è la celebrazione della felicità degl’iniziati e della superiore sapienza di cui sono fatti partecipi31. Le formule presentano una certa rigidità: gli aggettivi piú comuni sono μάϰαρ/μαϰάριος, ὄλβιος, εὐδαίμων, con varietà di valori semantici che col tempo si sfumano32, ma fissa è la proposizione relativa dopo l’aggettivo, costruzione solenne comune anche alla predicazione innica33. Ora, va ricordato che le minute gioie del vino e della tavola non sono davvero mate-
|| 28 510 ἀσϰός (confrontato con 529 μισῶ τὸν ἀσϰόν·...) in Wecklein ad loc.; 517 s., la «corona», communis opinio della maggior parte dei commentatori. 29 Sul μαϰαρισμός v. Ed. Norden, Agnostos theos3, Leipzig 1923 p. 100.1; B. Snell, Ges. Schr., Göttingen 1966 p. 84 s. (1931); e soprattutto G. Lejeune Dirichlet, De veterum macarismis, Giessen 1914 (RGVV 14.4). Va osservato che il μαϰαρισμός è piú un τόπος (presente anche in poesia popolare) che un vero e proprio componimento a sé. 30 Dirichlet, op. cit., p. 32 ss.; Snell, art. cit., p. 84.5. 31 Dirichlet, op. cit. p. 62 ss.; Snell, art. cit. p. 85.4. V. Eur. Bacch. 73 ss. (μάϰαρ ὅστις εὐδαίμων τελετὰς ϑεῶν εἰδώς...) e la nota di E. R. Dodds (Oxford 21960) ad loc. 32 Dirichlet, op. cit. p. 7 ss. μάϰαρ indicherebbe, all’origine, felicitas divina; ὄλβιος humana, de cuius origine non quaeritur; εὐδαίμων humana a numine quodam praebita (p. 10), μαϰάριος è, rispetto a μάϰαρ, decisamente prosastico (pp. 12, 15 s., 16 s., 21; v. anche W. Breitenbach, Unters. z. Spr. d. euripid. Lyrik, Stuttgart 1934 P· 32) ed è interessante il fatto che tutta la tradizione manoscritta lo porti qui nel passo del Ciclope: la correzione μάϰαρ, sicura per il metro e stilisticamente di alto contenuto espressivo, è di Hermann. [Non ho potuto vedere C. de Heer, ΜΑΚΑΡ – ΕΥΔΑΙΜΩΝ – ΟΛΒΙΟΣ – ΕΥΤΥΧΗΣ, 1969]. 33 V. le pagine famose di Norden, op. cit. p. 168 ss. (tipo ϰλῦϑί μεν, ἀργυρότοξ’, ὅς Χρύσην ἀμφιβέβηϰας...). Dirichlet, op. cit. ρ. 26 giustamente osserva che la lingua colloquiale ha altri modi per esprimere lo stesso concetto: il genitivo ‘di ammirazione’ (Ar. pac. 715), la proposizione causale o condizionale (Ar. Ach. 400 s., Plat. Menex. 249 d), l’articolo piú participio (Plat. resp. 354 a ὅ γε εὖ ζῶν μαϰάριός τε ϰαὶ εὐδαίμων).
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ria normale del μαϰαρισμός34 e anche il tema erotico, che abbiamo visto sopra esser comune35, qui è presentato in forma decisamente caricaturale. Tanto piú evidente doveva suonare la parodia, con il piú solenne degli aggettivi, μάϰαρ, e con la relativa. Il richiamo imenaico è un’altra anticipazione dell’imeneo di 511 ss., mentre quello misterico, forse ancor piú evidente, sarà stato sentito come una caricatura della ‘iniziazione’ dionisiaca del Ciclope36. Il fatto è che qui tutto è parodia. Scolio simposiaco, ϰῶμος post–simposiaco, παραϰλαυσίϑυρον, imeneo, μαϰαρισμός: abbiamo qui un pastiche che ha accostato e sovrapposto i momenti festosi della vita cittadina, i momenti della ‘baldoria’, e che per di piú ha come centro un personaggio mostruoso che è fuori della πόλις, il Ciclope. La virtuosistica comicità sta nell’aver messo t u t t i questi elementi ‘biotici’ insieme nello stesso tempo. E, per via della sottile ma solida caratterizzazione formale, tipica del mondo antico, i singoli componenti di questo ‘fritto misto’ erano certo assai piú facilmente individuabili per l’ateniese medio che sedeva in teatro che non per noi che studiamo in biblioteca. Definire il nostro canto con una formula unica sarebbe misconoscerne la ricchezza allusiva. Del resto anche altrove, nel dramma, sono presenti vari elementi popolari e biotici, il che risponde alle caratteristiche del pur a noi cosí poco noto genere satiresco37: ma mi pare che non abbiamo altri esempi di una simile sfrenatezza parodico–contaminatoria. Notevole la parodo (41–81), coi suoi richiami al mondo pastorale presentati in forma singolarmente ‘mimetica’ (apostrofi al bestiame, il richiamo ψύττ(α) etc.)38. E ben nota è ormai l’interpretazione di 656–62
|| 34 Dirichlet, op. cit. p. 43 porta solo questo esempio, dal Ciclope, che in realtà è p a r o d i a di μαϰαρισμός! Altri esempi del tema erotico–simposiaco, in commedia, sono Ar. Ach. 1008 ss. (ζηλῶ σε... τῆς ε ὐ ω χ ί α ς , con in piú le lodi per l’arte culinaria di Diceopoli; per ζηλῶ, verbo ‘topico’, v. Dirichlet, op. cit. p. 12 s.); pac. 715 ss., 856 ss.; eccl. 1112 ss. (spec. 1128 ss.); parodici anche ran. 85 ἐς Μαϰάρων εὐωχίαν (ci sia o no anche il giuoco con Μαϰ–εδόνων, v. schol. ad loc., oltre a ἐς Μαϰαρίαν = ἐς ϰόραϰας, ν. Dirichlet, op. cit. p. 17) e il fr. 488 K., dai Ταγηνισταί. La commedia offre poi esempi di un altro elemento parodico, e cioè il μακαρισμός a se stesso: Ar. nub. 1206 ss.; Pherecr. fr. 5 K. 35 Dirichlet, op. cit. p. 41 ss. 36 V. anche 579 s., su cui v. infra, a p. 480. 37 Guggisberg pp. 35 (canti di lavoro), 60 ss. (motivi erotici, fiabeschi etc.). 38 Wilamowitz p. 18. C’è da chiedersi se la tradizione bucolica, che si fa risalire a Stesicoro come ‘inventore’ di Dafni, abbia già incorporato in stilizzazione letteraria la tematica biotica, cosí com’essa è poi presente nel letteratissimo Teocrito: sarei per il no, v. L. E. Rossi, Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo, di prossima pubblicazione in «St. It. Filol. Class.».
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come canto di lavoro, avanzata già nel secolo scorso39. I satiri accompagnano dall’orchestra l’azione dei marinai di Odisseo, che stanno accecando il mostro col tizzone infocato, e lo fanno con il cosiddetto ϰέλευσμα40, e cioè coll’accompagnamento musicale ritmico che veniva fornito ai rematori per favorirli nello sforzo fisico (ἰὼ ἰώ· γενναιότατ’ ὠϑεῖτε σπεύδετ’. ἐϰϰαίετε τὰν ὀφρὺν... τυφέτω, ϰαιέτω... τόρνευ’ ἕλϰε...). Che si tratti veramente di un ϰέλευσμα (naturale del resto per dei marinai) ci viene confermato dall’insistenza con cui esso viene annunciato nel testo: già da altri sono stati notati 652 ἐπεγϰέλευε, 653 ϰελευσμοῖς, 655 ϰελευσμάτων41, a cui vanno aggiunti 477 χὤταν ϰελεύω, 461 ϰωπηλατεῖ (ardita metafora applicata al lavoro di cantiere nautico)42 e soprattutto 483–6, dove c’è tutta una tipica disposizione degli ‘addetti ai lavori’ (ἄγε, τίς πρῶτος, τίς δ’ ἐπὶ πρώτῳ ταχϑεὶς...) ed è chiaramente impostata l’immagine ‘remo’ (o ‘manico del remo’) = ‘tizzone’ (δαλοῦ ϰώπην ὀχμάσας)43. Aggiungerei infine una scena che ci riporta all’ambiente dell’ἀγορά, quella della contrattazione o compravendita iniziale, quando Odisseo offre a Sileno solo vino in cambio di cibarie (138 s.), per offrirgli poi anche danaro, che viene però rifiutato da Sileno (160 s.)44. Un elemento biotico che, per la sua natura cittadina e quotidiana, ricorda il ϰῶμος45.
|| 39 J.–P. Rossignol, «Rev. Archéolog.» 11 1854–55 pp. 165–70 (la sua analisi metrica non è però accettabile: vuole ritmo prevalentemente anapestico, il che è ottenuto con violenze al testo e con sticometria arbitraria). 40 Su canto e lavoro in generale v. K. Bücher, Arbeit und Rhythmus5, Leipzig 1919 (un esempio tipico è Ar. pac. 460–72, 486–99). Per il ϰέλευσμα in particolare J.–P. Rossignol. «Rev. Archéol.» 10 1853–54 pp. 445–66 su Ar. ran. 209–68; per il materiale ancora utile Joannes Scheffer, De militia navali veterum libri quattuor, Uppsala 1654; sul Ciclope I. Hinrichs, De operariorum cantilenis Graecis, Diss. Giessen, Darmstadt 1908 p. 53 s. Nel dramma satiresco, avremmo avuto certamente un esempio di canto di lavoro nei Dictyulci di Eschilo, come suppone R. Pfeiffer, «Sitzungsber. Bayer. Akad. d. Wiss.», Philos–hist. Abt., 1938, H. 2 p. 18 s. 41 Duchemin ad 656–62; ad 484 solo un fuggevole accenno. 42 P. Masqueray, «Rev. Et. Anc.» 4 1902 p. 180 s. considera Cycl. 460–3, colla sua immagine nautica, come una ‘conservazione’ maldestra di 383 ss.: è evidente che ha torto, essendo qui il tema nautico cosí insistente. 43 ‘Inventare’ un valore speciale per ϰώπη in questo passo, come fa L.–S.–J. s. v. 4. (haft of a torch), è del tutto ingiustificato: ϰώπη vuol dire, sí, ‘manico’, ma soprattutto ‘manico del remo’, e qui il contesto rende sicura l’immagine. 44 Fra i due passi non c’è contraddizione, come hanno creduto molti (per es. Wecklein; etc.). Sensata, anzi spiritosa la nota di Mancini ad 160–2: una volta riassaggiato il vino, dopo tanta astinenza, Sileno non pensa piú al danaro! 45 Buono il suggerimento di Holland p. 171 di vedere un’allusione a costume simposiaco in tutta la scena 519 ss., ubi Silenus et Polyphemus quasi c e r t a m e n ineunt p o t a n d i . Sulle
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*** Ma direi che il ϰῶμος post–simposiaco, cosí chiaramente richiamato nel secondo stasimo, ha nel Ciclope una ben maggiore importanza, un’importanza compositiva come elemento drammatico chiave. Si sa che uno dei fatti della narrazione omerica da cui Euripide si discosta è la conoscenza del vino da parte dei Ciclopi46. In Omero il vino c’è, come apprendiamo dalla descrizione del paesaggio agricolo (ι 110 s.) e dalle parole di Polifemo che, dopo aver assaggiato del vino di Odisseo, ne vuole ancora (ι 357–9): ϰαὶ γὰρ Κυϰλώπεσσι φέρει ζείδωρος ἄρουρα οἶνον ἐριστάφυλον, ϰαί σφιν Διός ὄμβρος ἀέξει· ἀλλὰ τόδ’ ἀμβροσίης ϰαὶ νέϰταρός ἐστιν ἀπορρώξ.
Ambrosia e nettare è il nuovo vino al confronto del vecchio: e questo sarà il gran merito di Odisseo presso il Ciclope, che gli meriterà lo ξεινήιον di esser divorato per ultimo. Invece in Euripide i Ciclopi non conoscono il vino, che sarà per loro una straordinaria novità. Di questa innovazione euripidea è stata data da molti, sia pure senza troppa convinzione, una spiegazione: la ‘scoperta’ del vino servirebbe per mettere in risalto l’ingordigia del Ciclope, per ottenere, cioè, niente piú che un modesto elemento di caratterizzazione. Che tra l’altro, poi, poteva benissimo ottenersi per altra via, col fare di Odisseo il portatore di un vino migliore, molto migliore di quello dei Ciclopi, come in Omero. È vero che la mancanza del vino mette meglio in rilievo, per i satiri e per Sileno, il tema patetico della ‘separazione da Dioniso’, come ha osservato da ultimo Kassel47, al che si può precisare che il tema dell’esilio, ovvero della ‘schiavitú dei satiri’, e quello della ‘liberazione di greci da barbari’ sono stati riconosciuti come tipici del dramma satiresco48. L’appassionata nostalgia per Dioniso ed il vino, in contrasto colla dura realtà presente, è espressa continuamente (17, 25 s., 37–40, 63– 81, 123, 139 s., 172 s., 204 s., 428–30, 435 s., 437 s., 619–23; etc.), tanto da farne uno dei piú forti motivi ricorrenti; e il tema della servitú apre il dramma nelle
|| gare di ἀγρυπνία nei banchetti v. Suid. s. v. τήνελλα, p. 542.22 ss. Adler; e sul τήνελλα simposiaco–comastico sch. ad Pind. O. 9.14, p. 268.2 ss. Drachm. 46 V. ora l’accurato lavoro di W. Wetzel (1965). Sulla innovazione concernente il vino pass. e spec. pp. 55–8. V. infra, p. 489. 47 R. Kassel, «Rh. Mus.» 98 1955 p. 283. Si pensi anche al Filottete sofocleo che, da dieci anni costretto a vivere in Lemno deserta (innovazione sofoclea), esprime la sua accorata nostalgia per l’οἰνόχυτον πῶμα (Phil. 712–7). 48 Schiavitú e liberazione dei satiri, Guggisberg pp. 52 s., 60–3; Rettung von Griechen aus Barbarenhänden, Schmid–Stählin, I. 3 p. 533.
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parole accorate di Sileno (24 δοῦλοι e λατρεύομεν, 31 διάϰονος; cf. 76–81; etc.). Per di piú la liberazione dei satiri (442) e di Odisseo coi suoi compagni (476–82) si colora di una luce particolare, diventando anche una vendetta punitiva (422, 441 s., 693; etc.), giacché l’avventuroso piano dell’accecamento del Ciclope, com’è stato osservato, qui non sarebbe a rigore necessario, essendo, per ragioni sceniche, aperto, e non bloccato col pesantissimo masso, l’antro del Ciclope49. Ma non credo che sia stato tenuto debitamente presente un fatto che dall’azione del Ciclope euripideo risulta chiaro: l’ignoranza del vino è anche l’ignoranza del modo con cui il vino si beve e, naturalmente, del modo con cui ci si comporta nel simposio. I greci hanno fin da età arcaica delle regole di galateo simposiaco, delle strette table manners, che sono naturalmente limitate all’alta società: dai precetti, volti a far conservare il decoro e la χάρις, che troviamo in Omero stesso (specialmente nell’Odissea), in Alceo, Focilide, Senofane, Teognide, Anacreonte, Crizia c’è da estrarre come un genere letterario particolare, una sorta di ὑποϑῆϰαι simposiache50. Del Ciclope è messa in forte rilievo l’ignoranza del vino e la grossolanità (173, 493; etc.) e orgogliosamente confesserà lui stesso di non riconoscere la divinità di Dioniso (521 ss.)51. È per questo che avrà bisogno di una vera e propria l e z i o n e (519 ss.), dal momento, cioè, in cui si farà versare il vino da chi sa come lo si beve, avendolo prima bevuto nell’antro non mescolato con acqua. La ‘lezione’ è un tema non infrequente in commedia52 ed è || 49 Alcuni hanno voluto vedere nella vendetta punitiva tutto il senso delle macchinazioni di Odisseo (Schmid–Stählin, I.3 p. 534 s.; v. Wetzel, spec. pp. 32–4, 149). Cf. n. 23. Ma chi cerca (e trova!) soluzioni rigorose di questo tipo perde di vista la natura del dramma satiresco, che, fra i due opposti poli della fedeltà al mito e della necessità scenica, si prende anche liberamente il diritto di manipolare il mito. V. p. 34 e n. 77. 50 K. Bielohlawek, Gastmahls– u. Symposionslehren bei gr. Dichtern, «Wien. Stud.» 58 1940 pp. 11–30. Notevole che il simposio manchi quasi totalmente nell’austero Esiodo (praticamente solo il simposio campestre di op. 582 ss., ma cf. 722 s., 742): segno del piú basso livello sociale della gente che descrive e a cui l’opera sarebbe destinata? È chiaro comunque che qui occorre non generalizzare: diversi fra loro sono i principi omerici, i nobili di Teognide, i borghesi di Anacreonte. 51 Il v. 521 sembra contraddire 204 s., dove Polifemo mostra di conoscere già Dioniso e il suo culto. Ma può trattarsi semplicemente di una domanda polemica, volta a mettere in dubbio la divinità di Dioniso. 52 Ar. vesp. 1208 ss. è un’altra lezione di comportamento simposiaco (M. Pohlenz, Die gr. Trag.2, Göttingen 1954, II p. 96). Si pensi poi all’intero intreccio delle Nuvole. Pohlenz nota anche l’analogia fra eq. 105 ss. e la scena in cui Sileno qui nel Ciclope sgraffigna il vino a Polifemo: ma, trattandosi di scene che appaiono sufficientemente topiche, è forse eccessivo dire che Euripide ha contaminato precisamente queste due scene aristofanee (eq. e vesp.), come fa G. Perrotta, Sofocle, cit., p. 270.1 (e questo anche senza considerare le difficoltà cronologiche, su cui v. n. 87).
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sempre all’origine di situazioni divertenti. Qui essa era stata solennemente annunciata a 492 (παιδεύσωμεν) e protagonisti ne sono il Ciclope, Odisseo e Sileno: ed è senza dubbio uno dei culmini comici del dramma, per la serie di spunti grotteschi che presenta, oltre ad esserne, come vedremo, il momento drammaticamente decisivo. Intanto il precettore non sarà sempre lo stesso: Sileno, che aveva cominciato, viene poi bruscamente ‘licenziato’ dal Ciclope, che si era accorto di avere in lui un οἰνοχόος ἄδιϰος (560) che gli sgraffignava il vino, e, per espresso invito (altro elemento comico), gli subentra Odisseo (566), che avrà una funzione essenziale, come vedremo53. Sileno deve insegnargli a mescolarlo con acqua, com’era notoriamente usuale (557 s.: «Com’è stato mescolato? Vediamo un po’!» — «No! Lo rovinerai! δὸς οὕτως, dammelo cosí com’è, puro!»)54. Sileno deve infine addirittura dire al Ciclope di «pulirsi il naso» prima di bere (561): ἰδού, gli risponde il Ciclope, «mi sono pulito» (562), e quell’ἰδού, che ci ricorda il povero Dioniso tremante che deve prepararsi a remare sotto gli ordini di Caronte nelle Rane di Aristofane (ran. 200 s.), si può tradurre con «ecco, va bene cosí?»55. «Si veda a che cosa è ridotto il Ciclope: a un bimbo o a un vecchio rimbecillito!», nota spiritosamente Mancini. E in verità il «rimbecillimento» del Ciclope era stato già in precedenza presentato agli spettatori, sempre nell’ambito della grottesca lezione, anzi in occasione del primo vero e proprio precetto: 543 ϰλίϑητί νύν μοι πλευρὰ ϑεὶς ἐπὶ χϑονός, gli dice Sileno, dandogli ad intendere che non gli sarà versato il vino se non si sarà posto nella posizione di rito. Ora, lo spettatore ateniese potrà non aver notato lí per lí niente di strano, sentendo un simposiasta invitarne un altro a ‘coricarsi’: a noi tutti è non solo noto, ma perfino familiare l’uso classico di coricarsi sulla ϰλίνη o lettuccio per il pasto e per il simposio. Ma, trasferito all’età eroica, questo era un anacronismo bello e buono: gli eroi omerici mangiavano e bevevano seduti, e non coricati56. Lo spettatore avrà potuto accettare l’anacronismo come uno degli ovvii tributi alla ‘attualizzazione comica’ del mito, ma si sarà poi sentito richiamare all’attenzione, e alla piú sfrenata ilarità, quando si sarà reso conto che Sileno colla massima serietà invita il Ciclope a coricarsi... per terra! Dopo l’anacronismo, l’ἀπροσ-
|| 53 Odisseo gli si era già ‘raccomandato’ come ‘tecnico’ della materia: 519 s. (riecheggiato in 567). 54 Cf. il fr. di Aristia che viene accostato a questo passo: v. infra, p. 489 e n. 85. Su οὓτως colloquiale, = without more ado, off–hand v. P. T. Stevens, «Class. Quart.» 39 1945 p. 104. 55 ἰδού è usato, come elemento eminentemente colloquiale, «nelle risposte date da chi eseguisce un comando», C. Amati, «St. Ital. Filol. Class.» 9 1901 p. 139 (con ricco elenco di passi). 56 V. per es. Athen. epit. 1.17 f ϰαϑέζονται δ’ ἐν τοῖς συνδείπνοις οἰ ἥρωες, οὐ ϰαταϰέϰλινται, cit., con altri passi di Ateneo stesso riportati a Seleuco Omerico, da Ed. Fraenkel, Aesch. Ag., Oxford 1950 p. 754 s. e n. 2, dove vengono richiamati anacronismi del genere in Eschilo. Per Omero, v. i passi ivi cit.: γ 471, δ 238, η 203, ρ 478, υ 136, φ 89.
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δόϰητον per sottolinearlo, e tanto piú ridicolo sarà risultato il tutto per il fatto che, ad un precetto cosí comicamente distorto, la risposta del Ciclope è un altro docile ἰδού (544). L’ἰδoύ è qui un extra metrum e ha dato da fare ai filologi perché non è concordemente attestato dalla tradizione, ma, come solida sembra la sua attestazione57, cosí essenziale risulta la sua funzionalità scenica: c’era bisogno di una pausa nel dialogo in trimetri per permettere al Ciclope di eseguire l’ordine, e far sdraiare un mostro come lui avrà certo preso qualche tempo. Il pubblico avrà fatto una lunga, sonora risata: della laboriosità della messa in posa abbiamo conferma dal fatto che, quasi venti versi dopo, ci sarà bisogno di un nuovo precetto in tal senso (563 ϑές νυν τὸν ἀγϰῶν’ εὐρύϑμως)58. Altri insegnamenti comicamente travisati sono l’imposizione di Odisseo a tacere (568 «Sí, te lo verso, solo sta’ zitto!», a cui il Ciclope replica, 569, che «è difficile tacere per chi beva molto»!) e l’ordine di bere fino in fondo, colla minaccia finale (575 ἢν δ’ ἐλλίπῃς τι, ξηρανεῖ σ’ ὁ Βάϰχιος). Questo è, apertamente, un menare per il naso. Ma la comicità arriverà al massimo quando, finita la lezione, il mostro, imbaldanzito dal vino e finalmente ‘iniziato’ (579 s. τοῦ Διός τε τὸν ϑρόνον || λεύσσω, τὸ πᾶν τε δαιμόνων ἁγνὸν σέβας), scorderà la docilità iniziale e, al povero Sileno–Ganimede che cercherà di resistere alla sua aggressione erotica, dirà, caricaturalmente scandalizzato: 588 μέμφῃ τὸν ἐραστὴν ϰἀντρυφᾷς π ε π ω ϰ ό τ ι ;59. Chi ha bevuto ha, per il Ciclope, come un sacrosanto diritto. Una specie di ‘contro–lezione’ fatta dal mostro a uno dei suoi maestri, e il pubblico avrà di nuovo riso molto, ché il verso sarà stato pronunciato come una studiata parodia degl’insegnamenti ricevuti poco prima. In realtà il Ciclope è ignorante ben piú che delle sole regole del bere vino: è fuori della società civile, come in Omero, anche se in Euripide è presente qualche elemento piú ‘umano’ ed evoluto60. Ci vorrà ancora del tempo prima che la sua figura bestiale s’ingentilisca dapprima in Filosseno e poi negl’idilli sesto e
|| 57 Aggiunto nel Laurenziano (L) da Triclinio (tale dimostrò a suo tempo Turyn (1957) essere la mano del correttore), ma sicuramente non per congettura, v. G. Zuntz, An Inquiry into the Transmiss. of the Plays of Eur., Cambridge 1965 p. 55.2. Già Wilamowitz, Analecta Euripidea, Berlin 1875 p. 13 s.: nec tamen coniciuntur talia. 58 Non creano problema gli ἰδού di 153 e 562, che sono, invece, nel trimetro: l’azione che in quei luoghi viene eseguita è piú facile e ‘veloce’ (in 562 per di piú il Ciclope è impaziente: torna alla memoria Ar. Lys., la scena fra Cinesia e Mirrine!). 59 In πεπωϰότι non riesco proprio a vedere valore concessivo, come fa Paley ad loc. Meglio Wecklein ad loc: «Du willst an ihn deinen Mutwillen auslassen, weil er betrunken ist?», coll’osservazione che episodi del genere accadevano nella realtà quotidiana del simposio (Platone, Senofonte). Il v. 535 non si oppone alla nostra interpretazione. 60 Holland p. 169 ss., Wetzel p. 34 ss. (e cf. 65, 71, 89 etc.).
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undecimo di Teocrito e che Callimaco possa esclamare: ναὶ Γᾶν, οὐϰ ἀμαϑὴς ὁ Κύϰλωψ (epigr. 46.2 Pf.)61. Qui basterà ricordare che Euripide insiste sui suoi pasti bestiali, sulla sua voracità ed antropofagia (30 s., 126–8, 241 ss., 249, 288 s., 334–8, 356 ss.; etc.). Direi che quanto piú disumana viene presentata la sua figura, tanto piú significativa viene ad essere la παιδεία tentata dai greci. Anni fa Momigliano, proprio a proposito del Ciclope, ha ricordato che l’apprezzamento della scoperta dei mezzi di sussistenza dell’umanità evoluta, il grano e il vino (Demetra e Dioniso), è caratteristico del movimento sofistico62 e, in relazione col concetto di progresso dell’umanità, basta rievocare i miti riferentisi all’umanità primitiva, che si nutre dei frutti degli alberi e di erbaggi. Momigliano ricorda ancora che Antistene cinico (455–360 a. C.) aveva scritto un περὶ οἴνου χρήσεως ἢ περὶ μέϑης ἤ περὶ τοῦ Κύϰλωπος (Diog. L. 6.1.18), dove, magnificando le virtú dell’umanità primitiva, ne escludeva Polifemo, perché aveva gustato del vino. Ora, la παιδεία nei confronti del Ciclope, già — come s’è visto — annunciata in precedenza dal coro (492 s.), riesce benissimo. Anzi, tanto bene, che il Ciclope, prima ancora che impari a bere, e cioè prima della grottesca lezione, già mostra di sapere che il simposio è seguito dal ϰῶμος e già lo desidera (507–9, nello stasimo esaminato sopra), anticipando cosí l’intenzione che piú tardi esprimerà nel dialogo (531 «Non devo far parte ai fratelli di questa bevanda?»; e soprattutto 537 «È stupido chi, dopo aver bevuto, non ama fare il ϰῶμος!»; cf. 539). Questa non è un’aporia: il pubblico non avrà trovato strana l’espansività avvinazzata del Ciclope né si sarà meravigliato che venisse fuori dalla sua bocca il termine preciso di ϰῶμος: il fare esprimere al Ciclope un desiderio generico di compagnia e il fargli dire, per esempio da Odisseo, qualcosa come «quello che tu desideri fare adesso da noi si chiama ϰῶμος» sarebbe stata, da parte di Euripide, un’imperdonabile pedanteria. È cosí che si spiega che prima di tutti questi fatti Odisseo, nel concertare il suo piano col corifeo, già nomini il ϰῶμος (445 s.), evidentemente perché il Ciclope, nella scena interna dell’ubriacatura inizia-
|| 61 In Ar. Plut. 290 ss. sarà ancora derisa la sua goffaggine: ϑρεττανελό è chiara onomatopea per il suo ‘strimpellare’. Sui rapporti fra Filosseno ed Aristofane v. K. Holzinger, Komm. zu Ar.’ Plutos, Wien–Leipzig 1940 ad loc. e sch. ad loc., dove si dice che Aristofane διασύρει Φιλόξενον τὸν τραγιϰόν (Philox. fr. 819 P.). In Filosseno Polifemo già cura il suo amore col canto (fr. 822 P.), come sarà poi in Theocr. 11. Interessante che lo scoliasta ad Theocr. 7.153 b (p. 114.7 Wendel) affermi che il far danzare il Ciclope derivi da Euripide (evidentemente dal nostro secondo stasimo). 62 A. Momigliano, «Atene e Roma» 10 1929 154–60: si confronti Prodico fr. 5 D.–K. con Cycl. 121 s. (p. 155); su Antistene p. 156.1. Utile sarà qui ricordare gli elementi sofistici che sono stati riconosciuti nella lunga rhesis del Ciclope ad Odisseo (316–46 ὁ πλοῦτος, ἀνϑρωπίσϰε, τοῖς σοφοῖς ϑεός...).
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le nei confronti della quale Odisseo stesso sta facendo la funzione dell’ἄγγελος narratore, aveva espresso desiderio di compagnia. Chi conosce le aporie del teatro greco non ne vedrà qui una veramente degna del nome63. Né arriverà a tal grado di pignoleria antiquaria da sentirsi a disagio sentendo continuamente parlare, come qui succede, del ϰῶμος di una sola persona: il ϰῶμος si fa già in partenza in compagnia, come naturale continuazione del simposio, ma al Ciclope non si poteva davvero chiedere d’invitare con sé Sileno e Odisseo, satiri e marinai! La stessa insistenza sul ϰῶμος, che viene cosí piú volte artificialmente anticipato rispetto al momento in cui l’azione drammatica lo consentirebbe, serve a dare maggior rilievo al valore drammatico del tema che, a mio avviso, è proprio la chiave, il centro dello spettacolo. Va notato, tra parentesi, che gli spettatori si saranno divertiti un mondo a vedere il Ciclope cosí perfettamente integrato in un uso che essi dovevano sentire non solo civile, ma anche particularmente loro. Il ϰῶμος era elemento della vita borghese della loro πόλις, e c’era addirittura una tradizione che ne attribuiva l’invenzione e l’introduzione ad Atene ai Pisistratidi; e a Sparta nel IV secolo, come c’informa Platone, esso era proibito perfino nelle festività dionisiache64. Non dimentichiamo che il ϰῶμος, assente nei poemi omerici, compare per la prima volta nell’Inno a Hermes (481) e nello Scutum pseudo–esiodeo (281)65. La sua utilizzazione tematica nel Ciclope sarà stata quindi anche apprezzata come un altro voluto anacronismo, piú forte ancora, se non altrettanto icastico e comico, dell’uso del giacere sulla ϰλίνη. Ma il fatto piú importante è certamente il ϰῶμος mancato, ovvero il f a l l i m e n t o d e l ϰ ῶ μ ο ς . Ricordiamo un momento–chiave dell’azione, quando, nel dialogo fra Odisseo e il corifeo, si prospettano due possibilità: o uccidere il Ciclope mentre va, solo, dai suoi fratelli per il ϰῶμος, che è l’idea del corifeo (447 s.); oppure impedirgli di fare il ϰῶμος, fargli balenare il vantaggio che gliene deriva potendo lui tener cosí tutto il vino per sé, farlo bere tanto da farlo ad-
|| 63 Fra l’altro, Odisseo, prima di venirne informato, sa dell’esistenza di Polifemo (129: v. Duchemin). Ma vedrei anche questa come una ironica adesione al modello omerico, del tipo di quelle messe in luce da R. Kassel, «Rh. Mus.» 98 1955 (cit.) pp. 283–6. Le principali incongruenze vere e proprie sono ora viste panoramicamente in sintesi da O. Zwierlein, «Gnomon» 39 1967 p. 452. 64 Lamer col. 1290: Idomen., FGrHist 338 F 3 ap. Athen. 12.532 f ε ὑ ρ ε ῖ ν ϑαλίας ϰαί ϰώμους; Plat. legg. 1.637 ab. 65 C’è chi crede che il ϰῶμος sia stato introdotto col culto di Dioniso (Lamer col. 1290). Ma da una parte sarebbe qui particolarmente sensibile l’equivoco fra ϰῶμος rituale e ϰῶμος post– simposiaco (v. sopra, spec. Adrados); dall’altra la cronologia dell’introduzione del culto di Dioniso è da qualche tempo fortemente oscillante nei pareri degli studiosi, specie dopo la decifrazione del miceneo.
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dormentare e infine accecarlo col tronco infocato: è il programma di Odisseo, quello che verrà poi realizzato, solennemente imperniato fin dal primo verso sul provocato fallimento del ϰῶμος (451 ϰώμου μὲν αὐτòv τοῦδ’ ἀπαλλάξαι). Il progetto verrà realizzato nella parte iniziale della scena stessa della lezione, la cui illustrazione abbiamo di proposito rimandata fin qui e che vorremmo chiamare la scena della d i s s u a s i o n e . Il Ciclope, come abbiamo visto prima, aveva già espresso l’intenzione di fare il ϰῶμος (507–9). A questo punto siamo in grado di darci una giustificazione di ordine scenico–drammatico: il Ciclope doveva desiderare il ϰῶμος, per creare qui una tensione drammatica, lasciandosi piano piano convincere a rinunciare all’idea, come fa in tredici versi di sticomitia (530–42), che sono l’esempio piú macroscopico di precetto ‘falsificato’. Insegnare le regole del simposio e dissuadere dal ϰῶμος doveva suonare al pubblico come una stonatura violenta, voluta e per ragioni di comicità e, com’è ormai chiaro, per ragioni drammatiche. È Odisseo ad attaccare l’argomento ed in principio è genericamente suasivo (530 «Stattene qui, bevi e goditela, Ciclope»), poi blandisce la sua ambizione (532 «Se lo terrai per te, il vino, avrai piú rispetto dagli altri»), gli fa presenti ragioni di saggia prudenza (534 «Il ϰῶμος è violento, ama le risse»)66, è imperioso, inaugurando il tono del precettore parodicamente sentenzioso (536 «Mio caro, chi ha bevuto deve restare a casa!», colla eco di un proverbio famoso, come mi sembra evidente)67, per ripetere poi la stessa cosa con tono piú cortese (538 «L’ubriaco che se ne sta a casa è saggio»). Il Ciclope per tre volte fa eco alle parole di Odisseo, naturalmente ribadendo la sua intenzione (531, 533, 535: l’ultima volta con uno dei giuochi di parola su οὔτις), e, dopo aver fatto la piú ferma e violenta delle sue affermazioni (537 «È stupido chi, dopo aver bevuto, non ama fare il ϰῶμος!»), non trova di meglio che rivolgersi a Sileno per chiedergli (539): «E tu che ne pensi? Ti pare il caso di re-
|| 66 Su episodi di violenza nel ϰῶμος v. Copley, op. cit. p. 148.26; O. Crusius–R. Herzog, Die Mimiamben des Herondas, Leipzig 1926 p. 199. 67 ὦ τᾶν, πεπωϰότ’ ἐν δόμοισι χρὴ μένειν. Vedo qui l’allusione, sicura, a quello che era un proverbio molto diffuso: οἴϰοι μένειν δεῖ τὸν ϰαλῶς εὐδαίμονα (Diogen. 735, p. 292.4, Apostol. 1245, p. 553.8 Leutsch–Schneid.), che ritroviamo in Aesch. fr. 317 Ν.2 = 628 M. (con χρή), Soph. fr. 848 N.2 = 934 P. e, lievemente modificato, in Eur. fr. 793 N.2 μαϰάριος ὅστις εὐτυχῶν οἴϰοι μένει (tutti da fonti ‘paremiografiche’: Clem. Alex., Stob.). Cfr. Hes. op. 365 e l’uso parodico di Hymn. Merc. 36. Per il legame di simili formule col μαϰαρισμός v. Dirichlet, op. cit. p. 14 e n. 1 e specialmente alcuni fra i passi comici riportati da Nauck ad Aesch. fr. 317. Qui nel Ciclope il giuoco sta, a mio parere, in πεπωϰότα = εὐδαίμονα, μαϰάριον (si noti anche il solenne e parodistico ἐν δόμοισι invece di οἴϰοι) e sarebbe ben piú che l’allusione ad un proverbio qualsiasi, bensí una nuova predicazione celebrativa della felicità del Ciclope bevitore, fatta qui da Odisseo con palese scopo ‘tattico’. V. anche la n. successiva.
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stare?». La diagnosi manciniana del rimbecillimento ci viene abbondantemente confermata. Sileno è d’accordo sul piano di Odisseo, lo sappiamo già da 431. E basterà un verso di Sileno nel quale è ripetuto il tema già sfruttato (530–2, cf. 452) dell’egoismo (540 «Che bisogno hai di altri simposiasti — ti basto io! — Ciclope?») per far crollare il mostro cosí, senza piú resistenza, senza bisogno di nuovi argomenti (541 «Veramente il terreno è molle d’erba fiorita...». «Sí — continua Sileno al 542 — ed è bello bere al tepore del sole!»: dopo di che il mostro si adagia lentamente a terra). Καὶ πρός γε ϑάλπος ἡλίου πίνειν ϰαλόν: questo verso di atmosfera falstaffiana, che di nuovo richiama un detto proverbiale68, chiude quello che doveva essere sentito come il momento piú teso dell’azione, ché, se il Ciclope non cedesse, fallirebbe il piano di Odisseo cosí come ci era stato presentato da lui stesso, e lo spettatore avrà seguito con divertita tensione. Abbiamo reso qui alla meglio: rileggiamo il passo nel testo, e ci renderemo conto che siamo davanti alla piú smaccata p a r o d i a d e l l a s t i c o m i t i a t r a g i c a 69. In fondo è proprio questo che apparenta il dramma satiresco alla tragedia e che nello stesso tempo da essa lo distingue: il portare lo spettatore, scherzando, fino all’ultimo confine della soluzione tragica, sventandola all’ultimo momento, sempre tenendo in piedi lo scherzo. In sintesi, la comicità sta nel presentare al Ciclope una cosa cosí importante della vita quotidiana che ancora non conosce, il vino, e nell’insegnargli il modo di farne uso con una faticosamente grottesca παιδεία, ma nell’insegnarglielo solo a metà: le regole per il simposio gli vengono trasmesse in comico travisamento, col colmo di farlo sdraiare in terra. Poi, soprattutto, simposio sí, ma ϰῶμος no. E il grido di vittoria sul barbaro ignorante consiste nel voler dare proprio al ϰῶμος mancato la funzione di chiave per il lieto fine del dramma70. || 68 Notato, questa volta, almeno da Paley ad loc. (ἡδὺ πίνειν πρὸς τὸ πῦρ), che confronta brillantemente l’ἀπροσδόϰητον di Ar. Ach. 751. Per la tematica del vino bevuto al tepore del fuoco basta ricordare Alc. fr. 338 L.–P. (Hor. carm. 1.9) e, nel Ciclope stesso, 331 (323 ss.). Il tono sentenzioso–parodico investe qui tutta la scena. 69 Secondo E.–R. Schwinge, Die Verwendung der Stichomythie in den Dramen des Euripides, Heidelberg 1968 la sticomitia 519–43 (non 544, ché, come si è visto, s’inserisce qui un nuovo momento drammatico, quello del ‘coricarsi’ del Ciclope) sarebbe del tipo della Überredung zu einer Handlung (p. 85 ss.); la sticomitia 544–75 del tipo della Verdeutlichung szenischen Geschehens (p. 333 ss.). 70 Inutile obiettare che chi vince è Dioniso–vino. Questo è ovvio e lo ricorderà trionfalmente il coro alla fine, di nuovo con tono sentenzioso, come un ultimo ‘insegnamento’ (678 δεινὸς γὰρ οἶνος ϰαὶ παλαίεσϑαι βαρύς, «Povero te, Ciclope; il vino si rivolta e morde!»): ma il ϰῶμος mancato è, appunto, l’ e s p e d i e n t e d r a m m a t i c o con cui si realizza questa vittoria di Dioniso–vino. — In Schmid–Stählin, 1.3 p. 537 s. e, precedentemente, in W. Schmid, «Philol.» 55 1896 p. 59 s. una qualche importanza drammatica al ϰῶμος del Ciclope veniva riconosciuta:
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Se le considerazioni e gli apprezzamenti fatti fin qui colgono nel segno, risulterebbe confermata una brillante e seducente proposta d’interpretazione del genere satiresco in generale avanzata di recente. Ricordiamo che la tragedia era per i greci, come si sa, uno dei piú grandi momenti di ‘divertimento’, almeno nel quinto secolo, ma si trattava di un divertimento per il quale noi moderni dovremmo in verità cercare un’altra parola. Sulla scena tragica parlano e gestiscono nientemeno che degli eroi, con una dignità e un decoro che li innalzano al di sopra dell’umanità comune, presentandoli come tipi ideali: ce lo dice già Aristotele nella Poetica. Per di piú i temi trattati appaiono a noi ben diversi da quelli che chiediamo alle ore di distensione: il destino dell’uomo, il rapporto dell’uomo colla divinità, il rapporto degli uomini fra di loro. La commedia, e continuo a riferirmi al quinto secolo, ci presenta invece per lo piú dei suoi eroi, pescando solo episodicamente al mito: e del resto la commedia sta a sé, sia nella sua ‘preistoria’, sia nelle sue forme strutturali, sia nel ruolo ad essa assegnato negli spettacoli teatrali. Ma del dramma satiresco, che negli agoni è strettamente legato alla tragedia nel quadro della tetralogia drammatica rappresentata in una giornata, si può dire che la tematica nasce tutta dal mito, da un mito preso alla buona, scherzandoci sopra71. Esso si presenta in qualche modo come l’esatto rovescio della tragedia: τ ρ α γ ῳ δ ί α π α ί ζ ο υ σ α , lo definisce con felice intuizione Demetrio, de eloc. 169. Una specie di sollievo dopo l’impegno imposto dagli orrori delle tre tragedie, alla fine della faticosa giornata teatrale degli ateniesi. Come una catarsi aristotelica ante litteram, ma una catarsi che è già, per lo spettatore, la buona moneta faticosamente guadagnata: adesso che, avendoli visti sulla scena, gli spettatori hanno estirpato dal loro inconscio tanti orrori — mi si perdoni la terminologia psicanalitica —, adesso possono divertirsi davvero nel senso nostro, e proprio cogli stessi temi e gli stessi personaggi. Tutto questo è chiaro alla critica moderna, che peraltro ha dedicato finora poche cure al dramma satiresco: del resto anche Aristotele se ne era relativamente disinteressato, considerandolo in sostanza solo per quanto, nella fase delle origini, atteneva alla preistoria del teatro in generale. È chiaro che questo dipendeva dallo scarso successo del genere satiresco nel corso del quarto secolo. Ma l’età ellenistica, con un Sositeo, ci dimostra per il dramma satiresco un interesse
|| ma veniva definito semplicemente ein kurz wirkendes Motiv der Spannung! Nell’articolo in «Philologus» Schmid era addirittura incline a vedere nel ϰῶμος mancato quasi un’aporia, giustificata poi con artificioso impegno. 71 V. le utili messe a punto di G. Conflenti, Il Ciclope, gli Ichneutae e il dramma satiresco, Roma 1932 p. 37 s., che giustamente dà ragione a Casaubon, che vedeva identità fra tematica tragica e satiresca, contro le limitazioni di Welcker.
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che sarà stato legato in parte al tipo di spettacolo e in parte a un desiderio di ricostruzione antiquaria, e la fonte ellenistica dell’Ars poetica di Orazio, che certamente partiva dal dramma satiresco ellenistico72, ci pone di fronte a una quasi totale identità di conclusioni critiche con quelle che noi moderni tiriamo dallo studio del dramma dell’epoca classica: da una parte la differenziazione dello stile del dramma satiresco sia da quello della tragedia sia da quello della commedia, in modo da porsi al centro con caratteristiche intermedie (Hor. a. p. 225–50); dall’altra la funzione di ‘sollievo’ per lo spettatore (ibid. 222–4): iocum temptavit eo quod || illecebris erat et grata novitate morandus || spectator functusque sacris et potus et exlex. Ora, in un lavoro recentissimo, François Lasserre73 prende in considerazione, soprattutto per la tragedia, la fisionomia della maschera e la mimica dell’attore, estraendone una specie di dottrina ‘etica’ piú o meno implicita, simile alla dottrina etica della musica di damoniana memoria. Ci sarebbe stato tutto un ‘codice’ di decenza e di decoro, dal quale ci sarebbero state solo deroghe episodiche, diverse in frequenza e natura nei tre tragici principali e finalizzate a precisi intenti drammatici: ma è raro, comunque, che un eroe pianga o supplichi, che tradisca insomma il codice etico del gesto. E il dramma satiresco? Le drame satyrique serait anti–éthos parce que la tragédie (au temps d’Eschyle et de Sophocle) est d’abord leçon d’ethos74. Lasserre fa solo un cenno sulla ‘posizione’, cosí grottescamente antitragica, dei satiri sofoclei alla caccia, che, chinati a terra, sono paragonati da Sileno scandalizzato a dei ricci e
|| 72 V. per es. K. Latte, Kl. Schr., München 1968 p. 889 ss., spec. 894 (1925). Per di piú Orazio lo confrontava colla commedia nuova (v. il comm. di A. Rostagni, Torino 1930 ad loc.). E anche a.p. 222 incolumi gravitate difficilmente poteva applicarsi al quinto secolo. Del resto, se già Aristotele era lontano da un interesse attuale per il dramma satiresco proprio perché nel corso del quarto secolo esso perdeva sempre piú terreno negli agoni (genus inferius?), una conseguenza va vista nel fatto che esso fu trasmesso solo in parte alla filologia alessandrina (si ricordino anche gli οὐ σῴζεται; e del resto i drammi satireschi di cui si conosca almeno il titolo sono, com’è noto, in numero largamente inferiore a quello delle possibili trilogie tragiche, anche per il quinto secolo). Per le fonti di Orazio v., da ultimo, C. O. Brink, Horace on the Art of Poetry, I. Prolegomena to the Literary Epistles, Cambridge 1963 [e, adesso, II. The ‘Ars Poetica’, Cambridge 1971 p. XI ss.; sul dramma satiresco p. 273 ss.]. 73 F. Lasserre, Mimésis et mimique, Atti del II Congr. Internaz. di Studi sul dramma antico (Il dramma antico come spettacolo, 25–27 maggio 1967), Roma–Siracusa s. d. ma 1970 pp. 245–66. 74 Questa felice formulazione mi è stata comunicata da Lasserre stesso per litt. In art. cit. pp. 261–3 è proposta la suggestiva contrapposizione Atena–Marsia (Melanipp. fr. 758 P.): le satyre a été choisi par les moralistes athéniens du Ve siècle comme l’incarnation de l’anti–morale;... le mythe concrétise à merveille l’antithèse εὐϰοσμία – ἀϰοσμία.
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a delle scimmie75: ma vorremmo che fosse lui stesso a seguire una traccia cosí promettente. Ci sarebbe poi da estendere la ricerca, seguendo questa stessa linea, alla musica e alla danza del dramma satiresco, pur col poco che ne sappiamo76, nonché alla lingua e ad alcuni espedienti nella trattazione, o meglio deformazione del mito77. Per limitarci a quelli che sono stati i risultati delle nostre considerazioni sul Ciclope, mi pare che il far coricare docilmente a terra un mostro mitico sia una caratteristica violazione, tipica nel senso di Lasserre, del codice etico del gesto; e che soprattutto l’intera l e z i o n e a r o v e s c i o sia, indipendentemente dalla sua funzionalità drammatica, un’altra efficace illustrazione dell’anti–ethos del dramma satiresco sentito come anti–tragedia e addirittura, piú precisamente ancora, della sua a n t i – p a i d e i a . *** Forse il ϰῶμος — e intendo sempre quello secolare post–simposiaco, quello delle buie stradine dell’Atene notturna, non considerando le sicure connessioni col dramma satiresco di quello rituale — aveva nella tematica del dramma satiresco stesso una parte piú importante di quanto si possa evincere dagli scarsi documenti che di questo genere letterario sono giunti fino a noi. Il ϰῶμος era del resto tanto familiare agli ateniesi, che sul loro teatro essi potevano non solo farlo ‘fallire’, come qui nel Ciclope, ma anche presentarlo in forma orribilmente ‘rovesciata’, come in un passo famoso di tragedia la cui natura è stata chiarita da Eduard Fraenkel78: intendo il tragico ϰῶμος delle Erinni nell’Agamennone di
|| 75 Soph. Ichn. 118–24. Questi versi sono cosí significativi, che vanno riportati per intero (testo di Pearson): τίν’ αὖ τέχνην σὺ τήν[δ’ ἄρ’ ἐξ]ηῦρες, τίν’ αὖ, πρόσπαιον ὦδε ϰεϰλιμ[ένος] ϰυνηγετεῖν πρὸς γῇ; τίς ὑμῶν ὁ τρόπος; οὐχὶ μανϑάνω. [ἐ]χῖνος ὥς τ[ι]ς ἐν λόχμη ϰεῖσαι πεσών, [ἤ] τις πίϑη[ϰο]ς ϰύβδ’ ἀποϑυμαίνεις τινί. τ[ί] ταῦτα; π[οῦ] γῆς ἐμάϑετ’; ἐν π[οί]ῳ τόπῳ; [ση]μήνατ’, ο[ὐ γ]ἀρ ἴδρις εἰμὶ τοῦ τρόπου. Gli ultimi due sono altamente rilevanti nel senso illustrato sopra nel testo. 76 V. L. B. Lawler, op. cit. a n. 4, spec. p. 103 ss. (numerosi riferimenti al Ciclope). 77 Numerosi spunti, alcuni dei quali originali (specie sui Dictyulci), nella tesi di laurea (inedita) di Massimo Di Marco, Ricerche sul dramma satiresco in Eschilo, Università di Roma 1969–70. 78 Ed. Fraenkel, ad Aesch. Ag. 1186 ss. V. anche Eur. Suppl. 390 ϰῶμον δέχεσϑαι τὸν ἐμὸν ἀσπιδηφόρον (Teseo al ϰῆρυξ tebano); e Phoen. 352 s. collo scolio. Una sottile caricatura del ϰῶμος e del παραϰλαυσίϑυρον (fatti cittadini) è, in epoca ed atmosfera alessandrina, Theocr. 3, colla sua ambientazione rustica: sulla ‘traduzione’ dei vari elementi da un ambiente all’altro v. U. Ott, Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Hildesheim 1969 p. 174 ss.
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Eschilo, dove nelle parole di Cassandra tanti precisi elementi del ϰῶμος stesso sono presenti, ma in prospettiva allucinatamente distorta, a rovescio (Ag. 1186– 93): τὴν γὰρ στέγην τήνδ’ οὔποτ’ ἐϰλείπει χορός ξύμφϑογγος οὐϰ εὔφωνος· οὐ γὰρ εὖ λέγει. ϰαὶ μὴν πεπωϰώς γ’, ὡς ϑρασύνεσϑαι πλέον, βρότειον αἷμα ϰῶμος ἐν δόμοις μένει δύσπεμπτος ἔξω, συγγόνων Ἐρινύων. 1190 ὑμνοῦσι δ’ ὕμνον δώμασιν προσήμεναι πρώταρχον ἄτην, ἐν μέρει δ’ ἀπέπτυσαν εὐνὰς ἀδελφοῦ τῷ πατοῦντι δυσμενεῖς.
I comasti sono qui le Erinni; invece di cantare un canto allegro, cantano la maledizione alla casa degli Atridi; invece di bere vino, bevono sangue79; invece di presentarsi a casa altrui coll’agile insistenza di chi fa baldoria, «non lasciano piú la casa» (1186), «vi restano dentro» (1189), «occupano le stanze» (1191), il loro ϰῶμος è δύσπεμπτος ἔξω, «non si riesce a mandarlo via» (1190), come invece riusciva certo spesso nella realtà. È incredibile, fra l’altro, quanta vivida informazione antiquaria sul ϰῶμος abbiamo qui, tutta per audace antifrasi. Nello stesso Ciclope, all’inizio (37–40), Sileno rievoca imprese di Dioniso alludendo anche ad un ϰῶμος fatto dal dio alle case di Altea, e da tempo si è creduto di ravvisarvi il tema di un dramma satiresco che avesse a suo centro proprio un ϰῶμος post–simposiaco80. Andrebbe forse anche segnalato il dramma Ἥφαιστος di Acheo, vicino per tema ai Κωμασταὶ ἢ Ἅφαιστος di Epicarmo81: ma non siamo in grado di escludere che, qui come spesso altrove, ‘comasti’ significasse genericamente ‘simposiasti’. Va del resto anche ricordato che Kῶμος era nome di satiri, insieme, naturalmente, con altri nomi legati al vino (Ἡδύοινος etc.)82. Quanto a ricchezza d’informazione antiquaria, il Ciclope è ancora piú ricco di quello che ci è già apparso sopra: in due passi (419, 445 s.) ci viene addirittura registrata la sequenza, usuale, pasto–simposio–ϰῶμος. Che il ϰῶμος secolare in generale, comunque, fosse uno dei temi comuni al dramma satiresco e alla commedia è stato già visto83.
|| 79 Direi che anche 1188 ὡς ϑρασύνεσϑαι πλέον («per imbaldanzire ancor di piú») è un preciso riferimento biotico al ϰῶμος, ovvero alle ribalderie di esso (v. supra, n. 66). 80 F. G. Welcker, Nachtrag zu der Schrift über die Aischylische Trilogie, nebst einer Abhandlung über das Satyrspiel, Frankfurt 1826 p. 298 s. 81 H. Lloyd–Jones, in H. Weir Smyth, Aesch., II, cit., p. 548. 82 Lamer col. 1298 s. 83 V. da ultimo Adrados, art. cit. p. 276, che però si riferisce al ϰῶμος imenaico.
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Dei predecessori o contemporanei di Euripide nella trattazione del tema del Ciclope abbiamo frammenti del Κύϰλωψ di Epicarmo, del dramma satiresco Κύϰλωψ di Aristia, figlio di Pratina, e degli Ὀδυσσῆς di Cratino. Ci piacerebbe sapere quali reali innovazioni Euripide abbia voluto presentare al suo pubblico per quanto riguarda il vino e il ϰῶμος. Dai pochi frammenti di Epicarmo non si riesce a ricavar nulla84. Di Aristia, dal fr. 4 N.2 = 4 Steffen2 ἀπώλεσας τòv οἶνον ἐπιχέας ὕδωρ85, si è detto che doveva introdurre un Ciclope già produttore e bevitore di vino, alla maniera omerica, cum tam subtilis palati fingatur, ut tenuitatem vini statim sentiat86. Ma in Aristia il Ciclope poteva anche aver già assaggiato, e magari per la prima volta, il vino puro, che gli fa subito dopo sembrar scipito quello allungato (ἀπώλεσας). Che cosa diremmo se avessimo, isolato in frammento, il passo euripideo che, com’è noto, viene riportato ad Aristia? In 557 s. leggiamo (v. sopra): ΣΙ. πῶς οὖν ϰέϰραται; φέρε διασϰεψώμεϑα. || ΚΥ. ἀπολεῖς· δὸς οὓτως. La situazione poteva ben essere la stessa: il Ciclope qui già sa che il vino coll’acqua perde forza perché, nella grotta, lo ha già bevuto puro (prima della ‘lezione’!) se, come abbiamo visto, Odisseo lo ha fatto ubriacare, tanto da farlo apparire già ubriaco sulla scena per il canto del secondo stasimo. Aristia poteva quindi aver presentato dei Ciclopi nuovi al vino, come Euripide, e aver già innovato rispetto ad Omero. Dagli Ὀδυσσῆς di Cratino87 si ricava invece che c’era un ritorno ad Omero, alla familiarità, cioè, col vino: il fr. 135 K. οὔπω ’῎πιον τοιοῦτον οὐδὲ πίομαι || Μάρωνα dipende troppo strettamente da ι 357–9 (v. sopra, p. 23) per non corrispondere a situazione analoga88. Certezza ulteriore mi pare che ci venga data dal fr. 143 K., dove, al v. 3, fra gl’intingoli con cui con-
|| 84 E ugualmente da Callia, Diocle, Teopompo. 85 Passato in proverbio, v. Suid. A 3668 p. 330.21 ss. Adler, Zenob. 216 p. 35.10 ss., Diogen. 232 p. 200.9 ss. Leutsch–Schneid. (dal περὶ σατύρων di Cameleonte, v. Wehrli ad loc.). Cf. supra, n. 54. 86 Holland p. 166 e v. altri critici ap. Wetzel p. 56.49 (dove sono rilevate le contraddizioni di Holland). 87 Sulla cronologia del Ciclope v. Duchemin p. VII ss. Sulla possibile posteriorità degli Ὀδυσσῆς v. vari pareri ap. Wetzel p. 151.65. Una datazione molto tarda del Ciclope (408, dopo il Filottete) è stata sostenuta da A. M. Dale, Coll. Pap., cit., p. 129 (1956) sulla base del parallelo fra Cycl. 707 δι’ ἀμφιτρῆτος τῆσδε e Soph. Phil. 19 δι’ ἀμφιτρῆτος αὐλίου (cf. 16, 17 s., 159, 952: l’accostamento con 19 già in Schmid–Stählin, I.3 p. 533.2, ma per il 409 come terminus ante quem per il Ciclope). La tesi della Dale è ora sostenuta con copia di nuovi argomenti da O. Zwierlein, «Gnomon» 39 1967 p. 453.2, che per di piú (p. 453 s.) dà una interpretazione in chiave comico– parodistica della caverna, che solo all’ultimo momento si rivelerebbe a doppia uscita: ma mi pare che una preparazione di questo elemento ‘retroscenico’ vada vista in 197 εἰσὶ ϰαταφυγαὶ πολλαὶ πέτρας. 88 Holland p. 161; ν. anche la n. di Kock ad loc.
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dirà le carni dei greci, il Ciclope nomina la ὀξάλμη, che era un misto di aceto e salamoia. Euripide può quindi aver preso l’innovazione della novità del vino per i Ciclopi già da Aristia; e, quanto al ϰῶμος, lo avrà certo trovato già fortemente radicato nella tematica del dramma satiresco. Il f a l l i m e n t o del ϰῶμος, invece, è certamente elemento originale. Non abbiamo prove esplicite: ma la studiata elaborazione del motivo e la sua a parer mio provata centralità ci confortano nella supposizione. Sul dramma i giudizi estetici sono stati discordanti, ma la generale tendenza è stata per una piú o meno radicale condanna89. Il Ciclope è comunque prezioso per noi, ricco com’è di elementi biotici che ci permettono di vedere con cosí vivida evidenza alcuni realia del mondo antico. Ma è anche un’opera ben riuscita, come credo risulti ormai chiaro e dal recupero di alcuni momenti di efficace comicità che erano rimasti finora non osservati e dal fatto che presenta anche una sua solida unità di concezione drammatica.
|| 89 Nicolai, K. O. Müller, Kaibel, W. Schmid, Wilamowitz, Masqueray (ap. F. Hahne, «Philologus» 66 1907 p. 36 ss., che invece è piú positivo). La Duchemin p. XVII s. si limita a notare la sproporzione fra la lunghezza dei singoli episodi e conclude per una composizione affrettata. Un breve ma valido apprezzamento del Ciclope e del suo humour in G. Perrotta, Sofocle, cit., pp. 270–4.
Il dramma satiresco attico – Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico* Indice–sommario 1. Premessa. – 2. La forma. – 3. Esegesi degli elementi formali. La fortuna e il tentativo d’individuazione della funzione. La conferma delle fonti storiche. – 4. Il silenzio di Aristotele. – 5. L’eclissi della fortuna, anteriore ad Aristotele, come spia del decadere della funzione. – 6. L’epoca ellenistica. Rinnovata fortuna, segno della metamorfosi della funzione. – 7. Conclusione. Epicedio sul dramma satiresco.
1. premessa. Il dramma satiresco attico del quinto secolo a.C. è uno dei generi letterari antichi che conosciamo di meno. Per quanto possa apparire strano, è un dato di fatto che va accettato e vale la pena cercare qualche argomento per spiegarselo. È quello che cercheremo di fare qui: riusciremo così a capirne meglio, se non proprio l’origine e la genesi, almeno la natura e la funzione nel breve periodo di maggior fioritura e successo. Gli antichi stessi, da un certo momento in poi, hanno dedicato poca attenzione al dramma satiresco, e così ha fatto anche la filologia moderna: la scarsità di materiali e di testimonianze ha funzionato forse da ‘deterrente’, a differenza di altri settori dell’antichità classica, dove simili condizioni di povertà documentaria hanno invece incoraggiato alla ricerca e alla costruzione d’ipotesi. Il concetto di f o r t u n a di un genere letterario è familiare nei nostri studi: quello che i tedeschi chiamano Fortleben o Nachleben. Bisogna subito distinguerne due tipi. In un primo momento il vero e proprio successo contemporaneo al momento creativo, e cioè, nel caso di un’opera drammatica, la richiesta e la più o meno entusiastica accettazione da parte di un pubblico; e in un secondo
|| [Conferenza tenuta in varie sedi (vd. n. *); pubblicata in «DArch» 6, 1972, pp. 248–302] * Questo lavoro è redazione modificata e accresciuta di una conferenza tenuta in vari luoghi: Friburgo–Svizzera, Università, 2.6.1971; Palermo, Università, 24.1.1972; Monaco di Baviera, Università, 3.2.1972; Roma, Istituto Archeologico Germanico, 15.3.1972; Cagliari, Università, 21.4.1972; Regensburg, Università, 3.7.1972. Ai miei ospiti e a tutti gl’intervenuti, come pure agli amici del seminario romano (20.1 e 27.1.1972) e ai numerosi altri con cui ho discusso queste pagine, devo più di quanto possa essere espresso in una qualsiasi forma di ringraziamento; solo alcuni saranno menzionati qui di seguito. – Per le abbreviazioni bibliografiche v. nota in appendice all’articolo. https://doi.org/10.1515/9783110648126-034
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momento la fortuna postuma, che si configura sia in riprese drammatiche di opere già considerate classiche, sia in riprese creative volte a rinnovare il genere e ad adattarlo ad esigenze nuove, sia in studio filologico, e cioè in restauro ed esegesi volti alla conservazione di qualcosa che si sente avere ancora una sua validità culturale. Il teatro attico del quinto secolo nelle sue diverse forme ha conosciuto, già presso gli antichi, tutti questi vari tipi di fortuna, sia pure in misura diversa: la tragedia è stata applaudita dal pubblico della polis, ed ugualmente la commedia; le riprese sono state numerose, a cominciare da Eschilo; i due generi hanno continuato una loro vita autonoma almeno durante tutto il corso del quarto secolo; e, sulla base dell’avvio dato da Aristotele, la filologia alessandrina ha dedicato molte delle sue cure al teatro. Ovviamente la condizione più importante perché sia garantita a noi moderni la conoscenza di opere del quinto secolo è l’ultimo tipo di attività, quella filologica, che ha avuto il suo massimo fiore in epoca alessandrina, ma che, per la disponibilità dei materiali, ha dovuto dipendere dalle varie epoche anteriori: nel nostro caso da Aristotele, il quale a sua volta, più che fare scelte arbitrarie sue, avrà dovuto necessariamente dipendere da scelte ancora anteriori. Ora, per quanto riguarda il dramma satiresco, c’è un fatto a prima vista strano, che non ha destato in misura sufficiente la meraviglia e la curiosità dei filologi: il totale s i l e n z i o sul dramma satiresco del quinto secolo, il periodo di maggior splendore, proprio d a p a r t e d i A r i s t o t e l e , al quale pur dobbiamo il corpo maggiore di testimonianze sulla tragedia, trasmessoci nella sua Poetica. Questo fatto ha delle cause che si possano in qualche modo individuare? Ci sarà qui d’aiuto un concetto che, nato nella linguistica sostanzialmente già con Saussure e sviluppato dal Circolo di Praga, si è fatto strada in questi ultimi decenni anche nella critica letteraria collo svecchiarsi dei suoi metodi: quello della f u n z i o n e di un genere letterario nell’ambito di un sistema in perenne movimento di sviluppo. La funzione si lascia identificare solo se la si vede in convivenza e in opposizione colle altre funzioni1: vedremo che un determinato genere come il satiresco mostrerà la sua funzione solo se visto in rapporto con un altro genere, la tragedia, il tutto — ricordiamolo — nell’ambito delle esigenze di un determinato ambiente storico–sociale, la polis di Atene del quinto secolo.
|| 1 Per i generi letterari visti in un sistema v. da ultimo T. Todorov, Genres littéraires, in O. Ducrot – T. Todorov, Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage, Paris 1972, pp. 193–201, spec. 195: «Les genres forment, à l’intérieur de chaque période, un système; ils ne peuvent se définir que dans leurs rélations mutuelles».
Il dramma satiresco attico – Forma, fortuna e funzione | 489
Rileggiamo uno dei collaboratori del Circolo di Praga, Mukařovský, che nel 1946 scriveva2: «Questa nozione [della funzione] (che la teoria dell’arte divide colla linguistica ma anche per esempio con la folcloristica e nella sfera delle arti poi con l’architettura) riguarda il rapporto dell’opera d’arte col fruitore e con la società. La nozione di funzione acquista piena obiettività soltanto quando per essa si intende la varietà degli scopi ai quali l’arte serve nella società».
Fermo restando che la funzione principale dell’opera d’arte resta quella estetica, che ha «un posto importante nella vita dei singoli e dell’intera società»3, va ricordato che ve ne possono essere molte altre, che con quella estetica coesistono, e che possono essere più o meno legate a particolari situazioni storico– sociali. Le singole funzioni possono avere di volta in volta importanza prevalente rispetto alle altre: si ha così per le funzioni il concetto di d o m i n a n t e , che presso i formalisti russi designava le caratteristiche più salienti della forma dei singoli generi letterari4. Rileggiamo ancora Mukařovský5: «Alcune opere d’arte sono già dalla loro nascita predestinate a un certo tipo di azione sociale e tale destinazione si manifesta nella loro struttura (adattamento del canone di un genere artistico e simili). L’opera infatti può essere capace di esercitare p i ù f u n z i o n i diverse in una volta. E può alternare diverse funzioni nel corso del tempo. Il più delle volte questo spostamento delle funzioni prende l’aspetto di un cambiamento della d o m i n a n t e del sistema delle possibili funzioni; il cambiamento della funzione dominante si manifesta necessariamente anche con uno spostamento del senso complessivo dell’opera». «Se le rimanenti funzioni ‘pratiche’ quando vengono a trovarsi l’una accanto all’altra in reciproca concorrenza tentano di prevalere l’una sull’altra, facendo valere una tendenza alla specializzazione funzionale (all’unifunzionalità, il cui culmine è la macchina), l’arte tende invece proprio grazie alla funzione estetica alla p o l i f u n z i o n a l i t à più ricca e varia senza con ciò impedire all’opera d’arte di esercitare un’azione sociale».
Il concetto di funzione risulta, come si vede, del tutto ovvio in una p r o s p e t t i v a s o c i o l o g i c a della storia letteraria. Anche se il termine preciso
|| 2 J. Mukařovský, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali. Semiologia e sociologia dell’arte. Introd. e trad. di S. Corduas, Torino 1971, p. 178. 3 Mukařovský, op. cit., p. 37 (le pp. 37–59 – scritte nel 1936, v. p. 189 – trattano della funzione estetica). 4 Sul concetto di dominante nei generi letterari presso i formalisti russi v. Todorov, op. cit., p. 194 sg. 5 Mukařovský, op. cit., pp. 178 sg., 180. Nelle citazioni, qui e in seguito, gli spaziati sono sempre miei.
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di funzione utilizzato in questa particolare angolatura è recente, il concetto è implicito fin dal momento in cui la considerazione sociologica ha cominciato ad imporsi per la valutazione del fatto letterario, e cioè soprattutto dall’illuminismo in poi. Sarebbe ozioso dar qui riferimenti storici e bibliografici: basti ricordare che precisazioni in questo senso ci sono venute ultimamente soprattutto dagli studi etno–antropologici6. Ora è chiaro che, se la funzione risponde alle esigenze di un gruppo sociale, essa è in stretto rapporto di correlazione colla fortuna. Direi che le due categorie in un certo senso s’identificano nella misura in cui l a f o r t u n a è i l r i c o n o s c i m e n t o o g g e t t i v o d e l l a f u n z i o n e : se un genere letterario nasce e si sviluppa (o se è studiato, con intenti di vario tipo), si dice che ha fortuna, e questa sua fortuna dovrà corrispondere necessariamente a una sua funzione; in caso contrario, si dice che la sua fortuna si attenua o decade, e questo dovrà corrispondere ad una temporanea eclissi o alla definitiva decadenza della sua funzione. Il nostro problema può quindi venir formulato in questo modo: i l d r a m m a s a t i r e s c o , d e l quale nel quarto secolo Aristotele tace e che anche per altri fatti ci fa pensare a una fase di scarsa fortuna, ha forse in quel momento esaurito la sua funzione? E la funzione, che nel quinto secolo gli assicurava fortuna, si lascia in qualche modo individuare?
|| 6 G. Angioni, Il «Circolo linguistico di Praga» e la considerazione funzionale del folklore, «Lingua e stile» 6, 1971, pp. 487–98. Importante è l’articolo di P. Bogatyriëv – R. Jakobson, Il folclore come forma di creazione autonoma, «Strumenti critici» 1, 1967, pp. 223–40 (trad. con una Nota di C. Segre; scritto nel 1929; ora in R. Jakobson, Sel.Writ., IV, The Hague – Paris 1966, pp. 1–15): le considerazioni funzionali spec. a p. 233 sgg. V. ancora per es. il «fascio di funzioni» che caratterizzano l’abbigliamento popolare secondo Bogatyriëv (Angioni, art. cit., p. 496 sg.): funzione pratica, estetica, erotica, magica, di indicazione dell’età del sesso dello stato civile, professionale, festiva, di classe o ceto, regionale, nazionale, confessionale etc. (Devo suggerimenti in questo campo ad Alberto Mario Cirese). – Il concetto di funzione che sta alla base di questo lavoro non è lontano da quello di B. Malinowski, Teoria scientifica della cultura e altri saggi, Milano 1971 (A Scientific Theory of Culture and Other Essays, Univ. of North Carolina Press 1944): esso presuppone la definizione di ‘istituzione’ che nel caso nostro è il singolo fatto letterario o, più concretamente, il singolo genere (p. 55: «la funzione è il ruolo di quell’istituzione entro lo schema totale della cultura»). – La considerazione sociologica è purtroppo ancora una rarità negli studi classici, se si escludono alcune vigorose voci nel campo della storia e dell’archeologia; per la storia letteraria in senso lato ricorderò i lavori di Gernet, Thomson, La Penna. Da ultimo V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Torino 1971 fornisce (v. spec, la parte II) un efficace panorama politico–sociologico della seconda metà del quinto secolo, senza trascurare gli aspetti più specificamente economici.
Il dramma satiresco attico – Forma, fortuna e funzione | 491
Pur dovendo lo storico della letteratura volgersi allo studio della storia politica e sociale, per ricavarne quei dati che gli permettano d’inquadrare le opere letterarie, il primo elemento che si offre alla sua considerazione è quello della forma. Non solo gli aspetti formali delle opere erano nel mondo antico particolarmente curati, ma di tale cura gli autori e i pubblici avevano coscienza particolarmente viva: e almeno dal quinto secolo in poi si cominciano ad avere in Grecia delle più o meno accurate ‘codificazioni’ di norme in questo senso7. Tali norme possono da una parte trasformarsi progressivamente, dall’altra essere più o meno apertamente violate: ed è soprattutto in questo secondo caso che il carattere ‘dialettico’ della norma viene in luce, dando un senso a quelle m e t a m o r f o s i delle forme che corrispondono a metamorfosi delle funzioni8. Jurij Tynjanov parlava, nel 1927, di «scambievole rapporto evoluzionistico delle funzioni e delle forme»9, chiarendo il fatto che le trasformazioni delle une sono in rapporto con le trasformazioni delle altre. Qui, a proposito del dramma satiresco attico, la forma sarà trattata di sfuggita e per brevi cenni. È dal materiale testuale che siamo tenuti a ricavare le caratteristiche del genere: un’ ‘occasione mancata’, il silenzio di Aristotele, ci ha privati di una trattazione delle leggi del genere stesso, come invece le possediamo per la tragedia; altre fonti, come vedremo, sono poche e tarde10. Ora, tale materiale è rimasto da parecchi anni praticamente lo stesso11 e d’altra parte
|| 7 Rossi, Gen.lett. 8 Mukařovský, op. cit., p. 67. Per le leggi in generale, le loro trasformazioni e le violazioni v. pp. 59–94, cfr. 169. Particolarmente felice la formulazione a p. 72: «il presente viene avvertito come tensione tra la norma passata e la sua violazione destinata a diventare parte della norma futura». Cfr. Rossi, Gen.lett., p. 72 sg. 9 J. Tynjanov, Die literarischen Kunstmittel und die Evolution in der Literatur (trad, ted.), Frankfurt/Main 1967, p. 59: «das evolutionäre Wechselverhältnis der Funktionen und Formen». E vecchie forme, parzialmente conservate, possono esser portate a nuove funzioni: v. per es. la metamorfosi delle funzioni del genere epico ‘drammatizzato’ in Lucano (G. B. Conte, La guerra civile nella rievocazione del popolo. Lucano, II 67–233. Stile e forma della Pharsalia, «Maia» 20, 1968, pp. 224–53). Sulle norme e le trasformazioni dei generi v. da ultimo Maria Corti, I generi letterari in prospettiva semiologica, «Strumenti critici» 1972, pp. 1–18. 10 Rossi, Gen.lett., spec. pp. 73, 75 sg.: per tutta l’epoca arcaica, fino alla lirica corale compresa, l’analisi interna è l’unico modo di individuare le forme, in mancanza di leggi scritte. 11 Rispetto all’ultima raccolta (Steffen, 1952), il materiale nuovo andrebbe cercato in Pack (21965) e in Snell, TrGF (1971). Di fronte a un frammento drammatico l’incertezza fra tragedia e dramma satiresco può essere totale (v. oltre, §2): e non è questo il luogo di discutere tali problemi in dettaglio. Di un certo rilievo segnalerò soltanto P. Oxy. 2455, frr. 5 e 6 (hypothesis di Eur. Skir.: Austin, p. 94; V. Steffen, «Eos» 59, 1971, pp. 25–33 e 203–26). Interessante P. Oxy. 2436, con notazione musicale, l’epoca del cui testo e la cui natura satiresca sono però incerte (E.
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qualche lavoro di sintesi in questo senso, pur nella scarsità di studi complessivi sull’argomento, è già a disposizione degli studiosi12. Questa nostra intenzionale limitazione, che presuppone la conoscenza del già noto ed accettato, ci permetterà di concentrarci sulla considerazione della fortuna e della funzione. In altre parole: l a f o r t u n a d e l d r a m m a s a t i r e s c o , c h e r i c a v e r e m o dalle fonti, darà un appiglio per individuare la sua funzione: e la funzione a sua volta, vista nel suo sorgere e nel suo decadere, illuminerà le vicende della fortuna stessa del genere.
2. La forma. Come si sa, del dramma satiresco abbiamo un solo esemplare completo, il Ciclope di Euripide, che, insieme cogli altri scarsi frammenti, ci deve servire da punto di partenza per la descrizione della f o r m a del genere satiresco. Del Ciclope non conosciamo purtroppo la data di rappresentazione13: dobbiamo contentarci di porlo molto approssimativamente nella seconda metà del secolo. In esso viene presentata drammaticamente l’azione narrata in prima persona nel nono libro dell’Odissea, e cioè la breve prigionia di Odisseo e dei suoi compagni presso Polifemo con la successiva impresa di liberazione. A parte innovazioni rispetto ad Omero, che hanno la loro ragion d’essere in esigenze scenico–drammatiche14, la novità più importante è la presenza di un c o r o d i s a t i r i , capeggiati dal vecchio Sileno, che da qualche tempo vivono in condizione di schiavitù presso Polifemo e che prendono viva parte all’azione. Nonostante i dubbi che qualcuno ha sollevati, sembra proprio che il coro di satiri sia essenziale al
|| Pöhlmann, Denkmäler altgriechischer Musik, Nürnberg 1970, pp. 126–9; L. P. E. Parker, «Lustrum» 15, 1970, p. 42 sg.). 12 Il lavoro complessivo più recente è Guggisberg; ancora utili, in generale, Mancini, Aly, Schmid–Stählin, Campo; per alcuni problemi (attori, coro) Pickard–Cambridge, DTC e Fest., recentemente riediti in revisione, e Collinge; per le testimonianze archeologiche Webster. Non si può fare a meno di rileggere Casaubonus (1605) e Weleker, Nachtr. (1826). 13 V. Marquart; H. Grégoire, «AntCl» 1948, pp. 269–86 (413 o 412 a.C.); ma v. ibid.. presso Duchemin, pp. VII–X e Rossi, Cicl., p. 37 n. 87 per altri tentativi di datazione. Ricchissima informazione bibliografica in Roos, pp. 188–90. 14 Sui rapporti con Omero v. W. Wetzel, De Euripidis fabula satyrica, quae Cyclops inscribitur, cum Homerico comparata exemplo, Wiesbaden 1965; O. Zwierlein, «Gnomon» 39, 1967, pp. 449–54. Per la struttura drammatica Rossi, Cicl.
Il dramma satiresco attico – Forma, fortuna e funzione | 493
dramma satiresco15 e ugualmente fissa è la loro connessione con Dioniso. Originariamente non era così: si trattava di demoni del mondo naturale (Naturgeister16), le cui figure animalesche, così frequenti nella religione naturale, erano qui di due tipi: uomini–capri, e cioè i satiri, e uomini–cavalli, e cioè i sileni. Nel confondersi dei due tipi si è voluta vedere da alcuni (per es. da Wilamowitz) una progressiva fusione di elementi peloponnesiaci (satiri) e di elementi attici (sileni), ma la documentazione storico–religiosa, ricavata prevalentemente dalle rappresentazioni vascolari, è assai poco coerente già nel sesto secolo17, e non è facile farsi idee chiare. Il loro costante rapporto nel dramma satiresco con Dioniso, del quale formano il seguito, porta alla costituzione di uno dei temi più comuni, quello della ‘separazione nostalgica da Dioniso’, causata generalmente da condizione di schiavitù presso un mostro mitico, come qui in Euripide è il Ciclope. Quello che importa qui mettere subito in rilievo è che, a parte la presenza dei satiri, la t e m a t i c a del dramma satiresco è t r a g i c a , nasce tutta dal mito divino od eroico18, a differenza dalla commedia antica, che presenta sulla scena eroi suoi (i Diceopoli, i Trigei etc.) in intrecci per lo più di pura invenzione; e che la tematica tragica è a suo modo rispettata, non dando mai occasione a vera e propria parodia, come tante volte appare in Aristofane (pensiamo per esempio alla figura dell’Elena euripidea parodiata nelle Tesmoforianti!)19. Legge ferrea del dramma satiresco è che lo stile paratragico sia del tutto || 15 Alcuni pensano diversamente (v. V. Steffen, «Eos» 59, 1971, p. 215 sg.). Che in una hydria del VI sec. (Furtwängler–Reichhold, Vasenmal., tav. 51), nella scena del supplizio di Busiride, manchino i satiri e ci siano dei negri (Preller–Robert, Gr. Mythol., II, 41921, p. 518 n. 3) non ha importanza, per l’arcaicità della testimonianza rispetto al Busiride di Euripide; né è di troppo rilievo il fatto che, come notano Schmid–Stählin, p. 625 n. 5, i satiri non compaiano neanche in successive rappresentazioni della scena (v., sulla testimonianza dell’archeologia in generale, qui oltre, § 3). Singolare è, piuttosto, la coincidenza con Diom., I, p. 490.18 sgg. Keil Latina Atellana a Graeca satyrica differ, quod in satyrica fere satyrorum personae inducuntur a u t s i q u a e s u n t r i d i c u l a e s i m i l e s s a t y r i s , Autolycus, B u s i r i s . Ma, nonostante questa testimonianza ‘scomoda’, c’è da credere che il coro di satiri fosse essenziale, come in realtà pensano quasi tutti: v. per es. il bell’articolo di Decharme. Per la esclusione di natura di dramma satiresco a proposito di commedie con titoli ‘satireschi’ v. Hermann, 1827 (mancanza di coro di satiri!). 16 U. v. Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen, Basel 21956, I, pp. 193–8; Griechische Tragödien, III6, Berlin 1922, pp. 5–11; Nilsson, 1955; da ultimo Lesky, pp. 33–7. 17 V. soprattutto Hartmann, Buschor, Brommer 1937 e 1940. Per il contributo della linguistica alla spiegazione di nomi come σάτυρος, σιληνός, τίτυρος v. Frisk s. vv., con bibliografia. Plat. symp. 222d parla di σατυριϰὸν ἢ σιληνιϰὸν δρᾶμα. 18 Sulla tematica v. spec. Guggisberg, pp. 49 sgg., 60 sgg. 19 Pfeiffer, 1938, p. 61 sg. – Parodia di tragedia si avrà più tardi colle farse fliaciche di Rintone: Nosside le chiamerà φλύαϰες τραγιϰοί (A. P. 7, 414, 3 sg.; v. M. Gigante, Rintone e il teatro
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escluso per i personaggi divini ed eroici20; e per la σίϰιννις, la danza tipica del dramma satiresco, è stato giustamente escluso che si trattasse di una parodia della ἐμμέλεια, la danza tipica della tragedia21. Tutto questo era stato brillantemente formulato più di tre secoli e mezzo fa da Casaubonus, il primo fra i moderni che affrontò su larga scala il problema del dramma satiresco come genere letterario22: A f f i n i t a t e m sane quam habet Satyrica [scil. fabula] cum tragico cothurno, arguit etiam personarum quas introducit qualitas: quae vel paene eaedem sunt ( c h o r u m s e m p e r e x c i p i m u s ) ex quibus componi solitae tragoediae, ... vel etiam maioris dignationis, admirationis et τερατείας: ut Centauri, Cyclopes et e diis etiam aliqui non numquam. H o c a u t e m a c o m o e d i a e s o c c o a l i e n i s s i m u m ...
Il dramma satiresco può veramente definirsi ʻ t r a g e d i a s c h e r z o s a ’ , come aveva fatto Demetrio nel de elocutione (169 τραγῳδία παίζουσα): l’eroe tragico, in un’opera che continua ad essere tragedia, conserva tutta la sua dignità: ricordiamo l’Odisseo del Ciclope23. Impensabile nel dramma satiresco sarebbe un Odisseo che, come quello della commedia di Cratino, dicesse a Polifemo «Tieni, Ciclope, adesso prendi la coppa e bevi il vino, e chiedimi subito il mio nome!», dando umoristicamente per scontato e mettendo così in burletta l’intreccio epico, fondato sul famoso equivoco del nome «Nessuno»24. Nel dramma satiresco il personaggio tragico conserva intatto il suo ethos, che è serio e nobile. Il compito di evocare un’atmosfera giocosa poggia così tutto sui satiri — come quando per esempio infastidiscono una beltà, maschile o femminile — e, quando capiti, sulla sconfitta di un mostro cattivo come il Ciclope, e cioè sul lieto fine. I satiri vengono così a gravitare intorno ai grandi personaggi del mito: ed è per contrasto che spiccano alcune loro caratteristiche assai poco tragiche, come la vigliaccheria e la spacconeria, che del resto risalivano ad una tradizione molto più antica del teatro, se da Esiodo li troviamo definiti «razza di vigliacchi
|| tragico in Magna Grecia, Napoli 1971, pp. 22–4). Per la paratragedia comica v. P. Rau, Paratragodia, München 1967. 20 Pfeiffer, 1958, p. 12. 21 Roos, pp. 170–6. Per le due danze menzionate e per il ϰόρδαξ della commedia v. Lawler. 22 Casaubonus, p. 119 sg. (1. I, cap. 3). 23 Welcker, Nachtr., p. 327 sg. 24 Cratin. fr. 141 K. = 146 Edm. τῆ νῦν τόδε πῖϑι λαβὼν ἤδη, ϰαὶ τοὔνομά μ’ εὐϑὺς ἐρώτα (cfr. ι 347, 355 sg.; Eur. Cycl. 548). V. R. Kassel, «RheinMus» 98, 1955, p. 286.
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e di buoni a nulla» («leoni fuori della mischia, lepri in battaglia», li definisce Nonno)25. Per di più, a stringere ulteriormente la affinitas colla tragedia, l a s t r u t t u r a d r a m m a t i c a del Ciclope è quella di una tragedia del quinto secolo. Ci sono solo da notare alcune libertà della l i n g u a , che scivola più facilmente della tragedia nell’ambito del colloquiale (ma anche in questo quasi esclusivamente per bocca dei personaggi satireschi)26, e del m e t r o , che si permette qualche licenza non tragica27. Questo, di nuovo, con forte differenziazione rispetto alla commedia, che è ben più libera in lingua e metro e che dalla tragedia si stacca anche per rilevanti caratteristiche strutturali, come la parabasi e l’agone, legate del resto a una sua distinta genesi ed a particolari forme di sviluppo. Per il dramma satiresco ci sarebbero da notare alcune particolarità dei c a n t i c o r a l i , che sono spesso monostrofici o astrofici e che appaiono per lo più come stilizzazione di forme liriche popolari28; e, in più, rispetto alla tragedia, c’è una forte presenza dell’e l e m e n t o ‘ b i o t i c o ’ o di vita quotidiana, che il dramma satiresco ha in comune — ed è l’unico fattore di rilievo — colla commedia29. Ma, rispetto agli elementi formali che restano identici, non sono, questi ultimi, fattori veramente distintivi. Come si vede, a causa di una così forte parentela morfologica colla tragedia, in caso di tradizione frammentaria la stessa i d e n t i f i c a z i o n e d e i f r a m m e n t i risulta estremamente difficile. Anche quando dalle fonti ci venga dato il nome dell’autore, questo non risolve, visto che gli stessi autori trattano i due generi (v. oltre, § 3). I casi in cui non si è in grado di decidere (per titoli o
|| 25 Hes. fr. 123,2 M.–W. (= 198,2 Rz.) γένος οὐτιδανῶν Σατύρων ϰαὶ ἀμηχανοεργῶν; Nonn. 14, 123 νόσφι μόϑοιο λέοντες, ἐνὶ πτολέμοις δὲ λαγωοί. 26 Per la lingua v. spec. Mancini, pp. 72–9; Neumann, pp. 6–13; Marquart, pp. 17–22. 27 Per il metro v. Mancini, pp. 79–94; Neumann, pp. 13–7; Marquart, pp. 22–9; Guggisberg, pp. 33–5, 43 sg.; P. Maas, Griechische Metrik, Berlin 31929, § 113 sg. La caratteristica più rilevante è, nel trimetro, la possibilità di violazione della legge di Porson. 28 Per i cori v. Guggisberg, p. 34 sg. e l’analisi del secondo stasimo del Ciclope (495 sgg.) in Rossi, Cicl. (ibid. anche sugli elementi biotici in generale). 29 Per i rapporti fra dramma satiresco e commedia antica (titoli e parziale vicinanza tematica; Eracle mangione etc.) v. Guggisberg, p. 36 sgg. Gli accostamenti fra dramma satiresco e commedia notati in Pohlenz, 1954, I, p. 236 sg. e II, p. 96 sono generici espedienti volti a ottenere il ridicolo e lo scherzo (per es. il chiamare per nome i coreuti, Ar. vesp. 230, Lys. 254, eccl. 293, cfr. eq. 242: cfr. Soph. ichn. 177 sgg.).
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frammenti) se si tratti di tragedia o di dramma satiresco sono numerosi: se non vi siano i pur scarsi elementi differenziatori, restiamo nell’incertezza30. I tratti caratteristici, dei quali abbiamo dato qui una veloce sintesi, sono stati ricavati, naturalmente, non dal solo Ciclope, bensì da tutti i resti, più o meno frammentari, che possediamo e che possiamo con sufficiente certezza assegnare al genere satiresco. Si tratta di frammenti di qualche estensione dei Diktyoulkoi e dei Theoroi o Isthmiastai di Eschilo e di circa la metà degli Ichneutai di Sofocle, tutti restituitici da papiri nella prima metà del nostro secolo. Di altri autori, e di altri drammi dei tre grandi, abbiamo per lo più solo scarsi frammenti, dai quali è spesso difficile riuscire a capire le trame stesse. In tali condizioni sarebbe ancor più necessario, per farsi un’idea più precisa del genere, rivolgersi alle f o n t i a n t i c h e che ce ne danno notizia. Ma purtroppo la rassegna è presto fatta31: Cameleonte, il peripatetico di poco posteriore ad Aristotele, scrive un περὶ σατύρων (fr. 37 Wehrli2), che alcuni tendono ad identificare col περὶ Θέσπιδος (fr. 38 W.), ma i frammenti sono poverissimi; di Alessandro Etolo sappiamo che ordinò i drammi satireschi per la Biblioteca di Alessandria; e Orazio ne parla in una sezione della sua Arte poetica (220–50), la quale sicuramente viene da buona fonte ellenistica, Neottolemo di Pario32; si aggiungano pochi accenni nelle Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso (7, 72, 10–12)33 e le notizie antiquarie del quarto libro dell’Onomasticon di Polluce (4, 99 sulla danza e 4, 118 sul costume teatrale). Un poeta del terzo secolo infine, Dioscoride, ha scritto alcuni epigrammi che — come vedremo — sono importanti per gli elementi di critica letteraria in essi contenuti34. Altre minute testimonianze, delle quali avremo a par-
|| 30 V. per es. la polemica contro Hermann di Weleker, Nachtr., pp. 26–8 e pass. Utile per la fissazione di alcuni principi di decisione è Mancini, pass.; ma v. soprattutto Pfeiffer, 1938 e 1958. 31 Aly, coll. 235 sg., 243; su Alessandro Etolo Pfeiffer, 1968, p. 105 sgg. 32 Su Hor. a. p. 220–50 v. oggi, utile e informato, C. O. Brink, Horace on Poetry. II. The ‘Ars Poetica’, Cambridge 1971, p. 273 sgg. Per l’ideale oraziano di stile moderato per poesia ‘comica’ v. A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 153 sg. 33 Che però non sappiamo quanto fosse influenzato dalla prassi degli spettacoli burleschi romani: v. Gerhard, spec. p. 257 sg. 34 Sugli epigrammi di Dioscoride che a noi qui più interessano (su Eschilo, A. P. 7, 411 = Dioscor. 21 G.–P.; su Sofocle, A. P. 7, 37 = 22 G.–P.; su Sositeo, A. P. 7, 707 = 23 G.–P.) v. A. S. F. Gow – D. L. Page, The Greek Anthology. I. Hellenistic Epigrams, Cambridge 1965, II, pp. 252–7. V. anche Pohlenz, 1927, p. 304 sgg. = 479 sgg.; Guggisberg, pp. 12–4; M. Gabathuler, Hellenistische Epigramme auf Dichter, St. Gallen 1937, pp. 79–90 (88–90 sulla dottrina filologica di Dioscoride); T. B. L. Webster, Alexandrian Epigrams and the Theatre, in Miscellanea Rostagni, Torino 1963, pp. 531–43. V. qui oltre, nn. 58, 111, 128.
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lare in seguito, non migliorano sostanzialmente un quadro che possiamo definire pressoché fallimentare.
3. Esegesi degli elementi formali. La fortuna e il tentativo d’individuazione della funzione. La conferma delle fonti storiche. Non è un panorama confortante, soprattutto se lo mettiamo in rapporto col già lamentato silenzio di Aristotele. Ma qualcosa ci è già possibile mettere in chiara luce: a r g o m e n t i i n t e r n i , come tematica, struttura drammatica, lingua e metro (gli elementi formali), ci hanno fatto vedere che il dramma satiresco è talmente vicino alla tragedia da fare in realtà tutt’uno con essa: i l d r a m m a s a t i r e s c o è t r a g e d i a . Per quanto riguarda lo stile in generale, questo era stato già detto da Orazio nell’Arte poetica, e ancora Orazio nella quinta satira del primo libro fa che Sarmento inviti Messio Cicirro a «fare il ballo del Ciclope pastore, dicendo che avrebbe potuto farlo anche senza la maschera e il coturno tragico»35, intendendo così che tale abbigliamento tragico sarebbe stato normale per la rappresentazione di quello che in origine non poteva che essere un dramma satiresco, certamente il Ciclope di Euripide36. Sfruttando Orazio, possiamo stabilire uno schema, che ci renda più evidente quanto abbiamo esposto fin qui: COTURNO + LACRIME = TRAGEDIA; COTURNO + RISO = DRAMMA SATIRESCO.
Riconoscendo nell’opposizione polare “lacrime/riso” l’elemento variabile che s’innesta sulla costante “coturno”, ci sarà agevole aggiungere una precisazione all’affermazione fatta prima che il dramma satiresco è tragedia: e cioè che || 35 Hor. serm. 1, 5, 63 sg.: pastorem saltaret uti Cyclopa rogabat: nil illi larva aut tragicis opus esse cothurnis. Per il valore di larva v. Kiessling–Heinze ad loc. 36 Per altre affermazioni del genere v. per es. Ov. trist. 2, 409–12: est et in obscaenos deflexa t r a g o e d i a risus multaque praeteriti verba pudoris habet. nec nocet auctori, mollem qui fecit Achillem, infregisse suis f o r t i a f a c t a modis. Allude a Soph. Ἀχιλλέως ἐρασταί, sicuramente dramma satiresco per fr. 153 P. = 23 St.2
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esso è tragedia proprio perché è in un certo senso l’esatto r o v e s c i o d e l l a t r a g e d i a stessa37. Opposizione totale può esserci solo fra omogenei e viceversa omogeneità, che non sia identità, può esserci solo fra opposti38. Il compito di tale ‘ rovesciamento’ è, come abbiamo visto, tutto dei personaggi satireschi, che stabiliscono colla tematica tragica una specie di dialettica. A suo tempo Welcker39 aveva notato che quel che conta è la reazione dei satiri, non la tematica in sé, che, come tale, trovava sviluppo nelle tragedie: «Non erano gli elementi contenutistici in sé ad avere effetto sullo spettatore: egli si concentrava, invece, sull’effetto che tali elementi avevano sullo stato d’animo dei satiri. Coi cori delle tragedie siamo in generale d’accordo; coi satiri, invece, non può o non dovrebbe esserci mai simpatia da parte nostra».
Ma ancora più importante è per noi notare l’atmosfera in cui il rovesciamento si realizza, e cioè l ’ a t m o s f e r a s a t i r e s c a propria dell’ambiente campestre in cui vivono satiri e sileni. Cito ancora parole di Welcker: «Il nocciolo dell’invenzione e la sua maggior bellezza stanno nell’opposizione ovvero nel contrasto del vecchio coro satiresco c a m p e s t r e colla nuova tragedia c i t t a d i n a ovvero coi personaggi che agiscono sulla scena, nella unione di due diverse maniere in un nuovo tutto, nella fusione dello spirito e del tono, della forma e della strutturazione di condizioni, specie ed epoche artistiche fra loro contrapposte. L’azione aveva in generale colore tragico; ma i personaggi, in abbigliamento nobile e splendido, apparivano sotto libero cielo, trasferiti nella solitudine di paesaggi boscosi e circondati dai danzatori, travestiti da capri, appartenenti al corteggio del Dioniso campestre».
|| 37 Significativo il fr. 6 Blumenthal (ap. Plut. Per. 5, 3) delle Ἐπιδημίαι di Ione di Chio, dove le contraddizioni nel carattere di Pericle vengono messe in parallelo coll’opposizione che nella tetralogia si ha fra tragedia e dramma satiresco. 38 G. Genette, Figures II, Paris 1969, p. 103: «En effet, l’opposition entre deux termes ne prend de sens que par rapport à ce qui fonde leur rapprochement, et qui est leur élément commun: la phonologie nous a appris que la différence n’est pertinente, en linguistique comme ailleurs, que sur fond de ressemblance». 39 Welcker, Nachtr., pp. 331, 326 sg.: «Nicht die Gegenstände an und für sich selbst wirkten auf den Zuschauer, sondern er beschäftigte sich mit ihrer Wirkung auf den Sinn und den Zustand der Satyrn. Mit den Chören der Tragödien stimmen wir im Ganzen genommen immer überein; mit Satyrn kann oder sollte doch niemals Sympathie statt finden». «Der Kern der Erfindung und ihre Hauptschönheit liegt in dem Gegensatze oder der Contrastierung des alten ländlichen Satyrchors mit der neuen städtischen Tragödie oder den handelnden Personen, in der Vereinigung zweyer Arten zu einem neuen Ganzen, in der Verschmelzung des Geistes und Tons, der Form und Einrichtung entgegengesetzter Stände, Kunstarten und Kunstzeitalter. Die Handlung hatte im Allgemeinen die Farbe der Tragödie; aber die Personen im vornehm prachtvollem Anzuge erschienen unter freyem Himmel, in die Einsamkeit waldiger Landschaft versetzt, und von den bocksartigen Springern des ländlichcn Dionysos umgeben».
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Welcker, che aveva capito tante cose del mondo antico, anche qui aveva colto l’essenziale, e cioè la natura del d r a m m a s a t i r e s c o c o m e t r a gedia trasferita in un ambiente che da sempre era stat o f a m i l i a r e a l p o p o l o , q u e l l o c a m p e s t r e . Questo doveva riuscire evidente forse anche dalla decorazione scenica, se per l’epoca più antica dobbiamo prestar fede a quanto dice Vitruvio (5, 6, 9): satiricae [scil. scaenae] vero ornantur arboribus, speluncis, montibus reliquisque agrestibus rebus in topiodis speciem deformatis40. L’architettura di giardini ispirata all’ambiente satiresco, con scenografie campestri e ornamentazione ispirata a Dioniso e al suo corteggio, arriverà a Roma attraverso l’epoca ellenistica41; e un esempio illustre di questo gusto sono gli affreschi della villa di Boscoreale, importanti anche come documento della perdurante differenziazione fra tragedia, dramma satiresco e commedia, espressa dalla differenziazione di uso scenografico42. E qui, seguendo lo spunto di Welcker, sarebbe interessante considerare il legame del dramma satiresco colla tematica che sarà più tardi propria della poesia bucolica e che ne costituirà l’elemento centrale (penso alla ‘bucolica’ parodo del Ciclope e al personaggio stesso di Polifemo, pastore in Euripide e in Teocrito). Non che si possa credere a una nascita così prematura della poesia bucolica come genere letterario vero e proprio e come fatto di gusto. Essa nasce come tale solo in epoca ellenistica, con Teocrito, che ne è senza alcun dubbio l’ ‘inventore’43: era solo la tematica campestre ad essere già presente e a prestarsi a sottili giochi di scambio colla tematica cittadina (quella della tragedia). Anche Teocrito, fra l’al-
|| 40 Cfr. Vitruv. 7, 5, 2 (sulla ars topiaria). Ma, nella generale incertezza sulla scenografia greca, non si sa quanto Vitruvio possa essere utilizzato. Per il costume v. Pickard–Gambridge, Fest., pp. 180 sgg., 238. Su questioni di messa in scena in generale è utile Collinge. 41 P. Grimal, Les jardins romains, Paris 21969: Dioniso e i giardini, p. 317 sgg.; assimilazione di Priapo ai satiri, p. 318 sg.; iconografia dionisiaca dei giardini, p. 326; il paesaggio ‘vitruviano’ si sarebbe costituito in epoca ellenistica, forse in Beozia, dove il dramma satiresco è coltivato al tempo di Siila, o in Asia minore nel II sec. a.C., p. 321 sg. (v. oltre, n. 136). 42 Le riproduzioni, dai vari luoghi in cui sono sparsi oggi gli originali, in Ph. W. Lehmann, Roman Wall Paintings from Boscoreale in the Metropolitan Museum of Art, Cambridge Mass. 1953: un palazzo (tragico), una scena di strada (comica), un giardino con grotta e fontane (satiresco). V. Grimal, op. cit., p. 240 sg.; Bieber, pp. 124–6; bibliografia in Bieber, p. 292 n. 59 e A. de Franciscis «EAA» s. v. ‘Boscorealc’. L’epoca è il primo secolo a.C. Notevole che nella struttura a partizione delle pareti tragedia e dramma satiresco costituiscano un’unità organica (zona dell’alcova) nettamente separata dalla scena comica (il cubicolo). 43 Così argomentavo in «StItal» 43, 1971, p. 24 sg. e trovo ora la dimostrazione in G. Serrao, Problemi di poesia alessandrina. I. Studi su Teocrito, Roma 1971, p. 11 sgg., spec. 48.
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tro, si divertirà nel suo terzo idillio a tradurre in termini campestri un fatto cittadino come il ϰῶμος44. L’importanza dell’atmosfera satiresca è stata vista in luce ancor più chiara da un altro grande dei nostri studi, da Otto Jahn, che grande è stato non solo come filologo, ma anche come archeologo e come musicologo. In un brillante articolo in «Philologus» del 186845 Jahn aveva studiato rappresentazioni vascolari con temi satireschi — satiri che derubano Eracle, Perseo con la Gòrgone e satiri, satiri palestriti etc. — e aveva giustamente negato che si possa con certezza ricostruire una determinata scena di un determinato dramma dalla scena raffigurata su un vaso, affermando che si può solo accertare una influenza dell’atmosfera drammatica satiresca sugli artisti e viceversa: «Ha dato scandalo e provocato vivaci opposizioni il fatto che rappresentazioni come quelle che abbiamo discusse vengano riferite al dramma satiresco per certe c o n c e z i o n i in esse presenti. Si è fatto valere qui l’equivoco che si possa intendere che determinate situazioni di determinati drammi satireschi siano rispecchiate nell’opera d’arte così come sono rappresentate sulla scena. Ora, una supposizione del genere non è mai lecita, neanche quando sia documentato che lo stesso soggetto è stato veramente trattato in un dramma satiresco: un caso del genere documenta, piuttosto, che la stessa c o n c e z i o n e presente nell’opera d’arte ha trovato espressione anche nella poesia ... È in questo senso che io resto legato all’idea che tutto quello che c’illumina sullo s p i r i t o e sull’arte del dramma satiresco getta luce anche sulle opere d’arte nelle quali emerga una c o n c e z i o n e simile; e che ugualmente la retta intelligenza di tali opere d’arte ci avvicina a sua
|| 44 U. Ott, Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Hildesheim 1969, p. 174 sgg. 45 Jahn, p. 25 sg.: «Es hat anstoss erregt und lebhaften widerspruch gefunden, wenn darstellungen wie die oben besprochenen wegen der in ihnen zu Tage tretenden a n s c h a u u n g auf das satyrdrama bezogen werden. Dabei macht sich das missverständniss geltend, als könne damit nur gemeint sein, dass bestimmte situationen bestimmter satyrdramen so, wie sie auf der bühne dargestellt waren, im kunstwerk wiedergegeben seien, was nie anzunehmen ist. Auch dann nicht, wenn nachgewiesen wird, dass derselbe gegenstand wirklich im satyrdrama behandelt worden ist; was vielmehr nur zu einem beleg dient, dass die im kunstwerk ausgesprochne a u f f a s s u n g auch in der poesie einen ausdruck gefunden habe. ...In diesem sinne muss ich daran festhalten, dass alles, was uns über den g e i s t und die kunst des satyrdrama aufklärt, auch auf die kunstwerke licht wirft, in denen eine verwandte a u f f a s s u n g hervortritt, so wie das richtige verständniss solcher kunstwerke wiederum das satyrdrama uns näher bringt, ohne dass an eine congruenz der einzelnen erscheinungen zu denken ist». Nel testo ho tradotto sia anschauung sia auffassung con ‘concezione’. – Per letteratura più recente sulle testimonianze figurative v. Kuhnert, coll. 444–531; Séchan, pp. 38–46; Schmid–Stählin, p. 79 n. 1; Brommer, 1937 e 1959; Campo, pp. 104–217; Buschor; Bieber; Webster. V. anche l’agile selezione di A. D. Trendall – T. B. L. Webster, Illustrations of Greek Drama, London 1971, pp. 15–27 (monumenti predrammatici), 28–39 (dramma satiresco vero e proprio).
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volta al dramma satiresco, senza che si possa pensare a un’esatta corrispondenza dei singoli fenomeni».
Si può dire che Jahn, seguendo spunti preziosi presi da tutta la produzione scientifica di Welcker, ha tra l’altro inaugurato la ricerca archeologica in grande stile, specie nel campo della pittura vascolare, sul dramma satiresco. Ma non, come si è visto dalle sue parole, nel senso di un tentativo di ricostruire tematica e intrecci dei drammi perduti. Questo tipo di ricerca è durato a lungo, anche dopo Jahn, ma ha portato a risultati caduchi, perché non si è posto mente al fatto che il decoratore di un vaso è, di fronte al materiale, ben più libero di un drammaturgo, trovandosi a lavorare per commissione di singoli o di ambienti più ristretti, che vogliono far ‘parlare’ il mito in un senso ad essi congeniale, sia pur peregrino: ricordiamo le critiche che a suo tempo Nicola Terzaghi ebbe ragione di rivolgere a Otto Ribbeck46. Ma, al di là dell’avvertimento metodologico utile sia al filologo sia all’archeologo, le parole di Jahn sono preziose per l’accertamento di un’atmosfera satiresca, quello che chiama una particolare “concezione”, e cioè per l’isolamento di un grosso settore del mondo fantastico e sentimentale dei greci, quello dei campi e degli esseri semidivini in essi ambientati. Vedremo fra poco quale importante ruolo sociale sia da attribuire a tutto questo. François Lasserre47 ha recentemente parlato di una specie di ethos del gesto (richiamandosi allusivamente all’ethos musicale), per il quale nella
|| 46 N. Terzaghi, Prometeo, Torino 1966, p. 7 sg., cfr. S. Timpanaro, «Belfagor» 20, 1965, p. 581; v. per es. il problema discusso sopra, a n. 15. Per i rapporti fra filologia e archeologia, visti alla luce della storia degli studi (necessità di osmosi, ma anche di prudenza), v. M. Gigante, Rintone..., cit., pp. 9 sgg., 15 sgg. 47 F. Lasserre, Mimésis et mimique, Atti II Congr. Internaz, di Studi sul dramma antico, Roma– Siracusa s.d. [ma 1970], pp. 245–66. [Lasserre è tornato sull’argomento, sviluppandolo, in un articolo, Le drame satyrique, di prossima pubblicazione in «RivFC». Gli sono grato di aver voluto seguire un mio esplicito invito (Rossi, Cicl., p. 34) e di avermi fatto leggere il suo lavoro in dattiloscritto. Lasserre raccoglie sull’anti–ethos una ricca messe di testimonianze interne ed esterne al dramma satiresco: esso presenterebbe, rovesciati, tutti gl’ideali etici dell’Atene del quinto secolo. Vorrei solo obiettare che forse l’accento da lui posto sull’anti–ethos è troppo esclusivo (la funzione per lui risulta, così, fortemente etico–paideutica: L., in altre parole, ‘prende sul serio’ l’anti–ethos, diversamente da come avevo fatto io in Cicl., pp. 23–34, considerandolo semplicemente come uno dei ‘condimenti’ dello ‘spettacolo’). Penso piuttosto che tale aspetto, ormai messo cosi chiaramente in luce proprio per merito di L., sia ulteriore conferma della funzione ‘di sollievo’, di cui si parlerà qui di seguito, in qualità di rovesciamento dell’ethos della tragedia. Per il dramma satiresco, più ancora che per la tragedia, penso che le categorie ‘spettacolo’ e ‘divertimento’ vadano riportate in primo piano. Del resto la funzione paideutica positiva ha già un suo luogo, che è la tragedia: volerne vedere nel dramma satiresco una negativa, che sarebbe un doppione, mi pare inopportuno).
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tragedia i personaggi si muovono sempre con dignità e decoro. Quanto al gesto, il dramma satiresco verrebbe invece a rappresentare (ma solo nei suoi personaggi non tragici, beninteso) una specie di a n t i – e t h o s , per cui sia nell’arte figurativa sia in accenni dei nostri testi i satiri sono colti in atteggiamenti buffoneschi in sé disdicevoli alla dignità tragica e ambientabili in un clima più rilassato e ‘domestico’: penso per esempio ai satiri degli Ichneutai chinati a terra per la ricerca delle tracce del bestiame48, dando naturalmente per ovvia e scontata la rilevanza del costume fallico. Parlare di genere letterario a parte è quindi, per il dramma satiresco, fortemente improprio. Esso è in realtà un s o t t o g e n e r e a p p a r t e n e n t e a l g e n e r e t r a g i c o , ed è solo per comodità espositiva che ne abbiamo parlato e continueremo a parlarne come di un genere vero e proprio. Per la sua appartenenza alla tragedia abbiamo visto finora argomenti interni: ma abbiamo anche a r g o m e n t i e s t e r n i , ricavati dalla storia del teatro e della prassi teatrale. Nel quinto secolo l’autore del dramma satiresco è di regola lo stesso che compone anche le tragedie: e il fatto non è privo di significato in una civiltà letteraria che, a differenza di quanto avverrà in epoca alessandrina, ama la specializzazione per generi e rifugge dalle ‘unioni personali’49. Per di più per i filologi alessandrini il dramma satiresco non è categoria a parte rispetto alla tragedia nella organizzazione dei materiali curata per i cosiddetti ‘canoni’, ovvero liste di autori classici divisi per generi50. Ma di gran lunga la prova esterna più importante, della quale la precedente è semplicemente una conseguenza, è quella data dall’organizzazione degli agoni drammatici, nei quali il dramma satiresco appare, per un periodo abbastanza lungo, contestualmente legato alla tragedia: perfino per gli attori abbiamo testimonianza di un alto grado di specializzazione che, se da una parte tiene nettamente separate tragedia e commedia, non com-
|| 48 Soph. ichn. 118–24: Sileno, scandalizzato, li paragona a ricci e a scimmie. Cfr. Rossi, Cicl., p. 33 sg. 49 Ione di Chio era un’eccezione, e proprio a lui si richiama Callimaco nel Giambo 13. Plat. symp. 223d è in contraddizione colla prassi. V. Rossi, Gen. lett., p. 83. Per Timocle, tragediografo del IV sec. per il quale c’è il dubbio che abbia scritto una commedia (gli Icarii: più verosimilmente un dramma satiresco), v. TrGF 86 Fragm. dub. 2. Un fatto singolare (ma tardo!) è che un certo L. Mario Antioco Corinzio, attore vincitore alle Musee di Tespie circa il 160 d.C. (n. 34a della Parenti, v. n. 51), appaia in funzione di autore di nuove commedie e di drammi satireschi (TrGF 192). 50 O. Kroehnert, Canonesne poetarum scriptorum artificum per antiquitatem fuerunt?, Diss. Königsberg 1897. Sui canoni Pfeiffer, 1968, p. 207.
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porta alcuna distinzione fra attori di tragedia e attori di dramma satiresco51. È necessario precisare che, quando parlo di agoni e spettacoli teatrali, intendo sempre quelli delle D i o n i s i e c i t t a d i n e , o grandi Dionisie, l’avvenimento teatrale di maggior rilievo. Pur essendoci analogie colle altre grandi feste ateniesi, le Lenee (che per il dramma si organizzano piuttosto tardi, verso il 440 a.C.) e le Dionisie rurali (per le quali le testimonianze risalgono al più al quarto secolo), c’è da ricordare che nelle Lenee il dramma satiresco sembra mancare e che le Dionisie rurali, festa dei demi rurali, dovevano essere destinate alle ‘seconde visioni’: per inquadrare nel modo giusto quanto seguirà, si dovrà tener presente che le Dionisie rurali accolgono materiale di quelle cittadine, non avendo quindi una produzione propria ad esse destinata, ma restando ‘al ricasco’ di una produzione destinata alle feste maggiori, le Dionisie cittadine, funzionalizzate all’ambiente urbano. Ora, per l’epoca classica del teatro, e cioè per la maggior parte del quinto secolo, siamo abituati ad immaginarci il materiale presentato agli agoni tragici nella forma della t e t r a l o g i a 52, e cioè tre tragedie seguite da un dramma satiresco, il tutto in una unica ‘giornata drammatica’. Le tragedie potevano essere collegate fra loro da comunanza di tema, formando così una trilogia tragica come l’unica che ci è stata conservata per intero, l’Orestea di Eschilo (458); oppure i tre drammi potevano essere di argomento di-
|| 51 Cfr. Plat. resp. 395a. V. J. 13. O’Connor, Chapters in the History of Actors and Acting in Ancient Greece together with a Prosopographia Histrionum Graecorum, Diss. Princeton, Chicago 1908 (la Prosop., da testimonianze letterarie ed epigrafiche fino al III sec. d.C., a pp. 68–144: 563 voci), aggiornato da I. Parenti, Per una nuova edizione della «Prosopographia Histrionum Graecorum», «Dioniso» 35, 1961, pp. 5–29 (120 voci in più). V. soprattutto O’Connor, Diss. cit., pp. 39–44: attori tragici e comici solo i nn. 261, 415 (II sec. a.C.), 562 (epoca imperiale), a cui si aggiungano i nn. 127, 129 della Parenti (princ. I sec. a.C.). L’alternativa è quindi solo fra attori tragici e comici. Per attori che sembra abbiano rappresentato solo drammi satireschi in determinate occasioni v. i nn. 92, 163 (I sec. a.C.), 180 di O’Connor e i nn. 538a, 561b, 561c della Parenti (III sec. a.C.: Pickard–Cambridge, Fest., p. 124): prassi, comunque, tarda. Per l’introduzione degli agoni drammatici alle Lenee v. Pickard–Cambridge, Fest., p. 40; per l’assenza di dramma satiresco ibid., pp. 41, 125; per le Dionisie rurali ibid., pp. 42–56 (p. 51 sg.: ‘copia’ delle rappresentazioni cittadine, dalle tarde testimonianze delle quali – p. 52 – non compare il dramma satiresco). 52 Le didascalie, ricavabili da fonti epigrafiche e letterarie, sono oggi comodamente raccolte in TrGF, pp. 3–52. Sul problema della tetralogia v. Wiesmann; Blumenthal (a coll. 1079, 1080–2 le tetralogie documentate o ricostruibili). Sulla didascalia riguardante Aristia v. Wiesmann, pp. 7, 28, 50 (TrGF 9 T 1: due tragedie e un dramma satiresco). Sulla terminologia (alessandrina: tetralogia, trilogia) v. Wiesmann, spec. p. 27 sgg. Sulla assai discussa testimonianza della Suda su Sofocle (s. v.), che avrebbe cominciato il δρᾶμα πρὸς δρᾶμα ἀγωνίζεσϑαι, v. l’ipotesi recente di Webster ap. Lesky, p. 260 (i drammi dei concorrenti sarebbero stati rappresentati singolarmente nella stessa giornata, uno per ogni concorrente).
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verso, com’era il caso della trilogia di cui facevano parte i Persiani (472). Il dramma satiresco era invece spesso di argomento diverso da quello della trilogia tragica o almeno non inquadrato in continuità narrativa53. Ma la documentazione che abbiamo sull’uso della tetralogia è scarsa, faticosamente ricavata com’è da didascalie conservateci sia in hypotheseis sia in iscrizioni. Quello che si può dire, comunque, è che essa non è documentata per il principio del quinto secolo e che anche in seguito non sembra essere stata generale. A parte, infatti, il numero dei drammi di Pratina di Fliunte (di cinquanta drammi, ben trentadue erano satireschi), dalla hypothesis dei Sette contro Tebe apprendiamo che Aristia, figlio di Pratina, concorse nel 467 presentando tre drammi del padre, e tre soltanto (Perseo, Tantalo e i satireschi Palaistai)54. Si può concludere, sia pure provvisoriamente, che la prassi tetralogica si sia affermata a poco a poco, forse ad opera di una personalità come Eschilo55, e che nel periodo immediatamente precedente il costume prevalente dovesse essere quello di presentare i drammi isolati. Come si situa il dramma satiresco nelle rappresentazioni drammatiche in cui compaia con tragedie? C’è da credere che, nell’epoca d’oro della tetralogia, esso fosse sempre alla fine, dopo le tre tragedie. In un primo tempo, invece, al momento in cui, secondo alcune testimonianze, esso sarebbe stato introdotto ad Atene ad opera di Pratina (v. oltre, § 4), esso doveva venir presentato isolato, allo stesso modo della tragedia prima dell’affermazione dell’uso della tetralogia. Ma da una testimonianza, che non c’è ragione di sospettare56, sappiamo
|| 53 Wiesmann, p. 62: anche se appartengono allo stesso contesto mitico della trilogia (Amymone, Licurgo, Sfinge, Proteo di Eschilo), il legame narrativo è più o meno debole. 54 Su Pratina Wiesmann, p. 58.; su Aristia p. 57 sg. I casi in cui è documentato che i drammi erano meno di quattro ibid., p. 56 sgg. I ‘conti’ fatti sulla base dei numeri dei drammi (procedimento applicato specialmente ad Eschilo) sono giustamente rifiutati ibid., p. 43 sgg. 55 Wiesmann, p. 55 sg.; Blumenthal, col. 1078 sg.; Howald, p. 41: «Fra la fine del sesto secolo e l’inizio del quinto ci dovettero essere, gli uni accanto agli altri, drammi satireschi, tragedie in trilogia, altri tipi di presentazione di tragedie con e senza dramma satiresco, fino a che, attraverso una personalità di drammaturgo, s’impose un tipo fisso (la tetralogia). Questa personalità sarà stata Eschilo». V. anche Thomson, p. 243 (cap. 14); Lesky, p. 153. 56 Zenob. 5, 40, p. 137, 16–8 Leutsch–Schneidewin διὰ γοῦν τοῦτο [scil. οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον] τοὺς Σατύρους ὕστερον ἔδοξεν αὐτοῖς π ρ ο ε ι σ ά γ ε ι ν , ἵνα μὴ δοϰῶσιν ἐπιλανϑάνεσϑαι τοῦ ϑεοῦ (cfr. Chamael. fr. 38 W.). Sulla correzione προσεισάγειν (Hermann) v. Pohlenz, 1927, p. 302 (= 477) e n. 1, che giustamente non l’accetta. La testimonianza, così com’è data dal testo tradito, s’inquadra bene nello sviluppo che si propone qui oltre, ma non è indispensabile alla ricostruzione di esso: se mancasse testimonianza della fase ‘dramma satiresco prima delle tragedie’, resterebbe sempre la sequenza cronologica ‘dramma satiresco isolato’, ‘dramma
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che, quando fu legato alle tragedie, fu messo prima di esse, e con una dichiarata motivazione cultuale: siccome la tematica tragica si andava totalmente allontanando da Dioniso (οὐδὲν πρòς τòν Διόνυσον)57, che era la divinità che presiedeva alle rappresentazioni teatrali, si pensò di introdurre il dramma satiresco, ricco di elementi dionisiaci, e di metterlo al principio, «perché non si desse l’impressione di dimenticarsi del dio». La tragedia aveva “dimenticato” la tematica dionisiaca e bisognava trovare il mezzo di fare onore al dio. Solo più tardi si pensò di presentarlo dopo le tragedie, ed è questo il momento che noi siamo in grado di verificare: trilogia tragica più dramma satiresco. Riassumiamo i dati della nostra serie cronologica: dramma satiresco isolato, dramma satiresco prima delle tragedie, dramma satiresco dopo le tragedie nell’ambito della tetralogia. Ora, la prima epoca di fortuna portò ad un particolare apprezzamento la critica letteraria posteriore, che sicuramente rispecchiava un successo già contemporaneo: delle lodi della critica abbiamo documentazione specialmente per i drammi di Eschilo, a cui veniva data la palma come satirografo, ma anche per Cherilo, Pratina, Aristia, Acheo58. C’è da credere che le qualità che più facevano apprezzare i primi drammi satireschi fossero quelle stesse che distinguono i drammi a noi sia pur frammentariamente noti, e cioè, oltre alla sapiente tensione drammatica, soprattutto il tono alle volte pesantemente licenzioso. Ha certamente ragione Wolf Aly a dire che «il dramma satiresco di Pratina e di Eschilo dev’essere stato formidabile (toll)»59. A questo punto, sulla base della documentazione che possediamo, possiamo chiederci: a c h i e p e r c h é piacevano tanto questi drammi satireschi? In altre parole, a quale f u n z i o n e poteva corrispondere la f o r t u n a che le fonti ci attestano? È bene ricordare qui di nuovo che, quando parleremo semplicemente di ‘funzione’, intenderemo la f u n z i o n e p r e v a l e n t e ovvero d o m i n a n t e (v. sopra, § 1), senza escludere le numerose altre che possono darsi in concomitanza. Ora, la docu-
|| satiresco dopo la trilogia tragica’ (v. qui oltre), che sarebbe sufficiente a fondare il quadro storico che si propone. 57 Su questo famoso detto, variamente attestato, v. da ultimo Lesky, p. 42 sg. 58 Plot. Sac. VI 508, 1 Keil = TrGF 2 T 6, su Cherilo «re del dramma satiresco» (Cherilo nel Lino di Alessi, fr. 135, 6 K., era dato come il prototipo del genere); Paus. 2, 13, 5 = TrGF 4 T 7 (Eschilo, Pratina e Aristia); Diog. L. 2, 133 = TrGF 20 T 6 (Eschilo e Acheo). Oltre, naturalmente, agli epigrammi di Dioscoride (cfr. nn. 34, 111, 128), nei quali gli apprezzamenti sono più sfumati, e per ciò di tanto più preziosi. Quello su Eschilo (A. P. 7, 411 = Dioscor. 21 G.–P.) si riferisce senza alcun dubbio ai drammi satireschi: 1–3 τὰ δ’ ἀγροιῶτιν ἀν’ ὕλαν // (Aly, col. 246) π α ί γ ν ι α ϰ α ὶ ϰ ώ μ ο υ ς τ ο ύ σ δ ε τελειοτέρους // Αἰσχύλος ἐξύψωσεν. 59 Aly, col. 247.
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mentazione che abbiamo è di triplice natura: a) alcune caratteristiche morfologiche, che c’illustrano la f o r m a (spettacolo teatrale, sostanzialmente identico per sua natura alla tragedia, realizzato in atmosfera satirico–campestre e ricco di elementi di tipo ‘allegro’ e popolaresco; v. sopra, § 2); b) un certo sviluppo nella prassi delle rappresentazioni drammatiche, che porta il dramma satiresco, attraverso fasi successive, ad essere inquadrato nella tetralogia e localizzato dopo le tragedie (v. qui sopra); c) testimonianze che ci attestano il vivo successo del genere (f o r t u n a ), almeno per il periodo iniziale (v. qui sopra). Viene del tutto naturale formulare un’ipotesi, che troviamo del resto già formulata nell’antichità e che alcuni moderni hanno recentemente ripresa60. Sotto la voce “dramma satiresco” del Lessico di Fozio leggiamo: «usavano mescolare alle tragedie dei drammi satireschi a scopo di d i s t e n s i o n e (πρὸς διάχυσιν)»61. Orazio, sempre nella sezione satiresca dell’Arte poetica, ci dice (223 sg.) che illecebris erat et grata novitate morandus spectator functusque sacris et potus et exlex.
Il grammatico Diomede, prendendo spunto proprio dalla sezione satiresca di Orazio, scriveva (I, p. 4 91 , 4 sgg. Keil): Satyrica est apud Graecos fabula, in qua item tragici poetae non heroas aut reges sed Satyros induxerunt ludendi causa iocandique62, simul ut spectator inter res tragicas s e r i a s q u e Satyrorum i o c i s e t l u s i b u s d e l e c t a r e t u r , ut Horatius sensit his versibus [Hor. a.p. 220–4].
Casaubonus scriveva nel 1605 parole colle quali tale ipotesi veniva data come cosa ovvia, nel quadro di uno sviluppo storico che risulterà ancora più chiaro con quanto diremo in seguito63: Postea enim quam perfecta fuit tandem tragoedia convenientem illam sibi maiestatem consecuta, cuius gratia dicitur philosopho ἀποσεμνωϑῆναι, S a t y r i s e x c l u s i s , et lascivia
|| 60 V. per es. Schmid–Stählin, p. 81 sg.; Blumenthal, col. 1083 sg. (eine Art Caesur). Ma anche solo i cenni al problema sono scarsissimi presso i moderni. 61 Phot. s. v. σατυριϰὰ δράματα· πλείονα [scil. δράματα] ἦν ἔϑος ὑποϰρίνεσϑαι, ἐν οἷς μεταξὺ ταῦτα [scil. σατυριϰὰ δράματα] ἐμίγνυον πρὸς διάχυσιν. 62 Queste parole vanno intese non nel senso che «i poeti satireschi introducono satiri e non eroi» (il che sarebbe falso!), bensì nel senso che «la funzione lusivo–giocosa è affidata ai satiri, e non agli eroi», che restano seri (v. sopra, § 2). 63 Casaubonus, p. 117 (1. I, cap. 3), cfr. p. 242 sg. (I. II, cap. 1, fin.).
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priore mutata: c o e p e r e t r a g i c a e a s p e r i t a t i s e t m o e s t i s u p e r c i l i i d i v e r t i c u l a q u a e r i a s p e c t a t o r i b u s : quorum desiderio ut satisfacerent tragoediarum poetae, r e v o c a t i s S a t y r i s quos tragoedia excluserat, vetustissimum inventum Satyrici chori in scena lascivientis, n o v a f a c i e induxerunt et a d s i m i l i t u d i n e m t r a g i c a e f a b u l a e , Satyricam concinnare instituerunt.
Casaubonus vedeva dunque un vetustissimum inventum (il σατυριϰόν aristotelico, a.p. 49 a, 20, su cui v. oltre, § 4), poi una tragedia ἀποσεμνυνϑεῖσα (Aristot., ibid.) che esclude i satiri, e infine il reingresso dei satiri sulla scena tragica per richiesta del pubblico, bisognoso di diverticula, in uno spettacolo di forma assimilata alla tragedia. Ora, la ragione per cui il dramma satiresco non ha continuato una sua vita autonoma nelle rappresentazioni, né ha poi conservato in queste la precedenza rispetto alle tragedie, ma è stato alla fine rappresentato dopo di esse, mi pare sia da cercarsi proprio nel fatto che ci si rese presto conto che esso era particolarmente adatto non ad aprire, bensì a c o n c l u d e r e gli spettacoli tragici. È solo con questa spiegazione che la sequenza cronologica data sopra acquista un senso: in concomitanza con uno sviluppo, che probabilmente ha avvicinato grado a grado il dramma satiresco alla tragedia fino a renderlo morfologicamente identico a quest’ultima (v. sopra, § 2), si è pensato a un certo punto di presentarlo dopo le tragedie, come conclusione della faticosa giornata teatrale degli ateniesi, conclusione opportuna soprattutto sul piano psicologico–emozionale. Insomma, la f u n z i o n e del dramma satiresco rispetto alla tragedia nel contesto tetralogico dovette essere i l s o l l i e v o , l a d i s t e n s i o n e degli spettatori: il ‘riso’, mantenuto sempre al livello del ‘coturno’, doveva in un certo senso indennizzare gli spettatori per le lacrime versate sul coturno tragico. Penso che una tale funzione fosse altamente necessaria, che rispondesse a esigenze fortemente sentite. Il pubblico conosceva la materia mitica che veniva presentata dai tragediografi ed aveva familiarità, attraverso la conversazione e i contatti quotidiani dell’ ἀγοράζειν, coll’alta problematica religiosa e civile che i personaggi impersonavano e discutevano64: ma certamente il vedere tutto questo sulla scena, specie le prime volte che i miti venivano ‘tradotti’ dall’epos, doveva costituire fonte di nuovo e più forte turbamento. Sembra qui anticipato nella prassi il concetto della c a t a r s i aristotelica, che certamente in una tale realtà psicologica ha trovato il suo fondamento: per la psicologia stessa degli
|| 64 La tematica della tragedia è passata in panoramica rassegna da Schmid–Stählin, pp. 86– 115.
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antichi, tale teoria è per noi una fonte di primo piano65. Col dramma satiresco veniva ad aversi una specie di catarsi realizzata, per cui lo spettatore, dopo aver estirpato tanti orrori dal suo animo, avendoli visti rappresentati sulla scena, poteva finalmente divertirsi davvero ridimensionando quegli orrori proprio con gli stessi personaggi, coi personaggi tragici66. Visto nella dimensione sociologica, un fatto del genere non è altro che il rendere e s p l i c i t i , e cioè a loro volta socialmente fruibili su piano autonomo, dei valori acquisiti, sì, ma impliciti. Prendendo proprio la teoria aristotelica dell’ ἔλεος (‘pietà’) e soprattutto del φόβος (‘terrore’) come punto di partenza per una riflessione panoramica a ritroso sulla tragedia arcaica, alcuni decenni fa Bruno Snell67 ha esaminato l’importanza che il φόβος ha nelle tragedie soprattutto di Frinico e di Eschilo. L’espressione del terrore, della paura sarebbe affidata prevalentemente al coro, che nella tragedia arcaica ha già di per sé parte prevalente, e questa sarebbe anche la ragione per cui spesso nei due tragediografi il coro è costituito da donne, addirittura da fanciulle spaventate. Le stesse preghiere, così frequenti in bocca ai cori eschilei, sarebbero espressione di paura. Ora, anche recentemente
|| 65 Per la sensibilità del pubblico alla Affekterregung, e il suo rispecchiarsi (nella sua evoluzione) in Aristotele, v. Schmid–Stählin, pp. 156–62, dov’è raccolto molto materiale. Di uno studio in questo senso, condotto con criteri moderni, si sente il bisogno. V. oltre, § 5, in. Interessante quanto afferma Ch. Mauron, Psychocritique du genre comique. Aristophane Plaute Terence Molière, Paris 1964, p. 108 sg.: «Deux grands faits dominent le tableau. D’une part, la polis athénienne du Ve siècle forme une unité psychique encore très dense. Il est plus exacte de la traiter comme une personnalité globale que d’y trop distinguer l’individu et son milieu. Le théâtre represénte une des fonctions de cette personnalité — ... une prise de conscience profonde, solennelle, religieuse... Cependant — et c’est là mon second fait — cet état de la polis n’est pas stable. Il évolue même très rapidement. Sous la pression des événements, c’est–à– dire de la guerre du Péloponnèse, la structure de la polis se désintègre». 66 Rossi, Cicl., p. 32 sg. (scrivevo più o meno queste stesse parole). Quello che Mauron, Psychocritique cit. dice della commedia sembra più propriamente applicabile, per il contesto delle rappresentazioni drammatiche, al dramma satiresco. Accettata l’impostazione per cui la commedia rappresenta «un’architettura psicologica dal sogno angoscioso al riso» (pp. 24 sgg., 34; cfr. «Le renversement de l’angoisse en triomphe», p. 50; e ancora l’oscillazione fra «exaltation héroïque» e «régression satirique», p. 111), architettura che è però interna allo spettacolo comico, Mauron (p. 36 sg.) trova naturale che nelle Dionisie, dopo le tragedie, venga posta la commedia (?!). Correggiamo, leggendo invece «dramma satiresco»; e precisiamo che l’opposizione angoscia–riso, interna ad ogni spettacolo comico in quanto manifestazione di un universale psicologico (si veda tutto il suo libro), si presenta anche nel rapporto esterno di due spettacoli distinti, tragedia e dramma satiresco. 67 B. Snell, Aischylos und das Handeln im Drama, «Philologus», Supplementbd.. 20, H. 1, Leipzig 1928, pp. 34–51.
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ci sono state ricerche in questo senso, volte a studiare tra l’altro anche il preciso ‘lessico della paura’ eschileo68. Ma quello che bisognerebbe chiedersi è altro: in quale misura il φόβος espresso dai cori tragici è specchio del φ ό β ο ς d e l l o s p e t t a t o r e ? È chiaro che una ricerca del genere dovrebbe presupporre una conoscenza più approfondita della sensibilità e capacità di reazione dei pubblici: e questa miglior conoscenza andrebbe acquisita anche con una lettura in chiave nuova dei testi teatrali, oltre che interrogando altre testimonianze. Ma direi che una risposta possiamo avanzarla fin da adesso: proprio l’insistenza con cui il coro eschileo dà esplicita espressione alla paura è volta ad e s o r c i z z a r e la paura stessa nel pubblico, o ad esorcizzarla almeno in parte. Vedremo poi (oltre, § 5) come sarà da interpretare il diverso comportamento dei cori di Sofocle e di Euripide, presso i quali l’orrore è prevalentemente affidato all’azione. L’esorcismo della paura colla formulazione esplicita della paura stessa è un processo psicologico ben noto alla scienza moderna: ed è qui che io vedrei in fieri la catarsi aristotelica, vedendo invece nel dramma satiresco — come dicevo — una catarsi già in atto, una funzione più precisamente ‘apolaustica’, costituita dal godimento di quanto si è guadagnato attraverso la ‘purificazione’ tragica. È ora tra l’altro di smettere di chiedersi a quale profonda esigenza dell’individuo Eschilo sia da riportarsi in modo esclusivo la predilezione, per esempio, per l’espressione della paura: Eschilo avrà avuto le sue predilezioni e le sue idiosincrasie, ma avrà avuto anche profonda conoscenza della cultura e della sensibilità del suo pubblico, del quale tante volte avrà fatto parte egli stesso, e avrà cercato di adeguarsi ad esse, secondandole o cercando di dirigerle. La sensibilità agli orrori della tragedia doveva essere dunque grandissima. Non mancano, tra l’altro, alcune testimonianze esplicite, come quella famosa della Vita Aeschyli (9; cfr. Poll. 4. 11 0 ) che ci dà notizia dell’emozione suscitata dalle Eumenidi eschilee69. Non è qui il luogo di chiederci a quale funzione dominante rispondesse la tragedia della polis: sul piano della valutazione funzionale del dramma satiresco come ‘riso’ opposto a ‘lacrime’, la caratterizzazione delle due forme letterarie è sufficiente per creare la necessaria opposizione distintiva. || 68 J. de Romilly, La crainte et l’angoisse dans le theatre d’Eschyle, Paris 1958. Sul lessico p. 13 sg. La de R. si limita (v. p. 19) allo studio della descrizione eschilea della crainte e del suo significato per Eschilo. A p. 17 una proposta che anticipa (ma senza realizzarlo) quanto riformulo qui oltre nel testo: «on pourrait étudier dans son oeuvre toute la gradation des causes d’effroi, qui rendent la crainte possible chez le personnage comme c h e z l e s p e c t a t e u r ». 69 Sulla emotività dei pubblici v. Pickard–Cambridge, Fest., p. 274 sg. (e v. ancora Isocr., Paneg. 168 etc.); sui possibili disordini in teatro e sugli ufficiali preposti all’ordine ibid., p. 272 sg.
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Se si prende alla lettera l’affermazione di Aristotele (a.p. 49 a, 19 sgg., su cui v. oltre, § 4) che la tragedia «solo tardi diventò seria e nobile» (ὀψὲ ἀπεσεμνύνϑη) da “allegra” che era prima (ἐϰ μιϰρῶν μύϑων ϰαὶ λέξεως γελοίας), e se si considera che l’elemento dionisiaco, in origine presente, assicurava l’esistenza anche di tematica seria, ci si rende conto che il dramma satiresco veniva a riempire un vuoto che, nello stesso contesto delle rappresentazioni dionisiache era stato creato dal «divenire seria» della tragedia70. La tendenza alla regolamentazione ufficiale di ogni fatto che incida sulla psicologia e sulla sensibilità dei pubblici è una costante che riaffiora continuamente nella storia delle varie poleis greche. Basta richiamare l’importanza politica, si potrebbe veramente dire di ordine pubblico, che sempre ebbe la musica, i cui mutamenti erano sempre legati a mutamenti politici, secondo il famoso detto di Damone71: tanto fortemente era sentito il suo potere psicagogico. Ed è inutile rievocare qui la politica reazionaria, addirittura poliziesca di un Platone per la musica e la letteratura. Non mi meraviglierei di trovare un decreto col quale l’introduzione del dramma satiresco nella tetralogia venisse giustificata proprio con una simile esigenza di ordine pubblico: gli spettatori si emozionano talmente, si lasciano così fortemente coinvolgere dalla ‘spirale’ drammatica della tragedia, che bisogna fornir loro una valvola di sfogo contestualmente alla tragedia stessa. Pur senza che ci sia una documentazione esplicita, tutto fa credere tuttavia che l’introduzione del dramma satiresco sia stata un fatto di primo piano nella p o l i t i c a cittadina. Un’attenta considerazione della situazione storica fra la fine del sesto e il principio del quinto secolo, che ci presenta singolari coincidenze delle quali proporremo qui un’interpretazione, ci dà numerosi e significativi indizi72. Il 508/7 è l’anno delle riforme di C l i s t e n e 73. Come si sa, la Boulé dei Cinquecento, da lui creata, si fondava su una || 70 V. Thomson, p. 237 sg. 71 Plat. resp. 424 c οὐδαμοῦ γὰρ ϰινοῦνται μουσιϰῆς τρόποι ἄνευ πολιτιϰῶν νόμων τῶν μεγίστων. Per la teoria dell’ethos musicale v. soprattutto H. Abert, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899 e W. D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music, Cambridge / Mass. 1966 (su cui Rossi, «Atene e Roma» 14, 1969, pp. 42–6). Abert offre un’efficace introduzione all’argomento in Die Stellung der Musik, in der antiken Kultur, in Ges.Schr.u.Vortr., Halle 1929, pp. 1–21 (1926), anche se si resta scettici di fronte a certe affermazioni (p. 5: i moderni meridionali e orientali sarebbero, come i Greci antichi, più ricettivi e sensibili für den sinnlichen Reiz der Musik). 72 Per i problemi storici qui discussi devo indicazioni e suggerimenti, da me liberamente utilizzati, a Emilio Gabba, Domenico Musti e Mario Torelli. 73 Su Clistene e le sue riforme v. E. Kirsten in A. Philippson, Die griechischen Landschaften, I, 3 (Attika und Megaris), Frankfurt/Main 1952, pp. 990–1010; C. Hignett, A History of the Athenian Constitution, Oxford 1952, pp. 124–58, 331–6; P. Lévêque – P. Vidal–Naquet, Clisthène l’Athé-
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profonda rivoluzione costituzionale: i demi dell’Attica erano stati da lui raggruppati in trenta τριττύες divise in tre gruppi di dieci appartenenti a tre grandi divisioni del territorio dell’Attica (ἄστυ, παραλία e μεσόγειος); tre τριττύες insieme, che appartenevano a ciascuno dei tre gruppi e che quasi mai venivano ad essere in contiguità territoriale (si è pensato anche a sorteggio), venivano a formare una delle nuove dieci tribù (φυλαί). La riforma è concordemente interpretata, dagli antichi e dai moderni, come espressione di volontà democratica. Nell’anno 502/1 ebbe luogo probabilmente una riforma degli agoni drammatici, che dal nome di Clistene non si può scindere74. Ora, tutto questo dev’essere in qualche rapporto colla chiamata ad Atene di P r a t i n a 75, un peloponnesio di Fliunte, e cioè uno straniero: Pratina viene ritenuto da una parte della tradizione antica l’inventore del dramma satiresco (v. oltre, § 4) e avrebbe concorso contro Cherilo ed Eschilo nell’olimpiade 500/499–497/6 (TrGF 4 T 1, ap. Suid.). Si pensa ad una sua impostazione reazionaria, o almeno tradizionalistica, nella prassi teatrale: basta ricordare, del suo famoso discusso iporchema (TrGF 4 F 3), la laudatio temporis acti per la prassi musicale76. L’iporchema conterrebbe, secondo un’ipotesi suggestiva, un’allusione polemica contro il tragediografo Frinico77. Frinico a sua volta avrebbe rappresentato la sua Presa di Mileto nel 493/2 e, avendo commosso troppo gli ateniesi con un tema doloroso e di così bruciante attualità, sarebbe stato multato con mille dracme, come ci racconta Erodoto (6, 2 1, 2 ) . Pratina, quindi, come ‘contraltare’ a Frinico e alla tragedia attica in generale, come reazionario contrapposto alla democratica tragedia. Questo
|| nien, Paris 1964. Le fonti antiche più importanti sono Herodt. 5, 66, 69 sgg. e Aristot. Athen. Polit. 20–22, 1. 74 Tale riforma viene ipotizzata su un tentativo di ricostruzione dei cosiddetti ‘Fasti’ (I. G. II2, 2318): Pickard–Cambridge, Fest., p. 103 e Lesky, p. 57. È da notare che alcuni ne parlano senza darne i fondamenti storici (per es. Thomson, pp. 232, 235). Sulla necessità di un rapporto di Clistene cogli agoni drammatici Ziegler, col. 1943. 75 Su Pratina v. Ziegler, coll. 1936–9; Schmid–Stählin, pp. 178–81; F. Stoessl, «RE» 22, 2 (1954), coll. 1721–30; Pickard–Cambridge, DTC, pp. 65–8. In Snell (TrGF 4) sono raccolte le testimonianze. Devo più d’un suggerimento a Massimo Di Marco. 76 Sul famoso iporchema (che neanche si sa se facesse parte di un dramma satiresco o fosse una composizione lirica) v. la bibliografia presso Snell e in Lesky, p. 30 sg. (soprattutto Pohlenz, 1927 e Pickard–Cambridgc, DTC, pp. 17–20). 77 L’ipotesi che v. 10 φρυνεοῦ (‘rospo’) sia allusione a Frinico risale a Dalecampius (1583: conserva φρυναίου e traduce Phrynichi filium; prendo dall’Ateneo di Lione, 1612); v. anche Pohlenz, 1927, p. 318 sg. = 493 sg. H. Lloyd–Jones, Problems of Early Creek Tragedy. Pratinas, Phrynichus, The Gyges Fragment, in Estudios sobre la tragedia griega, «Cuadernos de la Fundación Pastor» 13, 1966, pp. 11–33, spec. 18 è per la ipotizzazione di due Pratina, il secondo dei quali (fine del V sec.) sarebbe autore dell’iporchema.
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suggestivo quadro sarebbe in armonia colla supposizione, giustamente avanzata78, che il processo contro Frinico avesse un valore decisamente politico, specie per la sua connessione con Temistocle: il processo sarebbe stato espressione di lotta politica interna condotta da forze filopersiane e antidemocratiche. Se aggiungiamo che è anche stato supposto che la chiamata ad Atene di Pratina sarebbe avvenuta, fra gli ultimissimi anni del sesto secolo e i primissimi del quinto, in occasione di un’ondata reazionaria e antidemocratica diretta contro Clistene e le sue riforme79, abbiamo una serie di coincidenze che ruotano tutte intorno a due personaggi, Clistene e Pratina, e che si sostengono a vicenda. Qualche particolare del quadro che abbiamo tracciato potrà cambiare in seguito a nuove scoperte o a nuove interpretazioni: ma la rilevanza politica di quello che finora è stato trattato quasi esclusivamente come un fatto letterario, e cioè l’introduzione del dramma satiresco, sembra accertata. Si potrà obiettare che il vuoto che si vuole riempito dal dramma satiresco veniva in realtà riempito proprio in quegli anni dalla commedia: gli agoni comici vengono organizzati nel 48680 e il ‘bisogno di comico’ sentito dal pubblico sarebbe stato soddisfatto in quel modo; i due generi concorrerebbero, sarebbero l’uno un doppione dell’altro, il che renderebbe difficile ogni discorso su una funzione autonoma dei singoli generi. Ma almeno due sono, come ormai sappiamo, i fattori che li distinguono. Il dramma satiresco maturo sfocia nella tetralogia, ponendosi colla tragedia in quel rapporto di contestualità permesso-
|| 78 Fra gli altri da H. Lloyd–Jones, art. cit., pp. 21–3 (anche se sono da lui negate e la paternità pratinea dell’iporchema – v. n. prec. – e ovviamente l’allusione a Frinico). V. anche Hignett, op. cit. p. 178 sgg. (181): il processo intentato dai medizzanti; il problema del momento era il non aver mandato sufficienti e continuati aiuti a Mileto, non voluti dagli aristocratici. Sul processo v. anche G. Manganaro, «RivFC» 88 1960, pp. 113–23 che propone una prospettiva diversa (la Presa di Mileto sarebbe espressione di medismo). 79 F. Stoessl, « R B » , cit., col. 1722 sg. Su queste innovazioni costituzionali del 501–500, v. Hignett, op. cit., p. 166 sgg.; sulla valutazione di queste, sostanzialmente senza conseguenze sull’assetto costituzionale democratico, ibid., p. 177. Clistene aveva trionfato, è vero, ma la lotta politica era vivace: v. per es. K. J. Beloch, Griechische Geschichte, II, 2, Strassburg 21916, p. 130 sgg. (spec. 133 sg.); G. Busolt – H. Swoboda, Griechische Staatskunde, II, München 21926, p. 887; Lévêque – Vidal–Naquet, op. cit., p. 113 sg. Sui ‘partiti’ politici in Attica v. spec. R. Sealey, Regionalism in Archaic Athens, «Historia» 9, 1960, pp. 155–80 e da ultimo F. Ghinatti, I gruppi politici ateniesi fino alle guerre persiane, Roma 1970, spec. pp. 89–113. 80 Pickard–Cambridge, Fest., p. 82. – Non credo, sulla base di quanto espongo nel testo, che si possa sottoscrivere quanto dice Thomson, p. 238, che cioè dramma satiresco e commedia avrebbero creato un final equilibrium, dandosi attraverso la commedia un new and independent outlet all’elemento comico, al ‘riso’. Pensa Thomson che la commedia sia più ‘allegra’ del dramma satiresco? No: sono due specie diverse di ‘riso’, ciascuna con una sua funzione.
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gli da un’affinità di fondo che la commedia non ha, vivendo una sua vita del tutto indipendente negli agoni comici. E, soprattutto, il dramma satiresco conserva, ben diversamente dalla commedia (qualunque sia il cammino genetico di quest’ultima), il c a r a t t e r e c a m p e s t r e che ha plasmato le sue origini, insieme (indipendentemente o no: v. oltre, § 4) con quelle della tragedia81. Abbiamo visto (sopra, § 2 e § 3, in.) la dialettica città/campagna realizzata nell’opposizione, riconosciuta su piano formale, tragedia/dramma satiresco. Siamo ora in grado di verificare su basi storiche quella che era stata una conquista di semplice considerazione della forma. La dialettica città/campagna era stata impostata su basi politiche del tutto nuove dalle riforme di Clistene. Con il raggruppamento nell’ambito di una stessa tribù di gente localizzata variamente (le tre τριττύες che la costituiscono) e dedita ad attività diverse si era giunti a una ‘mistione’ della popolazione (Aristot. Athen. Polit. 21, 2 ἀναμεῖξαι βουλόμενος, 21, 3 ἀναμίσγεσϑαι τò πλῆϑος, 21, 4 ὅπως ἑϰάστη [scil. φυλή] μετέχῃ πάντων τῶν τόπων). Si trattava di una forte innovazione, se è vero che, prima di Clistene, Pisistrato mandava i giudici in periferia perché i campagnoli «non frequentassero la città» e non si occupassero, così, della cosa pubblica (Aristot. Athen. Polit. 16, 5, cfr. 3)82. La riforma era rivolta a superare barriere locali e a fondere gente della città (ἄστυ), della costa (παραλία) e della campagna interna (μεσόγειος), senza che vi fosse una reale differenza di peso politico fra le varie componenti, almeno dal punto di vista formalmente costituzionale. Atene diventava così non una capitale, ma il punto d’incontro politico di tutta l’Attica83: dai demi periferici arrivavano ogni giorno in città numerosi cittadini per assolvere ai loro
|| 81 La commedia, anch’essa di origine campestre ma fortemente urbanizzata, sarebbe diventata per così dire il ‘ r i s o c i t t a d i n o ’ , mentre il dramma satiresco sarebbe la conservazione del ‘ r i s o c a m p e s t r e ’ . 82 Questa ragione, data da Aristotele, può concorrere colla volontà di controllare la giurisdizione dei nobili locali: non c’è necessità di reciproca esclusione, come sembra pensare Hignett, op. cit., p. 115. 83 A. W. Gomme, The Population of Athens in the Fifth and Fourth Centuries B.C., Oxford 1933, pp. 45–8. Hignett, op. cit., p. 141 sg.: la divisione in demi anche della città sarebbe volta ad evitare preminenza amministrativa della città stessa, preminenza che avrebbe portato ad aumento di peso politico a causa del costante aumento della popolazione urbana. V. anche J. Beloch, Die Bevölkerung der griechisch–römischen Welt, Leipzig 1886, p. 472 sg.: «Der politische Unterschied von Stadt und Land ist dem Altertum unbekannt»; e Kirsten in Philippson, op. cit., pp. 1002–4: non c’è ‘signoria’ della città sulla campagna (la città comincia a distinguersi socialmente dalla campagna soprattutto coll’avvento dell’artigianato, che si realizza con meteci nella seconda metà del V sec.; su un perdurante carattere agrario v. p. 1004, cfr. 1008: «ein Land mittlerer Bauern»; v. anche A. Zimmern, The Greek Commonwealth, Oxford 51931, p. 84). L. Gernet, Droit et ville dans l’antiquité grecque, in Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968,
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doveri politici e dicastici84. L’Attica è piccola: si può stimare molto approssimativamente che la distanza media per abitante da Atene fosse di quindici–venti chilometri85 e, se si pensa che già molti dovevano abitualmente trafficare colla città per il progredire del commercio e il sorgere dell’industria artigiana, si ha dell’Atene del quinto secolo un quadro abbastanza vicino alla realtà. Del resto, in accordo con una tal linea di integrazione città/campagna è anche l’ordinamento militare, che si presenta in coerenza coll’organizzazione clistenica: la falange degli opliti riceve indistintamente tutti i cittadini, senza distinzione locale, solo in base ad un tenue principio timocratico (la capacità di sostenere le spese per l’equipaggiamento oplitico)86. Se fra città e campagna non si può quindi parlare di una vera e propria contrapposizione politica, c’è però da registrare una differenza c u l t u r a l e che, per quanto riguarda la ricezione del fatto letterario, possiamo chiamare di g u s t o . La ἀγροιϰία non ha, fino alla guerra del Peloponneso, valore negativo
|| pp. 371–81 (1957) centra la sua attenzione prevalentemente sul diritto privato e commerciale, arrivando alle stesse conclusioni. Ma ultimamente R. Sealey, art. cit. (la formulazione a p. 174) ha dato della politica di Clistene un quadro suggestivo: Clistene voleva, sì, metter fine al particolarismo locale ed è anche corretto considerarlo fondatore della democrazia, ma in sostanza la sua politica era volta a far prevalere le fazioni aristocratiche cittadine, alle quali era legato (sulle stesse posizioni Ghinatti, op. cit., spec. pp. 90–2, 104–13). 84 Un vivido quadro della ‘mescolanza’ del popolo in occasione dell’assolvimento dei doveri– diritti dicastici in Zimmern, op. cit., p. 162. Per le istituzioni politiche cittadine proiettate fino all’età ellenistica con orgoglio campanilistico v. L. E. Rossi, I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese (Macone, chria 5 Gow), «Par.d.Pass.» 22, 1967, pp. 213–26. 85 Per poter affermare questo con più sicuro fondamento dovremmo avere dati più precisi sulla p o p o l a z i o n e e sulla sua distribuzione (densità nelle varie zone): v. le opp. citt. di Beloch e Gomme e le critiche a quest’ultimo di G. De Sanctis, «RivFC» 65, 1937, pp. 288–98. Sull’incerto rapporto fra superficie e popolazione dei demi v. C. W. J. Eliot, Coastal Demes of Attika. A Study of the Policy of Kleisthenes, «Phoenix», Suppl. 5, Univ. of Toronto Press 1962, pp. 136–47. Sul problema della identificazione dei d e m i E. Kirsten, Der gegenwärtige Stand der attischen Demenforschung, Atti d. terzo Congr. Internaz. di Epigrafia gr. e lat. (Roma 1957), Roma 1959, pp. 155–72 (166–71 elenco dei demi, dai più ai meno sicuramente identificabili; le più grosse difficoltà sono proprio per il territorio centrale, p. 162 sg.; carta, coi nn. di Philippson, op. cit., pp. 1065–8; la carta 13. I del Westermanns Atlas zur Weltgeschichte, Braunschweig 1956 è curata da Kirsten). 86 V. da ultimo Problèmes de la guerre en Grèce ancienne. Sous la direction de J.–P. Vernant, Paris – La Haye 1968, pp. 15, 19, 28 (Vernant, Introduction) e spec. 119–42 (M. Detienne, La phalange. Problèmes et controverses), 161–81 (P. Vidal–Naquet, La tradition de l’hoplite athénien). Il richiamo all’ordinamento militare (che devo a un suggerimento di Nicola Parise) mi è parso opportuno, anche se molto in questo campo resta incerto (nascita e sviluppo della falange, che è già presente nel settimo secolo).
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(lo acquisterà in seguito)87, ma è certo che essa marca una sensibile differenza culturale: se da una parte tutti ricordiamo la nostalgica celebrazione aristofanea della campagna, ricordiamo anche la contrapposizione padre/figlio nelle Nuvole, colle sue implicazioni culturali e di educazione. Dal quadro storico mi sembra consegua di necessità che g l i e l e m e n t i c a m p e s t r i d e l d r a m m a s a t i r e s c o , come soprattutto l’ambientazione e la tendenza al ‘grasso’ e allo scurrile, d o v e s s e r o e s s e r e p a r t i c o l a r m e n t e g r a d i t i a quella che era ormai una grossa fetta del pubblico del t e a t r o , i d e m o t i c a m p a g n o l i 88. Il dramma satiresco veniva così ad operare un equilibramento non solo psicologico sul singolo e sulla massa, ma anche politico–sociologico sulla massa: la reintroduzione dell’elemento campestre nel contesto di un teatro divenuto ormai cittadino andava incontro a delle esigenze che si facevano sempre più valere sul piano dell’osmosi e della distribuzione demografica. Tutto questo si può sintetizzare dicendo che il dramma satiresco ha anche una f u n z i o n e p o l i t i c o – s o c i a l e , oltre a quella p s i c o l o g i c a (il sollievo degli spettatori), senza che peraltro sia del tutto facile distinguerle nettamente per stabilire quale delle due sia la ragione principale della sua finale presenza nella tetralogia drammatica. Si può tutt’al più ipotizzare che la prima abbia peso nel giustificarne la presenza tout court negli agoni dell’epoca pre– tetralogica; e che la seconda — pur convivendo colla prima — prevalga nel giustificarne la successiva posizione nella tetralogia come ultimo pezzo. Ma, a parte nel caso nostro alcune incertezze del quadro storico causate dalla scarsità della documentazione, la realtà è sempre ricca e sfumata, al punto da non lasciarsi agevolmente ‘etichettare’ e irrigidire in schemi. Si trattava di una funzione complessa, della quale abbiamo cercato di mettere in luce alcuni aspetti. Certo l’aspetto psicologico doveva essere, da un certo momento in poi, il più fortemente sentito dal pubblico; dell’aspetto politico–sociale, dominante o forse esclusivo nel primo periodo, saranno stati più vivamente coscienti gli ambienti
|| 87 P. Steinmetz, Theophrast. Charaktere, München 1962, II, p. 62 (p. 61 sgg. su Theophr. char. 4): Ar. nub. 43 sgg., Trigeo visto positivamente nella Pace, etc. Città/campagna nella commedia antica, come contrapposizione soprattutto culturale, in V. Ehrenberg, L’Atene di Aristofane (trad. ital.), Firenze 1957, pp. 116–27 (cap. III, 2). Materiali utili in O. Ribbeck, Agroikos. Eine ethologische Studie, «Abh. sächs. Ges. d. Wiss.», Philol.–hist. Cl., 11, 1888. Da Kirsten in Philippson, op. cit. si ricava che la contrapposizione città/campagna è più forte alla fine che al principio del secolo: ma al principio si tratta di due entità quasi pariteticamente kulturbildend, mentre a mano a mano la componente campestre perde culturalmente terreno. La civiltà alessandrina sarà esclusivamente urbana. 88 Per presenza in teatro di campagnoli (per es. Ar. Ach. 371) v. Steinmetz, loc. cit.
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‘dirigenti’ organizzatori degli agoni, e cioè il potere politico. Anche per noi la funzione psicologica, di sollievo è la più evidente e la più sicuramente individuabile: per rendersi sensibili ad essa basta, in fondo, limitarsi a considerare la forma tetralogica, così com’essa ci è pervenuta, colla sua struttura ovvero coll’ordine delle parti e colle differenziazioni morfologiche delle parti stesse (opposizione tragedia/dramma satiresco come lacrime/riso). In questo senso possiamo dire che nell’epoca tetralogica, quella testimoniataci dal grosso dei resti del genere satiresco, la funzione psicologica è la dominante. Così il dramma satiresco, forse introdotto o almeno favorito da forze antidemocratiche — se reggono le ipotesi fatte sopra su Pratina integrato nella dialettica politica del suo tempo —, si è inserito nelle strutture create dalla democrazia e in un certo senso le ha sfruttate. Le esigenze che esso soddisfaceva erano certo sentite da tutti, ma le vie e i modi del suo svolgersi erano fortemente influenzate dal gusto della gente di campagna. L’assimilazione morfologica alla tragedia sta a significare un sostanziale inglobamento da parte di strutture culturali cittadine, fortemente assimilatrici. Qui abbiamo la riprova tangibile di un fatto importante, che va messo in rilievo, pur essendo implicito in quanto abbiamo esposto: che cioè i l m o n d o c a m p e s t r e non viene ad esprimersi direttamente in una autonoma ‘cultura di campagna’, bensì è f i l t r a t o a t t r a v e r s o u n a s e n s i b i l i t à c i t t a d i n a , che lo evoca con sostanziale profonda simpatia (l’analisi dei testi ci porterebbe lontano, e la rimando)89. Pur nell’assenza di sicuri dati cronologici, possiamo credere che gli sviluppi qui schizzati si siano realizzati in tempi piuttosto brevi. I due principali fattori della crescente concentrazione urbana della popolazione sono stati, nell’Atene del quinto secolo, le riforme di Clistene e la guerra del Peloponneso90. Basta pensare alla profonda trasformazione del dialetto attico nell’ultimo trentennio del secolo, fatto per il quale i dati non mancano: tre decenni bastano a mutare il volto
|| 89 Rapporto più immediato con una determinata realtà sociale è quello dei contenuti della favola ‘esopica’, trasmessi fra l’altro in una forma letteraria ben diversa: v. A. La Penna, La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità, «Società» 17, 1961, pp. 459–537. Sul rapporto dell’anzianità relativa delle leggi estetiche col livello sociale v. Mukařovský, op. cit., p. 81 sg. (ipotesi che l’a. non vuole, comunque, sia intesa rigidamente): «Si affaccia insinuante l’ipotesi che la gerarchia dei canoni estetici sia in diretta relazione con quella dei diversi s t r a t i s o c i a l i : la norma più giovane, che occupa la sommità, sembra corrispondere allo strato più alto della società; a strati socialmente più bassi corrisponderebbero poi canoni sempre meno giovani». Su città e campagna v. ibid., p. 83. È più o meno quanto nel testo intendo per assimilazione da parte della città. 90 G. De Sanctis, «RivFC» 65, 1937, p. 297 sg.; Kirsten in Philippson, op. cit., p. 1009 sg. Per il movimento demografico durante la guerra del Peloponneso cfr. Thuc. 2, 14–17.
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della lingua, come si vede soprattutto dalla ricca documentazione epigrafica91. Anche per gli agoni drammatici, al principio del secolo, possiamo supporre uno sviluppo in tempi brevi, determinato dalla spinta di vivaci pressioni storico– sociali.
4. Il silenzio di Aristotele. Come si accorda quanto abbiamo esposto fin qui colle dottrine, antiche e moderne, sull’origine della tragedia? L’argomento è un campo minato: le testimonianze che abbiamo occasionalmente richiamato sono tutte, in realtà, inquadrate o dagli antichi o dai moderni in diverse teorie delle origini92. Nel quarto capitolo della Poetica Aristotele parla dell’origine della tragedia e il processo storico che sembra emergere dalle sue non chiarissime parole è una linea ‘ditirambo — σατυριϰόν — tragedia’: dopo aver riferito che la tragedia deriva ἀπò τῶν ἐξαρχóντων τòν δɩϑύραμβον (49 a, 10), dice che essa «tardi diventò seria e nobile, da intrecci di poco conto e da linguaggio giocoso, per l’essersi mutata sviluppandosi dal σατυριϰόν» (49 a, 19–21 ἐϰ μιϰρῶν μύϑων ϰαὶ λέξεως γελοίας διὰ τò ἐϰ σατυριϰοῦ μεταβαλεῖν ὀψὲ ἀπεσεμνύνϑη). Che cos’è il σ α τ υ ρ ι ϰ ό ν ? Indipendentemente dalla sua possibile identificazione coi drammi di Tespi, il σατυριϰόν di cui parla Aristotele non può essere il dramma satiresco come lo abbiamo noi, visto che le strutture, che in epoca per noi controllabile sono comuni e alla tragedia e al dramma satiresco, nell’epoca delle origini sono ancora in fieri. La testimonianza delle arti figurative, qui particolarmente preziosa, ci fa certi dell’esistenza di d a n z e r i t u a l i di personaggi satireschi, che non si lasciano configurare nelle forme a noi note della prassi teatrale93. Sarebbe,
|| 91 E. Risch, Das Attische im Rahmen der griechischen Dialekte, «MusHelv» 21, 1964, pp. 1–14 (v. spec. 13 sg.). 92 La bibliografia sull’argomento è immensa. Basti qui rimandare, per una rapida e aggiornata sintesi informativa, a Lesky, bibliogr. e pp. 17–48, oltre che a Guggisberg, pp. 7–29, utile perché centrato sul dramma satiresco. 93 V. soprattutto Buschor e Brommer, 1937, spec. p. 34 sgg. Per una selettiva rassegna di riproduzioni v. Brommer, 1959. Mario Torelli mi segnala un vaso da Vulci di recente pubblicazione, una kylix attica a figure rosse del 520–510 circa (G. Riccioni – Μ. T. Falconi Amorelli, La tomba della Panatenaica di Vulci, «Quaderni di Villa Giulia», 3, Roma, Lerici Editore 1968, n. 24, pp. 39–42) attribuita da Beazley al pittore di Euergides (ibid., p. 42 n. 8). È un vaso pederotico (hο παῖς ϰαλός) con all’interno un giovane discobolo e all’esterno due scene: a) figura silenica seduta su una roccia che suona la syrinx e tre caproni in movimento di danza rivolti verso il suonatore; b) scena di ϰῶμος con cinque comasti dal volto di scimmia. La ritualità delle due
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certo, assai utile conoscere la morfologia del dramma di Pratina, che costituirebbe per noi l’anello ancora mancante fra le raffigurazioni dei vasi più antichi (VI sec.) e il dramma satiresco maturo: ma Pratina è già inserito nella tradizione e nella prassi teatrale, e deve essersi già differenziato, anche se va supposta una pur probabile discendenza genetica, dalle danze rituali più arcaiche. L’influenza morfologica della tragedia sul dramma satiresco è stata ipotizzata dai critici più sensati proprio intorno al momento in cui le due forme diventano contestuali negli agoni drammatici94: ed è strano come ad altri, invece, sia apparso impossibile scindere un rapporto morfologico orizzontale, verificabile in un determinato momento dello sviluppo delle due forme, da un rapporto genetico verticale95. Una tal posizione critica si potrebbe formulare così: «tragedia e dramma satiresco sono morfologicamente uguali al principio del quinto secolo; quindi devono esser nati dalla stessa matrice formale nel sesto». L’ipotesi potrebbe reggere, pur solo come tale, se non fosse contraddetta dalla documentazione, pur scarsa, che abbiamo. Il σατυριϰόν possiamo tentare di ricostruirlo in vari modi, ma è sicuro che non possiamo identificarlo con quel dramma satiresco che, fin dal principio del nostro discorso, abbiamo chiamato a t t i c o , allo scopo appunto di distinguerlo dal σ α τ υ ρ ι ϰ ό ν p r i m i t i v o 96. Dobbiamo in qualche modo metterli in rapporto l’uno coll’altro e, se sì, in che modo? In altre parole: può l’origine della tragedia aiutarci a capir meglio l’essenza e la funzione del dramma satiresco attico? Gottfried Hermann, per esempio, aderiva alla teoria aristotelica, ma andava oltre, legando strettamente il σατυριϰόν primitivo col dramma satiresco attico. Riporto le sue parole, perché mi sembrano tipiche di un errore di metodo che va evitato97: De poesi satyrica Graecorum multos ita sentire video, ut tribus tragoediis quartam adiectam esse fabulam satyricam putent, quo severitas tragoediae hilaritate quadam temperaretur, spectatorumque animi, satiati miseratione gravium malorum atque horrore atrocium facinorum, recrearentur satyrorum levibus iocis lascivaque petulantia. Qui ita opinantur,
|| scene pare sicura: quella dell’una è di sostegno a quella dell’altra (si notino specialmente gli uomini–scimmia!). 94 Giustamente Aly, col. 246 dice che Orazio con grata novitate, vertere seria ludo (a. p. 223, 226) fa capire che per lui il dramma satiresco maturo p r e s u p p o n e la tragedia, alla quale si rifà per tematica e forma: «denn das historische Satyrspiel setzt die heroische Tragödie voraus, was freilich damit nicht in Widerspruch steht, dass es vor Pratinas schon ein ausgelassenes Tanzspiel dionysischer Schwarmgeister gab». 95 Cfr. Lesky, p. 26 sg. 96 Levi parla di «dramma satirico di prima maniera» e «di seconda maniera». 97 Hermann, 1838, p. V sg.
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e v e n t u m huius instituti, non o r i g i n e m videntur spectare, quae prior est initiis tragoediae.
E porta poi la solita testimonianza aristotelica per il σατυριϰόν primitivo. L’ipotesi della hilaritas che tempera la severitas, contro la quale Hermann polemizza, aveva avuto un illustre sostenitore: Casaubonus, come si è visto (sopra, § 3). Si potrebbe sperare che, parlando di origo e di eventus, Hermann riesca a tener distinto il σατυριϰόν primitivo dal dramma maturo. Ma purtroppo non è così, ché continua con queste parole: Antiquior ergo satyrica fabula est, quae si mansit etiam inventa tragoedia, non tam id putandum est temperandae hilaritate severitatis caussa factum esse, quam u t a n t i q u u s e t l e g i t i m u s m o s c o n s e r v a r e t u r , postquam maiore studio severa argumenta excipiebantur.
Origo ed eventus dovevano quindi corrispondere per Hermann ad una medesima forma e, quel che è peggio, ad una medesima funzione. Ma anche se, fondandosi sulla presenza delle figure satiresche, si voglia vedere una continuità (mai però una identità!) morfologica fra il σατυριϰόν e il dramma satiresco attico, mi sembra sbagliato volerne identificare l’origine, e cioè la funzione agl’inizi, con quella che ci è apparso esserne la funzione dominante nell’epoca di maggior sviluppo e successo, e cioè la distensione degli spettatori. A una considerazione storica diacronica (per noi difficile, data la contraddittorietà dei dati) occorre affiancarne una sincronica (per noi più agevole, data l’epoca che c’interessa, il quinto secolo). Il σατυριϰόν primitivo era sicuramente fatto di culto dionisiaco ed era molto probabilmente connesso colle origini del teatro tragico: e lasciamo qui necessariamente da parte il problema dell’accordo con l’altro rapporto genetico attestato in Aristotele, quello col ditirambo. Ma il dramma satiresco maturo convive sulle scene attiche con un teatro tragico che «ha dimenticato Dioniso». Anche se il periodo in cui esso appare isolato negli agoni (Pratina) e in cui, poco dopo, viene introdotto prima delle tragedie può testimoniare e una anteriore f u n z i o n e r e l i g i o s a e una posteriore r e s t a u r a z i o n e di essa98, il periodo in cui viene aggregato nella tetralogia dopo le tragedie sarà testimonianza almeno anche di una funzione diversa, quella che sarà apparsa così ovvia ad Eschilo e ai suoi spettatori. Per di più, è anche un fatto terminologico a farci ritenere del tutto improbabile che a fare l’identificazione fra σατυριϰόν e dramma satiresco sia stato lo stesso Aristotele. Il dramma satiresco è normalmente designato come σατυριϰòν
|| 98 Molto esplicito nel senso della restaurazione religiosa è Buschor, p. 78 sg.
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δρᾶμα, σάτυροι etc.; quando ci sia in più il titolo, questo si accorda o col sostantivo σάτυροι (–ος) o con σατυριϰός come aggettivo (Θερισταὶ σάτυροι etc.)99. L’uso sostantivato, invece, come nel passo aristotelico, è del tutto inconsueto: lo troviamo solo in un’iscrizione per l’anno 340 a.C.100. Anche se Aristotele avesse detto quello che alcuni vogliono fargli dire, avremmo il diritto di non credergli; ma è molto probabile che non abbia neanche voluto dirlo. Ma a noi, in effetti, non interessa troppo risolvere il problema delle origini per capire il dramma maturo. È confortante che, già nell’antichità, ci fosse un’altra teoria delle origini, che, se da una parte considerava la tragedia fatto attico autoctono senza fare ipotesi sulla sua genesi101, dall’altra è per noi di grande interesse perché staccava da quest’ultima il dramma satiresco, che sarebbe stato introdotto ad Atene da Pratina (Suid. s.v. = TrGF 4 T 1). Questa teoria, che ha autorevoli sostenitori moderni102 e che a me sembra — come ormai s’è visto — la più convincente, ha il vantaggio di sottrarre ogni base alla tentazione antimetodica che abbiamo rifiutata sopra, facendo svanire il fantasma del σατυριϰόν aristotelico come necessaria premessa genetica del dramma maturo103. Non che la posizione aristotelica sulle origini della tragedia sia necessariamente antimetodica, come lo diventava nelle mani di Hermann: può essere solo più ‘pericolosa’. Ma dovrebbe ormai risultare chiaro che, per quanto qui c’interessa, possiamo risparmiarci il difficile compito di deciderci per l’una o per l’altra. Per pronunciarsi sull’origo dovremmo aspettare testimonianze nuove o anche solo rifletter meglio sulle vecchie; qui ci limitiamo a ragionare sull’eventus.
|| 99 Guggisberg, pp. 29–31. 100 Guggisberg, ibid.: IG II2 2320, 16 = TrGF DID A 2a, 17. Sempre nella Poetica, due righe più sotto (49 a, 22), σατυριϰήν, riferito a ποίησιν, ha invece un valore aggettivale (satyrhaft). 101 V. per es. Ps. Plat. Minos 321a ἡ δέ τραγῳδία ἐστὶ παλαιòν ἐνϑάδε, ... πάνυ παλαιòν ... τῆσδε τῆς πόλεως εὕρημα. 102 V. soprattutto Nilsson, 1911. Pohlenz, 1927 (che non l’accetta per vera) propone di vedere in questa teoria, che è rappresentata anche da Orazio e che comunemente viene chiamata alessandrina, l’espressione di una forma di campanilismo attico volta a reagire alla teoria ‘dorica’ delle origini così com’essa sembra rappresentata da Aristotele. V. le varie tesi, esposte in sintesi nella prospettiva del dramma satiresco, in Guggisberg, pp. 7–29. Welcker, Nachtr., p. 276 trovava che, al di fuori della tragedia, nessun altro genere letterario si lascia così füglich riportare a un inventore come il dramma satiresco a Pratina. Per recenti impostazioni antiaristoteliche dell’origine della tragedia (Patzer, Burkert) v. Lesky, pp. 46–8. 103 Efficacemente si esprime Nilsson, 1911, p. 143: «Wenn nur der eingewurzelte Glauben, dass das Satyrspiel die Anfangsstufe der Tragödie darstellt, überwunden ist, so wirkt die gewonnene Erkenntnis des verschiedenen Ursprungs beider b e f r e i e n d » .
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Se è evidente che σατυριϰόν e dramma satiresco, indipendentemente dal loro legame, vanno considerati separatamente, sarà altrettanto evidente che, parlando solo del σατυριϰόν, s u l d r a m m a s a t i r e s c o a t t i c o A r i s t o t e l e n o n d i c e p a r o l a . Il suo totale silenzio è significativo proprio perché la tragedia, di cui il dramma satiresco è parte integrante, è il genere letterario che più gli interessa. È venuto il momento di cercare di darci una spiegazione di questo silenzio. Se esso dev’esser segno di una flessione nella fortuna, domandiamoci prima di tutto: ad Aristotele la tragedia interessa, d’accordo, ma con quali occhi la guarda? In verità, nel corso di un secolo e più, l’atteggiamento dello spettatore e dell’uomo di cultura è cambiato. La Poetica, che come si sa è un corso di lezioni, è stata redatta intorno al 330–25, se non prima, come recentemente ha sostenuto Düring: insomma, circa un secolo dopo la probabile data di rappresentazione dell’Edipo re di Sofocle. È noto quanto peso paradigmatico abbia proprio questa tragedia per Aristotele: inutile qui ricordare i numerosi passi in cui l’Edipo viene citato, e sempre con somma lode. Ora, va ricordato che a suo tempo l’Edipo non fu apprezzato dagli ateniesi come crediamo di doverlo apprezzare noi, sulla scia di Aristotele: nell’agone drammatico, come ci dice la hypothesis (TrGF 24 T 3 a), Sofocle ebbe il secondo posto e fu vinto da un tal Filocle, forse nipote di Eschilo104. Noi facciamo fatica ad immaginare che Filocle, di cui non abbiamo quasi niente, possa aver scritto tragedie superiori all’Edipo. Ma noi giudichiamo secondo canoni di gusto certo più vicini ad Aristotele che al quinto secolo: tali canoni dovevano essersi evoluti, nel corso di un secolo. Aristotele usa nei suoi giudizi criteri eminentemente formalistici sull’intreccio (tragedia ben costruita; l’ἄλογον dev’essere confinato nell’antefatto; distinzione fra intreccio “semplice” e “doppio”105; etc.). Anche l’impostazione generale è intellettualistica: per esempio, è stato notato che concetti come περιπέτεια e ἀναγνωρισμός sono troppo generici e si prestano ad un ordinamento del tutto artificiale della materia106. Nel quinto secolo doveva invece avere grande importanza la tematica, la scelta del soggetto, anche se non siamo più in grado d’intravvedere le ragioni di alcune scelte; e chissà quanti altri elementi entravano in gioco. Purtroppo, insieme con Filocle e con tanti altri tragediografi del quinto secolo, noi abbiamo perduto anche le tragedie sulle quali, || 104 Sui tragediografi minori ancora utile è il vecchio W. C. Kayser, Historia critica tragicorum Graecorum, Göttingen 1845 (su Filocle pp. 46–57; su Xenocle e Nicomaco, v. oltre al § 5, pp. 92– 7, 316). 105 Specialmente per quest’ultimo elemento di giudizio v. E. M. Craik, Διπλοῦς μῦϑος, «CQ» 20, 1970, pp. 95–101. 106 Per di più 1’ἀναγνωρισμός dell’Edipo, tragedia–modello, non è tipico: si tratta dell’auto– scoperta del protagonista (C. M. Bowra, Sophoclean Tragedy, Oxford 1945, pp. 360–4).
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come più vicine a lui o a lui contemporanee, Aristotele si era formato il suo gusto drammatico, e cioè le tragedie del quarto secolo107. Da quel poco che possiamo indovinare dai frammenti e dall’atteggiamento intellettualistico di Aristotele, possiamo concludere che la tragedia al tempo suo era ben diversa da quella del quinto secolo. Di decadenza è lecito parlare solo se si mette in chiaro che non si tratta di giudizio assoluto di valore, bensì solo della registrazione di uno sviluppo storico: che è poi coerente nei suoi diversi aspetti, se è vero che la tragedia è figlia della polis e che la polis sta tramontando. Aristotele, che vede sul suo teatro drammi così diversi da quelli del quinto secolo, ha per i drammi del quinto secolo criteri di giudizio corrispondenti al nuovo gusto. Sarebbe qui interessante fermarsi sulle altre ben più strane omissioni e in generale sui silenzi di Aristotele. Nella Poetica non mostra di avere nel piano dell’opera la lirica e una giustificazione la si è trovata in 60 a, 7 (la lirica sarebbe troppo individualistica per garantire la mimesi; e d’altra parte la grande lirica è morta da tempo come genere attuale): ma quando (59 a, 10) parla della metafora e la considera caratteristica del giambo, è ben strano che non nomini neppure almeno la lirica corale (l’osservazione in C.M. Bowra, Pindar, Oxford 1964, p. 240). Ma è ancora più strano che, parlando delle origini, non dica neanche una parola esplicita sulle implicazioni religiose del teatro in Grecia! Lo si può spiegare col progressivo allontanarsi della tragedia dalle sue origini religiose? Ma questo è un fatto compiuto almeno un secolo e mezzo prima di Aristotele e l’implicazione non doveva esser taciuta da chi parlasse delle origini. O con un decadere generale del senso religioso? O con la decadenza del teatro tragico? Forse queste spiegazioni valgono se prese tutte insieme.
Ora, per quanto riguarda il dramma satiresco, Aristotele, tacendone, non fa che rispecchiare un fatto documentato, e cioè la quasi totale e c l i s s i d e l l a f o r t u n a nel corso del quarto secolo. Dall’iscrizione relativa agli anni 342– 40108 vediamo che può non esserci più dramma satiresco dopo la trilogia tragica109 e che i poeti concorrono anche solo con due o tre drammi. Il dramma satiresco, quando sia presente, è di altri poeti e viene di nuovo preposto alle tragedie110. M u t a m e n t i n e l t e a t r o t r a g i c o e d i m i n u i t a f o r t u n a d e l d r a m m a s a t i r e s c o : una coincidenza che merita attenzione. Ma prima di chiederci a quale mutamento o decadenza di funzione corrisponda la
|| 107 T. B. L. Webster, Fourth Century Tragedy and the Poetics, «Hermes» 82, 1954, pp. 294–308. 108 IG II 973 = II2 2320 (= TrGF DID A 2a), v. A. Wilhelm, Urkunden dramtischer Aufführungen in Athen, Wien 1906, p. 40. 109 Come del resto era già successo per la trilogia postuma di Euripide Ifigenia in Aulide, Alcmeone, Baccanti (schol. Ar. ran. 67). 110 V. anche Blumenthal, col. 1083 sg. – Per il dramma satiresco nel quarto secolo v. Ziegler, col. 1966 sg.; Guggisberg, pp. 137–41; Lesky, pp. 534 sg., 537; Webster, art. cit., p. 304 e n. 3.
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documentata decadenza della fortuna del dramma satiresco nel quarto secolo, ci conviene risalire un po’ indietro nel tempo.
5. L’eclissi della fortuna, anteriore ad Aristotele, come spia del decadere della funzione. Se il quarto secolo ci si è rivelato periodo di decadenza, abbiamo buone ragioni di pensare che tale decadenza fosse cominciata già prima, in pieno quinto secolo. Abbiamo richiamato sopra (§ 3) la fama che nell’antichità ebbero i primi satirografi, e soprattutto Eschilo. Ora, da Dioscoride Sofocle viene considerato già come un ‘ingentilitore’ del genere satiresco111, e questo suo giudizio è confermato da quanto intravvediamo dagli Ichneutai (situazioni, lingua, metro). Lo stesso Ciclope euripideo, che — essendo l’unico esemplare intero che abbiamo — può sembrarci così ‘tipico’, tipico del tutto non è, ché ci accorgiamo che le caratteristiche di estrema vivacità e audacia del primo dramma satiresco, come le vediamo nei frammenti eschilei, si vanno attenuando112: l’epoca “formidabile” di Pratina e di Eschilo volge alla fine, è già finita. Varrebbe la pena seguire più da vicino, pur nella scarsità dei materiali, questo mutamento di forme e di spiriti: qui vorremmo solo chiederci se ad esso corrisponda per caso i l m u t a m e n t o o l a d e c a d e n z a d i u n a f u n z i o n e . È possibile che l’ingentilimento dell’antica atmosfera satiresca dipenda dal fatto che il pubblico ha sempre meno bisogno di quel totale sollievo che era il dramma satiresco più antico? È solo un’ipotesi che avanzo, ma forse non è priva di fondamento. Il trattamento scenico dei miti doveva diventare sempre più familiare e il pubblico, col passar dei decenni, doveva rimanere sempre meno sbalordito e traumatizzato. Molto esplicita è la testimonianza del Panatenaico di Isocrate (scritto || 111 Dioscor., A. P. 7, 37 = 22 G.–P. I versi che c’interessano sono 3–5: ὅς με [il satiro sulla tomba] τòν ἐϰ Φλιοῦντος ἔτι τρίβολον πατέοντα // πρίνινον ἐς χρύσεον σχῆμα μεϑηρμόσατο // ϰαὶ λεπτὴν ἐνέδυσεν ἁλουργίδα. Quella riportata nel testo è l’interpretazione di Aly, col. 246 sg., cfr. H. Bulle, «Sitzungsber. Bayer. Ak.», Philos.–hist. Abteil., 1937, H. 5, p. 92 e n. 5. Guggisberg, pp. 12–14, spec. 13 n. 5, pensa che Dioscoride intenda che tutta l’arte drammatica (quindi prevalentemente le tragedie) di Sofocle sia un ingentilimento dell’arte di Pratina (ma questo comporta il fare di Pratina l’iniziatore del teatro tragico; v. Lesky, p. 27). Non mi pare interpretazione accettabile. Secondo Gabathuler, op. cit. (a n. 34), p. 85 sg. Dioscoride andrebbe preso alla lettera: Sofocle avrebbe fatto apparire in vesti di porpora personaggi del dramma satiresco, come i più alti personaggi della tragedia. Questo significherebbe che i personaggi sono diventati zahm, fein und würdevoll e che il dramma satiresco si è avvicinato alla tragedia. La conclusione a cui arriva è giusta, ma che Dioscoride parli per metafora mi par chiaro. 112 Lesky, p. 503.
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poco prima della morte, e cioè intorno al 340), dove (121 sg.) gli orrori del mito, in una efficace elencazione tipologica (assassini, incesti etc.), sono visti, nella loro frequenza di presenza sulla scena, come qualcosa che è diventato ovvio, scontato: «...e simili malefatte in quantità, tanto che nessuno di quelli che lo fanno p e r a b i t u d i n e ogni anno [scil. i tragediografi] è in imbarazzo a portare sulla scena le sciagure dei tempi antichi»113. Anche il minor luogo dato all’espressione della paura da parte dei cori di Sofocle e di Euripide doveva corrispondere a una minore sensibilità del pubblico, come sembra ovvio dal confronto con Eschilo (sopra, § 3). E d’altra parte gli autori stessi sceglievano vie nuove per i drammi: la tragedia ‘borghese’ di Euripide si allontanava considerevolmente dagli orrori dell’epoca eschilea, preludendo alla tragedia del quarto secolo (pensiamo al Reso!): al posto del φόβος subentra il patetico114. Il progressivo affermarsi del virtuosismo musicale, che sfocia nelle acrobazie del ditirambo nuovo, e il crescente divismo degli attori, che a Roma diventerà la nota dominante, sono tutte indicazioni coerenti in questo senso: l’interesse del pubblico si sposta sempre più esclusivamente su aspetti esteriori dello spettacolo. La tragedia, insomma, è cambiata, e corrispondentemente rispetto ad essa cambia, fino ad estinguersi, la funzione del dramma satiresco: è la solidarietà degli elementi del sistema, di cui abbiamo parlato al principio (sopra, § 1). Si può pensare anche, del resto, ad un parallelo progressivo raffinarsi dei gusti del pubblico: i lazzi e i frizzi del dramma più antico potevano esser sentiti ormai come caratteristiche grossolane. Anche la commedia di Aristofane — che a sua volta vantava superiorità di gusto nei confronti della farsa megarese — si muta, nel corso del quarto secolo, nella commedia menandrea115. E di funzione politico–sociale del dramma satiresco, così com’essa si è prospettata per il periodo più arcaico (v. sopra, § 3, fin.), non è certo più il caso di parlare.
|| 113 Isocr. Panathen. 122 ...ϰαὶ τοσαύτας τò πλῆϑος ϰαϰοποιΐας ὥστε μηδένα πώποτ’ ἀπορῆσαι τ ῶ ν ε ἰ ϑ ι σ μ έ ν ω ν ϰαϑ’ ἕϰαστον τòν ἐνιαυτòν εἰσφέρειν εἰς τò ϑέατρον τὰς τότε γεγενημένας συμφοράς. Divertente (proprio perché tardo, fra IV e III sec.) è l’episodio narrato da Luciano in de conscrib. hist. 1, 1–3 (l’attore Archelao è il n. 86 della Prosopographia di O’Connor): gli Abderiti si erano ammalati di febbre alla rappresentazione dell’Andromeda di Euripide solo perché era piena estate!). 114 Di Benedetto, Euripide, cit., spec. p. 223 sgg. 115 Il raffinarsi del gusto, visto in opportuna prospettiva, in Mancini, pp. 98 sgg., 105–7. Per la ‘raffinatezza’ stilistica euripidea (immagini, lingua etc.) v. Di Benedetto, Euripide, cit., spec. p. 239 sgg. La polemica aristofanea contro le ‘volgarità’ in Ach. 738, vesp. 54 sgg. (cfr. schol. ad loc.) etc. (Pickard–Cambridge, DTC, pp. 179–81).
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Sarebbe qui interessante domandarsi con più concretezza quali possono essere stati i mutamenti di gusto del pubblico. In alcune testimonianze tarde troviamo espressa a chiare note la meraviglia, addirittura lo ‘scandalo’ per alcune vittorie e sconfitte ‘strane’: Aristid. or. 46, p. 334 Dindorf (TrGF 24 T 3b) per la vittoria di Filocle su Sofocle (v. sopra, § 4); Aelian. var. hist. 2,8 (manca in TrGF 33 T) per la vittoria di Xenocle sulla tetralogia troiana di Euripide nel 415; Suid. s.v. Νιϰόμαχος (TrGF 36 T 1) per la vittoria di Nicomaco su Euripide e Teognide (Pickard–Cambridge, Fest., p. 99 n. 1). Andrebbero anche raccolte tutte le testimonianze critiche sui tragediografi, a cominciare dal ricco materiale delle Rane di Aristofane. Il pubblico del quinto secolo aveva certamente criteri di giudizio che a noi sono ormai inaccessibili, come dovevano esserlo anche poco tempo dopo: Aristotele, che aveva raccolto le didascalie, doveva saper bene che l’Edipo non aveva vinto il primo premio, e sicuramente avrà fatto anche lui a voce o dentro di sé un’osservazione del genere di quelle che leggiamo nelle testimonianze citate sopra. Io penso che uno degli elementi più facili da vedere sia, anche solo sulla scorta dei titoli dei drammi, il grado di n o v i t à di un mito sulla scena. In altre parole: aveva importanza il fatto che un mito fosse più o meno ‘consunto’ al momento in cui il drammaturgo lo portava sulla scena? Anche gli alessandrini si interessavano a questo tipo di considerazione: v. nelle hypotheseis a Aesch. Eum., Eur. Med., Alc. (in quest’ultimo caso forse a torto: cfr. Soph. fr. 851 P.) l’espressione tecnica παρ’ οὐδετέρῳ ϰεῖται ἡ μυϑοποɩία (cfr. hypoth. a Soph. Ant., Phil.). Naturalmente si tratta di un’arma a doppio taglio: perché un tema nuovo poteva dispiacere per l’eccessiva novità e audacia e uno troppo vecchio perché il drammaturgo non vi apportava sufficienti innovazioni etc. E sarebbe importante poter stabilire il rapporto fra emozione del pubblico e successo: le tragedie che sulla emotività incidevano di più avevano maggiore o minor successo? (Cfr. la Presa di Mileto di Frinico, sopra, § 3). Qualcuno poi ha mai saputo dare una vera spiegazione al fatto che, per es., il personaggio di Eracle ha così poca fortuna sulla scena tragica, mentre ne ha tanta nel dramma satiresco e specialmente nella commedia? (Wilamowitz, Euripides. Herakles, II, Bad Homburg2 1959, p. 98 sg.). Mi pare che per la decadenza della funzione del dramma satiresco già nel quinto secolo si possa ricavare un indizio anche da un altro fatto, che confermerebbe la nostra ipotesi. È nota la problematica che ci pone l’Alcesti di Euripide. Già Lessing116 aveva ‘divinato’ che l’Alcesti, per certe sue caratteristiche, fosse una tragedia diversa dalle altre. Ora, dal momento in cui fu pubblicata da Wilhelm || 116 Welcker, Gr. Tr., II, p. 635 n. 4 (detto da Lessing a voce).
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Dindorf (Oxford, 1834) la seconda hypothesis, noi sappiamo per certo che i drammi presentati da Euripide nel 438 erano le Cretesi, l’Alcmeone I (διὰ Ψωφῖδος), il Telefo e l’Alcesti e che quindi quest’ultima era al quarto posto nella tetralogia117. Da allora è nata la ‘questione dell’Alcesti’: chi voleva vedervi un vero e proprio dramma satiresco, chi invece voleva trovare una giustificazione al fatto che al quarto posto ci fosse una tragedia. Mi pare che la via da seguire sia piuttosto la seconda. Di dramma satiresco non è il caso di parlare, visto che manca il coro di satiri118. L’Alcesti ha d’altra parte più spunti comici di quanto non abbiano altre tragedie euripidee: si pensi soprattutto al rapporto fra Admeto e Ferete e alla scena di Eracle ubriaco. Ma resta pur sempre una tragedia, anche se una tragedia sui generis, che poteva tener luogo di dramma satiresco. Sarebbe una conferma del fatto che quest’ultimo andava perdendo terreno, e la possibile ragione l’abbiamo data prima: il pubblico sentiva sempre meno il bisogno della grassa risata finale. Si sono anche avanzate ipotesi, che restano però finora assai fragili, sul fatto che altri drammi fossero della stessa natura dell’Alcesti. Si è parlato di altri drammi di Euripide, ma anche di Eschilo e di Sofocle119. Se queste ipotesi risultassero fondate, dovremmo pensare che l’uso di sostituire una tragedia al dramma satiresco era invalso addirittura fin dal tempo di Eschilo, senza peraltro poter dire in qual momento preciso della sua attività. Penseremo allora che la tetralogia di tipo classico, come forma costante degli agoni, sia nata e morta con Eschilo? È necessario qui lasciar da parte il problema, tanto più che voci
|| 117 Wiesmann, test. n. 12 (p. 51). Su questo aspetto dell’Alcesti vecchi lavori sono ancora utili: A. Schöne, Über die Alkestis des Euripides, Rede, Kiel 1895; J. Schmidt, Euripides’ Verhältnis zu Komik und Komödie, Progr. Grimma 1905. Da ultimo v. Lesky, p. 290, che giustamente pensa trattarsi di tragedia. Non manca chi, per giustificare la scelta di una tragedia al quarto posto, pensa a una scarsa ‘disposizione’ di Euripide alla serena rilassatezza del dramma satiresco per ragioni di carattere psicologico (Pohlenz, 1954, I, p. 235) o di razionalistica scelta (Blumenthal, col. 1083 sg.); o a un senso di inferiorità nel genere satiresco nei confronti di Eschilo e Sofocle, al suo senso di aemulatio frustrata, insomma (Lesky, pp. 280 sg., 290). È tempo di abbandonare simili atteggiamenti psicologistici o anche solo individualistici, per aprire gli occhi sulla realtà storica e sulle esigenze di coloro a cui le opere di letteratura sono destinate (v. sopra, § 3 sul φόβος eschileo). 118 V. sopra, a n. 15, sulla questione del Busiride euripideo. 119 V., per es., Guggisberg, pp. 122, 129 (Ione), 129 (Cabeir.), 112 sg. e 120 (Synd., Inach.). Un’ipotesi in Mancini, pp. 98, 105–7, che attribuisce l’innovazione a Sofocle. Il problema è delicato, investendo anche la determinazione dei carattere satiresco di frammenti (v. sopra, § 2), e andrebbe ripreso ex novo. W. Dindorf, Eurip. Tragoediae et Fragmenta, III (Annotat.), Oxford 1840, p. 540 sgg. attribuiva natura di tragedia quarta anche al Reso.
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autorevoli lo hanno per lo meno accantonato120, considerando l’Alcesti un unicum e limitando così tale consuetudine al solo Euripide. Ma episodiche oscillazioni dell’uso nel periodo ‘tetralogico’ non cambierebbero il quadro qui delineato: un dramma del tipo dell’Alcesti, anche sulla scena eschilea — ammesso che lo si possa con fondamento identificare — non smentirebbe la fortuna e non offuscherebbe la funzione del dramma satiresco al tempo suo. Sparse eccezioni non farebbero che confermare la regola, soprattutto se fossimo in grado di vedere quali trilogie mancavano di dramma satiresco in fine. Per noi è già importante poter dire che nel 438 Euripide offriva al suo pubblico, che certamente la gradiva, una vera e propria tragedia, pur ricca di elementi comici, al posto del dramma satiresco. Abbiamo visto così che il silenzio di Aristotele è storicamente giustificato dalla diminuita fortuna nel gusto del pubblico del dramma satiresco e che il processo era cominciato già almeno un secolo prima della Poetica. La Poetica si occupa del problema storico delle origini, ma è anche un manuale descrittivo nonché normativo, che vorrebbe dar consigli al drammaturgo contemporaneo121: e il dramma satiresco al tempo suo o non si produce più o almeno ha cessato da tempo di essere tutt’uno colla tragedia (v. sopra, § 4, fin.). Vorrei visualizzare con uno schema lo sviluppo storico che siamo venuti tracciando. C’è solo da avvertire che i nomi dei tragediografi non escludono sovrapposizioni; che i vaghi appigli cronologici dati da tali nomi hanno valore puramente indicativo; che, infine, i discorsi fatti su fortuna e funzione vanno opportunamente qui integrati dal lettore: tragedia l (Aesch.)
+
dramma satiresco
tragedia 2 (Soph.?, Eur.)
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tragedia quarta in tetralogia
tragedia 3 (IV sec.)
La tragedia, in altre parole, si evolve verso contenuti che sempre più ‘rifiutano’ il dramma satiresco. È più che naturale che Aristotele costruisca il suo || 120 Pfeiffer, 1938, p. 61: «Für kein einziges Stück ist bisher der sichere Nachweis gelungen, dass es an vierter Stelle ohne Satyrchor aufgeführt wurde, wie es allein für die Alkestis überliefert ist.». Per il problema in generale v. Pfeiffer, 1938, pp. 59–61 e Pfeiffer, 1958, pp. 3–5. J. Lammers, Die Doppel – und Halbchöre in der antiken Tragödie, Paderborn 1931, pp. 50, 149 n. 2 esclude tale possibilità per Eschilo, ammettendola solo per alcuni drammi di Sofocle e di Euripide. 121 Per la sua natura di opera a un tempo storica, descrittiva e normativa v. per ora gli accenni in Rossi, Gen. lett., p. 78.
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quadro storico–descrittivo–normativo su questa tragedia trasformata e che ignori il dramma satiresco. Né del resto Aristotele è il primo anello di una tradizione documentaria e critica: i testi dei tragici erano passati in quegli anni fra le mani della commissione organizzata da Licurgo, che aveva avuto il compito di emendare i testi dei grandi autori che avevano il maggior numero di riprese teatrali (Eschilo, soprattutto)122. È da credere che la perdita di molti drammi satireschi sia pre–licurghea o almeno licurghea. Di alcuni gli alessandrini segnalavano esplicitamente la perdita con ο ὐ σ ῴ ζ ε τ α ι , «non è conservato»: quest’annotazione si trova nella hypothesis della Medea per i Theristai e in quella delle Fenicie per un altro dramma euripideo di cui si è perduto anche il titolo123. Ma molti altri dovevano essere quelli di cui si era perduta ogni memoria.
6. L’epoca ellenistica. Rinnovata fortuna, segno della metamorfosi della funzione. Coll’epoca ellenistica si apre un capitolo nuovo. Che i filologi alessandrini si interessassero al dramma satiresco è dimostrato, più ancora che dalla annotazione οὐ σῴζεται, dall’attività filologica di Alessandro Etolo che abbiamo ricordata all’inizio (§ 2). Ma è soprattutto nella prassi scenica che il genere conosce in quest’epoca momenti di rinnovata fortuna, pur risultando nella forma del tutto diverso da quello che era prima. Le premesse alla rinascita ellenistica possono essere addirittura di epoca aristotelica. Non sappiamo bene che cosa fosse il Centauro di Cheremone: Aristotele nella Poetica (47 b, 21) lo chiama μιϰτὴ ῥαψῳδία ἐξ ἁπάντων τῶν μέτρων e in Ateneo (13, 608 c) troviamo la definizione di δρᾶμα πολύμετρον. Non sono indicazioni sufficientemente precise e abbiamo ragione di supporre che non fosse un dramma satiresco. Ma verso la fine del quarto secolo abbiamo un dramma di estremo interesse, l’Agen (Ἀγήν), il cui autore sarebbe stato un certo Python di Catania o di Bisanzio o addirittura lo stesso Alessandro Magno. Da Ateneo, che ce ne riporta una ventina di versi, viene definito σατυριϰòν δρᾶμα (50 f) e σατυριϰòν δραμάτιον (596 d). Recentemente ne è stata discussa la cronologia124, ma essa non può comunque disco-
|| 122 Su Licurgo v. Pfeiffer, 1968, pp. 82, 192. 123 Che gli οὐ σῴζεται derivino dai Πίναϰες di Callimaco è supposto da Pfeiffer, 1968, p. 268. Sui due casi riportati v. Aly, col. 240. 124 B. Snell, Scenes from Greek Drama, Berkeley and Los Angeles 1964, pp. 99 sgg., 118 sgg. lo vuole prima del processo e fuga di Arpalo (e cioè circa nel 327 a.C.), contro la communis opinio.
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starsi molto dal momento del processo di Arpalo (324 a.C.). L’intero dramma è infatti ambientato storicamente con personaggi reali e contemporanei: Arpalo vi aveva parte, Agen sembra essere stato lo stesso re Alessandro e venivano prese in giro le etere Pythionike e Glykera. Si creava così un ambiente drammatico simile a quello della commedia antica, che amava le allusioni a fatti e personaggi contemporanei, e tutto questo con un coro di satiri nella veste dei μάγοι. Il dramma sarebbe stato rappresentato all’Idaspe, davanti alle truppe, all’estremo limite delle spedizioni di Alessandro. L’Agen ci testimonia una vitalità improvedibile del genere satiresco. La sua fortuna presso un pubblico come le truppe di Alessandro sarà stata certo in connessione colla identificazione del re con Dioniso che veniva propagandata, com’è stato supposto, ad opera di una classe di ‘poetastri’ cortigiani125. Comincia per di più in questo momento, su un piano letterario, la mescolanza dei generi (dramma satiresco più commedia), che è caratteristica dell’età ellenistica e della quale ho trattato in altra sede126. Si arriva così alla costituzione di n u o v e f o r m e : ma la mistione dei generi non è intellettualistica esercitazione letteraria come sarà nelle mani di un Callimaco o di un Teocrito, bensì è legata a spettacolo e a propaganda politica, e cioè ancora a occasioni molto concrete, a funzioni nel senso dell’epoca arcaica e classica, pur se molto diverse da quelle del dramma satiresco attico. Se per l’Agen si può parlare di una n u o v a f u n z i o n e dominante, questa potrà esser stata di natura p o l i t i c o – p r o p a g a n d i s t i c a . Abbiamo qui un esempio di m e t a m o r f o s i d e l l e f u n z i o n i (v. sopra, § 1). Quanto al dramma satiresco dell’età ellenistica vera e propria, la documentazione per rappresentazioni non è del tutto scarsa127. La sua importanza per la critica letteraria ci è documentata dai begli epigrammi di Dioscoride, uno dei quali è dedicato a Sositeo, considerato il rinnovatore dei genere128. Non pos-
|| Ma v. le obiezioni di H. Lloyd–Jones, «Gnomon» 38, 1966, p. 16 sg. Per informazione recente Lesky, p. 534 sg. 125 S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari 1966, II, 1, pp. 11–13 (l’ipotesi sui ‘poetastri’ è di W. W. Tarn, Alexander the Great, Cambridge 1948, II, pp. 55–62). 126 Rossi, Gen. lett., p. 83 sgg. Sulla mistione dei generi in Teocrito, p. 84 sg.; sul dramma satiresco accenni a p. 84. V. Guggisberg, pp. 48 sg., 123. Ma occorre ricordare gli elementi di commedia antica (anche parabatici) presenti ancora nella commedia di mezzo e nella nuova: v. W. G. Arnott, «Greece and Rome» 19, 1972, pp. 65–80. 127 Sul dramma satiresco ellenistico v. Aly, col. 243; Ziegler, coll. 1977–9; Sifakis, pp. 26 sg., 92 sg. (e cfr. la tav. a p. 170), 124 sg.; Pickard–Cambridge, Fest., p. 124; per i testi v. Schramm. Utile Gerhard come pure, per la messa in scena, H. Bulle, Hellenistische Satyrspiele in der Orchestra, «SBMün», 1937, H. 5, pp. 91–107. 128 Dioscor., A. P. 7, 707 = 23 G.–P.
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siamo dir nulla sui σατυριϰὰ δράματα di Callimaco129 e non sappiamo come si possano situare nel nostro contesto i Silli di Timone di Fliunte130. I titoli che più c’interessano qui sono il Dafni o Litierse di Sositeo e il Menedemo di Licofrone131. Il primo rappresenta sulla scena il mostro Litierse, re di Frigia, presso il quale è prigioniero Dafni; Eracle uccide Litierse e libera Dafni. Anche qui mistione: accanto a motivi tipici del dramma satiresco, come il mostro che viene sconfitto e la liberazione dalla schiavitù, abbiamo elementi moderni, come il motivo romanzesco di Eracle che va alla ricerca dell’eromenos. Interessante che compaia Dafni, personaggio centrale della poesia bucolica, che nel frattempo ha trovato con Teocrito autonoma dignità letteraria: se gli accenni fatti sopra (§ 3) al legame fra dramma satiresco e tematica bucolica sono giusti, la ripresa di tale tematica da parte di un alessandrino è altamente significativa. Martin Nilsson affermò una volta che «due delle più alte realizzazioni dello spirito greco, il dramma e la poesia bucolica, hanno avuto la loro origine in semplici costumi rurali»132. L’affermazione è brillante e a suo modo resta vera, ma a patto di precisare che si parla di due momenti ben diversi del manifestarsi dello «spirito greco». Se per origine s’intende il rapporto con un pubblico, bisogna ricordare ancora una volta che l’origine della poesia bucolica come genere letterario è dotta, cittadina133. Origine campestre hanno in comune tragedia e dramma satiresco, sviluppando poi l’una una tematica cittadina e l’altro una tematica campestre; ma la poesia bucolica di campestre ha solo la tematica, essendo la sua origine cittadina e dotta, come può essere quella di un genere inaugurato in epoca ellenistica e da una personalità di poeta doctus come Teocrito. Un’origine dotta e riflessa non esclude, naturalmente, una particolare funzione, tutt’altro:
|| 129 Ne è attestata l’esistenza da Suid., s. v. (testim. 1 Pfeiffer). Schramm, p. 62 prende sul serio la testimonianza. 130 Sui Silli di Timone (comunque non drammatici) e sul loro possibile legame con tradizione fliasia (Pratina!) il discorso va rimandato; sui suoi drammi satireschi, attestati in Diogene Laerzio (9, 110), v. Schramm, p. 61. Sulle varie opere di Timone K. Wachsmuth, Syllographorum Graecorum reliquiae, Leipzig 1885, p. 20 sgg. 131 Sul Dafni Guggisberg, p. 142; sull’altro dramma di Sositeo (fr. 3 St.2, quello contro Cleante, v. in seguito) ibid., p. 143; sul Menedemo ibid., p. 141 sg.; v. anche Sifakis, p. 124 sg. Altri titoli in Blumenthal, col. 1972, 12 sgg.; Guggisberg, p. 143 sg. Per l’epoca ellenistico–romana Guggisberg, p. 144 sg. Utile per materiali e suggerimenti è T. B. L. Webster, Hellenistic Poetry and Art, London 1964. 132 Μ. P. Nilsson, Greek Folk Religion, New York 1961 (11940), p. 36. 133 Anche se da antichi e moderni ne è stata teorizzata l’origine da usi campestri, nella sua forma letteraria alessandrina essa è sicuramente ‘invenzione’ di Teocrito (v. sopra, n. 43). Per il pubblico v. i cenni di Rossi, Gen. lett., pass. e spec. pp. 69 sg., 80–6 (gli alessandrini e l’élite letteraria).
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solo, essa dovrà essere individuata nelle esigenze di un gruppo sociale più ristretto, di élite, com’è quello della erudita filologia alessandrina, che aveva un irradiamento non confrontabile col contatto colla ‘base’ dell’Atene del quinto secolo. Si è pensato a nostalgia per la vita campestre, tipica di un’età come la ellenistica, così fortemente urbanizzata: di tale nostalgia sarebbero espressione e il dramma satiresco di quest’epoca e la poesia bucolica, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni post–teocritee, di maniera134. E la rinnovata fortuna del dramma satiresco, che risponde anche a una nuova funzione nel senso qui delineato espressa da forme rinnovate, ci testimonia che la coscienza dell’origine campestre del dramma satiresco stesso rimane viva ancora a quest’epoca135. C’è da aggiungere ancora che Sositeo, in un dramma di titolo sconosciuto, attaccava il filosofo Cleante, che sedeva in teatro. Di nuovo elementi della commedia antica, nel gusto del richiamo a persone addirittura presenti, con uno spunto precisamente parabatico. E ancora elementi di commedia nel Menedemo di Licofrone, anch’esso satira di un filosofo contemporaneo. In epoca ellenistico–romana, infine, come vediamo attraverso vari titoli, il dramma satiresco mostra una certa perdurante vitalità. Le testimonianze ci dirigono verso zone ormai decisamente periferiche come, per esempio, la Beozia136. Ma ne sappiamo troppo poco. Possiamo supporre che la forma fosse così modificata, da non poter più propriamente parlare neanche di metamorfosi di funzioni.
7. Conclusione. Epicedio sul dramma satiresco. Riassumiamo le fila del nostro discorso. Il veloce panorama della storia del dramma satiresco ci ha portati al risultato di seguirne le vicende attraverso l’evolversi del gusto del pubblico. Che esso fosse in sé tragedia era stato già riconosciuto, specie sulla base di considerazioni di f o r m a ; da qui siamo partiti per cercar di capire la sua f u n z i o n e nella prassi teatrale e il nascere e il
|| 134 L’argomento città/campagna in epoca ellenistica (letteratura e urbanizzazione) merita una ricerca a parte, che, specie per quanto riguarda la poesia bucolica, rimando ad altra sede: si tratta anche qui di riconoscere la f u n z i o n e non solo e non tanto della poesia bucolica teocritea, dov’è innegabile l’emergere di una personalità fortemente individuata come Teocrito, quanto e soprattutto della ‘maniera’ a lui posteriore, destinata a singolare f o r t u n a (v. la discendenza di Virgilio da Ps.–Theocr. 8, su cui Rossi, art. cit. a n. 43). 135 Sifakis, p. 124. 136 V. Aly, col. 243 e le voci citt. a n. 131. Si aggiunga K. Latte, Reste frühhellenistischer Poetik im Pisonenbrief des Horaz, Kl. Schr., München 1968 (1925), pp. 885–95 (spec. 889–95).
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declinare di tale funzione sono risultati dalle fasi della sua f o r t u n a , documentata in modo sufficientemente esplicito dalle fonti, presso il pubblico contemporaneo e la critica successiva. Ci siamo spiegati così, fra l’altro, il silenzio di Aristotele. Possiamo dire che è davvero un gran peccato che il dramma satiresco sia quasi completamente naufragato: esso ha avuto un periodo assai breve di vitalità, pochi decenni, ma si è trattato di una vitalità eccezionalmente intensa. Dei drammi satireschi che vedevano nel loro teatro gli ateniesi avranno parlato e discusso almeno tanto quanto delle tragedie. Saremmo molto più ricchi se ne possedessimo alcuni altri esemplari completi, oltre al Ciclope euripideo, che già ci offre tanto137. A parte l’interesse di una ‘tragedia rispecchiata a rovescio’, che con la dialettica lacrime/riso ci fa capir meglio l’incidenza degli spettacoli drammatici sui pubblici antichi, a parte la ricostruzione delle prime fasi della sua evoluzione soprattutto nella prassi degli agoni, che ci ha permesso deduzioni di rilievo per la storia della prima metà del quinto secolo; a parte la ricchezza di elementi di vita quotidiana, che in esso sono presenti in così gran misura e che ci ricostruiscono per tanta parte la vita antica nelle sue manifestazioni più minute; a parte tutto questo, direi che è la storia stessa della sua evoluzione più tarda a insegnarci molto. Da inizi poco chiari, che rivelano una funzione religiosa, si crea un genere (o un sottogenere) che mostra una sua funzione nuova ed autonoma e che si differenzia sia dalla tragedia, a cui peraltro è strettamente legato da elementi formali e da una evidente opposizione funzionale, sia dalla commedia, da cui per spirito e forma nettamente si distingue, per tendere poi ad avvicinarsi prima all’una e poi all’altra in seguito al trasformarsi e al decadere della sua funzione. Per l’assimilazione alla tragedia penso all’Alcesti e in generale alla tragedia quarta in tetralogia: e questo è il principio dell’eclissi. Per l’avvicinamento alla commedia penso al dramma ellenistico colla satira personale: e questo è il periodo della reviviscenza dotta, che, pur sempre legata al fatto dello spettacolo e a funzioni nuove come l’espressione della nostalgia per la campagna, sarà stata anche animata da un certo spirito, eminentemente alessandrino, di ricostruzione filologico–antiquaria. Con questo possiamo concludere. Il tentativo di vedere una continuazione del dramma satiresco in varie forme di rappresentazione burlesca come l’Atella-
|| 137 Rossi, Cicl. è fra l’altro un tentativo di rivalutazione del dramma, attraverso il recupero di elementi rimasti finora nell’ombra, contro la svalutazione della maggior parte della critica moderna.
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na e nella satira romana non ha trovato seguito138. Anche questo era stato visto chiaramente a suo tempo da Casaubonus139, che aveva escluso rapporti genetici sia colla satira di tipo luciliano sia coll’Atellana. Quanto a quest’ultima, un parallelismo si è visto nell’uso dell’exodium atellanico140, che serviva anche a Roma come conclusione dello spettacolo teatrale: ed è notevole che anche qui un critico antico, lo scoliasta a Giovenale141, abbia riconosciuto una funzione analoga, e cioè il sollievo dello spettatore. Ma all’exodium mancava il rapporto tematico che era così stretto nel teatro greco: si può parlare al più di una certa analogia di funzione, non d’identità. Il fatto è che il dramma satiresco attico, splendida manifestazione di vitalità, è rimasto nell’antichità un fatto isolato. Ma anche nel mondo moderno. La tragedia ha avuto una fortuna immensa e, pur prendendo vie proprie, si è sempre richiamata al grande modello attico come ad una patente di nobiltà: ne ha rinnovato le forme, senza tradirle del tutto, adattandole a funzioni nuove. Il dramma satiresco invece, che in qualità di rovescio della tragedia realizzava una funzione specifica, ma in stretto rapporto con quella della tragedia stessa, non ha avuto continuazione. Visto il relativo disinteresse degli antichi almeno da un certo momento in poi, non ci meravigliamo più che i papiri egiziani siano stati finora abbastanza avari di resti in questo campo, ed è improbabile che in futuro siano molto più generosi. Ma forse è altrettanto improbabile che, visto che non è sorta finora, sorga in futuro una civiltà teatrale che prenda le sue produzioni così sul serio da sentirsi in dovere di fornire, nello stesso contesto, lacrime e riso, impegno e distensione, tenendoli su piani così rigorosamente paralleli, come fecero gli ateniesi del quinto secolo. Ma ‘οὐ σῴζεται’: e del resto anche per loro fu una stagione breve, che durò appena pochi decenni.
|| 138 Il tentativo era stato fatto inizialmente nell’ambiente dei grammatici latini: Aly, col. 247; A. Rostagni, Arte poetica di Orazio, Torino 1930, p. 64; Die römische Satire, hsg. v. D. Korzeniewski, Darmstadt 1970, p. VII sgg. (e gli articoli ivi ristampati nella prima sezione). Sul valore della testimonianza di Orazio per la prassi teatrale romana v. Brink, op. cit. (a n. 32), p. 273 sgg. 139 Casaubonus, pp. 279 sgg. (l. II, cap. 3), cfr. 27 sgg. (1. I, cap. 1), e 304 sgg. (l. II, cap. 4). 140 Casaubonus, p. 242 sg. (l. II, cap. 1); Welcker, Gr. Tr., III, p. 1361 sgg. (e v. ibid. sulle Atellane di Silla, chiamate «commedie satiresche» da Athen. 6, 261 c); Bieber, p. 160; Sc. Mariotti, Kl. Pauly, I (1964), col. 676. 141 Schol. ad Iuv. sat. 3, 175, p. 41, 14 sgg. Wessner Exodium: exodiarius apud veteres in fine ludorum intrabat, quia ridiculus foret, ut quicquid lacrimarum atque tristitiae quae exissent ex tracis affectibus, huiusque spectaculi risus detergeret. huius et Lucilius meminit (v. 1264 sg. Marx), principio exitus dignus exodiumque sequetur’.
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Nota Bibliografica. Si dà qui un elenco di t e s t i (con possibilità di reperimento dei più recenti attraverso Pack2) e le voci bibliografiche che, a mio parere, possono servire da i n t r o d u z i o n e allo studio del dramma satiresco. La bibliografia elencata in questa nota è abbreviata nel modo seguente: i testi colle sigle in uso; gli studi, quando non sia diversamente indicato (per ragione di maggiore evidenza o comodità), col solo nome dell’autore, a cui si aggiunge l’anno di edizione solo nel caso in cui si abbiano più voci di uno stesso autore. Satyrographorum Graecorum fragmenta coll.disp.adnott.critt.instr. V. Steffen, Poznan 1952. Tragicorum Graecorum fragmenta rec. A. Nauck (= Leipzig 21889). Suppl. cont. nova fragmenta Euripidea et adespota apud scriptores veteres reperta adiecit B. Snell, Hildesheim 1964. Tragicorum Graecorum Fragmenta (TrGF). Vol. I. Didascaliae tragicae, Catalogi tragicorum et tragoediarum, Testimonia et fragmenta tragicorum minorum. Ed. B. Snell, Göttingen 1971. Die Fragmente der Tragödien des Aischylos, hsg. v. H. J. Mette, Berlin 1959. The Fragments of Sophocles. Ed. ... by A. C. Pearson, I–III, Cambridge 1917. Nova fragmenta Euripidea in papyris reperta. Ed. C. Austin, Berlin 1968. Fr. Schramm, Tragicorum Graecorum hellenisticae, quae dicitur, aetatis fragmenta [praeter Ezechielem] eorumque de vita atque poesi testimonia collecta et illustrata, Diss. Münster 1929. R. A. Pack, The Greek and Latin Literary Texts from Greco–Roman Egypt, Ann Arbor 21965. Per i testi di maggiore estensione si tengano presenti per es.: M. Werre – de Haas, Aeschylus’ Dictyulci, Leiden 1961; M. Di Marco, Studi sul dramma satiresco di Eschilo. I: Θεωροὶ ἢ Ἰσϑμιασταί, «Helikon» 9–10, 1969–70, ρρ. 373–422; R. G. Walker, The Ichneutae of Sophocles, London 1919; J. Duchemin, Le Cyclope d’Euripide, Paris 1945; Rossi, Cicl. (v. qui oltre). W. Aly Satyrspiel, «RE», 2 A, 1 (1921), coll. 235–47. M. Bieber, The History of the Greek and Roman Theater, Princeton 21961. A. von Blumenthal, Tetralogie (Trilogie), «RE», 5 A, 1 (1934), coll. 1077–84. F. Brommer, Satyroi, Würzburg 1937 [= Brommer, 1937]. F. Brommer, Σειληνοί und Σάτυροι, «Philologus» 94, 1940, pp. 222–8 [= Brommer, 1940]. F. Brommer, Satyrspiele. Bilder griechischer Vasen, Berlin 21959 [= Brommer, 1959]. E. Buschor, Satyrtänze und frühes Drama, «SBBayer», Philos.–hist. Abteilung, H. 5, 1943. L. Campo, I drammi satireschi della Grecia antica, Milano 1940. Is. Casaubonus, De satyrica Graecorum poesi et Romanorum satira libri duo, Paris 1605 [cito da questa edizione, indicando anche il capitolo; ne esiste una seconda edita da J. Rambach, con agg. di G. Spanheim, Halle 1774]. N. E. Collinge, Some Reflections on Satyr–Plays, «ProcCambrPhilolSoc» 5, 1958–9, pp. 28–35. P. Decharme, Le drame satyrique sans satyres, «REG» 12, 1899, pp. 290–9. G. A. Gerhard, Satyra und Satyroi, «Philologus» 29, 1918, pp. 247–73. P. Guggisberg, Das Satyrspiel, Diss. Zürich 1947. A. Hartmann, Silenos und Satyros, «RE», 3 A, 1 (1927), coll. 35–53. G. Hermann, De dramate comico–satyrico, Opuscula I, Leipzig 1827, pp. 44–59 [= Hermann, 1827]. (G. Hermann) Euripidis Tragg. Rec. G. H., Voluminis II Pars III, Cyclops, Leipzig 1838 (Praefatio, pp. V–XVI) [= Hermann, 1838]. H. Herter, Vom dionysischen Tanz zum komischen Spiel, Iserlohn 1947.
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Un’immagine aristofanea: l’ ‘amante escluso’ in nub. 125 sg. ἀλλ’ ἀεὶ ϰαινὰς ἰδέας εἰσφέρων σοφίζομαι (nub. 547)
Ben noto è, fra le antichità quotidiane dei greci e dei romani, l’uso del παραϰλαυσίϑυρον: una serenata davanti alla porta dell’amato o dell’amata, che può trovar luogo dopo il ϰῶμος, e cioè dopo l’allegra sortita per la strada di chi ha appena celebrato il simposio1. Topica è la richiesta, da parte di chi sta in strada, di farsi aprire la porta: nel caso che essa non venga aperta, per il rifiuto dell’amato o dell’amata, l’innamorato escluso, per esprimere la sua fedeltà e la sua protesta, poteva restare tutta la notte alla porta, realizzando una ‘fase’ del complesso cerimoniale comastico–erotico che, come le altre, porta un nome preciso, stando alla definizione di Anecd. Bekker 265.7 ϑ υ ρ α υ λ ε ῖ ν · παρὰ ταῖς ϑύραις τινὸς αὐλίζεσϑαι ϰαὶ προσεδρεύειν ϰαὶ περιμένειν2. La ϑ υ ρ α υ λ ί α , che in Platone troviamo designata come ϰ ο ί μ η σ ι ς ἐ π ὶ ϑ ύ ρ α ι ς 3, viene più d’una volta annunciata nel corso stesso della serenata, come avviene in AR. eccl. 961–3 ... ϰαὶ σύ μοι ϰαταδραμοῦσα τὴν ϑύραν ἂνοιξον· εἰ δὲ μή, ϰ α τ α π ε σ ὼ ν ϰ ε ί σ ο μ α ι 4
|| [Saggio pubblicato in «Archeologia classica» 25–26, 1973–1974 (Volume in onore di Margherita Guarducci, Roma, L’«Erma» di Bretschneider, 1975), pp. 667–675] 1 Per ϰῶμος e παρακλαυσίϑυρον in generale v. LAMER, Komos, RE 11.2 (1922) coll. 1286–1304; W. HEADLAM – A. D. KNOX, Herodas, Cambridge 1922 ad 2.34–7 (pp. 82–4); A. S. F. GOW, Theocritus, II, Cambridge 1952 p. 64 e ad 3.6 (p. 66); P. MAAS, RE 18.3 (1949) col. 1202; F. O. COPLEY, Exclusus Amator, Madison 1956; C. M. BOWRA, On Greek Margins, Oxford 1970 p. 149 sgg. (1958); L. E. ROSSI, in Maia 23, 1971, p. 10 sgg. 2 Per il ϑυραυλεῖν v. GOW ad THEOCR. 3.53 (p. 75); e soprattutto HEADLAM–KNOX ad HEROD. 2.34–7 (p. 83), dove v. anche testimonianze per la generica esclusione fuori della porta (ἀποϰλείειν). 3 PL., symp. 183 a, cf. 203 d (ὁ Ἔρως...) ἐπὶ ϑύραις ϰαὶ ἐν ὁδοῖς ὑπαίϑριος ϰοιμώμενος. Oltre che in Anecd. Bekker, troviamo ϑυραυλεῖν nel nostro senso in PHIL. ALEX. agricult. 2.102.20 Cohn– Wendland (1.306 M.), PLUT. mor. 759 b, PLOT. 6.5.10 (ὁ ϑυραυλῶν Ἔρως), ARISTAEN. 2.20; ϑυραυλία in PHIL. ALEX. Cherub. 1.192.20 C.–W. (1.155 M.). 4 Per la natura di quasi–παραϰλαυσίϑυρον di AR. eccl. 952 sgg. v. BOWRA, art. cit. spec. p. 150 sg.; L. E. ROSSI, «Qui te primus ‘deuro de’ fecit» (Petron. 58.7), in St. Ital. Filol. Class., 45, 1973, p. 28 sgg. https://doi.org/10.1515/9783110648126-035
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e in THEOCR. 3.52 sg. (il ϰῶμος) ἀλγέω τὰν ϰεφαλάν, τὶν δ’ οὐ μέλει. οὐϰέτ’ ἀείδω, ϰ ε ι σ ε ῦ μ α ι δ ὲ π ε σ ώ ν , ϰαὶ τοὶ λύϰοι ὧδέ μ’ ἔδονται.
Il passar la notte all’aperto davanti alla porta chiusa è del resto tema abbastanza frequente in opere di letteratura, anche se quella che dai due passi visti sopra sembra essere una terminologia speciale non è stata finora segnalata5. Dai passi di Aristofane e di Teocrito, che, riportandosi ambedue ad un uso così comune ed attestato come il παραϰλαυσίϑυρον, è difficile pensare siano in rapporto di diretta dipendenza, sembra che il ‘cadere’ e il ‘giacere’ siano verbi tipici della situazione, delle vere parole–chiave6. Evidente è sembrata, e con ragione, la derivazione di tali espressioni dal lessico sportivo della lotta7, come può vedersi da due usi metaforici del tutto trasparenti: AESCH. Eum. 589 sg. XO. ἓν μὲν τόδ’ ἤδη τῶν τριῶν παλαισμάτων. ΟΡ. οὐ ϰ ε ι μ έ ν ῳ πω τόνδε ϰομπάζεις λόγον.
e AR. eq. 571–3 εἰ δέ που π έ σ ο ι ε ν εἰς τὸν ὦμον ἐν μάχῃ τινί, τοῦτ’ ἀπεψήσαντ’ ἄν, εἶτ’ ἠρνοῦντο μὴ π ε π τ ω ϰ έ ν α ι , ἀλλὰ διεπάλαιον αὖϑις.
Qui πίπτειν e ϰεῖσϑαι hanno l’apparenza di parole tecniche di lingua speciale. Per ϰεῖσϑαι — come nota efficacemente Taillardat nel suo lavoro ormai classico sulle immagini di Aristofane — l’uso tecnico lo fa corrispondere al francese rester sur le tapis. Viene espresso così il ‘giacere’ dello sconfitto. È chiaro però che, in un contesto che sia univocamente legato alla situazione del παραϰλαυσίϑυρον, il πίπτειν e il ϰεῖσϑαι non sono più immagini della
|| 5 V. ancora per es. (ma solo per la notte passata davanti alla porta) THEOCR. 7.122–4, CALL. A.P. 5.23 (epigr. [63] Pf.), ASCLEP. A.P. 5.164, 167, 189, MEL. A.P. 5.191, 12.72, HOR. carm. 3.10, TIB. 1.2.1 sgg., PROP. 1.16.14–22, OV. ars am. 2. 523 sg., 3.581, met. 14.709 sg., MART. 10.14.7 sg., etc. F. O. COPLEY, in Trans. Proc. Amer. Philol. Ass., 73, 1942 p. 96 sgg. e op. cit., pass. mette in rilievo la progressiva «romanticizzazione» del tema dell’amante escluso, che presso i latini, nel παραϰλαυσίϑυρον, è praticamente sempre presente. 6 MAAS, in RE, loc. cit. dà AR. eccl. 963 e THEOCR. 3.53 come elemento formale comune nel παραϰλαυσίϑνρον, ma non nomina il ϑυραυλεῖν. 7 GOW ad THEOCR. 3.53; BOWRA, art. cit. p. 157 sg.; J. TAILLARDAT, Les images d’Aristophane, Paris 2 1965 p. 337 e n. 3; v. anche i commenti ad AR. eccl. 962.
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lotta, pur se sono nate come tali. Non significano più ‘cadere’ o ‘giacere per sconfitta’: il loro valore metaforico risulta ormai del tutto obliterato, come nelle numerose metafore cosiddette ‘morte’ della nostra lingua quotidiana (in ‘arrivare’ l’immagine nautica — ‘riva’ — è obliterata), per trasfondersi completamente nel valore di ‘giacere davanti alla porta e passarvi la notte, in seguito alla ripulsa d’amore’. Ma, anche se si vuole assumere che il valore metaforico fosse ancora presente, è certo che esso non era il solo né il principale. È strano che in un passo delle Nuvole aristofanee si sia visto finora da tutti il solo valore metaforico della sconfitta nella lotta. All’inizio della commedia Strepsiade cerca di convincere il figlio Fidippide a frequentare i ‘sofisti’ per imparare quelle arti retoriche che gli permetteranno di mandare a casa i creditori senza pagarli. Fidippide rifiuta, ché non avrà il coraggio di continuare a frequentare i suoi compagni di baldoria se diventerà straccione e pallido come i ‘sofisti’ (119 sg., cf. 103), e si chiude in casa sbattendo la porta (124–6): ΦΕΙ. ΣΤΡ.
ἀλλ’ οὐ περιόψεταί μ’ ὁ ϑεῖος Μεγαϰλέης ἄνιππον. ἀλλ’ εἴσειμι, σοῦ δ’ οὐ φροντιῶ. ἀλλ’ οὐδ’ ἐγὼ μέντοι π ε σ ώ ν γ ε ϰ ε ί σ ο μ α ι , ...
Nelle parole di Strepsiade gl’interpreti hanno visto concordemente l’immagine della lotta8. Esse significherebbero «non resterò a terra battuto», «non mi darò per vinto». Più o meno espresso dai singoli esegeti, al fondo di tale certezza è il dato di fatto che metafore sportive, e particolarmente quelle prese dalla lotta, sono frequenti specie nella commedia. Ma c’è da precisare che, appunto nella commedia, tali immagini sono presenti specialmente nell’agone o in connessione coll’agone, tipica parte costitutiva della commedia stessa, e non c’è neanche bisogno di dire che nell’agone tali immagini risultano particolarmente
|| 8 Kock, Rogers, Blaydes, Willems, Cantarella, fino al recentissimo autorevole commento di K. J. DOVER, Oxford 1968 (nella replica di Strepsiade vede il senso di I’ve been thrown, but I’ll jump up again). V. anche TAILLARDAT, op. cit. p. 337. Nella nota di Coulon–Van Daele ad eccl. 963 (Aristophane, vol. V p. 60.2) si richiama nub. 126 come espressione generica, e non amorosa, di disperazione. Nello scolio troviamo οἶον οὐ παραδώσω ἐμαυτὸν ταῖς λύπαις, che, se da una parte può essere esegesi generica di ‘non mi dò per vinto’ — cf. ibid. οὐϰ ἀϑυμήσω —, tende più a mettere in rilievo l’aspetto della ‘disperazione’: non va dimenticato un illustre precedente letterario, ARCHIL. 67 a. 5 D.3 (105.5 Tarditi) μηδὲ νιϰηϑεὶς ἐν οἴϰῳ ϰ α τ α π ε σ ὼ ν ὀδύρεο, che però non ha niente a che fare con ‘disperazione’ erotica. Solo un barlume in van LEEUWEN: ad eccl. 962 (1905), giustamente inteso come tipico di παραϰλαυσίϑυρον, un richiamo in nota a nub. 126 accanto a THEOCR. 3.52 sg.; ma ad nub. 126 (1898) la solita spiegazione (hic vero imagine a palaestra desumpta utitur senex).
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opportune9. Proprio ad apertura dell’agone delle Vespe ne troviamo una presentata con vivacità (526–8): νῦν σέ, τὸν ἐϰ ϑἠμετέρου γυμνασίου λέγειν τι δεῖ ϰαινόν, ὅπως φανήσει ...
E si vedano ancora i seguenti passi, che fanno parte di agoni10: eq. 387–90, 841 sg., 847; nub. 1047; Pl. 487 sg. In altri, che sono fuori dell’agone, l’agone stesso è annunciato (ran. 791–4, 877 sg.) o ad esso in qualche modo ci si riferisce (nub. 1229). In altri ancora c’è comunque una giustificazione all’immagine sportiva, data da situazioni ‘di contesa’ simili all’agone: in Ach. 571 il semicoro contrario a Diceopoli–Telefo è sgomento per la requisitoria politica dello stesso; in eq. 490 sg. è annunciata la seduta della βουλή; Lys. 671 è in una parabasi ‘amebea’ che è stata da qualcuno definita come una continuazione dell’agone11. In altri casi c’è riferimento a situazioni extrasceniche, anch’esse più o meno vicine alla contesa: Ach. 710 (riferimento alla lotta politica fra Tucidide di Melesia ed Evatlo: l’immagine è favorita da quest’ultimo nome proprio); eq. 571–3 (riferimento a 565 οἱ πατέρες ἡμῶν e al loro comportamento); nub. 434 (i creditori!); nub. 551 (Iperbolo); ran. 469 (parallelismo con l’azione di Dioniso–Eracle contro Cerbero: 468 ἀπῇξας ἄγχων); ran. 689–91 (i trucchi di Frinico). Fuori della commedia, basterà ricordare l’agone callimacheo dell’alloro e dell’ulivo, il quarto giambo (fr. 194 Pf.), dove troviamo l’immagine con particolari coincidenze terminologiche: 69 πέπτωϰε, 78 πτῶμα, 80 ϰεῖται. Nel nostro passo delle Nuvole, invece, l’immagine, che dovrebbe di necessità riferirsi all’azione scenica, sarebbe più gratuita. L’alterco fra padre e figlio che precede il brusco ingresso in casa del figlio non ha niente in comune con azioni sceniche del tipo dell’agone: il padre tenta semplicemente di spingere il figlio a compiere un’azione determinata, ma senza portare vere argomentazioni (106 sg. e 110 sg. sono semplici esortazioni) e senza che vi siano controargomentazioni (la risposta di Fidippide è sempre un secco ‘no’: 108 sg., 119 sg., 125). || 9 H.–J. NEWIGER, Metapher und Allegorie. Studien zu Aristophanes, München 1957 pp. 26 e n. 1, 139 sgg., 156 e nn. 1, 2. 10 Prendo questi e i successivi da TAILLARDAT, op. cit. pp. 335–7. Per un elenco di ‘termini tecnici’ v. W. RENNIE, The Acharnians of Arist., London 1909 ad 710 (p. 199): ϰαταβάλλειν, ϰεῖσϑαι, ἐπεμπηδῆσαι ϰειμένῳ, λαβὴν δοῦναι, τὰς ὁμοίας (λαβάς), ἔχομαι μέσος, διὰ τριῶν δ’ ἀπόλλυμαι, ἀτρίαϰτος ἄτα e t c . 11 SCHMID–STÄHLIN 1.4 (1946) p. 324.3; P. HÄNDEL, Formen und Darstellungsweisen in der aristophanischen Komödie, Heidelberg 1963 p. 104 e n. 14.
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Niente dello scambio di argomentazioni a botta e risposta che possa far dire alla fine ad uno dei due ‘io ho perso’ oppure, al contrario, ‘io non ho perso’: un semplice battibecco, invece. Oltre tutto questo, come argomento positivo, c’è la singolare coincidenza verbale coi passi aristofaneo e teocriteo, che sono sicuramente legati alla sfera del παραϰλαυσίϑυρον e del ϑυραυλεῖν: AR. eccl. 963 ϰαταπεσὼν ϰείσομαι e THEOCR. 3.53 ϰεισεῦμαι... πεσών sono identici ad AR. nub. 126 π ε σ ὼ ν . . . ϰείσομαι. La situazione scenica è formalmente del tutto simile a quella di un amante escluso fuori della porta: il padre, che aveva minacciato il figlio di cacciarlo di casa (123), si trova adesso in strada, di fronte alla porta chiusa dal figlio, che ha opposto un netto rifiuto alle sue richieste. L’immagine allusiva di Strepsiade è ironica: «Né io, respinto da te, starò certo a far la notte alla tua finestra, ma andrò io stesso a scuola dai sofisti!». E bussa subito alla porta del φροντιστήριον (126–32). L’alto grado di formalizzazione del linguaggio erotico, la situazione scenica, il tono della voce dell’attore, tutto avrà contribuito a rendere il gioco evidente al pubblico. Ma esso era stato ‘preparato’ da Fidippide stesso nel verso precedente (125): σοῦ δ’ οὐ φροντιῶ vuol dire, alla lettera, «non intendo darmi cura di te», «di te non m’importa niente»12. L’uso del futuro rientra qui nella ben nota categoria del futuro ‘di volontà’ (voluntatives Futurum)13. Ora, ‘curarsi di qualcuno’ può avere anche il significato erotico di ‘accettare l’amore di qualcuno’, ‘riamare’. La situazione è la stessa che abbiamo nel ϰῶμος teocriteo nei versi riportati sopra: la minaccia del ϑυραυλεῖν (53) è preceduta da 52 τὶν δ’ οὐ μέλει, ‘a te non importa niente’, ‘tu sei indifferente’. Questo valore è attestato in greco, per il verbo φροντίζειν, almeno fin da SAPPH. fr. 131 L.–P. Ἄτϑι, σοί δ’ ἔμεϑεν μὲν ἀπήχϑετο φ ρ ο ν τ ί σ δ η ν , ἐπὶ δ’ Ἀνδρομέδαν πότᾳ.
Che si tratti di uso lessicale del tutto colloquiale e piano ci viene assicurato dall’uso dei comici, come per es. CRATIN. fr. 302.2 K. ϰαὶ γὰρ ἐβλίμαζον αὐτήν, ἡ δ ’ ἐ φ ρ ό ν τ ι ζ ’ οὐδὲ ἕν
|| 12 Lo schol. ad 125 commenta σοῦ· τῶν σῶν ἀπειλῶν (e cioè la minaccia del padre di cacciare il figlio di casa, 123): è chiaro che anche questo valore può venir sentito, ma il metterlo in rilievo è tipico prodotto di lettura libresca del testo! 13 SCHWYZER–DEBRUNNER, pp. 290, 291, 292 sg.
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(dove è molto forte: valore concreto di ‘starci’) e, forse, PLAT. fr. 83 K. (testo di Edmonds) ἀλλ’ οὐ γέλως τὸν ἄνδρα μου φ ρ ο ν τ ί σ α ι μηδέν;
E vediamo ancora prosatori come XEN. mem. 3.11.10 τῷ σφόδρα σοῦ φ ρ ο ν τ ί ζ ο ν τ ι (tui studiosissimo, traduce Sturz, sotto la rubrica colere; ...sic de amatoribus). Si veda anche φ ρ ο ν τ ί ς nel senso di ‘cura d’amore’ (cf. lat. cura) in PAUL. SILENT. A.P. 5.264.3, 8 e AGATH. SCHOL. A.P. 5.237.6, 280.4, 297.8. Sono, questi ultimi, autori tardi, ma un campo semantico che conserva inalterata la sua fisionomia almeno da Saffo fino all’attico del quinto e quarto secolo può bene arrivare inalterato ad epoche molto più tarde. Mi pare evidente che nel passo delle Nuvole Strepsiade ‘specializzi’ il valore dell’espressione usata dal figlio: dal valore generico (‘non intendo curarmi di te’) al valore erotico. A questa interpretazione soccorre anche un solido conforto sintattico. La risposta di Strepsiade è collegata sintatticamente in modo molto forte al ‘no’ di Fidippide (οὐ φροντιῶ): ο ὐ δὲ . . . γ ε . .. è un nesso che Denniston14 chiama connective, usato in risposte o repliche (nor yet, and not... either). Il γε aggiunge espressività (‘ p er parte m i a ’, ‘per quanto riguarda la mia parte nella scenetta da παραϰλαυσίϑυρον’) a un οὐδέ responsive, che segue a una negazione (125 οὐ) e che a d e s s a s i r i f e r i s c e 15). La disperazione che Strepsiade esorcizza si riferisce chiaramente all’ultimo enunciato di Fidippide, οὐ φροντιῶ, e non al fatto generico che il figlio non abbia accettato l’invito ad andare a scuola dai ‘sofisti’. Quanto in greco è espresso efficacemente dalle particelle si può rendere così, ampliando la replica di Strepsiade: « ( A h s ì ! T u n o n i n t e n d i c u r a r t i d i m e ! ) N é (ἀλλ’ οὐδέ) i o , p e r p a r t e m i a (γε), f a r ò c e r t o (μέντοι) l ’ i n n a m o r a t o r e s p i n t o ! » . Abbiamo segnalato sopra l’uso del futuro ‘di volontà’, ma il valore di fondo di οὐ φροντιῶ resta comunque di presente, e in realtà il modo più comune, in Aristofane, di dire ‘non m’importa’ per la prima persona dell’indicativo presente
|| 14 J. D. DENNISTON, The Greek Particles, Oxford2 1954 p. 156. 15 DENNISTON 194–6. Per ἀλλ’ οὐδέ (in cui resta valore avversativo: «tu non ti curi di me, ma io non ...»; rendendo ‘né’, come faccio qui oltre nel testo, attenuo tale valore, lasciando la contrapposizione) v. DENNISTON p. 21 sg. (progressive); per μέντοι enfatico, qui ironico, DENNISTON p. 399, che cita il verso. Per un apprezzamento del valore delle particelle v. W. J. M. STARKIE, comm. (London 1911) ad loc.: opposition could not be more strongly expressed than by these particles.
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(sia pure in forma impersonale) è negazione + μέλει + un eventuale genitivo16: ὀλίγον μοι μέλει (eq. 1195, nub. 1142, vesp. 1411, 1446, aν. 1636, Lys. 248, 895, Th. 228, ran. 1136), οὔ μοι μέλει (nub. 1282, ran. 257), οὐδέν μοι μέλει (ran. 655). Il verbo φροντίζω viene usato invece, in nesso simile e con uguale valore, in altre persone, tempi e modi: οὐ φροντίζει (eq. 783), οὐ φροντίζουσι (Ach. 654), οὐ φροντίζων (eq. 776) 17), οὐδ’ ἐφρόντισα (ran. 493), οὐδ’ ἐφρόντισεν (Pl. 704), οὐδ’ ἂ ν . .. φροντίσαιμι (ran. 1222), οὐ φροντίσαι (eccl. 530 sg.: infin.), οὐ πεφροντίκαμεν (eccl. 263: ma in quest’ultimo esempio si ha più il senso di ‘non averci pensato’). La situazione sembra essere la stessa, per es., in Menandro: per μέλει v. per es. epitr. 50, georg. 34, phasm. 28; per φροντίζω epitr. 734, peric. 294. E anche Platone, come si può vedere da una scorsa al lessico di Ast, presenta lo stesso uso di φροντίζω, mentre per l’uso (impersonale) di μέλω, –ομαι tende a estendere il riferimento anche a persone diverse dalla prima (Phaed. 60 d εἰ οὖν τί σοι μέλει, 82 d οἷς τι μέλει etc.), coerentemente con un progressivo prevalere di questo verbo sugli altri sinonimi o quasi sinonimi. Sembra quindi che, per la prima persona del presente, φροντίζω sia poco usuale: questo almeno nella lingua colloquiale, di cui, in casi come questi, la commedia e certa prosa attica sono specchio abbastanza fedele. D’altra parte anche e soprattutto μέλει, come abbiamo visto per φροντίζω, può essere usato con valore erotico18, e avrebbe consentito ugualmente il gioco di parola: si vedano alcuni esempi, come THEOGN. 1320 σὸν δ’ εἶδος πᾶσι νέοισι μέλει, ANACR. fr. 372 P. (8 Gentili) ξανϑῇ δ’ Εὐρυπύλῃ μέλει || ὁ περιφόρητος Ἀρτέμων, THEOCR. 11.29 τὶν δ’ οὐ μέλει, οὐ μὰ Δί’ οὐδέν, DIODOR. Α.Ρ. 5.122.5 μέλων πολλοῖσι, oltre al nostro passo teocriteo, 3.52 τὶν δ’ ο ὐ μέλει19.
|| 16 Per i verbi del ‘preoccuparsi, curare, trascurare’ v. SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 108 sg.: su ἀλέγω, ἐμπάζομαι, ϰήδομαι, μέδομαι, μέλομαι, ὄϑομαι prevalgono ἐπιμέλομαι e μέλει; vanno aggiunti i verbi del ‘rivolgersi a qc.’, come στρέφομαι, –τρέπομαι e altri come ἐνϑυμέομαι, φροντίζω etc. V. anche J. Η. Η. SCHMIDT, Synonymik der gr. Spr., I, Leipzig 1878 p. 626 sgg. e KÜHNER–GERTH, I pp. 365–7. Per l’uso personale e impersonale di μέλω, –ομαι ν. L.–S.–J., s.v. Cf. anche il tipo τί μοι μέλει; + genitivo. 17 Noto di passaggio che qui si può sentire anche sfumatura erotica (Paflagone–Cleone a Demo!): οὐ φ ρ ο ν τ ί ζ ω ν τῶν ἰδιωτῶν οὐδενός, εἰ σοὶ χ α ρ ι ο ί μ η ν . 18 Più ancora che l’ovvia sinonimia, è un fondamentale parallelismo d’uso ad essere assicurato dalla glossa di Esichio: μέλει· φροντίζει (e cf. φροντίζει· μεριμνᾷ, dove sono anche presenti le μέριμναι, le curae d’amore, cf. per es. SAPPH. fr. 23.8 L.–P.). 19 Probabili esempi sono anche SAPPH. fr. 88.16 L. –P., ANACR. fr. 440 P. (51 Gentili). Notevole XEN. mem. 3.11.10 τὸν ἐπιμελόμενον. — Lo stile letterario, ovviamente, ama la variazione, anche se si serve di lingua d’uso. Si veda, per es., il ricco campionario di espressioni per ‘non mi ami’, ‘non t’importa niente di me’ che troviamo nel ϰῶμος teocriteo: 7 ἦ ῥά με μισεῖς; (cf. [23].3, 62
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Ora, della scelta di φροντίζω, il cui uso in futuro ‘di volontà’ risulta l’unico possibile da quanto abbiamo esposto fin qui, si può trovare una giustificazione precisa. Le parole della famiglia di φροντίζω sono, nelle Nuvole, parole–chiave, con maggiore o minore forza allusiva a seconda dei contesti e degli usi 20): oltre a φροντίζω (75, 125, 189, 215, 700, 723, 724, 735, 1345, cf. 695, 697 ἐϰφροντίζω e 857 ϰαταφροντίζω) e φροντίς (137, 229, 233, 236, 740, 951), ne abbiamo di meno frequenti, come φρόντισμα (155), φροντιστήριον (94, 128, 142, 181, 1144, 1487), φροντιστής (266, 414, 456, 1039) e un ἅπαξ, μεριμνοφροντιστής (101). Nella scena che stiamo esaminando, φροντιστήριον (94) e μεριμνοφροντισταί (101) sono stati da poco pronunciati da Strepsiade. Se ricordiamo che φροντιστήριον compare qui per la prima volta, come pure φροντιστής, su cui è coniato il composto comico μεριμνοφροντιστής (che – ripeto – è un ἅπαξ!), risulterà evidente che Strepsiade avrà dato un particolare accento a tali parole, pronunciandole magari in modo solenne, facendo sì che esse restassero impresse nella memoria degli spettatori (100 οὐϰ οἶδ’ ἀϰριβῶς τοὔνομα: espediente comico!). L’ultimo e definitivo rifiuto di Fidippide, σοῦ δ’ οὐ φροντιῶ, avrà suonato come una eco allusiva dei solenni paroloni del padre (che a 128 ridirà ancora φροντιστήριον), dando così forza comica al rifiuto. Nella botta e risposta aristofanea avremmo così un giuoco abbastanza comune. L’interlocutore A fa un’allusione (Fidippide e l’allusione al ‘pensatoio’ e ai ‘pensamenti’ del padre), che l’interlocutore B a scopo di comicità ‘rifiuta’, sostituendola con un’allusione o un’immagine diversa, che finge di cogliere nelle parole dell’altro (Strepsiade e la sfumatura erotica da lui volutamente sentita in φροντίζω). All’allusione del figlio ai sofisti il padre, per far ridere gli spettatori, sostituisce un doppio senso erotico, e ad esso a sua volta risponde ‘a tono’ con una metafora del tutto trasparente (il ϑυραυλεῖν) della stessa sfera erotica. Strepsiade, con il voluto fraintendimento delle parole di Fidippide, crea un vero mutamento di registro, tanto più comico ed efficace in quanto inaspettato, ἐξ ἀπροσδοϰήτου. Dalla preghiera al figlio per farsi aiutare a salvare la situazione economica familiare ‘drammaticamente’ compromessa, il padre passa improvvisamente a tutt’altro tono e — colmo di comicità — tratta il figlio da ‘pre-
|| sg.), 24 οὐχ ὑπαϰούεις, 33 τὺ δέ μευ λόγον οὐδένα ποιῇ, 36 τύ μοι ἐνδιαϑρύπτῃ, 52 τὶν δ’ οὐ μέλει. 20 V. CONRADUS LUD. IUNGIUS, De vocabulis antiquae comoediae Atticae quae apud solos comicos aut omnino inveniuntur aut peculiari notione praedita occurrunt, Diss. Utrecht 1897 p. 225 (a μεριμνοφροντιστής). A ricordare che φροντιστής e φροντιστήριον compaiono qui per la prima volta è DOVER, comm. ad 94.
Un’immagine aristofanea: l’ ‘amante escluso’ in nub. 125 sg. | 545
ziosa–ritrosa’ che si tappa in casa; ma si rifiuta poi di stare al giuoco da lui stesso creato e, invece di fare la serenata del respinto, passerà egli stesso energicamente all’azione, rivolgendosi ai ‘sofisti’. La situazione è estremamente trasparente e, come tante altre volte, è suggerita da un agile giuoco verbale (che qui è multiplo) ed era sicuramente sostenuta dal tono della voce e da un’appropriata mimica di scena. Abbiamo così riguadagnato e un’immagine aristofanea e l’elemento di comicità che ad essa inerisce nel contesto della scena in cui è inserita. Ma soprattutto siamo in grado di aggiungere un terzo esempio di terminologia per il ϑυραυλεῖν ai due da cui eravamo partiti. I tre passi sono testimonianza di un ulteriore settore, anch’esso come gli altri altamente formalizzato, della langue erotica greca.
Un nuovo papiro epicarmeo e il tipo del medico in commedia È stato recentemente pubblicato uno dei più antichi papiri letterari greci che si conoscano: E. G. Turner, A Fragment of Epicharmus? (or ‘Pseudoepicharmea’?) (With an Additional Note by E. W. Handley), «Wien. Stud.» 89, 1976, pp. 48–60 e tav. (Scritti in onore di Albin Lesky). Il papiro è stato trovato nella campagna del 1971–72 a Saqqara e sarà pubblicato, con altri ritrovamenti, nelle memorie degli scavi. L’interesse deriva sia dall’antichità del papiro (che è addirittura del IV/III sec. a. C.) sia soprattutto dal suo contenuto. Si tratta di tetrametri trocaici in evidente dialetto dorico: di sei versi mancano solo alcune lettere finali e di altri venti abbiamo frammenti di assai minore estensione; si aggiunge un brandello staccato coi resti di due versi. Il contenuto è dato da alcune affermazioni in campo medico. Dopo una etimologia di ἐνιαυτός (v. 2), che così si chiamerebbe perché conterrebbe tutto αὐτòς ἐν αὑτῷ (Peter Parsons richiama Eur. fr. 862 N.2), il discorso si porta sull’importanza delle stagioni dell’anno e dell’età del paziente per la valutazione delle malattie (vv. 3–6); segue la considerazione della gravità di una malattia che sopravvenga ad un bambino durante l’inverno (v. 6 sg.). Sembra probabile a Turner, su suggerimento di Parsons e di Rea, che si tratti di Epicarmo o di Pseudo–Epicarmo. Gli argomenti principali sono il metro, tetrametri trocaici, la forma più usuale in Epicarmo (colle stesse libertà metriche: Pickard–Cambridge, Dyth., Trag. and Com.2, Oxford 1962, pp. 246.2 e 283 sg.), e il dialetto, che è dorico. Che si tratti di un trattato del V o addirittura del IV sec. sembra probabile a Handley (58, 60). Ma è bene attenersi per ora all’ipotesi che si tratti di commedia dorica. Fra le commedie di dubbia attribuzione ad Epicarmo c’è un Chirone (290–4 Kaibel), a cui spontaneamente viene di richiamarsi (Handley, 58, 60). Il linguaggio preciso e l’autorità delle affermazioni in campo medico fanno pensare che a parlare sia precisamente un medico. Ci proponiamo qui una breve digressione sulla figura del m e d i c o i n c o m m e d i a . Essa è stata recentemente riproposta all’attenzione da quando si conosce l’Aspis menandrea. Ivi, nel terzo atto, parla un (falso) medico con una lingua tinta di dorismi e, anzi, di iperdorismi (464 νόσαμα: Gomme–Sandbach ad 439–64; G. Pascucci, Studi Cataudella, Catania 1972, II, pp. 137–53, precisam. 152 sg.). Nella commedia || [Saggio pubblicato in «A&R» n.s. 22, 1977, pp. 81–84]
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nuova, come si sa, il personaggio tipico è una delle strutture portanti alla quale si è sempre prestata la massima attenzione: basta ricordare il cuoco, l’etera, il lenone, il vecchio, la vecchia, il parassita, lo schiavo, il soldato spaccone (W. G. Arnott, Men., Pl., Ter., Oxford 1975, pp. 10 sgg., 26.10; per Epicarmo Pickard– Cambridge, pp. 282, 286). La documentazione sul medico in commedia non era finora abbondante1, ma tracce della sua esistenza come personaggio–tipo erano tuttavia presenti, dirette o indirette, anche prima del ritrovamento dell’Aspis. Di azione interamente conservata avevamo i Menaechmi di Plauto. E titoli come Ἱατρός (Antifane, Aristofonte, Filemone, Teofilo), Φαρμακόμαντις (Anassandrida), Ἑλλεβοριζόμενοι (Difilo), Φαρμακοπώλης (Mnesimaco), Ἁσκληπιοκλείδης e Κρατεύας (ο Κράτεια) ἢ Φαρμακοπώλης (Alessi), Τραυματίας (Antifane e Alessi) e molti altri, anche in commedia latina, fanno evincere materia medica. La figura del medico è presente anche nella commedia antica, come ci testimonia un frammento di Cratete (41 K. = 44 Bonanno; vedi M. G. Bonanno, Studi su Cratete comico, Padova 1972, pp. 148, 151 sg., 177). E si può risalire più in su fino alla commedia dorica, per la quale la presenza del medico è assicurata da una testimonianza preziosa di Sosibio Lacone (FGrHist 595 F 7, ap. Athen. 14. 621 d), dove si parla di personaggi come il ladro di frutta o il medico straniero (ξενικòς ἰατρός). La continuità della tradizione comica dalla farsa dorica in poi, nell’assunzione di personaggi–tipo, viene oggi confermata ulteriormente dal frammento epicarmeo appena pubblicato, come lo era stata già da qualche anno colla pubblicazione di P. Oxy. 2659 fr. 1 verso, II. 12 sg. (1968), che contiene il titolo Ἱατρός per una commedia di Dinoloco, figlio o allievo di Epicarmo. Tale continuità era stata negata da alcuni (Breitholtz), ma a torto. Uno degli elementi di continuità è dato proprio dalla caratterizzazione etnica del medico, che anche in seguito è spesso straniero, come era nella farsa dorica. Non sempre, però. Ricordiamo che, dalla seconda metà del V sec., dal momento cioè in cui nasce una scienza medica, la lingua di tale scienza è lo ionico, come ci testimonia il corpus ippocratico. Altro è la prassi medica: in questa i medici, in qualità non di scienziati ma di praticanti una professione, si saranno serviti, di necessità, dei dialetti epicorici. Ora, il far parlare un dialetto straniero al medico in commedia era un espediente in più (non sempre presente) || 1 Per una rassegna dei materiali vedi M. GIGANTE, Il ritorno del medico straniero, «Par. d. Pass.» 24, 1969, pp. 302–7; L. GIL e I. R. ALFAGEME, La figura del médico en la comedia ática, «Cuad. de filol. clás.» 3, 1972, pp. 35–91. Quest’ultimo articolo si propone di ricostruire la figura del medico come doveva essere nella realtà sociologica dell’epoca della commedia, fra V e IV sec., e opportunamente la giustappone al medico come personaggio–tipo della commedia stessa. Sul medico nella farsa dorica vedi L. BREITHOLTZ, Die dorische Farce, Uppsala 1960, Register s. v. ‘quacksalber’.
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per caratterizzare la figura–tipo, mettendo in maggior rilievo quelle qualità comiche che sono quasi sempre la ciarlataneria, l’esoterismo fumoso, specie quando il medico è un falso medico (come nell’Aspis e nei Menaechmi). Quanto poi alla virtù comica autonoma di un dialetto ‘altro’, basta ricordare gli effetti ottenuti negli Acarnesi e nella Lisistrata. Abbiamo quindi anche medici che parlano attico in commedia attica: è molto probabile che Phryn.com.62, una prescrizione emetica, sia detta da un medico; che Plat.com.548 colle sue allusioni a nomi di mali e adesp.344 colla lunga lista (espediente comico) di mali siano «volgarizzazioni della terminologia medica nell’Atene del V sec.»2. Più tardi, in Anaxandrid.49, certo detto dal φαρμακοπώλης, appare di nuovo l’attico. Ugualmente epicorico è il dialetto dorico nel nostro frammento epicarmeo: il dialetto sarebbe straniero solo nel caso che si volesse inquadrare il frammento in una commedia attica nuova, ipotesi opportunamente scartata da Turner (50, 51). D’altra parte va eliminato l’equivoco, che può essere provocato dall’Aspis, che un medico straniero in commedia debba parlare sempre dorico. Che questo non sia sempre il caso è evidente nella farsa dorica: è molto probabile che lì il medico di cui riferisce Sosibio Lacone parlasse ionico, proprio la lingua della scienza (come giustamente suppone Pascucci, art. cit., p. 150), che avrà messo ulteriormente in burletta la figura–tipo col divario fra lingua della scienza (ionico) e lingua della prassi (dialetto epicorico); oppure (specie se si voglia retrodatare di molto la farsa dorica in modo da farle precedere di qualche tempo il nascere e il diffondersi della scienza medica ionica) che per l’occasione lo ionico adottato fosse semplicemente quello epicorico, non quindi propriamente quello scientifico–letterario. Ma anche in commedia attica questo doveva succedere: non sarà un caso che in Anaxandrid.50 probabilmente ancora il φαρμακοπώλης parli in esametri (il verso dell’epos, ma anche degli oracoli)3. È nello ionico scientifico che va vista la tecnicità della terminologia, credo: e non, come alcuni vogliono, nel dorico o nel dialetto straniero in generale, trattandosi invece in tali casi di volgarizzazione epicorica fondata sulla prassi professionale. Dorico parlano, in contesto drammaturgico attico, i medici di Cratete 41 K. = 44 Bonanno ricordato sopra, di Alex. 142, oltre naturalmente a quello dell’Aspis. È fuor di dubbio che il dorico doveva essere la caratterizzazione linguistica più
|| 2 GIL–ALFAGEME, art. cit., p. 37 sg.; e vedi i molti passi aristofanei che hanno a che fare con medici e medicina in H. W. MILLER, Aristophanes and Medical Language, «Trans. Proc. Amer. Philol. Ass.» 76, 1945, pp. 74–84. 3 Sui rapporti fra cultura popolare e scienza medica vedi il lavoro vivace e incisivo di G. LANATA, Medicina magica e religione popolare in Grecia, Roma 1967.
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comune del medico straniero. Di questo fatto sono state date spiegazioni generiche. La più importante, che a quanto so non è stata ancora proposta, è quella, elementare, dell’essere la nostra documentazione comica in assoluta prevalenza attica, ed è inutile soffermarsi qui sulla violenta polarità ‘attico/dorico’ nell’Atene del V e del IV sec. Ma non dovevano essere estranei fattori specifici inerenti alla storia della medicina. Si è detto che le principali scuole mediche fiorivano precisamente in area dorica (Rodi, Crotone, Cirene, Cnido, Cos); che l’evidenza epigrafica ci presenta, fra V e IV sec., medici di ambiente dorico praticanti ad Atene.4 Alcuni ricordano anche la Sicilia, ma in concorrenza colle altre scuole. C’è da credere, invece, che la fama della medicina siciliana fosse decisamente preminente5. Un passo famoso di Galeno (10. 5) a quelle di Cos e di Cnido accosta la sola scuola siciliana, facendo i nomi di Empedocle, Filistione e Pausania; l’ambiente dell’Accademia, a quanto leggiamo nella seconda epistola di Platone (314 d), cerca di far venire ad Atene il medico Filistione da Siracusa; si è creduto da alcuni che Epicrat. 11. 27 sg. con ἰατρός τις Σικελᾶς ἀπò γᾶς alludesse a Filistione stesso, ma basta «terra sicula», se si accetta la gran fama della scuola; Menecrate di Siracusa è espressamente nominato in Ephipp.12 e in Alex.136 (veniva chiamato ‘Zeus’, come padrone della vita e della morte). Per almeno tutto il IV sec., epoca a cui si riferiscono le testimonianze qui date, la scuola medica che era maggiormente responsabile per la scelta del dorico come dialetto straniero doveva essere senza dubbio la siciliana: e, anche per la sua fama, si prestava meglio a servir da bersaglio agli espedienti dei comici.
|| 4 GIL–ALFAGEME, art. cit., pp. 54, 64; 67: Timanatte forse di Rodi (seconda metà del V sec.), Evenore di Acarnania (seconda metà del IV), Fidia di Rodi (id.), Evenore di Argo (id.). 5 Vedi soprattutto M. WELLMANN, Die Fragmente der sikelischen Ärzte Akron, Philistion und des Diokles von Karystos, Berlin 1901.
Mimica e danza sulla scena comica greca (A proposito del finale delle Vespe e di altri passi aristofanei) Chi vuol cercare di rendersi presente e vivo l’evento teatrale antico sa bene che cosa comporti l’ars nesciendi e la frustrazione che ne consegue: la musica e la danza, due elementi fondamentali dello spettacolo, sono per noi perdute. Ma il fatto orchestico, almeno in qualche suo frammentario aspetto, è ricostruibile con approssimazione maggiore di quanto comunemente si crede. Presento qui un tentativo di ricostruzione dell’evento scenico proprio sotto il profilo orchestico, finora trascurato in alcuni aspetti in cui le possibilità di lettura dei testi dovevano apparire maggiori. Nella commedia attica antica, rispetto alla tragedia contemporanea, la danza è maggiormente presente non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi: il codice comico affida ad essa un maggior numero e una maggior ricchezza di funzioni rispetto al codice tragico1. Ora, il finale delle Vespe (1474–1537)2 è uno dei passi comici in cui il fatto orchestico è più che mai denso di riferimenti. Ecco in poche parole lo svolgimento dell’azione. Dopo un canto corale3, comin-
|| [Conferenza letta in varie sedi (vd. n. 54); pubblicata in «RCCM» 20, 1978 (Miscellanea di studi in memoria di Marino Barchiesi, III, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1980), pp. 1149– 1170] 1 Sulla danza antica ci si può documentare coll’aiuto delle seguenti selezionate voci bibliografiche, più o meno recenti: M. Emmanuel, La danse grecque antique d’après les monuments figurés, Paris 1896; L. Séchan, La danse grecque antique, Paris 1930; C. Sachs, Eine Weltgeschichte des Tanzes, Berlin 1933; L.B. Lawler, The Dance in Ancient Greece, London 1964; Lawler, The Dance of the Ancient Greek. Theatre, Iowa City 1964; G. Prudhommeau, La danse grecque antique, Paris 1965; J.W. Fitton, Greek Dance, «Class. Quart.» 23, 1973, 254–74. 2 Tengo presenti le edizioni e i commenti che comprendono tutto Aristofane (F.W. Hall – W.M. Geldart, Oxford 2 1906–7; V. Coulon, Paris 1923–30; F. Blaydes, Halle 1880–93; J. van Leeuwen, Leiden 1893–1906; B.B. Rogers, London 1902–16; A. Willems, Paris–Bruxelles 1919; R. Cantarella, Milano 1949–64) nonché i principali commenti alle sole Vespe (W.J.M. Starkie, London 1897; W.W. Merry, Oxford 21898; D.M. MacDowell, Oxford 1971). — Sulla problematica tradizionale offerta dal finale della commedia informa bene J. Vaio, Aristophanes’ Wasps: The Final Scenes, «Gr. Rom. Byz. Stud.» 12, 1971, 335–51. 3 Tralascio qui il problema dello spostamento reciproco di 1450–73 e 1265–91, come pure la possibile natura di seconda parabasi di questa seconda sezione: v. C.F. Russo. Le «Vespe» spaginate e un modulo di tetrametri 18 x 2, «Belfagor» 23, 1968, 317–24. https://doi.org/10.1515/9783110648126-037
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cia la exodos. È importante precisare fin da ora la composizione metrica, dividendo la exodos in sezioni: A) trimetri giambici (1474–81): entra in scena un servo4 ad esporre, con tecnica e funzione di racconto di messaggero o Botenbericht, le prodezze simposiali del vecchio Filocleone che è ancora nella casa e ad annunciare che il vecchio stesso sfiderà a gara (1481 διορχησάμενος) i ballerini tragici (1480s. τοὺς τραγῳδοὺς ... τοὺς νῦν); Β) dimetri anapestici (1482–95): il vecchio esce e si esibisce in figure di danza, comicamente commentate dal servo; C) trimetri giambici (1496–1515): Filocleone sfida pubblicamente chi voglia cimentarsi con lui; uno dopo l’altro si presentano i minuscoli figli del drammaturgo Carcino, i Carciniti (1505); Filocleone si appresta a cominciare la gara di danza con loro; D) due tetrametri anapestici catalettici (1516s.) di tipo di ‘invito agonale’, in cui il corifeo annuncia lo spettacolo, invitando il coro a «farsi da parte» per permettere ai gareggianti di esibirsi con ogni agio; E) coppia strofico–antistrofica del coro (1518–27), in forma di esortazione alla danza; come vedremo, è probabile che la strofe fosse semplice esortazione e che l’antistrofe coi suoi imperativi specifici svolgesse anche la funzione di descrizione dei movimenti di danza che si stanno eseguendo; lo schema metrico è il seguente: enh | ith || pros || pros ith |||5; F) asinarteti (con sinafia fra i due cola) del tipo enoplio più itifallico (1528– 37), in forma di imperativi, in questo caso (lo vedremo) chiaramente descrittivi dei movimenti di danza; annuncio dell’arrivo di Carcino (1531s.), che si compiace delle prestazioni dei figli; esortazione ai danzatori a condur fuori il coro.
|| 4 Per i sigla personarum — che non hanno rilevanza per la tesi di queste pagine — seguo l’edizione di Coulon. 5 Per i simboli v. la mia Verskunst, in Der Kleine Pauly, 5 (1975), col. 1217s. Sulla divisione in versi (e non semplicemente in cola) prendo posizione anche in assenza di iato ed elemento indifferente, secondo l’esigenza e i principi esposti ibid., col. 1212.1–9: i versi risultano così essere tre. — L’analisi metrica dipende dalla soluzione dei problemi testuali: leggo 1519 ϑαλασσίοιo (Burges) e 1521 ἀτρυγέτου (Dindorf): ἀτρυγέτοιο dei mss., accettato fra gli altri da Coulon e MacDowell, comporta la necessità di dare valore doppio alla vocale iniziale di 1526s. ὤζωσιν, fenomeno certo ipotizzabile ma non rigorosamente dimostrabile; con questa soluzione, il terzo verso sarebbe enh ith || come il primo, dando ancora più forza all’ipotesi di parentela ritmica fra lirica e asinarteti finali, ipotesi avanzata più oltre (n. 38); Coulon ha invece francamente torto a stampare 1519 ϑαλασσίου (mss.) senza preoccuparsi della responsione scorretta con 1524 Φρυνίχειον.
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Le varie forme di recitazione e canto che erano in uso nel teatro greco del quinto secolo, e che erano legate a particolari tipi di tecnica musicale, sono tutte presenti in questa exodos: la pura r e c i t a z i o n e (sezioni A e C, trimetri giambici); il c a n t o spiegato vero e proprio caratteristico delle parti liriche (sezione E); e infine una forma intermedia che si avvicina al nostro ‘recitativo’ e che gli antichi chiamavano p a r a k a t a l o g é 6. Nessun dubbio che quest’ultimo modo di resa fosse proprio della sezione D: i cosiddetti versi lunghi del teatro (tetrametri catalettici anapestici, giambici e trocaici), tipici soprattutto della parabasi e dell’agone della commedia e delle altre parti epirrematiche (sizigie), erano detti in parakatalogé dagli attori o dal solo corifeo; qui abbiamo, a conferma, una esortazione tipicamente agonale, che si stacca dal contenuto della parte lirica che segue (sezione E), cantata da tutto il coro. La sezione F è poi in asinarteti, uno dei tipi metrici più antichi della poesia greca, di cui è dato come inventore Archiloco, che ne avrebbe anche inventato la resa musicale nella forma, appunto, della parakatalogé (le due ‘invenzioni’ insieme in Ps. Plut. mus. 1140 f 20 ss.). Un discorso esauriente sugli asinarteti sarebbe qui fuor di luogo, avendolo io fatto altrove a proposito del nuovo Archiloco di Colonia7. Quello che a noi qui interessa è sottolineare che, nel ‘riuso’ a cui è stata sottoposta dal tempo di Archiloco in poi, la forma asinartetica è passata alla lirica vera e propria assumendo le forme del canto spiegato (lirica arcaica e lirica del dramma), ma che specie nella commedia è tornata fedelmente alla resa in parakatalogé. Risparmiandoci qui un esame dettagliato dei frammenti comici — dove non sempre è agevole stabilire la parte strutturale (parabasi od altro) in cui il singolo frammento, spesso monostichico, si iscrive8 —, dalle sole commedie conservate
|| 6 V. Verskunst, cit., col. 1213. 14–27. La parakatalogé si sarà certo realizzata in forme diversamente sfumate (com’è del resto il caso del recitativo nella musica moderna) sia in prospettiva diacronica (dall’epos originariamente accompagnato dallo strumento a corde e da Archiloco in poi) sia in prospettiva sincronica (secondo le diverse esigenze del teatro e della lirica). Su di essa, che resta uno dei campi più dibattuti per la difficoltà di stabilire un corretto rapporto parola–musica, v. spec. W. Christ, «Abh. bayr. Akad.» 13, 187 5, 15 5–222; Metrik2, Leipzig 1879, 675–82; B. Gentili, in Enciclopedia dello Spettacolo 7 (1960), coll. 1599–1601; A. Pickard–Cambridge, Dram. Fest. 2, Oxford 1968, 156–67; F. Perusino, Il tetrametro giambico catalettico, Roma 1968, 20–8. 7 Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini (Sull’autenticità del nuovo Archiloco), di prossima pubblicazione in Problemi di metrica classica, Univ. di Genova (Fac. di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Mediev.), 1977 (una versione di poco più breve è apparsa in «Arethusa» 9, 1976, 207–29). Per gli asinarteti in generale posso rimandare a «Riv. di filol.» 94, 1966, 200s. e Verskunst, cit., col. 1212. 41–7 con Corrigenda et Addenda in fine del volume. 8 Va ricordato qui, per la sua utilità metodica, il lavoro della M. Whittaker, The Comic Fragments in their Relation to the Structure of Old Attic Comedy, «Class. Quart.» 29, 1935, 181–91.
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di Aristofane vediamo che la resa in recitativo degli asinarteti è la più frequente ed usuale9. Qui abbiamo per di più, a conferma, il fatto che si tratta di una serie stichica di sette versi (e si sa che la stichicità è aliena dal canto) che chiudono il dramma. Questa è, in realtà, la vera e propria exodos, anche se è comune estendere il termine a tutta la parte finale del dramma10. La exodos è una sezione morfologico–strutturale che viene alla commedia dalla tragedia: e, anche se molte sono le tragedie che terminano diversamente, gli anapesti di marcia (sistemi recitativi costituiti da dimetri e monometri) sono tradizionalmente legati all’uscita del coro e sono in parakatalogé. È il tipo di gran lunga prevalente in Sofocle ed Euripide. Exodoi di commedie aristofanee che terminano con anapesti o con versi indubbiamente recitativi resi in parakatalogé non mancano11: tutto concorre a far concludere con certezza che le Vespe terminano con una vera e propria exodos recitativa, accompagnata in parakatalogé. Qualche dubbio può sussistere per la sezione B, in dimetri anapestici. Com’è noto, i dimetri anapestici possono essere sia lirici sia recitativi, variando || Sulla parabasi pp. 188–90. Chiaramente parabatici sono Cratin. 57–58, 323 K. (erasm ith), 324 a, b, c (cratineo); Eupol. 37, 38 (id.; cf. 362); Pherecr. 29 (eupolideo: cf. 13, 96); Plat. com. 90 (cosidd. platonico, hem | reiz | hem); Stratt. (?) 220.94–103 Austin (erasm ith); Adesp. 53 (eupolideo). Incertezza può sussistere per Cratin. 211 (4 da | ith); Eupol. 236 (erasm ith). Ricavo questi materiali dal mio art. cit. (a n. preced.). 9 Le altre occorrenze di asinarteti sicuramente recitativi in Aristofane, che ricavo ancora dalle liste del mio art. cit., sono le seguenti: nub. 518–62 (eupolidei, 2cho | 2chô liberi), lunga serie stichica che tiene luogo dei più normali tetrametri anapestici catalettici nella parabasi I; nub. 1114 (2ia | ith), che introduce (come quasi–kommation) i tetrametri trocaici catalettici della parabasi II; vesp. 248–72 (id., ma con sinafia), che seguono i tetrametri giambici catalettici della parodo e sono in forma di dialogo fra fanciullo e corifeo; ran. 395s. (id.), che introducono un canto (il canto precedente è introdotto da due tetrametri anapestici catalettici colla stessa forma e funzione); ran. 441–7 (id.), caso simile al precedente. È e v i d e n t e l ’ e q u i p a r a z i o n e d e g l i a s i n a r t e t i a i v e r s i l u n g h i . Liriche sono solo le seguenti occorrenze di versi isolati o tutt’al più in coppia: eq. 757s. = 837s. (2ia | ith); nub. 1212 (id.); Lys. 256–7, 258–9 = 271–2, 273–4 (id., ma con sinafia). 10 L’estensione è già in Aristotele, a.p. 1452 b 21s. Sulle forme della exodos tragica v. G. Kremer, Die Struktur des Tragödienschlusses, in Die Bauformen der Tragödie, hsg. v. W. Jens, München 1971 («Poetica», Beiheft 6), 117–41. 11 Le exodoi aristofanee sono prese in esame sotto questo aspetto da R. Pretagostini, Dizione e canto nei dimetri anapestici di Aristofane, «St. Class. e Orient.» 25, 1976, 183–212, precisam. 208s., a proposito della sicura recitatività di quella delle Thesm. (anapesti). Lo stesso si può dire di nub. (dim. anap.), Plut. (tetram. anap.); in eq. è sicuramente caduta la parte finale; per ran. (sei esametri) resto in dubbiò, anche se l’incisione mediana di 1529 dovrebbe a rigore far pensare a liricità. In realtà la exodos aristofanea è morfologicamente abbastanza varia (spesso c’è il kômos lirico: Ach., pax, av., Lys., eccl.) e non so come possa A. Körte, R.E. 11.1 (1921), col. 1252 affermare che essa ha feste typische Formen nel senso del kômos.
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in conseguenza la loro resa vocale fra il canto vero e proprio e la parakatalogé (e forse anche il semplice parlato): i criteri di distinzione fra le due categorie sono quello linguistico (presenza o meno di dorismi lirici), quello metrico (presenza o meno di licenze liriche) e quello strutturale (inserzione in una od altra sezione strutturale del dramma). Prendo queste formulazioni da un lavoro recente12 che ha il merito di aver affrontato il problema singolarmente per ogni sezione in dimetri anapestici in Aristofane. Ora, si dà il caso che per la nostra sezione B nessuno dei tre criteri esposti sopra può venirci in aiuto13. Possiamo però aggiungerne un quarto, e cioè il c r i t e r i o s c e n i c o , guadagnato all’utilizzazione attraverso una attenta lettura del testo: da quanto si argomenterà in queste pagine risulterà che anche la sezione B è in parakatalogé o ha certo un accompagnamento musicale ridotto. Riassumiamo i rilievi fatti finora sulle singole sezioni: A e C sono parlate, E è cantata, D ed F sono in recitativo ovvero in parakatalogé, e lo stesso avremo a dire di B. La premessa sulla m u s i c a era necessaria per affrontare il problema della d a n z a . Dal riassunto dato in apertura risulta che in B (dimetri anapestici) dovrebbe danzare Filocleone; che in E (canto corale) danza sicuramente almeno il coro; e che infine in F (asinarteti finali) dovrebbero danzare Filocleone e i tre Carciniti. Si sa che il grande problema del finale delle Vespe è sempre stato, per gli studiosi, quello di stabilire di qual tipo di danza si trattasse, se della emméleia tragica, del kordax comico o della sìkinnis satiresca. La Lawler mise a fuoco a suo tempo il problema con poche ed efficaci parole: si tratta di «danze che appaiono in commedia, che sono dette [nel testo aristofaneo] esser danze di tragedia, e che infine somigliano [per la descrizione dei movimenti] alle danze del dramma satiresco»14. La fondamentale ambiguità di questi tre fatti insieme concorrenti (il secondo si scinde in due, ché può trattarsi della tragedia più antica di un Tespi o di tragedia contemporanea ad Aristofane) ha portato uno studioso svedese a scrivere un intero libro, molto pregevole anche se ricco di affermazioni arbitrarie, per proporre una quarta soluzione: non si tratterebbe di nessuno dei tre tipi drammatici, bensì di danze simposiali di etere (quindi extrateatrali) liberamente assunte e parodiate da comasti15. Non è mia intenzione riprender || 12 R. Pretagostini, art. cit. (a n. preced.); il passo delle Vespe in questione a p. 201, dove viene fatto credito (e ne ringrazio l’Α.) al mio parere. 13 Rimando all’appendice qui oltre la discussione di 1489 ἀχεῖ. 14 Lillian B. Lawler, Dance Anc. Gr. Th., cit. (a n. 1), 120. Un utile panorama della problematica a pp. 56–8. 15 E. Roos, Die tragische Orchestik im Zerrbild der altattischen Komödie, Lund 1951, che distingue una prima pars construens (21–106) da una seconda pars destruens (107–200). La sua solu-
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qui il problema della determinazione del tipo di danza, e non soltanto perché, da persone più competenti di me nella danza antica, è stato esplicitamente o implicitamente qualificato come quasi disperato. Vorrei invece affrontare un problema preliminare che aiuta a ridimensionare la rilevanza del precedente16 e che mi pare francamente strano che nessuno si sia posto ancora mai17. Siamo proprio sicuri che prima Filocleone da solo (B) e poi Filocleone e i Carciniti insieme (forse E, sicuramente F) eseguissero una vera e propria danza? Tale dubbio avrebbe dovuto presentarsi da tempo: nessuno si è accorto mai, infatti, che vera e propria danza veniva collegata con sezioni probabilmente (B) o sicuramente (F) in parakatalogé. S’impone qui un principio elementare desunto dalla più elementare antropologia18: danze vere e proprie, strutturalmente legate a un accompagnamento musicale pieno, sono come tali ineseguibili con un accompagnamento musicale di grado ridotto com’è quello di parakatalogé ovvero recitativo. In altre parole: danza vera e propria accompagnata da quella ‘quasi– musica’ che è il recitativo (legato più alla parola che alla musica stessa) è un assurdo orchestico–musicale, e come tale scenico. Quello che vorrei dimostrare è ormai chiaro: F i l o c l e o n e e i C a r c i n i t i n o n d a n z a v a n o a f fatto, bensì mimavano, certo comicamente parodiandole, singole figure di danza con semplici posizioni e g e s t i . Le premesse musicali, che ci hanno dato terreno sicuro per la sezione F, sono confermate da un e s a m e i n t e r n o d e l t e s t o , volto alla identificazione di fatti scenici, che ci darà fra l’altro la soluzione, lasciata ancora in sospeso, per la sezione B. Parlando di m i m a r e , si può ingenerare un equivoco terminologico, che bisogna eliminare subito. È ovvio che qui s’intende m i m o in senso moderno, non antico. Il mimo antico, come genere letterario, è tutt’altra cosa: si tratta in origine di uno spettacolo scenico accompagnato dalla parola (e basta fare i nomi di Epicarmo, Sofrone, Senarco ecc.), che in epoca alessandrina viene as-
|| zione a pp. 105s., 201s. Un panorama aggiornato delle reazioni al libro di Roos è offerto da J. Vaio, art. cit. (a n. 2), 344.45. 16 Favorevole al ridimensionamento della rilevanza del problema è K. J. Dover, «Lustrum» 2, 1957, 84. 17 C’est la pantomime, c’est le ballet, dice P. Mazon, Essai sur la composition des comédies d’Aristophane, Paris 1904, 78: ma «pantomimo» sta semplicemente come sinonimo di balletto con connotazione parodica. 18 Sulle limitazioni a cui va sottoposto l’approccio antropologico alla danza v. la Lawler, Dance Anc. Gr., cit. (a n. 1), 22s. Ma nel nostro caso si tratta di un principio che ha valore universale e preventivo: quali siano le condizioni perché vera danza si realizzi (vero e proprio accompagnamento musicale, sia pure solo ritmico).
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sunto in ulteriore elaborazione letteraria (Teocrito, Eroda)19. Un’azione drammatica completa, quindi, che ha colla commedia i rapporti che ben si conoscono. Il mimo in senso moderno, invece, è una sottospecie della danza vera e propria, e precisamente della danza figurata: posizioni e movimenti di un danzatore per lo più solista, accompagnati o no da un più o meno sobrio accompagnamento musicale, ma non dalla parola. Vedremo meglio in seguito come esso sia simile ad un’altra manifestazione scenico–orchestica del mondo antico, e cioè al p a n t o m i m o 20. Esaminiamo ora da vicino il testo del finale delle Vespe in funzione dei suggerimenti che esso può dare quanto alla realizzazione orchestica, e cioè la sezione in cui la pretesa danza di Filocleone solo si annuncia (A), quella in cui essa si dovrebbe eseguire (B), quella in cui si annuncia la gara fra Filocleone e i Carciniti (C), quella in cui il corifeo esorta ad iniziarla (D) e infine quelle in cui la gara viene passo passo seguita dal testo (E, F). Ovviamente le più rilevanti per noi sono le sezioni B, E, F, nelle quali la danza si dovrebbe eseguire. I dati generici che fornisce il testo sono che è notte, l’ora del simposio (1478), che c’è accompagnamento di aulo (1477), che Filocleone durante il simposio dentro casa esegue instancabilmente «quelle antiche danze con cui gareggiava Tespi» (1479), che è intenzione di Filocleone sbeffeggiare «come arcaici e sorpassati i danzatori tragici di oggi» (1480s.). Non so se 1503 «colla emméleia del pugno» si possa intendere come specificazione di danza tragica oppure, meglio, come una semplice metafora generica21. A 1514 Filocleone dice che deve
|| 19 Della ricca letteratura sul mimo basti qui citare H. Reich, Der Mimus, I–II, Berlin 1903; E. Wüst, Mimos, in R.E. 15.2 (1932), coll. 1727–64; K. Vretska, Mimus, in Der Kleine Pauly 3 (1969), coll. 1309–14; H.;Wiemken, Der griechische Mimus, Bremen 1972; W. H. Haslam, «Bull. Inst. Class. Stud.», London 19, 1972, 17–38 e tav. VI. 20 G. Mounin, Le mime contemporain, in G. M., Introduction à la sémiologie, Paris 1970, 169–80 trova una differenza fra pantomimo di tipo antico (che si pratica fino all’inizio del nostro secolo) e il mimo a noi contemporaneo nel minor legame del secondo al realismo del «gesto biologico universale» (‘aggrottare le sopracciglia’, ‘piangere’ ecc.) e del «gesto fortemente socializzato» (‘pregare’, ‘zitto!’ ecc.). Il pantomimo risulta, così, denotativo, mentre il mimo contemporaneo, senza rinunciare del tutto ai gesti realistici, tende alla connotazione. — Sulla gestualità mimica degli antichi e sui loro gesti C. Sittl, Die Gebärden der Griechen und Römer, Leipzig 1890; B. Warnecke, Mimik, in R.E. 15.2 (1932), coll. 1715–25; G. Neumann, Gesten und Gebärden in der griechischen Kunst, Berlin 1975; (C. Fensterbusch, Mimik, in Der Kleine Pauly 3 (1969), col. 1308 è solo un riassunto di Warnecke!). 21 Dallo scolio e dai commenti moderni, quando spiegano emméleia come ‘danza tragica’, non è facile capire se prendono sul serio il termine tecnico nel contesto o se lasciano almeno la via aperta al suo possibile valore metaforico. Esplicitamente per valore metaforico è J. Taillardat,
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«scendere» verso i suoi antagonisti: può trattarsi di notazione registico–scenica o di espressione usuale per ‘scendere in gara’22. Ma leggiamo il testo coll’occhio rivolto ai fatti orchestici. Nella sezione B, in dimetri e monometri anapestici, l’equivoco che si tratti di danza vera e propria è fugato subito. Il duetto si svolge fra Filocleone e il servo: Filocleone esegue autodescrivendosi i suoi movimenti e il servo commenta umoristicamente. 1484s. «ed eccoti l’inizio di una figura di danza» (καὶ δὴ γὰρ | σχήματος ἀρχή),
dice Filocleone. Schema non è ‘danza’, bensì ‘figura di danza’23. Sbagliano qui i traduttori che rendono «ecco l’inizio della danza». Fin da ora appare chiaro che i singoli movimenti sono rappresentati in una sorta di f r a m m e n t a z i o n e , che esclude l’esecuzione continuata di una danza particolare. In altre parole: i movimenti di danza sono presentati come unità discrete e non continue. Per di più l’inizio della danza vera e propria di Filocleone sarebbe drammaticamente inopportuna: la danza dovrebbe cominciare dopo, se mai, quando arrivano gli sfidati per la gara. I successivi comici commenti del servo sono destinati a sottolineare le autodescrizioni di Filocleone, ma anche, per noi che leggiamo il nudo testo, a farci leggere fra le righe il r a l l e n t a n d o con cui le singole figure di danza vengono realizzate. Tali commenti si alternano colle autodescrizioni stesse delle figure: 1487
«di chi torce il fianco a forza» (πλευρὰν λυγίσαντος ὑπὸ ῥώμης)24,
1488s. «come le narici muggono e le vertebre scricchiolano (risuonano)» (οἷσον μυκτὴρ μυκᾶται καὶ | σφόνδυλος ἀχεῖ)25,
|| Les images d’Aristophane2, Paris 1965, 359. Buona raccolta di materiali in L. B. Lawler, The Dance in Metaphor, «Class. Journ.» 46, 1950–51, 383–91. 22 V. i comm. ad loc. Sulla dislocazione dei personaggi e del coro fra scena e orchestra J. Vaio, art. cit. (a n. 2), 349.60. Sulla problematica, ancora lontana dall’esser risolta, del teatro v. da ultimo H.–J. Newiger, Zwei Bemerkungen zur Spielstätte des attischen Dramas im 5. Jahdt. v. Chr., «Wien. Stud.» 89, 1976, 80–92. 23 L. B. Lawler, Phora, Schema, Deixis in the Greek. Dance, «Trans. Proc. Amer. Philol. Assoc.» 85, 1954, 148–58. Van Leeuwen traduce, bene, con initium figurae saltationis e così Merry con figure of the dance; Starkie, meno bene, con figures. Per καὶ δή, che manca in Denniston, v. Blaydes ad 1324 (e cf. anche 1224). 24 Sul valore di λυγίζειν e sulla danza igdis o igdisma v. Roos, op. cit., 21–76. I mss. danno ῥώμης. Lobeck propose ῥύμης («nello slancio», si potrebbe rendere), ma non sembra necessario correggere.
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1490
«Frinico si acquatta come un gallo» (πτήσσει Φρύνιχος ὥς τις ἀλέκτωρ)26,
1492
«sgambettando e scalciando fino al cielo» (cf. 1530) (σκέλος οὐράνιόν ἐκλακτίζων)27,
1493
«il deretano squarciato s’è», come traduce Romagnoli (πρωκτὸς χάσκει)28,
1494s. «nelle mie articolazioni si torce l’agile femore» (νῦν γὰρ ὲν ἄρϑροις τοῖς ἡμετέροις | στρέφεται χαλαρὰ κοτυληδών)29.
Ad esecuzione finita, col passaggio ai trimetri della sezione C, Filocleone conclude con un «non sono stato bravo?» (1496 οὐκ εὖ;). Siamo di fronte ad un commento orchestico che segue passo passo l’esecuzione: esso è fatto, non dimentichiamolo, dallo stesso solista che esegue le figure — e che le avrà messe in rilievo con delle opportune pause — e soprattutto notiamo che è costituito da n o t a z i o n i s p e c i f i c h e , molto puntuali e precise. Sarebbe superfluo riportare qui tutte le numerose n o t a z i o n i g e n e r i c h e di danza del teatro greco, di regola in forma di esortazione o di autoesortazione di un coro: ‘danzate (in onore del dio)’, ‘danziamo’ ecc.30 Queste ultime sono un semplice pleonasmo (proprio perché generico) rispetto alla esecuzione orchestica. Per converso, senza voler generalizzare in modo assoluto, c’è da aspettarsi che indicazioni specifiche nel testo siano funzionalizzate ad una azione scenica, nel nostro caso orchestica, molto precisa, che non sia cioè ovvia ed autosufficiente nel senso dello svilupparsi automatico di una danza vera e propria una volta che essa sia avviata: un’azione, in altre parole,
|| 25 Di nuovo rimando all’appendice per 1489 ἀχεῖ. Fatica per la danza, potrebbe osservare qualcuno; ma in realtà tutto è mimato e tutto si situa nello spazio metaforico fornito dalla finzione e dalla parodia comica! 26 Frinico può essere qui o il drammaturgo o l’attore (H. A. Holden, Onomasticon Aristophaneum2, Cambridge 1902, s.v.): v. E. K. Borthwick, «Class. Quart.» 18, 1968, 44s. (che propende per il tragediografo). Sul movimento Roos, op. cit., 76–82. Filocleone si riferisce a se stesso: la figura retorica è quella dell’‘identificazione’ («mi acquatto come Frinico»), v. Ed. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, Firenze 1960, 21ss. 27 Sugli ‘sgambetti’ Roos, op. cit., 82–93. 28 C’è discordanza in mss. ed editori sull’attribuzione della battuta (a Filocleone o al servo). 29 Sul movimento, inteso come grand rond de jambe, Roos, op. cit., 93s. 30 Una utile lista in W. Christ, Metrik d. Gr. u. Röm.2, Leipzig 1879, 696, da dove risalta la genericità (notare, fra l’altro, che si alternano singolare e plurale, prima e seconda persona, imperativi e indicativi, presenti e aoristi).
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che abbia bisogno di un coordinamento. Si tratta come di parepigraphai interne al testo, volte a coordinare attori e/o coreuti nei loro movimenti, che in questo caso sono, come s’è detto, discreti e non continui. È la stessa funzione che ha il direttore e concertatore in un moderno spettacolo d’opera: qui sono singoli e precisi gesti o schemata di Filocleone distinti l’uno dall’altro, frammentati31. La sottolineatura verbale dei singoli schemata ha, in più, anche una funzione di richiamo marcato al referente, che è la danza parodica vera e propria di cui qui gli schemata sono parte, sia essa danza parodica di emméleia , di kordax, di sìkinnis o di danze comastiche. Gli schemata singoli, ovvero elementi gestuali primari di uno specifico tipo di danza, si pongono di fronte alla danza parodica vera e propria (quella che i solisti danzerebbero integralmente se fossero accompagnati dalla musica) in rapporto metonimico e cioè sintagmatico (e cioè, come parti o frazioni di danza, in qualità di sineddoche, che è una specie di metonimia): (*) DANZA PARODICA VERA E PROPRIA
FIGURE DI DANZA rapporto metonimico ovvero sintagmatico
Coll’asterisco in parentesi ho segnato quello che dalla scena è assente solo nella sua totalità e che, quindi, è virtualmente presente, in virtù della presenza di sue parti (sineddoche). Ma i commenti verbali al codice orchestico servono anche a sottolineare il rapporto dell’azione scenica con un referente di secondo grado, e cioè colle danze autentiche, di cui nel pubblico si presuppone un’ovvia conoscenza. Servono cioè anche a sottolineare la qualità comica dell’azione, e cioè proprio la sua qualità di parodia, mettendo in rilievo la distanza metaforica ovvero il rapporto paradigmatico della parodia stessa (qui in forma di figure mimate che ‘stanno per’ la danza vera e propria) versus la danza vera e propria di cui si fa la parodia (l’autentica emméleia , il vero kordax, la vera sìkinnis , la vera danza comastica):
|| 31 Per casi analoghi di didascalie ovvero indicazioni registiche interne al testo nella scena Dioniso–Caronte nelle Rane v. R. Pretagostini, «Atene e Roma» 21, 1976, 60–6. Su una utile distinzione fra didascalie necessarie e non (ricavabili o no dal testo) v. M. Vetta, «Giorn. It. Filol.» 26, 1974, 159–64, spec. 163 e nn. Le didascalie interne al testo dei tragici sono studiate nel loro insieme da Gone Capone, L’arte scenica degli attori tragici greci, Padova 1935 e da Arma Spitzbarth, Untersuchungen zur Spieltechnik der griechischen Tragödie, Zürich 1946. Il teatro comico, incomparabilmente più ricco, attende ancora uno studio esauriente in questo senso; il materiale rilevante per l’azione scenica è utilizzato da C. F. Russo, Aristofane autore di teatro, Firenze 1962.
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PARODIA (realizzata con figure)
* LE DANZE AUTENTICHE rapporto metaforico ovvero paradigmatico
Coll’asterisco ho segnato quello che dalla scena è assente e a cui metaforicamente (in absentia) ci si richiama. Nella sezione C, in trimetri, Filocleone annuncia la gara di danza, sfidando chi vuole a presentarsi. Si presentano i figli di Carcino. Non è necessario dilungarsi in notizie prosopografiche dettagliate su questi personaggi: sono costantemente presi in giro da Aristofane in qualità di danzatori e/o drammaturghi cattivi, come del resto avviene per il padre32. Quello che non è stato abbastanza messo in rilievo è che Aristofane li mette alla berlina come c a t t i v i d a n z a t o r i , che addirittura meritano che la Musa non conceda loro l’assegnazione di un coro (pax 781–95, che è proprio dell’anno dopo le Vespe, il 421 a.C.). Per prendere efficacemente in giro i Carciniti facendoli danzare veramente, Aristofane avrebbe dunque dovuto farli danzare male sulla sua scena: c’è addirittura chi pensa che nelle Vespe avrebbero danzato i Carciniti in persona33!! Niente di più assurdo di tale ipotesi, naturalmente, ma anche niente di più assurdo del far danzare male dei ballerini. Si ripropone qui un problema che ho trattato altrove: e cioè l’inferiorità nell’agone bucolico letterario di uno dei contendenti, inferiorità che deve essere affidata non ad una reale inferiorità dal punto di vista poetico–letterario di uno dei contendenti, bensì ad altri espedienti (od essere eliminata del tutto, con un pur non realistico pareggio)34: si tratta dei limiti imposti al realismo anche di opere a lor modo realistiche come la commedia antica o la poesia bucolica teocritea. Anche qui, come nel caso del danzare (mimare) di Filocleone da solo rispetto alla danza parodiata, il danzare (mimare) dei Carciniti aristofanei si pone come metafora scenica versus il danzare dei Carciniti in carne e ossa (il danzare ovvero mimare degli attori ‘sta per’ il danzare dei veri Carciniti). È a questo punto che possiamo ripetere con relativa sicurezza che la determinazione precisa del tipo di danza che si presume danzata nel finale della commedia è un problema secondario rispetto a quello che vien dato di risolvere qui a noi. Naturalmente non vorremmo disprezzare eventuali conoscenze ulteriori e più precise di quelle che abbiamo sulla danza greca in generale e sui suoi diversi tipi, ma dobbiamo con buon senso limitarne la rilevanza per la visualizzazione di più d’un passo scenico, fra cui metterei in primo piano questo delle || 32 I dati prosopografici utilmente presentati da MacDowell ad 1501 e da M. Platnauer, Aristophanes. Peace, Oxford 1964, ad 289–91. 33 È un’assurdità veramente sbalorditiva, proposta con serietà da MacDowell ad 1501. 34 «Giorn. It. Filol.» 23, 1971, 13–24.
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Vespe. Kordax comico e sìkinnis satiresca, infatti, si pongono in contrasto colla solenne emméleia tragica in un rapporto di valutazione ‘etica’ (nel senso dell’ethos musicale) fin dal quinto secolo35, ma non in contrapposizione tecnico–qualitativa: non è pensabile il far danzare kordax o sìkinnis a dei danzatori tragici per mettere in burletta la loro inabilità, anche per la buona ragione che, se mai, questi due tipi di danza dovevano richiedere agilità e virtuosismo ben maggiori di quella tragica. Lo stesso andrebbe detto per danze comastico–simposiali. E far danzare male l’emméleia in commedia sarebbe un assurdo, per quanto abbiamo detto sopra. Niente di più scenicamente efficace, invece, che antologizzare schemata singoli, eventualmente di ogni e qualsiasi tipo, esasperandone la scostumatezza e la goffaggine proprio nella forma di ‘belle statuine’ mimate. Il corifeo invita quindi il coro a farsi da parte (D: 1516s.) con due tetrametri anapestici, in cui annuncia il «piroettare» dei Carciniti36, che, a quanto apprendiamo dagli ultimi tre versi della commedia (1535–7), continua fino alla fine, e cioè fino all’uscita di tutti, ovviamente colla partecipazione di Filocleone, lo sfidante. Che l’agone come tale sia alla fine del tutto dimenticato da Aristofane ha costituito problema per qualcuno, ma non per chi sappia vedere con occhio smagato le presunte incongruenze della scena comica. Quello che a noi interessa è che l’esibizione orchestica continua ancora nella forma di d a n z a m i m a t a . Infatti nella sezione ultima (F), in asinarteti recitativi, troviamo, come nella sezione B, una serie di notazioni specifiche, che seguono passo passo i frammentati movimenti di danza (1529s.). È quanto ci aspettavamo per una sezione sicuramente recitativa, quindi sicuramente in parakatalogé e tale da escludere danza vera e propria: «volteggia» (στρόβει), «sfila in circolo» (παράβαινε κύκλῳ), «datti botte nella pancia» (γάστρισον σεαυτόν), «lancia la gamba al cielo» (ῥῖπτε σκέλος οὐράνιον), cf. 1492, «diventino trottole», e cioè «diventate trottole» (βέμβικες ἐγγενέσϑων)37.
Resta da considerare il canto corale (E). Qui non si tratta, come normalmente succede, di autoesortazioni del coro a se stesso (che di regola sono generiche, come abbiamo detto), bensì di esortazioni ad altri, e cioè agli attori. Ora, tali esortazioni sono qui sia generiche, come nella strofe
|| 35 Utili notazioni sull’ethos di varie danze e figure di danza in Roos, op. cit., pass. Per la danza mancano lavori d’insieme sull’ethos, come si hanno per la musica (Abert, Anderson). 36 Roos, op. cit., 94–105. 37 Per una illustrazione dei movimenti v. i comm. ad loc. e ancora Roos, op. cit., spec. 94–105.
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1520
«saltate» (πηδᾶτε),
sia specifiche, come nell’antistrofe 1523 «roteate velocemente il piede» (ταχὺν πόδα κυκλοσοβεῖτε), 1524s. «si sgambetti il passo di Frinico» (τò Φρυνίχειον || ἐκλακτισάτω τις).
Può sorgere il dubbio che almeno qui i solisti, accompagnati dalla musica del canto corale, danzino veramente, e solo qui il dubbio avrebbe ragion d’essere, visto che la musica piena è data dal canto spiegato del coro. Non si può escludere che i solisti stessero del tutto fermi durante il canto del coro (coro che, naturalmente, danza durante il canto). Ma, volendo ammettere che si muovevano, resterebbe da saggiare il grado di probabilità della danza vera e propria e del mimo. Ora, se danza vera e propria accompagnata da parakatalogé è un assurdo, mimo accompagnato da musica piena assurdo non è. E fra le due possibilità, musica piena più danza e musica piena più mimo, la seconda sembra certo la più probabile. Se infatti alle parole del coro dobbiamo prestare attenzione, come certamente ve la prestavano l’autore e gli spettatori, il coro è in sostanza un coro di annuncio, nonostante le notazioni specifiche: «danzate e fate le tali e tali figure, affinché gli spettatori, vedendovi, lancino gridi di ‘oh’». La proposizione finale proietta l’azione orchestica in prospettiva futura e fa capire che almeno il grosso, l’essenziale della prestazione orchestica, qualunque essa sia, è annunciata, non descritta. Se la sezione successiva (F), in asinarteti recitativi musicati in parakatalogé, ammette solo esecuzione mimica, una danza spiegata in E seguita da mimo in F sarebbe una anticlimax. Né si può obiettare che il coro si è fatto da parte per dar luogo ai solisti: il coro in realtà si sta facendo da parte (danzando), secondo l’esortazione del corifeo a 1516s. (D). Il farsi da parte ha la sua funzione perché scenicamente armonico e ben dislocato sia lo svolgimento della vera e propria exodos (F), nella quale contemporaneamente i solisti mimano e il coro marcia verso l’uscita. La soluzione più verosimile per la sezione E è che, durante il canto corale, i solisti cominciassero ad abbozzare le loro figure di danza, che si svilupperanno poi più compiutamente nella sezione finale, creando una vera climax. Solo la performance mimica dà la possibilità di g r a d u a r e l’intensità dei movimenti con una scala di sfumature estremamente ricca. Un’ultima ipotesi. Ferma restando la distinzione di resa fra il canto corale e gli asinarteti finali, si può ipotizzare una vicinanza fra le due rese maggiore del consueto grazie ad una singolare parentela ritmica. L’ode infatti è costruita con gli stessi elementi ritmici degli asinarteti finali; (enoplio–prosodiaci e itifallico), con delle variazioni che escludono la stichicità, propria invece degli asinar-
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teti finali. Ma si tratta di un’ipotesi qui non essenziale e del resto essa coinvolge un discorso storico a parte, che già in altra sede e contesto ho rimandato38. Resta una precisazione da fare. 1535 ὀρχούμενοι e 1537 όρχούμενος39 non testimoniano vera danza. Il verbo ὀρχεῖσϑαι si dovrebbe comunque prendere con valore metaforico nel senso dello spazio metaforico di cui si parlava prima fra le figure di danza e la danza vera e propria; ma si dà il caso, per di più, che ὀρχεῖσϑαι può significare anche tecnicamente ‘rappresentare con danza o pantomimo’40. A 1478 ὀρχούμενος, riferito a Filocleone nel racconto del servo, va preso invece nel senso più comune di ‘danzare’: ma il danzare di Filocleone era in quel momento una realtà extrascenica, confinata nel simposio raccontato dal servo stesso come svolgentesi all’interno della casa. Mi sembra ormai sicuro che i solisti del finale delle Vespe non danzassero, bensì mimassero. Né si obietti che mancherebbero le condizioni per il mimo moderno o pantomimo, essendovi l’accompagnamento della parola. Qui non abbiamo un’azione drammatica agita scenicamente (come nel mimo antico), bensì un’azione orchestica accompagnata semplicemente da un commento. Non è la danza mimata a commentare le parole (ovvero a interpretare un’azione scenica), bensì sono le parole a commentare una danza miniata, che in sé è autosufficiente. Prima di passare all’esame di altri passi aristofanei che hanno analoga valenza scenica, vorrei aggiungere un’ultima considerazione. È altamente improbabile che per la rappresentazione delle Vespe fossero stati ingaggiati ben quattro veri ballerini solisti. Eccezionale è già un altro fatto, che Aristofane mette in rilievo
|| 38 Nell’art. cit. (a n. 7). Fra VII e V sec., la grande epoca lirica, si assiste da una parte allo sviluppo lirico degli antichi asinarteti archilochei e dall’altra si segue (soprattutto coll’aiuto dei numerosi frammenti di Stesicoro scoperti dal 1967 a oggi) il nascere e il normalizzarsi dei dattilo–epitriti. Il nostro canto corale si potrebbe infatti anche interpretare come forma parzialmente arcaizzante — per la presenza dell’itifallico — di dattilo–epitriti. Questo non osterebbe alla somiglianza ritmica cogli asinarteti finali: la metrica del dramma è eclettica e contaminatoria, tanto da obliterare, in virtù dei contesti, la differenza ritmica originaria fra una sequenza x h w h w h x sentita come enoplio o come eventuale cellula dattilo–epitritica (D). Mi limito per ora a questi accenni. 39 Accetto la lezione di R e di Γ (–ον V), che si accorda meglio, senza peraltro condizionarla, coll’interpretazione dei due versi finali data qui oltre. 40 L.–S.–J. sub 1.2, a cui va aggiunto R. Renehan, Greek. Lexicographical Notes. A Critical Supplement to the Greek–English Lexicon of Liddell–Scott–Jones, Göttingen 1975 (Hypomnemata, H.45), 153: Athen. 10.454 f (= Soph. Amphiar. fr. 18 Steffen2 = 117 N.2); e cf. pac. 326, 329, 3 30 di cui si parlerà qui oltre.
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nei tre versi finali: «conduceteci fuori in fretta, se vi piace danzare (mimare)41: giacché nessuno mai l’ha fatto prima d’ora, di licenziare danzando (mimando) un coro comico», nel senso che qui non è il corifeo a guidare il coro all’uscita, bensì gli attori42. Ora, se si fosse trattato di veri ballerini impegnati in una vera danza, l’autore non avrebbe certo risparmiato al suo pubblico una vanteria molto esplicita per un fatto che oggettivamente si sarebbe presentato come inconsueto, anche per il notevole onere imposto alla coregia comica. Una situazione simile si presenta negli Uccelli (266–93), coll’apparizione dei quattro uccelli–comparse, dove peraltro, a differenza di quanto credono alcuni43, si dovrà ancora una volta parlare se mai di danze solo mimate e non certo eseguite: l’accompagnamento è in tetrametri trocaici (recitativi, ancora in parakatalogé, il che ancora una volta esclude danza vera e propria) ed è singolare che non ci sia nessuna notazione orchestica nel testo; i quattro uccelli–comparse sono ammirati unicamente per il loro aspetto esteriore, per il loro ricco costume, e supporre anche soltanto delle figure mimate — a stare al testo — è un di più, non una necessità. Danza vera e propria è comunque esclusa (per la recitatività dei versi) e cade così un altro gruppo di quattro ballerini solisti. Non che la d a n z a s o l i s t i c a fosse assente al tempo di Aristofane. Possiamo accennarvi qui in via di breve digressione. Una solida tradizione in tal senso esiste fin dall’epoca omerica (Il. 18, 494s., 604–6; Od. 8, 250s., 370–84). Famoso è l’episodio di Ippoclide ateniese che «danza via» (ἀπορχήσασϑαι) le
|| 41 Molti stampano εἴ τι φιλεῖτ’ isolato fra virgole e lo interpretano «per favore» («se ci volete bene»). Ma l’interpretazione giusta è quella che comprende fra virgole εἴ τι φιλεῖτ’ ὀρχούμενοι «se vi piace danzare (mimare)» (‘e approfittate quindi del fatto che il commediografo ve lo consente’, in accordo coll’interpretazione dei due versi finali data qui nel testo). Già Blaydes ad loc. portava come parallelo Plut. 645 φιλεῖς δὲ δρῶσ’ αὐτὸ σφόδρα e eccl. 502 μίσει ... ἔχουσα. Una ricca raccolta di materiali per questa costruzione (rara: L. – S. – J. s.v. φιλέω, 11.1; più frequente è l’infinito) in K. Holzinger, Aristophanes’ Plutos, Wien u. Leipzig 1940, 204s., che stranamente la rifiuta per il passo delle Vespe. 42 Questa, fra le varie che sono state proposte, mi sembra l’interpretazione più accettabile: è quella, fra gli altri, di Willems, I, 559s. (che già l’aveva sostenuta in un articolo del 1901); P. Mazon, op. cit. (a n. 17), 78; Roos, op. cit., 147–52; C. F. Russo, op. cit. (a n. 31), 198. 43 L. B. Lawler, Four Dancers in the Birds of Aristophanes, «Trans. Proc. Amer. Philol. Assoc.» 73, 1942, 58–63 cita il parere di Alfred Schlesinger che li considera come speciality dancers come i tre Carciniti; estrae poi dal testo allusioni (alcune in realtà molto forzate) per affermare che le danze eseguite sono la pirrica (266–7 3), la danza del gallo ovvero il persikòn (274–8), il kallibas (278–86) e infine la ‘danza del mangiare e dell’ingoiare’ (287–90), quest’ultima tipica dei deikelistaì. Se tutto questo è accettabile, lo è solo in forma di mimo, non di danza; ma sembra comunque improbabile. Sottoscrivo le critiche che alla Lawler fa Ed. Fraenkel, Kleine Beiträge, Roma 1964, I, 460.5 (1950).
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sue nozze colla figlia del tiranno Clistene di Sicione (Herodt. 6.129, cf. Athen. 14, 628 c = Damon. fr. 18 Lasserre) a causa della scostumatezza dei suoi movimenti. Sofocle aveva danzato diciassettenne nel 480 a.C. il peana in onore di Apollo per la vittoria di Salamina (vita 3; Athen. 1, 20 e). Di Teleste, ballerino della scena eschilea, si raccontava che danzasse così bene da poter mimare da solo l’azione di tutti i Sette contro Tebe (Athen. 1, 22 a). Intorno al 400 a.C. è da riportare la realtà descritta da Senofonte nel suo Simposio (9.2): due attori, nelle vesti di Arianna e Dioniso, mimano solisticamente gli amori dei due. Del resto il simposio era sede normale di prassi orchestica solistica: c’erano le ὀρχήσεις παροίνιοι ovvero συμποτικαί (Hug, R.E. 4 A 1, 1931, col. 1270), praticate sia da professionisti sia dai convitati (la ballerina di Ar. Thesm. 1177s. fa le prove per andare a danzare in un simposio). Nella prassi drammatica del V secolo, poi, va ricordata la danza a solo come accompagnamento orchestico di almeno alcune delle monodie del dramma. Euripide ne doveva fare un uso notevole44, come attestano per esempio Troad. 308ss. (Cassandra; v. spec. 325ss.), El. 112ss. (Elettra) e Phoen. 301ss. (Giocasta; cf. 316) colle loro chiare indicazioni orchestiche interne al testo. Per Bacch. 1168ss. sappiamo che almeno più tardi (Plut. Crass. 33) il duetto fra solista (Agaue) e coro era accompagnato dalla danza solistica di Agaue, ma la cosa è molto verosimile anche per la prima rappresentazione delle Baccanti. Le monodie di Euripide sono, come si sa, espressamente criticate (ran. 849, cf. 944) e trasparentemente parodiate (per es. ran. 1309ss.) da Aristofane, che ne fa poi lui stesso grande uso (per es. nel finale di Lys., 1247ss., se si deve ammettere canto a solo: si tratta di diple o dipodiasmos, cf. 1243; e v. le altre numerose notazioni orchestiche, come 1277, 1292, 1304, 1307, 1310, 1312s., 1316– 18; o in Plut. 290ss., v. spec. 291, 302). Specialmente nel caso del Pluto è evidente l’aspetto mimetico o imitativo–figurativo della danza solistica (il Ciclope). La danza solistica va quindi accettata in pieno: per la documentazione offerta qui sopra si potrà solo discutere del maggiore o minor grado di professionalità. Quello che io qui rifiuto è solo la compresenza di più d’un ballerino solista, e addirittura di quattro, come succederebbe nelle Vespe e negli Uccelli45.
|| 44 Christ, Metrik2, 697; Roos, op. cit., 116.3, 155.3. 45 La danza solistica si diffonderà poi particolarmente in epoca ellenistica, a cominciare già da Menandro. Il fenomeno è in rapporto colla diffusione sempre maggiore della monodia. Canto solistico (che utilizza anche sezioni originariamente recitate), uso dell’antologia drammatica e contaminazione sono acutamente messe in rapporto reciproco da B. Gentili, Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico, Bari 1977, 1–60.
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Conferma della soluzione scenico–orchestica qui proposta per le Vespe ci viene da altri passi aristofanei: figure mimate di danza sono presenti in altri luoghi dove i critici avevano incautamente supposto come ovvia una vera e propria danza. Nella parodos prima della Pace il coro entra in scena in tetrametri trocaici catalettici (301ss.), nei quali il corifeo si fa portavoce della gioia del popolo per la prospettiva della pace (296–8); s’instaura un duetto Trigeo–corifeo (309ss.), nel quale il primo esorta dapprima al silenzio per non svegliare Polemos e Cleone; e a poco a poco, come si evince dalle battute, il coro, trascinato dal suo odio nei confronti di Cleone, mima movimenti di danza mentre Trigeo supplica di smetterla: 323 τὰ σχήματα, come nelle Vespe, 324 σχηματίζειν, che vale ‘assumere una certa posizione’ (cf. Luc. salt. 17), 325 αὐτὼ τὼ σκέλει χορεύετον, 328 ἓv ... τουτὶ ... ἑλκύσαι [e cioè σχῆμα], 332 τὸ σκέλος ῥίψαντες ... τὸ δεξιόν, 334 καὶ τἀριστερόν.
Anche qui, per le considerazioni fatte prima, non ostano le voci di ὀρχεῖσϑαι a 326, 329, 330. In questo passo le indicazioni orchestiche sono, se possibile, ancora più precise e indicano una frammentazione, un rallentando ancora più evidente. Che poi anche 335 «gioisco e godo e spetezzo e rido» fosse figurato è più che probabile. L’unica differenza colle Vespe è che qui a mimare è un intero coro; e il mimo è confermato al di là di ogni dubbio dalla recitatività dei versi, dalla frammentazione dell’azione orchestica (Trigeo li prega, dicono che smetteranno, non smettono ecc.), minutamente accompagnata dal commento verbale del testo. Nelle Ecclesianti, subito prima del canto finale della exodos, il corifeo, in tetrametri trocaici catalettici, esorta Blepiro a «danzare alla maniera cretica anche lui» (1165s.); «È quello che sto facendo», risponde Blepiro, e lo «sta facendo» proprio durante i tetrametri! Segue, sempre in tetrametri, un’esortazione, purtroppo corrotta, in cui comunque si legge di «gambe» e «ritmo» delle «agili donne» del coro. A questo segue l’indemoniato finale lirico. Anche in questo passo si tratta di mimo, dunque, per la recitatività dei versi. Solo, l’effetto drammatico–orchestico dell’insieme (tetrametri seguiti da ode lirica) è a sua volta di nuovo differente, avendosi una danza vera e propria (finale lirico) preparata da alcune battute di mimo figurato (i tetrametri). In altri casi si ha danza fortemente figurata, e quindi figure di mimo, durante un canto lirico (come abbiamo dato per possibile nella sezione E delle Vespe): un esempio in Lys. (dal primo stasimo) 797ss. = 821ss. A stare ai sigla della tradizione manoscritta si tratta di coreuti singoli presi dal semicoro delle
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vecchie e da quello dei vecchi che, in perfetta responsione antistrofica, fanno dei gesti figurati: 797 βούλομαί σε, γραῦ, κύσαι ... 799 κἀνατείνας λακτίσαι
che si rispondono rispettivamente con 821 τὴν γνάϑον βούλει ϑένω; ... 823 ἀλλά κρούσω τῷ σκέλει.
Sottolineo la perfetta responsione antistrofica fra i due movimenti fortemente figurati (797, str., «baciare» e 821, antistr., «spaccare la mascella») e i due movimenti mimati di danza (799, str., «stendere la gamba e sgambettare scalciando» e 823, antistr., «colpire colle gambe»). A leggere a fondo la commedia antica in questa luce c’è sicuramente da accrescere il numero dei casi simili. Abbiamo potuto così individuare in Aristofane manifestazioni di performance mimica coll’aiuto di tre fattori: 1) la facies metrica, che ci ha permesso di ricostruire il tipo di musica su cui il fatto orchestico si imperniava; 2) il testo, che ci ha fornito indicazioni registiche interne; e infine 3) l’azione drammatica, che ci ha guidati alle soluzioni sceniche più probabili. Questi risultati si accordano perfettamente colla tesi di chi, giustamente, ha sostenuto che il p a n t o m i m o non è in sé ‘invenzione’ romana, ma che esso ha, più che una preistoria, una vera e propria storia che comincia in Grecia46. Abbiamo già detto come esso sia in sostanza quello che è per noi il mimo moderno. Come definizione può valere la seguente: «rappresentazione di sentimenti, caratteristiche psicologiche e azioni attraverso movimenti ritmici del corpo o di parti del corpo»47. È noto che alla invenzione del pantomimo gli antichi assegnavano una data precisa: nel 22 a.C. Pilade di Cilicia, liberto di Augusto, e Batillo di Alessandria,
|| 46 Sul pantomimo la letteratura è relativamente abbondante. Ricordo qui L. Friedlaender — G. Wissowa, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, II10, Leipzig 1922, 125–34; G. J. Theocharidis, Beiträge zur Geschichte des byzantinischen Profantheaters im 4. u. s. Jbdt., Diss. München 1940; O. Weinreich, Epigramm und Pantomimus, Heidelberg 1948; E. Wüst, Pantomimus, in R.E. 18.3 (1949), coll. 833–69; V. Rotolo, Il pantomimo. Studi e testi, Palermo 1957; M. Kokolakis, Pantomimus and the Treatise Περì ὀρχήσεως (De saltatione), «Platon» 11, 1959, 3–56; K. Vretska, Pantomimos, in Der Kleine Pauly 4 (1972), coll. 478–81. Sulle due correnti (l’una che dà fede alla testimonianza antica della novità, e l’altra che gliela nega) informano bene Wüst e Weinreich. 47 Wüst, cit. (a n. preced.), 833.
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liberto e favorito di Mecenate, avrebbero dato a Roma degli spettacoli48. La tecnica era molto semplice49: dopo un preludio orchestrale (vari strumenti, fra cui auli, lire, cimbali e timpani), entrava in scena un praeco che illustrava l’azione, per lo più presa dal repertorio drammatico; quest’azione veniva poi mimata, senza parole, dal ballerino di pantomimo. Le testimonianze antiche sono concordi nel mettere l’accento sia sulla n o v i t à dello spettacolo sia sull’enorme s u c c e s s o che esso otteneva presso i pubblici. Quanto al successo, non abbiamo ragione di metterlo in dubbio: Pilade, Batillo, il cario Ila (allievo di Pilade), Paride (messo a morte da Nerone) e personaggi più o meno identificabili fino al tardo impero e ancora in piena Bisanzio, sono attori che attraverso la loro arte accumulano e ricchezze favolose e anche un singolare potere personale. Tale è il successo del pantomimo, che tutta la letteratura storico–teorica sulla danza, a noi documentata dal II sec. d.C., ruota praticamente attorno ad esso: così è per il Περὶ ὀρχήσεως di Luciano (forse derivato dal trattato dello stesso Pilade), così per l’opera di Elio Aristide (non conservata), a cui risponde in difesa della danza l’orazione di Libanio (IV sec.) Περὶ τῶν ὀρχηστῶν fino alla ‘Difesa dei mimi’ di Coricio (VI sec.). La n o v i t à è invece una valutazione che va decodificata con cura: presa a valore facciale, essa è semplicemente falsa. Delle testimonianze che abbiamo passato in veloce rassegna sulla danza solistica in Grecia, certo le più interessanti sono quella di Ateneo su Teleste attore di Eschilo che mima i Sette e quella del Simposio di Senofonte (Arianna e Dioniso). Ma non è lecito trascurare la ricca evidenza offerta, per esempio, dalla danza cultuale, solistica e non, fin da epoca arcaica, danza fortemente marcata in senso pantomimico. Alle Antesterie ateniesi diversi danzatori danzano come Ore, come Ninfe e come Baccanti; alle Targelie viene mimata un’azione che ha a che fare coi pharmakoi; a Delo la danza detta géranos è rappresentazione del ritorno di Teseo da Creta; e così via. Senza contare le numerose danze che prendono nome da animali, come quelle dette alopex, glaux, leon ecc. Andrebbe poi rivista tutta la questione dell’iporchema, che è definito in Ateneo (1, 15 d) «una mimesis delle azioni espresse dalla parola»50. Se avessimo modo di passare in rassegna qui le testimonianze, in gran parte raccolte da Wüst e da Weinreich51, ci renderemmo conto del fatto che la loro stessa abbondanza fa annegare le te-
|| 48 Wüst, cit., 846: Suetonio, Ateneo, S. Girolamo. 49 Utile è il vivace articolo della Lawler, Portrait of a Dancer, «Class. Journ.» 41, 1946, 241–7, spec. 242s. 50 V. recentemente M. Di Marco, Osservazioni sull’iporchema, «Helikon» 13–14, 1973–74, 326– 48. 51 Wüst, cit., spec. 835–7; Weinreich, op. cit. (a n. 46), 123ss.
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stimonianze aristofanee da noi messe a fuoco; queste ultime, più che portare una conferma, di cui non c’era nessun bisogno, sono piuttosto a loro volta confortate da un contesto che compattamente le appoggia. C’è solo da specificare che esse ci documentano una prassi precisamente della scena comica alla quale finora non si era prestata la dovuta attenzione. Se nel mondo greco in generale tale prassi, sicuramente ancora più diffusa di quanto ci facciano intravvedere le testimonianze, è stata ricoperta da un prevalente silenzio in chi avrebbe invece potuto parlarne espressamente e magari teorizzarla, questo sarà dipeso dal fatto che era considerata un genus inferius. Per gli immediati precedenti romani del pantomimo, poi, basterà ricordare qui il nome di Plauto52. Resta da spiegarsi allora perchè mai il pantomimo, a Roma e dal 22 a.C., veniva considerato una novità, un inedito da mettere in così forte rilievo. A spiegarci tale valutazione non sono sufficienti certi aspetti esteriori dello spettacolo, come l’orchestra invece dell’antico accompagnamento solistico dell’aulo, l’assoluto protagonismo e virtuosismo del ballerino o che altro si voglia. La via da seguire è piuttosto un’altra. Naturalmente non è da escludere un periodo di eclissi della pratica di manifestazioni pantomimiche. Ma c’è di più. Tempo fa ho cercato di spiegarmi la fortuna (e la decadenza) del dramma satiresco attico attraverso la f u n z i o n e che esso presumibilmente aveva, e che poi perse, nel quadro degli spettacoli drammatici ad Atene nel V secolo (il sollievo degli spettatori dopo gli orrori della tragedia)53. Analogamente dovremo vedere il pantomimo romano iscritto in un contesto, in un sistema teatrale ben diverso da quello in cui si iscrivevano le manifestazioni mimiche di un Aristofane: un sistema in cui la tragedia e la commedia erano assenti, almeno per il grosso pubblico. Si ricordi che parlo del primo secolo a.C. Il pubblico, per i mutamenti del costume, aveva ormai un gusto ben diverso, e questo sia a Roma sia nelle provincie, Grecia compresa. Il pantomimo acquistava così, per la prima volta, un ruolo centrale in tale sistema, percorso com’esso era da fermenti sempre crescenti di spettacolarità. In questo senso, proprio in rapporto colla sua immensa fortuna che lo fa emergere su quasi tutte le altre forme di spettacolo, si può parlare di una sua funzione nuova, ingigantita e assolutamente ‘portante’ rispetto al passato. E in
|| 52 Si può rimandare a Ed. Fraenkel, Elem. plautini, cit. (a n. 26), 348.1 e Addenda, 439; G. Wille, Musica Romana, Amsterdam 1967, 175–8 (178–87 su mimo e pantomimo romani). Sugli aspetti spettacolari del teatro romano arcaico, erede in questo della prassi scenica ellenistica, v. ancora Gentili, op. cit. (a n. 45). 53 L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «Dialoghi di Archeologia» 6, 1972, 248–302.
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questo senso, ma in questo soltanto, anche noi possiamo dire che il pantomimo, a Roma e dal 22 a.C. in poi, è uno spettacolo veramente nuovo54.
APPENDICE Sul dorismo di vesp. 1489 Se il mio assunto che la sezione anapestica 1482–95 (B) sia recitativa è giusto, il dorismo ἀχεῖ del v. 1489 presenta un problema. Si sa infatti che le sezioni in dimetri e monometri anapestici possono essere sia liriche sia recitative: i dorismi tendono a presentarsi solo nelle prime, non nelle seconde. I modi per risolvere il nostro problema sono due: o sbarazzarsi del dorismo tout court con un intervento testuale o annullare la rilevanza del dorismo stesso, dichiarandolo inorganico. 1. La soluzione di eliminare il dorismo sarebbe la più semplice e sbrigativa. Verrebbe di pensare che una forma dorica sia difficilior rispetto a quella attica corrispondente (ἠχεῖ) e che quindi abbia ogni diritto a restare nel nostro testo. Ma in realtà ci troviamo di fronte a casi in cui l’impostazione metodologica si può esattamente rovesciare: il dorismo può essere in realtà facilior. Uno scriba, antico o medievale che sia, può benissimo venire influenzato dalla dizione ‘alta’ della tragedia (‘alta’ in senso di non–attica) e può essere portato a inserire più o meno coscientemente suo Marte delle forme non–attiche al posto di forme attiche. Si veda il materiale portato da J. Jackson, Marginalia Scaenica, Oxford 1955, 27s. a proposito di forme epiche e ioniche in tragedia che possono essere state introdotte al posto delle corrispondenti forme attiche. Per di più nel nostro caso si tratterebbe di anapesti, che si staccano sia ritmicamente sia come genere poetico dal dialogo e che spesso hanno forme doriche a pieno diritto, nei numerosi casi in cui si tratta di anapesti lirici. L’eliminazione della forma dorica sarebbe allora espediente chirurgico in sé lecito, ma troppo rischioso, in vista della sottile ambiguità della casistica. Meglio lasciare il testo come ce lo danno i manoscritti e tentare la seconda via. 2. La seconda via dà risultati più attendibili. I dorismi della lingua dei tragici e dei comici vanno distinti in organici e inorganici. I dorismi o r g a n i c i || 54 Questo lavoro è stato letto a Firenze il 7–12–1976 nell’ambito dei ‘Colloqui di Filologia classica’ organizzati da Adelmo Barigazzi. Nel dicembre–gennaio 1976–77 è stato anche discusso cogli amici del seminario romano. Nel marzo 1977 ha costituito materia di seminario presso la scuola di perfezionamento per gli studi sul dramma antico a Siracusa. Per i contributi che ho ricevuti esprimo qui il mio cordiale grazie. [Fu letto inoltre al Birkbeck College di London il 10.12.1979, ore 16. – G. C.]
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sono quelli che si presentano come parte integrante dell’impasto linguistico adottato per ogni singola sezione compositiva: così sono quasi sempre quelli delle parti liriche. I n o r g a n i c i sono invece quelli che sono presenti in grazia di una loro autonoma virtù evocativa, come nel caso di citazioni, allusioni o parodie (siano esse generiche o specifiche), e possono capitare quindi sia in sezioni liriche sia in sezioni recitative. V. una corretta valutazione di dorismi in lyricis in R. Pretagostini, art. cit. (a n. 11), 196 a proposito di ran. 1332ss. (parodia tragica, e quindi dorismi «di secondo grado»: non «lirici tout court», bensì «lirico–tragici»); e, per casi di dorismi in anapesti recitativi, ibid. 199s., 205s. a proposito rispettivamente di vesp. 751 (citazioni euripidee) e Thesm. 58 (parodia tragica). È chiaro che simili problemi di valutazione si presentano proprio in commedia, dove lo spazio metaforico dell’allusione e della parodia, provocato da frequenti mutamenti di registro, è ben più ampio che in tragedia (dove esso in realtà si avvicina allo zero, in questo campo). In tutto il passo si deve sentire semplice parodia di alto linguaggio tragico. Che Filocleone parli alto è chiaro del resto già da 1482 τíς ἐπ’ αὐλείοισι ϑύραις ϑάσσει; e 1484 κλῇϑρα χαλάσϑω τάδε (su questo tipo di espressioni v. W.S. Barrett, Euripides Hippolytos, Oxford 1964, ad 808–10). Già lo scoliasta ad 1482 commentava παρατραγικεύεται, ed è la stessa soluzione che propongono Blaydes ad 1482–92 (paratragoedia alicuius loci) e P. Rau, Paratragodia, München 1967, 155–7 sulla base di numerosi casi di paratragedia presenti in tutto il passo. La commedia si compiace spesso di tragicismi generici: a voler specificare maggiormente, il nome che verrebbe spontaneo sarebbe quello di Carcino, ma occorre tener presenti i limiti della nostra documentazione. Per concludere: un dorismo non necessariamente ‘fa lirico’, e tanto meno nel caso di vesp. 1489. Più forte di tutto è il risultato dell’esame del testo, che ci fa intravvedere le frammentate figure di mimo che abbiamo messe in rilievo e che, come s’è detto, confermano l’accompagnamento in parakatalogé e la recitatività della sezione anapestica (B).
Una tragedia contro l’umanesimo: le Baccanti di Euripide Sono debitore di una parola di spiegazione per il titolo di questa chiacchierata, e non tanto allo scopo di eliminare il disagio che in alcuni avrà provocato, ma piuttosto per precisare i termini di questo disagio. Sembra infatti che io voglia scatenare le Baccanti contro i rispettabili, anzi sacri ideali della civiltà cosiddetta classica. Ebbene, vediamo in che misura questo è vero. Bisogna partire da una definizione di umanesimo. Nel quattrocento in Italia si andavano riscoprendo le opere degli antichi, greci e romani, sia le opere di letteratura (comprendendo naturalmente la filosofia e la scienza) sia quelle di architettura, di scultura etc. Tutto apparve così meraviglioso, che si misero in moto due processi mentali: da una parte si cercò di ricostruire il mondo greco– romano come una manifestazione quanto mai perfetta di umanità, e dall’altra si fece di questo mondo ricostruito un modello per i comportamenti del presente. Si cercava di dare in questo modo un corpo concreto all’immaginario e di soddisfare il bisogno di realizzarsi umanamente nel modo più completo con la rassicurante costruzione di un modello storicamente già realizzatosi, per la precisione, dai duemila ai millecinquecento anni prima. Questo è il momento storico che viene chiamato primo umanesimo. Ma di momenti che hanno idealizzato il mondo greco e latino ce ne sono stati altri, almeno due: il secondo umanesimo, o umanesimo tedesco della fine del settecento, con Winckelmann e la sua apologia dell’antico come ‘nobile semplicità e tranquilla grandezza’ (Winckelmann, che era archeologo, partiva dalle antiche statue e altri estesero le sue categorie alle opere letterarie); e il terzo umanesimo di Werner Jaeger, un tedesco rifugiatosi in America all’avvento del nazismo, che nel 1934 cominciò a pubblicare la sua opera Paideia, che fece epoca: Jaeger vedeva il mondo greco riassunto nell’ideale della formazione, dell’educazione alla virtù, della paideia appunto. Il mondo greco e quello latino hanno di volta in volta diversa funzione in questi procedimenti ricorrenti. Il primo umanesimo è greco e latino, il secondo e il terzo sono esclusivamente greci. Ma di momenti umanistici ce ne sono stati
|| [Conferenza (vd. alla fine del saggio) pubblicata in Ginnasio–Liceo statale «Dante Alighieri» Anagni: Celebrazione del primo decennale della sua istituzione (1972–1982), Roma, Stabilimento Tipo–Litografico Vittorio Ferri, 1982, pp. 76–86]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-038
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altri: pensiamo alla idealizzazione politica del mondo romano nella rivoluzione americana e, subito dopo, nella rivoluzione francese, due momenti umanistici, appunto, prevalentemente latini. Da questo breve elenco si può vedere che i momenti umanistici o idealizzanti sono stati parecchi e, con quelli che per brevità ora taccio, sono stati tanti da farci pensare che forse l’atteggiamento umanistico o idealizzante è un bisogno costante dell’uomo, che cerca modelli e, quando non li trova sotto gli occhi, se li costruisce. Quante volte anche noi ci siamo proposti dei modelli di vita quando ci siamo sentiti individui e dei modelli di civiltà quando ci siamo sentiti parte di una collettività. Così, se scopriremo che questo procedimento è sbagliato, non ci spaventa troppo, perché sappiamo che è un pericolo nel quale possiamo cadere. Ci sono caduti tanti prima di noi! Ma almeno saremo capaci di vedere di che natura è la trappola. Perché questo procedimento è sbagliato? Per due ragioni fondamentali: perché fa torto alla storia e perché fa torto a noi come uomini viventi oggi. Fa torto alla storia perché l’immagine del mondo greco e/o romano che ci ha delineato l’umanesimo italiano (il primo), quello di Winckelmann (il secondo) e tutti gli altri umanesimi, che sceglievano e generalizzavano un aspetto bello e positivo del mondo antico (come la paideia di Jaeger), questa immagine — dicevo — è troppo bella per essere vera: e infatti non è vera. In quelle due civiltà ci sono anche cose che alla nostra sensibilità sembrano brutte, anzi orribili: il mito greco è pieno di parricidi, di incesti, di tradimenti e la tragedia li rappresenta sulla scena; la politica dei romani è opera di personaggi senza scrupoli, se sappiamo leggere con occhi disincantati Livio, Cicerone, Sallustio e Tacito al di là delle loro retoriche difese d’ufficio del partito al quale appartenevano; a non dire del tranquillo dominio sui mari dell’Atene di Pericle, che è invece l’accanito imperialismo di una città favorita dalla posizione geografica. Ecco che possiamo in qualche modo smontare il procedimento umanistico: la civiltà greca e quella romana si presentano così belle e splendenti (perché di cose belle ne hanno, non c’è dubbio) che, più o meno coscientemente, si tende ad eliminare o ad attenuare gli elementi oscuri, così da vedere un quadro tutto luce. Non è, questo, un far torto alla storia? E c’è un altro tradimento della storia, un po’ più sottile ma non meno reale: alcuni momenti umanistici hanno voluto vedere nel mondo greco e in quello latino un’unità che non c’è: i romani sono romani, non sono greci, e, se hanno assimilato tante cose dei greci, non hanno perso per questo la loro individualità; ecco che è illecito parlare di mondo ‘classico’ abbracciando Grecia e Roma insieme (e classico vuol dire proprio paradigmatico, ideale, bello e quindi esemplare: sarebbe utile aver tempo di far la storia della parola). Ma dirò di più: è illecito addirittura parlare di mondo greco e di mondo latino singo-
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larmente come di due sole unità di cultura. Pensiamo al mondo omerico, alla civiltà arcaica, a quella del V secolo ad Atene; pensiamo al V secolo ad Atene e al V secolo a Sparta; e rendiamoci conto di quante sono le differenze fra questi diversi momenti e questi diversi luoghi nell’ambito del mondo greco. Ma in fondo l’umanesimo è stato a suo modo onesto: ha infatti idealizzato dei momenti particolari, l’Atene del V sec. e la Roma ora dell’età repubblicana ora dell’età augustea, ignorando l’equivoco che faceva di questi singoli momenti i rappresentanti della grecità e della romanità in generale. Il secondo torto è fatto a noi come uomini viventi oggi. Se il primo torto si può chiamare storico, questo secondo è un torto antropologico. Noi oggi, come pure l’uomo del Quattrocento o quello del Settecento, non possiamo prendere a modello totale della nostra vita la civiltà ateniese del V sec. o quella romana intorno alla nascita di Cristo: siamo diversi per tante ragioni, perché abbiamo scoperto l’America, perché abbiamo inventato la stampa, perché abbiamo oggi le comunicazioni di massa, perché la nostra cultura è permeata di cristianesimo e per tante ragioni ancora. Siamo, insomma, profondamente diversi da allora, perché la nostra cultura si è trasformata anche a contatto con culture che sono diverse da quelle greca e romana. E qui entra in campo l’antropologia, e cioè la scienza che studia le varie culture dell’umanità nelle loro costanti e nelle loro differenze. La conoscenza e lo studio delle culture più varie ha fatto grandi progressi dal rinascimento ad oggi, specie a cominciare dal Settecento (i grandi viaggi di scoperta e di esplorazione); l’Europa, con la colonizzazione e le missioni, ha distrutto tante culture negli altri quattro continenti, e da queste rovine è emersa almeno una certa conoscenza del fatto che l’umanità può vivere in modi diversi coltivando valori diversi. Un esempio banale. Se suona molto spesso il telefono in casa mia, questo vuol dire che ho molti amici e molti conoscenti, che sono una persona simpatica o che sono una persona importante che tutti cercano perché ne hanno bisogno; se questo succede in una casa inglese, vuol dire soltanto che io ho molti amici molto maleducati, che non sanno rispettare la mia sfera del privato (in Inghilterra, dove la posta funziona meglio, la comunicazione fra amici o conoscenti si realizza soprattutto per posta, anche nella stessa città, il telefono serve per casi eccezionali). Questo per render chiaro che le diverse concezioni della vita si manifestano anche nelle occasioni più minute. Chi denunciò con più forza di altri il torto storico dell’umanesimo fu Nietzsche nel 1871 col suo importantissimo libro La nascita della tragedia. Quello che Nietzsche dice è in sintesi quanto segue. La civiltà greca non è monocorde come alcuni pensano: il versante della serenità e della bellezza non è l’unico. Nietzsche lo fissa nella figura del dio Apollo e lo contrappone all’aspetto dionisiaco, allo scatenamento dell’irrazionale, degli istinti primordiali. Il razionalismo, che
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entra in forze nella cultura greca nella seconda metà del V sec. (pensiamo ai sofisti), uccide il dionisiaco e in certo senso dimezza la cultura greca: le figure emblematiche di questo impoverimento sarebbero Socrate ed Euripide. La vera forza della cultura greca si manifesterebbe nella tragedia arcaica, nata, come dice il titolo stesso del libro, dallo spirito della musica. A parte alcuni errori storici e filologici, che gli furono rimproverati aspramente da Wilamowitz e da altri, in quella che fu la più famosa disputa nel campo degli studi sull’antichità classica; a parte alcune valutazioni discutibili, come (e lo vedremo) l’accusa di razionalismo ad Euripide; a parte la discutibilità dell’assunzione della figura di Apollo come simbolo della serenità greca (pensiamo all’Apollo del 1° libro dell’Iliade, che manda la peste agli Achei; e anche Dioniso è un dio polivalente: è dio del vino e della serenità, ma è anche legato al mondo sotterraneo e alla morte); a parte tutto, dicevo, dobbiamo essere grati a Nietzsche per aver formulato con tanto vigore questo dualismo fra ragione e istinto, che emerge così chiaramente in tutte le espressioni della cultura greca, in tutti i momenti della sua differenziata realizzazione storica. Noi sappiamo bene, soprattutto dopo l’esperienza della psicanalisi, che questi due aspetti sono sempre presenti nell’uomo: quello che conta è che i greci espressero esplicitamente questo dualismo nei prodotti della loro cultura. Tutti possiamo imboscare aspetti vari della nostra esperienza: i greci non lo fecero. E pensiamo del resto alla religione cristiana, che ingloba il peccato nel grande progetto della redenzione e che rivaluta «la notte oscura dell’anima», come dice il mistico spagnolo S. Giovanni della Croce, in quanto prova mandata da Dio. Come esempio della distanza dei greci dall’ideale umanistico di misura e di equilibrio spontaneo e perenne ho scelto le Baccanti di Euripide, e vedremo che si tratta di un esempio molto efficace. Euripide nel 408 a. C., ancora in piena guerra del Peloponneso, si trasferisce in Macedonia alla corte del re Archelao e circa un anno e mezzo dopo muore (407–6) senza tornare ad Atene. Nel 405 si rappresentano, postume, le Baccanti ad Atene. È l’ultima sua opera conservata, insieme con l’Ifigenia in Aulide. Esponiamone l’intreccio. Sulla scena compare il dio Dioniso in forma umana travestito da sacerdote del dio, con aspetto giovanile e capelli lunghi. Dice agli spettatori di essere Dioniso in persona e di voler introdurre il suo culto in Grecia cominciando da Tebe, dopo aver diffuso il suo culto stesso in Lidia, in Frigia e nel resto dell’Asia minore in Persia, in Battriana, in Media, in Arabia, in tutto l’oriente, insomma. Comincia da Tebe perché di Tebe era sua madre, Semele, figlia di Cadmo, il re fenicio che era venuto in Grecia portando le lettere dell’alfabeto fenicio, l’alfabeto che divenne quello greco e poi, importato dai latini attraverso Cuma, il nostro. Zeus si era innamorato di questa donna mortale e, quando la gelosa moglie Era si accorse che la rivale aspettava un figlio da suo marito, convinse la povera Semele a chiedere al suo amante Zeus di mostrarsi a lei in tutto il suo splendore: Semele così fece e rimase ince-
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nerita dallo splendore di Zeus, e questi allora estrasse il feto e se lo chiuse in una coscia fino al compimento del tempo. Dioniso fu poi allevato dalle ‘nutrici di Dioniso’, che compaiono anche nell’Iliade, in una grotta del monte Ida a Creta. Subito dopo entra nell’orchestra il coro, quindici attori travestiti da baccanti o menadi orientali, che cantano con ispirazione e devozione le glorie del loro dio: beato chi è iniziato al rito dionisiaco «che purifica» (v. 77), e questo è come l’enunciazione del dogma religioso; poi passa a raccontare la nascita del dio e infine espone il rito dei baccanali orgiastici: la fuga sui monti ovvero nella natura selvaggia (che non aveva per gli antichi il fascino ecologico che ha dall’ottocento in poi per noi), fuga detta oreibasìa; la caccia agli animali selvaggi e il loro sbranamento (sparagmòs) e infine il divorar le carni crude (omophagia). C’è qui, oltre a questo aspetto terribile e orrificante, anche l’aspetto serenante del rito, e anche il confortante miracolo dello zampillare dalla terra e dalle rocce di acqua, vino, latte e miele. Se sulla religione dionisiaca avessimo solo questo coro, ne sapremmo già abbastanza. La partecipazione mistica ed estatica delle donne del coro è tanto intensa, da non farci dubitare minimamente che sia sincera, ovvero data dal drammaturgo come sincera. Nel primo episodio entrano in scena Tiresia, il vecchio e cieco indovino di stato, e Cadmo, il vecchio re che ha ceduto il potere a Penteo, figlio di sua figlia Agaue. Agaue era sorella di Semele, così che Penteo era cugino di Dioniso (ma nella tragedia questo non è mai detto). Tiresia esorta Cadmo alla religione dionisiaca, ma Cadmo si mostra già pronto e disposto (180). È importante ricordare qui quello che Tiresia stesso dice (306ss., cf. 328s.), e cioè che Dioniso è venerato anche nel santuario di Delfi, sede tradizionale di Apollo, e Tiresia è il sacerdote di Apollo, come Crise nell’Iliade. Un filone della tradizione mitico– religiosa affermava addirittura che Dioniso fosse a Delfi più antico di Apollo. Questo è un tipico anacronismo della tragedia attica: Dioniso viene dato sempre come un dio nuovo, la cui religione si sta or ora introducendo in Grecia, il che era così nel tempo mitico, e invece nella tragedia ci sono accenni alla situazione contemporanea, al V sec.: un salto di alcune centinaia di anni. Entra poi Penteo, il re preoccupato del fatto che molte donne di Tebe, fra cui la madre e le zie, Agaue, Ino ed Autonoe, stanno celebrando i baccanali sul Citerone, il monte che domina Tebe: ha sentito che uno straniero (che è poi Dioniso stesso) le ha spinte a questa follia, perniciosa per l’ordine pubblico. Insulta i due vecchi, che si renderebbero ridicoli a voler partecipare al culto dionisiaco, disonorando e ridicolizzando così la loro vecchiezza. Alcuni studiosi hanno voluto vedere qui una ridicolizzazione dei due vecchi da parte di Euripide stesso, ma non è così: c’è un coro di iniziati ai misteri dionisiaci nelle Rane di Aristofane (324ss.) in cui i vecchi sono gioiosamente mescolati ai giovani nella celebrazione del rito. A vederli ridicoli e ad insultarli è solo Penteo come personaggio. Nel canto corale che segue, il primo stasimo, il coro celebra la pietà verso gli dei, la pietà verso Dioniso e ne canta la forza rasserenante attraverso il vino e la danza (il primo coro, la parodo, aveva cantato invece gli aspetti orgiastici e irrazionali). E questa è la reazione all’empietà di Penteo che vuole empiamente combattere il dio. Nel secondo episodio un soldato di Penteo porta davanti al suo re Dioniso prigioniero, sempre in incognito. In un serrato dialogo Penteo insulta Dioniso e i riti dionisiaci e lo fa imprigionare; Dioniso risponde con serena ironia che saprà ben liberarsi.
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Nel secondo stasimo il coro inveisce contro Penteo ed esorta Dioniso a punirlo. Nel terzo episodio Dioniso, invisibile, chiama a gran voce il coro annunciando la sua liberazione miracolosa; e compare poi, sempre in incognito, a spiegare la causa di un gran tuono che si è appena sentito sulla scena: Dioniso ha fatto sorgere un fuoco sulla tomba della madre Semele e ha fatto crollare il palazzo di Penteo. Entra subito Penteo furioso, vede lo straniero di nuovo libero, la sua ira aumenta, ma entra subito un bovaro che riferisce di aver visto le baccanti sul monte nell’atto di realizzare il miracolo dell’acqua, del vino, del latte e del miele; poi, quando uno venuto dalla città (con ordini del re) esorta i contadini a catturare le donne e Agaue che le guida, cercano di catturarle, ma queste si danno allo sparagmòs e alla omophagὶa sbranando e divorando carni di vitella, di bue, di toro, devastando tutto e strappando i bambini dalle case, invulnerabili ai colpi delle armi e capaci di ferire gli uomini con il tirso. Il bovaro conclude chiedendo rispetto al dio. Penteo, invece, programma una dura lotta contro le baccanti. Dioniso, che è sempre in scena, cerca di calmarlo e di persuaderlo. Questa è, dal punto di vista drammatico, la scena chiave della tragedia, l’inizio della catastrofe, parola tecnica usata da Aristotele nella Poetica che significa ‘rivolgimento dell’azione’. Infatti il dio, che fino a questo momento aveva cercato di persuadere Penteo, lancia un grido (810) che in greco è rappresentato da un ‘Ah!’ (in italiano sarebbe meglio renderlo con ‘Basta!’) e da quel momento in poi si propone soltanto di portare Penteo alla rovina. Gli suggerisce di andare di persona a vedere le baccanti sul monte. Leggiamo questa scena (vv. 800–841), cominciando prima del grido di Dioniso. La bella traduzione è quella, recentissima, di Vincenzo Di Benedetto e di Agostino Lombardo.
PENTEO – Con che straniero impossibile ci siamo immischiati; non tace quando perde e non tace quando vince. DIONISO – O caro, queste cose possiamo ancora sistemarle. P. – In che modo? Dovrò fare il servo delle mie serve? D. – Senza usare le armi porterò qui le donne. P. – Ah! Costui prepara l’inganno contro di me! D. – Ma quale inganno, se ti voglio salvare, con le mie arti? P. – Vi siete messi d’accordo per compiere i vostri riti. D. – Sì, è vero, mi sono messo d’accordo: col dio. P. – Portatemi le armi. Ti ordino di tacere. D. – Ah! (meglio: «Basta!»). Le vuoi vedere riunite sulle montagne?
P. – Sì, e pagherei un immenso peso d’oro. D. – Perché sei caduto in un desiderio così forte? P. – Certo, mi dispiacerebbe se le vedessi ubriache. D. – Ma godresti nel vedere ciò che ti dispiace. P. – Sì, ma in segreto, seduto sotto un abete. D. – Ma ti rintracceranno, anche se ci andrai di nascosto. P. – Andrò allo scoperto: questa volta ti approvo. D. – Dobbiamo guidarti? Sei pronto a metterti in cammino? P. – Guidami subito, già ti rimprovero il ritardo. D. – E allora copriti il corpo con una veste di bisso. P. – Cosa? Da uomo debbo diventare
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donna? D. – Perché laggiù non ti uccidano, vedendoti uomo. P. – Hai detto di nuovo bene. Da un po’ ti riveli assennato. D. – Dioniso ci ha ispirato queste cose. P. – Ma come fare le cose che tu ben consigli? D. – Entrando nella tua casa ti vestirò io stesso. P. – Con quale veste? Da donna? Ne ho vergogna. D. – Le Menadi, allora, non vuoi più vederle? P. – In che modo vuoi acconciare la mia persona? D. – Sulla testa ti porrò una lunga chioma. P. – E il secondo pezzo del mio travesti-
mento? D. – Un peplo lungo fino ai piedi. E sulla testa un nastro. P. – E a queste aggiungerai altre cose, per me? D. – Il tirso nella mano, e la pelle screziata del cerbiatto. P. – Non potrò mai indossare una veste di donna. D. – Ma scorrerà sangue, se scendi in battaglia con le Baccanti. P. – È giusto: prima bisogna andare a spiarle. D. – È più saggio che prendere colpi volendo darli. P. – E come traverserò la città di nascosto ai Cadmei? D. – Andremo per strade deserte — ti guiderò io.
Questa scena è un modello di analisi drammatica e anche psicologica, al servizio dell’azione drammatica stessa. Ci sono da notare numerosi colloquialismi, la cui resa in italiano è difficile ma il cui effetto sulla scena greca doveva essere enorme (ne dice alcuni addirittura Dioniso, il dio!). Mentre il re sta dentro a travestirsi, il coro canta poi il terzo stasimo: canta di nuovo la gioia della danza e l’obbedienza alle leggi degli dei. Quarto episodio. Compaiono Dioniso e Penteo travestito da baccante e si avviano verso il monte. Nel quarto stasimo il coro aizza, a distanza, le donne sul monte a sbranare Penteo, annunciando così il seguito dell’azione, e chiedono a Dioniso di celebrare il suo trionfo. Il quinto episodio è tutto preso dal racconto di un messaggero che racconta la morte di Penteo, sbranato dalla madre Agaue, che crede di aver sbranato un animale, un leoncino o un vitello, senza riconoscere il figlio, accecata com’è dalla follia dionisiaca. Tutto questo è raccontato da un messaggero, secondo una convenzione del teatro greco, che non vuole le uccisioni sulla scena, ma le vuole solo raccontate. L’azione è drammaticamente terribile. Dioniso piega la punta di un alto abete, con la sua forza divina, e vi fa salire Penteo, che così «venne visto, invece di essere lui a vedere le menadi» (1075), perché Dioniso stesso, con gran voce, esorta le menadi ad alzare lo sguardo. Un gran silenzio: poi le donne guardano, lo vedono, cominciano a gettare contro di lui i tirsi, delle pietre, rami d’abete, finché, schiantando robusti rami di quercia, scalzano le radici dell’abete e lo afferrano. Il resto viene narrato con ricchezza di particolari orrorosi. Il quinto stasimo è molto breve: un’altra celebrazione di Dioniso.
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E segue l’esodo, ovvero uscita o fine della tragedia. Entra Agaue con la testa del figlio conficcata sul tirso, senza ancora rendersi conto di quello che ha fatto. Entra Cadmo, inorridisce e lentamente porta Agaue a rendersi conto dell’orrore che ha commesso. E Agaue collabora a ricomporre le membra sparse del figlio sbranato. Dioniso, ormai non più in incognito, decreta l’esilio alle figlie di Cadmo e il coro conclude, come in altre tragedie, con pochi versi in cui canta «di molte forme in cui si manifestano gli dei».
Ho aspettato di aver finito l’esposizione della trama per fermare l’attenzione su un fattore drammatico importante. Uno solo è, naturalmente, il coro nelle Baccanti, quello delle menadi orientali seguaci di Dioniso, ma c’è anche un’altra coralità dietro la scena, quella delle donne tebane che celebrano i baccanali sul Citerone guidate dalle tre principesse sorelle e specialmente da Agaue, madre di Penteo. Ora, non abbiamo ancora detto che le donne di Tebe sono rese folli da Dioniso, al punto di non riconoscere il loro re Penteo, e questo in punizione di un delitto collettivo di lesa divinità: il rifiuto di Penteo di ricevere il culto dionisiaco a Tebe diventa una colpa di tutta la città, per la quale vengono puniti tutti, sia le donne assassine sia il re recalcitrante. È comune nell’etica di questo periodo il senso di colpa in chi punisce pur giustamente una trasgressione: le donne impazzite sono uno strumento nelle mani del dio. Ma, ora che conosciamo bene l’intreccio, affrontiamo il problema dell’interpretazione del dramma negli ultimi quasi duecento anni di storia della critica. Euripide era stato più volte bollato di ateismo dai suoi contemporanei, e tutti conosciamo le frecciate che riceve nelle commedie di Aristofane; anche a noi sembra che non abbia presentato la divinità con la devozione di un Eschilo o con la virile accettazione di un Sofocle: basti per tutti l’esempio dell’Ippolito, rappresentato nel 428, dove Ippolito, che rifiuta l’amore della matrigna Fedra andata in sposa in seconde nozze a Teseo padre di lui, viene duramente punito con la morte da Afrodite, la dea dell’amore, che proclama la sua superiorità su Artemide, dea della caccia e della castità, della quale Ippolito è devoto. Afrodite è presentata come una divinità crudele e spietata e la nostra simpatia va tutta all’infelice Ippolito e anche all’infelice Teseo, strumento inconsapevole della rovina del figlio. Inutile richiamare qui i molti altri intrecci di tragedia dai quali traspare quello che fu chiamato il razionalismo di Euripide, vivisezionatore della fede religiosa tradizionale. E si sa bene che questo non è un atteggiamento di Euripide solo, ma che è diffuso in vasti strati dell’Atene illuministica dei sofisti (nella seconda metà del V sec.). Ora, è evidente che il drammaturgo controlla le simpatie del suo pubblico: in che modo le manipola? È chiaro che noi dovremmo fare qui un’analisi dettagliata del dramma e studiare bene il gioco delle parti. Ma, consigliando a tutti di fare quest’analisi per proprio conto, possiamo anche qui, nel breve quadro di
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questa chiacchierata, prendere per certo il fatto che quest’esame non ci porterebbe ad un risultato univoco, viste le opposte interpretazioni che se ne sono date. Mettiamo sul tavolo i dati elementari che abbiamo: la tragedia è un conflitto, e qui le parti in conflitto sono il partito dionisiaco rappresentato da Dioniso, dalle baccanti orientali del coro e dal rinforzo di Tiresia e Cadmo; il partito antidionisiaco è rappresentato da Penteo; le baccanti tebane guidate da Agaue e dalle sorelle sono quella parte del popolo di Tebe che è stato conquistato a forza da Dioniso con la follia dionisiaca. Ebbene, con quale partito si identifica Euripide e verso quale partito dirige la nostra simpatia, manipolando le nostre emozioni? Facciamo una breve storia delle varie interpretazioni. La prima epoca romantica, dall’inizio dell’Ottocento, rimase colpita dalla devozione dei cori e dal rapimento mistico che indubbiamente da essi traspare: e si arrivò così alla formula della palinodia: Euripide prima di morire avrebbe visto l’assurdità della sua posizione razionalistica e ostile nei confronti della religione e avrebbe fatto una professione di fede dionisiaca. Nietzsche accusa Euripide di razionalismo e di avere ucciso l’originaria ispirazione dionisiaca del teatro (non dimentichiamo che Dioniso è il dio del teatro e che i drammi si rappresentano nelle feste a lui dedicate, le Dionisie), ma per le Baccanti (Nascita d. trag., §12) aderisce alla teoria della palinodia e dice che «il poeta per tutta la vita ha eroicamente resistito a Dioniso, per poi concluderla con una glorificazione dell’avversario». Troppo tardi, dice ancora Nietzsche, perché il razionalismo ha ormai vinto e la tragedia ad Atene è morta. Ma si fa strada piano piano anche un’altra corrente, quella cosiddetta del razionalismo: Euripide avrebbe rappresentato Cadmo e Tiresia come ridicoli (ma abbiamo già visto che non è vero), Dioniso come un dio crudele e spietato (ma non lo è affatto quanto invece lo è l’Afrodite dell’Ippolito) e infine Penteo come un odioso tiranno, violento e imperioso e per di più sciocco e ridicolo (ricordiamo la scena che abbiamo letta per intero): e quest’ultima caratterizzazione è quella che forse è più vera di tutte, visto che gli ateniesi del V sec., fieri della loro costituzione democratica, avevano tutta una pubblicistica contro la figura politica del tiranno. Quale delle due soluzioni vogliamo accettare? Ad essere imparziali e a voler affrontare il problema senza pregiudizi, io partirei da queste impressioni di spettatore: le baccanti orientali cantano alcuni fra i più splendidi canti che la letteratura greca ci abbia lasciati, pieni come sono di dionisismo estatico e devoto; Dioniso è il dio di cose belle e serene come il vino, di cose pericolose come la danza bacchica e di cose terribili come lo sbranamento e il divoramento di carne cruda; per passare all’altro partito, Penteo è a tratti odioso e violento e ridicolo, ma alla fine la sua morte, alla quale è tratto con l’inganno, ci riempie di smarrimento; e così pure ci ispirano compas-
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sione e solidarietà Agaue e Cadmo. Come la mettiamo? Credo che qui, come spesso, c’è da chiedersi se per caso l’autore, volendo presentarci un suo punto di vista favorevole all’uno o all’altro partito, non lo avrebbe reso più evidente allo spettatore di allora e al lettore di oggi. Se non lo ha fatto, vorrà dire forse proprio che non ha preso le parti di nessuno dei due partiti. Qual è allora il messaggio che ha indirizzato ai suoi spettatori? Io mi associo a quelli che, sempre più numerosi, oggi pensano che abbia voluto esprimere lo sconcerto di fronte al contrasto inconciliabile di emotività scatenata e razionalità ordinatrice, e che non a caso abbia affidato, nel gioco delle parti, la funzione razionale a chi governa, a Penteo. Ma anche Penteo è sensibile al richiamo dell’irrazionale: lo abbiamo visto quando si lascia convincere a soddisfare la sua repressa morbosa curiosità. Nel 186 a. C. a Roma, nella Roma repubblicana, si fa addirittura una legge, il Senatusconsultum de Bacchanalibus, per vietare pratiche orgiastiche, pericolose per la sicurezza dello Stato. Quello che conta, a me pare, è che il rito dionisiaco nella sua forma orgiastica, condannata o difesa che sia, è da Euripide rappresentato sulla scena, e non viene ignorato come succederebbe sotto una vigile censura. Anche nell’Ippolito la forza di Afrodite viene rappresentata, sia pure colorata di una chiara odiosità che qui per Dioniso non c’è. È o non è una componente dell’esperienza umana, l’irrazionalità? Lo è, e tanto vale farci apertamente i conti. Questo non serve necessariamente a farci dare un apprezzamento positivo dei greci del V sec., perché sotto questo aspetto erano uguali a noi, anche se le loro forze irrazionali si incanalavano in modi diversi dai nostri; ma serve a farci chiaro che loro avevano coscienza di questo dissidio fra razionale e irrazionale e lo esprimevano in modo quanto mai esplicito. Vorrei aggiungere una considerazione personale. Ci si è chiesti se scene come quelle rappresentate nelle Baccanti fossero familiari agli spettatori di Euripide e ci si è dovuti rispondere che non lo erano. Ad Atene Dioniso era celebrato nelle grandi Dionisie, che ospitavano le rappresentazioni drammatiche, e in altre feste in cui si esaltava la sua autorità di dio del vino e dell’ebbrezza (le Lenee); ma niente che somigliasse a oreibasìa, sparagmòs ed omophagìa. Queste pratiche sono testimoniate per altre città greche, come Tebe, Rodi ed alcune altre. Insomma: l’aspetto orgiastico del culto dionisiaco non era praticato ad Atene. Ebbene, proprio per questo mi pare privo di senso domandarsi se Euripide fosse pro o contro il dionisismo orgiastico: non c’era ragione di appoggiarlo o di combatterlo. E invece, proprio perché ha rappresentato una realtà lontana dall’esperienza quotidiana dei suoi spettatori, l’ha usata come simbolo per una realtà dell’esperienza psicologica di ognuno e per di più senza giudicarla, come ci è apparso da un esame del dramma, ma certo suscitando lo sgomento.
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Sulla base di tutto quello che siamo venuti passando in rassegna non voglio dire che l’idea della ‘nobile semplicità e tranquilla grandezza’ sia estranea ai greci del V secolo. Tutt’altro. Quell’ideale di equilibrio resta, e dobbiamo saper leggerlo nelle opere loro, ma resta come un ideale di arrivo: la via che conduce a quel punto di arrivo è piena di difficoltà, come la via di tutti noi all’equilibrio interiore, e i greci lo sapevano come lo sappiamo noi, ma diversamente da noi non si sono mai fatti dissuadere dal rappresentare con piena franchezza gli stadi intermedi di questo cammino: il dramma della natura in conflitto con se stessa, il disagio dell’irrazionale, ma anche la grandezza dell’accettazione dell’irrazionale. Non dimentichiamo il concetto fondamentale di purificazione o ‘catarsi’ che i greci elaborano nel corso del V sec. e che noi conosciamo dalla formulazione della Poetica di Aristotele, un corso di lezioni da lui tenute grosso modo nel 340 a. C., sessantasette anni dopo le Baccanti. Aristotele dice che la tragedia, con la sua rappresentazione di passioni e di vicende terribili e orribili, ci porta alla purificazione, alla catarsi per mezzo della ‘pietà e del terrore’ (èleos e phòbos), allo stesso modo che la musica (e questo ce lo dice nell’8° libro della Politica) purifica l’anima attraverso l’eccitazione che provoca in noi, eccitazione che si scarica e che ci porta all’equilibrio. La serenità dei greci quindi, che ogni umanesimo europeo ha sbandierato come eden permanente, non è che un momento della vita di ognuno, che si alterna con momenti di lotta coll’orrore e, perché no?, di temporanea resa all’orrore. Ed ecco che sento partire da molte parti un’accusa di incoerenza: io sarei partito dal rifiuto di una idealizzazione del mondo greco visto come solo apollineo, quello che ho chiamato umanesimo, e approderei a una idealizzazione del mondo greco apollineo e dionisiaco insieme; avrei cambiato l’etichetta, ma continuerei a bere dalla stessa bottiglia. Posso rispondere che mi sono solo sforzato di individuare meglio il contenuto della bottiglia. Ho poi scoperto che il vino era eccellente, addirittura migliore di quello che credevano di avervi bevuto gli umanisti delle varie bandiere. Basta questo a fare di me, e di quelli che la pensano come me, un umanista? No, perché l’umanesimo si crea dell’antico un modello da imitare, un modello di umanità con validità permanente, mentre la moderna coscienza antropologica si pone di fronte all’antico e di fronte a tante altre realizzazioni di civiltà come di fronte a semplice campione d’umanità, uno fra tanti, ognuno con le sue caratteristiche, rifiutando una assimiliazione e una assunzione di modello. In altre parole: chi rifiuta l’orientamento umanistico tradizionale si sforza di capire nella sua interezza un fenomeno storico e un fatto storico (e così fa giustizia alla storia) e nello stesso tempo capisce di non poterselo erigere a modello, perché si tratta sempre di un’esperienza diversa,
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lontana culturalmente (facendo così giustizia all’antropologia). Finora abbiamo considerato l’aspetto storico dell’interpretazione, e abbiamo visto che i greci non erano sereni come dicono gli umanisti; adesso è ora di dire che, anche presi così come erano, non siamo in grado di comportarci come loro, non possiamo imitarli. Io non so quale sia la ricetta valida oggi per affrontare il problema delle forze irrazionali che turbano l’umanità, e sfido chiunque a darne su due piedi una accettabile: so solo che l’orgia dionisiaca e il culto di Dioniso in generale non mi sembrano per l’uomo europeo di oggi forme adatte per canalizzare quelle forze. E del resto il dionisismo orgiastico era qualcosa che non si praticava più nell’Atene di Euripide, come abbiamo visto: il dionisismo, in quella forma, era già estraneo, o culturalmente ‘altro’, per l’Atene del V sec. Che poi il V sec. attico sia apparso e appaia come un campione di cultura di particolare eccellenza non può giustificare la sua assunzione a modello perenne, ma può spiegare che il suo fascino abbia provocato più volte nella storia europea questo peccato (perdonabile!) e contro la storia e contro l’antropologia. Conferenza tenuta ad Anagni il 9 marzo 1981, per gli alunni del Liceo Classico.
Le donne scatenate: un modo di canalizzare le forze irrazionali presso i Greci A chi conosce il ruolo del tutto secondario che aveva la donna nel mondo greco – ridotta com’era alla maternità e alla vita di casa – potrà sembrare strano che due feste riservate alle donne avessero un primato ciascuna: le Tesmoforie erano la festa più diffusa fra tutte le città greche; le feste dionisiache erano quelle che avevano la tradizione di maggior crudeltà, svolgendosi sui monti e richiedendo da parte delle donne atti che a noi sembrano brutali e crudeli, come lo sbranare e il divorare carne animale cruda. Si tratta, come si sa, delle mènadi: e, se quello che abbiamo descritto era il cosiddetto menadismo bianco, la tradizione parla anche di un menadismo nero, che portava le donne a sbranare e a divorare anche carne di bambini. Ma di quest’ultimo è rimasta solo una tenue traccia nelle fonti. Di queste celebrazioni sappiamo molto poco, sia perché gli affiliati (e, in questo caso, le affiliate) erano tenuti al segreto, sia perché le autorità cittadine ufficiali avevano di fronte ad esse un atteggiamento di tolleranza, quando non di aperta ostilità, come avveniva per i culti misterici: in altre parole, la città, la pòlis si difende da tutto quello che può turbare il suo ordine. D’altra parte è ben comprensibile che le donne si organizzassero per questi riti che erano tutti loro: se la vita di ogni giorno le frustrava, veniva il momento in cui madre natura aveva il sopravvento e si ristabiliva l’equilibrio. Non c’è bisogno di ripetere, oggi, che l’immagine umanistica del mondo greco, tutta luce e armonia, è troppo bella per essere vera, e infatti non è vera: il mito greco, e di riflesso la tragedia attica, sono pieni di tradimenti, di incesti, di parricidi. Chi ci ha insegnato a vedere le due facce delle culture antiche è stato Nietzsche con il suo libro epocale del 1871, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, che ha avviato nei confronti delle culture antiche stesse un atteggiamento che poteva già cominciare ad essere correttamente antropologico. È strano che in vaste sacche retrive della scuola il pregiudizio umanistico perduri: nel 1951 usciva un altro libro formidabile, Dodds, I Greci e l’irrazionale, che si può considerare un Nietzsche aggiornato, e che condanna culturalmente chi non ne ha avuto notizia e che non sa o non vuole tenerne conto. Gli aspetti irra-
|| [Intervento per il programma di Radio Tre “Cultura: temi e problemi”, 9.7.1985, ore 15.15– 15.30. – Inedito, ritrovato da Elena Rossi tra le carte del padre; cura del testo di Giulio Colesanti]
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zionali dell’esistenza sono certo prevalenti rispetto a quelli razionali, e tutti possiamo imboscare vari aspetti della nostra esperienza – come in molti momenti della nostra storia è successo e succede –, ma i greci semplicemente non lo fecero. Un documento prezioso dell’irrazionale in Grecia sono le Baccanti di Euripide, ultima sua opera, rappresentata postuma nel 405 avanti Cristo. Questa tragedia è preziosa non solo e non tanto perché è la testimonianza più ricca delle feste dionisiache delle donne, ma anche e soprattutto perché ci trasmettono l’atteggiamento degli ateniesi di quest’epoca di fronte a una pratica che era vista come eminentemente religiosa, legata com’era al dio Dionìso. Non è facile capire perché la critica moderna ha avuto ed ha tanta difficoltà a trovare un terreno comune per l’esegesi di questo inestimabile documento culturale e religioso. Vale la pena darne un riassunto. Siamo, come sempre in tragedia, in un’epoca che anche i greci del quinto secolo consideravano arcaica, e cioè l’epoca lontana del mito. A Tebe, in Beozia, regna Pènteo, e proprio da Tebe il dio Dionìso, ancora estraneo alla Grecia, vuol cominciare la sua opera di evangelizzazione. Dioniso è rapprsentato giovane, con capelli lunghi, con aspetto delicato, e la storia della religione greca ce lo dà come dio del vino e della serenità, ma anche come dio legato al mondo sotterraneo e alla morte. Dionìso ha annunciato il suo verbo già alle donne di Tebe, che già sono sul monte Citerone a celebrare le orge bacchiche, dandosi a quello che si può definire menadismo bianco, e cioè a sbranare e a divorare la carne cruda di animali fra canti e danze sacre. Naturalmente questo non piace al re Pènteo, che vede nelle celebrazioni un pericolo per la sicurezza dello stato (motivo che – come abbiamo detto – tornerà tante volte in seguito) e vuol far prigioniero il dio. Ci riesce, ma il dio fugge e si presenta una seconda volta al re. E qui succede la svolta drammatica della tragedia: Dionìso, ormai deciso a perdere Pènteo, lo solletica nella curiosità che egli ha di vedere i misteri. Altro motivo ricorrente, la curiosità di conoscere quanto è protetto da un segreto che è religioso e sacrale. Ecco la sezione–chiave del dialogo: “DIONÌSO: Vuoi vedere le donne riunite sulle montagne? PÈNTEO: Sì; e pagherei un immenso peso d’oro. DIONÌSO: Perché sei caduto in un desiderio così forte? PÈNTEO: Certo, mi dispiacerebbe se le vedessi ubriache. DIONÌSO: Ma godresti nel vedere ciò che ti dispiace. PÈNTEO: Sì, ma in segreto, seduto sotto un abete.” Ed è quello che poi succede: Dionìso fa travestire il re da donna e lo fa salire su un abete, piegandolo fino a terra (non dimentichiamo che è un dio); poi con un grido mette all’erta le donne, che vedono la vittima, sradicano l’albero e sbranano il povero Pènteo. Quello che rende tragedia la tragedia è che alla fine compare sulla scena la madre di Penteo, Agàue, con la testa del figlio tra le mani, credendo che si tratti
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di un animale: solo a poco a poco capisce che si tratta del figlio. Il coro è costituito dalle seguaci orientali di Dionìso, che già aveva i suoi fedeli in paesi come la Lidia, la Frigia, la Persia, la Battriana, la Media, l’Arabia. Queste donne cantano la loro devozione al dio con canti che sono non solo fra i più belli che il mondo greco ci abbia trasmessi, ma anche fra i più profondamente e autenticamente religiosi. Ora, il problema che si sono posti gli studiosi è il seguente: Euripide, che era famoso ad Atene come critico nei confronti della religione tradizionale, ha continuato in questa tragedia la sua carriera di ‘razionalista’ religioso oppure ha improvvisamente, per l’appunto alla fine della sua vita, cambiato stile, facendo quella che viene chiamata una palinodia? Il razionalismo religioso sarebbe realizzato col presentare Dionìso come un dio crudele e spietato, ma anche Pènteo come un odioso tiranno, violento e imperioso e per di più sciocco e ridicolo; la palinodia, invece, sarebbe resa evidente dalla devozione dei cori e dal rapimento mistico che da essi traspare. Ma l’errore è stato quello di voler decidere se Euripide fosse pro o contro Dionìso. Non ci si è chiesti se era verosimile che si ponesse una domanda del genere: al tempo suo ad Atene non è testimoniata alcuna forma di menadismo né nero né bianco, così che il menadismo non poteva porsi come polo di un’alternativa. Diverso era stato il caso di altre tragedie, che avevano creato il mito di un Euripide lontano dagli dei e razionalista: prima fra tutte l’Ippolito, nella quale tutta l’odiosità viene convogliata sulla dea Afrodite e tutta la simpatia su Ippolito, la vittima della perfidia degli dei. Pènteo non è né crudele né sciocco e Dionìso, che è un dio potente, viene celebrato dal coro delle fedeli donne d’oriente con canti di devozione totale, oltre che di bellezza fantastica. (Rendo nella traduzione di Di Benedetto e Lombardo, Siracusa 1980). “Beato l’uomo fortunato // che conosce i misteri del dio: // pura trascorre la sua vita // e nel corteo // il suo io si risolve. // Sui monti, santamente, // si purifica nel rito e il culto // celebra solenne della grande // madre Cibele. Scuote // il tirso nell’aria e incoronato // d’edera serve Dionìso. // Venite, Baccanti, venite, Baccanti, // Bromio, il figlio del dio, // Dionìso, dai monti di Frigia // portiamolo alle vaste // strade dell’Ellade aperta // ai cori, lui, Bromio.” E ancora: “È dolce, sui monti, dopo // la frenesia della danza, gettarsi // a terra, sotto la sacra // pelle del cerbiatto, anelando // al sangue del capro sgozzato, // alla delizia della sua carne // cruda, protesi verso i monti// della Frigia, della Lidia, // guidati da Bromio, euohè! // La terra scorre di latte, // scorre di vino, scorre // del nettare delle api, e la rossa // fiamma della torcia, odorosa // come incenso di Siria, il divino // capo del coro // la tiene in alto, la fa // balzare dal tirso, e intanto // correndo e danzando sprona // le donne vaganti, le eccita // con i suoi gridi, agitando // nell’aria la morbida chioma.”
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Tante volte gli studiosi dell’Antichità si sono chiesti quale parte abbia avuto il mondo orientale nella cultura greca, e qualcuno, per salvaguardarne una insensata umanistica purezza, è arrivato ad affermare che non ne aveva avuta nessuna. Basta tener presenti le Baccanti, o meglio tutto il mito di Dioniso, che proprio dall’oriente viene, per affermare con forza la forza dell’irrazionale. Euripide con la sua tragedia non ha voluto esprimere né accettazione né rifiuto, bensì coscienza di questa forza e rispetto per essa: e, viste le condizioni in cui la tragedia attica nasceva e fioriva, c’è da credere che il suo atteggiamento fosse condiviso dal suo pubblico. I greci, insieme con gli aspetti luminosi, avevano anche quelli tremendi: come tutti, del resto, ma, a differenza di altre culture, non li tenevano in ombra.
Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica Nel quadro, necessariamente limitato, di una relazione vorrei esporre una serie di considerazioni che richiederebbero, per essere presentate in modo esauriente, maggiore ampiezza. Come giustificazione per la mia scelta e per le dimensioni della mia presentazione dirò che intendo soltanto proporre alcuni esempi di lettura di testi drammatici attici del V secolo secondo linee esegetiche che, se saranno giudicate valide e opportune, consentiranno di estendere queste considerazioni ad altri passi, in una dimensione di approccio che potrà risultare almeno in parte nuova. La novità di alcune prospettive dipende dal fatto che una branca della semiologia come la prossemica (studio dei rapporti di spazio) è stata finora scarsamente applicata al fenomeno drammatico in generale (Elam, spec. 2, 210, 214) e, a quanto so, niente affatto al dramma antico. Ci sarà di aiuto, poi, la cinesica (studio della gestualità e del movimento), che non sempre è stata tenuta nel debito conto. Il dramma attico del V secolo presenta alcuni aspetti peculiari che sono o in gran parte o totalmente estranei alla cultura scenico–drammatica moderna. In altre parole: il codice drammatico attico è diverso dal nostro, e ogni discorso su tragedia e commedia attica deve tener presente questo fatto. Sarà opportuno fare una breve premessa che ne dia conto. Ecco alcuni fattori del codice drammatico attico che ci sono in qualche modo ‘culturalmente’ lontani: 1) legame delle rappresentazioni con le festività religiose; 2) unicità delle rappresentazioni (le riprese avvengono solo più tardi, verso la fine del V secolo); 3) non professionalità degli attori (anche questa viene molto più tardi); 4) normale disponibilità di non più di tre attori parlanti, in modo che le parti, spesso più numerose di tre, vengono distribuite fra i soli tre attori (un attore si trova quindi a impersonare parti diverse, e qualche volta la stessa parte viene affidata ad attori diversi); 5) affidamento anche delle parti femminili a soli attori maschi; 6) le rappresentazioni si tengono all’aperto e in teatri abbastanza grandi;
|| [Relazione di convegno (fine marzo 1988) recitata poi anche in altre sedi (vd. n. * alla fine del contributo); pubblicata in L. de Finis (ed.), Scena e spettacolo nell’antichità. Atti del Convegno Internazionale di Studio Trento, 28–30 marzo 1988, Firenze, Olschki, 1989, pp. 63–78]
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7) modo di resa particolare, a noi per lo più estraneo, del dialogo, che sicuramente nella tragedia è solenne e straniante (nel senso di Brecht); questo fattore è da tenersi presente assai più che non il fatto che coro ed eventuali solisti cantino in una musica che a noi è quasi totalmente ignota (abbiamo, in fondo, esperienza dell’opera lirica, tanto da renderci evidente l’opposizione parlato/cantato: ma è la qualità del parlato antico che ci è difficile rappresentarci); 8) gli attori portano maschere, il che esclude almeno la mimica facciale, oltre a rendere sicuramente diverso tutto il resto del codice cinesico. Questo come premessa. Ma ci sono alcuni altri fattori, che non vengono sempre considerati abbastanza, e di cui vorrei parlare qui. Si tratta di quattro lemmi che userò come strumenti di lettura dei testi e che combinerò spesso insieme a due, a tre, a quattro (e quindi tratterò i testi, di volta in volta, sotto il lemma più rilevante o più opportuno): 1) frequente variazione del registro linguistico (presenza di colloquialismi in tragedia, dove qualche volta non ce li aspetteremmo, e addirittura di volgarismi); 2) didascalie sceniche, che sono sempre interne al testo drammatico; 3) gesti e atteggiamenti degli attori (cinesica: comunicazione non verbale, lunguaggio del corpo); 4) lo spazio e i rapporti di spazio come fattore significante (prossemica). 1. Comincerò dai colloquialismi, che sono il fatto di appercezione più immediata ad una lettura che sia, beninteso, attenta. La tragedia attica del V secolo ha notoriamente un livello linguistico alto, ma ammette in misura più o meno larga abbassamenti di livello, che portano fino al colloquialismo e, alle volte, addirittura al volgarismo. In Eschilo la lingua colloquiale ha per lo più la funzione di caratterizzare i personaggi di rango inferiore (per esempio, la scolta all’inizio dell’Agamennone); Euripide ha normalmente un livello mediano, che si può definire prosastico specialmente nel dialogo, in modo che la differenza risulta meno sensibile quando scende al colloquialismo; Sofocle, al contrario, mette colloquialismi e perfino volgarismi anche in bocca a re e regine dell’epos, e lo fa chiaramente per ragioni drammatiche, per sottolineare momenti particolarmente ‘caldi’ dell’azione. Sofocle è, in sostanza, quello che più degli altri fa libero uso della lingua colloquiale. Chi non si fosse mai posto il problema, troverebbe quest’affermazione almeno strana: io, per parte mia, debbo questa preziosa conoscenza ai seminari romani di Fraenkel (v.), e specialmente a quelli sofoclei sull’Aiace e sul Filottete. Per rendere chiara con delle statistiche la differenza, in questo settore, fra Eschilo e Sofocle posso segnalare che in Eschilo la caratterizzazione dei perso-
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naggi inferiori è rappresentata dal 60 % del totale dei suoi fatti colloquiali, mentre la percentuale corrispondente in Sofocle è solo del 22 % (Stevens 1945, 95). Un esempio sofocleo fra i molti: in O.R. 401 Edipo, il re, dice a Creonte: «Se farai questo, ce le prenderai!», esprimendosi con il colloquialismo ϰλαίων (‘piangendo’, ‘fra le lacrime’, più o meno) a noi ben noto dalla commedia di Aristofane (dove i colloquialismi sono certo più frequenti). È chiaro che Sofocle voleva comunicare al suo pubblico la tensione fra i due personaggi regali anche a livello di lingua. E lo spettatore doveva certamente notare un simile fenomeno: gli eroi dell’epos sono a lui familiari in veste di personaggi normalmente meno nervosi e violenti, almeno a livello di lingua. Ma Sofocle tratta questi eroi da gran signore, sotto questo aspetto. Ho fatto fare a suo tempo, in alcune tesi di laurea, statistiche in vari autori sulla frequenza dei pronomi dimostrativi anaforici – che sono segno di abbassamento di stile – e ho trovato, facendo gli opportuni confronti, che un controllo di questo tipo non fa che confermare l’abbondanza di stile basso proprio in Sofocle, e vedremo di quali inauditi volgarismi la sua scena può animarsi. Ma non mi dilungo oltre su questo argomento, che solo negli ultimi decenni è stato oggetto di una iniziale trattazione sistematica (v. i lavori di Stevens in bibliogr.). Volevo qui solo segnalare questi fatti perché ci sarà utile notarli in seguito e perché sono spesso (anche per necessità o difficoltà estrema di resa) trascurati dai traduttori, pur essendo alle volte essenziali per cogliere lo specifico drammatico di molte situazioni. Accorgersi adeguatamente di fenomeni di questo tipo può contribuire a restituire allo stile tragico la sua dimensione propria, a far scendere la tragedia dal suo piedistallo classicistico. Ma c’è un’altra difficoltà esegetica per noi moderni. Come venivano pronunciati i colloquialismi nella recitazione epico–straniante, brechtiana della tragedia? A me personalmente riesce difficile immaginarlo. Posso solo far credito a una consuetudine, a una convenzione teatrale che, se mi è poco agevole ricostruire nella sua realtà, doveva nondimeno esistere e disciplinare la recitazione e qualche suo temporaneo cambiamento di tono. Credo che qui fossero fondamentali quelli che si chiamano fattori sovrasegmentali (inflessione della voce etc.) e che il colloquialismo (che resta pur sempre un fatto episodico nel contesto dello stile drammatico) fosse da essi convenzionalmente segnalato e ‘legittimato’. Ma che cosa dire quando un volgarismo risulti addirittura cantato? Lo vedremo in seguito. 2. Veniamo alle didascalie sceniche, che sono sempre interne al testo. Il dramma antico è del tutto libero dalle didascalie che troviamo continuamente nei nostri testi drammatici moderni nella forma tipografica di prescrizioni scritte
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in corsivo e racchiuse tra parentesi (piange, escono, entra affannato etc.). Le poche eccezioni (tante come le dita di una mano) sono aggiunte posteriori e da considerarsi come eccezioni. Nelle Baccanti di Euripide (647) Penteo, il re, entra in scena dopo avere appena appreso che Dioniso, da lui fatto imprigionare, si è liberato. Pronuncia alcuni versi che dalle sole parole fanno intendere che il loro tono dev’essere irato, ma non è stato detto finora come ha fatto il suo ingresso in scena. Una moderna didascalia avrebbe informato che il suo ingresso doveva avvenire a grandi passi, ed è precisamente quello che contengono le successive parole di Dioniso: «Fermati, e trattieni il tuo impeto con piede tranquillo!». Questa è chiaramente una indicazione per il regista (che del resto era normalmente l’autore). Altre appaiono come aiuti esegetici per lo spettatore, come per esempio i personaggi che entrano e dicono «Io sono il tale»; oppure i personaggi che ne annunciano un altro dicendo «Ecco che arriva il tale». Interessanti sono, ancora, i casi in cui i personaggi descrivono più o meno in dettaglio la scena: la lista degli oggetti scenici è tanto più precisa quanto meno è probabile che questi fossero realmente sulla scena, dato che la prassi scenica greca era notoriamente molto sobria (paragonabile a quella di Shakespeare). Così, per es., all’inizio dell’Elettra di Sofocle Oreste dice: «Eccomi nella pianura di Argo, ed ecco l’agorà di Apollo Liceo, e qui a destra c’è il tempio di Era, e là è Micene, e il palazzo sanguinoso dei Pelopidi». Perché questa lunga descrizione? Proprio perché sulla scena non c’era niente di tutto questo. Lo spettatore doveva immaginarsi la scena, proprio come in Shakespeare, e il drammaturgo gli porgeva aiuto. Le didascalie sono molto frequenti: ci sono anche quelle che servono a coordinare il movimento degli attori. Si può soddisfare una lecita curiosità ricordando che ce n’è una ogni venticinque o trenta versi, a stare alle cifre fornite dall’utile libro della Capone (v.). Su questo argomento è importante avere le idee chiare. Si può dire che ogni gioco scenico che abbia una funzione è puntualmente registrato nel dialogo. Giochi scenici che non siano annunciati o descritti nel dialogo sono dispensabili, quasi sempre addirittura da evitarsi. Di questo occorre puntigliosamente informare tutti i registi moderni. Possiamo darci una ragione per questa rigorosa autarchia testuale del dramma antico? Vorrei chiedere agli studiosi del teatro moderno se esiste un altro sistema che sotto questo aspetto si possa paragonare in coerenza a quello attico. Mi pare che una spiegazione si possa trovare nel fatto che non solo il dramma è destinato allo spettatore e non al lettore, ma che anche chi lo metteva in scena doveva prescindere dal libro. La cultura del libro albeggia solo alla fine
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del V secolo, ma si afferma circa due secoli più tardi. Il testo, mandato a memoria e recitato dagli attori, era il luogo esclusivo per tutte le indicazioni di regia. Alle volte il testo va letto da parte nostra con molta attenzione per estrarne nella loro totalità le didascalie. Nel momento cruciale dell’Edipo re, quando l’orrore della verità le viene finalmente incontro nella sua concretezza, Giocasta lascia definitivamente la scena per andare a uccidersi (1071–1075): Ἰού ἰού δύστηνε· τοῦτο γάρ σ’ ἔχω μόνον προσειπεῖν ἄλλο δ’ οὔποθ’ ὕστερον. ΧΟ. Τί ποτε βέβηϰεν, Οἰδίπους, ὑπ’ ἀγρίας ᾆξασα λύπης ἡ γυνή; δέδοιχ’ ὅπως μὴ ’ϰ τῆς σιωπῆς τῆσδ’ ἀναρρήξει ϰαϰά.
IO.
Come Giocasta lasci la scena è detto dal corifeo, e cioè precipitosamente slanciandosi in preda al suo selvaggio dolore. Ma subito dopo, sempre il corifeo, dice di temere che, «per questo suo silenzio», vada a fare qualche disastro. Ora, il silenzio che preoccupa il corifeo non può essere quello delle parole di Giocasta, «Infelice, così solo posso rivolgerti la parola, e nient’altro mai più», perché προσειπεῖν è, appunto, ‘rivolgere la parola’, e non semplicemente ‘parlare’: si potrebbe solo dire che si ha il presentimento che Giocasta non voglia parlare mai più, e questo è il senso drammatico delle sue parole, perché andrà a uccidersi. Ma, comunque sia, il possibile tacere di Giocasta è, se mai, un silenzio dichiarato, non messo in atto. Ἐϰ τῆς σιωπῆς τῆσδε ha una forza dittica che non può riferirsi a un personaggio che ha dialogato finora con Edipo e che, se mai, ha detto che tacerà. Τῆσδε è la δεῖξις per un reale silenzio sulla scena: Giocasta, dopo le sue disperate parole, deve – per eseguire correttamente la didascalia – rimanere qualche istante silenziosa sulla scena, prima di precipitarsi fuori. Certo, per dare efficacia a un silenzio che può durare, per ragioni sceniche, solo qualche istante, sarà opportuno farle prendere un atteggiamento legato, per i greci, alla volontà di silenzio ostinato, e cioè il girare indietro il volto o, meglio, il chinarlo a terra (Muecke 1984). Una didascalia un po’ criptica, ma solo per noi, non certo per i greci, che conoscevano bene la loro lingua e avevano familiare la loro cinesica. Le didascalie che riguardano la cinesica, e cioè l’espressione del volto, la gestualità e i movimenti, le tratterò qui di seguito sotto il terzo lemma, come annunciato, inaugurando la parte più propriamente nuova della mia esposizione. 3. La cinesica è ovviamente un campo in cui si ha bisogno dell’antropologia, se si vuol stabilire, in partenza, che cosa significa un gesto nella vita di ogni giorno
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in una determinata cultura. Per il mondo antico è indispensabile l’ausilio dell’archeologia, e cioè delle arti figurative, che però hanno nei diversi generi artistici le loro convenzioni, a volte per noi difficilmente decifrabili. In più, ci soccorrono i testi letterari stessi nei quali siano descritti i movimenti, e sono anche testi non drammatici (per es. gli oratori). E non va trascurata la teorizzazione della retorica, per la quale il complesso più esteso è la trattazione della actio in Quintiliano (11.61–136, de gestu). Ma bisogna tenere presente che anche la prassi scenica ha o può avere le sue convenzioni. Lo sa bene chi è pratico del teatro Nō (v. il libro di Zeami Motokiyo) o del teatro Kabuki, nei quali la gestualità è altamente formalizzata, così da costituire un sistema chiuso di cinemi e cinemorfi (uso i termini di Birdwhistell ap. Lamedica). È comunque certo che la mimica, come già si è detto per la recitazione, doveva essere altamente formalizzata, in modo da presentare una fisionomia molto vicina, per noi, alla teorizzazione brechtiana dello straniamento, assai lontana dal naturalismo di Stanislavskij (v.). È chiaro, quindi, che vanno tenuti ben distinti i quattro seguenti campi, fra loro interdipendenti ma a loro volta autonomi: la vita quotidiana, l’arte figurativa, i testi letterari e infine il codice teatrale. Ma è anche chiaro che l’esistenza di molte caselle vuote nella griglia della nostra informazione non deve scoraggiarci dal fare delle proposte e dal tentar di capire. Ci sono dei fatti di cinesica per i quali è improbabile che siamo condannati a cadere in errore quanto al loro significato e alla loro funzione. È sicuramente il caso dei pochi passi che scelgo in parte come esemplificazione e in parte per suggerire una più completa esegesi scenico–drammatica. Vediamo Eur. Med. 1069–1075:
1070
1075
παῖδας προσειπεῖν βούλομαι. — δότ’, ὦ τέϰνα, δότ’ ἀσπάσασθαι μητρὶ δεξιὰν χέρα. ὦ φιλτάτη χείρ, φίλτατον δέ μοι στόμα ϰαὶ σχῆμα ϰαὶ πρόσωπον εὐγενὲς τέϰνων, εὐδαιμονοῖτον, ἀλλ’ ἐϰεῖ· τὰ δ’ ἐνθάδε πατὴρ ἀφείλετ’. ὦ γλυϰεῖα προσβολή, ὦ μαλθαϰòς χρὼς πνεῦμά θ’ ἥδιστον τέϰνων.
Medea abbraccia, prima di ucciderli, i figli e descrive con straordinaria minuzia i suoi gesti: bacia la loro mano (gesto di supplica da inferiore a superiore – Sittl 166 sg. –, sì che ne viene una esagerazione drammatica dell’affetto); nomina poi la bocca, la figura e il volto dei bambini; poi il dolce abbraccio, e poi la morbida pelle e il dolcissimo alito. Pare quasi che il dettaglio della didascalia debba supplire a quanto la maschera rende difficile o non abbastanza evidente. Abbiamo qui i lemmi 2 (didascalia scenica) e 3 (gestualità).
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Un esempio che ci si rivelerà interessante anche per il seguito è Ar. Lys. 797–799 ~ 821–823 (da me già segnalato: v. Rossi 1161). C’è qui, in responsione antistrofica, una precisa responsione gestuale: il semicoro dei vecchi canta alternandosi con quello delle vecchie e gli uni e le altre si lanciano minacce ‘gestuali’: 797 βούλομαί σε, γραῦ, ϰύσαι … ~ 821 τὴν γνάϑον βούλει ϑένω; ... 799 ϰἀνατείνας λαϰτίσαι ~ 823 ἀλλὰ ϰρούσω τῷ σϰέλει.
Che la danza dei due semicori fosse mimica (in corrispondenza delle descrizioni ‘didascaliche’) è reso sicuro dal fatto che gesti o corrispondenti o simili (bacio/schiaffo, sgambetto/calcio) si rispondono esattamente nello stesso luogo di strofe e antistrofe: se la responsione nei cori era non solo metrico–musicale, ma anche orchestica, abbiamo qui il coro che si ‘auto–istruisce’ a movimenti corrispondenti o simili (era quanto sostenevo nell’art. cit.). Di nuovo abbiamo avuto, qui, i lemmi 2 (didascalia) e 3 (gestualità, questa volta mimica). Ma ancora più interessante è il caso di Ar. vesp. 729 sgg. ~ 743 sgg.:
730
πιθοῦ πιθοῦ λόγοισι. μηδ’ ἄφρων γένη μηδ’ ἀτενὴς ἄγαν ἀτεράμων τ’ ἀνήρ. Εἴθ’ ὤφελέν μοι ϰηδεμὼν ἣ ξυγγενὴς εἶναί τις ὅστις τοιαῦτ’ ἐνουθέτει. Σοὶ δὲ νῦν τις θεῶν παρὼν ἐμφανὴς ξυλλαμβάνει τοῦ πράγματος, ϰαὶ δῆλός ἐστιν εὖ ποιῶν· σὺ δὲ παρὼν δέχου.
Νενουθέτηϰεν αὑτòν εἰς τὰ πράγμαθ’, οἶς τóτ’ ἐπεμαίνετ’· ἔγνωϰε γὰρ ἀρτίως 745 λογίζεταί τ’ ἐϰεῖνα πάνθ’ ἁμαρτίας ἃ σοῦ ϰελεύοντος οὐϰ ἐπείθετο. Νῦν δ’ ἴσως τοῖσι σοῖς λόγοις πείθεται ϰαὶ σωφρονεῖ μέντοι μεθι– στάς εἰς τò λοιπòν τòν τρόπον πιθόμενός τέ σοι.
Dopo la seconda parte dell’agone, nella quale il figlio ha mostrato al padre le miserie della vita di dicasta, il coro invita il vecchio a lasciarsi convincere e canta il proprio ottimismo per la sua guarigione. Come spesso accade nei canti altamente formalizzati della commedia, le responsioni verbali sono numerose: 729 πιϑοῦ πιϑοῦ λόγοισι ~ 743 νενουϑέτηϰεν αὑτóν 732 ἐνουϑέτει ~ 746 ἐπείϑετο 734 ξυλλαμβάνει τοῦ πράγματος ~ 748 σωφρονεῖ
«Dar retta» ~ «rimproverarsi», «dar consigli» ~ «dar retta», «assistere nell’impresa» ~ «essere saggio»; fino alle corrispondenze dei due νῦν 733 ~ 747, che segnano il momento della trasformazione. Si tratta di responsioni e lessicali e semantiche, il che rende il ricostruibile meccanismo orchestico sovrapposto al testo ancora più interessante: perché è chiaro che tali responsioni, in aggiunta a quella normale dello schema ritmico (e musicale perduto), hanno un senso, in
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un coro che danza e che porta ad espressione visiva le corrispondenze dei movimenti, solo se ad esse corrispondono omologhi movimenti mimici. Qui non si tratta, come nell’esempio precedente, di didascalie precise e non siamo in grado di visualizzare la gestualità, ma possiamo essere sicuri che le responsioni verbali e semantiche indicassero una corrispondenza dei movimenti dei coreuti, che molto probabilmente erano mimici (possiamo immaginare una mimica iconica o simbolica legata al campo della persuasione, della ragionevolezza etc.). Propongo di vedere in casi del genere delle didascalie implicite, che davano al coro indicazioni di impostazione e coordinamento dei movimenti che si aggiungevano alla responsione della partitura ritmica e la confermavano nel dettaglio. Insisto sull’importanza di queste responsioni, che non sono una generica corrispondenza tematica fra strofe e antistrofe, ma precisi richiami verbali e semantici in luoghi di strofe e antistrofe. Non è possibile che una lirica legata alla danza come quella del dramma, che di responsioni verbali e semantiche è così ricca (una esauriente ricerca darebbe risultati di rilievo), rinunciasse a funzionalizzare questi fatti stessi anche sul piano della realizzazione orchestica. Quale altra funzione potrebbero avere? [È uscito nel frattempo un lavoro utile: R. Guido–A. Filippi, Responsione antistrofica di voci e suoni in Aristofane, «Rudiae», Ricerche sul mondo classico, I, 1988, pp. 77–101]. 4. In quarto luogo parlerò dei rapporti di spazio, ambientali e interpersonali, una tematica che è stata inaugurata da quasi trent’anni e che è ancora agli inizi della sua applicazione al teatro e ancora, come ho detto, inedita nel campo del dramma antico. Si tratta di quella che dal linguista americano E. T. Hall è stata battezzata come prossemica. Eccone la definizione di Cardona (v.): «Disciplina semiologica ... che studia l’utilizzazione comunicativa dello spazio e delle distanze interpersonali». (Giustamente Cardona dà di proxemics l’etimologia dal lat. proximus; in G. Devoto – G. C. Oli, Nuovo vocab. illustr. d. lingua ital., Milano, Reader’s Digest, 1987, Vol. II, l’errore della improvvisata etimologia dal gr. pròs e sêma è sicuramente originato dall’errata grafia dell’ingl. prossemics invece di proxemics). La prossemica nasce nel primo libro di Hall, The Silent Language, N.Y. 1959 (tr. it. Il linguaggio silenzioso, Milano 1969). Così essa viene definita da lui nel suo secondo, e più comprensivo, lavoro, che è del 1966 (v. Hall): «Questo libro esamina che cosa sia lo spazio personale e sociale e come l’uomo li percepisca. Prossemica è il termine che ho coniato per le osservazioni e le teorie che concernono l’uso dello spazio dell’uomo, inteso come specifica elaborazione della cultura». Il modo di appercepire, e di manipolare, lo spazio risulta essere una delle caratteristiche più importanti, e normalmente meno portate a coscienza,
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delle varie culture: e Hall dà esempi di alcuni codici spaziali tipici di diverse culture. Diverso è il senso dello spazio interpersonale fra gli arabi (e noi potremmo aggiungere fra gli italiani) e fra gli europei del nord; diversa è la concezione dello spazio domestico in una casa giapponese e in una casa europea; diversa è la concezione dello spazio di un tempio nel mondo greco antico e quella di una chiesa rinascimentale. Perché lo spazio, e il modo con cui esso è vissuto, è una lingua senza parole, uno dei campi della comunicazione non verbale (come la gestualità): i modi con cui si subisce e si manipola il rapporto spaziale si configura come un sistema e funziona come un codice che serve, senza parole, a esprimere e a comunicare. Hall (129 sgg.) distingue tre organizzazioni dello spazio: lo spazio preordinato, che è quello del paesaggio umano (città e campagna e loro reciproco rapporto, spazio urbano, spazio architettonico degli edifici); spazio semideterminato, che è quello creato da ogni tipo di arredo mobile (e che si adatta a situazioni sociòpete e sociòfughe – Elam 64 –, e cioè di attrazione sociale e di fuga sociale); e infine lo spazio informale, che è quello interpersonale. Quest’ultimo si configura secondo quattro tipi di distanze: intima, personale, sociale e pubblica. Lo spazio interpersonale è stato variamente studiato anche da sociologi, biologi e psicologi. Alcune precisazioni le ricavo dal libro di Argyle (228 sgg.). Hanno rilevanza, oltre alla vicinanza o meno, anche l’orientamento (parallelità = cooperazione, frontalità = antagonismo) e il particolare tipo di movimento; e tutto si riassume in quello che viene chiamato il comportamento territoriale: il territorio è l’area che un individuo domina e possiede, in modo che, analogamente a quanto osservano gli etologi nel comportamento degli animali, di tale territorio si può avere violazione quando determinate distanze non vengano rispettate. Non c’è bisogno di andare in cerca di culture peregrine per verificare il costume che induce l’inferiore a rispettare il territorio di un superiore. Vediamo Soph. O.T. 1119–1122: OI.
Σὲ πρῶτ’ ἐρωτῶ, τòν Κορίνθιον ξένον· ἦ τόνδε φράζεις; ΑΓ. Τοῦτον, ὅνπερ εἰσορᾷς. OI. Οὗτος σύ, πρέσβυ, δεῦρό μοι φώνει βλέπων ὅσ’ ἅν σ’ ἐρωτῶ. Λαΐου ποτ’ ἦσθα σύ;
1120
Edipo chiede al messaggero corinzio conferma dell’identità del vecchio pastore (1119 sg.), che è appena entrato in scena; avutala, si rivolge a quest’ultimo con due versi densi di significato drammatico, che chiamano in gioco tutti e quattro
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i lemmi del nostro discorso. Il pastore è entrato dieci versi prima che Edipo si rivolga a lui ed è rimasto fermo in attesa di essere apostrofato, per di più con gli occhi bassi, in atteggiamento di grande rispetto per il suo re. Questo per quanto riguarda la gestualità. Ma come sappiamo di tale suo atteggiamento? Dalle parole di Edipo, naturalmente, come sempre: «guarda verso di me e rispondimi». È la solita didascalia interna al testo. Ma «guarda verso di me» e il fatto che il pastore è entrato già da tempo significa che si è fermato a debita distanza, non solo per rispetto nei confronti del re, ma anche per non interferire nel dialogo che ancora si sta svolgendo fra il re e il messaggero. La didascalia ci fornisce un perfetto quadro prossemico, che potrebbe essere (e certamente era) ovvio, ma le didascalie sfidano spesso l’ovvietà, il che ne aumenta il valore e il significato drammaturgico di tecnica compositiva. C’è però qui un fattore ulteriore, e cioè il livello di lingua. Edipo si rivolge al pastore con un colloquialismo molto forte, οὗτος σύ (Stevens 1978, 37 sg.), che potremmo rendere con «ehi, tu!». Ho già detto che Sofocle fa usare molto spesso il registro basso anche a personaggi alti, e, se qualche volta non vediamo chiaramente la funzione di un tale procedere se non in una generica patetizzazione e drammatizzazione dell’evento scenico, qui possiamo capire che il fatto è dovuto, oltre che all’eccitazione di Edipo, anche al bisogno di scuotere il pastore dal suo rispettoso silenzio e di dargli la confidenza in sé che è necessaria per il difficile compito che lo aspetta, di svelare il tremendo mistero dell’origine di Edipo. Ho tenuto per ultimo un passo di interesse davvero straordinario, a quanto mi pare. Si tratta di O.T. 650 sgg. ~ 679 sgg., che vale la pena riportare per intero per apprezzarne meglio alcuni aspetti della costruzione antistrofica (testo di Dain): XO. Πιθοῦ θελήσας φρονήσας τ’, ἄναξ, λίσσομαι. OI. Τί σοι θέλεις δῆτ’ εἰϰάθω; ΧΟ. Τòν οὔτε πρὶν νήπιον νῦν τ’ ἐν ὄρϰῳ μέγαν ϰαταίδεσαι. OI. Οἶσθ’ οὗν ἅ χρῄζεις; ΧΟ. Οἶδα. OI. Φράζε δὴ τί φής. ΧΟ. Τòν ἐναγῆ φίλον μήποτ’ ἐν αἰτίᾳ σύν ἀφανεῖ λόγω ἄτιμον βαλεῖν. OI. Εὖ νυν ἐπίστω, ταῦθ’ ὅταν ζητῇς, ἐμοὶ ζητῶν ὄλεθρον ἢ φυγεῖν ἐϰ τῆσδε γῆς. ΧΟ. Οὐ τòν πάντων θεῶν θεòν πρόμον Ἅλιον· ἐπεὶ ἄθεος ἄφιλος ὅ τι πύματον ὀλοίμαν, φρόνησιν εἰ τάνδ’ ἔχω. Ἀλλά μοι δυσμόρω γᾶ φθίνουσα τρύχει ψυχάν, τάδ’ εἰ ϰαϰοῖς ϰαϰὰ
str. 651
655
660
665
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προσάψει τοῖς πάλαι τὰ πρòς σφῶϊν. ΧΟ. Γύναι, τί μέλλεις ϰομίζειν δόμων τόνδ’ ἔσω; IO. Μαθοῦσά γ’ ἥτις ἡ τύχη. ΧΟ. Δόϰησις ἀγνὼς λόγων ἦλθε, δάπτει δὲ ϰαὶ τò μὴ ῎νδιϰον. ΙΟ. Ἀμφοῖν ἀπ’ αὐτοῖν; ΧΟ. Ναίχι. ΙΟ. Καὶ τίς ἦν λόγος; ΧΟ. Ἅλις ἔμοιγ’ ἃλις, γᾶς προπονουμένας, φαίνεται ἔνθ’ ἔληξεν, αὐτοῦ μένειν. ΟΙ. ‘Oρᾷς ἴν’ ἥϰεις, ἀγαθòς ὤν γνώμην ἀνήρ, τοὐμòν παριεὶς ϰαὶ ϰαταμβλύνων ϰέαρ; ΧΟ. Ὦναξ, εἶπον μὲν ούχ ἅπαξ μόνον, ἴσθι δὲ παραφρόνιμον ἄπορον ἐπὶ φρόνιμα πεφάνθαι μ’ ἄν, εἴ σε νοσφίζομαι, ὅς γ’ ἐμὰν γᾶν φίλαν ἐν πόνοις ἁλοῦσαν – – ϰατ’ ὀρθòν οὔρισας· τανῦν δ’ εὔπομπος, εἰ δύνᾳ, γενοῦ.
antistr. 680
685
690
695
Si tratta di un commo, e cioè di quello che oggi potremmo definire un duetto lirico (e quindi cantato) con intervento del coro (e quindi cantato e danzato). La situazione drammatica è molto tesa: dopo l’alterco fra Edipo e Creonte, entra per la prima volta in scena Giocasta che s’informa preoccupata e di cui il coro condivide la preoccupazione e il coro, insieme con lei, insiste presso Edipo perché lasci cadere la sua ira. Della tecnica drammatica sofoclea in generale, quello che più colpisce è l’agglomerato di colloquialismi, notevoli soprattutto perché compaiono in una sezione lirica (cantata) e perché alcuni sono cantati e danzati dal coro. Ecco quelli di Edipo: 651 τί σοι ϑέλεις δῆτ’ είκάθω; «In che cosa vuoi io ceda a te?»: verbo ‘volere’ in paratassi (ipotassi come sottintesa) con un congiuntivo (Stevens 1978, 60 sg.); 676 (nella parte in trimetri) οὔϰουν μ’ ἐάσεις ϰἀϰτòς εἶ; «vuoi lasciarmi solo e bàttertela?»: imperativo realizzato con negazione e interrogazione (v. L. E. Rossi, «St. ital. Fil. Class.» 43, 1971, 15 sg., 19 sg.).
E quelli del coro: 660 oὐ μά con ellissi di μά (manca in Stevens); 684 ναίχι: forma violenta di affermazione (manca in Stevens).
Ora, ναίχι è più che un colloquialismo: è un vero e proprio volgarismo. È un rafforzamento della particella asseverativa che potremmo rendere con un «ma
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sì!», «ma certo!», e non sarebbe abbastanza: potremmo arrivare al romanesco «sine!», anche se si possono avere dubbi sull’opportunità di una tale resa. Certo è che si dovrebbe raggiungere un grado molto alto di confidenziale violenza. Com’è possibile accertarne tale qualità? Devo ai seminari di Eduard Fraenkel se ho potuto fermare l’attenzione su questo fatto straordinario (v., p. 52). Fraenkel citava W. Schulze, Kl. Schr. 706, dove vengono richiamati i frequenti casi dei vasi per i ϰαλοί (ναίχι ϰαλός), a cui si richiamano le volute allusioni di Callimaco (epigr. 28.5, 52.3 Pf.). Un test decisivo: in Aristofane la particella compare solo «nella bocca del poliziotto scita delle Tesmoforianti, che non sa il greco. Anche la commedia conserva un certo atteggiamento coltivato: non dotto, ma è la lingua di tutti i giorni della società ateniese. Ναίχι è talmente basso che non è usato dalla buona gente». E Fraenkel concludeva, giustamente, mettendo in rilievo la volontà di Sofocle di rendere l’agitazione emotiva del coro, analoga alla situazione di Filottete che in Phil. 327 esclama εὖ γε, « bravo, bravo!». Quello che rende questo passo sofocleo una vera bomba nell’ambito della letteratura drammatica è che il volgarismo è rivolto dal coro alla regina, e per di più in una parte lirica, nella quale il coro non solo canta, ma danza anche. Richiamo qui quanto dicevo all’inizio sulla resa dei volgarismi nella recitazione straniante del teatro antico. Questo basterebbe, ma c’è di più. Il coro (che – non dimentichiamolo – è costituito da vecchi tebani) sta nell’orchestra, e rivolge il pesante volgarismo a Giocasta, che sta sulla scena. Non è il caso di discutere qui la problematica archeologica del teatro attico del V secolo: mi basta rimandare a Pöhlmann, Newiger e Taplin (v.). A rendere strano il fenomeno dal punto di vista prossemico non c’è bisogno che scena e orchestra siano molto distanti o siano su livelli diversi: basta farsi presente il fatto puro e semplice che l’orchestra e la scena erano due luoghi non solo più o meno fisicamente separati, ma soprattutto diversi per destinazione e funzione drammatica, nel quadro di quello che nella prossemica di Hall viene chiamato lo spazio strutturato. La distanza interpersonale (lo spazio informale) doveva essere senz’altro maggiore di quella degli attori fra di loro, ma quel che conta è che, valutata da ‘luogo’ a ‘luogo’ teatrale, tale distanza diventava enorme. E d’altra parte un volgarismo simile richiederebbe normalmente una invasione del territorio dell’interlocutore, non un distanziamento. Ho parlato finora di registro linguistico e ho fatto considerazioni di prossemica. Ma questo passo davvero fuori dell’ordinario è interessante anche per la gestualità e per le didascalie interne. Se si osserva che il v. 684 fa parte dell’antistrofe e lo si confronta con il v. 655, il verso a cui risponde nella strofe, si vede che ne è l’esatta copia metrica e sintattica e ne costituisce una parziale corrispondenza semantica. Il ναίχι è una risposta (in più molto caratterizzata a livel-
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lo espressivo), proprio come οἶδα, e l’uno e l’altro sono preceduti da una domanda e seguiti da un invito a parlare, ambedue espressivamente molto mossi. La struttura dei due trimetri giambici è metricamente identica sotto tutti gli aspetti (lunghe e brevi, incisioni, divisione fra le tre interlocuzioni), in maniera che un verso così tipico della recitazione come il trimetro, che qui però appare in strofe lirica, è fortemente liricizzato non in virtù della sua costruzione interna (mancano soluzioni), bensì in virtù della perfetta responsione metrico–sintattico–semantica fra strofe e antistrofe. Se è vero che responsione semantica in lyricis ha sempre una funzione orchestica, non può sfuggire il rilievo di questa responsione, che appare così articolata e voluta: il coro ha cantato e danzato οἶδα e ναίχι con una perfetta responsione anche orchestica, facendo dei movimenti mimici che non ci è possibile determinare, ma che erano rigorosamente uguali a se stessi, così come mi è capitato di osservare prima per le Vespe. E, come in quel passo, anche qui vedo una didascalia orchestica implicita. Attraverso tale espediente il volgarismo del coro rivolto alla regina viene ulteriormente messo in rilievo. Quello che della prassi teatrale antica noi ignoriamo è molto. Parlo concretamente dell’allestimento di uno spettacolo. In teoria noi ignoriamo se in Attica nel V secolo si seguisse, per la recitazione, la tradizione più o meno naturalistica che è di norma la nostra, e cioè quella di far immedesimare l’attore nella sua parte adattandosi a paradigmi di comportamento assunti dalla vita quotidiana (come vuole il metodo di Stanislavskij); oppure se seguissero un codice rigidamente formalizzato di intonazione e di comunicazione non verbale (gesti, posizioni, sensibilità allo spazio) come vuole lo straniamento di Brecht o i teatri estremo–orientali richiamati prima. Si tratterebbe in questo secondo caso di «una serie chiusa di morfemi espressivi», come dice Jonatahn Miller (in Hinde, p. 486). E in realtà noi tutti siamo convinti che la loro prassi seguisse lo straniamento di Brecht (si tratta della quintessenza del teatro ‘epico’, dopo tutto). Questo anche per ragioni che hanno a che fare con le condizioni fisiche del mezzo di comunicazione, come le rappresentazioni all’aperto e l’ampiezza dei teatri, che hanno condizionato alcune scelte e la loro conservazione, come quella (originariamente di natura sacrale) delle maschere (con la conseguenza di dover affidare alle didascalie destinate agli spettatori l’esegesi mimica facciale). Altre scelte sono invece dettate da ragioni socioculturali, come l’uso di avere solo attori maschi, ma anche questa risulta coerente con una recitazione di tipo brechtiano, e cioè altamente convenzionale. Alla luce di queste considerazioni possiamo dare una interpretazione più adeguata al volgarismo cantato dal coro e rivolto alla regina dall’orchestra alla scena. Non si tratta della prova di un codice prossemico necessariamente diverso dal nostro, per il quale la distanza è
Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica | 601
tanto minore quanto maggiore è la confidenza del rapporto e l’intensità affettiva della comunicazione. Non dico – si badi – che il codice prossemico dovesse essere uguale: dico solo che poteva benissimo esserlo. Ma sicuramente diverso era il loro codice drammatico–teatrale, il che rende diabolicamente difficile per un regista mettere in scena un dramma antico. Lo spettatore ateniese conosceva bene le convenzioni del suo teatro e sapeva bene che le distanze interpersonali potevano venire manipolate, come del resto avviene (seppure in misura minore) anche nel teatro moderno (Elam 65) per compensare la distanza fra attori e spettatore e per rendere più chiaro il gioco scenico. Resta comunque la grande distanza funzionale fra orchestra e scena. Qualcuno potrà obiettare che proprio Sofocle aveva sfumato tale differenza di funzione fra attori e coro coinvolgendo il coro nell’azione, come aveva notato già anche Aristotele (a.p. 56a 25 sgg.). Ma la distanza rimaneva tale perché come tale veniva rispettata dagli altri tragediografi e io sono sicuro che il buono spettatore ateniese al sentire quel ναίχι avrà fatto un salto sul suo sedile: era quello che Sofocle voleva ottenere. Per concludere: come possiamo noi ottenere o almeno segnalare un analogo effetto? Il dramma antico è ricco di situazioni del genere, ed io qui non ho fatto che segnalarne qualcuna. Un regista dovrebbe inventare delle trovate che per lo meno dessero l’idea che l’evento scenico è singolare: ma dovrebbero essere, queste trovate, rispettose del costume teatrale antico. Non si tratterebbe di tradurre solo delle parole del testo (qui il ναίχι), ma anche di tradurre, e chiaramente, il codice scenico–dammatico. Un compito non facile che noi filologi professionalmente non abbiamo. Ma come quei lettori che siamo, e come quei filologi che cerchiamo di essere, dobbiamo almeno renderci presenti quei tratti che rischiano di restare nascosti o del tutto ignorati nella nostra ormai purtroppo silenziosa lettura dei testi.*
|| * Ho discusso questi argomenti anche nel mio seminario romano [G 26.5.1988, ore 16] e nei seminari di Würzburg, Gottinga e Amburgo nel giugno 1988. Ringrazio i miei ospiti tedeschi e tutti quelli che, a Trento e altrove, mi hanno dato indicazioni utili, solo alcune delle quali sono qui incorporate (i tempi redazionali sono stati stretti; anche la bibliografia è molto selettiva). Per il campo della prossemica devo molto a Nico Lamedica e a Giorgio Raimondo Cardona, collega e amico prezioso scomparso proprio in questi giorni, alla cui memoria desidero dedicare questa redazione.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI M. ARGYLE, Il corpo e il suo linguaggio. Studi sulla comunicazione non verbale. Trad. it., Bologna, Zanichelli 1978 (= Bodily Communication, London, Methuen 1974). G. CAPONE, L’arte scenica degli attori tragici greci, Padova 1935 (ristampa Firenze, Olschki s.d.). G. R. CARDONA, Dizionario di linguistica, Roma, Armando 1988. K. ELAM, The Semiotics of Theatre and Drama, London & New York, Methuen 1980. Ed. FRAENKEL, Due seminari romani di Eduard Fraenkel. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. ROSSI, Roma, Ediz. di Storia e Letteratura 1977. E. T. HALL, La dimensione nascosta. Trad. it., Milano, Bompiani 1968 (= The Hidden Dimension, New York, Doubleday 1966). R. A. HINDE, La comunicazione non–verbale. A cura di R. A. H. Introd. di TULLIO DE MAURO. Trad. it., Bari, Laterza 1975 (= Non–Verbal Communication, Cambridge Univ. Press 1972). N. LAMEDICA, Gesto e comunicazione. Verbale, non verbale, gestuale, Napoli, Liguori 1987. ZEAMI MOTOKIYO, Il segreto del teatro No. A cura di R. Sieffert. Trad, it., Milano, Adelphi 1966. F. MUECKE, Turning away and looking down: Some gestures in the Aeneid, «Bull. Inst. Classical Studies», XXXI, London 1984, pp. 105–112. F. MUECKE, Gesti e cenni, Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 718. G. NEUMANN, Gesten und Gebärden in der griechischen Kunst, Berlin, W. de Gruyter 1965. H. J. NEWIGER, Zwei Bemerkungen zur Spielstätte des attischen Dramas im 5. Jahrhundert v. Chr., «Wiener Studien», N.F. X, 1976, pp. 80–92. E. PÖHLMANN, Die Proedrie des Dionysostheaters im 5. Jahrhundert und das Bühnenspiel der Klassik, «Museum Helveticum», XXXVIII, 1981, pp. 129–146. L. E. ROSSI, Mimica e danza sulla scena comica greca. (A proposito del finale delle Vespe e di altri passi aristofanei), «Riv. di Cult. Class. e Medioev.», 1978, pp. 1149–1170 (Miscellanea Marino Barchiesi, vol. III). C. SITTL, Die Gebärden der Griechen und Römer, Leipzig, Teubner 1890. A. SPITZBARTH, Untersuchungen zur Spieltechnik der griechischen Tragödie, Zürich, Rhein– Verlag 1946. Ρ. T. STEVENS, Colloquial Expressions in Aeschylus and Sophocles, «Class. Quarterly», XXXIX, 1945, pp. 95–105. Ρ. T. STEVENS, Colloquial Expressions in Euripides, «Hermes», Einzelschriften, H.38, Wiesbaden, Steiner 1976. O. TAPLIN, Greek Tragedy in Action, London, Methuen 1978.
Il dramma satiresco Ringrazio gli organizzatori per avermi conferito l’onore di aprire questo convegno, al che mi dà titolo solo la loro amicizia. Devo però avvertire che in questa introduzione parlerò soltanto del dramma satiresco. Anche solo accennare alle numerose altre forme di spettacolo di cui si parlerà in questi incontri avrebbe richiesto non solo più tempo, ma soprattutto una competenza che non ho. Potrò solo dire che un fattore secondo me importante per le varie forme di spettacolo di cui si parlerà è quella che chiamerei la loro eventuale ufficialità pubblica. Il dramma satiresco entra nei concorsi ateniesi della polis, diventa cioè ufficiale, avendo alle spalle una sua preistoria non ufficiale. Non entro nei dettagli degli altri generi di spettacolo: ma penso che l’alternativa si porrà per molti di essi e decidere per un determinato grado di ufficialità – di volta in volta variabile – potrà influenzare la loro valutazione globale e potrà spiegare le ragioni della loro conservazione documentaria o della loro perdita. Penso, per fare solo due esempi, a quello che è stata la danza mimica in Grecia, molto presente ma di rado autonoma come spettacolo, e il pantomimo a Roma, spettacolo autonomo di grande richiamo, che come tale si è autocelebrato come invenzione romana1. E non c’è bisogno neanche di dire che non mi sogno, per il mondo greco, di fare una equiparazione fra ‘popolare/letterario’ e ‘non ufficiale/ufficiale’: tale equiparazione sarebbe in sé sbagliata e, se mai, comporterebbe più precisazioni di quanti risultati potrebbe darci, soprattutto per gli equivoci in cui si incorrerebbe nella valutazione del ‘popolare’. Ma l’ufficialità di una manifestazione mi pare importante anche perché, creando un sistema di comunicazione per così dire protetto, diventa la frontiera al di qua della quale spesso la documentazione manca o quasi o del tutto. Le manifestazioni non ufficiali tendono a scomparire, schiacciate dai generi dominanti. È l’eterno problema della documentazione storica, che comincia a operare le sue selezioni fin dal primo momento. || [Relazione (S 6.4.1991) tenuta al XIII Congresso internazionale di studi sul dramma antico Dramma satiresco, mimo, atellana, togata, altre forme di spettacolo, Siracusa 6–9.4.1991, organizzato dall’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico; pubblicata in «Dioniso» 61, fasc. II, 1991, pp. 11–24] 1 Feci a suo tempo un’ipotesi sulle ragioni (apparentemente poco fondate) per le quali si è voluto considerare fin dall’antichità il pantomimo romano come una novità, senza che ne venisse riconosciuta un’origine nella danza mimica greca (“Riv. Cult. Class. e Medioev.” 1978, spec. 1162–64) e le trovai nella preminenza che nel sistema teatrale romano della fine del I sec. a.C. aveva il pantomimo stesso. È in questo senso che lo si poteva considerare uno spettacolo ‘nuovo’. https://doi.org/10.1515/9783110648126-041
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Il dramma satiresco è un genere, o meglio un sottogenere, letterario: per comodità ne parleremo come di un genere, a patto di tener presente che esso appartiene in toto alla tragedia. Ha avuto nel V sec. a.C. grande fortuna: ha tenuto le scene per alcuni decenni come accompagnatore della tragedia, riscuotendo un successo che è testimoniato più dalle fonti che dalla sua scarsa conservazione. Si può dire infatti che è una delle forme letterarie meno conservate, rispetto alla ricchezza della sua produzione: e già dagli alessandrini, come si sa, veniva lamentata espressamente la perdita di alcuni drammi con la formula ‘non si è conservato’ (οὐ σῴζεται). Ne possediamo soltanto un esemplare completo, il Ciclope di Euripide. Ora, la vocazione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico è quella di far rivivere il teatro antico con la sua realtà scenica nella cornice di un teatro storicamente prestigioso come quello di Siracusa; ma ha anche una sua seconda vocazione, quella di promuovere gli studi sul teatro antico stesso, fondamento essenziale per garantire degli spettacoli che abbiano anche una loro attendibilità storico– filologica. Ebbene, a chi pensasse che parlare a Siracusa del dramma satiresco (oltre che di altre forme di spettacolo poco conservate) risponderebbe soltanto alla vocazione scientifica, vista una così scarsa applicabilità alla scena, si può dire che, al contrario, risponde anche alla prima vocazione, quella drammaturgica: perché quanto sappiamo del dramma satiresco (e dalle altre forme di cui si parlerà) è abbastanza per insegnarci una gran quantità di cose sul teatro antico nel suo complesso. In una breve introduzione all’argomento – ché tale, a quanto credo, questa mia deve essere – intendo esporre in sintesi quello che a me sembra essere lo statuto del dramma satiresco. Esporrò opinioni comuni, cercherò di dare come controverse questioni che tali ancora sono e sarà inevitabile che esponga qualche mia vecchia idea2. Darò anche notizia dei recenti sviluppi degli studi e accennerò ad alcuni problemi che, a mio parere, sono stati riaperti da preziosi interventi recenti. La definizione più felice del dramma satiresco è quella offertaci da Demetrio, eloc. 169: “tragedia scherzosa” (τραγῳδία παίζουσα). Non si poteva meglio definire il suo statuto come intermedio fra tragedia e commedia. La particolare forma assunta dal comico è, per essere precisi, il satiresco, per la mescolanza con elementi di tragedia che restano intatti pur nello scontro con l’atmosfera creata dai satiri; e la struttura del dramma è quella della tragedia, a differenza
|| 2 L.E. Rossi, Il dramma satiresco attico. Forma, funzione e fortuna di un genere letterario antico, “Dialoghi di Archeologia” 6, 1972, 248–302 (la parte centrale ristampata in tedesco in: B. Seidensticker, Satyrspiel, WdF 579, Darmstadt 1989, 222–251).
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dalla commedia, che assume forme della tragedia ma ne conserva di proprie (parabasi, agone). La tragedia è il genere princeps del teatro attico e ne diventa il genere dominante, tanto da influenzare morfologicamente gli altri. Il dramma satiresco, nella forma in cui lo conosciamo, è quindi creazione degli agoni drammatici attici: è frutto della sua ufficializzazione. È per questo che io preferisco chiamarlo “dramma satiresco attico”, per distinguerlo dal satyrikòn di cui parla Aristotele nella Poetica (49a 19– 21) come antecedente della tragedia e che la sua non ufficialità ha quasi cancellato dalla documentazione. La tradizione sull’introduzione del dramma satiresco negli spettacoli di stato ateniesi si può riassumere in poche parole. Pratina di Fliunte, e cioè un peloponnesio, sarebbe stato chiamato ad Atene nella 70. Olimpiade (499– 96, TrGF I 4 T 1, 2 T 2) ed avrebbe gareggiato con Eschilo e con Cherilo. Avrebbe introdotto – come ci dice la Suda – il dramma satiresco ad Atene, dove, dopo alcuni decenni di spettacoli drammatici, si sentiva il bisogno di reintrodurre il ricordo della consacrazione di tali spettacoli a Dioniso: il dio, col tempo, ne era stato infatti come escluso, col rendersi la tematica tragica indipendente da lui, dal che era venuto il detto paremiografico οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον, “niente a che fare con Dioniso”. Il dramma satiresco avrebbe dovuto riproporre al pubblico Dioniso e il suo seguito nell’intreccio drammatico. In principio si presentava come spettacolo indipendente, poi cominciò a precedere le tragedie, finché alla fine occupò, nella tetralogia drammatica, l’ultimo posto. I resti del dramma satiresco conservati rivelano certe caratteristiche di forma che, come abbiamo già detto, sono proprie anche della tragedia. La struttura drammatica è la stessa (parodo, scene, stasimi, esodo). Le azioni sono tutte ispirate al mito eroico (a differenza dalla commedia, che ha intrecci di fantasia con personaggi d’occasione, e che alle volte presenta parodia di tragedia): di conseguenza i personaggi sono gli stessi del teatro tragico, che, pur circondati dai satiri e alle volte tormentati dai loro scherzi, conservano l’ethos a loro proprio nel mito come è rappresentato e nell’epos e nella tragedia. Ci sono, beninteso, alcune differenze dalla tragedia quanto a fattori formali: per esempio nella l i n g u a . Anche nella tragedia alle volte ci sono abbassamenti del livello, tanto da arrivare al colloquialismo: ebbene, nel dramma satiresco questo fenomeno è normale nelle parole dei personaggi satireschi, ma capita anche, qualche volta in più che nella tragedia, in bocca a personaggi eroici, specie se conversano con personaggi satireschi. Nel m e t r o la differenza più rilevante è la licenza dalla legge di Porson, ma non tale da avvicinarlo alla fortissima licenza della commedia: in verità le licenze sono qui non molte, ma sembrano consenti-
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te anche ai personaggi eroici, tanto da rendere non agevole per noi la valutazione del fenomeno3. Nel materiale conservato si osserva anche una notevole differenza nei c a n t i c o r a l i : sono di struttura molto più semplice e chiaramente vicina alle forme del canto popolare. E, quanto a t e m a t i c a , appare normale che i fatti della vita quotidiana siano abbondantemente presenti, sia nella tessitura metaforica della lingua sia nelle pieghe dell’azione (penso per esempio alla scena del mercato dei viveri all’inizio del Ciclope, o, sempre nello stesso dramma, alla splendida scena in cui il mostro viene educato al simposio). Se tutto quanto ho esposto è vero, sono dell’idea che il fatto che il dramma satiresco appaia così fortemente omologo alla tragedia nei suoi aspetti formali e strutturali significhi che il satyrikòn era qualcosa di diverso, visto che da Aristotele era nominato – si noti – come antecedente della tragedia (insieme al ditirambo). La sequenza sarebbe dunque: satyrikòn + ditirambo, poi tragedia, e infine dramma satiresco attico, influenzato morfologicamente dalla tragedia stessa. Che cosa potesse essere il satyrikòn di Aristotele lo vedremo meglio alla fine. Qui vorrei far seguire qualche considerazione sulla funzione che il dramma satiresco attico può avere esercitato nell’economia degli spettacoli drammatici ateniesi. C’è più di una fonte antica che ci mette sulla via e alcuni studiosi moderni l’hanno seguita. Orazio, nella sua Arte poetica (223s.), ci dice che lo spettatore andava trattenuto con l’attrattiva di una grata novitas, e una preziosa notizia del lessico di Fozio, sotto la voce ‘drammi satireschi’, ci informa che essi venivano introdotti negli spettacoli πρὸς διάχυσιν, “a scopo di distensione”. Casaubonus4 a suo tempo (nel 1605) l’aveva detto assai bene e aveva posto le basi per una interpretazione dello stesso sviluppo storico del dramma satiresco. Esso, dopo la fase di spettacolo isolato e poi di iniziatore della giornata drammatica, inaugurava della sua carriera la fase più importante perché più duratura: per alcuni decenni la sua collocazione fu alla fine della tetralogia drammatica, proprio perché con tale collocazione la sua funzione di ristoro psicologico e di distensione del pubblico poteva svolgersi più pienamente. L’emotività del pubblico ateniese, e greco in generale, ci è nota da molte testimonianze dirette e indirette: la partecipazione empatica alla recitazione dell’epos, la reattività ad ogni manifestazione musicale e la cura con cui la produzione e la pubblicazione della musica veniva disciplinata; e, nel campo specifico del teatro, le conferme sono molte5, e
|| 3 R. Seaford, Euripides. Cyclops.With Introduction and Commentary, Oxford 1984, p. 45 s. 4 I. Casaubonus, De satyrica Graecorum poesi et Romanorum satira libri duo, Paris 1605, p. 117. 5 Rossi cit., spec. 269–274 (sul phobos nella tragedia).
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conducono direttamente alla catarsi aristotelica. Vorrei, di queste testimonianze, segnalarne una qui: la particolare intensità del ‘lessico della paura’ specie nei cori di Eschilo, lessico che poi si attenua negli altri tragediografi (dobbiamo questo rilevamento a ormai classici studi di Snell e della de Romilly6). A me pare significativo che la paura espressa dal coro come riscontro al coinvolgimento del pubblico sia presente soprattutto in Eschilo, nei primi decenni della storia della tragedia, proprio perché le orribili vicende del mito venivano rappresentate sulla scena per le prime volte. Questa funzione distensiva del dramma satiresco non è quindi strano che vada col tempo attenuandosi. Non ci meraviglia, in questa prospettiva, di trovare nel 438 al quarto posto in tetralogia una tragedia come l’Alcesti, e cioè un dramma cosiddetto prosatirico: gradualmente la consuetudine del vero e proprio dramma satiresco lascia il posto a qualcosa di fortemente attenuato. E del resto lo stesso Ciclope, che è probabilmente della tarda produzione euripidea, è a parere di tutti ben lontano dall’audacia satiresca che dovevano avere i drammi di Pratina e di Eschilo. Segno di un attenuarsi della funzione della distensione, per una sorta di assuefazione del pubblico agli orrori del mito drammatizzato. Ma a me pare di avere individuato, anni fa, un’altra funzione del dramma satiresco7. La sua introduzione, infatti, con la chiamata di Pratina poco dopo l’anno 500, segue di poco le riforme di Clistene, che avevano di mira quello che Aristotele nella Athen. Polit. (21.2, 4) chiama ἀναμεῖξαι oppure ἀναμίσγεσθαι τὸ πλῆθος, e cioè mescolare le diverse componenti economico– sociali della popolazione dell’Attica: i demi dell’ἄστυ, della παραλία e della μεσόγειος venivano mescolati in modo da formare le dieci nuove tribù, ognuna contenente gente delle tre divisioni territoriali, anche non contigue. Il dramma satiresco avrebbe in questo modo risposto all’esigenza di portare sulla scena di stato una tematica e un’ambientazione campestre. La possibile riforma degli agoni dell’anno 502– 018 confermerebbe questo panorama. Si avrebbe qui una funzione che non esito a chiamare politica, in aggiunta a quella che per chiarezza ho chiamata psicologica, che era però politica anch’essa: quella, cioè, che si può ben definire la gestione politica delle emozioni della polis, così ben testimoniata dalla disciplina della musica (basta ricordare i Pitagorici e Damone).
|| 6 B. Snell, Aischylos und das Handeln im Drama, “Philologus”, Supplement– band 20, H. 1, Leipzig 1928, pp. 34–51; J. de Romilly, La crainte et l’angoisse dans le théâtre d’Eschyle, Paris 1958. Utile, per un confronto con una diversa funzione del lessico della paura nel mondo latino, il recente D. Averna, Male malum metuo. Espressioni di paura nella palliata, Palermo 1990. 7 Rossi cit., spec. 273–281. 8 Rossi cit., 274 s. e n. 74.
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Vorrei qui solo velocemente accennare al seguito della storia del dramma satiresco e alla sua fine: fine, perché si tratta di un genere che non ha avuto più fortuna dopo i pochi decenni del V sec. in cui è stato in fiore. Aristotele, che pure si diffonde sulla tragedia, non parla del dramma satiresco attico; ma abbiamo visto che già prima di lui c’erano stati segni di decadenza della fortuna, legata alla decadenza della funzione. Come in età ellenistica il dramma satiresco risorga sotto variate spoglie in quanto espressione di una metamorfosi delle funzioni è storia che ho cercato di tracciare anni fa e che ci verrà riproposta qui con delle novità da Italo Gallo. L’Agén, dramma rappresentato davanti alle truppe di Alessandro, il Dafni o Litierse di Sositeo, il Menedemo di Licofrone sono drammi satireschi solo di nome, con solo qualche legame con la tradizione del genere. Nel mondo latino non c’è nulla che si possa paragonare ad esso. Soltanto l’exodium dell’Atellana può avere qualche somiglianza, come avevano visto a suo tempo Casaubonus e Welcker9 e come si trova anche in uno scolio a Giovenale10, che parla di “riso che deterge lacrime e tristezza agli spettatori delle tragedie”. Ma mancava nell’exodium lo stretto rapporto tematico (miti e personaggi) che invece c’era nel sistema drammatico greco: la funzione di distensione poteva essere simile, ma era raggiunta con mezzi diversi. Inutile poi parlare del mondo moderno: il dramma satiresco non ha mai varcato la soglia degli studi per entrare nella letteratura militante europea, come hanno fatto tanti altri generi del mondo antico, pur trasformando più o meno la loro fisionomia. Vorrei ora presentare molto brevemente (e cioè con molte omissioni, delle quali mi scuso in anticipo) gli sviluppi degli studi negli ultimi vent’anni o poco più. Ci è di aiuto il volume 579 dei Wege der Forschung di Darmstadt, Satyrspiel, a cura di Bernd Seidensticker, 198911. In mancanza di rilevanti ritrovamenti recenti, l’attività di studio si è rivolta prevalentemente a lavori di interpretazione generale e a un perfezionamento dell’esegesi dei testi disponibili. Sul primo versante segnalerò il volume stesso di Seidensticker, che presenta una utile introduzione e un suo precedente lavoro panoramico (1979). Benemeriti sono stati i lavori di Dana Ferrin Sutton, che, più che con una sua monografia12, ha dato un utile contributo con una lista di titoli13 nella quale ha aggiornato e verificato l’evidenza per la qualità satiresca dei drammi e con molti altri contributi
|| 9 Rossi cit., 299 s. e n. 140. 10 Schol. ad Iuv. sat.3.175, p. 41.14 Wessner. 11 Cit. a n. 2. Bibliografia non citata qui per esteso s’intende facilmente reperibile nella bibliografia di Seidensticker. 12 Dana Ferrin Sutton, The Greek Satyr Play, Meisenheim am Glan 1980. 13 D. Ferrin Sutton, in Seidensticker, 286 ss. (1974).
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singoli. Lasserre14 in un lavoro molto suggestivo ha presentato il dramma satiresco come un rovesciamento della dottrina dell’ethos musicale, orchestico, gestuale e comportamentale in genere, una specie di insegnamento e contrario, mettendo in rilievo anche il rovesciamento della terminologia di Damone. Molto utile è l’introduzione di Seaford al suo commento al Ciclope, a cui accennerò in seguito. Se ricordo qui il mio lavoro del 1972, del quale ho fatto uso in precedenza per esporre il mio pensiero, lo faccio perché ho visto qualche espressione generica di perplessità sulla mia tesi della funzione politica15: la coincidenza cronologica con le riforme di Clistene mi era sembrata un fatto che non si potesse ignorare, ma sarei contento che a queste perplessità venisse data formulazione più precisa e documentata. Su Eschilo ricorderò specialmente più d’uno studio di Italo Gallo e di Massimo Di Marco16. Gallo si è anche occupato di teatro ellenistico, che ha grande importanza per la vita postuma, e metamorfosata, del dramma satiresco: e ne parlerà anche qui tra noi. Per Sofocle ricorderò i lavori di E. Siegmann (1941, 1973) sugli Ichneutai e, degli stessi, l’edizione di E.V. Maltese (1982), oltre alla ricostruzione dell’Inaco di C.O. Pavese (1967). I contributi ad Euripide sono più numerosi. Oltre a un lavoro d’insieme di V. Steffen (1971), ci sono stati a breve distanza ben tre commenti al Ciclope: R.G. Ussher, 1978; R. Seaford, 1984; W. Biehl, 1986. Numerosi i contributi esegetici e testuali, fra cui spiccano quelli di J. Diggle (in margine alla sua edizione di tutto Euripide) e di R. Kassel. Molto incline alla allusione storico–politica contemporanea è stato L. Paganelli, i cui numerosi contributi hanno poi prodotto anche un’edizione del Ciclope con un apparato molto esauriente (1981). Un lavoro prezioso, anche se condotto con positivistico puntiglio, è quello di W. Wetzel (1965), del cui elegante latino vorrei citare almeno il titolo: De Euripidis fabula satyrica, quae Cyclops inscribitur, cum Homerico comparata exemplo. Ed è inutile che ricordi che oggi i testi si leggono con ben maggiore attendibilità filologica di prima, grazie all’edizione di tutti i tragici inaugurata da Snell e continuata da Radt e da Kannicht. Dietro queste gigantesche imprese editoriali c’è un’operosità immensa, che spesso è racchiusa in una sola riga di primo o di secondo apparato.
|| 14 F. Lasserre, in Seidensticker, 252 ss. (1973). 15 Seidensticker, in Seidensticker, cit., 355 n. 77; ibid. 333 n. 3 rileva poi che il carattere campestre dell’atmosfera satiresca sarebbe stato messo in eccessivo rilievo sia da Welcker sia da me. 16 Di M. Di Marco va menzionata qui la recentissima edizione commentata dei Silli di Timone di Fliunte (Roma 1990) per il ruolo che sembra avere avuto Timone nello sviluppo tardo del dramma satiresco.
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Quali sono i problemi ancora in parte aperti? A mio parere sono quelli che pone il rapporto con la tragedia, e cioè soprattutto: l’identificazione come satireschi di alcuni drammi e di molti frammenti; la lingua; la metrica; il rapporto con il mito e con i personaggi del mito stesso; la partecipazione e la funzione drammatica dei satiri e, alle volte, la loro stessa presenza; il comparire già eventualmente sofocleo, e non solo euripideo, del dramma cosiddetto prosatirico del tipo dell’Alcesti17. Per avviare a soluzione questi problemi ci sarebbe bisogno di consistenti nuovi reperti: io, personalmente, darei volentieri indietro alle sabbie d’Egitto qualcosa di molto prezioso (non voglio dire che cosa, per non attirarmi odî gratuiti) allo scopo di ottenere in cambio un dramma satiresco intero di Eschilo, che a detta degli antichi era il principe del genere. Ma c’è un ulteriore settore degli studi che merita segnalazione, anche perché ne è sempre venuto in passato qualche frutto rilevante e ha riaperto oggi qualche problema. È quello dell’arte figurativa, che è importante perché, specie nel caso di generi non ufficializzati, ci può far superare il silenzio della documentazione letteraria: penso al satyrikòn, com’è chiaro. Si può risalire indietro, qui, nominando i lavori di Welcker (1839– 41) e soprattutto di Jahn (1868), limitandoci poi ai classici sempre utili lavori di F. Brommer (1937, 1959), di E. Buschor (1937, 1943), di T.B.L. Webster (BICS 1967), e a uno, molto recente, di D. Ferrin Sutton18. Molto utile è anche il lavoro di Erika Simon (1982)19 sulle rappresentazioni vascolari di satiri dell’epoca di Eschilo. Ora, la cronologia delle fonti sull’arrivo di Pratina e sull’introduzione del dramma satiresco ad Atene (poco dopo il 500, come ho detto più su) è stata messa in dubbio e alzata di una ventina d’anni (fra il 520 e il 510) proprio da coloro che si sono fondati sui vasi di quest’epoca con scene di satiri20. La domanda che ci si pone è la seguente: queste rappresentazioni vascolari così antiche rappresentano già il dramma satiresco di Pratina e di Eschilo, quello attico, o rappresentano ancora il satyrikòn aristotelico? Verrebbe spontaneo di restare fedeli alla cronologia delle fonti e di ammettere che sia stato il certamente rozzo satyrikòn a lasciare qualche traccia nell’arte figurativa della fine del VI sec. Voglio segnalare quello che a me sembra il contributo recente più importante per la storia (o per la preistoria) del
|| 17 Su quest’ultimo problema segnalo un intero capitolo, 180– 190, del libro di D. Ferrin Sutton del 1980 e un suo articolo del 1973. 18 D. Ferrin Sutton, Scenes from Greek Satyr Plays Illustrated in Greek Vase–paintings, “Ancient World” 9, 1984, 119–126. 19 E. Simon, Satyrspielbilder aus der Zeit des Aischylos, in Seidensticker, 362 ss. 20 Come efficacemente mette in luce la Simon al principio del suo art. cit.
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dramma satiresco, quello di Italo Gallo21. Gallo ha riconsiderato due vasi salernitani, già pubblicati da Beazley nel 1967, ma poi dimenticati da tutti, uno dei quali specialmente è di enorme interesse22: vi è rappresentato Eracle addormentato con la pelle del leone e con accanto la faretra (sto dando in sintesi la descrizione di Beazley e di Gallo); ci sono poi sette satiri (o sileni, perché chiaramente uomini–cavalli e non uomini–capri), di cui quattro gli si avvicinano carponi e tre fuggono, uno con la spada, uno con una freccia e uno a mani vuote; a sinistra un auleta in chitone suona il suo strumento. Beazley ha datato questo vaso a un momento fra il 520 e il 500, propendendo per il 510–500 a.C. Ai satiri la qualità di ladri si addice e qualche raro vaso, che Gallo cita, appartiene al tema di Eracle derubato. Ma il vaso salernitano si segnala per essere la rappresentazione più antica di un soggetto satiresco (Eracle derubato dai satiri) con la presenza dell’auleta, che fa pensare senza difficoltà a uno spettacolo drammatico, di qualunque specie esso sia. Gallo pensa a un dramma satiresco già attico, e, accettando tale sua ipotesi, occorrerebbe rifiutare la cronologia bassa delle fonti e accettare la cronologia alta dell’introduzione del dramma satiresco stesso, dando ragione a quelli che l’avevano evinta dalla presenza proprio dei vasi di quest’epoca (ma ancora non se ne era trovato uno con auleta). In questa prospettiva, Gallo dovrebbe dare più importanza al fatto che un resto di iscrizione sul vaso appaia come –νας finale, che Beazley ha dubitativamente integrato come Πρατίνας: Gallo è incline a escluderlo, e penso che abbia ragione, ma afferma che (cito le sue parole) “la questione non ha grande rilevanza rispetto al fatto che ci troviamo in presenza della più antica attestazione, non sicurissima ma altamente plausibile e probabile, di un dramma satiresco attico, da ascrivere ai primordi di questo tipo di rappresentazione”. Fin qui le sue parole. Io direi, intanto, che il rispecchiamento drammatico sia sicuro (per la presenza dell’auleta). E a questo punto la via storico– esegetica si biforca, ma tutte due le conclusioni che si possono trarre sono di grande peso. Si può pensare infatti, come fa lui, a un vero dramma satiresco di tipo pratineo, e in questo caso la possibilità di leggere il nome di Pratina, sia o no da accettare, non dovrebbe lasciare indifferenti, perché Pratina sarebbe il candidato per questo preciso tipo di spettacolo: anche se, alla fine, dovremmo accettare un Pratina che trova il suo posto negli spettacoli ateniesi prima della sua gara con Eschilo e Cherilo nel 499–96, o – meglio – considerare errata quella data consegnataci
|| 21 I. Gallo, Un dramma satiresco arcaico in testimonianze vascolari del territorio salernitano, “Atene e Roma” N.S. 34, 1989, 1– 13. 22 J. D. Beazley, Herakles derubato, “Apollo” 3– 4, 1963– 64, pp. 3– 14. Il vaso, attico a figure rosse, fu trovato a Padula nella tomba XLII di Valle Pupina (Beazley, p. 3).
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dalla tradizione per la sua chiamata ad Atene. Ma si potrebbe anche pensare, escludendo la lettura del nome, a una testimonianza del satyrikòn originario. Sottoscrivo pienamente, nell’ambito di questa ipotesi, quanto Gallo dice di una “danza mimata e musicata” che sarebbe stata colta dal ceramografo nel “momento cruciale dell’azione” (p. 12). Oppure l’azione si sarebbe limitata all’episodio del furto: ricordiamo tutti l’importanza quasi ossessiva che Aristotele dà nella Poetica al μέγεθος dell’azione drammatica, mentre queste sarebbero state azioni primitive, senza μέγεθος dal punto di vista dell’intreccio. Mi si perdoni per essermi soffermato così a lungo su un singolo contributo: esso mi è apparso importante ed è certo che ora la storia del dramma satiresco deve essere in qualche modo riveduta per quanto attiene al momento delle origini: bisognerà alzare definitivamente la cronologia del dramma satiresco attico, oppure si potrà dare un volto drammaturgico un poco più preciso al satyrikòn. La mia propensione per questa seconda soluzione non è niente più che una ipotesi di lavoro. L’auleta presente sul vaso è, a mio parere, molto importante. Egli è normalmente simbolo di rappresentazione teatrale: possiamo vederlo come simbolo di una rappresentazione genericamente drammatica, non ancora ufficializzata? Il satyrikòn era spettacolo, anche se non molto formalizzato, e la musica, qui rappresentata dall’auleta, non era certo fuori posto. È qui che una risposta ci potrà forse venire dagli archeologi, e cioè da una loro valutazione di come un ceramografo di cronologia teatrale molto alta formalizzasse le sue immagini. La cronologia è in realtà più alta di quanto possa sembrare dalla semplice datazione del vaso: 510– 500 a.C. non è una datazione che si può accettare come ‘secca’, perché è una assunzione del tutto ovvia che essa costituisca un terminus ante quem: per avere accesso alla fantasia figurativa del ceramista il soggetto dovrebbe essere stato sulla scena (di qualunque tipo di scena si trattasse) già da qualche tempo. E allora la cronologia di Pratina si verrebbe davvero ad alzare un po’ troppo. Mentre cronologia e storia delle forme drammatiche sarebbero rispettate, con i dati che abbiamo, se si pensasse a una scena di satyrikòn. O vogliamo proprio che l’auleta debba significare tout court spettacolo entrato nella sfera ufficiale della polis? La mia perplessità è, in sostanza, questa.
Appendice Della discussione che è seguita, per la quale ringrazio molto vivamente gli intervenuti, non sono in grado di dare notizia dettagliata, dati i tempi brevi concessi per la redazione definitiva. Sono in grado di riportare qui con esattezza
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solo l’intervento di E. Pöhlmann, che vivamente ringrazio per averlo redatto e per avermelo cortesemente inviato per litt. (24.4.1991): Es ist deutlich geworden, dass man dem Satyrspiel schon im 6. Jh., und zwar schon vor Pratinas, eine autonome Existenz zu sprechen muss. Dies wird besonders deutlich durch die von Italo Gallo diskutierten Gefässe aus Salerno um 510 bzw. um 500, die ein Satyrspiel “Eracle derubato” bezeugen. Bei der älteren Vase beweist das Mitwirken eines Aulosbläsers, dass eine Wiedergabe einer Bühnenszene vorliegt. Das Gleiche gilt auch für die Tragödie: eine Schwarzfigurige Amphora (Stuttgart 65/15) zeigt die Sphinx auf einer Säule, vor ihr Oedipus auf einem Stuhl, umgeben von 8 weiblichen Gestalten, die tief verschleiert sind. Letztere sind eine Abbreviatur des Chores. Wir haben hier also den Reflex einer Bühnenaufführung einer Oedipus–Tragödie um 530 vor Chr. (E. Simon, Das Satyrspiel “Sphinx” des Aischylos, “Sitzungsber. Heidelberg” 1981/5). Pratinas kann also nicht der Erfinder des bühnenmässigen Satyrspiels gewesen sein. Man könnte ihm allenfalls die Verbindung von Tragödie und Satyrspiel zur Tetralogie zuschreiben, die von Aischylos zur Inhaltstetralogie verdichtet und von Sophokles wieder aufgelöst worden ist. Damit wird aber der Bericht des Aristoteles über die Entstehung der Tragödie problematisch (Kap. IV). Aristoteles scheint der Tragödie zwei Wurzeln zu geben, einmal den Dithyrambos, die Heldenklage, zum anderen aber das “Satyricon”. Nun gehören aber zum Satyrspiel und dementsprechend zum “Satyricon” Tierchöre (Böcke oder Silene). Wäre das “Satyricon” oder ein Satyr–Dithyrambos die Keimzelle der Tragödie, so müsste der Tragödienchor ursprünglich ein Bockschor gewesen sein. Nun zeigte aber die Amphora aus Stuttgart schon um 530 vor Chr. in einer Oedipus–Tragödie einen menschengestaltigen Chor. Nach all dem wird man nun bei der Beurteilung des Kap. IV der Aristotelischen Poetik nur die eine von den Aristoteles genannten Wurzeln der Tragödie, deren Herkunft aus dem Dithyrambos, akzeptieren. Offen bleibt die Frage, wie Aristoteles zu seinen Ausführungen über das “Satyricon” gekommen ist.
La posizione di Pöhlmann è chiara: tendenza a identificare dramma satiresco pratineo con satyrikòn aristotelico, e quindi a considerarlo già presente prima di Pratina sulla base del vaso di Padula; valorizzazione dell’assenza di cori animaleschi nel vaso di Stoccarda (donne velate come coro intorno al gruppo Edipo–Sfinge), datato al 530 a.C., per escludere che la tragedia abbia come suo antecedente il satyrikòn. Questa seconda assunzione revoca in dubbio anche le notizie che ci dà Aristotele nella Poetica, limitando l’origine della tragedia al solo ditirambo. Quanto alla prima assunzione, essa presenta una terza via, rispetto alle due da me ipotizzate: togliere tout court a Pratina la paternità del dramma satiresco introdotto in Attica, concedendogli soltanto l’introduzione di esso nella tetralogia. Un’obiezione a quest’ultima affermazione: il grande numero di drammi satireschi a lui attribuiti in confronto al numero delle tragedie (secondo la Suda di 50 drammi 32 sarebbero stati satireschi) ha sempre fatto pensare che Pratina non componesse tetralogie. Il vaso di Padula può veramen-
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te mettere in discussione tutto? Resto del parere che ho cercato di esporre e giustificare, anche se mi rendo conto, grazie alle proposte di Pöhlmann, che le possibilità aperte sono più delle due da me identificate.
Per un approccio prossemico al dramma attico. Su alcuni passi dell’Edipo re 1. Prossemica sulla scena splendido: Oed. chiede al servo di avvicinarsi e di alzare gli occhi (giusto che una persona sottoposta stia lontana dal re e tenga gli occhi abbassati), una specie di frammento di manuale di etichetta arcaica di corte1. – 1121 s.
2. Prossemica (implicita?) nella lingua. I vocativi Il vocativo: funzione linguistica del vocativo, che non esclude una funzione anche scenica, assimilabile alla deixis dei dimostrativi dittici. A. Vocativi con funzione scenica: – 9: vocativo con valore di didascalia scenica interna al testo (con la funzione di indicare al pubblico chi è il personaggio alloquito da Edipo, e cioè il sacerdote). La didascalia è necessaria, perché la posizione dei tre gruppi (Oed., sacerdote, giovani) è da intendersi come i tre vertici di un triangolo isoscele, dove ai vertici più vicini stanno il sacerdote e i giovani, mentre al vertice più isolato sta Oed., conformemente al suo rango e di re e di destinatario di una supplica. Se Oed. non cominciasse con un vocativo, non si capirebbe a chi si rivolge, fra sacerdote e giovani. A 216, poi, si rivolge al corifeo, che è sulla scena (276) e reagisce alle parole poco prima cantate dal coro. – 147: misto (il sacerdote ai giovani per farli alzare) B. Vocativi con funzione solo linguistica: – 14+40+46 (il sacerdote a Edipo: singolare agglomerato di vocativi, un po’ perché è il re un po’ perché il re viene supplicato)
|| [Appunto risalente all’incirca al 1995 (nell’a.a. 1994/1995 Rossi teneva un corso monografico dal titolo: “Sofocle, Edipo re. Le aporie dell’intreccio drammatico presenti anche nella tragedia considerata dagli antichi (Aristotele) e dai moderni la più perfetta”). – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti] [1 Rossi aveva già fatto notare il valore prossemico di questo passo in Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica, in L. de Finis (ed.), Scena e spettacolo nell’antichità. Atti del Convegno Internazionale di Studio Trento, 28–30 marzo 1988, Firenze, Olschki, 1989, pp. 63–78, a pp. 72–73] https://doi.org/10.1515/9783110648126-042
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– 58 ὦ παῖδες οἰκτροί: Oed. a tutti i supplici. Qualcuno (.....) può pensare (o pensa) che si tratti solo dei giovani, ma è chiaro che si rivolge a tutti, sacerdote compreso, perché 1) non c’è ragione che lo escluda; 2) se voleva escluderlo, lo avrebbe detto chiaramente con un’apostrofe destinata solo ai giovani; 3) Oed. è il re buono, il papà della città, e quindi sono tutti suoi figli, ὦ παῖδες οἰκτροί.
Teatro e comunicazione nella Grecia antica I modi della comunicazione antica e i modi della comunicazione moderna Non sembri strano che, per un’analisi della comunicazione nel teatro, io cominci evocando una mia – e certo non solo mia – esperienza in un campo diverso, quello dell’approccio alla lirica corale: spiegherò fra poco la ragione di questo mio procedere. Ora, quando intraprendo la semplice rilettura delle singole odi di Pindaro, lo faccio sempre con grande sforzo, nonostante le conosca relativamente bene, dopo anni e anni di rivisitazioni. Non illudiamoci: è uno sforzo che facciamo tutti, sia chi legge Pindaro per la prima volta sia chi lo legge per la decima o per la ventesima volta. Pindaro è uno di quegli autori che saranno sempre ammirati perché nessuno li capisce o addirittura nessuno li legge, come diceva Voltaire: la fatica è fatta per essere scansata. Perché succede questo? Vorremmo cercare di spiegarci perché Pindaro – diciamocelo francamente – è così complicato e difficile. La domanda fondamentale che dobbiamo porci è proprio questa: perché è così difficile? È una domanda che ci si pone spesso, ma la risposta che do io oggi è diversa da quella che generalmente ci si è data in passato. Si è detto che Pindaro sceglieva di essere complicato perché questa sarebbe stata una caratteristica della sua persona e conseguentemente del suo stile. Ma questa è una risposta che va bene per le letterature moderne, nelle quali la comunicazione letteraria lascia ampia libertà di scelta per modi e stile: l’autore moderno sa solo con vaga approssimazione a quale pubblico si rivolge, e d’altra parte si sente autorizzato, da
|| [Conferenza recitata in diverse sedi (per i “Colloquia 1996” di Pierluigi Petrobelli, Aula di Storia della musica della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma, L 29.1.1996, ore 17.30, con il titolo di Parola, musica e danza nella Grecia antica; Liceo “Tito Livio” di Padova, Mt 12.3.1996, ore 17, La comunicazione letteraria nella Grecia arcaica: l'epica e la lirica; Liceo “Visconti” di Roma, Mc 10.10.1996, ore 14.30, Il destinatario o i destinatari dell'opera letteraria arcaica; in altre sedi nel 1997 con i titoli di Letteratura e comunicazione nella Grecia arcaica e classica e di Lirica corale delle feste e lirica corale del dramma (ovvero: Il doppio destinatario della lirica corale arcaica); a Salamanca a fine ottobre 2000, Literatura y comunicación literaria en la Grecia arcaica y clásica; a Cartagena L 22.9.2003, El mundo griego antiguo como espectàculo); pubblicata come saggio in A. Zampetti – A. Marchitelli (edd.), La tragedia greca: metodologie a confronto, Roma, Armando Editore, 2000, pp. 31–40]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-043
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un’estetica ormai secolare, a esprimere se stesso con le sue inclinazioni e le sue idiosincrasie. Ma l’epoca che stiamo considerando è quella fra il VII e il V secolo a.C., quella che fu chiamata “epoca lirica”, nella quale si iscrive la vita di Pindaro (nato intorno al 520 e morto nel 438 a.C.). In quell’epoca le condizioni della comunicazione letteraria erano del tutto diverse dalle nostre: molto più stretto era il rapporto fra autore e pubblico, e corrispondentemente strette erano le vie della produzione da parte dell’autore e della fruizione da parte del pubblico. L’autore sapeva bene a quale pubblico si rivolgeva e i vari pubblici, infinitamente più omogenei di quelli che ci possiamo rappresentare oggi, non avevano grande scelta e di generi e di autori: non si trovavano certo davanti alle infinite proposte di un bancone di libreria. Si trattava di una “società faccia a faccia”, come dicono gli anglosassoni: l’autore componeva per un pubblico del quale conosceva bene quello che oggi chiamiamo l’orizzonte di attesa e il pubblico poneva all’autore delle richieste molto precise. Per di più la pubblicazione avveniva in occasioni determinate, come le feste con gli agoni: la data tradizionale dell’inizio degli agoni di Olimpia è il 776 a.C. In principio in queste feste c’era l’epica, e più tardi (e cioè nell’epoca lirica) all’epica si affiancò la lirica. Più tardi, dopo la metà del VI secolo, Atene istituì gli agoni drammatici, che sfociavano nelle esecuzioni pubbliche dei drammi nel teatro di Dioniso. Insomma, il rapporto autore–fruitore non avveniva di fronte alla pagina scritta o stampata, bensì in una esecuzione “aurale”, e cioè destinata all’orecchio, nonché visiva. Da questi fatti accertati possiamo capire quanto diversa era la situazione loro dalla nostra e quanto è necessario che di questi fatti si tenga conto, se si vogliono capire non solo i modi della comunicazione del messaggio letterario, ma anche e soprattutto il valore del messaggio stesso. Allora chiedersi le ragioni dello stile così difficile di Pindaro provocherà risposte diverse da quelle che ci diamo se ci chiediamo la stessa cosa a proposito di un autore moderno. Perché è ovvio che l’autore moderno opera delle scelte molto più libere, molto meno condizionate. Non che io voglia negare la libertà all’autore antico, ma è accertato che l e s c e l t e d e l l ’ a u t o r e a n t i c o erano molto più condizionate dai modi stessi della c o m u n i c a z i o n e . Così, se mettessimo a confronto Pindaro e Sofocle con criteri moderni, diremmo che Pindaro è una specie di Thomas Mann dello stile che sceglie di essere complicato per sue ragioni particolari (e qui nella critica moderna, con diverse accentuazioni, si prospetta il problema della valutazione di Thomas Mann come persona, della sua psicologia ecc.), mentre di Sofocle diremmo che il suo stile è di tanto più semplice e piano quanto più semplice e serena era la sua persona. In realtà la tradizione biografica su Sofocle ci tramanda proprio questa sua identità di personaggio sereno e amabile fra gli ate-
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niesi, ma andremmo disperatamente fuori strada seguendo solo questa via, perché altrettanto semplici e piani sono anche drammaturghi meno sereni di lui: ci troviamo di fronte – come vedremo – a una koiné stilistica propria di tutto il dramma. Tutt’al più possiamo tener conto di una particolare tendenza di Sofocle, che però non lo distingue abbastanza dal resto dei suoi colleghi. Se ci servissimo di criteri moderni, insomma, arriveremmo a risultati critici totalmente falsi, perché non avremmo considerato la profonda diversità del tipo di comunicazione1. Mettiamo in chiaro – e lo ripeto a scanso di equivoci – che non voglio negare in toto l’intervento della personalità dell’autore antico: vorrei solo metterla al suo posto – per quel poco che essa è ricostruibile per noi dalle spesso inattendibili fonti biografiche – e, quando riesco a farlo, mi rendo conto che la personalità dell’autore ha una rilevanza molto minore di quanta ne abbia oggi: l’autore era condizionato dal genere letterario in cui componeva. Ho cominciato con Pindaro, ma adesso passo alla lirica del dramma, perché il fenomeno Pindaro – che ho preso come esemplare nell’ambito della lirica corale arcaica – mi è sembrato una pietra di paragone, un caso in cui la comprensione del messaggio verbale si presenta a noi, e si presentava anche agli antichi, come molto difficile a differenza della lirica del dramma, che per gli antichi e per noi è tanto più facile. E, se contrappongo proprio Pindaro alla lirica del dramma, lo faccio perché i modi della comunicazione sono gli stessi per i due generi letterari: in tutti e due i casi abbiamo un m e s s a g g i o c o m p o s i t o che si realizza attraverso la compresenza o fusione di tre messaggi, e cioè quello v e r b a l e più quello m u s i c a l e più quello o r c h e s t i c o : le parole di tutti e due questi due diversi tipi di testo verbale erano ugualmente cantate e danzate. Chiedersi quello che ci chiediamo qui, e cioè le ragioni della complicatezza o meno del messaggio verbale, ha un senso solo se consideriamo la totalità del messaggio complessivo e il rapporto in cui, in quest’ambito, viene a situarsi il messaggio verbale: le parole, se vogliamo esprimerci in maniera più semplice, quale ruolo avevano nel messaggio complessivo? Quale era il singolo messaggio (verbale, musicale, orchestico) che prevaleva? Ora, in contrasto con Pindaro, chiunque abbia esperienza di lettura dei cori del dramma attico si rende conto che li legge con molta più facilità: sono molto
|| 1 Sull’importanza dei modi della comunicazione ho impostato la mia Letteratura greca, Firenze, 1995 (con la collaboraz. di R. Nicolai, L.M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini); e rimando anche a Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti, di prossima pubblicazione.
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più piani, hanno uno stile molto più lineare e semplice, e mi venne a suo tempo il sospetto – che sono poi riuscito a confermare – che i cori di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane fossero capiti molto meglio di quanto non lo fosse Pindaro e tutta la lirica corale: anzi, che fossero stati composti dai drammaturghi proprio per essere capiti. Mi si sono posto, allora, due problemi. Il primo era quello di q u a n t i f i c a r e q u e s t a d i f f e r e n z a d i d i f f i c o l t à , per evitare di affidarmi a impressioni troppo soggettive e di espormi quindi al sospetto di arbitrarietà; e il secondo era quello di darmi finalmente un p e r c h é che sfuggisse a quelle categorie tanto consuete alla critica letteraria moderna e a quella crociana in particolare, e cioè quelle espresse da formule (diventate ormai stucchevoli) come “caro a”, “prediletto da” e simili. Alla scelta autoriale totalmente libera volevo sostituire, in gran parte, alcuni fattori molto concretamente condizionanti a causa della così diversa situazione esterna della comunicazione.
Un tentativo di quantificare la difficoltà dello stile: l’iperbato Quella che finora ho presentato come impressione mia e non solo mia – e cioè la differenza di difficoltà nel messaggio verbale fra la lirica corale e quella del dramma – andava verificata con criteri di valutazione il più possibile oggettivi che quantificassero questa difficoltà. Ormai molti anni fa, e precisamente alla fine degli anni Settanta, mi venne in mente di usare, come test per questa quantificazione, la frequenza dell’iperbato. Che cos’è l’ i p e r b a t o ? È la separazione di due parti del discorso sintatticamente connesse fra di loro attraverso l’inserzione di altre parti del discorso. Non c’è bisogno di spender parole per mostrare che l’iperbato rende il discorso più difficilmente decodificabile, e questo per ovvie ragioni di ordo verborum che in alcuni casi si presenta come inusitato: ed è anche ovvio che un testo congegnato a iperbati risulti più accogliente alla lettura della pagina che nell’ampio e dispersivo spazio dell’ascolto. Per di più un messaggio verbale che abbia accompagnamento di musica e di danza risulta, come tale, disturbato dagli altri due messaggi: è disturbato da quello che in teoria della comunicazione si chiama “rumore”. Se si somma la strutturazione a iperbati con il “rumore” di musica e di danza, la parola rischia di annegare. Do qui un esempio di uno dei tanti iperbati pindarici, che rispondono a una misura media di distanza: Pind. Isthm. 5. 8 s. ὅντιν’ ἀθρόοι στέφανοι // χερσὶ νικήσαντ’ ἀνέδησαν ἔθειραν.
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Ma sfido l’odierno lettore a orientarsi in un ginepraio come l’accavallamento di ben quattro iperbati, per di più intrecciati fra loro, e non so immaginare quanto l’antico ascoltatore–spettatore potesse ricavarne in termini di senso: Pind. Isthm. 1. 64–66 εἴη μιν εὐφώνων πτερύγεσσιν ἀερθέντ’ ἀγλααîς // Πιερίδων... [4 parole] // [2 parole]... φράξαι
La mia intuizione iniziale fu che la forte differenza di difficoltà del messaggio verbale nella lirica corale e nella lirica del dramma doveva corrispondere a f u n z i o n i che trascendevano la personalità dei singoli autori (poeti lirici e poeti drammatici) e che andavano riferite piuttosto ai due diversi generi letterari, la lirica e il dramma. Quell’intuizione divenne certezza sulla base delle ricerche condotte nel mio seminario di Letteratura greca2 negli anni accademici 1979–80 e 1980–81, che furono poi seguite, fino ad oggi, da ricerche ulteriori su singoli testi. Avevo lanciato l’idea iniziale, che fu raccolta da quelli che allora per primi si impegnarono nella lettura mirata di vari testi con lo scopo di raccogliere gli iperbati e di ricavarne delle statistiche. Ricordo quell’esperienza come una delle più belle che io abbia mai vissute in seminario: ad ogni incontro ci si chiedeva, prima della seduta e con un’ansia che credo fosse condivisa da tutti, i risultati statistici delle ricerche della settimana precedente: fin dalle prime conferme dell’idea iniziale cresceva in me la gioia per la bontà di quell’idea e nei più giovani la fiducia in un lavoro che di volta in volta acquistava più senso3. Non sto qui a dare nel dettaglio i criteri che guidarono la raccolta del materiale, visto che in sintesi li ho esposti altrove4. È solo utile che dica qui di quali autori si fece lo spoglio: campionature di Pindaro (le Istmiche), di Bacchilide e della lirica dei tragici. Risultò che Pindaro ha un iperbato ogni 20 parole, Bacchilide uno ogni 40 e i tragici uno ogni 100/200: ne veniva confermata l’ipotesi iniziale, che cioè il dettato verbale dei lirici corali fosse molto, ma molto più
|| 2 L’autore insegna Letteratura greca presso l’Università di Roma “La Sapienza” (N.d.C.). 3 Sono debitore a quegli allievi di anni ormai lontani, alcuni dei quali hanno raggiunto o stanno raggiungendo alti obiettivi accademici, di una pubblicazione dettagliata di quei lavori: lo sto facendo con la collaborazione dei nuovi volenterosi allievi di questi ultimissimi anni. 4 L.E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, «Orpheus», 4, 1983, pp. 5–31 (spec. 8–11) e Lo spettacolo, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia, cultura, arte, società, 2, II, Torino, 1997, pp. 751–793 (spec. 763–765, 776 sg.). Come base statistica pensai di assumere non il verso, di estensione così variabile in lyricis, bensì la parola, e naturalmente la parola fonetica (πρòς ἄνθρωπόν τινα vale ovviamente per una parola unica). Avverto che gli iperbati raccolti sono solo quelli propriamente artificiosi, ad esclusione di quelli che si devono considerare propri di lingue flessionali come il greco e il latino (Ed. Fraenkel, Iktus und Akzent, Berlin, 1928, pp. 39 sgg., 162 sgg.).
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complesso di quello dei cori della tragedia, che hanno un numero di iperbati dalle cinque alle dieci volte minore rispetto a Pindaro. A chi obiettasse – e ci fu chi lo fece, e con ragione – che lo stile di un autore non si lascia definire solo con gli iperbati risposi e rispondo che non mi sognavo certo di spiegare tutto in quel modo. Resterebbe da considerare il lessico, che sia nella lirica sia nella tragedia ha alle spalle Omero: ma un’analisi attendibile richiederebbe attenzione alle congetturabili neo–formazioni (specie composti)5, che si staccherebbero dalle formazioni già omeriche, e quindi già familiari al pubblico. Ma questo comporterebbe un’analisi (del resto praticata, ma con maggiore o minore rigore di metodo) che non permetterebbe una quantificazione semplice e attendibile, vista la difficoltà di valutare le singole unità lessicali, le singole parole. Se non si vuole inutilmente sottilizzare, una statistica è pur sempre un’utile radiografia linguistica o stilistica che va utilizzata con cautela: ma qui, di fronte a risultati così strepitosamente univoci, penso che di cautela sia inutile parlare. Restava da chiedersi se questo risultato rivelasse la funzione della maggiore o minore complessità dello stile dei due generi letterari presi in esame, la lirica corale e il dramma.
La valutazione dei risultati statistici: la funzione della lirica corale e della lirica del dramma Potendo basarsi non più su imprecise impressioni di lettura, ma finalmente su dati statistici che per il loro massiccio consenso permettevano un’interpretazione univoca, mi sembrò che il perché di tanto rilevanti differenze nella costruzione del messaggio verbale si potesse davvero chiaramente capire. Per dare maggior credito alle conclusioni che fra poco esporrò, faccio qui seguire alcune ulteriori considerazioni. I lirici corali sono più difficili della lirica del dramma non solo se si confrontano i due dettati verbali: c’erano alcuni fattori che aumentavano ulteriormente l’ampiezza della “forbice”. A rendere meno trasparente il dettato verbale dei lirici corali c’era, oltre all’abbondanza degli iperbati, anche il “rumore” di musica e danza di cui si è parlato prima. Ma c’era anche un altro fattore, e cioè l’ a c u -
|| 5 Ho personalmente sempre osteggiato la segnalazione secca di hapax, che sono tali solo nella nostra (lacunosa) documentazione: un hapax, per essere valutato come parola rara o unica, ha bisogno di una accurata analisi linguistica.
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s t i c a : la lirica corale si eseguiva negli spazi aperti dei santuari6 (Olimpia, Delfi, l’Istmo, Nemea, per nominare solo le grandi feste panelleniche), e cioè in presenza di condizioni d’acustica piuttosto cattive, mentre il dramma si eseguiva nei teatri, dove l’acustica poteva variare da buona a ottima. Questo doveva aumentare l’“oscuramento” del messaggio verbale. E ancora, c’era i l n u m e r o d e i c o r e u t i , che nel caso della lirica corale erano 50, mentre nel dramma erano 12 e poi 15 per la tragedia e 24 per la commedia: altro fattore di straniamento linguistico. E non dimentichiamo l’ i m p a s t o d i a l e t t a l e , notoriamente più straniante (più “dorico”) nella lirica corale che nella lirica del dramma. Ma infine c’era – a rendere davvero enorme lo iato fra lirica corale e dramma – l a c o s t r u z i o n e s t r o f i c a : in Pindaro e Bacchilide lo schema è normalmente la triade più volte ripetuta (strofe, antistrofe, epodo: AAB, AAB,...), mentre nel dramma c’è prevalentemente la semplice ripetizione di strofe/antistrofe (AA, BB...) o al più, ma di rado, la costruzione a triadi, diverse però fra loro (AAB, CCD,...). Se poi si considera il fatto che le strofi pindariche e bacchilidee sono molto, molto più complesse di quelle dei drammaturghi, si capisce che anche questo importante fattore convergeva verso l’offuscamento del messaggio verbale a tutto vantaggio delle evoluzioni della danza, che era strettamente legata proprio alla costruzione strofica. La causa è semplice: quante volte si ripetono le costruzioni strofiche nei drammaturghi? Normalmente due o al massimo tre. Pindaro, invece, ha in media tre/cinque ripetizioni della triade, mentre la Pitica IV ne ha nientemeno che tredici: è chiaro che la tessitura di un testo che deve adattarsi a uno schema metrico tanto complesso e tante volte ripetuto porta a una difficoltà compositiva davvero notevole, che addirittura invita all’iperbato, anche al più artificioso. Proviamo a ripetere una stessa complessa strofe petrarchesca, con l’alternanza regolare fra differenti versi (endecasillabi, settenari, quinari) e con il rispetto ossessivo delle rime, per cinque, dieci, tredici volte e vediamo che cosa ne viene fuori quanto a limpidità di dettato. Non inganniamoci per il fatto che il grande Petrarca ci dà un’illusoria impressione di oleata facilità: era Petrarca. Giacomo Leopardi, che era quello che era, alcune delle strettoie della strofe petrarchesca se le è tolte di dosso. Pare proprio, insomma, che tutti questi fattori tradiscano un molto minore impegno del lirico corale nel rendere intelligibile il messaggio verbale a tutto vantaggio dell’aspetto spettacolare rappresentato dalla musica e dalla danza. La ragione è evidente: quello che contava per il pubblico delle grandi feste era soprattutto lo s p e t t a c o l o . Del dettato verbale dovevano venir percepiti dal || 6 I teatri che oggi vediamo nei grandi santuari sono più tardi.
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pubblico solo alcuni elementi: i nomi propri sia della sede degli agoni, sia della divinità a cui erano consacrati, sia del committente, si trattasse di una città o di un singolo personaggio come nell’epinicio; in più qualche solenne e ricorrente parola–chiave come “virtù” (la famigerata ἀρετά, con il suo solenne vocalismo dorico), come “ricchezza” ecc. Molto era quello che per il gran pubblico andava perduto. Non c’era da aspettarsi che le complesse contorsioni narrative del mito o le solenni sententiae generales della parte gnomica venissero veramente percepite: del resto, si trattava di un’etica aristocratica, con la quale il variopinto pubblico delle feste aveva per lo più poco a che fare. Ma un’ultima domanda, allora: se quelle contorsioni narrative e quelle solenni sentenze erano perdute per il pubblico, a che servivano? Erano un solo supporto verbale al canto e alla musica? No: erano dirette al nobile e/o ricco c o m m i t t e n t e , che al poeta, da lui profumatamente pagato, aveva dato precise direttive su che cosa cantare e su come cantarlo (i grandi precetti etici della classe dominante, i miti prediletti in famiglia, l’attualità personale ecc.). Non va dimenticato che gli epinici, come ci viene testimoniato, venivano eseguiti dopo anche nelle case dei committenti, di fronte a un uditorio selezionato ed esigente: e, quanto alle condizioni del canale, e cioè dell’acustica, la situazione era a sua volta diversa, trattandosi di esecuzioni a lor modo “cameristiche”. Ecco un caso di quello che chiamerei d e s t i n a z i o n e d o p p i a , diretta ad almeno due destinatari distinti: il pubblico della festa e il committente. Al contrario, i cori della tragedia dovevano presentare un dettato verbale più piano, più percepibile, perché il loro contenuto interessava tutto il pubblico della polis: il destinatario era unico. Il coro cantava contenuti che interessavano tutti, che erano patrimonio culturale comune: l’etica era quella del pubblico del teatro, e cioè la comunità della polis ateniese, e ugualmente dovevano essere comprensibili le allusioni e le citazioni dei miti che quei contenuti etici illustravano; l’attualità politica era quella vissuta da tutti i cittadini in quel momento. E, in più, alcune volte il coro si comportava come un vero e proprio personaggio prendendo parte all’azione, come possiamo verificare per esempio nell’Aiace di Sofocle e come ci dice Aristotele nella Poetica (1456 a 25–27) proprio a proposito di Sofocle. Insomma: le parole del coro potevano avere anche una funzione drammaturgica precisa e dovevano quindi raggiungere il pubblico così come lo raggiungevano i trimetri stentoreamente declamati del dialogo. Tengo a ribadire ancora una volta che non proprio tutte, ma almeno alcune differenze di stile non furono il frutto di una semplice e arbitraria scelta: troppi fattori condizionanti e la d i v e r s i t à d e l l e f u n z i o n i le avevano rese obbligate, quelle apparenti scelte.
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A conclusione del mio discorso, che – come ho scritto più su – ha rilevanti risvolti didattici essendo nato nell’ambito del seminario, ripeterò che raramente mi è capitato di provare e di suscitare tanto entusiastico interesse come nelle a volte faticose ricerche che hanno dato fondamento alle idee espresse qui sopra, nate da un’iniziale intuizione poi verificata. È questo l’augurio che faccio a me stesso per gli anni d’insegnamento che mi restano.
Il dramma satiresco Dovendo parlare del dramma satiresco non posso non tener conto della struttura di questo convegno che, intendendo fare il punto sul teatro greco, pone in successione degli interventi sull’idea del tragico, sulla tragedia, sulla commedia e sul teatro fliacico. I dati che riferirò sul dramma satiresco quale “fenomeno letterario unico”1, che non ha avuto alcun seguito nel mondo moderno, sono ormai da tempo acquisiti. Del dramma satiresco sottolineerò esclusivamente alcuni elementi riguardanti la sua natura e la sua funzione, partendo però dalla sua storia. 1. Quando nasce il dramma satiresco? È una creazione degli agoni drammatici ateniesi, oppure li precede? Secondo Aristotele2 uno degli antecedenti della tragedia è il satyrikòn, insieme con il ditirambo. Egli – che scrive la Poetica dopo almeno cento anni di assenza del dramma satiresco dalle scene – si dilunga a parlare del satyrikòn, descrivendolo come uno spettacolo improvvisato, rozzo, primitivo, di diffusione locale e non entrato a far parte degli spettacoli ufficiali della polis. Aristotele non parla mai del dramma satiresco vero e proprio. Molto probabilmente il suo silenzio è dovuto proprio alla decadenza e alla scomparsa di questa forma drammatica. La considerazione del processo storico del dramma satiresco, così come noi lo conosciamo, ci porta ad affermare che esso non è un antenato delle gare ateniesi, ma una loro creatura. Questa può essere la spiegazione: l’evoluzione della tragedia aveva prodotto una indipendenza della tematica tragica dal riferimento a Dioniso. C’è un detto che tramanda la memoria di questo distacco: oὐδὲν πρòς τòν Διόνυσον (“niente a che fare con Dioniso”). Il dramma satiresco risponde ad una necessità avvertita dopo alcuni decenni: reintroducendo i satiri legati al corteggio dionisiaco, rinnovava il ricordo della consacrazione degli spettacoli ateniesi al dio Dioniso3. || [Relazione di convegno (Santa Severina, Liceo Classico “D. Borrelli”, S 24.4.1999, ore 11), pubblicata in S. Parisi (a cura di), Il punto sul teatro greco antico. Atti del Convegno Nazionale di Studi dell’Associazione Italiana di Cultura Classica – Delegazione di Santa Severina (Santa Severina – Crotone, 24–25 Aprile 1999), Gallo & Calzati Editori, Bologna 2002, pp. 58–64] 1 Vi è una questione relativa alla tipizzazione del dramma satiresco. Più che di un genere letterario, si deve parlare di un “sottogenere letterario” (cfr. infra). 2 Poetica, 49a 19–21. 3 In un frammento di Pratina si legge di un coro di Satiri che legittima a proprio vantaggio il diritto a celebrare il culto del dio Dioniso. I Satiri, infatti, unitamente al loro capo Sileno, sono figure mitologiche, con caratteristiche ferine, legate alla celebrazione dei culti dionisiaci. https://doi.org/10.1515/9783110648126-044
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Questa è la ricostruzione dello sviluppo storico: si parte dal satyrikòn e dal ditirambo per giungere alla tragedia, successivamente si arriverà alla tragedia con il dramma satiresco adattato a immagine e somiglianza della tragedia stessa. Tutte queste ragioni ci convincono a chiamarlo preferibilmente “dramma satiresco attico”, introdotto negli spettacoli di stato ateniesi – secondo la tradizione alessandrina – dal poeta Pratina di Fliunte4, la cui attività risale al periodo posteriore a Tespi. Secondo le fonti, Pratina sarebbe stato chiamato dal Peloponneso ad Atene nella 70a Olimpiade (499–496 a.C.) e avrebbe gareggiato con Eschilo e con Chèrilo, introducendo il dramma satiresco5. 2. Un altro interrogativo riguarda la natura del dramma satiresco. Precisandone la natura si potrà chiarire la differenza che lo distingue dalla commedia. Come è noto, intorno alla metà del V secolo a.C., la tetralogia tragica è costituita da tre tragedie, a cui fa seguito un dramma satiresco. Ma le testimonianze sul dramma satiresco sono avare. Rimangono frammenti consistenti dei Pescatori con la rete di Eschilo, 400 versi mutili dei Cercatori di orme (circa la metà dell’opera) di Sofocle e il Ciclope di Euripide, l’unico che la tradizione ci ha tramandato per intero. Sulla base di queste testimonianze si può affermare che il carattere del dramma satiresco è totalmente diverso da quello della tragedia. Eppure, secondo quanto accade nella tragedia, compaiono come protagonisti dèi ed eroi. Però, normalmente, la tragedia è il luogo del pianto, il dramma satiresco – al contrario – è quello del riso. Ma non è anche la commedia il luogo del riso? Dove si trova la differenza? Si può dire che il dramma satiresco è tendente al comico, ma si differenzia dalla commedia perché non è farsesco e ha un freno stilistico. Il dramma satiresco ha un carattere mitico come la tragedia, ma non presenta elementi politici, di inventiva e di parodia. Insomma, il dramma satiresco è condizionato dalla sua collocazione, giacché si trova immediatamente dopo la tragedia, e l’effetto di questa vicinanza si nota sia nel decoro formale sia nei personaggi. La differenza più evidente sta, infatti, nel diverso statuto dei personaggi. Tutti i personaggi della commedia, inventati o stravolti dalla parodia, sono coinvolti nel riso; i personaggi del dramma satiresco, invece, sono gli stessi della tragedia, e ne conservano l’ethos: sono personaggi epico–tragici. L’eroe tragico è immerso con effetti paradossali nell’atmosfera del riso creata dai satiri, o comunque da personaggi quasi satireschi. E in tale contesto l’eroe della tragedia conserva l’ethos del personaggio del mito e tutta la sua dignità. L’esemplificazione di queste
|| 4 Fliunte si trova a Nord–Est del Peloponneso, fra Sicione e l’Argolide. 5 Cfr. M. DI MARCO, «Il dramma satiresco di Eschilo», in Dioniso 61 (1991) 399–61; ID., «Sul finale dei “Theoroi” di Eschilo (fr. 78 c, 37 ss. R)», in Eikasmos 3 (1992) 93–104.
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caratteristiche si trova nel Ciclope: Odisseo mantiene le peculiarità del personaggio epico e tragico, e si tiene distante dalle buffonate di Sileno. Sarà per questa serie di motivi che già nell’antichità, nel De elocutione di Demetrio, il dramma satiresco viene definito “tragedia scherzosa”. L’aspetto comico prevalente è il satiresco, e convivono il riso dei satiri con elementi tragici che rimangono intatti. La vicinanza alla tragedia, che rende più marcata la differenza dalla commedia, è data anche dalla struttura. Le strutture proprie della commedia quali la parabasi e l’agone, differiscono dalla struttura del dramma satiresco, identica a quella della tragedia: vi troviamo, infatti, prologo, parodo, dialogo, stasimi. In comune con la tragedia c’è anche la lingua dei personaggi che, pur mantenendo il livello della tragedia, fa qualche concessione in più a livello colloquiale. Anche il metro è più vicino alla tragedia che alla commedia, anche se mostra qualche differenza. Le parti corali sono spesso monostrofiche o astrofiche e appaiono come stilizzazione di forme liriche popolari. A rigore, si deve affermare che il dramma satiresco è tragedia, in quanto ne è l’esatto rovescio. Nel V secolo a. C. chiudeva la trilogia tragica. Non si trattava evidentemente di una tragedia né di una commedia. Alcuni caratteri interni al dramma satiresco unitamente ad elementi strutturali ci fanno trarre alcune prime conclusioni: il coro del dramma satiresco – sia pure con caratteri e funzioni molto vari – era costituito dai satiri, cosa questa che lo differenzia dalla tragedia; l’estensione media del dramma satiresco è di circa 800 versi; ha canti corali molto ridotti e introduce pochi personaggi in un intreccio molto semplice. Ma della tragedia conservava i personaggi tragici, carichi del loro decoro e del loro ethos tragico, e per questo si differenzia dalla commedia. Per tali motivi non si può parlare di un genere letterario a sé, ma può essere meglio definito come un sottogenere della tragedia6. 3. Alla luce dello sviluppo storico si può anche ricostruire la funzione del dramma satiresco. Le poche informazioni letterarie giunte fino a noi ce ne danno testimonianza; ed insieme con esse anche la successiva evoluzione storica. Nella Arte poetica di Orazio (nei vv. 223ss) leggiamo che lo spettatore andava trattenuto con l’attrattiva di una grata novitas e il lessico di Fozio (IX secolo) ci informa che il dramma satiresco fu introdotto negli spettacoli dram-
|| 6 Cfr. L.E. ROSSI, «Il dramma satiresco attico. Forma, funzione e fortuna», in Dialoghi di Archeologia 6 (1972) 248–302; DANA FERRIN SUTTON, The Greek Satyr–Play, Meisenheim am Glan 1980; AA. VV., Satyrspiel, a cura di B. Seidensticker, Darmstadt 1989 (vari contributi, a cominciare da I. Casaubonus, 1605; ricca bibliografia).
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matici πρòς διάχυσιν, “a scopo di distensione”. La tragedia provocava grande emotività negli spettatori, soprattutto agli inizi: Eschilo, ad esempio, è pieno del lessico della paura, che riflette l’emozione degli spettatori. Ma col passare degli anni ci fu una progressiva assuefazione del pubblico agli orrori del mito rappresentati sulla scena. Così bisogna spiegare nella tetralogia la presenza di una vera tragedia (l’Alcesti di Euripide) al posto del dramma satiresco nel 438 a. C. C’è, dunque, una trasformazione del dramma satiresco, motivata dalla decadenza della sua funzione di sollievo. Quando questo “sottogenere” giunse all’età ellenistica, vi si presentò con qualche novità, con l’allusione – ad esempio – a personaggi contemporanei, ma in tal caso si tratta di una vera trasformazione giacché prenderà vita qualcosa di completamente diverso. Restando al dramma satiresco si può parlare di una triplice funzione: la prima fu quella di riavvicinare gli spettacoli di stato ateniesi a Dioniso; la seconda fu quella della distensione: mentre la tragedia doveva provocare la catarsi con la pietà e il terrore, il dramma satiresco invece, quale tragedia che fa ridere, doveva generare nello spettatore una autentica liberazione. La terza funzione può essere definita propriamente “sociale”. A tale proposito può essere significativa una sottolineatura storica: nel 508 a. C. Clìstene aveva operato ad Atene la cosiddetta riforma “democratica”, in virtù della quale in ciascuna delle dieci tribù dell’Attica confluivano sezioni territoriali della città (Atene), della costa e della campagna. L’introduzione del dramma satiresco7 (poco dopo l’anno 500 a. C.) segue questa riforma e determina qualcosa che non può essere licenziata come una semplice coincidenza: la fusione politica della campagna con la città aveva portato sulle scene ufficiali della polis quella tematica e quell’ambientazione campestre, che è così tipica del dramma satiresco, per venire incontro ai gusti della classe dei contadini. Il dramma satiresco dava voce alla parte della popolazione legata alla vita nei campi. Fu questa anche la possibile motivazione del registro colloquiale della lingua utilizzata, tipica di chi “parla dal basso”. Funzioni trasformatesi, poi, nel tempo giacché il dramma satiresco non ha avuto alcuna vita postuma.
|| 7 Cfr. I. GALLO, «Eracle derubato e le origini del dramma satiresco attico», in Ricerche sul teatro greco, Napoli 1992, 23–41 (importante rivalutazione di vasi della fine del VI secolo a. C. che possono rimettere in discussione, alzandola di poco, la cronologia tradizionale del dramma satiresco).
L’eroe nell’età classica La commedia attica e il suo vero eroe: la polis La commedia rappresenta il riso integrale contrapposto alle lacrime della tragedia. Ma, se si ha l’avvertenza di indagare il terreno sul quale questo riso nasce e fiorisce, si hanno delle sorprese. Naturalmente quanto qui si dice è riferito alle commedie che non siano di parodia mitologica, come erano invece prevalentemente le commedie dei commediografi più antichi. La realtà che la commedia di argomento ‘cittadino’ rispecchia è il corpo cittadino, e questo è un luogo comune da tutti condiviso: personaggi singoli e istituzioni sono esposti alle aggressioni del ridicolo, perché il pubblico deve divertirsi. Ma c’è un fattore che merita riconsiderazione, perché è stato spiegato o come ovvio o in maniera forse erronea. Perché mai la realtà quotidiana della polis è rappresentata sempre in negativo? Questo è frutto di una precisa intenzione di opposizione politica? L’impegno politico unidirezionale di Aristofane è stato negli ultimi tempi fortemente ridimensionato. Il commediografo e i suoi colleghi non vanno visti come sostenitori di tesi specifiche volte a modificare l’assetto della città, perché troppe sono le contraddizioni che emergerebbero in una prospettiva del genere: a un esame accurato delle commedie intere di Aristofane e dei frammenti suoi e degli altri non capita mai di trovarsi di fronte a polemiche contro la costituzione democratica della polis ateniese. Del resto il luogo proprio per la discussione politica era l’assemblea: il commediografo aveva solo il compito di divertire, come nelle forme moderne del cabaret.
Whitman e il cosiddetto «eroe comico» Uno studioso americano (Whitman, 1964) definì il protagonista della commedia come «l’eroe comico». Ma questa definizione, se se ne vuole capire a fondo il senso, non fa che dare al personaggio–chiave il suo ruolo (tautologico) di protagonista, che è però molto diverso da quello che il protagonista è per noi e anche, per esempio, per i Greci nel caso della tragedia: in commedia è solo il motore delle varie micro–azioni che costituiscono il corpo scenico della com-
|| [Scheda pubblicata in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 2A, 2003, pp. 445-446]
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media stessa, particolarmente frammentato in episodi volti a suscitare il riso di volta in volta. Il cosiddetto «eroe comico» è un cittadino, che è caratterizzato in sostanza solo come tale, senza particolari tratti che lo impongano all’attenzione dello spettatore (come, invece, l’eroe della tragedia): è una molla che scatena le vicende comiche. In altre parole: lo spettatore era interessato ben più a quelle vicende che non al motore di esse.
La polis come ideale Se si vuole vedere nella commedia un vero e proprio eroe, provvisto delle caratteristiche dell’eroe tragico, come la dignità dell’origine mitica e un’infelicità tale da risvegliare la simpatia e la solidarietà degli spettatori, questo eroe lo si può vedere metaforicamente proprio nella polis, nella città di Atene. Allora tutti gli aspetti negativi che la commedia mette in evidenza servono a due scopi, e a uno in particolare: il negativo serve al ridicolo, e serve quindi al riso (Bergson ebbe a dire che il ridicolo è inutile cercarlo, perché è sempre presente nella realtà); e soprattutto gli elenchi (o ‘cataloghi’ comici) di bassezze umane e di distonie costituzionali servono a dare quell’immagine della amata polis che è polare a quello che si vorrebbe che la polis fosse: potente (com’era, in qualità di centro di un ampio impero insulare) ma onesta; ben strutturata ma efficiente; variegata nella sua campionatura di tipi, ma priva di demagoghi, sicofanti, imbroglioni, ladri, rammolliti e chi più ne ha più ne metta. Le commedie che hanno a soggetto l’età dell’oro rientrano anch’esse in questa categoria, perché presentano in forma di utopia in positivo (e non più in negativo) una convivenza cittadina ideale. La stessa qualifica di utopia, che normalmente viene assegnata a commedie come la Pace, gli Uccelli, la Lisistrata o le Donne all’assemblea, è da attribuire anche alle commedie che, non presentando l’utopia in positivo, la presentano in negativo, lamentando quelle aporie della polis che, assenti, renderebbero alla città le sue qualità ideali. Nessuna seria riforma della costituzione viene mai proposta seriamente: solo nella parabasi delle Rane (686–705, 718–737), rappresentate in un momento tragico per Atene, sconvolta dalla sconfitta finale della guerra del Peloponneso, ci sono accorate proposte miranti, con una riconciliazione interna, a reinstaurare l’unità della cittadinanza; lì il commediografo parla sul serio, senza lo schermo della parodia o dell’utopia. In questa chiave di lettura la commedia è espressione del grande amore per la polis ateniese, condiviso dal pubblico. In tragedia le laudes Athenarum sono continuamente espresse dalla celebrazione delle virtù di una città che protegge e ospita gli eroi infelici (pensiamo, per fare un solo esempio, alla funzione di Teseo nei confronti dell’infelicissimo Edipo dell’Edipo a Colono di Sofocle).
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Nella commedia politica l’amore per la propria città è scenicamente agito, mentre nella tragedia è solo formulato: il formicolio dell’agorà è la città stessa, con i suoi difetti e le sue miserie, che ispirano la solidarietà e la simpatia del pubblico in modo ben più diretto di quanto non avvenga in tragedia. L’eroe infelice della tragedia suscita la pietà (lo ἔλεος della Poetica aristotelica) e quindi la simpatia e la solidarietà del pubblico. Lo stesso avviene per la città–eroe della commedia, che è infelice come l’eroe tragico e che, tra l’altro, ha anch’essa un suo passato mitico e una sua nobiltà, che risale al mito eroico e che arriva fino alla mitizzata impresa contro i Persiani (da cui la simpatia per i vecchi maratonomachi). La commedia antica di argomento cittadino fa intravedere, anche nella combattività di alcuni agoni, una volontà di conciliazione che quasi spunta l’aggressività comica, necessaria per il riso, in una sintesi finale che esprime amore campanilistico e attaccamento alla propria realtà cittadina1.
|| 1 La proposta di questa chiave di lettura è in L.E. Rossi, La polis come protagonista eroico della commedia antica, di prossima pubblicazione negli Atti del convegno dell’INDA a Siracusa tenutosi nel settembre 2001[; pubblicato poi in Il teatro e la città. Poetica e politica nel dramma attico del quinto secolo, Atti del Convegno Internazionale Siracusa, 19–22 settembre 2001, premessa di G. Picone, introd. di M. G. Bonanno e G. Mastromarco, «Quaderni di Dioniso» 1, Palermo, Palumbo, 2003, pp. 11–28.]
La polis come protagonista eroico della commedia antica* ἔπειτα μείζω τῶν Κϱαναῶν ζητεῖς πόλιν; Tereo–Upupa in Ar. aν. 123 ἡ μὲν πόλις ἐστὶν Ἀμαλθείας ϰέϱας † σὺ μόνον εὖξαι ϰαὶ πάντα παϱέσται Ar. fr. 707 Κ.–Α.
1. Premessa Nel momento in cui ho ricevuto l’invito dagli organizzatori, che qui di nuovo – e pubblicamente – ringrazio, a tenere una relazione sulla commedia a questo convegno, sono stato a un passo dal cedere alla tentazione di presentare un titolo, e un corrispondente contributo, del seguente tenore: “La commedia antica come spettacolo della polis a se stessa”. Avrei ricalcato così il titolo di un lavoro, di parecchi anni fa, che suonava così: “Il simposio greco arcaico come spettacolo a se stesso”1. Ma subito le differenze mi sono apparse più rilevanti di quanto non fossero i parallelismi. Che la commedia metta in scena i personaggi della polis, e cioè la polis nella sua vita quotidiana, è un’ovvietà, soprattutto dopo il classico libro di Ehrenberg2, così ricco di erudizione sociologica e antiquaria, e la mia idea iniziale era che il simposio arcaico facesse lo stesso, ma mi son subito reso conto che in realtà lo faceva quasi esclusivamente con i pro-
|| [Relazione di convegno (Mc 19.9.2001), pubblicata in Il teatro e la città. Poetica e politica nel dramma attico del quinto secolo, Atti del Convegno Internazionale Siracusa, 19–22 settembre 2001, premessa di G. Picone, introd. di M. G. Bonanno e G. Mastromarco, «Quaderni di Dioniso» 1, Palermo, Palumbo, 2003, pp. 11–28] * Devo molti suggerimenti agli amici del mio seminario romano, in primis ad Andrea Ercolani, Michele Napolitano, Roberto Nicolai, ma soprattutto a Maurizio Sonnino. Mi sono molto giovato della lettura di Maria Grazia Bonanno. Di tutto resto responsabile in prima persona, anche per quanto riguarda la bibliografia, oggi sempre più problematica per lo sconfinato numero di voci. 1 Rossi 1983. 2 Ehrenberg 1951. https://doi.org/10.1515/9783110648126-046
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tagonisti delle vicende politiche del tempo3. La poesia simposiale, con la sua dialettica fra lode agli amici e biasimo ai nemici, si trovava a rappresentarsi positivamente gli amici in praesentia e negativamente i nemici in absentia: gli avversari del ristretto gruppo politico non partecipavano ai simposi ed erano assolutamente esterni e inorganici rispetto al gruppo stesso, e come tali non integrati in un contesto omogeneo e coerente, candidati quindi alla distorsione malevola ed eticamente aggressiva imposta unilateralmente a chi, in qualità di elemento estraneo al contesto, era preda assente e passiva. Lo spettacolo che il simposio offriva a se stesso era in parte agito da personaggi vivi e reali perché presenti e in parte da personaggi–fantasma che vivevano solo della rappresentazione che se ne facevano i presenti. Lode e biasimo non si ponevano sullo stesso piano perché i destinatari della lode e del biasimo vivevano sì insieme nella parola poetica, ma su differenti livelli di realtà: integrati e presenti i primi, solo rappresentati, e bene a distanza, i secondi. La differenza di fondo è che il simposio era un evento elitario, mentre la commedia era un evento comunitario della polis. Diverse erano la realtà e la funzione della commedia perché diversa era la situazione della polis democratica rispetto a quella della società aristocratica arcaica del simposio. Nella polis la convivenza delle parti in conflitto sulla scena rispecchiava una convivenza reale e totale con la quale lo spettatore si ritrovava a contatto solo che uscisse dal recinto dello spettacolo e rientrasse in strada. Il rispecchiamento della realtà cittadina è luogo comune per chiunque si sia occupato di commedia. D’altra parte è oggi opinione diffusa che il commediografo non agisse da propagandista politico, né che le sue commedie fossero dei manifesti coerenti e finalizzati al raggiungimento di uno scopo4: molti critici di recente hanno riconosciuto, con varie sfumature, questo fondamentale a-
|| 3 Per il simposio politico arcaico prendo qui a modello Alceo. Diverso sarebbe il discorso per il più tardo Anacreonte, che opera in ambienti vari, fra cui Samo e Atene, e che rispecchia maggiormente il contesto sociale. 4 Vedi le ormai classiche considerazioni di Gomme 1975 (1938), che con la sua impartiality (p. 85) anticipa la ‘riconciliazione’ di Silk 2000 (vedi infra). Per un equilibrato panorama delle interpretazioni politiche e non vedi Bonanno 1979, 311–15, e Mastromarco 1994, 176–82. Silk 2000, 301–349 offre un’aggiornata storia della questione ed è più volte citato qui oltre. Riporto verbatim una sua formulazione che a me sembra felice (p. 301): «One notes, amidst a cluster of seeming choices, a cluster of seeming paradoxes: an apolitical ideal of a polis, a dèmos in power and restored to its full vigour but distancing itself from its own processes, a cheer for peace now but also for a great war then». Giustamente Dover 1972, 84–88 esclude in Aristofane ogni forma di pacifismo programmatico: per i comici la pace era semplicemente la miglior palestra per esercitare le gioie della vita.
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petto della natura della prestazione comica, che risiede nell’esporre al riso personaggi e comportamenti di parti assai varie della cittadinanza, il cui conflitto, organico alla natura della polis, si esercitava all’interno della polis stessa e i cui luoghi drammaturgici più concentrati erano le parti formali della parabasi e dell’agone. Non voglio dire con questo che la commedia fosse apolitica: è chiaro che gli avvenimenti del giorno erano costantemente evocati e messi in discussione5, ma la mancanza di una coerenza politica stretta va secondo me addebitata (se così si può dire) non solo all’evolversi della realtà cittadina nel corso di alcuni decenni, ma anche al fatto che il commediografo non si poneva come vero e proprio propagandista programmatico in senso politico.
2. La polis come protagonista eroico della commedia antica Ora, per la commedia si è molto parlato dell’ e r o e c o m i c o , secondo la fortunata definizione che è d’uso riportare a Whitman per il felice titolo del suo libro6, anch’esso divenuto un classico. Ed è senza dubbio una definizione a suo modo indovinata, perché mette in evidenza quei protagonisti delle vicende cittadine che si chiamano Diceopoli, Strepsiade, Trigeo, Pisetero, Lisistrata etc., che hanno un nome quasi sempre parlante come rappresentanti tipici della cittadinanza. Chiarisco subito che a Whitman contesto il nesso ‘eroe comico’. Fra il suo eroe comico e l’eroe tragico c’è una differenza che tocca soprattutto la tecnica drammaturgica: l’eroe comico è normalmente il semplice motore dell’azione o delle molte microazioni della commedia, tutte di regola fortunate, ed è in sostanza una specie di trickster, mentre l’eroe tragico della tragedia, più o meno in lotta con il destino avverso, è protagonista a vero titolo e del destino è la vittima. Eroe comico può significare quindi semplicemente, secondo me, ‘protagonista’, ma con le rilevanti limitazioni a cui ho accennato. L a m i a i d e a , qui, è che la commedia politica, e cioè non parodica di mito o di tragedia, avesse un suo eroe di alto profilo e, se vogliamo, addirittura eroico–tragico e nella sostanza sconfitto, e che questo eroe fosse la polis stessa. Parlerei quindi della polis come protagonista eroico.
|| 5 Vedi da ultimo Henderson 1993; MacDowell 1993, spec. 350-56. 6 Whitman 1964.
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Mi si dirà che reagisco a una formula, quella di Whitman, che tra l’altro ha avuto molta fortuna, solo per proporne un’altra, ma quest’altra mi ha portato a leggere la commedia in una luce diversa, che consiste nel recepire il grande amore e la grande passione – per non dire addirittura la trepidazione – che il pubblico, il demos7, nutriva per la propria polis, passione e trepidazione che non erano diverse da quelle che il pubblico provava per l’eroe tragico della tragedia. Quanto segue è il frutto di un’intuizione, che propongo senza pretendere di offrire esaustività di materiali: è in sostanza una proposta che, se non contraddetta nella sua sostanza, potrà portare me o altri a risultati più ampiamente documentati. L’eroe tragico è amato in tragedia per le sue sventure: ma anche la polis è amata in commedia e la solidarietà con il protagonista è legata al suo successo nei confronti di una polis, identificata con il demos, fittiziamente trionfante ma sostanzialmente o in pericolo o addirittura sconfitta, in una prospettiva pessimistica a suo modo tucididea8. Parlerei quindi di utopia comica, ma in un senso più ampio di quello che ha presso molta critica designato, per esempio, gli Acarnesi, la Pace, gli Uccelli o le Ecclesianti e riferito solo ai tratti favolistici o inverosimili dell’intreccio9. Io intendo l’utopia comica in senso più ampio: quella di una polis ateniese liberata dalle sue limitazioni, dai suoi difetti, dai suoi insuccessi, dai suoi pericoli, u t o p i a c h e s i e s p r i m e s o p r a t t u t t o i n n e g a t i v o (per esempio con i suoi ‘cataloghi’ di bassezze) ancora più spesso che in positivo con quadri di idilliaca inverosimiglianza, ma nei due casi con la stessa funzione del polo positivo e di quello negativo, quest’ultimo come richiamo polare al primo, che resta sullo sfondo come utopico. Vorrei semplicemente spostare la prospettiva di Whitman, e di molti altri, che è in sostanza la prospettiva del lettore moderno, interessato alla costruzione dell’intreccio (mentre sappiamo bene quante aporie il pubblico si beveva tranquillamente in tragedia!) e alla costruzione drammaturgica del personaggio– guida della commedia: una prospettiva critica che è nostra e che mette in rilievo mezzi e funzioni in gran parte indifferenti allo spettatore antico. Mi sembra che la prospettiva che propongo – e lo si vedrà nel seguito – metta meglio in luce le aspettative e gli interessi del pubblico, del demos. Questo punto di osservazione
|| 7 Da ultimo Reinders 2001 mette in luce le critiche di Aristofane al demos, ma giustamente le priva di atteggiamento programmatico, il che le riporta al piano utopistico generale (visto in negativo) da me qui oltre prospettato. Vedi anche Henderson 1990. 8 Reinhardt 1975, 55. 9 Se ne veda un quadro dello sviluppo storico–critico in Zimmermann 1991. Vari contributi in tal senso in Dobrov 1997.
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ci è ormai familiare dopo alcuni decenni di teoria della ricezione. L’attenzione alla ricezione antica risulta essere di autentica marca storica: ci mette al riparo da indebite intrusioni della nostra sensibilità e della nostra cultura, ci aiuta – in altre parole – a décoloniser l’antiquité, mettendo maggiormente in luce i modi della comunicazione letteraria e le sue funzioni nell’epoca in cui le opere furono composte. Centrare l’interesse sul protagonista ed eventualmente sull’intreccio a me pare operazione che non può esaurire l’analisi della commedia, che – come si diceva prima – si serve del protagonista, tipologicamente delineato, soprattutto per mettere in moto gli ‘episodi’ comici che si susseguono, vero centro dell’interesse del pubblico. Naturalmente occorre tener presente che il pubblico non era omogeneo, essendovi al suo interno classi sociopolitiche e strati culturali vari, e basterebbe pensare alla proedria: ma destinatario, alle volte molto esplicito, era la maggioranza della cavea. E del resto i personaggi messi in berlina erano sia i protagonisti della vita politica sia semplici cittadini, cosa che doveva risultare gradita non solo alla massa popolare, ma anche – com’è anche oggi – agli stessi komoidoùmenoi di alto rango: si può parlare di tolleranza del potere da una parte, e dall’altra di amor di protagonismo. Non che la polis mancasse in tragedia: la valenza fortemente politica della tragedia non ha bisogno di essere riaffermata10 e la polis era presente come istituzione unitaria nella celebrazione delle istituzioni democratiche ateniesi contrapposte o ai barbari o ai mestatori11: ma era solo uno sfondo dell’azione tragicca, sfondo presentato esclusivamente nei suoi ideali valori positivi, abbondantemente celebrati e rappresentati spesso dalle sue figure mitiche, come Teseo in qualità di benefattore. Nella commedia, invece, la polis era presente e partecipante attraverso tutte le sue componenti, istituzionali e personali, soprattutto nei suoi aspetti negativi: nella sua perenne crisi di esistenza, nei difetti delle sue istituzioni, nelle sue insufficienze, nei suoi fallimenti, nelle miserie dei suoi membri, in una prospettiva, insomma, che era fatta di qualche luce ma soprattutto di molte ombre. Era in sostanza l’aria che veniva respirata da tutti e per la quale tutti facevano a loro modo il tifo, compreso naturalmente il commediografo, come portavoce del suo pubblico. Si vedano, in senso emblematicamente || 10 A chi chiedesse di trovare, in poesia o in prosa, opere o interi generi che specialmente nell’Atene del V secolo non avessero alcuna valenza politica bisognerebbe rispondere negativamente. Anche per gran parte della letteratura alessandrina è stato da molto tempo rivendicato un impegno politico, liberandola dalla pesante qualifica, più o meno generalizzata, di esclusivo ‘gioco’ letterario. 11 Direi che il più grande trionfo della polis ateniese, perché è rappresentato come un trionfo su se stessa, sia l’Orestea di Eschilo.
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positivo, la battuta di Tereo–Upupa negli Uccelli (v. 123) e lo splendido frammento, sempre di Aristofane (707 K.–A.), messi come motto qui all’inizio: «E dunque tu cerchi una polis più grande di Atene?»; «La polis è il corno di Amaltea: tu limitati a chiedere, e tutto apparirà». La mia formula, se accettata, avrebbe un vantaggio: quello di sdrammatizzare almeno in parte il conflitto esegetico fra chi vede nella commedia un serio pamphlet politico legato a una parte precisa e chi invece – in netta opposizione – ci vede una semplice carrellata di caricature, in una prospettiva carnevalesca, destinate esclusivamente al riso. La prima posizione ne riduce una funzione prevalente – quella del riso –, mentre la seconda, quando prende da Bachtin il prezioso spunto senza cadere in trappole antistoriche12, ne salva il riso come funzione principale. Naturalmente sdrammatizzare quel conflitto esegetico non significa eliminarlo, perché la commedia è sia l’una cosa sia l’altra: il poeta comico rappresenta la vita della città in tutti i suoi aspetti e da una parte si pone come educatore etico della città13 e dall’altra lo fa divertendo, mentre il poeta tragico lo fa facendo piangere. Ma la differenza non sta solo nell’opposizione pianto/riso: l a d i f f e r e n z a s t a n e l l ’ a m o r e p e r l a p o l i s , c h e in tragedia è dichiarato e nella commedia invece è scenicamente agito, per di più con un coinvolgimento e un pathos condiviso dal pubblico che in tragedia è r i s e r v a t o a l l ’ e r o e i n f e l i c e . La commedia, a mio parere, non dichiara bensì mostra il coinvolgimento dei cittadini nei confronti della loro città14. La mia argomentazione parte dal riconoscimento sia della notevole frequenza del tema polis/demos come centro strutturante di molta parte della commedia antica sia dalla presenza del pathos di cui parlavo prima. Naturalmente la polis può essere protagonista nel suo insieme (pensiamo al Demos dei Cavalieri) e nei suoi singoli cittadini, ma può anche essere presente con alcune delle sue istituzioni (per es. i tribunali nelle Vespe, l’ecclesia nei Cavalieri e nelle Ecclesianti) oppure impersonata in personaggi tipici, e cioè in cittadini presentati come esemplari per virtù o per vizi15.
|| 12 Rösler – Zimmermann 1991, Mastromarco 1994, 27–35, cfr. 167, aderiscono con giudizio alla tesi carnevalesca. Mastromarco fa notare che le lodi si fanno solo dei morti: i viventi non vengono mai lodati, anche se destinati a sicura simpatia come Nicia, che nella Pace non è neanche nominato. 13 Vedi l’interessante reazione di Heath 1987, che non prende sul serio le affermazioni del commediografo in questo senso. 14 Per il coinvolgimento (“partecipazione”) Cassio 1985, soprattutto a proposito della Pace. 15 Sulla polis come comunità di cittadini Gabba 1999; molto ricco sull’argomento è Giangiulio 2001, spec. 78–93. lo mi servo qui della distinzione, semplificata, da una parte di polis come
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Naturalmente questo non significa assolutamente che io voglia assimilare o anche solo accostare tragedia e commedia, che restano due generi del tutto distinti, con proprie e diverse regole formali, aspetti sostanziali e funzione. Tengo ad affermarlo, perché dibattiti recenti si sono incentrati su questa alternativa16. La polis come protagonista eroico svolge il suo ruolo – non come personaggio vero e proprio ma come metafora o insieme di simboli – all’interno del genere comico, e alla polis do la qualifica di ‘eroico’ solo perché la sua funzione emotiva mi sembra simile a quella esercitata dall’eroe tragico. Ogni formula ha il suo lato debole, ma, se non è del tutto arbitraria, può offrire qualche vantaggio per una lettura rinnovata. I punti principali della mia proposta sono due: 1 ) l a p o l i s c o n i l s u o d e m o s c o m e f r e quente vera protagonista e 2) la sollecitudine per la polis stessa, rappresentata dal commediografo nei suoi aspetti negativi, o nei suoi aspetti utopicamente positivi, proprio perché appassionatamente vissuti dal suo pubblico.
3. Aristofane Parlerò prima di tutto delle commedie di Aristofane, sia di quelle conservate per intero sia di quelle frammentarie. Negli Acarnesi l’amore per la polis è mediato attraverso la nostalgia della pace espressa da un demota campagnolo dal nome parlante, Diceopoli. Le istituzioni sono presenti, e spiccano le delegazioni per trattare la pace e l’agorà per il commercio. La nostalgia per la pace, espressa da attori e coro, è nostalgia per la vita quotidiana soprattutto della campagna, ideale ormai lontano dopo sei anni di guerra e di clausura in città. I Cavalieri sono l’esempio più completo della commedia del demagogo17, e quindi della messa in scena della lotta politica. Ma il fatto più importante mi sembra la personificazione di Demos, il popolo, e il suo ringiovanimento finale (da vecchio masochista, vittima dei suoi sempre peggiori amministratori, a gio-
|| complesso delle istituzioni e come realtà politica autonoma e demos come comunità dei cittadini. 16 Per es. Gredley 1996, che mette in rilievo espedienti come il riso in alcune tragedie per affermare accostamento o incrocio dei generi; mentre a mio parere giustamente Taplin 1986 e 1996 riafferma la tradizionale netta distinzione. 17 Sulla cosiddetta commedia del demagogo rimando a Lind 1990, Sonnino 1998 e Sommerstein 2000.
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vane comasta): un tratto fiabesco in una commedia così violenta, che conferma la centralità della città e l’ottimismo utopico che anima l’invenzione comica. Le Nuvole sono centrate sulla contrapposizione del Discorso giusto e del Discorso ingiusto, i due strumenti dell’uomo politico per governare la città, dove a vincere è tragicamente la forza del male, esorcizzata però da un finale inatteso, e in fondo drammaturgicamente improvvisato, e cioè l’incendio del phrontisterion, che è la reazione (utopica) alla vittoria del Discorso ingiusto, considerato come dannoso alla città. Nelle Vespe viene messa in berlina un’istituzione basilare della comunità, i tribunali, e la simpatia del pubblico va naturalmente al vecchio Filocleone e ai vecchi del coro, che partecipano di una passione che è in realtà di tutti e che vince con il komos finale. La Pace è una versione diversa della stessa tematica degli Acarnesi: la pace. Trigeo vince la sua lotta per la pace, preservatrice delle gioie della convivenza cittadina, e consegna Theoria alla Bulé per una pace finalmente vera, che sarà quella del 421. Gli Uccelli sono la commedia della fantasia o della favola (Zielinski), la più fantasiosa di tutte: la polis va salvata e la si salva ricostituendola utopisticamente in aria, a mezzo fra uomini e dèi. Altra commedia per la pace è la Lisistrata, con una prospettiva non più locale ateniese come negli Acarnesi, bensì ecumenica per tutte le città in guerra. La conquista dell’Acropoli da parte delle donne è il segnale comico della vagheggiata (e utopica) trasformazione della polis. Nelle Tesmoforianti la tematica della polis è assai meno avvertibile: la festa delle Tesmoforie come istituzione locale riguarda solo le donne e l’obiettivo polemico è soltanto Euripide, combattuto come antifemminista. Direi che questa è la commedia che si può escludere dalla nostra lista, ma solo perché non è la polis ad essere protagonista: e del resto la data di rappresentazione, il 411, è significativa, anche se non si conosce il momento preciso del colpo di stato. Prudenza era d’obbligo: anche se non ancora realizzato, il colpo di stato doveva essere nell’aria18. Le Rane sono, con il recupero di Eschilo, il recupero del più recente passato diventato mitico, e cioè dei leggendari maratonomachi come educatori di una città affidata alla memoria come sana. La polis celebra qui nel modo più esplicito il suo passato mitico, che è quello che hanno tutti gli eroi della tragedia: anche la polis ha il suo posto nel mito (che arriva fino alle epicizzate guerre persiane: ne parleremo più oltre), il che la equipara all’eroe tragico. È la più intensa || 18 Sul rapporto della commedia con il colpo di stato vedi Prato 2001, XI–XVII.
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commedia della nostalgia, visto che le condizioni etiche ideali di convivenza politica, quelle dei maratonomachi, sono presentate non come utopia, ma come storia assurta a vagheggiato mito recente, in un momento drammatico per la polis. Le Ecclesianti sono un altro stravolgimento della costituzione in un suo elemento fondamentale come l’ecclesia, anche qui a fittizio (e utopico) lieto fine con il komos finale, che segna la vittoria delle donne: ma anche qui l’utopia, il comunismo dei beni come cura per le manchevolezze della società ateniese, è solo pretesto per il riso e per il rammarico. La commedia è considerata già appartenente all’epoca di mezzo, ma lo è solo per alcuni aspetti formali: il legame alla tematica della polis vagheggiata continua. Anche con il Pluto siamo nella commedia di mezzo, ma anche qui l’utopia egualitaria realizzata col rendere la vista a Pluto/ricchezza è fonte di un tentativo, peraltro non vittorioso né celebrato con un komos, di correggere le aporie della società. Anche qui la cornice formale non è più la stessa, ma il tema ormai acquisito della polis è di nuovo presente, sia pure con un moralismo generico, che non prende di petto il problema. La classificazione di queste due ultime commedie come ‘di mezzo’ mi pare che meriti una almeno parziale revisione19. Fra le conservate, dieci commedie su undici (escludendo le Tesmoforianti) non sono poche. La polis ne esce sempre bene, ma solo nella utopica finzione comica, per soddisfare il wishful thinking degli spettatori. Questo vale per le commedie qui esaminate viste nell’insieme della loro struttura. Ma ci sono vari passi singoli in cui questa solidarietà con la polis è detta in modo esplicito. C’è un verso dell’agone delle Rane che sfugge al gioco delle parti di un Euripide presentato come cattivo, quando (v. 959) dice che nei suoi drammi «introduce le cose familiari a tutti, delle quali ci serviamo, con le quali conviviamo» (οἰϰεῖα πϱάγματι’ εἰσάγων, οἷς χϱώμεθ’, οἷς ξύνεσμεν), e sento in questo verso emblematico l’approvazione di tutto il pubblico, affezionato alle sue abitudini. Le laudes Athenarum, entusiastiche nella splendida antodé dei Cavalieri (vv. 581–94: ὦ πολιοῦχε Παλλάς, ὦ), e frequentemente passim, convivono nella stessa commedia con la derisione di Demos che si lascia irretire dai suoi demagoghi con le stesse laudes (vv. 1327–28). Il pathos è espresso in una infinità di luoghi, che qui sarebbe ozioso enumerare. La più diffusa forma del pathos è notoriamente legata alla profonda nostalgia per la vita agreste: anche i demi di campagna erano parte della polis, integrati com’erano per le riforme di Clistene e per di più ammassati in città durante la guerra (pur se nel gioco delle parti soggiacevano spesso alla contrapposizione urbani|| 19 Una valutazione equilibrata delle due commedie in Bonanno 1979, 347–49.
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tà/rozzezza), e basta rileggere tutti gli Acarnesi e la Pace (spec. vv. 1127–39), nella quale ultima è netta la contrapposizione fra pace/campagna da una parte e guerra/città dall’altra20. L’idealizzazione della campagna come situazione ideale e originaria dell’umanità è simile alle rappresentazioni dell’età dell’oro, ed è per questo che considererò in seguito come politiche (e cioè almeno allusive a una polis utopica) le commedie frammentarie che rappresentano proprio l’età dell’oro21. Quanto ai piaceri della vita di città basterebbero le Vespe per i tribunali22 e i vari tentativi di trasferire le gioie della campagna in città23. Per gli aspetti negativi, ozioso sarebbe anche qui elencare tutti i disordini etico–politici della polis che pesano sui singoli. Un efficace manifesto dell’accorato rimprovero alla polis sono gli anapesti della parabasi degli Acarnesi (vv. 628–58); un buon campionario è quello dell’agone delle Rane, e specialmente dello pnigos (vv. 1078–98), dove sono elencate varie identità negative, qui come altrove nella forma canonica del ‘catalogo’ comico. La stessa tendenza all’accumulazione e all’iperbole, scontati espedienti retorici, è segno di passione. Un’episodica trovata comica (nelle Tesmoforianti, nelle Rane e altrove) è nell’attribuirne le cause a un Euripide che è messo alla berlina proprio perché, in fondo, era poeta di successo presso il pubblico24: come si diceva all’inizio, è legge di tutta la satira, anche moderna, che è la vittima stessa a goderne e anche a giovarsene, per l’ovvio gradimento del pubblico25. E la stessa funzione hanno gli altri komoidoùmenoi, che, a parte qualche vistosa eccezione di puro stampo po-
|| 20 Cassio 1985, 27–33 e passim. 21 So di espormi, proponendo questo, soprattutto perché si tratta sempre di frammenti: ne faccio una semplice ipotesi di lavoro, ma penso che sia difficile trovare vere smentite, visto che l’età dell’oro è oggettivamente l’opposto polare della polis reale con le sue deficienze. Sulla valenza politica del ‘paese di cuccagna’ e della ‘età dell’oro’ come tema generale trovo d’accordo Mastromarco 1994, 34–35. 22 Il dettaglio con cui vengono caricaturalmente descritti dal vecchio i piaceri del dicasta non possono non aver trovato eco solidale nella maggior parte del pubblico: l’iperbole caricaturale è il mezzo per presentare quei piaceri con il distacco o – se si vuole – lo straniamento comico. 23 Cassio 1985, loc. cit. e passim. 24 Anche se ha ottenuto meno vittorie degli altri due grandi e perfino di alcuni minori, alla fine del V secolo apparteneva pur sempre alla triade: chissà quali fattori occasionali e di gusto, che a noi sfuggono, avranno contribuito alle vittorie. Emblematico il caso dell’Edipo re (già considerato come un modello da Aristotele), che fu superato da un tal Filocle. 25 Vedi in questo senso le interessanti formulazioni della pseudo–senofontea Ath. polit. 2.18, su cui rinvio alle sintetiche considerazioni di Mastromarco 1994, 21–23, senza dover ripercorrere la storia del problema.
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litico (Cleone, Iperbolo e alcuni altri26), impersonano le singole stigmatizzazioni etiche in gente di minor rilievo e servono ad ammobiliare l’agorà scenica della polis. Il comico – come ha detto Bergson – non ha bisogno di inventare, perché c’è tutto nella vita. Quanto al coinvolgimento etico–politico di Aristofane, che si esprime in forti contrapposizioni (pace/guerra, onestà/corruzione, costumatezza/rilassatezza dei costumi, pietà/empietà, urbanità/rozzezza, vecchi/giovani, buoni poeti/cattivi poeti etc.), a parte il consueto gioco delle parti, si deve dire che il partito preso a vantaggio di una delle parti in conflitto non esclude quella che giustamente Silk27 chiama ‘ r i c o n c i l i a z i o n e ’ come sintesi di numerose ‘opposizioni’, nonostante il continuo ricorso della commedia antica alla forma dell’agone, che oppone polarmente le due parti28: gli Acarnesi mancano di agone, ma la contrapposizione fra coro e protagonista è fortissima fin dalle due parodoi (vv. 204–32, 280–346), per finire poi nella parabasi (vv. 626–64) in una adesione del coro. Perfino l’agone vero e proprio conduce alle volte a una conciliazione, come nel caso degli Uccelli (vv. 451–638, che culmina nel v. 627 con il corifeo: «carissimo, da odiosissimo che eri»)29. La lettura di Silk delle Tesmoforianti30 non come una contrapposizione fra uomini e donne (comune a molta critica, specie femminista) è convincente: la commedia non ha agone e si conclude con un compromesso, che Euripide accetta senza negare la sua identità (ovviamente prestatagli come negativa dal commediografo). I Cavalieri31 sono molto istruttivi in questo senso, perché presentano in contrapposizione l’uno contro l’altro due malfattori, l’uno dei quali, il Paflagone, si arrende alla fine a una parodia di oracolo, palese soluzione comica: non poteva essere diversamente, vista l’abiezione comune alle due parti in conflitto. E nelle Nuvole, come ho detto, la vittoria del peggiore è vanificata dalla trovata finale dell’incendio, anch’essa via d’uscita tipicamente comica. Penso anche a casi come quello di
|| 26 Napolitano 2002 offre utili precisazioni sulla varietà di tipologie e di funzione dei komoidoùmenoi. È indubbio che gli attacchi a personalità politiche importanti e per giunta al potere portasse la commedia a una funzione ‘eversiva’ (Mastromarco 1994, spec. 21–29). Per un’utile lista di komoidoùmenoi vedi Sommerstein 1996. Da ultimo Ercolani 2002 b. 27 Silk 2000, 301-49 (cap. 7), spec. 345–49. Il recente libro di Silk è pieno di suggerimenti preziosi, anche se il suo punto di vista di partenza è in generale un po’troppo estetico (e quindi moderno). Ma nel caso di Aristofane si può anche cedere alla tentazione di valutarlo come grande poeta, e in fondo finisco per farlo anch’io alla fine di questo lavoro. 28 E cfr. il panellenismo specie della Pace (Cassio 1985, 139–47), ma anche della Lisistrata. 29 Silk 2000, 407–8. 30 Silk 2000, 320–34, dove si possono trovare altri spunti in questa direzione. 31 Silk 2000, 334–46.
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Lamaco, personaggio negativo come guerrafondaio negli Acarnesi e positivo in bocca a Eschilo nelle Rane (v. 1039) come rappresentante di sana etica militare. Tutto questo tempera le contrapposizioni ed è atto a deludere chi vuol vedere un Aristofane politicamente granitico che assolve e condanna. La conclusione di Silk32 è che «la sua serietà non è quella che a torto gli viene ascritta o negata»: la politica c’è, ma risponde in ultima analisi a una coerenza che è prevalentemente vuoi comica vuoi poetica. In questo senso l e contraddizioni del commediografo erano le contraddiz i o n i d e l l ’ a m a t a p ο l i s . La frequente presa di posizione in favore dei vecchi come detentori della sana tradizione viene spiegata spesso con il conservatorismo del poeta: ma, a parte la discutibilità del suo conservatorismo33, questa presa di posizione si trasforma anche in autentica simpatia per i vecchi come tali (oltre a Diceopoli, Filocleone, Trigeo, Pisetero, ricordo i cori di vecchi in Ach., vesp., pac., Lys.): un tratto in contrasto con la promozione culturale della giovinezza, tipicamente greca ed espressa da una mentalità ginnico–agonale, diversamente da quanto sarebbe poi avvenuto nella cultura romana34. Ma per Aristofane i vecchi sono comunque portatori di valori tradizionali ai quali la memoria della polis è particolarmente legata, anche se non si può estrarre dalle sue commedie una coerente posizione sociologica35. E i bei cori delle parabasi, così calorosamente commentati da Eduard Fraenkel36, con la loro quasi sublime religiosità? Ricordo i due cori parabatici di eq. vv. 551–64, vv. 581–94 (Ἵππι’ ἄναξ Πόσειδον, ὦ), e specialmente nub. vv. 563–74, vv. 595–606 (ὑψιμέδοντα μὲν θεῶν), nel quale ultimo accanto alle divinità olimpiche compare, addirittura in una sezione di solenni dattili lirici, l’Etere, divinità comica delle nuvole, senza che la religiosità seria dell’insieme ne venga stilisticamente turbata. Vera preghiera o parodia? L’uno e l’altro, direi, qui nello stesso contesto, ma in realtà è il comico Etere ad essere integrato nell’Olimpo. Si tratta forse dei più bei cori religiosi dell’intero dramma attico, che un lettore moderno superficiale non si aspetterebbe in commedia, e che naturalmente convivono con le frequenti parodie integrali37.
|| 32 Silk 2000, 349. 33 Ricordo le sensate considerazioni di Dover 1972, 33–36. 34 Ricorro a generalizzazioni, che hanno comunque almeno una parte di vero e quindi di utile: non intendo certo attestarmi su posizioni astratte alla Burckhardt. 35 Hubbard 1989. 36 Fraenkel 1972, 189–215. Sulla bellezza e sulla cura formale dei cori di Aristofane vedi Zimmermann 2000. 37 Kleinknecht 1937, Horn 1970. Mi pongo una domanda: si sa che la danza della tragedia era la nobile ἐμμέλεια, quella del dramma satiresco la sbracata σίϰιννις (sempre danzata dai satiri),
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Vediamo ora le commedie di Aristofane conservate in frammenti38. Elenco quelle che, a mio parere, hanno come centro la polis e le sue istituzioni, e le do in ordine alfabetico del titolo. Molto è congetturale, ma a noi interessa avere un’idea della presenza media del tema. Anàgyros (Anagyrasioi, demo attico), Babylònioi (426, attacco a Cleone), Georgoì (del 424, sul tema della pace: fr. 111 gioie della pace, 112 laudes Athenarum con autoctonia [cfr. vesp. 1076, Lys. 1082], 113, su cui v. qui infra), Gêras (ringiovanimento dei vecchi del coro, che si danno ad azioni turpi), Gerytàdes (commedia metaletteraria: simile alle Rane?), Daitalês (le due educazioni), Héroes (gli eroi esortano al loro culto: difesa della tradizione), Nêsoi (“Le isole”, da alcuni attribuite ad Archippo: confronto fra vita di campagna e di città, fr. 402), Holkàdes (“Le navi da carico”, del 424/423?, sulla difficoltà dei rifornimenti alla città), Odomantoprésbeis (“Gli ambasciatori degli Odomanti”, titolo di per sé politico, ma problematici sono i frammenti), Polyidos (contro gli indovini), Skenàs katalambànousai (le donne che occupano le tende messe su per una festa), Triphàles (se avrà veramente parlato di Alcibiade: contra K.–A. p. 285, dopo la collocazione del fr. 244 nei Daital.), Hôrai (età dell’oro ad Atene dove è eterna primavera ed estate, fr. 581)39. Sono tredici titoli: non è poco, sommato alle conservate, per una produzione di una quarantina di commedie, alcune delle quali continuavano l’uso della parodia mitologica o drammaturgica: ben più della metà della sua produzione doveva essere dedicata alla polis. Il più notevole di questi frammenti è secondo me il 113 K.–A. dai Georgoì, «ripianteremo bene in ordine i platani nell’agorà» (ἐν ἀγοϱᾷ δ’ αὖ πλάτανον εὖ διαφυτεύσομεν): erano i platani che aveva a suo tempo piantati Cimone40 e che erano stati certamente tagliati durante i primi anni di guerra (la commedia è da porre fra il 425 e il 422) per farne fuoco. Una commovente testimonianza di quello che oggi chiameremmo restauro dell’arredo cittadino.
|| ma quanto dei cori comici era danzato (e musicato) nello stile del ϰόϱδαξ, che viene dato dalle fonti come la danza della commedia? Certo non tutto, e sarebbe utile un’indagine esauriente. Questo indipendentemente dalla precisa caratterizzazione delle tre danze, che a noi è preclusa (a poco servono le rappresentazioni figurative): quello che le distingueva era il diverso ethos e indubbiamente la commedia aveva la maggior varietà di stili orchestici. 38 Qui e nel seguito devo molto a Bonanno 1979 e a K. Dover, W.G.Arnott, N.J. Lowe, D. Harvey in Dover 2000, 507–525 (Biographical Appendix), nonché alla preziosa consulenza di Maurizio Sonnino. Faccio solo qualche rimando alle note di Kassel-Austin. 39 Non ho esaminato, anche per gli altri autori, i frammenti incertarum fabularum né i dubia, dove peraltro si trovano numerosi sia gli attacchi personali sia le laudes Athenarum. 40 Plutarco (Cim. 13.7) ci informa che Cimone ἐϰαλλώπισε τὸ ἄστυ, τὴν μὲν ἀγοϱὰν πλατάνοις ϰαταφυτεύσας.
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4. Gli altri commediografi Ma vediamo ora il panorama degli altri commediografi della commedia antica. Soprattutto qui ci affidiamo o a soli titoli o a commedie molto frammentarie, considerando anche che perfino molti titoli sono del tutto perduti: la conseguenza è che la lista provvisoria che propongo qui di commedie aventi la vita della polis come centro dell’azione deve essere considerata per difetto. Quanto ai più vecchi, come C h i ο n i d e , M a g n e t e , C r a t e t e (Métoikoi?, vedi Bonanno 1979, 163–64) e altri, continuavano prevalentemente la tematica della parodia mitologico–tragica che era il retaggio della commedia siciliana di Epicarmo. Sugli autori più tardi, quelli a cavallo fra V e IV sec., c’è poco da dire: Alceo, Amipsia, Aristomene, Diocle, Ecfantide, Euclide, Eunico, Euticle, etc.; di Archippo, autore molto vicino ad Aristofane, segnalo i seguenti titoli: Ichthyes (fr. 27: simile agli Uccelli?), Rhínon (forse una commedia del demagogo), Ploûtos. È agli autori o prevalentemente o interamente operanti durante la guerra del Peloponneso che bisogna guardare41: gli estremi della produttività di autori come Cratino (455–423), Eupoli (429–412), Aristofane (427–386) sono di per sé eloquenti, tanto che parlerei dei ‘commediografi della guerra’. Se mi riferisco qui alla triade oraziana del suo famoso verso (Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae, serm. 1.4.1), è solo per la forza d’inerzia prodotta da quel verso stesso, e non perché creda che quella triade42 fosse necessariamente operante in epoca alessandrina o addirittura nel Peripato, perché sappiamo bene che anche altri comici erano apprezzati, curati e commentati dai filologi alessandrini43. Cominciamo con C r a t i n o , di cui si possono riferire alla polis con una certa sicurezza le seguenti commedie: Dionysaléxandros (attacco a Pericle guerrafondaio: K.–A. p. 140), Drapétides (contro gli effeminati, K.–A., p. 147), Thrâittai (contro Pericle, fr. 73 K.–A., che sfugge all’ostracismo), Lákones, Malthakoí, Némesis (attacco politico – contro Aspasia?, K.–A. p. 179–80 – velato da parodia mitologica), Nómoi (educazione antica e moderna, Kaibel ap. K.– A. p. 186), Panóptai (contro i sofisti, forse poco prima delle Nuvole, Kaibel ap. K.–A., p. 200), Plôutoi (sull’età dell’oro, con l’aggiunta esplicita di attacchi || 41 Sulle tre generazioni di comici Bonanno 1979, passim. Cratino viene assegnato alla prima, ma per collocazione cronologica e per numero di commedie politiche lo si può considerare a cavallo delle prime due. 42 Di cui il testimone più antico è, appunto, Orazio. 43 Vedi quanto ci trasmette Tzetze: Proleg. de com. XXIIb, 39, p. 113 Koster, dove viene detto che gli autori trattati (πραττόμενοι) sono «Aristofane, Cratino, Platone, Eupoli, Ferecrate ed altri». La conservazione in papiri ce lo conferma.
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personali, fr. 171), Pytíne (commedia metaletteraria: si può pensare per analogia alle Rane), Seríphioi (contro i ‘nuovi politici’: fr. 223; contro Cleone, fr. 228): Cheírones (contro la corruzione dei costumi e soprattutto della musica). Undici su 27 titoli conservati, nei quali abbondano ancora le parodie mitologico–epiche. E u p o l i ci presenta una produzione tutta politica: difficile escluderne qualche commedia, e ne do solo alcuni titoli più noti: Âiges (fr. 13: il coro delle capre che magnifica la varietà dei suoi pascoli, da età dell’oro), Andrógynoi o Astráteuoi (contro gli effeminati), Autólykos I e II (contro l’eromenos di Callia), Báptai (contro Alcibiade), Dêmoi (sulla campagna di Mantinea del 418, o forse del 412: grandi ateniesi del passato danno consigli sul presente), Heílotes, Kólakes (contro Callia di Ipponico perché filosofista), Lákones, Marikâs (contro Iperbolo, del 421), Noumeníai (i giorni in cui si pagavano i debiti; perduta già per gli antichi), Póleis (le città alleate di Atene), Prospáltioi (sui contadini del demo attico chiusi nelle mura della città: del 429, la prima commedia), Taxíarchoi (il molle Dioniso viene istruito alla guerra da Formione), Hybristodíkai (quest’ultima forse simile alle Vespe), Phíloi (cfr. Autólykos? contro amasii o parassiti), Chrysôun génos (un’età dell’oro creata da Cleone e messa in burletta). F e r e c r a t e , vicino a Cratete, εὑϱετιϰὸς μύθων (De com. 31, p. 8), fra i suoi 19 titoli, ce ne dà almeno 13 piuttosto sicuri: Agathoí (a sfondo sociale?, fr. 1); Ágrioi (forse simile agli Uccelli come fuga dalla città, alla quale poi si deve tornare, Kaibel ap. K.–A. p. 107); Autómoloi (?); Doulodidáskalos; Epilésmon o Thálatta (vita quotidiana della città: sulle meretrici, Kaibel ap. K.–A. p. 129); Ipnós ovvero Pannychís (vita cittadina); Krapátaloi (viaggio nell’oltretomba, in cui appariva forse Eschilo, fr. 100); Metallês (vita beata dei minatori nell’Ade); Métoikoi (solo il titolo) ; Myrmekánthropoi; Pérsai (è presente, fr. 131, il tema della vita beata); Petále (nome di meretrice); Tyrannís (sulla tirannide delle donne); Cheíron (simile ai Cheírones di Cratino; nel famoso fr. 155 la Musica si lamenta della corruzione delle sue leggi). I titoli non sono pochi, visto che Ferecrate appartiene alla prima parte della commedia antica, quella prevalentemente mitologico–parodica. E r m i p p o , fra i cui dieci titoli, fra parodie mitologiche, sei sono abbastanza sicuri: Artopólides (contro Iperbolo e sua madre); Demótai; Theoí (sulla vita utopicamente beata degli dèi?); Môirai (contro Pericle e la sua conduzione della guerra, fr. 47); Stratiôtai (o Stratiótides, Kaibel ap. K.–A. p. 585: soldati effeminati che sfuggono alla guerra); Phormophóroi (contro chi voleva annettersi colonie come la Sicilia e Cartagine, Kaibel ap. K.–A. p. 590). F r i n i c o , con 11 titoli, ce ne offre sei che possono riferirsi al nostro tema: Epiáltes (o Ephiáltes? È incerto se si riferisse al politico Efialte); Komastaí (for-
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se di Amipsia); Monótropos (forse simile agli Uccelli?); Môusai (le Muse decidono una gara letteraria: simile alle Rane?); Mystai; Tragoidoí o Apeleúteroi (?). P l a t o n e c o m i c o , fra 30 titoli, molti dei quali di parodia mitologica per cui era famoso, ce ne offre una quindicina che fanno al caso nostro: Hai aph’hierôn (cfr. le Tesmoforianti?); Hellás ovvero Nêsoi cfr. le Nêsoi di Aristofane?); Heortaí (?); Cleophôn (commedia del demagogo); Lákones o Poietaí (si parla di spondaì, fr. 71); Métoikoi; Nîkai (poco dopo la Pace); Peísandros (commedia del demagogo); Periálges (attacchi personali); Poietés (?); Présbeis (ambasceria ai persiani per la pace); Rabdoûchoi (quelli che dovevano mantenere ordine nel teatro, cfr. Pace 734); Skeuaí (I costumi oppure Le maschere: certo metateatrale; il fr. 138 è sull’ethos della danza); Sophistaí (dal titolo, attacchi personali); Symmachía (K.–A. ad fr. 168: ostracismo di Iperbolo? inaffidabilità delle città federate?); Hypérbolos (comm. del demagogo). Ho lasciato da parte altri comici della commedia antica, dei quali sappiamo tanto meno. I titoli e le commedie frammentarie o complete che ho passato in rassegna sfiorano il centinaio e, se consideriamo il resto della produzione e il fatto che gli alessandrini ne conoscevano 36544, la frequenza è alta, perché la mia qualifica delle commedie come politiche, ovvero incentrate sulla vita della polis, è stata prudenziale, così che la cifra è valida per ampio difetto, come dicevo prima. E molti saranno stati gli spunti politici che possiamo ricavare anche da frammenti incertae sedis e in commedie apparentemente (dal titolo) non politiche45. Bisogna anche tener conto dei due decreti contro l’onomastì komoideîn (Morichide, dal 440/439 al 437/436 a. C.; Siracosio 415/41446), che nei tempi presumibilmente brevi in cui furono in vigore avranno diminuito le occasioni di presentare la polis come tema: una commedia politica, infatti, senza komoidoùmenoi è difficilmente pensabile. Ma è la stessa esistenza di questi decreti a confermare la misura dell’interesse dei commediografi, e quindi del pubblico, per il tema cittadino, legato all’attacco personale.
5. Conclusioni (soprattutto su Aristofane) Forse, da quanto si è detto, si può spiegare il successo di Aristofane, l’unico decentemente conservato presso i moderni, che ne subiscono senza batter ciglio
|| 44 Mensching 1964, 44–5. Sempre utile Geissler 1969. 45 È una ricerca che non ho fatta. 46 Sul discusso decreto di Antimaco vedi, da ultimo, Mariotta 2001.
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gli aspetti locali e provinciali e ne restano nello stesso tempo affascinati – spesso inconsapevolmente, se devo rivivere la mia esperienza – da un aspetto che non esito a definire come profondamente umano, benevolo e conciliatore, tipico della grande poesia, che portano anche me ad annetterlo all’empireo dei grandi poeti, pur sospettoso come sono a ogni discorso anche solo lievemente ambiguo di poesia a causa della mia iniziale e poi rifiutata formazione crociana, nei confronti della quale ho spesso avuto una sorta di risentimento. Non possiamo saperlo per la limitatezza della conservazione degli altri, ma ci piace pensare che forse lui più di tutti gli altri abbia realizzato, con la tematica della polis, uno spettacolo che, per il suo pubblico, agiva come riso catartico del pathos, del rammarico e della nostalgia. Un equilibrio delle reazioni psicologiche che la tragedia otteneva solo nella tetralogia contenente anche il dramma satiresco, realizzando la contrapposizione lacrime/riso in due spettacoli diversi, secondo una mia vecchia idea47. Non so vedere qualcosa di comparabile con la commedia attica nella moderna satira politica, che manca totalmente di quel pathos e quindi di quella virtù catartica interna allo spettacolo stesso. Per concludere: spero di aver mostrato che la definizione di ‘eroe comico’ è quanto meno impropria e che il trasferimento di essa alla polis ci abbia portato a una lettura almeno parzialmente nuova. Il protagonista della commedia è un semplice cittadino senza storia, che si presta a condurre un’azione che spesso non è neanche tale e che non ha nulla di eroico se non parodico48. L’eroe tragicco, a parte le sue sofferenze e il suo spesso tragico destino, ha dietro di sé una storia, che è mito: ma anche l a p o l i s h a l e s u e c a r t e e r o i c h e i n r e g o l a c o n i l s u o p a s s a t o m i t i c o , che viene sì sempre ricordato sia dai tragediografi sia dagli oratori, ma che nei commediografi intensifica il pathos per un patrimonio comune visto in pericolo. Un passato mitico che sfuma nella storia e che propriamente mitizza anche la storia relativamente recente: dal mito dell’autoctonia e dalla contesa fra Atena e Poseidone, a Cranao, a Eretteo, a Teseo, a Solone e infine a Maratona e a Salamina. Chiudo con quella che può sembrare una battuta, ma che tale non vuole essere. Tutti sappiamo che l’Edipo Re di Sofocle non è datato e molte sono state le congetture cronologiche a questo proposito. Ce n’è una che, francamente, mi fa soffrire, perché è molto diffusa, ma mi sembra un accostamento pseudo– intertestuale. Negli Acarnesi, che sono del 425, c’è l’esclamazione ὦ πόλις πόλις (v. 27), che da alcuni è stata vista come la parodia della stessa esclamazione
|| 47 Rossi 1972. 48 Penso soprattutto a Trigeo, che catalizza gran parte dell’attenzione di Whitman: Trigeo è, sì, un Bellerofonte, ma è parodico!
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dell’Edipo Re (v. 629), che così risalirebbe a poco tempo prima del 425. Ma consideriamo anche eq. 273: ὦ πόλις ϰαì δῆμ(ε)49. Ebbene: quanti ateniesi, uscendo dal teatro, e specialmente da una rappresentazione di commedia, avranno esclamato un nesso così comune come ὦ πόλις πόλις, e con lo stesso rammarico e lo stesso pathos accorato nei confronti della città con cui viene pronunciata sulla scena dell’Edipo Re! Questo rammarico e questo pathos sono sì parodiati da Aristofane in bocca a Diceopoli, ma in quanto presi non da un testo, bensì dalla viva voce del demos, che amava e sentiva sempre in pericolo la propria polis, così realisticamente rappresentata sulla scena comica con i suoi problemi, le sue disfatte, le sue a volte davvero tragiche aporie. Queste, dopo le risate in teatro, dovevano pesare nell’animo del cittadino comune, che dei mille peccati della polis ne commetteva magari solo uno o due, ma era ben consapevole degli altri, commessi con diverso livello di responsabilità. È notevole che il regime democratico non venga mai messo in discussione: prova ne sia anche la frequente demonizzazione della tirannide. Più ancora della simpatia e della solidarietà nei confronti dell’eroe tragico, agiva qui un amore campanilistico per la propria comunità così com’era, per la propria casa, per i propri campi, il tutto perennemente in pericolo per l’opera dei mestatori e dei guerrafondai interni e dei nemici esterni. Quello che nella mia rilettura mi ha colpito è stata l’assoluta m a n c a n z a d i s p e r a n z a per i fattori negativi della polis, per la quale la forma democratica non viene mai messa in discussione: di vere e proprie riforme, che la potrebbero sanare, si parla in commedia solo qualche volta e solo in chiave utopistica, come s’è visto50: e l’utopia si configura come adynaton. Trasferiamoci in chiave storica, e vediamo che l’epoca delle grandi riforme era finita, per cui Solone e Clistene erano diventati mitologia e gli eventuali mutamenti costituzionali erano visti come frutto di colpi di stato (penso ovviamente al 411). È qui che vedo l’accostamento forte della polis con l’eroe tragico: George Steiner, fin dalle prime pagine del suo famoso La morte della tragedia51, ci ha insegnato, in un ampio arco cronologico di letteratura drammatica, che quello che distingue la tragedia attica (e il dramma di Shakespeare) dal dramma moderno è proprio la mancanza di spiegazione razionale del dolore e quindi l’assenza totale della || 49 Ricordo che πόλις è nominativus pro vocativo, un colloquialismo irrigiditosi che può ben convivere con il vocativo δῆμε dei Cavalieri: cfr. ancora ὦ πόλις di Thesm. 839. 50 Solo nella sorprendente parabasi delle Rane (vv. 686–705, 718–737) Aristofane parla davvero sul serio (l’amnistia per il 411, la revisione del processo delle Arginuse etc.; v. 734 μεταβαλόντες τοὺς τρόπους), ma è di fronte alla vera catastrofe della città, e la speranzosa esortazione nasce dalla consapevolezza di aver raggiunto il fondo del baratro. 51 Steiner 1965.
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speranza. Sulle sorti della loro polis, come eroe tragico della commedia attica, il commediografo, e il suo pubblico, sono allegramente disperati. Ed ecco la mia pseudo–battuta: trygoidìa era certo per Aristofane un gioco di parola, ma vorrei permettermi l’arbitrio di prenderlo come parola d’ordine per il mio modo di leggere la maggior parte della commedia attica antica52.
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|| 52 Sul famoso gioco verbale Taplin 1986. Il mio arbitrio non è forse totale, visto il contesto di Ach. 498-99 ἐν Ἀθηναίοις λέγειν / μέλλω πεϱὶ τῆς πόλεως τϱυγῳδίαν ποιῶν.
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Introduzione Il Ciclope di Euripide è la rappresentazione in forma drammatica, ovvero scenica, di un episodio narrato nel nono libro dell’Odissea: l’incontro di Odisseo e dei suoi compagni con l’antropofago ciclope Polifemo, alle cui rive gli ignari greci approdano nel corso delle loro lunghe peregrinazioni per raggiungere Itaca di ritorno dalla guerra di Troia. Con la sua proverbiale astuzia Odisseo riesce a sfuggire al mostro non con tutti, ma almeno con alcuni dei compagni che gli erano rimasti. Le linee fondamentali dell’episodio sono pienamente rispettate, come si può vedere dal riassunto che segue. Ci sono solo due importanti innovazioni, l’una mirata e l’altra condizionata da una situazione non più narrata, come in Omero, ma rappresentata sulla scena. L’innovazione più importante è quella relativa alla conoscenza del vino: mentre in Omero i Ciclopi coltivano la vite e producono un vino sia pure inferiore a quello che offre Odisseo, in Euripide Polifemo e i suoi fratelli non conoscono né vite né vino: ne soffrono gli schiavizzati Sileno e i satiri, compagni di Dioniso, ed è un espediente per farli sentire ancor più spaesati e derelitti1. Quella scenica consiste nella trasformazione dell’antro del Ciclope, nell’Odissea chiuso da un enorme masso che solo il Ciclope può rimuovere, in una grotta a due uscite, il che consente a Odisseo di transitare liberamente da fuori a dentro e viceversa. Vediamo una sintesi del dramma. Sileno, il vecchio padre dei satiri, informa nel prologo (vv. 1–40) sugli antefatti dell’azione, a cui si mescola il racconto di imprese inventate. Sileno e i satiri, sulle tracce di Dioni-
|| [Introduzione in M. Napolitano, Euripide. Ciclope, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 9–25] 1 Mi servo qui liberamente di alcuni miei lavori, ai quali ancora credo: Il Ciclope di Euripide come κῶμος ‘mancato’, in «Maia» n.s. 23, 1971, pp. 10–38; Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, in «DialArch» 6, 1972 (Roma 1973), pp. 248–302 (in parte ristampato in tedesco: Das attische Satyrspiel. Form, Erfolg und Funktion einer antiken literarischen Gattung, in B. Seidensticker [a cura di], Satyrspiel, Darmstadt 1989 [«Wege der Forschung» 579], pp. 222–251); la bibliografia successiva è ora comodamente raccolta in R. Krumeich – N. Pechstein – B. Seidensticker (a cura di), Das griechische Satyrspiel, Darmstadt 1999 («Texte zur Forschung» 72), con contributi di vari autori (utile, a p. 666 s., l’indice tematico dei principali motivi satireschi); da segnalare, infine, il recentissimo P. Vodke, Un théâtre de la marge. Aspects figuratifs et configurationnels du drame satyrique dans l’Athènes classique, Bari 2001. Un eccellente commento è quello di R. Seaford, Euripides. Cyclops. Ed. with Intr. and Comm., Oxford 1984. Per il resto della produzione satiresca di Euripide si veda adesso N. Pechstein, Euripides Satyrographos. Ein Kommentar zu den Euripideischen Salyrspielfragmenten, Stuttgart–Leipzig 1998 («Beiträge zur Altertumskunde» 115). https://doi.org/10.1515/9783110648126-047
Introduzione, in M. Napolitano, Euripide. Ciclope | 655
so, portato via dai pirati a causa della gelosia di Era, sono finiti in Sicilia, alle falde dell’Etna, nella terra degli antropofagi Ciclopi, monoculi figli di Poseidone. Ridotti in schiavitù dal ciclope Polifemo, Sileno e i satiri conducono un’esistenza lamentevole: privati dei piaceri del vino e dei festosi corteggi dionisiaci, i satiri pascolano le greggi del Ciclope, e il vecchio Sileno è costretto a prendersi cura del suo antro. Il prologo si chiude con l’annuncio dell’arrivo dei satiri, che riconducono all’ovile le greggi del padrone. La parodo (vv. 41–81) mette in scena, nella sua prima parte, il quadretto bucolico anticipato da Sileno alla fine del prologo; nell’epodo, i satiri si lasciano andare al ricordo nostalgico del lieto passato dionisiaco e, a un tempo, al lamento sulla triste condizione del presente. All’arrivo di Odisseo e dei suoi compagni, che apre il primo episodio (vv. 82–355), segue una lunga sticomitia tra Sileno e Odisseo: Odisseo si presenta, e racconta di essere, insieme ai suoi uomini, sulla via del ritorno da Troia; Sileno, da parte sua, informa il nuovo arrivato sulla condizione di servitù alla quale è condannato con i satiri suoi figli, e descrive le mostruose attitudini dei Ciclopi. Odisseo ha bisogno di cibo per sé e per i compagni, e propone del vino in cambio; Sileno accetta con entusiasmo l’offerta, dichiarandosi indifferente al rischio della vendetta del Ciclope (vv. 133–174). Quando lo scambio sta per compiersi, però, Polifemo fa ritorno al suo antro; al suo scomposto ingresso in scena i satiri reagiscono scappando alla rinfusa. Quando il Ciclope si accorge della presenza di Odisseo e dei suoi, e vede schierati in bella mostra agnelli e canestri di formaggio, chiede conto a Sileno, che non trova di meglio che dare la colpa dell’accaduto ai nuovi arrivati. Alle terribili minacce di Polifemo, Odisseo dà la sua versione dell’accaduto, scaricando ogni responsabilità su Sileno; il vecchio, sempre più terrorizzato, ribadisce la sua innocenza, giurando sulla testa dei satiri suoi figli; i satiri, sdegnati, accusano il padre e chiedono al Ciclope di risparmiare gli stranieri (vv. 175–272). Segue una sorta di agone tra Polifemo e Odisseo. Odisseo, senza rivelare la sua identità, vanta i meriti acquisiti combattendo a Troia in difesa della Grecia (Polifemo dovrebbe essergli grato: è solo grazie all’eroico sacrificio dei Greci che i santuari di suo padre Poseidone sono scampati a sicura distruzione), e, appellandosi ai sacri vincoli dell’ospitalità, prega il suo mostruoso ospite di risparmiare sé e i compagni. Sileno esorta invece il padrone a fare un solo boccone dei nuovi arrivati (vv. 273–315). Polifemo risponde con una rhesis da sofista: l’unico dio, per i saggi, è la ricchezza; del fulmine di Zeus non è il caso di avere paura (quando piove o nevica, basta rintanarsi nell’antro a bere e a mangiare); l’unico dio al quale è opportuno sacrificare è dunque la pancia; non c’è legge che tenga davanti all’unica vera legge di Zeus: bere e mangiare tutti i giorni, senza mai darsi pena di nulla. Per questo, gli argomenti di Odisseo non hanno alcun valore: Polifemo si dichiara pronto a dar corso all’empio banchetto che ha in mente, e a Odisseo non resta che appellarsi all’intervento di Atena e di Zeus Xenios, protettore degli ospiti. Odisseo esce; la scena rimane vuota (vv. 316–355). Il breve primo stasimo (vv. 356–374) evoca i preparativi retroscenici del banchetto al quale Polifemo si appresta; nel mesodo i satiri stigmatizzano l’empietà del loro padrone. La prima sezione del secondo episodio (vv. 375–426a) contiene il racconto della strage dei compagni, alla quale Odisseo, nel chiuso dell’antro, ha appena assistito impotente; la seconda parte dell’episodio (vv. 426b–482) introduce invece i motivi della vendetta e della fuga, centrali nella seconda parte del dramma. Odisseo, esortando i satiri a collaborare, espone il suo piano: si tratterà di fare ubriacare il Ciclope per poi accecarlo una volta che sia caduto nel sonno. Per riuscire nell’impresa, però, sarà preventivamente necessario distogliere Polifemo dall’idea di condividere il vino con i fratelli Ciclopi, impedendogli di recarsi in komos solitario da loro (il komos era l’allegra sortita dei simposiasti dopo il simposio). Ricevuta
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l’approvazione dei satiri, Odisseo si appresta all’impresa. Il secondo stasimo, preceduto da una sezione anapestica, presenta uno scambio lirico tra il coro dei satiri e Polifemo; le strofi del coro, che alludono con sottile ironia alla sorte che attende il Ciclope, incorniciano quella di Polifemo, che rientra in scena già quasi ubriaco, e desideroso di andare in komos dai fratelli Ciclopi (vv. 483–518). Il terzo episodio (vv. 519–607) contiene l’attuazione del piano predisposto in precedenza da Odisseo: Odisseo prima, e poi Sileno, distolgono Polifemo dal progettato komos, istruendolo grottescamente sulle regole del buon galateo simposiale e costringendolo a bere tutto il vino da solo (qui Euripide introduce il motivo del nome ‘Nessuno’). Polifemo, ormai definitivamente ubriaco, esce di scena, non senza aver prima dichiarato l’intenzione di dare sfogo ai suoi improvvisati impulsi omoerotici sul povero Sileno (vv. 581–589). Uscito di scena Polifemo, Odisseo può finalmente dar corso al piano di vendetta; dopo avere esortato ancora una volta i satiri all’azione, invoca Efesto e Hypnos, il dio del fuoco e il dio del sonno (quanto serve, insomma, al compimento del piano). Dopo il brevissimo terzo stasimo (vv. 608–623), l’azione volge alle sue fasi conclusive. I vv. 624–655 contengono un intermezzo buffo: i satiri, giunto il momento di entrare in azione, si tirano indietro con i pretesti più miserabili; Odisseo decide alla fine di chiedere almeno una sorta di collaborazione a distanza: i satiri dovranno accompagnare l’azione di accecamento (che Odisseo realizzerà con il solo aiuto dei compagni) con un canto di incitamento (il breve ‘canto di lavoro’ dei vv. 656–662). Il vero e proprio esodo attacca al v. 663: Polifemo, appena accecato, rientra in scena urlando dal dolore; Odisseo e i satiri si prendono gioco di lui fino al momento in cui Odisseo svela al mostro la propria vera identità; Polifemo capisce allora che l’antico oracolo di Poseidone si è avverato. Dopo un’ultima battuta di Odisseo, che si dichiara pronto a riprendere il mare per fare ritorno in patria, e l’estrema minaccia di Polifemo che dichiara di voler colpire la nave dei greci con un masso, il dramma si chiude bruscamente con due versi del corifeo, che si dice pronto a farsi compagno di Odisseo per tornare a servire Dioniso (vv. 663–709).
Il lettore moderno che si accosta a quest’opera ha familiari alcuni ben noti concetti di genere letterario della Grecia antica, che la letteratura moderna gli presenta nelle loro sia pur mediate reviviscenze: la poesia epica, la tragedia, la commedia. Ma va avvertito che il Ciclope non appartiene ad alcuno di questi grandi generi. Che non appartenga all’epos risulta chiaro dalla sua forma drammatica; ma, trovandosi di fronte a personaggi del mito epico, come Odisseo e i suoi compagni – tutti coraggiosi guerrieri – il lettore potrebbe pensare che si tratti di tragedia; e per di più, rendendosi conto dei così godibili effetti che potremmo chiamare comici o semplicemente umoristici, potrebbe pensare di trovarsi di fronte a una commedia. Niente di tutto questo: il Ciclope è un dramma satiresco, un genere assolutamente autonomo e diverso, anche se lo si può considerare un sottogenere della tragedia. Vediamo di che tipo di spettacolo si trattava e come si distingueva dagli altri due generi drammatici, tenendo presente che, per quanto non manchino cospicui frammenti ed esaurienti informazioni a proposito del resto, il Ciclope è l’unico dramma satiresco a noi conservato per intero.
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Con la tragedia il dramma satiresco ha in comune i personaggi del mito, quelli che vivono nell’aura della poesia epica, e, pur non perdendo il loro carattere eroico, si trovano però in una situazione singolare: sono circondati dai satiri che un po’ si beffano di loro e un po’ cercano di metterli in situazioni inedite, antieroiche. Questo impianto drammaturgico non è né tragedia né commedia, perché la tragedia è trasposizione scenica degli avvenimenti dell’epos, mentre la commedia è normalmente uno spaccato della vita cittadina, e cioè di Atene, oppure, specie nella commedia più antica, è parodia vera e propria del mito: nella commedia i personaggi epici possono venir parodiati, e non sono quindi presenti nella loro nobiltà e dignità eroica. Ci si può servire di un utile schema per caratterizzare la tematica dei due generi: tragedia = coturno più lacrime; dramma satiresco = coturno più riso. Del resto, dello statuto particolare del dramma satiresco era ben consapevole Demetrio, che nel de elocutione (169) l’aveva definito «tragedia scherzosa» (τραγῳδία παίζουσα), sottolineando così che di tragedia pur sempre si trattava. E fra i moderni il primo a dirlo chiaramente fu Casaubon2: «affinitatem sane, quam habet Satyrica [scil. fabula] cum tragico cothurno, arguit etiam personarum, quas introducit, qualitas, quae vel plane eaedem sunt (chorum semper excipimus) ex quibus componi solitae tragoediae, [...] vel etiam maioris dignationis, admirationis et τερατείας: ut Centauri, Cyclopes et e diis etiam aliqui non numquam. H o c a u t e m a c o m o e d i a e s o c c o a l i e n i s s i m u m »3.
Ma c’è un problema che ci pone la Poetica di Aristotele, che nel cap. 10 (49a, 19–21) parla del σατυρικόν come di un antenato della tragedia. Cronologicamente questo sembrerebbe essere confermato da vasi della fine del VI sec. con raffigurazioni di satiri che spesso si fanno beffe di Eracle. Ma il pericolo che si corre è quello di identificare queste raffigurazioni come specchio di uno spettacolo altamente formalizzato e a suo modo complesso. Ora, secondo le fonti un poeta peloponnesiaco, Pratina di Fliunte, sarebbe stato chiamato ad Atene nella 70a Olimpiade (499–496 a.C.) per gareggiare con Eschilo e con Cherilo, e avrebbe introdotto il dramma satiresco negli spettacoli ufficiali di Atene. Questa cro|| 2 Is. Casaubonus, De satyrica Graecorum poesi et Romanorum satira libri duo, Paris 1605, p. 119 s. (I § 3). 3 «In verità, l’affinità che lega il dramma satiresco al coturno tragico è dimostrata anche dalla natura dei personaggi che mette in scena; i quali, fatta sempre eccezione del coro, o sono in tutto e per tutto i medesimi personaggi di cui si componevano abitualmente le tragedie, o sono addirittura di rango e di prestigio più elevati, o di carattere più prodigioso, come ad esempio Centauri, Ciclopi, e a volte anche dèi. O r a , t u t t o q u e s t o è q u a n t o d i p i ù e s t r a n e o a l c a l z a r e c o m i c o » (lo spaziato è mio).
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nologia, posteriore alle testimonianze vascolari di cui si parlava prima, ci fa sospettare che il dramma introdotto da Pratina fosse qualcosa di nuovo e ne abbiamo conferma dalla forma che il dramma satiresco assunse nel periodo in cui possiamo controllarlo: diversamente dalla commedia, che conservava parabasi e agone epirrematico come sue forme peculiari, il dramma satiresco venne strutturato come le tragedie, con prologo, parodo, dialogo, stasimi ecc., segno che, se anche derivava dal σατυρικόν, aveva assunto le parti morfologiche della tragedia: è per questo che, per evitare equivoci, è bene chiamarlo “dramma satiresco attico”. In un lasso cronologico durato solo alcuni decenni, e cioè durante l’attività dei grandi tragediografi, esso da un certo momento in poi veniva rappresentato dopo la trilogia tragica, formando quindi una tetralogia spettacolare. Visto quindi che dramma satiresco e σατυρικόν non si possono identificare, ne viene che Aristotele del vero e proprio dramma satiresco aveva taciuto, e ne vedremo fra poco la ragione. Per l’introduzione di questo nuovo tipo di spettacolo a me sembra di vedere due principali cause o funzioni, oltre a quella che tradizionalmente viene addotta. Non siamo in grado di datare il detto paremiografico οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον («niente a che fare con Dioniso»), che si riferiva al progressivo allontanarsi dalla tematica dionisiaca della tragedia, punto focale delle Dionisie cittadine in onore del dio, tanto da rendersi necessaria una reintroduzione di Dioniso con il suo corteggio di satiri per mezzo di uno spettacolo in cui questi ultimi primeggiassero. Ma credo che ci siano almeno due altre buone ragioni per spiegarci l’approdo finale alla tetralogia. L’ambiente storico dell’Attica e di Atene fra VI e V sec. a.C. ci presenta una società molto sensibile ai fattori emotivi, sia individuali sia collettivi. Basterebbe pensare alla musica, che era addirittura studiata in quella che chiamiamo la teoria dell’ethos musicale e che veniva accuratamente regolamentata e controllata politicamente, vista la sua potente forza psicagogica. Ora, è facile immaginare le reazioni del pubblico alle conturbanti vicende del patrimonio epico portate sulla scena. A questo va attribuita la prescrizione dell’assassinio retroscenico, con la solo successiva ostensione del cadavere. L’aneddoto delle donne che abortiscono a teatro vedendo le Eumenidi 4 è anch’esso di dubbia datazione, anche perché tutt’altro che certa è la presenza delle donne fra il pubblico nel v secolo: ma è interessante comunque, perché ci testimonia una tradizione storica portatrice della consapevolezza dell’emotività del pubblico. Io credo, d’accordo con le testimonianze antiche e con alcuni pochi moderni5, che || 4 Vita Aeschyli 9. 5 Rossi, Dramma satiresco, cit., p. 269 e n. 80. Già Casaubonus, De satyrica, cit., p. 117 (I § 3).
Introduzione, in M. Napolitano, Euripide. Ciclope | 659
il dramma satiresco svolgesse una funzione eminentemente psicologica, come per tranquillizzare il pubblico presentando proprio gli eroi delle azioni tragiche messi in burletta da un coro di satiri, senza beninteso (giova ripeterlo) togliere agli eroi l’ethos eroico a loro proprio. Nell’Ars poetica di Orazio (v. 223) leggiamo che lo spettatore illecebris erat et grata novitate morandus («andava trattenuto con lusinghe e piacevoli novità»), e ancor più chiaro è quello che ci trasmette il Lessico di Fozio, dove sotto la voce σατυρικὸν δρᾶμα si dice che esso era inteso «per distensione», πρὸς διάχυσιν. Questo resta vero nel periodo di fiore del dramma satiresco, che non a caso coincide con la produzione di Eschilo, considerato dagli antichi indiscusso re del genere. Da quel poco che abbiamo dei suoi drammi satireschi (soprattutto dai Δικτυουλκοί, I pescatori con le reti) risulta quanto audaci fossero i satiri nei loro scherzi con i personaggi eroici. C’è da rammaricarci che ci sia rimasto così poco: molti di noi darebbero un patrimonio per un suo dramma satiresco completo. Già con Sofocle (di cui ci resta una buona parte degli Ἰχνευταί, I cercatori di tracce) vediamo un ingentilimento della irruenta rozzezza dei satiri eschilei; e finalmente nel Ciclope, che non si lascia datare ma che è sicuramente posteriore, abbiamo uno stile satiresco sempre più lontano dagli inizi audaci e irruenti. Del resto, come apprendiamo dalle fonti, nel 438 a.C. l’Alcesti euripidea era quarto dramma in tetralogia: nonostante gli sforzi che si sono fatti per vedere come satireschi i fattori buffoneschi in un Eracle presentato ubriaco alla corte di Admeto, l’Alcesti resta una tragedia perché i satiri non ci sono e il minimo che si possa dire è che col tempo e con l’assuefazione del pubblico agli orrori della tragedia il dramma satiresco non era più sentito come necessario con la sua funzione distensiva e rassicurante. Questo non può certo bastare a retrodatare il Ciclope a prima del 438: ma i due fatti insieme, la tragedia quarta e l’ulteriore edulcoramento dell’elemento satiresco in un dramma che pur continuava ad essere satiresco, ci confermano il progressivo decadere di una funzione. È forse per questo che il dramma satiresco ha goduto solo di qualche decennio di successo e, salvo qualche reviviscenza più tarda in cui si vede metamorfosi di forme e di funzioni6, è stato completamente ignorato dalle letterature sia antiche sia moderne. Non è senza significato che il “lessico della paura” (del φόβος) sia tanto presente in Eschilo, come hanno notato Bruno Snell e Jacqueline de Romilly7, specie nei cori, mentre negli altri due tragediografi questo si attenua: è chiaro che il lessico della paura da una parte interpretava le emozioni del pubblico,
|| 6 Rossi, Dramma satiresco, cit., p. 288 ss. 7 Vd. ap. Rossi, Dramma satiresco, cit., p. 271 s. e nn. ivi. Sul rapporto serio/comico vd. Bonanno 1990, p. 275 s. e tutto il cap. 14.
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dall’altra almeno in parte le metabolizzava, secondo elementari processi psicologici a noi ben noti. Dopo Eschilo, essendosi il pubblico abituato a vedere sulla scena gli orrori del mito, questa diminuzione dell’espressione della paura va d’accordo con la progressiva perdita di funzione del dramma satiresco col suo aspetto rassicurante e a suo modo consolatorio. Aristotele aveva formulato la sua teoria psicologica della tragedia con la omeopatica guarigione catartica di pietà e terrore in un momento in cui il dramma satiresco era lontano e dalle scene e dai suoi interessi, visto che non ne parla. Ma, se l’avesse formulata – diciamo – un secolo prima, o avrebbe visto il dramma satiresco come terapia di quelle emozioni conturbanti oppure, volendola conservare interna alla tragedia ossia omeopatica, avrebbe forse spiegato come il pubblico fosse ormai disposto, attraverso la catarsi, a godere delle risate offerte dal dramma satiresco. Il fatto che Aristotele non ne parli (abbiamo visto che il σατυρικόν doveva essere altra cosa) è significativo per un critico che, come lui, era ormai lontano dalla cultura originaria del dramma attico. E si spiega anche lo scarso interesse per il dramma satiresco nell’epoca anteriore all’attività dei filologi alessandrini, dal momento che di alcuni di essi si dice che «non è conservato» (οὐ σῴζεται): evidentemente l’esistenza o il titolo di alcuni di questi derivava dalle Διδασκαλίαι raccolte dallo stesso Aristotele, ma i testi erano andati perduti. Un’altra ragione dell’introduzione del dramma satiresco in Atene credo sia da vedere nella situazione politico–sociologica creatasi al momento delle riforme di Clistene (508/7 a.C.), colle quali la riforma dell’organizzazione territoriale dell’Attica portava a far parte di ciascuna delle tribù le diverse componenti della popolazione: la città, le zone costiere e la campagna. Con questo si spiegherebbe bene la presentazione del mondo dei satiri nella campagna con tutti i suoi aspetti di atavica rozzezza e di legame con la natura selvatica, dei quali aspetti i satiri erano espressione tradizionale. Ma in questo modo, restando la natura dei personaggi eroici sempre quella dell’ethos tradizionale, si poneva il problema non di adattare gli eroi (che eroi dovevano restare) all’ambiente satiresco, bensì di adattare i satiri a un ambiente che, pur con tutte le sue implicazioni eroico–mitiche, era cittadino, e precisamente ateniese, risultato che si otteneva con i numerosi anacronismi che ben ci sono noti. A questo proposito mi riferisco a un recentissimo lavoro di Massimo Di Marco8, nel quale si mettono a fuoco gli espedienti di questo adattamento dei
|| 8 M. Di Marco, Sull’impoliticità dei satiri: il dramma satiresco e la polis, relazione tenuta all’ultimo convegno dell’INDA a Siracusa nel settembre 2001. Devo alla sua cortesia il privilegio di
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satiri, esseri legati alla campagna e alla natura selvaggia, alle consuetudini e agli usi della polis. È un utile rovesciamento di prospettiva: non come si sentono gli eroi fra i satiri – argomento tradizionale degli studi sul dramma satiresco –, ma come si integrano i satiri nel contatto con l’ethos eroico e nella cultura della polis. È così che, in vari drammi satireschi, «li vediamo all’opera come pescatori, mietitori, atleti, araldi, cuochi, carpentieri, fabbri». Le arti figurative ci offrono un campionario accresciuto: satiri aurighi, satiri citarodi, satiri simposiasti e così via; ruoli e funzioni che, a proposito del trattamento dei satiri nell’Atene di fine sesto e di quinto secolo hanno fatto parlare, recentemente, di “imborghesimento”9. Che mestiere fanno i satiri nel Ciclope? Nessuno in particolare, ma sono pratici della vita della polis, soprattutto per quanto attiene al commercio e a una istituzione importante come il simposio. Quanto alla persona scenica del Ciclope in rapporto con la sua tradizionale figura di mostro, essa è un poco più problematica per noi ed è stata analizzata in un lavoro recente da Giuseppe Mastromarco10, che pure, anche per il Polifemo del Ciclope, pensa che si possa parlare di un relativo incivilimento, soprattutto in confronto con l’ipotesto omerico11. Le esigenze dell’integrazione non cancellano però del tutto le prerogative originarie di Sileno e dei satiri. Nei Θεωροὶ ἢ Ἰσθμιασταί (La delegazione sacra ovvero i partecipanti alle gare dell’Istmo) di Eschilo, ad esempio, i satiri pretendono addirittura di voler partecipare alle gare atletiche dell’Istmo, ricevendone solo i rimproveri di Dioniso12, che li richiama al loro mestiere di danzatori. Nei Δικτυουλκοί (I pescatori con la rete) di Eschilo è divertente un Sileno che si pre-
|| poterlo utilizzare e citare prima della pubblicazione. In questo capoverso riprendo liberamente dalle sue acute osservazioni e argomentazioni. 9 Per l’evidenza archeologica si veda ora l’ampia messa a punto di R. Krumeich in Krumeich– Pechstein–Seidensticker, Das griechische Satyrspiel, cit., pp. 41–73 (per la Verbürgerlichung dei satiri si veda il cap. C 6 alle pp. 65–69). 10 G. Mastromarco, La degradazione del mostro. La maschera del Ciclope nella commedia e nel dramma satiresco del quinto secolo a.C., in Tessere. Frammenti della commedia greca: studi e commenti (a cura di A. M. Belardinelli, O. Imperio, G. Mastromarco, M. Pellegrino, P. Totaro), Bari 1998, pp. 9–42. Nella stessa direzione O. Longo, La storia, la terra, gli uomini. Saggi sulla civiltà greca, Venezia 1987, pp. 63–77. 11 «Pur conservando tratti costitutivi dell’antenato epico, il personaggio comico–satiresco di Polifemo subisce un processo di “civilizzazione”, e viene rappresentato sulla scena teatrale del quinto secolo a.C. nei panni di un poco probabile aristocratico» (Mastromarco, La degradazione del mostro, cit., p. 42). 12 Che si possa avvicinare questo dramma ai Παλαισταί (I lottatori) di Pratina, di cui sappiamo però assai poco? Vd. ora il riesame di J. Schloemann e R. Bielfeldt in Krumeich–Pechstein– Seidensticker, Das griechische Satyrspiel, cit., pp. 77–80.
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senta alla povera Danae naufraga come protettore ufficiale della polis, allo scopo di assicurarsene le grazie. È un altro di quei casi di comportamento da smargiasso (uno, come vedremo fra poco, è offerto dal monologo con il quale Sileno inaugura, appunto, il nostro Ciclope), come del resto succede anche nel Papiro di Ossirinco 1083, forse di Sofocle, dove «i satiri, per convincere Eneo a dare loro in sposa Deianira, si dichiarano esperti in ogni sorta di technai, da quelle militari a quelle sportive, al canto, alla profezia, alla medicina, all’astronomia, alla danza, all’indagine delle cose di sotterra (ove è evidente la parodia dell’ideale di polymathia predicato dai sofisti)»13. Per non dire, ovviamente, della proverbiale viltà dei satiri, messa in scena a più riprese nei drammi satireschi attici (Ciclope compreso). A stare alle fonti antiche, la danza della tragedia era la emmeleia, quella della commedia era il kordax, quella del dramma satiresco era la sikinnis. Si può pensare che per la danza siamo meglio informati che per la musica, ma non è così, perché le vaghe descrizioni e le rappresentazioni vascolari ci dicono poco, necessariamente formalizzate come sono. Tutto quello che possiamo pensare è che i tre tipi fossero in gradazione ascendente di libertà e scurrilità gestuale. Direi, in più, che anche nella danza il dramma satiresco facesse parte a sé rispetto alla commedia: non so credere che la commedia si servisse sempre del kordax, vista l’abbondanza nella commedia stessa di canti di alta nobiltà addirittura religiosa; ma nel dramma satiresco il coro era danzato dai satiri, e dai pochi testi che abbiamo non vediamo dove abbiano potuto presentare se non la danza a loro propria, e cioè la scomposta sikinnis. Nelle parti corali ho l’impressione che i satiri si comportassero integralmente da satiri, a differenza delle parti dialogate, dove il parziale incivilimento di cui si parlava prima faceva parte dell’ambientazione in un contesto a loro estraneo. Musica e danza dovevano presentare una perfetta unità di stile e i satiri dovevano ubbidire al precetto di Dioniso nei Θεωροί ricordato qui sopra: loro compito era, appunto, la danza, e precisamente la loro danza. Quando Sileno, al principio del dramma, nel prologo, rievoca con grottesco orgoglio le tante sofferenze sopportate al seguito di Dioniso per mantenere la fedeltà al dio, ci presenta il programma narrativo di una specie di epos minore dei satiri e di Dioniso, dove tutto è peraltro invenzione e che rientra nella caratteristica smargiassata satiresca. Se non si trattasse di trimetri recitati sulla scena in forma di prologo drammatico, crederemmo di leggere il proemio di un episodio dell’epos composto in esametri e destinato all’accompagnamento dello strumento a corda. Sileno come aedo? Direi proprio di sì, un aedo parodico, che || 13 Sempre Di Marco, Sull’impoliticità dei satiri, cit.
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aggiunge questa alle molte technai di cui si parlava sopra. Non direi proprio che in questo caso si possa parlare di «mistione dei generi letterari», tanto più che la funzione di questo falso proemio epico14 è quella di creare a un singolo personaggio (Sileno) e ai satiri un passato mitico adeguato all’ambientazione eroica: loro avrebbero altrimenti dietro di sé solo la natura selvaggia nella quale sono stati ambientati dal mito e alla quale sono perfettamente adeguati per la loro natura ferina. Ricordiamo che l’orrido del monte e del bosco è estraneo – come natura non ancora civilizzata – alla cultura non solo della polis, ma anche alle culture europee successive, fino agli inizi del romanticismo e alla conquista delle vette con l’alpinismo ottocentesco. L’orrido è l’altro da sé: basta pensare alle Baccanti di Euripide. In una cultura scenica che si era data le sue leggi solo da un secolo, e che era quindi giovane ma già legata a leggi severe e rispettate, c’è da notare uno “sgarro” che sicuramente non passò inosservato dal pubblico: ogni azione retroscenica, come in questo caso l’empio pasto del Ciclope antropofago, veniva narrata dal messaggero (l’ἄγγελος), personaggio normalmente di basso rango sociale. Ora, chi è qui che racconta quegli orrori? È Odisseo stesso, ma non c’era nulla che potesse offendere la sua dignità eroica, perché la buona ragione c’era, ed era l’esigenza scenica, strettamente funzionale, di creare un contatto diretto fra la grotta del Ciclope e la scena. E nessuno più adatto di Odisseo poteva raccontare quegli eventi, lui che in conseguenza di quegli eventi stessi medita l’esemplare vendetta dell’accecamento del mostro monoculo. Insomma, due fatti straordinari (che peraltro per mancanza di materiali non possiamo sapere quante volte si fossero ripetuti sulla scena satiresca): Sileno aedo di se stesso15 e Odisseo messaggero. Si aggiungano scene come il fraudolento commercio di Sileno con Odisseo, la lunga tirata di puro stampo sofistico del Ciclope, l’educazione del mostro alle regole del simposio. Specialmente quest’ultima è piena di sorprese, la maggiore delle quali è il mostro che viene obbligato a sdraiarsi in terra invece che sul lettuccio simposiale: anacronismo, perché il simposio sdraiato è più tardo rispetto a quello seduto, tipico dei tempi eroici, e gli spettatori avranno fatto meno caso all’anacronismo che, invece, alla distorsione
|| 14 Che è del resto un vero prologo tragico euripideo, destinato a presentare il personaggio e gli antefatti. 15 Come del resto Odisseo stesso nell’Odissea: ma non premerei su questo parallelismo, che è notevole per noi moderni, ma che non credo lo fosse per lo spettatore antico del Ciclope.
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parodica del gesto di sdraiarsi faticosamente in terra da parte del mostro16. Dobbiamo figurarci un pubblico che trovava di che divertirsi. E il Ciclope è divertente anche per il lettore moderno. Anche chi sa il greco e perfino chi ha familiarità quotidiana con questi testi, perché li pratica per professione o per abitudine, non si priva qualche volta del piacere di leggerli in traduzione, a patto che la traduzione abbia qualcosa di autonomo da offrire, oltre all’alleggerimento di tutte quelle implicazioni esegetico–filologiche che s’impongono quasi automaticamente all’attenzione di chi legga, o rilegga, il testo originale. Queste implicazioni possono alle volte disturbare il godimento del testo in sé. Abbiamo tutti bisogno, ogni tanto, di una lettura veramente libera, fonte di vera gioia. Ed è il caso della traduzione che qui viene offerta, che si muove, con felice libertà e senza pedanteria, fra i vari registri stilistici che la nostra lingua letteraria offre come sia pure approssimativamente corrispondenti alle variazioni di stile e di tono dell’originale: dal tono solenne dei personaggi alti, al tono dimesso e qualche volta addirittura colloquiale o volgare dei personaggi bassi (Sileno e i satiri), all’aura popolare di alcuni canti del coro. A chi poi abbia familiarità col melodramma, risulterà godibile il riconoscimento di qualche vera e propria citazione («è sogno o è realtà?»; «narraci un po’ lo strano avvenimento»; «qual derisione!»), e la scelta di versi parisillabi sotto i quali si riconoscerà tanta musica della nostra grande opera lirica. Tradurre il lessico, le parole, è il meno: tradurre significa anche trasporre da una cultura all’altra le istituzioni letterarie con le loro convenzioni, che qui sono parola e scena, musica e danza. L’approssimazione intelligente è l’unico mezzo per essere rigorosamente fedeli.
|| 16 Al momento di obbedire all’ordine di sdraiarsi il Ciclope recita un prezioso extra metrum, ἰδού, che significa «ecco» o «ecco fatto», che presuppone un ritardo del movimento ed esprime la sua comica fatica. Ho detto “prezioso” perché, nel codice Laurenziano, si tratta di un’aggiunta di Triclinio, che non avrebbe mai potuto integrarlo di sua iniziativa, ma solo da un codice perduto (il codice P, che è descriptus, non ce l’ha). Azzardo una curiosa ipotesi critico–testuale: visto che una notazione scenica come quella non poteva essere improvvisata da nessuno se non dall’autore, quell’ ἰδού mi appare paradossalmente come l’unità testuale più sicura di tutto il dramma.
Vasi e scena: a proposito della cultura del dramma a Piero Pucci
Queste pagine propongono liberamente alcune idee che andrebbero verificate e che, proprio in quanto tali, potrebbero essere la redazione della metà di una di quelle chiacchierate su quanto in disordine veniva in mente o a Piero o a me, chiacchierate che tante volte ho fatto con lui nei più di cinquant’anni di nostra frequentazione. Ne veniva sempre un senso di soddisfazione per l’esserci chiariti reciprocamente alcune prospettive anche nuove e audaci e non ho di meglio che dedicare queste pagine a lui, sperando che poi, svaniti i fumi della felice celebrazione, siano oggetto di una nuova chiacchierata[*]. Per le mie riflessioni prendo spunto occasionale da uno dei capoCratere di Euphronios. lavori della ceramografia attica. Mi Vaso attico a figure rosse 510 a.C. circa. sono trovato di recente a occuparmi Trasporto del corpo di Sarpèdone, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma. del famoso vaso di Eufronio[**], trova-
|| [Conferenza (vd. n. [**]) e relazione di convegno (L 25.5.2009); pubblicata poi postuma in A. M. Belardinelli – G. Greco (edd.), Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, Atti del convegno internazionale, Roma 13, 25–26 maggio 2009, Sapienza Università di Roma, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 226–229] [* Questo saggio era in realtà destinato agli Studi in onore di Piero Pucci (P. Mitsis – C. Tsagalis (edd.), Festschrift for Pietro Pucci, Berlin–New York, Walter de Gruyter, 2010): Rossi aveva già oltrepassato la scadenza di consegna del 15.5.2009, e aveva deciso di rielaborare una breve relazione da lui tenuta già due volte, lavorando alla presente stesura tra il 28.5 e l’8.6.2009 (come attesta il file del suo ultimo pc), quando però, ammalatosi, non fu più in grado di metterci mano. L’ultima stesura fu quindi pubblicata postuma, con l’aggiunta da parte dei curatori della dedica ‘a Piero Pucci’, negli atti del convegno in cui Rossi aveva parlato. – G. C.] [** Rossi G 7.5.2009, al Museo Etrusco di Villa Giulia, aveva tenuto la conferenza L’eroe e il pianto per la sua morte. Sarpedonte nel vaso di Eufronio, in occasione del ricevimento allestito al piano nobile del museo per la prima esposizione pubblica di vari reperti archelogici illegalmente detenuti per anni da alcuni musei americani, tra i quali reperti spiccava su tutti il celeberrimo cratere di Eufronio (restituito solo nel 2008 all’Italia dal Metropolitan Museum di New https://doi.org/10.1515/9783110648126-048
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to in ambiente etrusco, che presenta la scena del cadavere di Sarpèdone, appena ucciso da Patroclo con le armi di Achille (Iliade, libro XVI), con ai lati Hypnos e Thànatos, Sonno e Morte. Non ho bisogno di decantare ancora una volta la bellezza assolutamente eccezionale di questa raffigurazione, bellezza dovuta alla perizia straordinaria del ceramografo Eufronio, che è riuscito a trasmettere il grande pathos simpatetico ispirato dalla morte di un grande eroe. La datazione si aggira intorno al 515–510 a.C. Dirò subito quello che qui mi interessa: nell’epica i guerrieri greci muoiono uno appresso all’altro (Patroclo uccide Sarpèdone, Ettore uccide Patroclo, Achille uccide Ettore: ed è solo una piccola tranche della lunga serie) perché il fatto è che il vero mestiere dell’eroe omerico è proprio morire con gloria e il compito dell’epica è presentare queste morti nel fulgore di armi lucenti e nella gloria di illustri discendenze familiari. Molte lacrime le versano solo i parenti stretti e gli amanti, vedi il dolore di Achille per Patroclo: altra aura di lutto ufficiale è quella delle celebrazioni funebri per Patroclo e per Ettore. Un altro tipo di presentazione delle morti eroiche è quello, successivo, del ceramografo greco in generale e del drammaturgo attico, che mettono in rilievo (ovviamente a richiesta dei vari pubblici) gli aspetti dolorosi, luttuosi e patetici delle varie pur gloriose fini dei singoli eroi. Ed ecco il corpo meravigliosamente languido e il volto come ispirato di Sarpèdone, bellissimo nel velame della morte: sfido chiunque a trovare nell’epos arcaico un qualsiasi accenno all’espressione di un cadavere che possa venir confrontato con quanto vediamo su questo vaso.
|| York). Al posto di quanto si trova prima della presente nota, il testo di quella conferenza (conservato nell’ultimo pc di Rossi) riportava quanto segue: “Grazie a chi ha voluto affidarmi la presentazione al pubblico qui presente di un grande eroe come Sarpèdone nel pateticamente sontuoso lutto per la sua morte così come ce lo esibisce il vaso di Eufronio. Non sono né archeologo né storico dell’arte antica, bensì filologo e storico della letteratura: non mi soffermerò quindi se non di sfuggita sulla descrizione e valutazione dei pregi (peraltro enormi) di Sarpèdone morto e delle varie altre raffigurazioni del vaso: i presenti hanno avuto il privilegio di vedere il vaso addirittura senza la protezione del vetro. Preferisco, da incompetente che non sa parlare di drappeggi, di composizione e di volti, affidarmi a un rilevamento visivo immediato e superficiale e, piuttosto, tentar di centrare, con la guida del vaso stesso, alcuni snodi fondamentali nella storia della cultura greca fra VII e IV secolo a. C. Bisognerebbe dire S a r p è d o n e , e qui lo diremo (in gr. sarpedòn, sarpedònos, ma in lat. Sarpèdonos perché la sillaba –do– ha vocale breve). Fuori di qui diremo Sarpedonte, che è la forma vulgata, ed è per questo che l’ho messa nel titolo. Il vaso di Eufronio ci presenta, come raffigurazione principale, il cadavere di Sarpèdone, ...”. – G. C.]
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Casi come Il. XVII, 51 s.1 sono l’esempio più chiaro di eccezione che conferma la regola: l’eroe ucciso è Euforbo figlio di Panto, i cui capelli simili alle Cariti si macchiano di sangue e i cui riccioli sono come avvolti in oro e argento. È molto giovane e la sua bellezza provoca un sussulto patetico, non usuale nell’epos. A chi fosse disturbato dall’insorgere apparentemente prematuro dell’atteggiamento patetico e volesse persistere nel registrarne, al modo del cosiddetto terzo umanesimo di Jaeger2, una data di nascita postomerica, si dovrebbe consigliare di non preoccuparsi, visto che il patetismo è moto universale e perenne dell’animo umano e pertanto presente sempre e che l’importante è individuarne, in un dato momento, l’affermazione in forma di presenza diffusa, tale da contribuire a configurarne il vero inserimento in un dato contesto culturale. Bisogna non lasciarsi sviare dall’eventuale episodico insorgere, apparentemente prematuro, di casi isolati. Torna qui utile il detto «una rondine non fa primavera»: l’esercizio una volta praticato era eliminare (ritardare, mobilitando la critica omerica analitica) la rondine–Euforbo oppure anticipare la primavera–patetismo, ma qui la rondine non si lascia espungere e la primavera patetica non si lascia anticipare.[***] I fattori storici di prim’ordine che intendo qui considerare, mettendo il vaso al centro, sono i seguenti: 1) la patetizzazione dell’epos dal VII secolo in poi nella ceramica greca e, dalla metà del VI secolo in poi, nel dramma attico: le gesta degli eroi venivano portate in primo piano sia sulla superficie dei vasi sia sulla scena e offerte alla sensibilità dei pubblici, che tra l’altro secondo le testimonianze erano molto emotivi (la testimonianza degli aborti fra il pubblico delle Eumenidi di Eschilo è notizia tarda e quindi non decisiva per la presenza delle donne a teatro, ma utilissima per testimoniarci l’emotività del pubblico3); 2) dopo un V secolo attico pieno di teatro l’eclissi della cultura del dramma durante il IV secolo (Aristotele, e lo vedremo qui oltre). || 1 Segnalatomi da Virgilio Irmici. 2 W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Milano 2003 (ed. orig. Berlin–Leipzig 1944), p. 442: «la realizzazione del mito nella tragedia è non solo sensibile, ma radicale. Essa non si estende soltanto alla drammatizzazione esteriore, che del racconto fa un’azione cui assistiamo, ma tocca anche l’elemento spirituale, l’interpretazione dei personaggi». [*** Tutto questo paragrafo è stato inserito nell’ultima stesura, come del resto anche le note 1 e 3 (la n. 2 è invece integrazione dei curatori). – G. C.] 3 Confermata dalla presenza in tetralogia del dramma satiresco, che dopo alcuni decenni scompare (L.E. ROSSI, Il dramma satiresco attico – Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, in «DArch», VI (1972), pp. 248–302).
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Le due cesure che abbiamo individuato, la patetizzazione e la fine della cultura drammaturgica, danno origine a tre momenti di ricezione del mondo eroico: I) la Grecia arcaica (fino alla fine del VII secolo) con la venerazione della gloria dell’eroe (tutta la letteratura epica arcaica); II) l’età tardo–arcaica e classica (dal VI al IV secolo) con la sympàtheia ovvero la compassione patetica per l’eroe (da una parte il vaso di Eufronio e i vasi in generale e dall’altra il dramma attico); III) le età successive (dall’ellenismo in poi) con l’eroe divenuto personaggio d’intrecci, ovvero i racconti dell’epos rivissuti in chiave avventurosa (le Argonautiche di Apollonio Rodio). Sarpèdone è rappresentato sempre morto, nei vasi; altri eroi compaiono, da morti, molto meno. Per restare in famiglia, Patroclo compare in genere con Achille, ma di rado, e sempre vivo, come imparo dal LIMC. La grande ceramica a figure nere (da circa il 600 a.C.) precede di qualche decennio il leggendario carro di Tespi (tradizionalmente 535 a.C.), che del resto è preceduto anche, dalla metà del secolo, dai vasi a figure rosse con le loro articolate scenografie. Mi domando se sia stato già detto che i ceramografi sono stati i primi registi drammaturgici, con i loro eroi che occupano tutto il campo ovvero la skené dei loro vasi: sarei grato a chi mi segnalasse eventuali prese di posizione in questo senso nella ricerca moderna. Ma quello che forse non è stato detto, e su cui vale la pena di metter qui l’accento, è la conseguenza fattuale, pragmatica di un simile atteggiamento, sempre che la sua realtà risulti accettabile: che cioè il dramma come composizione letteraria è attico, ma che la drammaturgia ceramografica è in realtà anteriore e panellenica. I vasi sono stati le prime, e fortemente patetizzanti, scene teatrali, che hanno esibito gli eroi in una luce nuova rispetto all’epos. Il vaso di Eufronio l’ho qui preso ad egregio esempio per la sua eccezionale bellezza, anche se è di ambiente attico, ma ha numerosi fratelli di fattura non attica. Con tutti i vasi anteriori e coevi, lo metto in parallelo con la tragedia attica, a testimoniare come meglio non si potrebbe l’attitudine a una patetizzazione drammatica, a una spettacolarizzazione che in realtà era diffusa in tutta la cultura greca, e non solo quindi in quella attica. Ad Atene va senza dubbio riconosciuto il merito (non piccolo) di aver individuato nel teatro il canale più adatto per quel tipo di comunicazione icastica, che del resto portava con sé una varietà di realizzazioni, ampiamente praticate e poi teorizzate: e la parola e la musica e la danza. Penso poi alla teoria dell’oratoria (quello che chiamiamo retorica), con tutta la sua precettistica delle passioni, e in più anche alla teoria
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musicale, che aveva una altrettanto dettagliata precettistica. I greci erano sensibilissimi al suono articolato e avevano costruito intorno alla musica tutta una teoria con valutazioni assiologiche positive e negative, quella che viene chiamata teoria dell’ethos musicale (Ethoslehre der Musik). Quanto a patetizzazione, la lirica monodica si è allontanata dall’epos per vie sue, quella corale ha sperimentato una sua specifica spettacolarità solo nella danza: tutti e due i generi sono rimasti al di qua della trasformazione in dramma vero e proprio. Attribuire una diffusa sensibilità scenografico–drammaturgica a più di una cultura locale, e cioè a un panorama panellenico, ha a mio parere il non piccolo vantaggio di togliere ad Atene qualche frammento di gloria esclusiva, una perla (magari una sola) dal suo diadema di vagheggiata umanistica perfezione, il che può contribuire a riposizionarla in attenuata superiorità rispetto alle altre poleis. Non che la gloria dell’Atene del V secolo abbia a soffrirne granché: ma, oltre ad essere un atto di giustizia critica distributiva, sarebbe anche una ragione per moderare opportunamente l’approccio umanisticamente adorante nei confronti di tutto quello che in quel secolo d’oro fiorì all’ombra del Partenone. Insomma, Atene inventa il dramma, ma non la drammatizzazione. A mio parere, ogni pretesto è buono per temperare ogni eccessivo entusiasmo di stampo umanistico volto a santificare un determinato momento della storia dell’umanità. Ma forse quello che ho proposto non è del tutto un pretesto. E vediamo quello che succede della tematica eroica nel corso del IV secolo, quando comincia la terza epoca. Quanto lontani siamo, già nel IV secolo, dall’epoca piena della tragedia ci viene mostrato da chi è diventato già un epigono, e cioè nientemeno che da Aristotele, la cui Poetica viene datata fra il 350 e il 325, e cioè qualche decennio dopo la morte di Sofocle e di Euripide e la fine della grande stagione tragica ateniese. Aristotele trova che l’Ifigenia in Aulide di Euripide presenta una protagonista di eccessivamente variabili reazioni psicologiche (non considera quanto spesso questo succedeva sulla scena attica e quanto i tragediografi a questo espediente ricorrevano per movimentare l’azione). Apprezza molto, come facciamo anche noi, l’Edipo re di Sofocle per la sua compattezza e coerenza compositiva nell’azione, non considerando che a quelll’agone Sofocle non ebbe il primo, ma il secondo posto dopo un certo Fìlocle, il che ci fa chiaro che le qualità che il pubblico ateniese apprezzava nei drammi erano altre (il che deve renderci sempre prudenti nel formulare criteri di valutazione che alle volte sono solo nostri). Dice poi anche che la tragedia la si apprezza meglio leggendola, il che avrebbe fatto saltare in piedi scandalizzato qualunque greco del V secolo.
670 | Sezione 5: Dramma
Quanto questo scadere della cultura drammaturgica attica sia da verificare e nella ceramografia e nella toreutica quanto a scelta e a trattamento dei temi lo lascio qui da parte, ma basti notare, per buttare anche solo un colpo d’occhio sull’arte dell’epoca ellenistica, come col Laocoonte sia presente il pathos, ben diverso però dal pathos del Sarpèdone morto di Eufronio.
| Sezione 6: Letteratura ellenistica
La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio È noto che la tradizione scoliastica al verso 296 del penultimo libro dell’Odissea (ψ 296 ἀσπάσιοι λέϰτροιο παλαιοῦ ϑεσμὸν ἵϰοντο) ha dato da fare ai filologi. Si tratta del verso che racconta l’ultimo avvenimento a cui tende tutto il νόστος: la ricostituzione del nucleo familiare dei protagonisti, Odisseo e Penelope, riconsacrata dalla unione dei due sposi nell’«antico letto». La tradizione scoliastica sembra informarci chiaramente che con questo verso due grandi filologi alessandrini, Aristofane e Aristarco, facevano finire il poema: Sch. M V Vind. 133 (sigle di Dindorf) Ἀριστοφάνης δὲ ϰαὶ Ἀρίσταρχος πέρας τῆς Ὀδυσσείας τοῦτο ποιοῦνται. Sch. Η Μ Q τοῦτο τέλος τῆς Ὀδυσσείας φησὶν Ἀρίσταρχος ϰαὶ Ἀριστοφάνης.
Queste parole sembrano significare che il resto del poema, e cioè ψ 297–372 piú tutto l’ultimo libro, veniva atetizzato. Ma a sollevar dubbi è già Eustazio: Eust. 1948, 49 (ad ψ 296) ὅτε δὲ ἀσπάσιοι λέϰτροιο παλαιοῦ ϑεσμὸν ἵϰωνται οἱ δεσπόται, τότε δὴ παύσαντες ὀρχηϑμοῖο πόδας εὐνάζοντο ϰαὶ αὐτοί. ἰστέον δὲ ὅτι ϰατὰ τὴν τῶν παλαιῶν ἱστορίαν Ἀρίσταρχος ϰαὶ Ἀριστοφάνης, οἱ ϰορυφαῖοι τῶν τότε γραμματιϰῶν, εἰς τό, ὡς ἐρρέϑη, ἀσπάσιοι λέϰτροιο παλαιοῦ ϑεσμὸν ἵϰοντο, π ε ρ α τ ο ῦ σ ι τὴν Ὀδύσσειαν, τ ὰ ἐ φ ε ξ ῆ ς ἕως τέλους τοῦ βιβλίου ν ο ϑ ε ύ ο ν τ ε ς . οἱ δὲ τοιοῦτοι πολλὰ τῶν ϰαιριωτάτων περιϰόπτουσιν, ὥς φασιν οἱ αὐτοῖς ἀντιπίπτοντες, οἷον τὴν εὐϑὺς ἐφεξῆς τῶν φϑασάντων ῥητοριϰὴν ἀναϰεφαλαίωσιν ϰαὶ τὴν τῆς ὅλης ὡς εἰπεῖν Ὀδυσσείας ἐπιτομήν, εἶτα ϰαὶ τὸν ὕστερον ἀναγνωρισμὸν Ὀδυσσέως τὸν πρὸς τὸν Λαέρτην ϰαὶ τὰ ἐϰεῖ ϑαυμασίως πλαττόμενα ϰαὶ ἄλλα οὐϰ ὀλίγα. εἰ δὲ διότι πολλὰ εὐανασϰεύαστα ἐν τῇ ἀρχῇ τῆς ἐφεξῆς ῥαψῳδίας πεποίηνται, διὰ τοῦτο ἐνταῦϑα τὴν Ὀδύσσειαν ἀ π ο τ ε ρ μ α τ ί ζ ο υ σ ι ν , ἔστιν αὐτοῖς στενῶσαι ϰαὶ συσφίγξαι ϰαὶ οἶον σφηϰῶσαι τὴν ὅλην ποίησιν ταύτην ἀφελομένοις ἐϰ μέσου τοῦ βιβλίου ϰαὶ ὅσα ὁμοίως μυϑιϰὰ ϰαὶ οὐ πιϑανὰ ἐν Φαιαϰίᾳ ἐλαλήϑησαν. εἴποι ἂν οὖν τις ὅτι Ἀρίσταρχος ϰαὶ Ἀριστοφάνης οἱ ῥηϑέντες οὐ τὸ βιβλίον τῆς Ὀδυσσείας, ἀλλὰ ἴσως τ ὰ ϰ α ί ρ ι α ταύτης ἐνταῦϑα σ υ ν τ ε τ ε λ έ σ ϑ α ι φασίν.
Eustazio si poneva già nella posizione in cui sono alcuni dei moderni: tentava d’interpretare le parole della tradizione scoliastica nel senso che πέρας e τέλος non avrebbero significato la fine del poema, bensì il ‘culmine’ dell’azione. Dal punto di vista puramente lessicale, sembra improbabile che πέρας e τέλος pos-
|| [Saggio pubblicato in «RFIC» 96, 1968, pp. 151–163]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-049
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sano significare quello che Eustazio già esprime in modo piú appropriato e che verrebbe ancor meglio detto con qualcosa come σϰοπὸς οὗ στοχάζεται ὁ ποιητής1. Né c’è da ricercare una eventuale sfumatura di significato che differenzi le due parole. Sarebbe esclusa già da un esame lessicale, se non avessimo anche una testimonianza platonica estremamente opportuna: «Solo Prodico sarebbe forse capace di distinguere τελευτή, πέρας, ἔσχατον: per me — è Socrate che parla — sono sinonimi» (Men. 75e). Ma mi sembra che qui sia rimasta inespressa, anche in chi interpreta giustamente alla lettera — come si vedrà — le chiare parole degli scoli, una riserva d’importanza fondamentale. Schwartz, che è l’unico almeno ad avviarla, dice giustamente che diverso sarebbe stato il modo d’esprimersi, ma che difficilmente gli alessandrini si sarebbero comunque lasciati andare a fare un’osservazione cosí ovvia2: ma c’è da precisare che l’osservazione sarebbe stata ovvia in tale misura da rendere del tutto improbabile il fatto che la si riportasse precisamente a due filologi, e a quelli soltanto. Si tratterebbe di una notazione priva di valore critico–testuale o linguistico e priva anche di valore esegetico preciso, possibile in ogni e qualunque lettore di Omero, e comunque difficilmente, come tale — e quindi priva, se mai, di attribuzione — sarebbe passata attraverso il severo setaccio che ci ha privati della maggior parte del materiale scoliastico riguardante la fine dell’Odissea. Già da queste poche considerazioni sembra ragionevole prendere alla lettera le parole degli scoli. In realtà, invece, le opposizioni sono state numerose. Paul Friedländer3 sembrò aver troncato definitivamente il nodo. Considerando il contesto del verso in questione (ψ 295 sg. οἱ μὲν ἔπειτα || ἀσπάσιοι ...), negò che fosse possibile ammettere un οἱ μὲν ἔπειτα in fine, senza che ci fosse il contrappeso di un elemento sintattico successivo4, che qui, nell’attuale redazione, sarebbe dato dal verso che segue immediatamente: ψ 297 αὐτὰρ Τηλέμαχος ... In
|| 1 Ed. Schwartz, Die Odyssee, München 1924 p. 150 sgg. – Si consideri inoltre il chiaro περατοῦσι τὴν Ὀδύσσ. di Eustazio, che onestamente riporta quanto legge nelle sue fonti, e che poi si esprime, del resto, con molta prudenza: εἲποι ἂν οὖν τις... e ἲσως. 2 Ed. Schwartz, op. cit. p. 152: «Wenn die Alexandriner es überhaupt fur der Mühe wert hielten, einen solchen Satz aufzustellen...». 3 P. Friedländer, Retractationes. I. De fine Odysseae, «Hermes» 64 1929 p. 376. Le sue argomentazioni ebbero molto successo: totale adesione, per esempio, in G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo2, Firenze 1952 p. 217 n. 4. 4 Non necessariamente avversativo, e non necessariamente introdotto dall’usuale δέ: per μέν seguito da particelle o congiunzioni non avversative vd. J. D. Denniston, The Greek Particles2, Oxford 1954 p. 374 sgg. Ma δέ può essere sostituito da μήν, μέντοι, ἀλλά, ἀτάρ (αὐτάρ), vd. Denniston, op. cit. p. 370. Fra gli esempi portati da Friedländer, simili al nostro (seguiti cioè da αὐτάρ) sarebbero solo Y 458 e v 439.
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quel punto non avrebbe quindi potuto finire il poema, accettando il testo tramandato. È questa, in fondo, l’aporia piú forte, l’unica vera difficoltà, che Kirchhoff5, convinto della univocità della tradizione scoliastica, cercava di superare proponendo che il testo tramandato non fosse da accettare, ma da restituire con οἱ δ’ ἂρ’ ἔπειτα6. Certo, un adattamento sintattico, e per giunta cosí lieve, non sarebbe impensabile in un simile punto di sutura: qui si attaccherebbe la Telegonia, in quanto continuazione ciclica dell’Odissea7. Esempio di una simile sutura ne abbiamo un altro, famosissimo, proprio alla fine dell’Iliade, all’attacco di quella che par certo essere l’Etiopide8: e che a quel punto si sia invece conservata, nella redazione che abbiamo, una rigorosa distinzione fra l’ ‘omerico’ e il ‘ciclico’, a tal punto da portare alla perdita del ‘ciclico’, sarà piuttosto un caso dovuto alla tradizione prealessandrina che la conseguenza di un intervento dei critici alessandrini, notoriamente conservatori. Ora, essendo qui, nell’Odissea, metodicamente costretti a ignorare se per caso il rimaneggiamento non fosse piú ampio ed eventualmente deformante9, e dovendo quindi astenerci dal fare un intervento testuale necessariamente arbitrario, può risultare piú economico ammettere, magari provvisoriamente, che gli alessandrini abbiano qui
|| 5 A. Kirchhoff, Die homerisehe Odyssee, Berlin 1879 pp. 532 (ad 295), 532 sg. (ad 296). 6 Impossibile un αὐτὰρ ἔπειτα, ché, come giustamente nota Friedländer, il nesso capita sempre subiecto non mutato. L’obiezione di Friedländer a οἱ δ’ἄρ’ ἔπειτα di Kirchhoff, che cioè il nesso capiterebbe sempre in incisione trocaica, non mi sembra cosí forte da avere valore esclusivo, visto che έπειτα, sia pure in nessi diversi, capita molto spesso in fine di verso. 7 Vd. Schwartz, cit., spec. p. 156. Per il problema di Telegonia e Tesprotide e loro eventuale identificazione (sulla base di Clem. Alex., strom. 6,2.25,1) vd. spec. A. Hartmann, Untersuchungen über die Sagen vom Tod des Odysseus, München 1917 p. 44 sgg. 8 Per l’ultimo verso (Ω 804 ὣς οἲ γ’ἀμφίεπον τάφον “Εϰτορος ἱπποδάμοιο), com’è noto, ci viene data la variante coll’indicazione τινὲς γράφουσιν: ὣς οἳ γ’ ἀμφίεπον τάφον Ἕϰτορος, ἦλϑε δ’ Ἄμαζών || Ἄ’ρηος ϑυγάτηρ μεγαλήτορος ἀνδροφόνοιο. Anche qui, naturalmente, le due versioni di Ω 804 hanno, l’una rispetto all’altra, un adattamento nel secondo emistichio. I due fatti (fine dell’Iliade e fine dell’Odissea, ambedue con ‘coda’ ciclica) sono opportunamente collegati come simili da Ed. Meyer, «Hermes» 53 1918 p. 333 sgg. 9 D. Page, The Homeric Odyssey, Oxford 1955 p. 131 n. 10: «if 23.297 ff. were added later, there is no reason in the world why the last line of the Odyssey should not have been adjusted to suit the first line of the Continuation». E fa notare che, tra l’altro, la parola ϑεσμός, comune in seguito, è sconosciuta all’epica. L’ipotesi di un rimaneggiamento totale di ψ 295 sg. è tutt’altro che inverosimile. E che lo scolio sia rimasto ‘attaccato’ a versi che, rimaneggiati, non lo comportavano piú, non ha da meravigliare e ci può portare solo a ricordare due fatti: che originariamente il materiale esegetico alessandrino era organizzato in ὑπομνήματα separati; e soprattutto che le antiche ‘edizioni’ (vd. sul concetto di edizione nell’antichità gli utilissimi chiarimenti di B. A. van Groningen, Ἔϰδοσις, «Mnemosyne» 16 1963 pp. 1–17) non avevano certo un apparato a piè di pagina come le nostre.
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semplicemente s b a g l i a t o 10. Giacché in questa sede c’interessa solo, senza entrare nel merito della questione, stabilire quello che essi affermavano, se cioè da ψ 297 in poi la nostra Odissea fosse da loro considerata spuria11. Le anomalie linguistiche, i fatti strutturali non c’interessano qui. I critici alessandrini potevano benissimo aver sbagliato, indipendentemente dal fondamento posto a base della loro atetesi, sia che si trattasse di fondamento documentario (manoscritti privi dell’ultima parte del poema, come pensa Wilamowitz12, sia di piú o meno forti criteri interni autonomi, loro o di altri13. Ma a conforto di quella che — ormai è chiaro — è la nostra tesi, ci viene un’altra prova, stranamente trascurata o contraddetta da molti. Dal momento in cui Eduard Meyer per primo la mise in luce14, non è possibile ignorarla. Egli notò un’analogia fra ψ 296 e l’ultimo verso delle Argonautiche di Apollonio Rodio: 4,1781 ἀ σ π α σ ί ω ς ἀϰτὰς Παγασηίδας εἰσαπέβητε.
Concluse che Apollonio avesse chiaramente a l l u s o al verso dell’Odissea e per dichiarare ancora una volta il suo ‘credo’ letterario con un ennesimo episodio di ζῆλος Ὁμηριϰός e per affermare elegantemente anche la sua fede di filologo nella atetesi di ψ 297 – ω 548, dichiarando apertamente quale era per
|| 10 Come mi fa notare ragionevolmente Eduard Fraenkel (30–4–67), che qui di nuovo vorrei ringraziare. Già Schwartz, op. cit. p. 151 propendeva per questa ipotesi. 11 In realtà le ‘anomalie’ linguistiche e le aporie strutturali sono numerose: vd. da ultimo D. Page, op. cit. p. 101 sgg. Non fa difficoltà, all’accettazione dell’atetesi in blocco, il fatto che Aristarco atetizzasse ulteriormente ψ 310–343 e ω 1–204 (la ‘seconda νέϰυια’). Com’è noto, i versi atetizzati, muniti dell’obelo, restavano nei testi, e le parti considerate non omeriche godevano anch’esse del lavoro di restauro filologico (vd. A. Ludwich, Aristarchs homerische Textkritik. II, Leipzig 1885 p. 220 n. 195 = 221 e le chiare parole di Page, op. cit. p. 131 n. 10). Per un esempio famoso di ‘atetesi di seconda istanza’ si ricordi A 5, per cui abbiamo notizia (Athen. 12 f) che Zenodoto leggeva δαῖτα (e non πᾶσι) in un verso che, insieme col precedente, egli stesso atetizzava (Schol. A ad A 4 sg.). 12 U. v. Wilamowitz–Möll., Die Ilias und Homer, Berlin 1916 p. 12. 13 Vd. ad es. Th. W. Allen, Homer. The Origins and the Transmission, Oxford 1924 p. 218 sgg.; Pasquali, op. cit. spec. p. 220 sgg. Dalla filologia alessandrina, in genere sostanzialmente conservatrice, ci aspetteremmo piuttosto il primo dei due metodi, quello documentario. 14 Ed. Meyer, Apollonios von Rhodos und der Schluss der Odyssee, «Hermes» 29 1894 p. 478 sg.; vd. anche ibid. 53 1918, cit., p. 334. In realtà Meyer era stato preceduto da L. Adam, Die aristotelische Theorie vom Epos, Wiesbaden 1889 p. 92 (H. Herter, «Bursian» 285, 1944–55 p. 400). Strana la nota d’apparato dell’ediz. di H. Fränkel (Oxford 1961): il confronto suggeritogli da «amicus quidam».
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lui l’ultimo verso dell’Odissea. Ne concludeva anche che tale atetesi dovesse essere piú antica di Aristofane, addirittura zenodotea15. Fa davvero meraviglia che molti filologi siano stati cosí tenacemente restii ad accettare risultati che già dovevano apparire cosí evidenti. Accanto a chi accetta interamente Meyer, e cioè sia l’atetesi alessandrina sia il riecheggiamento di Apollonio16, c’è chi accetta il primo punto ma rifiuta espressamente il secondo17 e c’è infine chi nega il primo e, espressamente o tacitamente, il secondo18, che non avrebbe piú gran valore, una volta negato il primo. È strano l’accanimento con cui da alcuni, della seconda e della terza categoria, si vuol negare l’allusione apolloniana: Bethe19, che nega anche il primo punto (e che non avrebbe quindi gran ragione d’insistere a negare il secondo), dice che Apollonio, diversamente da Omero, ha una Anrede, e che atmosfera, pensiero, forma sono completamente diversi da quanto si ha nell’Odissea (ma è proprio questo, invece, che rende significativa l’allusione, se mai!); oppure che i due versi «comincerebbero con un’unica parola comune, per continuare in modo del tutto diverso» (e anche qui varrebbe l’osservazione fatta sopra); e Page20 ripete quest’ultima affermazione, credendo di rafforzarla: «i due versi comincerebbero tutti e due semplicemente con ἀσπασι—» (e quindi — sembra voler dire — la parola comune non è neanche completa, i morfemi sono diversi! Vedremo invece in seguito che anche questa differenza ha un senso). Ma che vogliamo di piú? — potrebbe chiedersi chi abbia familiarità coll’ ‘arte allusiva’, per dirla pasqualianamente, degli antichi. Le allusioni sono spesso ben piú oscure, ben piú difficili a scoprirsi, almeno per noi moderni, di quanto non sia la presente. E questo varrebbe anche se non volessimo sottoporre i due versi ad un’analisi piú microscopica. Infatti, «il rapporto fra ψ 296 e Ap. Rh. 4,1781 non si limita alla
|| 15 Ed. Meyer, «Hermes» 29 1894, cit., p. 479: ma, per risalire a Zenodoto, appare tenue la base di Demetrio del Falero ap. Stob., flor. 5.59 (5.43 Hense). Su Zenodoto, comunque, vd. qui sotto, alla fine. 16 Schwartz, per cui vd. sopra; Wilamowitz, Die Ilias u. Hom., cit., p. 12 (in Homerische Untersuchungen, Berlin 1884 pp. 84 sg., 369 n. 47 e Heimkehr des Odysseus, Berlin 1927 p. 74 accetta il primo punto, ma non fa parola del secondo; ugualmente Th. W. Allen, Homer, cit., p. 218 sgg.); P. Von der Mühll, Odyssee, RE Suppl. 7 (1940) col. 763. 17 D. Page, op. cit., p. 101 sgg. 18 P. Friedländer, vd. sopra; E. Bethe, «Hermes» 53 1918 p. 444 sgg.; ibid. 63 1928 p. 81 sgg.; Homer. II2, Leipzig–Berlin 1922 pp. VII, 297; J. B. Bury, «Journ. Hellen. Stud.» 42 1922 p. 1 sgg.; W. Schmid–O. Stählin, Gesch. d. gr. Lit. I.1, München 1929 p. 118; G. Pasquali, op. e loc. citt. 19 E. Bethe, «Hermes» 53 1918 p. 444; 63 1928 p. 83. 20 D. Page, op. cit. p. 130 n. 1.
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prima parola21. Ambedue i versi si chiudono con un verbo di ‘andare’ (ἵϰοντο ~ εἱσαπέβητε), il cui complemento è in entrambi, al centro, un accusativo (ϑεσμόν ~ ἀϰτάς) accompagnato da una qualificazione (λέϰτροιο παλαιοῦ ~ Παγασηίδας). Le imitazioni consistono non solo in fatti lessicali, ma anche sintattico—stilistici, oltre che in generali atteggiamenti di pensiero (sono le estreme conclusioni di due ‘ritorni’; Apollonio ha sentito in un certo modo il talamo di Ulisse come l’ ‘ultimo porto’ del suo νόστος)». Se ancora ce ne fosse bisogno, potremmo trovare ulteriore conferma (e non indebolimento!) della intenzionalità dell’allusione nel fatto che ψ 296 è insistentemente presente alla memoria di Apollonio, che lo ricorda anche in 2,728 ἀσπασίως ἄϰρης Ἀχερουσίδος ὅρμον ἵϰοντο22 (dove la costruzione è, se possibile, ancor piú vicina a quella del verso omerico), creando cosí una palese ‘eco’ interna a se stesso, per due situazioni che, rappresentando un ‘arrivo’, si somigliano. E se qualcuno ancora volesse chiedersi se ha un senso il passaggio apolloniano dall’aggettivo omerico (ἀσπάσιοι) all’avverbio corrispondente in –ως (ἀσπασίως), ne troverebbe uno senza difficoltà, chiarendo un tipico comportamento da poeta alessandrino, cliente dei grammatici e grammatico egli stesso. Rispondiamo qui alla perplessità di Page, che limitava la corrispondenza al solo ἀσπασι—, credendo d’indebolirla. La variatio apollonianna è del tutto chiara nelle sue intenzioni, se la si vede nel suo quadro linguistico—stilistico. Com’è noto23, l’incrementarsi del numero degli avverbi in —ως è fatto recente rispetto all’epica omerica. In Omero, in altre parole, a determinare l’azione d’un verbo c’è quasi sempre un aggettivo, laddove in seguito si tenderà sempre piú a mettere il corrispondente avverbio in —ως. Per gli autori entro i quali è percettibile una variazione di tono stilistico, si nota una notevole rarefazione nell’uso di tali
|| 21 Devo queste osservazioni al Professor Scevola Mariotti, di cui riporto testualmente le parole e che qui di nuovo ringrazio. 22 Notato da P. Maas in apparato a 4,1781 nell’ediz. di H. Fränkel. 23 F. Iber, Adverbiorum Graecorum in –ως cadentium historia usque ad Isocratis tempora pertinens, Diss. Marburg 1914. Vd. la tabella statistica a p. 16 sg. (i rapporti a mille si riferiscono al numero dei versi o delle righe di prosa; gli avverbi sono quelli derivati da nomi e verbi e da participi, ad esclusione di quelli temporali, locali e pronominali): Iliade 11,4%o, Odissea 19,9%o, Esiodo 18%o, fino ad arrivare ad Isocrate, che ha 89,1%o. Peccato che Iber si fermi qui. Ma aveva un interesse particolarmente l i n g u i s t i c o , e la rilevanza linguistica del fenomeno è percepibile fino, appunto, alle soglie dell’età alessandrina, da quando cioè il fenomeno acquista una rilevanza esclusivamente s t i l i s t i c a .
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avverbi, sentiti come estranei allo stile epico, arcaizzante ed elevato24. Tale comportamento sarebbe ancor piú comprensibile in chi si proponesse una imitazione omerica particolarmente stretta, il che è vero, in generale, di tutti gli esametrici alessandrini. Ma è interessante vedere qui il diverso comportamento dei singoli autori, che ‘dosano’ la loro aderenza al modulo stilistico omerico. Teocrito, per esempio, ha fortemente omerizzato in questo senso, facendo un uso scarsissimo di tali avverbi: e, con un confronto dei soli epilli autentici con il carme XXV, l’uso degli avverbi in —ως è stato recentemente25 usato come segno di riconoscimento di autenticità o meno (il carme XXV ne abbonda in proporzione tale, da levare ogni dubbio, se anche altre prove non ci fossero, sulla sua non autenticità). Apollonio invece è, in questo settore dell’aspetto linguistico, piú figlio del suo tempo26: i suoi avverbi in —ως sono piú abbondanti e, pur ricalcandone alcuni degli omerici, ne aggiunge gran numero di nuovi, accettando la vivente ‘produttività’ linguistica della categoria27. Per di piú il caso di ἀσπασίως, che è uno di quelli che sono già omerici, ci fa vedere un aspetto del metodo di lavoro di Apollonio. Omero adopera dieci volte l’aggettivo e undici l’avverbio, a stare alla nostra ‘vulgata’ (Gehring). Ma filologi moderni, come Cobet e Nauck, hanno cercato di correggere quasi tutti gli avverbi in aggettivi predicativi28, sensibilizzati in questo senso dalle variae lectiones spesso date dagli scoli o dalle reazioni esegetiche degli scoli stessi a proposito di un caso di aggettivo predicativo. Esso viene infatti sentito come stilisticamente ‘notevole’ e || 24 Si vedano in Iber, loc. cit., le statistiche riguardanti, ad es., Pindaro e i tragici. Il fenomeno è riscontrabile anche in latino: vd. H. Priess, Usum adverbii quatenus fugerint poetae Latini quidam dactylici, Diss. Marburg 1909. 25 G. Serrao, Il carme XXV del Corpus teocriteo, Quad. d. «Riv. di Cult. Class. e Medioev.» 4, Roma 1962 p. 28 sgg. Nei 684 versi del Teocrito ‘epico’ autentico si avrebbero solo sei avverbi in –ως (sempre colle solite limitazioni), tutti già omerici: il che dà una statistica di 8,7%o, ancora inferiore a quelle omeriche. 26 Cosí come lo sono tutti gli esametrici alessandrini per quanto riguarda, ad es., la correptio Attica, ormai entrata cosí stabilmente nell’uso, da non essere piú sentita come stridente in una qualsiasi imitazione omerica. Sarebbe utile avere statistiche complete. 27 Contrariamente a quanto suppone Serrao, op. cit. p. 29, Apollonio è, in questo, meno omerico di quanto si creda. Nell’indice di Wellauer (Leipzig 1828) trovo 90 casi (colle solite limitazioni), che, sui 5.835 versi, mi danno una statistica di 15,4%o. Sarebbe vicina a quelle omeriche, se non si considerasse la formularità omerica, che produce le ripetizioni. Infatti le unità lessicali sono, in Omero, 48 nell’Iliade e 56 nell’Odissea (Iber), mentre in Apollonio, assai piú breve, sono 31, di cui ben 14 non omeriche. — Non trovo parola degli avverbi in –ως né in A. Rzach («Sitzungsber. Wien» 89 1878 p. 429 sgg.), né in G. Boesch (Diss. Berlin 1908), né in G. Marxer (Diss. Zürich 1935). 28 Vd. i passi discussi in Iber, diss. cit. pp. 22, 25, 44, 46–48, che però non dà un panorama completo della documentazione degli scoli.
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si ha il bisogno di glossarlo coll’ormai piú usuale e ‘normale’ avverbio, come avviene, tra altri casi29, proprio a proposito di ψ 296: ἀσπάσιοι] ἀσπαστῶς ϰαὶ ἐπιϑυμητιϰῶς ὑπεμνήσϑησαν τοῦ πάλαι τῆς συνουσίας νόμου. Ancor piú chiaro, e palesemente disceso dall’insegnamento grammaticale, è quanto leggiamo in Etym. Magn. 156,4 a proposito di ἀσπάσιος: λέγεται ϰαὶ ἐπιρρηματιϰῶς ἀντί τοῦ ἀσπασίως (come dire, cioè, che nell’aggettivo predicativo si sente ormai pienamente il valore vero e proprio dell’avverbio). Ed ecco che Apollonio, ‘glossando’ l’aggettivo omerico col corrispondente avverbio, secondo quello che gli hanno insegnato i grammatici e che, da grammatico, insegna egli stesso, ci si mostra forse un tantino pedante, ma fedele al suo ‘mestiere’ di poeta filologo. Ma una conferma decisiva alla volontà allusiva apolloniana mi sembra venire da un fatto che, seppur evidente, non era stato ancora notato — a quanto ne sapevo e ne so — prima che vi accennassi io recentemente per altro scopo ed in altro contesto30. Apollonio Rodio, al principio del quarto libro, allude in modo del tutto trasparente all’incipit dell’Iliade col primo verso e a quello dell’Odissea col secondo: 4,1 Αὐτὴ νῦν ϰάματόν γε, ϑ ε ά , ϰαὶ δήνεα ϰούρης Κολχίδος ἔ ν ν ε π ε , Μ ο ῦ σ α , Διὸς τέϰος· ἦ γάρ ἔμοιγε || ...
Basterebbero i due vocativi e il verbo a farci certi, anche se nel primo verso θεά, rispetto all’Iliade, è spostato dal secondo al terzo colon: ma è variatio di alessandrino. Il secondo ha comune col modello, in piú, il fatto sintattico piú macroscopico, e cioè l’enjambement (ἦ γάρ ἔμοιγε ||... ~ ὃς μάλα πολλά ||...). Un tale espediente allusivo, diretto proprio ai due piú famosi incipit della grecità, è cosa usuale anche prima dell’epoca alessandrina. Si legga il principio della ciclica Tebaide (31): fr. 1 Kinkel Ἄργος ἄειδε, ϑεά, πολυδίψιον, ἔνϑεν ἄναϰτες || ...
|| 29 Vd. materiale scoliastico in H. Ebeling, Lexicon Homericum, Leipzig 1885 s. vv. ἀσπάσιος, ἀσπασίως. – Sulle forse scarse e comunque non facilmente identificabili fonti grammaticali di Apollonio, come su alcuni aspetti non omerici del suo scrivere, vd. H. Erbse, «Hermes» 81 1953 pp. 163–196. 30 L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, «Studi Urbinati» 39 1965 p. 250 e n. 33. Mi sia lecito, per comodità di chi legge, di ripetere qui quanto, limitandomi all’osservazione sui primi due versi del quarto libro di Apollonio, scrissi allora. 31 Anche questo già da me notato in art. cit. p. 250 n. 33.
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Il primo emistichio ricalca il primo emistichio di A 1; il secondo richiama il secondo di α 1 con πολυδίψιον ~ πολύτροπον, interpunzione, relativo, enjambement. E un fatto simile troviamo in Pigrete Cario di Alicarnasso, fratello di Artemisia, presunto autore del Margite e della Batraco(mio)machia (Suda, s.v.), che, a quanto ci dice ancora la Suda, avrebbe composto un’Iliade in cui, ad ogni esametro omerico, seguiva un pentametro da lui composto: Μῆνιν ἄειδε, ϑεά, Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος, μ ο ῦ σ α , σὺ γὰρ πάσης πείρατ’ ἔχεις σοφίης.
Il pentametro che segue all’incipit dell’Iliade non può non ricordarci, col suo μοῦσα, l’incipit dell’Odissea. E ancora in un tardo epigono del genere epico, in Trifiodoro, che opera nel quinto secolo d.C., troviamo, al quarto verso della Presa d’Ilio, ἔ ν ν ε π ε , Καλλιόπεια, ϰαὶ ἀρχαίην ἔ ρ ι ν ἀνδρῶν,
dove la prima parola rimanda all’Odissea e l’ἔρις alla μῆνις iliadica. Né è necessario qui ricordare il processo di fusione o giustapposizione del materiale stesso dei due poemi omerici, che troverà la sua espressione piú compiuta nell’Eneide di Virgilio32. Non credo che possano piú restare dubbi: il fatto di ζῆλος ‘Ομηριϰός che Meyer aveva già notato s’inquadra ora in una precisa intenzione di ‘cornice’ strutturale. Al principio del quarto libro i due incipit, alla fine, che è anche la fine del poema, l’explicit dell’Odissea. Ci sarebbe ancora da chiedersi, se mai, perché Apollonio non ha, cosí come lo ha chiuso, anche aperto il suo poema con Omero. A parte il desiderio di variatio, tipicamente alessandrino, e la tendenza ad evitare l’imitazione banale33, visto anche che tale procedimento era usuale fin dai tempi del ciclo, c’è qui una ragione piú concreta: che all’origine della spedizione degli argonauti c’è l’oracolo di Apollo, come metteva in rilievo anche Pindaro nella Pitica IV (70
|| 32 Virgilio è l’Omero latino, e il primo verso del suo poema è riecheggiato, non certo casualmente, nella struttura metrica per molti elementi identica (stessa successione di dattili e spondei, semiquinaria) dei seguenti incipit: Ov., met.; Luc.; Sil. It.; Stat., Ach. (per l’osservazione sono grato all’amico Prof. Vincenzo Tandoi). 33 Giustamente famose sono le belle pagine di A. Wifstrand, Von Kallimachos zu Nonnos, Lund 1933, specialmente quelle sulla posizione ‘non omerica’ dell’epiteto negli alessandrini. E la sottile variatio formulare di questi poeti attende ancora uno studio complessivo (ma bisognerebbe prima definir bene la formularità omerica e soprattutto la forma e la misura della sensibilità alessandrina ad essa).
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sgg., 163 sg.), ed è con l’invocazione a lui che deve iniziare il poema (1,1 Ἀρχόμενος σέo Φοῖβε...)34. Cosí Apollonio paga, per cosí dire, il suo debito omerico per proemio e chiusa tutto nel quarto libro. Del resto, ben piú notevoli ‘antiomerismi’ strutturali, pur nella intenzione omerizzante, troviamo per esempio in Virgilio, che, essendosi proposto l’omericissimo schema di far seguire ad un’Odissea (libri I–VI) un’’Iliade (libri VII–XII), non comincia la seconda parte immediatamente con un vero e proprio prologo epico, ma sposta tale prologo di qualche decina di versi (7,37 sgg.)35. Apollonio, inoltre, ama alludere, nei punti appropriati, a versi ‘strutturalmente’ importanti: 1,20 νῦν δ’ ἂν ἐ γ ὼ γενεήν τε ϰαὶ οὔνομα μ υ ϑ η σ α ί μ η ν
richiama Esiodo op. 10 ... ἐ γ ὼ δέ ϰε, Πέρση, ἐτήτυμα μ υ ϑ η σ α ί μ η ν 36
piú ο meno alla stessa distanza dall’inizio. È lo stesso procedimento che troviamo, ad esempio, in Nicandro, che in ther. 10–12
... εἰ ἐτεόν περ Ἀσϰραῖος μυχάτοιο Μελισσήεντος ἐπ’ ὄχϑαις Ἡσίοδος ϰατέλεξε παρ’ ὓδασι Π ε ρ μ η σ σ ο ῖ ο
allude espressamente ad un verso di Esiodo: theog. 5
ϰαί τε λοεσσάμεναι τέρενα χρόα Π ε ρ μ η σ σ ο ῖ ο .
Il nome geografico è nella stessa posizione37 e viene mantenuta di nuovo, approssimativamente, la distanza dall’inizio del poema38. E vale ancora la pena || 34 Notato già da G. W. Mooney (1912) nel commento ad loc. 35 Sulle possibili ragioni di tale spostamento e sulla qualità nel contempo omerica (invocazione alla musa) e ciclica («canterò») del proemio stesso, vd. Ed. Fraenkel, «Journ. of Rom. Stud.» 35 1945 p. 1 sgg. = Kl. Beitr., Roma 1964, II p. 145 sgg. 36 Notato da E. Livrea, «Helikon» 6 1966 p. 462 sg. Vd. anche la nota ad loc. di A. Ardizzoni, Apollonio Rodio. Le Argonautiche. Libro I, Roma 1967. 37 Vd. A. S. F. Gow – A. F. Scholfield, Nicander, Cambridge 1953, comm. ad loc., che però non danno rilievo all’allusione. 38 È il caso di notare anche che, in Omero, ἀσπάσιος – ἀσπαστός si trovano, in vicinanza di ψ 296, in condizione di singolare ‘agglomerato’ verbale (233, 238, 239)? Apollonio è sensibile a fatti del genere (vd. R. Merkel, Apollonii Argonautica, Leipzig 1854 p. CLVI sgg.), ma qui non sembra essersi troppo preoccupato di conservare approssimativamente le distanze (dall’indice di Wellauer, per il quarto libro: 67, 996, 1391, 1450, 1791).
La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio | 683
notare che il finale delle Argonautiche è strutturalmente ‘opportuno’ come quello ‘alessandrino’ dell’Odissea: non è solo, infatti, che il ritorno degli argonauti, cosí com’è semplicemente accennato, chiuda l’avventura, ma è stato giustamente osservato39 che col loro arrivo in patria comincia un nuovo Sagenabschnitt, quello di «Medea in Grecia», allo stesso modo che le finali dei poemi omerici erano sentite come l’inizio delle narrazioni cicliche. Concludendo, non sarà piú da un’affermazione di Aristofane–Aristarco, peraltro stranamente messa in dubbio, che potremo partire, per arrivare a confermare la pur già in sé chiara, e anch’essa stranamente misconosciuta, allusione omerica di Apollonio; sarà invece da Apollonio, ormai piú che trasparente, che avremo conferma per Aristofane–Aristarco. È, quest’ultimo, un episodio non trascurabile dell’attività filologica alessandrina e tutt’altro che privo di rilevanza per la storia del testo omerico, tanto piú che, con Apollonio, potrebbe acquistare maggior probabilità, per ovvie ragioni cronologiche, l’ipotesi di Meyer che già Zenodoto facesse finire l’Odissea con ψ 296. Il problema dovrà però forse restare ancora sub iudice, finché non si potrà risolvere l’altro dell’attribuzione della divisione in libri dei poemi omerici, per la quale com’è noto si fanno i nomi di tutti e tre i grandi filologi alessandrini. Giacché i due fatti non si possono attribuire alla stessa persona, visto che ψ 296 non è fine di libro e non sembra quindi probabile che chi faceva finire a quel punto l’Odissea avesse anche introdotto la divisione in libri: lo aveva già visto chiaramente Lachmann, ripreso da Duentzer, e poi da Wilamowitz e Pasquali senza onor di citazione40. Forse la divisione in libri è piú tarda rispetto all’epoca di Zenodoto, come proverebbero, sia pure debolmente ex silentio, il fatto che i papiri l’attestano solo a cominciare dalla metà del secondo secolo in poi41 e il fatto che Livio Andronico, nella sua traduzione dell’Odissea, la ignora ancora alla fine del terzo secolo42. Ma un’altra ipotesi, che comunque non possiamo non dar come tale, potrebbe farsi strada: che cioè Apollonio, nel credere all’atetesi della fine del poema, non
|| 39 P. Händel, Beobachtungen zur epischen Technik des Apollonios Rhodios, München 1954 p. 62 n. 1. 40 K. Lachmann, Betrachtungen über Homers Ilias3, Berlin 1874 p. 93 (l’articolo è del 1846); H. Duentzer, De Zenodoti studiis Homericis, Göttingen 1848 p. 154 n. 2; Wilamowitz, Hom. Unters. p. 369 n. 47, già cit.; Pasquali, op. cit. p. 217 n. 4. – Per di piú, come mi fa notare Maurizio Paparozzi, si dovrebbe se mai ammettere un’Iliade in ventiquattro libri e un’Odissea in ventitré, facendo finire ψ al v. 296. 41 Pasquali, op. cit. p. 217 sg. 42 Vd. Sc. Mariotti, Livio Andronico e la traduzione artistica, Milano 1952 pp. 75–81; e vd. anche, dello stesso, la voce Livius Andronicus del ‘Piccolo Pauly’, di prossima pubblicazione.
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professasse una communis opinio della filologia del suo tempo — essa si sarebbe imposta solo in seguito — e che sentisse il bisogno di affermarla polemicamente, con un elegante espediente letterario, di fronte ad altri. Il procedimento è tutt’altro che inconsueto in quest’ambiente, come prova la grande polemica letteraria al cui centro è Callimaco, che si configurava, com’è noto, in piú o meno chiare allusioni alle opere o alle idee dell’avversario: e il destinatario della polemica potrebbe essere qui proprio uno Zenodoto instauratore della divisione in libri, e come tale restio a vedere in ψ 296 la fine dell’Odissea ‘autentica’. Singolare appoggio a questa tesi ci verrebbe dal fatto che Apollonio aveva scritto proprio contro Zenodoto un’opera polemica, un Πρὸς Ζηνόδοτον43. Questo per quanto riguarda la storia della filologia antica: sia pur seducente, si tratta per ora solo di un’ipotesi. Ma quello che a mio giudizio è, invece, frutto sicuro è, occasionalmente, la messa in rilievo di un fatto stilistico tipico di atteggiamento e mentalità di filologo (la ‘scelta’ dell’avverbio invece dell’aggettivo); e soprattutto il riconoscimento, ormai non piú soggetto a dubbi, di un ulteriore importante elemento omerico e di una nuova singolare simmetria costruttiva nella composizione delle Argonautiche44.
|| 43 Sch. A ad N 657. Yd. I. Michaelis, De Apollonii Rhodii fragmentis, Halle 1875 (frr. XII–XVIII); ma vd. già, per una ricca documentazione, R. Merkel, Apoll. Argon., cit., p. LXXI sgg. 44 A lavoro già composto, esce l’attesa opera di R. Pfeiffer, History of Classical Scholarship, Oxford 1968, dove, a p. 176 sg., l’’Α. accetta Page. Sulla divisione in libri vd. le prudenti affermazioni di p. 115 sg.
Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario νίϰη μὲν οὐδάλλος, ἀνήσσατοι δ’ ἐγένοντο
L’agone bucolico, e cioè la gara rustica fra due contendenti, è stato da tempo riconosciuto come uno degli elementi della realtà campestre su cui, naturalmente rielaborandoli, si fonda la poesia bucolica1. Tali gare comportavano e comportano ancora oggi, normalmente, la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro dei contendenti; giudice è un arbitro scelto in genere dalle parti e al vincitore va come premio quello che il perdente, al pari del vincitore stesso, aveva messo in palio2. Nel corpus teocriteo abbiamo quattro idilli che ci rappresentano, con qualche variante, l’agone: il quinto, il sesto e i non autentici ottavo e nono3. Veramente il nono non è «formalmente una gara», come osserva Gow, ma vi sono presenti sia canti simmetrici in responsione sia l’assegnazione di premi (22 ss.). Nel primo, nel settimo e nel decimo, invece, ci sono, sí, dei canti che richiamano l’atmosfera dell’agone, ma manca l’elemento essenziale, la vera e propria competitività4. Ora, nel sesto e nel nono c’è distribuzione di doni (6. 43, 9. 22–7), nel sesto un vero e proprio scambio fra i due, nel nono un’assegnazione da parte del ‘narratore’; ma in tutti e due è chiaro che non si ha vittoria di uno sull’altro, anzi nel sesto questo viene espressamente affermato nel verso di chiusa (6. 46): νίϰη μὲν οὐδάλλος, ἀνήσσατοι δ’ ἐγένοντο.
|| [Saggio pubblicato in «GIF» n.s. 2 [23], 1971, pp. 13–24] 1 V. spec. A. CARTAULT Étude sur les Bucoliques de Virgile, Paris 1897 pp. 136 ss., 190 ss., 490 ss.; PH. – É. LEGRAND Étude sur Théocrite, Paris 1898 p. 161 ss.; e da ultimo R. MERKELBACH ΒΟΥΚΟΛΙΑΣΤΑΙ (Der Wettgesang der Hirten), «Rh. Mus.» 99 (1956) pp. 97–133, utile per il materiale comparativo che porta ad illustrazione e fondamentale per l’individuazione delle leggi interne dell’agone bucolico. 2 Sui τόποι e le regole dell’agone v. anche U. OTT Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Hildesheim 1969 p. 10 ss. e tutta la discussione di Theocr. 5, p. 14 ss. 3 A. S. F. Gow Theocritus2, Cambridge 1952, II p. 92 ss. 4 Gow loc. cit. Nel primo il capraio promette a Tirsi un premio se canterà, senza porsi in gara; nel settimo i canti di Licida e di Simichida sono come scambi di cortesia (e cosí è per il premio, 128 s., su cui v. M. Puelma, «Mus. Helv.» 17 (1960) pp. 144–64, che dà delle Talisie l’interpretazione che a me pare la piú convincente); nel decimo Buceo e Milone cantano, per alleggerirsi il lavoro, l’uno un canto d’amore e l’altro un canto di mietitori, il Litierse. Su improvvisazione o meno dei canti v. Gow op. cit. p. 94. — Per una diffusa atmosfera agonale in tutti gli idilli bucolici v. Ott op. cit. https://doi.org/10.1515/9783110648126-050
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Nel quinto e nell’ottavo, invece, vincono rispettivamente Comata su Lacone (5. 138 s.) e Dafni su Menalca (8. 82–4). Perché? A porsi la domanda del fondamento delle vittorie negli agoni sono stati piú di frequente gli studiosi di Virgilio che quelli di Teocrito. Delle due ecloghe amebee e competitive, la terza e la settima (nella quinta e nell’ottava manca la competitività), la settima ha posto lo stesso problema: perché, mentre nella terza la gara finisce alla pari (3. 108 non nostrum inter vos tantas componere lites), nella settima viene fatto vincere Coridone su Tirsi (7. 69 haec memini et victum frustra contendere Thyrsim)? È chiaro che nella realtà gli agoni saranno finiti colla vittoria di uno dei due in gara per delle ragioni concrete e precise: inventività e prontezza sono alla base, ancora oggi, di tal genere di gara, e avrà perso chi avrà dimostrato di essere inferiore all’altro (v. spec. Theocr. 5. 22). C’è qui da chiedersi, prima di tutto, come un tale elemento realistico potesse venire rappresentato in quella stilizzazione della realtà campestre che è la poesia bucolica; e conviene centrare il problema su Teocrito, che, come si sa, è rispetto a Virgilio ben piú vicino alla realtà della vita dei campi ed è chiaramente animato da volontà di rappresentazione il piú possibile realistica. La risposta è semplice: l a r a p p r e s e n t a z i o n e c o m p i u t a m e n t e r e a l i s t i c a d i u n a v i t t o r i a si poteva ottenere solo al prezzo di presentare una delle due prestazioni poetiche come superiore, l’altra come inferiore. Nelle varie spiegazioni che si son volute dare non mi pare si sia tenuto sufficientemente conto di questo, che è uno dei limiti invalicabili del realismo di un poeta bucolico. Qui il poeta è praticamente in gara con se stesso: ogni verso che scrive gode di tutte le sue cure, anche quelli che vengono assegnati al perdente5. Questo è chiaramente confermato da un esame non prevenuto delle composizioni che abbiamo e dalla poca solidità di ipotesi che si son volute avanzare. Le ragioni della vittoria di Comata nel quinto idillio si sono volute vedere6: 1) nel carattere stesso di Lacone, che sarebbe spaccone ed incapace; 2) nel fatto che
|| 5 V. le giuste considerazioni di CARTAULT op. cit. p. 126 a proposito della stilizzazione letteraria dell’agone (... à moins que l’auteur ne se soit amusé de parti pris à fabriquer des vers faibles et à les mettre continuellement dans la bouche du même interlocuteur. C’est là un rôle qu’il ne devait pas jouer ...). 6 Gow, «Class. Quart.» 29 1935 pp. 68–71: 1) Wernsdorf, cit. da Gow di seconda mano; 2) L. DEICKE Über die Komposition einiger Gedichte Theokrits, Progr. Ratzeburg 1912 pp. 17–20 (p. 19), a cui si aggiunga ora Ott op. cit. pp. 33 s., 36 (con delle precisazioni ed aggiunte che non convincono: v. spec. p. 36. 111); 3) WILAMOWITZ Die Textgesch. d. gr. Bukoliker, Berlin 1906 p. 123. 1; 4) LEGRAND Étude, cit., p. 163. 1; R. J. CHOLMELEY The Idylls of Theocritus2, London 1930 ad 5. 138; ora va aggiunto Merkelbach art. cit. p. 112 s. – P. MONTEIL Théocrite. Idylles (II, V, VII, XI, XV), Paris 1968 p. 78 combina 3) con 4).
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nell’ultima coppia di botta e risposta (132–5) Lacone romperebbe il parallelismo tematico, rispondendo con il ricordo di un amore felice al lamento di Comata per un amore infelice; 3) Lacone sarebbe un povero raffazzonatore di temi e di versi, nettamente inferiori a quelli del suo rivale; 4) dopo 136 s., detti da Comata7, segue subito la dichiarazione da parte del giudice, Morsone, della vittoria di Comata stesso, il che avrebbe comportato una esitazione di Lacone nel rispondere dopo 137, esitazione che sarebbe stata subito interpretata come dichiarata incapacità a continuare la gara. Non è difficile rendersi conto che la prima e la terza spiegazione sono di carattere nettamente soggettivo, senza che sia possibile fondarle su effettiva conferma dai testi; che la seconda è decisamente troppo tenue, vista la relativa libertà che si può notare nelle responsioni da un punto di vista sia formale sia tematico (amore infelice ed amore felice sono pur sempre lo stesso tema!). La quarta potrebbe sembrare a prima vista convincente, ma dovrebbe presupporre una recitazione di tipo mimico– drammatico, il che è escluso per tutta la poesia alessandrina, eminentemente ‘libresca’8; e, malgrado lo sfondo realistico, piú libresca che mai ci apparirà, soprattutto da quanto esporremo in seguito, la natura del quinto idillio9. C’è poi chi si preoccupa troppo dell’agone stesso nella sua realtà, che vede cioè il problema ‘a monte’ della rappresentazione poetica di esso, e che pensa essere il secondo o rispondente in netto svantaggio rispetto al primo o proponente per il fatto che avrebbe in piú la difficoltà di adeguare le sue risposte alle proposte10: sia nel quinto idillio sia nella settima ecloga vince infatti il proponente. Ma da una parte un tale problema riguarderebbe l’agone nella sua realtà biotica e non l’agone com’è rappresentato nei nostri testi, che tra l’altro non ne fanno mai espressamente alcun cenno; e dall’altra un vero problema non sarà stato, visto
|| 7 Ahrens (seguito da pochi altri editori, p. es. Latte) faceva cominciare Morsone già al 136, ma v. la giusta obiezione di Gow p. 93. 1. WILAMOWITZ loc. cit. sembra prendere 136 s. (lasciati a Comata) come fuori gara, e cioè come la auto–dichiarazione di vittoria: ma il ‘paragone’ è tema comune dell’agone (v. p. es. 5. 92–5) e l’apostrofe diretta è possibile anche all’interno dell’agone stesso (5. 116–9, fra un contendente e l’altro; 120–3, all’arbitro, Morsone). 8 Sul problema generale della possibilità di rappresentare o recitare le composizioni teocritee e sul caractère livresque du recueil v. già LEGRAND, Étude, cit., p. 413 ss., in contrapposizione a tesi oggi da tempo superate. 9 Sembra strano che proprio MERKELBACH (v. oltre) abbia messo in luce per primo studiati parallelismi a distanza, palesemente voluti e riconoscibili soltanto alla lettura, e nonostante questo, accettando come s’è visto la quarta spiegazione, si leghi alla concezione, ormai superata, della recitazione (art. cit. p. 113: Theokrit hat zur Rezitation, nicht zum Lesen geschrieben). 10 Gow op. cit. p. 93 e n. 3 (già LEGRAND, Étude, cit., p. 163. 2). Ricordiamo che questo è già il parere di Servio (ad Verg. ecl. 3. 59). Contra giustamente MERKELBACH art. cit. p. 112. 49.
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che la tematica di tali agoni doveva essere ristretta11, tanto da non rendere il variare un tema proposto piú difficile rispetto all’improvvisare su uno dei non molti temi usuali. Vedremo in seguito se la precedenza potrà avere un suo particolare valore, ma solo, se mai, nella realizzazione letteraria dell’agone. La fantasia degl’interpreti si è sbizzarrita soprattutto sull’ecloga settima di Virgilio. La letteratura sull’argomento è abbastanza vasta e basterà accennare qui ad un recente tentativo di vedere addirittura errori e imperfezioni metriche nelle parti affidate al perdente Tirsi12. Non è il caso di controbattere qui dettagliatamente una tesi che deve apparire già di per sé inverosimile, tanto piú che l’ipotesi ha già avuto, proprio nel dettaglio, autorevoli oppositori13. Discutibili mi sembrano anche i tentativi di caratterizzare i personaggi o addirittura di vedere rappresentata nelle parti affidate a Coridone una concezione piú ‘virgiliana’ della poesia bucolica, il che porterebbe necessariamente quest’ultimo ad essere dichiarato vincitore14. In realtà quest’ultima spiegazione merita rispetto e considerazione, ma può cogliere nel segno s o l o p e r V i r g i l i o , ed è per questo che non mi pare il caso di discuterla qui: Virgilio ha di fronte il suo modello Teocrito e lo rinnova, sí, in corrispondenza di un nuovo concetto della poesia bucolica, che si è venuto elaborando nel corso di piú di due secoli: ma non è certo un caso che ci abbia dato una vittoria – l’ecl. 7 – e un pareggio – l’ecl. 3 –, seguendo in questo il suggerimento del corpus, che gli presentava vittorie in 5 e [8] e pareggi in 6 e [9]. Teocrito invece è direttamente di fronte ad una realtà biotica, che si studia di presentare in una sua formula piú o meno realistica. Il non autentico idillio ottavo già rinnega apertamente il realismo teocriteo col far vincere Dafni su Menalca per la dolcezza della voce e del canto (8. 82 s.): a chi ha visto qui un criterio per l’assegnazione della vittoria e nello stesso tempo uno degli elementi dell’agone per noi perduti ma determinanti, la || 11 V. in OTT op. cit. p. 37 una utile schematizzazione della tematica dell’agone di Theocr. 5: in sostanza quasi esclusivamente amore e campagna. 12 V. PÖSCHL Die Hirtendichtung Virgils, Heidelberg 1964 p. 101 ss. Ma la stessa impostazione già in F. H. SANDBACH, «Cl. Rev.» 47 (1933) p. 216 ss. 13 Spec. O. SKUTSCH, «Gnomon» 37 (1965) pp. 165–8 (a p. 166 l’ipotesi che Tirsi sia inferiore — ma non per ragioni metriche! — nella sua ultima ‘strofe’ e che questo decida la gara: rientrerebbe nella spiegazione 2) riportata sopra Teocrito); e H. DAHLMANN, «Hermes» 94 (1966) p. 218 ss., con molti riferimenti a bibliografia anteriore. 14 DAHLMANN art. cit. spec. p. 229 ss. (la formulazione a p. 228 s.: Der eine Hirt spiegelt Vergils eigene arkadische Dichterwelt, Corydon ist der Hirtensänger nach seinem Geschmack, der andere derb und realistisch, der Sänger der Weise der Hirten Theokrits). La posizione di Dahlmann si ritrova in P. WÜLFING – v. MARTITZ, «Hermes» 98 (1970) pp. 380–2, che propone un tenue elemento ulteriore. Contro spiegazioni di questo tipo è, giustamente, A. LA PENNA in Publio Virgilio Marone, Tutte le opere, Firenze (Sansoni) 1966, p. XVI s.
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musica e il canto, è stato giustamente obiettato che criterio per il giudizio nella gara doveva essere nella realtà altro che la musica e il canto, tra parentesi sicuramente impostati sulla ripetizione monotona di un solo schema melodico e ritmico15; e si dovrebbe aggiungere che, posto che le composizioni da noi considerate non erano destinate a recitazione e tanto meno a resa cantata, i poeti non ci chiedono in genere di crederli ‘sulla parola’, ma ci danno tutti gli elementi su cui fondano le loro rappresentazioni. Una delle convenzioni dell’agone letterario è la composizione in esametri, e l’esametro è verso recitativo, non legato ai melismi a cui erano invece legati i versi lirici: i pastori non avranno mai recitato esametri nella realtà. Non ci si può chiedere di immaginarci l’eccellenza di una musica che non sentiamo e, per di piú, di farcene la ragione della vittoria di uno dei contendenti. Abbiamo qui un’altra prova della non autenticità dell’idillio ottavo16 e nello stesso tempo un elemento per restringere la nostra considerazione ai due agoni teocritei autentici, i piú. vicini alla realtà che rappresentano e i primi anelli di una catena di stilizzazioni: il quinto e il sesto, una vittoria e un pareggio. In effetti il pareggio è un espediente comodo, tanto piú che episodi del genere non saranno mancati nella realtà; mentre la vittoria è, come abbiamo visto sopra, un elemento realistico ‘scomodo’, al quale Teocrito per una volta non ha saputo rinunciare, rinunciando solo, a mio parere, a fondarlo sulla rappresentazione di una reale inferiorità del perdente. La vittoria di Comata su Lacone sarà stata quindi un suo semplice ‘capriccio’, come anche sarà stato un capriccio virgiliano la vittoria di Coridone su Tirsi? Questa ipotesi, che pure è stata avanzata17, può sembrare una battuta di spirito, ma ha almeno il pregio di essere espressione di buon senso. C’è stato pure chi ha detto18 con arguzia, qui piú che altrove a suo luogo, che Virgilio stesso si sarebbe meravigliato se qualcuno lo avesse preso ‘alla lettera’ e gli avesse elencato i versi ‘difettosi’ di Tirsi. Vien voglia di portare il paradosso all’estremo, dicendo che se, arrivati all’ultimo verso degli agoni, i poeti ci avessero chiesto a chi avremmo dato la vittoria, e noi l’avessimo data, cercando un fondamento, a quelli che nei versi
|| 15 GOW op. cit. p. 94 (in.) e ad 8. 82, contro cui giustamente MERKELBACH art. cit. p. 112. 49. Non nasce problema da Theocr. 1. 65, 7. 88 s., 10. 38 s.: si tratta di apprezzamenti della qualità del canto, ma isolati e in carmi non competitivi (su 10. 38 s. v. Ott op. cit. p. 66). 16 Sul compromesso fra innovazione e spesso maldestra imitazione teocritea nell’idillio ottavo v. da ultimo L. E. ROSSI Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo, di prossima pubblicazione in «St. Ital. Filol. Class.» [43, 1971, pp. 5–25]. 17 V. per es. H. FRITZSCHE – E. HILLER Theokrits Gedichte3, Leipzig 1881 ad 5. 138; TH. G. ROSENMEYER The Green Gabinet, Berkeley and Los Angeles 1969, pp. 159–61. 18 PAGE ap. SANDBACH art. cit. p. 216.
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successivi erano e sono proclamati vincitori, nessuno si sarebbe meravigliato piú degli stessi poeti. Ma io sono convinto che almeno il quinto idillio di Teocrito, pur finendo con una vittoria, sia in realtà un sottilmente m a s c h e r a t o p a r e g g i o , presentato col virtuosismo del letterato alessandrino. Molti anni fa Legrand19 aveva fatto notare che la prima parte del quinto idillio (1–79) si presentava già nelle forme dell’agone: «prima ancora che ci sia il vero e proprio agone, già ne sono presenti le leggi», intendendo cosí che lo scambio di battute fra Comata e Lacone obbedisce alle regole dell’agone, e soprattutto a quelle della responsione formale e tematica. Il suggerimento di Legrand era stato preceduto da un accenno di Couat, uno degli antesignani dello studio della poesia ellenistica nel mondo filologico moderno20: ma anche Legrand non andava oltre un semplice accenno. Chi ne fa tesoro e lo sviluppa è, recentemente, Merkelbach21, che fa notare in tutta la prima parte una quantità di corrispondenze verbali, a parte il tono già agonale delle prime coppie di versi (1 s. ~ 3 s.)22, che si rispondono tematicamente. Vale la pena di riportare tali corrispondenze per esteso, ma dividendole secondo due categorie. Alcune sono segno di responsione piú o meno spinta di un gruppo di versi all’altro: 31 μὴ σπεῦδε ~ 35 οὔτι σπεύδω, 50–4 ~ 55– 9 (αἴ ϰ’ ἔνϑῃς ~ αἰ δέ ϰε ϰαὶ τὺ μόλῃς, πατησεῖς ~ πατησεῖς, στασῶ δὲ ... γάλαϰτος ~ στασῶ δὲ ... γάλαϰτος), 68 s. ~ 70 s. (due esortazioni parallele a Morsone a fare un arbitraggio imparziale), 75 ὠς λάλος ἐσσί ~ 77 φιλοϰέρτομος ἐσσί ~ 79 στωμύλος ἦσα. Altre invece sono r e s p o n s i o n i a d i s t a n z a , ma non per questo meno sicure e ‘volute’: 33 ψυχρὸν ὕδωρ ~ 47 ὕδατος ψυχρῶ ϰρᾶναι δύο, 34 ποία ~ 55 πτέριν, 34 ἀϰρίδες... λαλεῦντι ~ 48 ὄρνιχες λαλαγεῦντι. Ora, non è stato notato che tutti questi parallelismi, compresi quelli a distanza, compaiono sempre p r i m a i n b o c c a a L a c o n e e d o p o i n b o c c a a C o m a t a , come se si trattasse di proposte e risposte (anche quelle a distanza, ripeto), che invertono cosí l’ordine che sarà dell’agone vero e proprio (Comata–Lacone), da cui risulterà la vittoria del proponente Comata. Si aggiunga un’ottima osservazione fatta recentemente23, e cioè che fra i due, nel de-
|| 19 LEGRAND Bucoliques Grecs. I. Théocrite5, Paris 1960, p. 44 s. (11925). 20 A. COUAT La poésie alexandrine sous les trois premiers Ptolémées (324–222 av. J.–C.), Paris 1882, p. 418 s.: Cornata e Lacone farebbero a g a r a nel decantare le lodi del luogo dove la tenzone si dovrà svolgere (cit. da LEGRAND stesso in Étude, cit., p. 169 s., ma non piú nell’edizione, v. n. prec.). 21 MERKELBACH art. cit. p. 113 s. e spec. 114. 51. 22 Vedremo che per le successive il discorso si farà un poco piú complesso. 23 OTT op. cit. p. 23 s. Ma anticipazioni in questo senso già in CARTAULT op. cit., pass. a proposito delle ecloghe terza (p. 107 ss.) e settima (p. 180 ss.) di Virgilio.
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cantare i pregi del luogo in cui l’uno invita l’altro come a sede della gara, c’è una specie di giuoco ‘al rilancio’ di sicuro stampo popolare, il che è un’ulteriore conferma della natura della prima parte, che ormai possiamo chiamare p r e – a g o n e . Una prima volta 31–4 ~ 45–9 (di nuovo a distanza!): 32 oleastro ~ 45 querce e cipresso, 32 boschetto ~ 48 s. ombra ancora migliore, 33 fresca acqua corrente ~ 47 due fonti, 34 cavallette canterine ~ 46–8 api e uccelli, 33 s. erba ~ 49 pino e pigne. Poi 50–4 ~ 55–9 (‘strofi’ contigue): pelli d’agnello e lana, migliori delle tue pelli di capra ~ morbide felci e puleggio in fiore e pelli di capra quattro volte più morbide delle tue pelli d’agnello; un recipiente di latte e uno d’olio ~ otto di latte e otto di favi pieni di miele. E anche in queste responsioni al raddoppio è sempre Lacone a proporre e Comata a rispondere, anche a distanza! Se a questo punto siamo sempre più convinti che la prima metà dell’idillio è proprio quel pre–agone che voleva Legrand, e se ricordiamo che l’idillio è inaugurato da parole di Comata, che instaurano almeno al primo inizio la sequenza Comata–Lacone, dobbiamo chiederci a quale momento avvenga l’inversione dell’ordine, per darci la ormai per noi cosí chiara sequenza Lacone–Comata. Questo avviene subito, nel passaggio dalla prima alla seconda coppia di botta e risposta: Comata
Lacone
1 s. «Caprette, Lacone mi ha rubato una pelle!»
~
3 s. «Agnelline, Comata mi ha rubato una σῦριγξ!».
5–7 « Q u a l e σ ῦ ρ ι γ ξ ? Quando mai ne hai avuta una?»
~
8–10 «Quella che mi ha regalata Licone. Ma tu, qual è la pelle che posso averti rubata?»
11–3 «Quella che mi ha regalato Crocilo», etc.
Il primo scambio è esattamente parallelo e chiuso in se stesso. Subito all’inizio del secondo, invece, Comata (5) prende uno spunto di Lacone e lo sviluppa. Qualcuno potrebbe obiettare che questo è necessario, visto che siamo nella ‘cornice’ e non nel vero e proprio agone, che sarebbe impossibile avere coppie assolutamente autosufficienti senza rapporto l’una coll’altra (fatto tipico solo del vero agone) e che, per avere una conversazione, bisogna pure attaccarsi alle parole di chi ci ha preceduti. Certo, ma quello che è importante è che questa inversione di tendenza, una volta realizzatasi, ormai si stabilizza: Comata con-
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tinua a ‘perdere colpi’, d’ora in poi sarà praticamente sempre il rispondente e non piú il proponente, per ‘soccombere’ definitivamente alla fine della prima parte, come vedremo. Oltre al contenuto delle ‘strofi’ che seguono, ci sono precise spie di carattere formale: Comata a 5 s. ripete due volte σύριγγα nella stessa posizione del verso in cui la parola era stata detta da Lacone (4)24, facendogli in qualche modo eco; e confrontiamo gli inizi di due coppie, 14–6 (Lacone) oὐ μαὐτòν τòν Πᾶνα... oὐ... ~ 17–9 (Comata) oὐ μάν, oὐ ταύτας τὰς ... Νύμφας, ... οὔ ... e 31–4 μὴ σπεῦδ’ ... ~ 35–8 ἀλλ’ οὔτι σπεύδω. Quanto alle due coppie intermedie, 21 s. ~ 23 s. (20 è chiaramente un verso di passaggio, come ci conferma il numero di versi delle singole ‘strofi’) e 25–7 ~ 28–30, la responsione è evidente e per la forma e per il contenuto (proverbi e modi di dire che si corrispondono), con una nuova ripresa tematica da quanto precede (25), questa volta da parte di Lacone, che però continua ad avere l’iniziativa. Fra 39 e 49 è inutile cercare simmetrie, visto che c’è costante ripresa reciproca dei temi, in tono nettamente conversativo, e la ‘strofe’ 45–9 si presenta asimmetricamente coi suoi quattro versi dati a Comata: forse una ‘modulazione’ numerica, nel senso musicale, verso la successiva coppia di 4 + 4? Seguono 50–4 ~ 55–9 (i due inviti), che già abbiamo analizzati, dopo di che il rigore delle responsioni si attenua di nuovo: 60–2 ~ 63–5 sono l’invito, accettato, a scegliere un arbitro, seguiti da due versi di tono conversativo particolarmente realistico (66 s.), con doppia ἀντιλαβή. 68 s. ~ 70 s. sono poi l’invito a Morsone ad essere imparziale. A questo punto Comata (72 s.) riprende l’iniziativa per la prima volta dopo l’inizio dell’idillio, irritando Lacone colla questione della proprietà del bestiame (74 s.) e nell’ultima coppia la conserva (76 s. ~ 78 s., «dico la verità» ~ «di’ pure»), ma con sottile sovrapposizione è come se continuasse, a conclusione, ad averla Lacone: 75 (Lacone) ὡς λάλος ἐσσί ~ 77 (Comata) φιλοκέρτομος ἐσσί ~ 79 (Lacone) ἦ στωμύλος ἦσϑα. Tre insulti, in palese crescendo, e sarà proprio questa ‘finta’ vittoria di Lacone nel pre–agone che sarà richiamata, con eco a distanza, nel definitivo grido di vittoria di Cornata a conclusione del vero agone: 137 τὺ δ’, ὦ τάλαν, ἐσσί φιλεχϑής. L’intreccio delle precedenze è meno complicato di quanto appare dalla nostra esposizione: basta prendere in mano il testo e risulterà piú chiaro. Da quanto abbiamo visto in tutta questa prima parte dell’idillio, nel pre–agone, Lacone guida e Comata segue: ci è apparso evidente sia dalle responsioni dirette e a distanza sia dalla conduzione del dialogo. Tutto ci conferma ancora una volta, per di piú, il carattere libresco di questa poesia: parallelismi cosí studiati || 24 Notato da OTT op. cit. p. 19, che però non sfrutta nel nostro senso i parallelismi. A p. 18 afferma che Comata perde l’iniziativa a 12 s.: ma l’aveva già persa a 5!
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sono percepibili solo alla lettura. È chiaro che qui, diversamente dall’agone, la struttura è piú elastica e meno regolare: ma penso che Teocrito non poteva davvero far di piú, volendo conservare un tono liberamente conversativo, necessario per creare una atmosfera realistica, e volendo nello stesso tempo creare come un contraltare all’agone. Concludendo: nel vero agone Comata propone e vince, nel pre–agone Lacone è chiaramente il proponente, o meglio il quasi–proponente. Si può dire che Lacone ‘vince’ il pre–agone? Mi pare chiaro che Teocrito voglia in qualche modo farlo vincere, creando cosí l’ideale pareggio. C’è dunque un rapporto fra l’essere proponenti e l’essere vincitori? Avrebbero ragione quelli che, come abbiamo visto sopra, considerano il ruolo di proponente piú facile, e in certo modo predestinato alla vittoria? Rispondiamo che: a) maggior facilità non vorrebbe comunque dire vittoria; b) maggior facilità sembra da escludere, per quanto abbiamo detto prima, e comunque, anche se essa sussisteva, non saranno mancati mezzi per neutralizzarla nel contesto delle gare reali; c) non bisogna confondere i due piani distinti — e questo è l’argomento piú importante — della realtà e della stilizzazione letteraria. Qualunque sia stato il peso dell’iniziativa negli agoni reali, può bene darsi che essa sia stata assunta, del tutto artificialmente, come chiave per la vittoria di quelli letterari: il Teocrito autentico ci dà una sola vittoria, e vince il proponente. Ma la nostra è solo come un’ipotesi ex silentio, non essenziale al nostro assunto. L’iniziativa, nell’agone reale25, doveva essere comunque dello sfidante (6.5 πρᾶτος δ’ ἄρξατο Δάφνις ἐπεὶ ϰαὶ πρᾶτος ἔρισδεν)26, ο, se possiamo in questo caso dar fede allo Pseudo–Teocrito, assegnata per sorteggio (8. 30 πρᾶτος δ’ ὦν ἄειδε λαχὼν ἰυϰτὰ Μενάλϰας)27. Ma si veda come, anche in questo particolare della realtà, Teocrito nel pre–agone del quinto idillio si diverta a giuocare, facendo che i due si palleggino l’invito: il primo a sfidare è Lacone (21 αἴ ϰα λῇς ἔριφον ϑέμεν, ...), l’invito a cominciare gli viene poi rivolto da Comata (30 ἔρισδε), finché poi per ben due volte a cominciare sarà invitato Comata (60 ποτέρισδε ϰαὶ ... βουϰολιάσδευ28; 78 εἶα λέγ’, εἴ τι λέγεις), che, senza piú indugi, comincerà l’agone fungendo da proponente (e lo vincerà!). C’è solo da rammaricarsi che abbiamo soltanto il quinto idillio, come esempio di vittoria teocritea autentica. Si può affermare che Virgilio, facendo || 25 Sulla questione della precedenza v. GOW op. cit. p. 93 (sbaglia solo nell’affermare che il primo invito sia quello di Comata al 30, mentre è quello di Lacone al 21: giustamente ad 21). 26 In Verg. ecl. 3 lo sfidante è Dameta (28–31) e a lui Palemone, il giudice, rivolgerà l’invito a cominciare (58). 27 Ritroviamo il sorteggio in Calpurnio Siculo, ecl. 2. 27. 28 Da questo verso abbiamo la certezza del fatto che ἐρίζειν e βουϰολιάζειν non sono la stessa cosa: il primo significa specificamente ‘sfidare’.
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vincere il proponente Coridone, abbia imparato una univoca lezione dal suo modello? No, perché nell’ottavo dello Pseudo–Teocrito vince Dafni, il rispondente, e quindi Virgilio, che non faceva ancora questioni d’autenticità, aveva davanti a sé esempi dei due casi. Noi, piuttosto, potremmo considerare il procedimento dello Pseudo–Teocrito come una ennesima violazione delle regole del codice bucolico originario, sempre che l’ipotesi della identificazione ‘letteraria’ di proponente e vincitore trovasse conferma. Ma il problema della precedenza è per noi secondario. Quello che, invece, par certo è che Teocrito abbia voluto darci una specie di dittico in cui ha stabilito un equilibrio fra i due contendenti, dando la vittoria dell’agone vero e proprio ad uno dei due solo per presentare un ulteriore elemento dell’agone reale, senza per questo arrivare all’estremo realistico di dare un fondamento qualitativo alla vittoria; e dando all’altro una quasi–vittoria nel pre–agone. Qualcuno potrà inquadrare tale fatto in un gusto teocriteo del contrasto e dell’equilibrio, che è stato ultimamente messo in luce con successo da varie parti29. Ma direi che qui si tratta di un semplice espediente tecnico di letterato consumato. Far vincere uno dei due, va bene, perché nella realtà di tutti i giorni succede spesso cosí; ma senza presentar l’altro (che è pur sempre il poeta stesso) come un raffazzonatore o un pasticcione o uno che non conosce le regole del giuoco. È cosí che a Lacone, colla sua quasi–vittoria nel pre–agone, viene una specie di premio di consolazione; e a Teocrito la lode per esser stato virtuosisticamente imparziale con tutti e due i suoi personaggi. Dal riconoscimento di espedienti cosí sottili viene fuori un Teocrito estremamente elaborato e, in fondo, ‘difficile’: piú difficile, certo, di un Callimaco o di un Apollonio, che erano molto meno scaltri nel ‘mimetizzare’ la dottrina e l’artificio, o che semplicemente alla dottrina e all’artificio volevano dare piú enfasi30. Per Teocrito davvero si può dire che ars latet arte sua. Virgilio stesso fa vedere di non aver capito l’espediente teocriteo31. Nella settima ecloga non sem-
|| 29 Il Gegensatz è l’argomento centrale di OTT op. cit.: e, se qualche volta le sue argomentazioni appaiono un po’ sforzate, in alcuni casi ha ragione, come per es. nel contrasto fra l’idillio sesto e l’undecimo (spec. pp. 82–4) o nell’analisi interna del decimo (p. 57 ss.). Va ricordato qui G. SERRAO, «Helikon» 5 (1965) p. 517. 63, che mette in luce i finali, sereni o ironici, degl’idilli 2, 10, 11, 13, 14, contrapposti a contenuti drammatici o appassionati. 30 Raffinata dissimulazione dei ferri del mestiere è già stata, in Teocrito, episodicamente riconosciuta e messa in luce. In un prossimo lavoro vorrei mostrare con quanta abilità Teocrito sa, per es., ‘contaminare’ in una stessa composizione due o piú generi letterari. 31 Sembra che, invece, l’abbia almeno parzialmente capito lo Pseudo–Teocrito: anche nel rozzo pre-agone dell’ottavo idillio (1–32) le monotone responsioni (11 ~ 12, 13 ~ 14, 18 s. ~ 21 s.)
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bra di poter riconoscere alcuno spunto sia pur copertamente equilibratore fra il vincitore Coridone e il perdente Tirsi: e conferma ci viene dal fatto che l’elemento compositivo a cui Teocrito affida l’equilibrio, e cioè il pre–agone, è da Virgilio presentato nell’ecloga terza (1–59), dove esso non sarebbe necessario, ché l’agone lí si conclude con un pareggio! Resta quindi aperto il problema del fondamento della vittoria nella settima ecloga? Direi di no: Virgilio ha certamente creduto di riconoscere un ‘capriccio’ del suo modello, e ha creduto di seguirlo fedelmente anche in questo32.
|| presentano la sequenza Menalca–Dafni, e a vincere sarà poi Dafni (rispondente, però, anche nell’agone vero e proprio: v. sopra). 32 Non è forse senza significato il fatto che le tre ecloghe di Calpumio Siculo composte in forma di agone, la seconda, la quarta e la sesta, si concludono tutte e tre con un pareggio (2. 99 s., 4. 149, 6. 85–92: quest’ultimo ricalcato fedelmente su Verg. ecl. 3. 108).
Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo Dei carmi ottavo e nono del corpus teocriteo Wilamowitz scrisse che «non sono autentici, come per primo aveva ben visto Valckenaer, e con chi non si rende conto di questo non è il caso di parlare di poesia».1 Il suo giudizio estetico era severo per il nono, ma non per l’ottavo, che considerava opera di un vero poeta. Esso è stato ben definito come il primo esempio a noi noto di una poesia sentimentale dei campi, nutrita della nostalgia cittadina per la pace agreste, che sarà poi di Virgilio, l’inizio, insomma, del ‘paesaggio stato d’animo’.2 Ma teocriteo non è di certo. Dire che è bello e quindi di Teocrito, come qualche critico superficiale ha fatto, è errore banale: a Teocrito i chiari toni virgiliani avanti lettera sono del tutto estranei.3 Le ragioni principali di sospetto sono state varie, oltre alla diversità di tono: particolarità compositive, ma soprattutto linguistiche e prosodiche4 e metriche;5 introduzione del distico elegiaco (33–60) e carattere epigrammatico autonomo di alcune sezioni;6 scarsa conoscenza del mondo
|| [Saggio pubblicato in «SIFC» 43, 1971, pp. 5–25] 1 U. V. WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Die Textgesch d. gr. Bukoliker, Berlino 1906, P. 122. 2 R. MERKELBACH, «Rh. Mus.» 99, 1956, p. 117 (97–133); già G. PERROTTA, «Atene e Roma» 6, 1925, p. 72 sg. (62–80). Sul nono resta fondamentale quanto scrisse WILAMOWITZ, op. cit., pp. 202–9. Sull’imitazione virgiliana da 8 e 9 v. C. KATTEIN, Theocriti idylliis octavo et nono cur abroganda sit fides Theocritea, Thèse Parigi 1901, p. 85 sgg. (lavoro utilissimo, non sempre citato, come meriterebbe). Il contenuto dei lavori qui citati, come pure dell’indispensabile commento di A. S. F. Gow (Cambridge2 1952), è presupposto per quanto segue e ne verrà richiamato solo quello che giovi alla comprensione degli elementi nuovi che si adducono. 3 Sul problema dell’autenticità v. GOW, II, p. 170 sg.; sui pareri dei critici più antichi, da Valckenaer a Reitzenstein, KATTEIN, Diss. cit., p. 69 sg.; su critica più recente PERROTTA, art. cit., p. 62 e A. ROSTAGNI, Scritti minori, II. 1, Torino 1956, p. 214 sgg. Il lavoro di Rostagni, che è del 1913, e E. BIGNONE, L’id. VIII di Teocr. e la sua autenticità, Firenze 1934 sono tentativi non riusciti di salvare l’autenticità. 4 V. spec. WILAMOWITZ, «Hermes» 58, 1923, pp. 70–3 = Kl. Schr. IV, Berlino 1962, pp. 326–9; PERROTTA, art. cit., pp. 78–80; elenco dei passi del commento in cui tali fatti sono discussi in GOW, II, p. 170 n. 2. 5 8. 10 sarebbe contro la legge di Hermann, per quanto giustificabile: v. GOW ad loc., la necessaria rettifica dei cui argomenti sarebbe però qui troppo lunga. In 14 sg. si concentrano due iati in breve e due allungamenti in tempo forte. V. ancora 65, 68, 72, 74. 6 R. REITZENSTEIN, Epigr. u. Skolion, Giessen 1893, p. 189 sgg., ripreso poi da Kattein, Wilamowitz, Perrotta etc. Specialmente la quartina 57–60 è stata presa di mira come spuria (G. https://doi.org/10.1515/9783110648126-051
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reale dei pastori, che invece in Teocrito è rappresentato con la disinvolta precisione di chi certo lo conosceva bene e di chi soprattutto lo voleva presentare con tratti realistici;7 e infine – fatto notato con chiarezza solo di recente – scarsa conoscenza delle ‘regole’ della gara poetica bucolica così com’esse ci appaiono dal Teocrito autentico.8 L’ignoranza dei realia pastorali è particolarmente sensibile. Lo Pseudo– Teocrito non rispetta, e sembra non conoscere, la severa distinzione che Teocrito fa sempre fra βουϰόλος (bovaro), ποιμήν (pecoraio) e αἰπόλος (capraio). Teocrito tiene conto addirittura di una vera e propria ‘gerarchia’ di dignità che dal bovaro scende al capraio.9 Perfino i critici antichi se n’erano accorti: troviamo, nei prolegomena al Corpus, sia la puntigliosa distinzione (p. 3. 18 sgg. Wendel) sia la gerarchia (Elio Donato p. 17. 21 sgg.; Filargirio p. 19. 14 sgg.; schol. ad 1.86, p. 60. 16 sgg. Wendel, etc.). Ora, l’autore dell’idillio ottavo fa che il capraio Menalca, che ha nel suo gregge capri e capretti (45, 49, 63), sia apostrofato da Dafni come pecoraio (9; cfr. 14, 35, 67: Gow, p. 170 sg.), e Dafni, il bovaro per eccellenza (1), diventa alla fine un pecoraio (92). È stato notato inoltre,10 con molto spirito, che Dafni «dà prova d’un singolare disdegno del valore comparativo delle cose» quando (14) offre come premio per la gara un vitello, chiedendo a Menalca di offrire, per parte sua, un agnello. Quanta diversa attenzione per l’aspetto economico dello scambio c’è invece nel quinto idillio di Teocrito (25– 30)! Ma l’ignoranza della realtà dei campi, insieme con la disposizione a fraintendere grossolanamente il suo modello Teocrito, va, nel nostro imitatore, oltre quanto è stato fin qui notato, vorrei dire oltre quello che era lecito aspettarsi. In tre passi del Teocrito autentico, che riporto qui con quel tanto di contesto che mi sembra utile, i pastori si rivolgono agli animali del loro gregge coll’interiezione σίττα:
|| HERMANN, V. WILAMOWITZ, Textgesch., cit., p. 123 sg.). Ricordo un problema testuale, e cioè la mancanza di una quartina dopo 52. 7 KATTEIN, Diss. cit., pp. 52–4, con un comodo schema (p.53) dei nomi dei pastori, degli animali e dei vari tipi di greggi e dei termini per il «pascolare»; PERROTTA, art. cit., p. 70 sg. 8 MERKELBACH, art. cit., spec. pp. 117–22: questo lavoro è fondamentale per l’impostazione del problema della realtà popolare del canto bucolico, che è alla base della stilizzazione bucolica letteraria. 9 Sulla ‘gerarchia’ dei pastori v. le considerazioni di B. A. VAN GRONINGEN, «Mnemos.» 11, 1958, p. 313 sgg. V. per es. 1.80 ἦνϑον τοὶ βοῦται, τοὶ ποιμένες, ᾡπόλοι ἦνϑον, dove l’ordine è nel verso stesso; 1. 86 (cfr. 6. 7) con Gow, ad loc., etc. 10 Da PH. –É. LEGRAND, Bucoliques grecs, II, Parigi 1953, p. 8.
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4.44–9
BA. ϑαϱσέω. βάλλε ϰάτωϑε τὰ μοσχία· τᾶς γὰρ ἐλαίας τòν ϑαλλὸν τϱώγοντι, τὰ δύσσοα. ΚΟ. σ ί τ ϑ ’ , ὁ Λέπαϱγος, σ ί τ ϑ ’ , ἁ Κυμαίϑα, ποτὶ τòν λόφον. οὐκ ἐσαϰούεις; ἡξῶ, ναὶ τòν Πᾶνα, ϰαϰòν τέλος αὐτίϰα δωσῶν εἰ μὴ ἄπει τουτῶϑεν. ἴδ’ αὖ πάλιν ἅδε ποϑέϱπει. αἴϑ ἦς μοι ῥοιϰόν τι λαγωβόλον ὥς τυ πάταξα.
5.1–4
ΚΟ. αἶγες ἐμαί, τῆνον τòν ποιμένα, τòν Συβαϱίταν, φεύγετε, τòν Λάϰωνα· τó μευ νάϰος ἐχϑὲς ἔϰλεφεν. ΛΑ. οὐϰ ἀπò τãς ϰϱάνας; σ ί τ τ ’ , ἀμνίδες· οὐϰ ἐσοϱῆτε τόν μευ τὰν σύϱιγγα πϱόαν ϰλέψαντα Κομάταν;
5.100–3 ΚΟ. σ ί τ τ ’ ἀπò τᾶς ϰοτίνω, ταὶ μηϰάδες· ὧδε νέμεσϑε ὡς τò ϰάταντες τοῦτο γεώλοφον αἵ τε μυϱῖϰαι. ΛA. οὐϰ ἀπò τᾶς δϱυός, οὗτος ὁ Κώναϱος ἅ τε Κιναίϑα; τουτεὶ βοσϰησεῖσϑε ποτ’ ἀντολὰς ὡς ὁ Φάλαϱος.11
Siamo di fronte a scenette movimentate della vita quotidiana dei campi. Il valore dell’interiezione è già chiaro per noi dal testo e dalle situazioni che esso suggerisce e poco aggiunge il fatto che gli scoli ce lo confermino. Si tratta di un richiamo al bestiame, che, nella forma in cui ci viene presentato, è sicuramente derivato da quello che in latino appare nella forma st! e che, sostanzialmente simile, è presente in ogni lingua moderna.12 Gli scoli parlano di un ἐπίφϑεγμα βουϰολιϰόν usato dai pastori nel correre appresso alle bestie (ad 4. 45 e oἱ διώϰοντες, 5. 3 c διώϰοντες) e lo riferiscono a tutte e tre le categorie di bestiame, buoi (ad 4. 45 e, 5. 3 c), pecore (ad 5. 3 c), capre (ad 5. 100), non sempre con aderenza diretta al testo commentato; ma è evidente che il richiamo era comune a tutte le categorie, come si vede anche dalla casualità delle definizioni di Esi-
|| 11 Per i due ultimi versi do per ora l’interpunzione della maggior parte degli editori: v. oltre. – Accolgo l’accentazione –εί degli avverbi (GOW ad 5. 33). 12 V. FRISK e WALDE–HOFMANN, S. VV. Per le varie forme del greco e per un’interpretazione linguistica di esse (i fonemi vocalici sarebbero non etimologici) v. ED. SCHWYZER, «KZ» 58, 1931, p. 170 sgg., che si pone anche il problema della costante ‘elisione’ (p. 175 sg.): sarebbe tentato di escludere ‘elisione’ (postulando forme tronche non ‘elise’), e allora 8. 69 andrebbe sul conto (negativo) dello Ps.–Theocr.; ma conclude che le attestazioni di ψύττα fanno pensare che esistessero anche σίττα, ψίττα colla vocale finale. Tali forme non sarebbero, comunque, primarie: –α non sarebbe etimologico, ma solo spiegabile foneticamente, come l’–α finale dei nomi delle lettere dell’alfabeto (ἄλφα, βῆτα etc.: p. 176 sgg.). V. anche E. SCHWENTNER, Die primären Interjektionen in den indogerm. Spr., Heidelberg 1924, p. 42 sg. (sotto Seheuchrufe: «husch! he!»).
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chio (σίττα · ἐπιφώνημα αἰξίν; s. v. ἄϱϱυ· …τò σίττα ποιμένων).13 Altre forme evidentemente della stessa interiezione sono ψίττα, ψύττα, φίττα: la più importante attestazione letteraria è Eur. Cycl. 49 sgg. ψ ύ τ τ ’ · οὐ τᾷδ’; οὔ; οὐ τᾷδε νεμῇ ϰλιτὺν δϱοσεϱάν;..., dove la situazione è la stessa che in Teocrito, riferita al montone del gregge del Ciclope. È quasi superfluo precisare che l’ἐπίφϑεγμα serve sia per richiamare gli animali (Theocr. 4. 46, Eur. Cycl. 49) sia per scacciarli (Theocr. 5. 3, 100): anzi, come si vede dalle situazioni suggerite, i due «movimenti» sono in realtà compresenti. Che poi vi sia anche compresa l’idea di «velocità» («pst! presto!») è più che ovvio e non c’è da meravigliarsi che, nelle esegesi dei grammatici e lessicografi, sia presente alle volte anche solo questo valore.14 Se anche non fossimo stati in grado di confermare con dati linguistici e con testimonianze esterne il valore delle interiezioni, ugualmente strano ci apparirebbe un passo dell’idillio ottavo: 8.69 sg. σ ί τ τ a νέμεσϑε νέμεσϑε, τὰ δ’ οὔϑατα πλήσατε πᾶσαι, ὡς τò μὲν ὧϱνες ἔχωντι, τò δ’ ἐς ταλάϱως ἀποϑῶμαι.
Non mi risulta che gli studiosi di Teocrito si siano mai accorti della differenza sorprendente del valore di σίττα in questo passo, differenza che, presentandosi come un unicum, non può non far pensare ad una vera e propria catacresi, in realtà di gravità tale, da essere un’ulteriore conferma della non autenticità dell’idillio. L’unico, che io sappia, ad aver intuito la verità fu, quarant’anni fa, un linguista, Eduard Schwyzer, che fece però stranamente macchina indietro;15 e la sua scoperta ‘a metà’ è rimasta comunque lettera morta per gli studi teocri|| 13 Per i maiali si aveva χύϱϱα · οὕτως εἰώϑασι ταῖς ὑσὶν ἐπιφϑέγγεσϑαι, Hesych. Ma il συβώτης, com’è noto, è assente dal mondo bucolico. 14 Tutti e due appaiono presenti in Hesych. ψύττα · ἐπὶ τοῦ ταχέως ἀποδϱαμεῖν λέγεται. Il valore ταχέως sembra esclusivo in autori tardi, Luciano, Alcifrone, Pallada (L.–S.–J. s. v. ψύττα). — Per le testimonianze grammaticali, oltre gli scolî teocritei, v. ancora Poll. 9. 122, 127 (ψίττα); Hesych. s. vv. σίττα, ψίττα, ψιττάζων, s. v. ἄϱϱυ; Phot. Lex. s. v. ψύττα (ἐπὶ τοῦ ἀποδϱαμεῖν); Eust. 855.23 sgg., 1963. 39 sgg. (ψίττα, σίττα, anche σίττε, su cui v. SCHWYZER, art. cit.; materiale preso da Aristoph. Byz., πεϱὶ πϱοσφωνήσεων, v. Nauck p. 161). In Sofocle troviamo la forma ψό (fr. 521 P., dai Ποιμένες) e ψ (Ichn. 170), su cui v. le note di PEARSON ad locc. anche per le testimonianze grammaticali. 15 SCHWYZER, art. cit., p. 171. Riporto le sue parole, per proporne al lettore la quasi incredibile assurdità: Man könnte nun die abweichende Bedeutung von σίττα in 8. 69 als weitern Beweis für einen andern Verfasser nehmen wollen. Aber die Sache liegt so, dass umgekehrt die Bedeutung von σίττα in 8. 69 – etwa = ἄγε(τε), als Antrieb oder als allgemeine Erregung der Aufmerksamkeit – auch für die andern Stellen passt. So wird die Erklärung von σίττα als Scheuchruf in den Scholien doch aus dem Text gewonnen sein.
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tei. È chiaro, come diceva Schwyzer, che qui σίττα vuol dire genericamente ἄγε(τε), « o r s ù ! » , ma è altrettanto chiaro che questo valore non può adattarsi, come stranamente voleva lo stesso Schwyzer, alle ben diversamente movimentate situazioni del Teocrito autentico, e neanche a quella del Ciclope euripideo. Il poeta dell’Ὀαϱιστύς, Ps.–Theocr. 27, per una esortazione ugualmente generica, farà apostrofare il bestiame senza simili goffaggini: 47 αἶγες ἐμαί, βόσϰεσϑε e 48 ταῦϱοι, ϰαλὰ νέμεσϑε. Per «orsù, pascolate, pascolate!» σίττα è una grossolana catacresi, ed è chiaro che il nostro anonimo non ne conosceva il vero valore. *** E qui il discorso sarebbe finito, se non ci si presentasse, in più, la possibilità di vedere lo Pseudo–Teocrito al lavoro, di scoprirne le conoscenze e il gusto letterario e di sentirlo addirittura ‘leggere’ il suo Teocrito. L’autore dell’idillio ottavo è del resto una personalità poetica che merita rispetto, come già abbiamo detto sopra, senza contare il fatto che la sua importanza nella storia letteraria è enorme, proprio come iniziatore della poesia bucolica di maniera. Ma il suo ζῆλος teocriteo lo ha tradito, giacché ha semplicemente frainteso il suo autore. Già a prima vista appare estremamente probabile che sua fonte immediata sia stato proprio 5. 100: σίττ’… νέμεσϑε è stato da lui certamente inteso come sintatticamente collegato, come fosse stato «orsù, …, pascolate!». Ma come avrà potuto fraintendere in modo così grossolano quello che per noi è il così chiaro valore di σίττα e quella che è la così evidente sintassi del verso? Proviamo a leggerlo con una punteggiatura diversa da quella data sopra, che era quella che giustamente gli editori, per l’ovvio confronto cogli altri passi teocritei e con quello euripideo, ci fornivano: 100 sg.
σίττ’ ἀπò τᾶς ϰοτίνω, ταὶ μηϰάδες, ὧδε νέμεσϑε ὡς…
Teocrito, in altre parole, aveva scritto: «Pst! Via dall’oleastro, caprette! Qui pascolate, dov’è il declivio del colle e i tamarischi!». E l’imitatore ha inteso: «Orsù, caprette, lontano dall’oleastro, qui pascolate, dov’è…» ecc. La locuzione avverbiale ἀπò τᾶς ϰοτίνω, nel senso di «lontano da…» e senza bisogno di verbo di moto espresso o sottinteso,16 veniva ad essere per lui rideterminata e precisata dall’avverbio di stato in luogo (ὧδε, «qui»), che è poi seguito dall’avverbio rela-
|| 16 Valore del tutto comune (tipo ἀπ’ οἴϰου εἶναι) e in poesia e in prosa: KÜHNER–GERTH, I, p. 456 sg.; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 445 sg.
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tivo di luogo (ὡς, «dove»);17 mentre in Teocrito il primo colon sintattico era indipendente, separato dal resto in virtù della forza interiezionale di σίττα, presentandosi nella forma di un imperativo ellittico con verbo di moto ‘sottinteso’ («[venite] via dall’oleastro!»): e ἀπò τᾶς ϰοτίνω era un vero moto da luogo. Ma quale altra ragione, oltre la sua ignoranza su σίττα, lo avrà spinto ad interpretare proprio così? Non dimentichiamo che i vv. 5. 100–3 sono parte dell’agone bucolico fra Comata e Lacone, agone che comincia al v. 80, e che, com’è regola della gara, ogni ‘risposta’ ha una più o meno spiccata corrispondenza di contenuto e di forma con la ‘proposta’18 Ora, il primo verso della risposta di Lacone (102) non ha le spezzature ritmico–sintattiche del primo verso della proposta di Comata (100). L’autore dell’ottavo ama simmetrie semplici e pedantesche anche a costo della più elementare fedeltà realistica all’agone bucolico e ricerca parallelismi ritmici addirittura nelle parti narrative:19 gli sarà venuto quindi naturale far agire su 100 con forza ‘normalizzante’ il ritmo, più unitario, di 102.20 Che il nostro imitatore abbia letto, e non sentito recitare, il quinto idillio, e naturalmente in un testo che non aveva punteggiatura, è reso probabile sia da questo ‘salto all’indietro’ nel testo (da 102 a 100) sia dalla incomprensione di σίττα, il cui valore sarebbe saltato fuori con evidenza solo che avesse sentito questi versi letti ad alta voce non dico da Teocrito, ma anche solo da chi aveva dimestichezza con la vita campestre. Dovrebbe essere già chiaro che per 8. 69 la fonte, non capita, è stata 5. 100. Ma vediamo se possiamo seguire con ancora maggior precisione la via dell’errore dello Pseudo–Teocrito. Il fraintendimento dell’imitatore può essere stato ulteriormente favorito anche da una sua lettura della seconda coppia di versi, la risposta di Lacone, che doveva risultargli sensibilmente diversa da come ce la presentano le nostre edizioni moderne, e cioè coll’interrogativo in fine: || 17 Per ὡς = wo v. SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 663; P. MONTEIL, Théocrite. Idylles II, V, VII, XI, XV, Parigi 1968, p. 47. 18 MERKELBACH, art. cit., pp. 110–5 ha rilevato con finezza numerose corrispondenze anche ‘a distanza’ e, seguendo un suggerimento del vecchio Legrand (Étude sur Théocrite, Parigi 1898, p. 159 sgg.; ma più precisamente Bucol. gr., cit., I, p. 44 sg.), anche nella sezione preliminare (1–79), che si presenta come un agone ‘preparatorio’. 19 Qui è stata vista una delle spie della non autenticità. Parallelismi esasperati nel preagone: 11 ~ 12, 18 sg. ~ 21 sg. (v. anche le insopportabili ripetizioni di τίϑημι in 11–17, 20); nelle parti narrative: 3 sg., 28 ~ 29, 88 sg. ~ 90 sg. Ricercati, ma elementari e monotoni, sono i parallelismi ritmici nelle prime due coppie di quartine dell’agone (33–48: c’è tra l’altro un problema di ordine dei versi). Teocrito si comporta ben diversamente (v. oltre, spec. p. 704 n. 28). 20 Per di più 5. 101 è uguale a 1. 13, e anche i due versi che rispettivamente precedono sono ritmicamente e sintatticamente uguali, se si legge 5. 100 al modo dello Pseudo–Teocrito! — Per ripetizioni o quasi–ripetizioni interne a Teocrito v. Gow ad 1. 116 sg.
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102 sg.
ΛΑ. οὐϰ ἀπò τᾶς δϱυός, οὗτος ὁ Κώναϱος ἅ τε Κιναίϑα, τουτεὶ βοσϰησεῖσϑε ποτ’ ἀντολὰς ὡς ὁ Φάλαϱας;
«Non vorrete dunque, tu Cònaro e tu Cinèta, pascolare qui dov’è Falàro, lontano dalla quercia?».21 In questo modo, anche nel secondo distico ἀπò τᾶς δϱυός veniva da lui sentito come locuzione avverbiale indipendente («lontano da…») e legato sintatticamente all’avverbio di stato in luogo τουτεί, «qui», come ad una ulteriore determinazione locale. E per di più ambedue i distici correvano così per lui come un’unica unità sintattica dal primo al secondo verso: il parallelismo di proposta e risposta sarebbe risultato perfetto. Ma nel ‘leggere’ il secondo distico (se veramente – come mi pare probabile – lo ha letto così) il nostro imitatore, dobbiamo confessarlo, è stato migliore interprete della maggior parte dei filologi moderni. Infatti, mettendo l’interrogazione alla fine del primo verso, come fanno oggi tutti gli editori, il futuro βοσϰησεῖσϑε verrebbe a dover prendere uno dei seguenti due valori, ambedue poco probabili: 1) «pascolerete», come semplice futuro, che però appare inespressivo e scialbo, e non per opinabili ragioni stilistiche, ma da un punto di vista funzionale, ‘situazionale’: ci aspetteremmo un ϰαλῶς o ancor meglio un comparativo, come, per restare nello stesso idillio quinto, 31 sg. ἅ δ ι ο ν ᾀσῇ τεῖδ’… («qui… canterai con più agio», «qui pascolerete meglio» e simili, per attirare a spostarsi);22 2) «pascolate!», con valore d’imperativo (Gow traduce feed), che è in realtà una delle possibili accezioni del semplice futuro, il cosiddetto f u t u r o i u s s i v o , ma è accezione molto rara (assente in Teocrito) ed è da alcuni intesa come una forma di comando cortese, d’invito,23 poco adatta all’ethos del nostro passo. Invece, con la interpretazione dello Pseudo–Teocrito, che a quanto so sarebbe stato seguito solo da Valckenaer e da Wordsworth e da nessun altro degli editori suc-
|| 21 Κώναϱος e Kɩναίϑα sono nomi di un ariete e di un’agnellina, così come lo è certamente di un ariete anche Φάλαϱος (alcuni scoli pensano a un monte; v. oltre, p. 18 n. 3, a proposito di 8. 27). 22 V. anche 10.22 sg. ἅ δ ɩ o v oὕτως || ἐϱγαξῇ (Milone a Buceo); 11.44 ἅ δ ι o ν ἐν τὤντϱῳ παϱ’ ἐμὶν τὰν νύκτα διαξεῖς (Polifemo a Galatea). Dello stesso tipo è Cat. 13. 1 cenabis b e n e mi Fabulle apud me: in LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 311 se ne vorrebbe fare un futuro iussivo, ma bene KROLL ad loc. (segue la Bedingung, si… si…). 23 KÜHNER–GERTH, I, p. 176 (höfliche Form des Befehls). B. L. GILDERSLEEVE, Synt. of Classical Gr., I, New York etc., 1900, p. 116 sg. è di parere contrario (it is not a milder or gentler imperative). K. J. DOVER ad Ar. Nub. (Oxford 1968) 1352 (e cfr. ad 633, 810 sg.) considera comunque il costrutto ill attested in Attic. Per il latino v. LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 311, che lo considera espressione di una sichere Erwartung der Ausführung der Handlung: ora, questo varrebbe sia per tono cortese (si chiede solo quello che si sa di poter ottenere) sia per tono rude (sicurezza, comunque, dell’esecuzione dell’ordine). Ma qui, nel quinto idillio, né l’una né l’altra Stimmung può andare: si tratta di animali!
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cessivi,24 veniamo ad avere un nesso sintattico frequentissimo, e cioè f u t u r o i n t e r r o g a t i v o n e g a t i v o c o n v a l o r e d ’ i m p e r a t i v o : οὐ βοσϰησεῖσϑε; «Insomma, volete decidervi a…?». Si tratta del tipo οὐ μενεῖς; = μένε e οὐ μὴ μενεῖς; = μὴ μένε,25 che è altamente espressivo e di sicura natura colloquiale,26 come il tipo ὅπως col futuro oppure il tipo τί (oὖν) oὐ λέγεις;.27 Lo abbiamo anche, in contesto e situazione simili, in Eur. Cycl. 49 sg. οὐ τᾷδε νεμῇ...; L’errore dello Pseudo–Teocrito è stato di voler rendere la costruzione del primo distico parzialmente (v. sopra, p. 701) o forse addirittura interamente parallela (v. sopra, p. 701 s.) a quella del secondo (se, come sembra probabile, lo ha giustamente interpretato), ingannato dal sottile equilibrio istituito da Teocrito, che adesso possiamo vedere più chiaramente, nei suoi parallelismi e nelle sue studiate differenziazioni: 100–3
KO. σίττ’ ἀπò τᾶς ϰοτίνω, ταὶ μηϰάδες· ὧδε νέμεσϑε ὡς τò ϰάταντες τοῦτο γεώλοφον αἵ τε μυϱίϰαι.
|| 24 L. K. VALCKENAER, 1779 e CH. WORDSWORTH, 1844. Interessante che già J. J. REISKE, 1765 desse, nella traduzione, Non a quercu tu..., tuque..., hic pascemini?, ma nel testo ci sono due impossibili interrogativi alla fine di tutti e due i versi. Le altre edizioni che ho viste sono: TH. KIESSLING, 1819; H. L. AHRENS (mai.), 1855; A. MEINEKE, 31856; A. TH. H. FRITSCHE, 21870; CHR. ZIEGLER, 31879; H. FRITSCHE–E. HILLER, 31881; AHRENS (min.), 21899; WILAMOWITZ, 1905; PH.–É. LEGRAND, 51960; R. J. CHOLMELEY, 21930; C. GALLAVOTTI, 11946, 21955; K. LATTE, 1948; A. S. F. Gow (mai.), 21952 e (min.) 1952; P. MONTEIL, 1968. 25 R. WHITELAW, «Class. Rev.» 10, 1896, pp. 239–44 e 16, 1902, p. 277. V. ancora, per una purtroppo ancor scarsa raccolta di materiali, GILDERSLEEVE, op. cit., p. 117; KÜHNER–GERTH, I, p. 176 sg.; J. M. STAHL, Kritischhistor. Synt. d. gr. Verbums d. klass. Zeit, Heidelberg 1907, p. 360; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 292 sg.; JEBB ad Soph. Ai. 75 (Append.) e KAMERBEEK ad eund. loc. Il nesso è molto frequente in teatro, tragedia e commedia, in dialogo concitato e capita, retoricamente stilizzato, anche in prima persona: P. ELMSLEY ad Eur. Med. 878 sg. (Leipzig 1822, p. 229, al suo v. 848 sg.) οὐϰ ἀπαλλαχϑήσομαι ϑυμοῦ; Per l’alternativa col congiuntivo aoristo v. Gow ad 1. 152 (οὐ μὴ σκιϱτασῆτε, –εῖτε Porson) e W. W. GOODWIN, Synt. of the Moods and Tenses of the Gr. Verb, London etc. 1965 (1875), pp. 105, 129 sg.; KÜHNER–GERTH, II, p. 384 sg. (anche su ὅπως, ὅπως μή). 26 A metterne in rilievo la forte colloquialità è ED. FRAENKEL, «Mus. Helv.» 26, 1969, p. 158 col rendere ad Anacr. 412 P. (107 Gentili) οὐδ’ αὗ μ’ ἐάσεις...; il suo valore di idiomatischer Ausdruck des Ionisch–Attischen (confrontando Ar. Eq. 336, 338; Soph. O. R. 676, El. 630 sg.). 27 Per ὅπως (ὡς) μή KÜHNER–GERTH, II, p. 384 sg. Per τί οὑ λέγεις; STAHL, op. cit., p. 353; KÜHNER–GERTH, I, p. 165 sg. (cfr. lat. quin abis?, LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 676). — Di fronte a presenti e a futuri c’è da porsi il problema dell’aspetto verbale: sul valore aspettuale ‘neutro’ di certi temi di presente e del futuro in generale v. M. S. RUIPÉREZ, Estructura del sistema de aspectos y tiempos del verbo griego antiguo, Salamanca 1954, pp. 91–4, 111 sg. (su φημί, ἔφην).
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ΛΑ. οὐϰ ἀπò τᾶς δϱυός, οὗτος ὁ Κώναϱος ἅ τε Κιναίϑα, τουτεὶ βοσϰησεῖσϑε ποτ’ ἀντολὰς ὡς ὁ Φάλαϱος;
I quattro cola sintattico–ritmici sono gli stessi e nello stesso ordine; ma diverse sono le estensioni relative e soprattutto il rapporto sintattico fra di essi: i cola 1 e 3 sono del tutto indipendenti nel primo distico, con un forte enjambement alla incisione bucolica, mentre nel secondo distico sono legati fra loro nell’unità sintattica totale fra primo e secondo verso. Per di più 100 ἀπò τᾶς ϰοτίνω è vero moto da luogo, con verbo di moto sottinteso; mentre 102 ἀπò τᾶς δϱυός è locuzione avverbiale («lontano da…»), indipendente da verbo di moto. Dell’arte raffinata della variatio teocritea non abbiamo qui che uno dei tanti esempi.28 L’errore, invece, della maggior parte dei critici moderni è stato di volere, più o meno consciamente, ricalcare in un certo senso il secondo distico sul primo, che era stato ovviamente bene interpretato, grazie alla comprensione del σίττα. Il primo colon del primo distico, σίττ’ ἀπò τᾶς ϰοτίνω, è a sua volta una costruzione particolare, e cioè una forma di i m p e r a t i v o e l l i t t i c o , in cui quel che ‘manca’ è proprio l’imperativo. Non è qui il luogo di richiamare il fatto che ellissi è designazione impropria, in quanto in tal tipo di nessi non c’è nulla che ‘manchi’, trattandosi di espressioni compendiarie, e come tali di alto e ‘condensato’ valore espressivo, solidamente radicate nella lingua.29 C’è solo da dire che tale costruzione è rara,30 ma ne abbiamo proprio tra i passi teocritei che stiamo esaminando un altro chiaro esempio, 4. 45 sg. σίτϑ’… σίτϑ’… ποτὶ τòν λόφον, che, perfettamente identico a 5. 100 dal punto di vista sintattico, ce ne conferma l’alto grado di colloquialità.
|| 28 Prendendo solo l’agone (80 sgg.), si vede che la raffinata variatio sintattico–ritmica fra proposta e risposta, spesso affidata all’enjambement, è la norma: casi di ripetizione regolare dello schema, come 112–5 e 120–3, sono due eccezioni su quattordici coppie (certo c’è intenzionalità: Teocrito sapeva fare anche responsioni perfette). V. anche oltre su 5. 1–4. Sull’idillio ottavo v. p. 701 n. 19. 29 Tutti i fenomeni che vanno sotto il nome di ellissi andrebbero ristudiati in particolare e nel loro complesso. L’unico che abbia ricevuto onore di ricerche accurate è, almeno nel nostro campo, la frase nominale (Meillet, Benveniste, Guiraud). Importante sarebbe poter stabilire il grado di colloquialità: utile raccolta di materiali (non criticamente ordinati) in P. BACHMANN, Ellipsen und Anakoluthe als Elemente der Umgangssprache in den «Acharnern» des Aristophanes, Diss. Göttingen, München 1961. 30 SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 624: ἐς ϰόϱαϰας è l’unico, dei nessi, che fa al caso nostro (gli altri sono esempi di generiche ellissi verbali), ma è diventato più che altro un’interiezione. Così anche Ar. Nub. 690 δεῦϱο δεῦϱ’ Ἁμυνία, che W. RENNIE, ad Ach. (London 1909) 864 considera una delle comuni ellissi di «andare» (v. Gow ad I. 116 sg. e, per es., δεῦϱο/δεῦτε come formula d’invocazione in Saffo etc.; cfr. Ar. Eccl. 952 = 960).
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L’interpretazione vulgata moderna di 5. 102 sg., che abbiamo visto avere l’inconveniente di falsare il secondo verso (βοσϰησεῖσϑε), avrebbe dato invece per il primo un valore perfettamente lecito e normale, e cioè οὐϰ ἀπò τᾶς δϱυός...; come f u t u r o i n t e r r o g a t i v o n e g a t i v o c o n v a l o r e d ’ i m p e r a t i v o , ma con e l l i s s i d e l v e r b o : costruzione, questa, quanto mai frequente e anch’essa di indubbia colloquialità.31 Abbiamo visto, invece, che qui il verbo c’è, e sta nel verso successivo, in modo che quest’esempio viene a mancarci; ma ne troviamo un altro fra i nostri passi, e cioè 5. 3 οὐϰ ἀπò τᾶς ϰϱάνας;, per di più con un σίττα posposto, senza contare Eur. Cycl. 49 ψύττ’, οὐ τᾷδ’;. Dobbiamo a questo punto chiederci: non poteva l’imitatore ricavare il valore di σίττα almeno da 5. 3 sg.? Mi par certo che anche qui abbia interpunto diversamente: 3 sg.
ΛA. οὐϰ ἀπò τᾶς ϰϱάνας, σίττ’ ἀμνίδες, οὐϰ ἐσοϱῆτε τόν μευ τὰν σύϱιγγα πϱόαν ϰλέψαντα Κομάταν;
«Dalla fonte (scil. dove vi trovate adesso), orsù, mie agnelline, non vedete quel Comata, che...?». In questo modo anche qui si ristabiliva un parallelismo più marcato fra la proposta di Comata e la risposta di Lacone,32 ottenendo anche nel secondo distico la continuità sintattica del primo; e anche qui gli è sfuggita la struttura della responsione teocritea, coll’enjambement oggetto–verbo (che diventa poi verbo–oggetto) come unico elemento comune ai due verbi (φεύγετε e οὐϰ ἐσοϱῆτε...;) e coll’aggiunta di altri e diversi cola sintattico–ritmici la prima volta alla fine del secondo verso (τó μευ νάϰος...) e la seconda volta al principio del primo (οὐϰ ἀπò τᾶς ϰϱάνας; σίττ’ ἀμνίδες), con un’architettura ‘chiastica’. Resterebbe il caso del quarto idillio, dove davvero con tutta la buona (o cattiva) volontà non era possibile cadere in vero fraintendimento: οὐϰ ἐσαϰούεις; (46) non poteva in nessun modo unirsi col moto a luogo ποτὶ τὸν λόφον. Ma che l’autore dell’ottavo idillio abbia avuto sotto gli occhi soprattutto il quin-
|| 31 Qualche esempio in Gow ad 5. 3: Ar. Ach. 864 oἱ σφῆϰες οὐϰ ἀπò τῶν ϑυϱῶν; (e v. RENNIE ad loc.); Soph. Ο. R. 430, 1146 οὐϰ εἰς ὄλεϑϱον; (e v. KAMERBEEK ad 430), etc. Comparabile mi sembra l’ellissi di «sappi», ὡς per ἴσϑι ὡς (KÜHNER–GERTH, II, p. 372: Eur. Med. 609 ὡς οὐ ϰϱινοῦμαι..., v. Ρ. ELMSLEY ad loc. (v. 596), p. 181, che porta molti esempi). 32 Non dimentichiamo (v. 701 n. 18) che siamo nel pre–agone, anch’esso soggetto a sottili parallelismi. — Per l’anafora di οὐϰ, che sarebbe del tutto normale, v. A. C. MOORHOUSE, Studies in the greek Negatives, Cardiff 1959, p. 132 sg. con esempi e bibliografia. — Assurda l’interpunzione di Wilamowitz (che era già di Valckenaer): οὐϰ ἀπò τᾶς ϰϱάνας σίττ’ ἀμνίδες; Bene Gow ad loc.
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to33 appare ulteriormente confermato da vari fatti. Fra 8. 69 sg. e 5. 145 sg. si può notare stretta similarità di tono: sono tutte e due esortazioni affettuose al bestiame coll’accento paterno di chi si cura di loro. L’espressione di gioia del vincitore dell’agone, 5. 141–4, la ritroviamo con riscontri verbali in 8. 88–91, con in più un elemento di ‘drammatizzazione’ ottenuto con la compiaciuta descrizione dello scorno dello sconfitto.34 In 5. 106 sg. Lacone canta del cane da pastore di cui fa dono τῷ παιδί (90 Κϱατίδας), in risposta a Comata (104 sg.) che afferma di tener da parte un γαυλός e un ϰϱατήϱ come doni τᾷ παιδί (88 Κλεαϱίστα): e in 8. 65 sg. ritroviamo il cane e il fanciullo35 in una scenetta di genere (ὦ Λάμπουϱε ϰύον, οὕτω βαϑὺς ὕπνος ἔχει τυ; || οὐ χϱὴ ϰοιμᾶσϑαι βαϑέως σὺν παιδὶ νέμοντα), dove naturalmente anche la menzione dei lupi non può mancare (8. 63, cfr. 5. 106). Non credo invece che la scena della chiamata del giudice da parte dei contendenti (8. 26 sgg., cfr. 5. 63 sgg.) sia significativa nel senso di una diretta derivazione: non dimentichiamo che il quinto e l’ottavo sono insieme i due più tipici esempi di agone bucolico che ci sono rimasti, e certamente la chiamata del giudice era topica. Nè ci sono decisivi riscontri verbali, che mancano anche in altri paralleli ugualmente topici riferentisi genericamente alla ‘sfida’ bucolica.36 Altrove, come si è visto, l’anonimo si tradisce più scopertamente, quando prende a prestito. E siccome nessuno vorrà ormai più credere che peschi direttamente, come faceva Teocrito, da esperienza biotica, potremo supporre che avesse di fronte più d’un componimento del tipo dell’idillio quinto, e forse anche non di Teocrito, ma di chi aveva già cominciato, con maggiore o minore fedeltà al modello, a seguirne le tracce.37 Ma c’è un altro clamoroso fraintendimento che lega l’ottavo al quinto e che è già stato notato, e cioè il goffo ϰἤμ’ di
|| 33 Oltre al sesto, di cui ritorna all’inizio tutta la parte introduttiva (PERROTTA, art. cit., p. 65 sg.; già KATTEIN, Diss. cit., pp. 13–21). 34 L’accostamento è sicuro: 5. 144 ἁλεῦμαι, 8. 88 ἀνάλατο, 89 ἅλοιτο. Già KATTEIN, Diss. cit., p. 64 sg., che al confronto trova, nell’ottavo, ieiunam… orationem descriptionemque. 35 Che è Menalca stesso, se si accetta l’assegnazione tradizionale (per le aporie situazionali v. KATTEIN, Diss. cit., pp. 61–3). 36 5. 21 ~ 8. 6, 11; 5. 22 ~ 8. 7; 5. 23 sg. ~ 8. 14; 5. 25 ~ 8. 13. Li trovo elencati in KATTEIN, Diss. cit., p. 24. Per il topos dell’agone v. U. OTT, Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Hildesheim 1969, pp. 10–13, 21. 37 È possibile che anche altre composizioni teocritee, poi non raccolte da Artemidoro (secolo I a. C.), esistessero al tempo dell’anonimo. A parte la scarsa tradizione indiretta (penso soprattutto alla Berenice), c’è almeno il papiro di Antinoe (c. 500 d. C.) che ci ha conservato il frammento ‘eolico’ che va sotto il numero 31. Un interessante frammento di poesia bucolica, posteriorre a Teocrito ma forse molto antico, ci è conservato nel P. Vindob. Rainer 29801 (n. 17 Heitsch2). Cfr. anche 1621 Pack2?
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8. 72 che si rifà al ϰἠμέ di 5. 90:38 il ϰαί era una caratteristica delle risposte di Lacone del quinto idillio, ma erano risposte ‘a tono’, mentre qui gli ultimi due canti (63–70 e 72–80) sono esenti da responsione tematica e il ϰαί non ha senso.39 Siamo certi, ormai, che lo Pseudo–Teocrito ha avuto, come fonte principale, il quinto idillio; e confermata ne risulta la nostra ipotesi che il fraintendimento di σίττα sia derivato e dalla sua ignoranza del mondo bucolico e da un’errata lettura non solo di 5. 3, ma anche di 5. 100. Che poi, diversamente dai più fra gli editori moderni, abbia anche letto bene 5. 102 sg. è ipotesi suggestiva e del tutto verosimile, ma non necessaria al nostro assunto. Possiamo tutt’al più congratularci con lui per aver almeno scelto bene il suo modello principale: non solo il quinto idillio è l’esempio più completo e tipico di agone bucolico, ma è anche particolarmente ricco di realia bucolici. *** Le considerazioni che abbiamo fatte su e s p r e s s i o n i c o l l o q u i a l i p e r l ’ i m p e r a t i v o rendono ancor più sensibile la scarsità, specie per il greco, di studi particolari e generali sui colloquialismi in opere anche di alto livello letterario.40 Sarà utile ripassare in rassegna almeno i quattro tipi d’imperativo che abbiamo avuto a discutere sui testi, visto che nessuno li ha mai finora accostati fra loro, il che sarebbe tra l’altro premessa indispensabile per saggiarne il di-
|| 38 MERKELBACH, art. cit., p. 119 sg. A lui va il merito di aver chiarito l’importanza formale– strutturale del ϰαί nell’agone (p. 111: 5. 82, 90, 96, 106, 114, 122, 126). Ma la derivazione di 8. 72 da tutti i ϰαί del quinto (con in più 4. 9; 7. 37, 92) già nel sempre dimenticato KATTEIN, Diss. cit., p. 59; e la derivazione di 8. 72 precisamente dal ϰαί di 5. 90 già in WILAMOWITZ, Kl. Schr., IV, cit. (1923), p. 329 e n. 2, che ne aveva dato conferma attraverso 8. 73 < 5. 89 τὰς δαμάλας (< αἶγας) παϱελᾶντα (ma v. ancora KATTEIN, p. 61). 39 Non so se anche 8. 27 ὁ ϰύων ὁ φαλαϱός («chiazzato di bianco») possa vedersi come un richiamo diretto di 5. 103 ὁ Φάλαϱος (cfr. p. 702 n. 21); e v. 3. 5 e 5. 147 con le note di Gow ad locc. Comunque in 8. 27 escluderei l’accentazione φάλαϱος adottata dagli ultimi editori (bene φαλαϱός Valckenaer, Wordsworth, Ahrens, Fritsche, Fritsche–Hiller): cfr. φαλός, φαλαϰϱός e Hesych. φαλαϱόν, –ός (v. L.–S.–J. e Rumpel). Per la ben nota opposizione d’accento fra aggettivo e nome proprio (γλαυκός – Γλαῦϰος) v. per es. J. VENDRYÈS, Traité d’acc. gr., Parigi 1945, p. 153 sg. 40 Per il greco non abbiamo almeno opere come J. B. HOFMANN, Lateinische Umgangssprache3, Heidelberg 1951 o B. AXELSON, Unpoetische Wörter, Lund 1945. Nei suoi seminari romani (1966– 1969) Eduard Fraenkel ci ha aperto gli occhi sui numerosi e rilevanti colloquialismi di un autore come Sofocle.
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verso tipo di espressività (beninteso sulla base di una raccolta completa o almeno abbondante di materiale):41 a) futuro iussivo: raro, assente in Teocrito e comunque sicuramente estraneo all’atmosfera dei nostri passi (da escludersi, v. sopra, per 5. 103 βοσϰησεῖσϑε); b) imperativo ellittico, tipo Theocr. 4. 45 sg. σ ί τ ϑ ’ … σ ί τ ϑ ’ … ποτὶ τòν λόφον, 5. 100 σ ί τ τ ’ ἀπò τᾶς ϰοτίνω; c) futuro interrogativo negativo, tipo Eur. Cycl. 49 sg. ψ ύ τ τ ’ … οὐ τᾷδε νεμῇ; Theocr. 5. 102 sg. οὐϰ ἀπὸ τᾶς δϱυός,… βοσϰησεῖσϑε; d) futuro interrogativo negativo ellittico, tipo Eur. Cycl. 49 ψ ύ τ τ ’ , οὐ τᾷδ’; Theocr. 5. 3 οὐϰ ἀπò τᾶς ϰϱάνας; (con σ ί τ τ α posposto). Tra l’altro la presenza dell’interiezione negli ultimi tre casi ci dà ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, della colloquialità dei nessi. Se avessimo raccolte di materiali, capiremmo meglio molte cose, e per esempio saremmo in grado d’inquadrare con più chiarezza le caratteristiche stilistiche di alcuni generi letterari. Teocrito non rifugge da colloquialismi, tutt’altro: ne ricerca, anzi, di fortemente espressivi specialmente negli idilli bucolici e nei mimi.42 Nel solo idillio quinto, che abbiamo visto essere di primaria importanza per lo Pseudo–Teocrito, essi abbondano. Oltre quelli considerati sopra, possiamo segnalarne altri, di varia natura e appartenenti a vari livelli: apostrofi crude al nominativo per di più con articolo e οὗτος, fortemente idiomatiche e ‘dittiche’,43 un’ellissi particolarmente forte,44 crudo realismo descrittivo che si av-
|| 41 Tutte le costruzioni che abbiamo considerate sono comunemente date (talvolta anche dai grammatici antichi!) come a t t i c i s m i : ma ciò deriva senza dubbio dalla maggior conoscenza che abbiamo (e che avevano anche gli alessandrini) dell’attico. Per esempio, la loro abbondante presenza nel Teocrito bucolico e mimico, e soprattutto nel quinto idillio che ha un cosὶ forte colorito dialettale, è a sua volta fatto anche dialettale o fatto di ϰοινή? Ritengo più probabile la prima ipotesi. 42 Fortissimo è l’impasto colloquiale in 4 (a mezzo fra idillio e mimo: v. Gow, p. 76, i cui apprezzamenti estetici sono però discutibili), 10 (idillio), 14, 15 (mimi). 43 76 βέντισϑ’ οὗτος, 100 ταὶ μηϰάδες, 102 οὗτος ὁ Κώναϱος ἅ τε Κιναίϑα, 147 οὗτος ὁ λευϰίτας ὁ ϰοϱυπτίλος. Per il nominativo come Ausruf (e cioè con valore esclamativo) v. KÜHNER–GERTH, I, p. 46; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 65 sg. Per οὗτος, con in più un forte valore dittico, KÜHNER– GERTH, I, p. 46 (v. spec, il tipo οὗτος σύ). Per l’articolo (anche qui valore dittico) SCHWYZER– DEBRUNNER, p. 63 sg. (macht einen Befehl streng). Su ciascuna di queste forme v. J. SVENNUNG, Anredeformen, Lund 1958, p. 199 sgg. (origine del nominativo per il vocativo da Appositionsanrede, cioè dal tipo σύ, φίλος: cfr. p. 192 sgg.). Svennung fa belle osservazioni sullo Stilwert: Ar. ran. 271 ὁ Ξανϑίας· ποῦ Ξανϑίας; ἦ Ξανϑία esprime allmähliche Milderung des Tones (p. 222). I passi teocritei in J. WACKERNAGEL, Kl. Schr., Gottinga 1953, II, p. 976 sg. (1912).
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vale di lessico scopertamente quotidiano,45 coloriti insulti,46 modi di dire proverbiali e presi dall’immaginazione popolare,47 una forma di quella figura colloquiale che Fraenkel chiama «trasformazione».48 Ho accennato solo ai fatti salienti, ma colloquialismi pervadono tutto il carme e a volte caratterizzano, in grande quantità, movimenti ‘scenici’, come a 63 sgg. Nell’ottavo idillio, invece, lo stile, sia nella cornice narrativa sia nell’agone vero e proprio, si tiene ad un livello generale di alto decoro, coerentemente colla diversa concezione della natura in rapporto colla poesia bucolica: e questo è in stretto rapporto colla tematica ‘virgiliana’ dei canti dei due pastori. La caratterizzazione linguistica di tipo teocriteo, invece, non va oltre una generica ed episodica buona volontà, che appare chiaramente come imposta dal modello e in qualche modo non ‘accettata’: 26 ἤν, probabilmente interiezionale col valore di «ecco!»;49 e a 49 sg. (ὦ τϱάγε, τᾶν λευϰᾶν αἰγῶν ἄνεϱ, ἐς βάϑος ὕλας || μυϱίον — αἱ σιμαὶ δεῦτ’ ἐφ’ ὕδωϱ ἔϱιφοι) ci sono due apostrofi al bestiame nella forma dell’imperativo ellittico (il tipo b di sopra), una delle quali al nominativo con articolo, che ritroveremo anche al 67 (ταὶ δ’ ὄιες). Ma anche qui c’è qualcosa che non va. Se i nominativi,
|| 44 149 ὃ δ’ αὖ πάλιν, «ecco che ci riòca!» (cfr., per la situazione, 4. 48). 45 41 ἐπύγιζον, 43 πυγίσματος, 87 τòν ἄναβoν… παῖδα μολύνει, 116 sg. ϰατήλασα.... ποτεϰιγϰλίζευ, 147 ὀχευσεῖς. 46 25 ὦ ϰίναδος τύ, 43 ὑβέ, 75–77–79 λάλος, φιλοϰέϱτομος, στωμύλος. 47 23 ὗς ποτ’ Ἀϑαναίαν ἔϱιν ἤϱισεν, 31 οὐ γάϱ τοι πύϱὶ ϑάλπεαι: v. Gow ad locc. 48 149 sg. ἀλλὰ γενοίμαν,…, Μελάνϑιος ἀντὶ Κομάτα. Per la «trasformazione» e la «identificazione» v. ED. FRAENKEL, Elem. plaut. in Plauto2, trad. Munari, Firenze 1960, pp. 21 sgg., 401; da ultimo G. MONACO, Paragoni burleschi degli antichi2, Palermo 1966. Gow ad loc. richiama 4. 62 sg. (anche qui la fine dell’idillio!), che però è un vero e proprio εἰϰάζειν, su cui v. ED. FRAENKEL, op. cit., pp. 162 sgg., 421 sgg.; ad Aesch. Ag. 1629 sgg. — Penso che andrebbero considerati anche fatti come gli iperbati (Sperrungen), la cui natura colloquiale e fortemente espressiva (e non, quindi, aulica!) è ormai certa: v. i materiali raccolti da FRAENKEL, Iktus u. Akz., Berlino 1928, p. 39 sgg. e pass., v. l’indice; ad Aesch. Ag. 13 sg., 156 sg., 1448 sgg., p. 827 sg. e spec, ad 1232, dov’è notata la frequenza di iperbati con pronome all’inizio. Abbiamo un esempio bellissimo di iperbato doppio (a incastro) col pronome personale all’inizio: 8 sg. τ ὶ ν δ ὲ τ ò π ο ῖ ο ν || Λάϰων ἀ γ ϰ λ έ ψ α ς ποϰ’ ἔβα ν ά ϰ ο ς ; (τίν, che è la forma tonica del dativo, è legato ad ἀγϰλέψας: «a te, proprio a te, quale…?»). Sull’iperbato a incastro v. J. RIDDELL, A Digest of Platonic Idioms, Amsterdam 1967 (da The Apology of Plato, Oxford 1867) § 288 sg. Sull’iperbato in generale SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 697 sg. e LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 689 sgg., con bibliografia. L’articolo con ποῖος è, tra l’altro, un ulteriore elemento colloquiale (P. T. STEVENS, «Class. Quart.» 31, 1937, p. 185 sg.). 49 Uno scoliasta interpreta ἰδού. Teocrito veramente usa ἠνίδε: e si potrebbe pensare a ἤν = ἐάν (v. Gow ad loc.). Ma anche nel secondo caso si avrebbe un possibile colloquialismo (in realtà un po’ duro), per la mancanza di una proposizione principale. Per ἤν interiezionale v. P. T. STEVENS, art. cit., p. 189.
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infatti, sono in carattere, il vocativo ὦ τϱάγε, seguito dalla ricca apposizione (la ritroveremo in Verg. ecl. 7. 7 vir gregis ipse caper! V. Gow ad Theocr. e Hosius ad Verg.), ci riporta invece ad un’atmosfera solenne e quasi epica, che è presente anche altrove nel carme in casi per i quali si è perfino pensato, ma senza alcun fondamento, a intenzione ironico–parodistica.50 Tale atmosfera sarebbe, in questo vocativo, totalmente fuori luogo; si tratta del richiamo di un animale, il caprone! Basterebbe la sola presenza di ὦ, che ritroviamo anche in 65 ὦ Λάμπουϱε ϰύον (e pure in una situazione di rilevato richiamo, «non dormire!»), per metterci in sospetto non solo sulla familiarità del nostro anonimo con lingua e vita dei campi, ma anche sul suo ‘orecchio’ teocriteo. La storia della presenza o assenza di ὦ col vocativo non è facile da tracciare in poche parole.51 La difficoltà sta soprattutto nella grande estensione di tempo durante la quale occorre seguire il fenomeno, che, essendo altamente espressivo e capace di numerose sfumature, avrà anche subὶto mutazioni nel tempo. Sembra però che si possa affermare che, almeno dal quinto secolo in poi, la mancanza di ὦ esprima maggior carica affettiva in senso sia positivo sia negativo, mentre ὦ rende l’apostrofe più esteriormente enfatica.52 Schematizzazioni in questo campo sono pericolose, ma una cosa è certa: in Teocrito mai un animale, soprattutto se si tratta del proprio gregge, viene apostrofato con ὦ e vocativo, bensì sempre con una delle forme che abbiamo già incontrate: a) col vocativo, ma senza ὦ: 1. 151 Κισσαίϑα, 5. 1, 145 αἶγες ἐμαί, 3 ἀμνίδες (con σίττα!); Ps.–Theocr. 27. 47 αἶγες ἐμαί, 48 ταῦϱοι; v. Eur. Cycl. 41; cfr. anche 5. 108 ἀϰϱίδες e lo stesso 8. 63 λύϰε.53
|| 50 6 μυϰητᾶν ἐπίουϱε βοῶν Δάφνι, 8 τοιῷδ’ ἀπαμείβετο μύϑῳ, 9 ποιμὴν εἰροπόϰων ὀίων: Kattein, Diss. cit., p. 22 sg. (a vedervi ironia era Ribbeck). Anche Perrotta, art. cit., p. 68 giustamente scarta l’ironia. 51 Importanti i tre articoli di J. A. SCOTT, «Amer. Journ. Phil.» 24, 1903, pp. 192–6 (più GILDERSLEEVE – C. W. E. MILLER, ibid., pp. 197–9); 25, 1904, pp. 81–4; 26, 1905, pp. 32–43 (da Omero a tutto il quinto secolo), su cui si fonda anche J. WACKERNAGEL, Vorles. üb. Synt., I2, Basilea 1926, p. 310 sg.; sono comodamente riassunti in TH. WENDEL, Die Gesprächsanrede im gr. Epos u. Drama d. Blütezeit, Stuttgart 1929, p. 142 sg. 52 SCOTT, «Amer. Journ. Philol.» 24, 1903, p. 196 n. 1; GILDERSLEEVE, op. cit., I, p. 7; KÜHNER– GERTH, I, p. 48 sg.; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 60 sg.; G. GIANGRANDE, «Class. Quart.», 18, 1968, pp. 52–9. 53 Eur. Cycl. 52 ὕπαγ’ ὦ ὕπαγ’ ὦ ϰεϱάστα, se questa è la lezione giusta (v. J. DUCHEMIN, Le Cycl. d’Eur., Parigi 1945, ad loc.), può intendersi sia come interiezione legata al verbo (tipo Ar. Lys. 350 ἔασον ὦ: SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 601), sia, forse meglio, come ὦ + vocativo di aggettivo sostantivato, che secondo Scott è la norma presso i tragici (artt. citt. 25, 1904, p. 82 sg.; 26, 1905, p. 36 sg.). Per questa ragione non credo vada censurato 8. 51 ὦ ϰόλε (se il testo è sano: v. GOW
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b) con articolo e nominativo: 1. 151 αἱ… χίμαιϱαι, 4. 45 ὁ Λέπαϱγος, 46 ἁ Κυμαίϑα (con σίττα!), 5. 100 ταὶ μηϰάδες (con σίττα!); cfr. 5. 110 τοὶ τέττιγες. c) con οὗτος, articolo e nominativo: 5. 102 οὗτος ὁ Κώναϱος ἅ τε Κιναίϑα, 147 οὗτος ὁ λευϰίτας ὁ ϰοϱυπτίλος. In 1. 115 troviamo, è vero, ὦ λύϰοι, ὦ ϑῶες, ὦ ἀν’ ὤϱεα φωλάδες ἅϱϰτοι, ma si tratta di un’invocazione solenne alla natura per la morte di Dafni, fatta da Dafni stesso moribondo! Insomma, al nostro anonimo riconosciamo volentieri la priorità in un certo tipo di idealizzazione della natura e anche la riuscita di alcune sezioni del suo carme: ma ὦ τϱάγε e ὦ Λάμπουϱε ϰύον, p e r d e i r e a l i s t i c i r i c h i a m i che ha pur voluto prendere da Teocrito, sono semplicemente grotteschi.54 Lo Pseudo–Teocrito, com’è ormai chiaro, non rompe del tutto col realismo teocriteo: solo, si ferma a mezza strada, accettando elementi realistici del suo modello, ma cercando di presentarli in una lingua per lui ‘accettabile’. Avanzerei un’ipotesi, che non ho prove per confortare, ma che forse val la pena di formulare: il fraintendimento di σίττα dai due passi del quinto idillio potrebbe essere stato favorito, se non proprio originato, da un’istintiva tendenza ad evitarsi, nella lettura del modello, troppo forti e frequenti ‘traumi’ colloquiali. Quella che ci è sembrato di poter stabilire come la sua ‘lettura’ di 5. 3 e di 5. 100 gli ‘risparmiava’ rispettivamente un imperativo di tipo d) e uno di tipo b), anche se da quest’ultimo non ha sentito il bisogno di rifuggire almeno una volta (49 sg., due casi). Ma all’origine il fatto principale resta senza dubbio la sua ignoranza della vita pastorale. Il nostro imitatore tradisce la sua totale estraneità al mondo dei campi: questo cittadino non ha mai sentito un pastore richiamare le sue bestie e forse nella sua ben protetta stanzetta non lo raggiungeva neanche, dalla strada, il grido degli acquaioli. Inestimabile resta comunque per noi il valore del suo esperimento letterario, se veramente, come abbiamo visto in principio, con lui || ad loc.), sempre al caprone come al 49, ma anche perché il tono qui è diverso (esortazione al caprone a parlare!). 54 Non rientra fra i colloquialismi da discutere qui 2 ὡς φαντί, tipico unpoetisches Wort, che non ha però funzione caratterizzante: è forse la citazione, un po’ pedantesca, di una fonte (Sositeo, sec. PERROTTA, art. cit., p. 74 sgg.). — Forse 16 ποϑέσπεϱα senz’articolo è, invece, cattiva assimilazione di un uso idiomatico, come si vede dall’uso di simili forme avverbiali con articolo nel dialogo teocriteo: 4.3, 5.113 e ancora 1. 15, 3. 3, 5. 13, 126; a 7. 21 va senz’altro accettata la lezione τò μεσαμέϱιον, come fa Wilamowitz. Le forme senz’articolo di 13. 69 e 24. 11, 77 sono invece in parti epico–narrative. Il materiale in KATTEIN, Diss. cit., p. 33 sg. (dove v. anche discussi 1. 20, 5. 71 e 3. 47) e GOW ad 1. 15. Utile A. SVENSSON, Der Gebrauch des bestimmten Artikels in der nachklass. gr. Epik, Lund 1937, spec. p. 61.
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comincia la m a n i e r a bucolica. L’idillio ottavo è testimonianza della fortuna di un genere, che, subendo le rilevanti mutazioni che comincia a subire proprio in questo momento, arriverà attraverso Virgilio alle diverse letterature nazionali europee.55 Ma è anche testimonianza della irripetibilità dell’esperienza teocritea, che era stata una fusione perfetta dell’elemento biotico, rappresentato e da realia veramente vissuti e da una lingua ancora capillarmente sentita, con la sottile volontà stilizzatrice dell’elegante poeta alessandrino: e davvero sembra ragionevole supporre che a dar dignità letteraria a quelli che erano antichi contenuti popolari sia stato proprio lui, Teocrito. Stesicoro ‘inventore’ letterario di Dafni, Epicarmo di Dὶomo, antichi culti dei campi legati con Artemide:56 storia di personaggi e di temi, che i moderni hanno ripresi dagli antichi e che sembravano e sembrano attestare una continuità nelle opere di letteratura (basta pensare alla fortuna del tema del Ciclope pastore e alla famosa parodo, già richiamata, del Ciclope euripideo57). Solo continuità di personaggi e di temi, però. Il genere bucolico vero e proprio entra nella letteratura con Teocrito58 o, tutt’al più, coll’opera comune del cenacolo letterario a cui Teocrito può aver appartenuto.59 Il travisamento, più o meno cosciente, comincia subito dopo di lui.60 Lo Pseudo–Teocrito è abbastanza vicino al suo modello per certa sua intenzione palese di almeno parziale aderenza, sicuramente in conseguenza del successo incontrato dal nuovo genere. Ma ne è abbastanza lontano per aver perso il senso della misura in cui era possibile, rispetto a Teocrito, non solo innovare, ma
|| 55 V. per es. E. R. CURTIUS, Europ. Lit. u. lat. Mittelalter, Berna 31961 (11948), p. 194 sgg. 56 V. le ricostruzioni storiche degli antichi in G. KNAACK, Bukolik, R. E. 3. 1 (1897) coll. 998–1012. Equilibrato sintetico Bericht degli studi moderni è E. G. SCHMIDT, Bukolik, Kl. Pauly, 1 (1964) coll. 964–6. 57 V. da ultimo G. SERRAO, La parodo del Ciclope euripideo, «Museum Criticum» 4, 1969, pp. 50– 62. 58 G. ROHDE, Zur Geschichte der Bukolik, in Studien u. Interpretationen..., Berlino 1963, pp. 71– 90 offre un buon panorama della tematica bucolica preteocritea e conclude (p. 90): Es ist festzuhalten, was ich bereits betonte, dass es keine Bukolik vor Theokrit gibt, dass aber alle Elemente dieser Bukolik zum Greifen bereit lagen, als er auf den Plan trat. Bisognerà comunque sempre tener conto della vecchia ipotesi di Reitzenstein (1893) di una contemporanea scuola bucolica letteraria «peloponnesiaca» (Anite di Tegea e Mnasalca di Sicione, prima metà del III secolo; v. A. S. F. GOW – D. L. PAGE, The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, Cambridge 1965, II, pp. 91, 400) anche per il dibattuto problema dell’Arcadia virgiliana. 59 V. da ultimo B. A. VAN GRONINGEN, «Mnemos.» 11, 1958, pp. 293–317; 12, 1959, pp. 24–53 (spec. 306, 49–53) e soprattutto M. PUELMA, «Mus. Helv.» 17, 1960, pp. 144–64. 60 Per i ‘falsi’ e il problema dell’attribuzione, sia nell’antichità sia ai giorni nostri, v. l’utilissimo panorama di A. RONCONI, Introduzione alla letteratura pseudoepigrafa, in Filologia e linguistica, Roma 1968, pp. 233–63 (già in «S. C. O.» 1955).
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anche conservare: assurdo, infatti, introdurre i pastori e confonderne caratteristiche e compiti, tradendo così il realismo teocriteo, senza un’apparente relazione col nuovo concetto poetico della campagna; inspiegabile il lasciarsi sviare da fatti di lingua che dovevano essere così evidenti (σίττα); e strana la ripresa da Teocrito di elementi realistici di vita quotidiana (i vocativi), espressi in una lingua che sarebbe stata a suo posto in un epillio, non in un idillio bucolico. Ora, accettata la verosimile supposizione che abbia operato in un grande centro, il pensiero corre spontaneo ad Alessandria dove, se ne fosse stato contemporaneo anche più giovane, avrebbe certo potuto conoscere Teocrito, del quale si perdono le tracce prima della metà del terzo secolo. D’altra parte di molto posteriore a lui non può essere, visto che nel secondo secolo Mosco e Bione mostrano già sviluppi ben più autonomi rispetto agl’inizi del genere. Non andremo molto lontani dal vero se lo assegneremo ad ambiente alessandrino della seconda metà del terzo secolo. Risulta così confermata la già convincente ipotesi di Perrotta,61 che, seguendo spunti offerti dagli scoliasti, vedeva in lui un imitatore, oltre che di Teocrito, anche di Ermesianatte e di Sositeo, tre autori press’a poco contemporanei fra loro: lo ζῆλος nei confronti di tutti e tre è facilmente pensabile in un momento non troppo lontano dalla loro ἀϰμή. E Artemidoro, nel raccogliere le Βουϰολιϰαὶ Μοῖσαι σποϱάδες, avrà salvato nell’ottavo uno dei componimenti più riusciti del genere bucolico, scegliendolo forse fra altri di minor levatura.
|| 61 PERROTTA, art. cit., p. 71 sgg.
L’Ila di Teocrito: epistola poetica ed epillio Che Teocrito sia abile ‘contaminatore’ di generi letterari diversi — in questo in accordo con una generale tendenza della letteratura alessandrina — è fatto ben noto1; e da alcuni era stato già osservato che, nell’idillio XIII, l’Ila, i generi contaminati sono due, l’epistola poetica (diretta all’amico Nicia) e l’epillio, colla presenza per di più di elementi descrittivi tipici della poesia bucolica2. Anche il Ciclope, del resto, è nel contempo epistola a Nicia e carme bucolico. Per l’Ila ci sarebbe da aggiungere una caratteristica singolare, e cioè, anche nelle parti epico‒narrative, una lingua di fondo epico più o meno arricchita di elementi dorici, come del resto anche nell’epillio XXIV, l’Eracle bambino (oltre ai carmi XVI, XVII e XVIII, la cui aderenza al genere epico è peraltro più sfumata3): novi|| [Saggio pubblicato in C. U. Crimi – A. Di Benedetto Zimbone – C. Nicolosi (edd.), Studi classici in onore di Quintino Cataudella, II, Catania, Università di Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1972, pp. 279–293] 1 Su di esso, inserendolo in un quadro più ampio, ho messo l’accento in I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, in Bull. Inst. Class. St., London 18 1971 pp. 69–94, spec. 84–6, sviluppando specialmente spunti preziosi di W . K r o l l , Studien zum Verständnis der römischen Literatur, Stuttgart 1924 pp. 202–24. V. anche il recentissimo F . C a i r n s , Generic Composition in Greek and Roman Poetry, Edinburgh 1972, dove l’attenzione è rivolta più ai loci communes o topoi che ai generi (questo lavoro, di grande interesse per un campo di ricerca finora troppo trascurato — v. il mio art. cit pp. 69–74 —, meriterebbe una esauriente discussione). 2 V. per es. P h . – É . L e g r a n d , Étude sur Théocrite, Paris 1898, pag. 428; G . S e r r a o , Il carme XXV del corpus teocriteo, Roma 1962 (Quad. d. Riv. di Cult. Class. e Medioev., 4) p. 11; e da ultimo D . J . M a s t r ο n a r d e , in Trans. Proc. Amer. Phil. Ass. 99 1968, p. 275. Per l’aspetto bucolico, seguendo uno spunto di U . v . W i l a m o w i t z , Die Textgeschichte d. gr. Bukoliker, Berlin 1906, p. 175, ha dato un elenco di tali elementi G . P e r r o t t a , Studi di poesia ellenistica. IV. L’«Ilas» di Teocrito, in St. It. Filol. Class. 4 1925, p. 91 s. (e si veda la ricca ‘presenza’ bucolica in un epillio come l’apocrifo XXV: S e r r a o , op. cit., pass. e Problemi di poesia alessandrina. I. Studi su Teocrito, Roma 1971, p. 109 ss., spec. 150 sia sull’Ila sia sul XXV). Mentre l’epillio è stato riconosciuto nelle sue forme essenziali (basti rimandare a G . P e r r o t t a , Arte e tecnica nell’epillio alessandrino, in At. e Roma 4 1923, pp. 213–29), la storia dell’epistola poetica come genere a sé aspetta ancora di essere tracciata: fondamentali restano ancora gli spunti di K r o l l , op. cit., pp. 216–9; v. anche J . S y k u t r i s , R. E. Suppl. 5 (1931) col. 207s. (e oggi si avrebbe, per l’epistola vera e propria, il prezioso aiuto di K . T h r a e d e , Grundzüge griechisch–römischer Brieftopik, München 1970 [Zetemata, H. 48]). 3 Mentre nel XXII, i Dioscuri, vero epillio pur nella ricca mistione di generi — v. il mio art. cit., p. 85 —, la questione del dialetto è più complessa (forme doriche episodicamente offerte dalla tradizione manoscritta concorde: v. A. S. F. Gow, Theocritus. Ed. with a Transl. and Comm., I– II, Cambridge 19522 ad loc.). https://doi.org/10.1515/9783110648126-052
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tà di grande rilievo, ché il dialetto dorico è tradizionalmente estraneo alla poesia epica. Qui vorrei solo far notare un sottile espediente col quale credo che Teocrito abbia voluto che si avvertisse il passaggio dalla sezione ‘epistolare’ alla sezione ‘epica’. Mi pare che questo sia necessario non solo per riguadagnare un elemento di virtuosismo teocriteo, ma anche per analizzare con più precisione la struttura del carme. Fra quelli, infatti, che hanno riconosciuto la contaminazione dei due generi, alcuni si sono contentati di additarli senza ulteriori precisazioni, mentre altri ne hanno più o meno implicitamente individuato il punto di sutura dov’esso non è. Qual è il punto in cui Teocrito lega i due generi? E in tal punto, ammesso che sia per noi individuabile, Teocrito ha forse ispessito la vis allusive, arricchendola di quelle risonanze dottamente polemiche che sono la base per la ‘strizzatina d’occhio’ dell’alessandrino letteratissimo? Rileggiamo il carme dall’inizio, fornendone una sintetica parafrasi. «Non solo per noi c’è Amore, o Nicia; non siamo noi, semplici mortali, i primi a cui il bello piace. Anche Eracle, l’eroe, amò Ila e lo allevò paternamente, standogli sempre vicino» (l –15)4. E poi continua (16–24): 16
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ἀλλ’ ὅτε τὸ χρύσειον ἔπλει μετὰ κῶας Ἰάσων Αἰσονίδας, οἱ δ’ αὐτῷ ἀριστῆες συνέποντο πασᾶν ἐκ πολίων προλελεγμένοι ὧν ὄϕελός τι, ἵκετο χὠ ταλαεργòς ἀνὴρ ἐς ἀϕνειὸν Ἰωλκόν, Ἀλκμήνας υἱὸς Μιδεάτιδος ἡρωίνας, σὺν δ’ αὐτῷ κατέβαινεν Ὕλας εὔεδρον ἐς Ἀργώ, ἅτις κυανεᾶν οὐχ ἅψατο συνδρομάδων ναῦς ἀλλὰ διεξάιξε βαθὺν δ’ εἰσέδραμε Φᾶσιν, αἰετὸς ὥς, μέγα λαῖτμα, ἀφ’ οὗ τότε χοιράδες ἔσταν.
«Quando Giasone partì per mare alla ricerca del vello d’oro, andarono con lui eroi scelti, e andò anche Eracle, e con lui salì anche Ila sulla nave, che, passando intatta fra le Simplegadi, arrivò al Fasi». Gl’interpreti che se lo chiedono — e sono pochissimi — come risolvono il valore di ἀλλά del v. 16? Gow5 annota; «il nesso logico è che Eracle non lasciò mai Ila (10), ma portò il fanciullo con sé
|| 4 È il caso, qui, soltanto di accennare alle varie interpretazioni del carme che partono dai versi iniziali, prima fra tutte quella, fondamentalmente sbagliata, di Wilamowitz (op. cit., pp. 174– 82), che voleva vedervi un παιδικόν: v. soprattutto P e r r o t t a , Studi cit.; bibliografia in A . K ö h n k e n , Apollonios Rhodios und Theokrit. Die Hylas– und die Amykosgeschichten beider Dichter und die Frage der Priorität, Göttingen 1965 spec. pp. 26–31, che però si occupa della cronologia relativa dei due poeti, su cui v. oltre. 5 V. G o w , ad loc.
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quando si aggregò alla spedizione della nave Argo (21)». E Dover, nel suo peraltro prezioso agile commento6, glossa Gow, informandoci che in greco ἀλλά può mettere in contrasto un enunciato positivo con uno negativo (he was never apart… [10]; on the contrary, when… [16])7. Ora, nel v. 16 ἀλλά non ha alcun valore avversativo (come per es., invece, al v. 5), bensì quello di coordinante semplice, non tale da mettere in rapporto logico quanto precede con quanto segue (e del resto ben faticosa sarebbe la sintassi, per la distanza che separerebbe il v. 10 dal 21, col nesso al 16!). Si tratta invece di un comune nesso di transizione che lega quanto precede a quanto segue in rapporto narrativo: un e s o r d i o n a r r a t i v o che giustappone un argomento all’altro, o meglio una sezione o unità narrativa all’altra. La traduzione giusta è perciò «E quando…», a patto di dare alla coordinazione un valore molto attenuato, che giustificherebbe in una versione moderna addirittura la sua totale omissione8. In Omero, per ‘e quando’ (distinto dal semplice ἀλλά, ‘e’, che può anch’esso legare narrativamente senza una ulteriore determinazione temporale) abbiamo il nesso ἀλλ’ ὅτε δή, praticamente sempre in prima posizio-ne e sempre senza valore avversativo ben 103 volte su 107 che il nesso appare9: basti richiamare il tipicissimo A 493 ἀλλ’ ὅτε δή ῥ’ ἐκ τοῖο δυωδεκάτη γένετ’ ἠώς e la sequenza di ben quattro occorrenze nel breve discorso narrativo di Antenore (Γ 209, 212, 216, 221). Molto più raramente compare invece ἀλλ’ ὅτε, solo 14 volte10, tanto da far pensare che si tratti di un nesso ‘di ripiego’, di un’alternativa crea-
|| 6 K . J . D o v e r , Theocritus. Select Poems. Ed. with an Introd. and Comm., London 1971 ad loc. Il commento, pur selettivo e sommario, è davvero prezioso; si veda poi la brillante introduzione, dove non si sa se ammirare di più la capacità di sintesi o l’intelligenza delle osservazioni particolari (soprattutto nella trattazione della lingua, dello stile, della poesia bucolica in generale). 7 La notazione sarebbe stata giusta per l’ἀλλά del v. 23. 8 Per il valore coordinante generico, e non avversativo, di ἀλλά, solo o in nesso con δή, v. spec. P a s s o w – C r ö n e r t , Wörterb. d. gr. Spr., s. v. (2. Lieferung, Göttingen s. d., ma 1913), II. 2 (abbrechend oder überleitend); J . D . D e n n i s t o n , The Greek Particles, Oxford 19542 pp. 21s., 241 (progressive); A . M e t t e in Lex. frühgr. Epos, s. v. (4. Lieferung, Göttingen s. d.), B. IV. 2, col. 530s. (der ἀ.– Satz führt die Erzählung fort). 9 Mi sono basato su H . E b e l i n g . Lexicon Homericum, Leipzig 1885, s. v. ἀλλά, 15 (ἀ.’ ὅ. δή quibus transitus fit ad nova et inexspectata), che riporta tutte le occorrenze (le mie cifre solo per Il. e Od.); v. comunque anche il Gehring. Sempre all’inizio del verso, eccetto N 145 (h2 w h3); in Φ 1 all’inizio di libro. I quattro casi con valore avversativo, tutti in discorsi diretti e tutti col congiuntivo o l’ottativo, sono Θ 23, X 74, σ 134, υ 138. Per il nesso καὶ τότε (δή), alle volte correlativo, v. E b e l i n g s. v. τότε. 10 Sempre dall’Ebeling. Per irrigidimento in verso formulare (solo odissiaco) v. ε 400 = ι 473, cf. μ 181. Cf. ἀλλ’ ὀπότ’ ἄν, 3 volte; ἀλλ’ ὅτε κεν, 3 volte.
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tasi per comodità metrico–linguistica, nel senso della ‘flessibilità’ formulare di Hainsworth11. Fortemente tipico in Omero resta così solo il primo nesso. In Teocrito lo abbiamo in 24.20 (inizio di verso), in 22.103 (in posizione h2 w h3), mentre in 22.141, oltre che nel nostro 13.16, compare il semplice ἀλλ’ ὅτε: tutti in contesto narrativo e, come si vede, tutti in epilli. Ovvia è poi, in Teocrito, la conservazione di ὅτε omerico in tutti questi nessi (legati come sono alla narrazione epica), così com’esso viene conservato, anche in contesto dorizzante, nelle poche similitudini che troviamo nei suoi carmi epici12. Capiremo meglio qui oltre la ragione della scelta della forma meno frequente in Omero Mi pare evidente che a l v . 1 6 T e o c r i t o a b b i a v o l u t o f a r s e n t i r e c h e p r e n d e v a a v v i o l a n a r r a z i o n e , e cioè la sezione epico–narrativa, l ’ e p i l l i o vero e proprio. È strano che gli editori che usano far capoversi in rientranza non si siano resi conto di questo fatto e abbiano isolato con tale espediente tipografico solo la sezione che comincia al v. 25 (ἆμος δ’ ἀντέλλοντι Πελειάδες, ...), che segue immediatamente a quella riportata qui sopra13. A dire il vero, pare che sia stato Teocrito stesso a portare a questo i suoi esegeti: il v. 25 richiama proprio l’inizio dell’episodio di Ila in Apollonio Rodio (1.1172 ἦμος δ’ ἀγρόθεν εἶσι ϕυτοσκάϕος...). Supponiamo, per ora come semplice ipotesi di lavoro, che il dibattuto problema della cronologia relativa fra Apollonio e Teocrito nella trattazione dell’episodio di Ila sia stato risolto nel senso della priorità apolloniana: torneremo poi sulla questione, verificando l’ipotesi alla luce delle nostre indagini, qui condotte ad altro scopo. Se dunque Teocrito aveva sotto gli occhi il testo di Apollonio, il suo v. 25 non doveva segnare con evidenza l’inizio della sezione epico–narrativa? Direi proprio di no, e per più d’una ragione. Ἦμος–τῆμος è in realtà un nesso di transizione, ovvero un esordio narrativo, che nell’epos svolge una funzione sostanzialmente analoga a quella di ἀλλ’ ὅτε (δή): un altro ‘e quando’, frequentissimo in Omero. Niente avrebbe impedito quindi a Teocrito di usarlo come esordio. Altrove ama variare
|| 11 J . B . H a i n s w o r t h , The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford 1968 (su cui L . E . R o s s i , Gött. Gel. Anz., 223 1971 pp. 161–74, spec. 171–74). 12 Cf. 50 ὡς ὅτε (61 è sicuramente interpolato). Le similitudini sono pochissime in Teocrito, come fatto troppo omerico (v. nell’Ila, oltre 50, 24 e 62s., quest’ultima di tipo paratattico, Gow ad loc.): v. P e r r o t t a , Studi cit., p. 228s. La scelta della forma omerica per esordi e similitudini acquista valore in presenza delle forme doriche in altri casi (per ὅτε / ὅκα v. nel R u m p e l ); e più forte risulta essere il valore del ‘rifiuto’ di ἦμος–τῆμος, su cui v. oltre. Assurde le soluzioni di vecchi editori, che, nel v. 16, scrivevano ...ὅκα...Ἰάσων (Kiessling, 1819) o addirittura ...ὅκα...Ἰήσων (Valckenaer, 1779; Wordsworth, 1844)!! Su Ἰάσων / Ἰήσων ν. oltre. 13 Wilamowitz, 1905; Legrand, 19605; Gallavotti, 19461 e 19552; Gow, (mai.) 19522 e (min.) 1952; Dover, 1971.
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gli esordi dei suoi epilli e delle sezioni narrative dei suoi carmi ‘misti’: comincia con ‘una volta’, ποκ(α) (18.1, 24.1)14, oppure del tutto ex abrupto (22.27 ἡ μὲν ἄρα προϕυγοῦσα ..., la parte narrativa che segue all’‘inno’ ai Dioscuri): e l’anonimo del carme XXV comincerà con un semplice δέ (25.1 τὸν δ’ ὁ γέρων προσέειπε …). Ma qui Teocrito ha voluto far vedere che ‘rifiutava’ il nesso apolloniano come inizio della sua narrazione epica. 1) Lo ha ‘tradotto’ in dorico: ἦμος–τῆμος di Apollonio è diventato ἆμος–τᾶμος. Questa prova non è, di per sé sola, decisiva: Teocrito ha usato queste forme doriche non solo in un mimo (4.61), ma anche in un epillio (24.11 e 13). La prova acquista valore solo se messa in relazione colle due successive. 2) Teocrito ha ‘stravolto’ il valore omerico, qui rispettato da Apollonio, del nesso. In Apollonio infatti si tratta di una determinazione temporale di ora (il tramonto), riferita allo sbarco degli argonauti nella terra Ciania, dove avrà luogo lo smarrimento del fanciullo; mentre in Teocrito la determinazione temporale indica la stagione (l’inizio dell’estate: ἆμος δ’ ἀντέλλοντι Πελειάδες, ἐσχατιαὶ δέ || ἄρνα νέον βόσκοντι, τετραμμένου εἴαρος ἤδη, || τᾶμος …), e serve a inquadrare — come vedremo meglio in seguito — non tanto l’intera spedizione quanto il solo episodio di Ila (fungendo per di più da preludio alle ‘bucoliche’ notazioni di 34 s. e 40–2). Ora, il nesso in questione in Omero si riferisce sempre a determinazione temporale dell’ora (alba, mezzogiorno, tramonto, notte) e mai alla determinazione della stagione15: qui Teocrito ha voluto giocare un brutto tiro all’avversario, magari ricordandogli ironicamente (lui, imitatore di Omero assai meno pedissequo) che altrove (2.516 ss.) si era macchiato proprio di quella violazione dell’uso omerico16. C’è da osservare che questi alessandrini, sul serio (Apollonio in 2.516 ss.) o scherzando (Teocrito nell’Ila), si rifanno in questo all’uso costante di Esiodo (op. 414, 486, 582, 679), vero padre di tanta poesia dell’epoca ellenistica17. 3) All’esordio apolloniano, ‘tra-
|| 14 Come anche Mosco nell’Europa (W . B ü h l e r , Die Europa des Moschos, Wiesbaden 1960 ad 1, p. 47 richiama l’inizio dell’Ecale di Callimaco — fr. 230 Pf. — e Cat. 64. 1 quondam, oltre a Nonn. Dion. 1.46, inizio dell’episodio di Europa; v. anche il materiale raccolto ibid. p. 48 n. 1 e, qui alla fine, l’olim di Prop. 1.20.17). 15 V. Ebeling s. υ. (e anche Λ 86 e μ 39 sono determinazioni di ora, l’ora del pasto: come Ap. Rh. 1.1172 ss.). 16 Altrove ancora Apollonio si serve di altri nessi, anche non correlativi, come ἦμος–ὅτε (4.267 etc.; cf. 1.209 etc.) addirittura per determinazioni temporali generiche (azioni). Del resto Callimaco ignora del tutto l’uso correlativo (cf. Theocr. 4. 61, qui sopra). Mi sono servito degli indici di Wellauer e di Pfeiffer. 17 Sarebbe, questo, un ulteriore elemento nella linea della preferenza, da parte degli alessandrini in generale e soprattutto della corrente ‘callimachea’, per Esiodo come rappresentante della λεπτότης epica (e del resto molto è quello che unisce questi letterali, al di là delle diver-
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dotto’ e deriso con quella che si può ben chiamare quasi una parodia (v. 25), Teocrito ha fatto precedere una sezione aperta dal suo esordio (v. 16), in cui il rispetto della forma omerica (ὅτε) acquista valore in opposizione colla ‘traduzione’ (ἆμος) del passo parodiato. E che Teocrito abbia scelto proprio ἀλλ’ ὃτε per sostituire l’esordio apolloniano non è, poi, un semplice caso: nel poema del suo rivale era presente, pochi versi prima (1.1164), proprio il nesso ἀλλ’ ὅτε δή, che solo indirettamente si può dire che annunci l’episodio di Ila: esso introduce narrativamente lo spezzarsi del remo di Eracle, che sarà la ragione per cui Eracle stesso, nelle Argonautiche, non seguirà il fanciullo che andrà a prendere l’acqua per il bivacco. Un antefatto episodico, che serve da premessa solo a un particolare modo di svolgimento della successiva azione; nessun dubbio, quindi, sul preciso esordio apolloniano di Ila, che resta l’ἦμος di 1.1172 (come del resto tutti gli editori hanno messo tipograficamente in rilievo). Ma altrettanto indubbia risulterà l’intenzione allusiva teocritea, che ha riutilizzato materiale omerico–apolloniano quasi contestuale18 — ἀλλ’ ὅτε (δή) — dando ad esso una più marcata funzione di esordio narrativo19. Non vedo altra ragione, in Teocrito, per preferire per il suo vero esordio un nesso all’altro se non la qui ricostruita ed interpretata ‘occasione’: se Apollonio avesse cominciato l’episodio di Ila con ἀλλ’ ὅτε (δή) e Teocrito avesse voluto deriderlo, avrebbe forse cominciato il suo Ila con ἦμος–τῆμος (conservando la forma omerica), facendolo seguire magari da un ἀλλ’ ὅκα. Come a mostrare che, pur sapendo essere ‘moderni’, si può e si deve essere omerici quel tanto che basti. A questo punto, posta la relativa intercambiabilità dei due nessi di transizione, può venire il dubbio che Teocrito abbia voluto presentare due esordi: quello iniziante con 16 (ἀλλ’ὅτε) e quello iniziante con 25 (ἆμος). Ma anche qui dobbiamo fare i conti col suo virtuosismo, che conduce lì per lì sottilmente in inganno, presentando poi la soluzione con un elegante ἀπροσδόκητον. Parafra-
|| genze di scuola). Fondamentale sull’argomento resta E. Reitzenstein, Zur Stiltheorie des Kallimachos, in Festschrift R. Reitzenstein, Leipzig u. Berlin 1931 pp. 23–69. 18 Del tutto casuale mi sembra invece che in Apollonio la ‘sezione ἀλλ’ὅτε δή’ sia di otto versi e in Teocrito di nove. Questa potrebbe essere l’unica prova di rapporto cronologico inverso (giacché Teocrito non si comporterebbe certo con Apollonio al modo che quest’ultimo fa con Omero, come hanno mostrato a suo tempo Merkel e Perrotta: la ripetizione a distanza simile sarebbe quindi un processo da vedersi nella direzione da Teocrito ad Apollonio): ma, per un Apollonio che ricalcasse Teocrito (il quale ultimo non sarebbe poi un ‘sacro testo’ come Omero), otto versi invece di nove sarebbero pur sempre una bella trasgressione della pedanteria di rito! 19 Non so se si può dar valore al fatto che Apollonio usa di rado ἀλλ’ ὅτε δή iniziale: solo in 1.1164, 3.1201, 4.1537, 1731 (si veda come invece lo varia, non omericamente, per es. in 4.1206–9 τῶ καὶ ὅτ’… δὴ τότε…).
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siamo 25 ss.: «Quando sorgono le Pleiadi e avviene il passaggio all’estate, allora gli eroi pensarono a mettersi in viaggio e, sistematisi sulla nave Argo, …»: sembra una ripetizione della enunciazione del tema, già data in 16 ss. Ma lo è solo apparentemente, o meglio lo è solo fino al punto in cui siamo arrivati colla nostra parafrasi (28), ché poi continua: «arrivarono in tre giorni all’Ellesponto e gettarono l’ancora nella Propontide, nel paese dei Ciani. Sbarcati sulla spiaggia, …». È chiaro che, nonostante l’apparenza data dai vv. 25–8, la sezione che comincia con 25 ha solo la funzione di introdurre, con una formula di passaggio narrativo (ἆμος), lo specifico episodio dello smarrimento di Ila; mentre la sezione 16–24 teneva luogo di vero e proprio incipit della sezione epica, annunciando, senza legame a situazioni o episodi particolari, il tema della spedizione degli argonauti. Si noterà che fin qui avevo evitato il termine preciso di incipit: mi par giusto riservarlo, in tema di composizione epica sia in grande (Omero e Apollonio) sia in piccolo (epillio teocriteo e genericamente alessandrino), a quel ‘ s e g n a l e ’ che annuncia inizialmente l’uso di un certo ‘c ο d i c e ’ («C’era una volta», come formula iniziale, fa capir subito al lettore o all’ascoltatore, colla sua virtù connotativa, che ci si trova di fronte ad una favola, con tutto il suo codice di convenzioni). Ora, il valore di incipit epico nell’epillio teocriteo, il segnale dell’uso del codice epico è dato dal v. 16 e da tutta la sezione 16–24, che riassume l’azione delle Argonautiche (partenza, passaggio delle Simplegadi e arrivo al Fasi). Già questo è apparso chiaro da un confronto interno della funzione delle due sezioni (16–24 e 25 ss.). Ma altre conferme ci vengono da considerazioni esterne. È il caso di ricordare qui il forte richiamo allusivo del v. 16 di Teocrito al quarto verso delle Argonautiche stesse, di cui vale la pena riportare tutto il proemio (1.1–4): ἀρχόμενος σέο Φοῖβε παλαιγενέων κλέα ϕωτῶν μνήσομαι οἳ Πόντοιο κατὰ στόμα καὶ διὰ πέτρας Κυανέας βασιλῆος ἐϕημοσύνῃ Πελίαο χρύσειον μετὰ κῶας ἐύζυγον ἤλασαν Ἀργώ.
Già Perrotta20 aveva dato particolare rilievo a questo parallelismo allusivo e aveva mostrato come Teocrito avesse, a breve distanza, ‘smontato’ il verso apolloniano, distribuendolo fra il 16 (χρύσειον … μετὰ κῶας) e il 21 (εὔεδρον ἐς Ἀργώ): sostituendo per di più un aggettivo ‘suo’ all’omerismo apolloniano ἐύζυγον (v. Gow, ad loc.). Noi possiamo aggiungere che lo smontaggio del verso apolloniano avviene proprio nell’ambito della vera sezione introduttiva ovvero || 20 P e r r o t t a , Studi cit., p. 88.
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del ‘proemio’ teocriteo (16–24). Il suo procedimento è chiaro: ‘rifiuto’ del v. 1 (invocazione alla divinità, da grande epos), sostituzione del v. 1 col 4 (Theocr. 16), a cui segue il contenuto dei vv. 2 e 3 (Theocr. 17 ss.: argomento del poema, la spedizione). Che Teocrito avesse in mente il proemio delle Argonautiche è così più che certo: e non vale obiettare che per la clausola (μετὰ) κῶας Ἰάσων aveva presenti altri tre versi apolloniani (2.211, 871, 3.2), giacché si risponderà che, sì, poteva aver presenti anche quelli (o almeno i due del secondo libro, per le vicende compositive del poema apolloniano), ma sicuramente in via secondaria21. Oltre allo smontaggio messo in luce da Perrotta, chi conosce i procedimenti degli alessandrini non troverà casuale che, fra questi versi, solo in quello teocriteo e in quello del proemio apolloniano il vello sia «d’oro» (χρύσειον… κῶας). C’è poi una conferma ulteriore. Teocrito ha assolto ai suoi doveri di poeta epico in piccolo in maniera più ampia che col solo alludere all’incipit del suo rivale. Col v. 17 s. («con lui — Giasone — andarono, da tutte le città, eroi scelti, ὧν ὄϕελός τι»), sempre nella nostra sezione proemiale, si è sbrigativamente liberato del prolisso catalogo apolloniano (1.20–227), che faceva parte anch’esso della precettistica compositiva del grande epos: un elemento inconciliabile colla brevità dell’epillio. Direi che anche qui l’allusività scherzosa è certa: ὧν ὄϕελός τι viene definito da Gow (ad loc.) «espressione prosastica», sulla base di opportuni esempi. Un’espressione quasi di fastidio, che tronca prima del nascere il noioso catalogo. Un unpoetisches Wort che abbassa inaspettatamente il registro stilistico e la cui funzione è spiegabile solo in termini di allusività polemico–scherzosa (allusività — in questo caso — di segno negativo: si allude a quello che si tralascia). «Andarono tutti quegli eroi che avevano una funzione nella spedizione: ed è inutile — anche se siamo nel mio proemio — che ve ne dia l’elenco, visto che lo ha già fatto Apollonio»22. Richiamo ad un proemio, dunque, come quello apolloniano, della grande epica di struttura omerica: un proemio che si presentava nella forma canonica d’invocazione alla divinità e di annuncio del tema, seguito da un orpello tradizionale come un catalogo di eroi. Teocrito, che non scriveva un poema epico ma solo un epillio, ha eliminato l’invocazione e il catalogo e ha inserito la menzione del tema generale (la spedizione) in una semplice clausola temporale, che
|| 21 V. in K ö h n k e n , op. cit. p. 27 anche i paralleli con Pind. P. 4. 68s. e Herodot. 7. 193. 2. Ricorderei anche Mimn. fr. 11. 1 (Bgk = D. = West) οὐδέ κοτ’ ἂν μέγα κῶας ἀνήγαγεν αὐτὸς Ἰήσων. Mi par certo che si debba scrivere, in Teocrito, Ἰάσων (cf. 67 e v. sopra, n. 12), pur col solo Laur. Conv. Soppr. 158. 22 «Teocrito pensa forse alle imprese individuali che guadagnarono ad ognuno degli argonauti la sua funzione, per es. al boxing di Polluce», nota ingenuamente Gow ad loc.
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serve solo d’introduzione generale a quello che sarà il suo tema, il tema del suo piccolo epos, e cioè l’episodio del ratto di Ila. La clausola temporale ἀλλ’ ὅτε (δή) l’abbiamo definita prima come un esordio narrativo coordinante varie unità narrative. Qui essa non coordina, giacché non è preceduta da altre unità narrative, bensì segna un inizio. È in questo senso che possiamo ormai chiaramente parlare di incipit, o meglio di p r o m o z i o n e i n c i p i t a r i a di quella che nell’epica di tipo omerico era soltanto una f o r m u l a d i t r a n s i z i o n e . È come una professione di fede letteraria, implicita rispetto alle altre esplicite di lui stesso e di Callimaco, ma anche questa certamente non priva di vis polemica nei confronti dell’avversario: l’autore di epilli, e cioè il letterato ‘moderno’, comincia con una tipica formula di transizione omer i c a a raccontare la sua breve storia. L’esordio narrativo è diventato così come un i n c i p i t i n t o n o m i n o r e , adatto alle minori dimensioni dell’epillio, che isola in un breve componimento solo una piccola sezione della vasta materia narrativa epica23. Ho ragionato fin qui come se la priorità apolloniana rispetto a Teocrito fosse pacifica: essa in realtà non lo è ancora del tutto, ma i critici più avvertiti l’hanno da tempo affermata sulla base di numerosi altri elementi24. Gli argomenti qui addotti ne sono, a mio parere, una valida conferma: Teocrito ha lavorato avendo sotto gli occhi il poema del suo rivale (o almeno i primi due libri). I paralleli verbali sono spesso reversibili, quando siano isolati: ma la fitta trama di corrispondenze che qui sono venute alla luce, per ognuna delle quali è così facile capire l’intenzione allusiva, è tale da consentire solo una derivazione unidirezionale, da Apollonio a Teocrito. Specialmente il modo con cui Teocrito ha costruito il suo ‘proemio’ (16–24) e lo ha intenzionalmente giustapposto alla sezione introduttiva dell’episodio vero e proprio (25 ss., con ἆμος), il tutto sulla falsariga della realizzazione apolloniana, fa credere che T e o c r i t o s t e s s o abbia voluto contrapporre le sue Argonautiche, l’Ila, a q u e l l e d e l r i v a l e : epillio contro epos, in confronto diretto. Questo sarebbe più verosimile se egli non avesse ancora composto l’altro suo epillio di argomento argonautico, i Dioscuri. Possono le nostre considerazioni valere
|| 23 «Rapere in medias res è legge generalissima dell’epillio»: Perrotta, Arte e tecnica…, cit. p. 216. 24 V. spec. Perrotta, Studi cit. e Serrao, Problemi cit. pp. 109–50 (da Helikon 5 1965 pp. 494–518, con aggiunte; l’aggiunta di maggior rilievo è una ulteriore fortissima prova, quella fondata su 48 ἐξεϕόβησεν e Ap. Rh. 1. 1232, pp. 140–43, da Quad. Ist. Filol. Gr., Cagliari 3 1968 pp. 56–8).
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anche come conferma della cronologia relativa interna a Teocrito Ila–Dioscuri. già proposta su altra base?25. Resta ora solo da chiedersi perché Teocrito abbia usato il nesso ἀλλ’ ὅτε, di tanto più raro in Omero, invece del più frequente ἀλλ’ ὅτε δή. La necessità o anche solo l’utilità di ricorrere alla forma più rara come alternativa (cf. 22.141 ἀλλ’ ὅτε τύμβον ἵκανον …) è qui totalmente esclusa: invece di dire ἀλλ’ ὅτε τὸ χρύσειον …, Teocrito avrebbe potuto benissimo dire ἀλλ’ ὅτε δὴ χρύσειον … L’essere omerico a metà è quindi per lui una precisa scelta: scelta che altre volte è riconoscibile nella sua opera, quando l’allusione omerica per esempio si realizzi addirittura a spese della coerenza logica e narrativa26. Qui essa si realizza a spese della coerenza linguistico–stilistica: e non solo e non tanto per la scelta del nesso meno frequente, quanto per la forzata e ‘voluta’ inserzione dell’ a r t i c o l o . Un’analisi precisa dell’uso del vero e proprio articolo è notoriamente difficilissima già in Omero, dove il valore dimostrativo originario sfuma quasi insensibilmente nel più tardo valore determinativo27: tanto più essa è difficile in autori come gli esametrici ellenistici, nei quali la più o meno decisa epicità del dialetto letterario concorre con fatti di lingua contemporanea (basta pensare all’estendersi della cosiddetta correptio Attica). Studi sull’uso dell’articolo negli epici post–classici sono stati fatti28 e hanno portato a un risultato interessante,
|| 25 Da P e r r o t t a , Studi cit. pp. 114–8, sulla base specialmente della climax polemica nei confronti di Apollonio (v. spec. p. 117). 26 V. i casi analizzati da G . S e r r a o , Incoerenze e imitazioni omeriche in Teocrito (X 12 e II 4, 157), in Problemi cit. pp. 91–108 (da Helikon 3 1963 pp. 437–47, con aggiunte). Naturalmente questi ultimi sono casi di a l l u s i v i t à s e m p l i c e (a passi determinati), mentre il nesso che stiamo discutendo è un caso di a l l u s i v i t à ‘ z e l o t i c a ’ o e m u l a t i v a (allusione alla tecnica strutturale di un genere letterario determinato, e cioè del poema epico): mi servo delle categorie opportunamente distinte, in riferimento al famoso articolo di Pasquali, da G . B . C o n t e , Memoria dei poeti e arte allusiva, in Strumenti critici 1971 pp. 325–33. G . S a n t a n g e l o , L’«incipit» dell’«Inno ad Apollo» di Callimaco: ζῆλος alessandrino e coerenza strutturale, in Giorn. Ital. di Filol. 3 1972 pp. 52–62, ha recentemente messo in rilievo un nuovo procedimento di tal genere in Callimaco. 27 P . C h a n t r a i n e , Gramm. Hom., II, Paris 1953 pp. 158–68: Sur ce point comme sur d’autres, la langue épique n’a pas d’unité (p. 166). La miglior trattazione diacronica dell’uso dell’articolo da Omero agli attici è quella di K ü h n e r – G e r t h , I pp. 575–640. 28 V. spec. A . S v e n s s o n , Der Gebrauch des bestimmten Artikels in der nach klassischen griechischen Epik, Lund 1937, che sviluppa spunti di A . W i f s t r a n d , Kritische u. exegetische Bemerkungen zu Apollonios Rhodios, Lund 1929 (in Kungl. hum. Vetensk. Arsberättelse, III, 1928–29); per Teocrito Sv. dichiara di fondarsi su W . G . L e u t n e r , The Article in Theocritus, Diss. Baltimore 1907 (che non ho potuto vedere). Mi servo qui dei dati di Svensson, pp. 65–9 (che non calcola 13. 17, evidentemente in qualità di chiaro dimostrativo omerico). Per ulteriore bibliografia v. S c h w y z e r – D e b r u n n e r p. 19.
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anche se già scontalo in partenza: Teocrito usa molto di più l’articolo nelle composizioni non epico–narrative (idilli bucolici, mimi etc.), mentre negli epilli omerizza, usandolo meno, ma in misura diversa. L’Ila, che è anche il più ‘dorico’, ha il maggior numero di articoli (19 su 75 vv.) 29. Ora, ben undici sui diciannove si trovano nei primi quindici versi, l’‘epistola’ a Nicia. Essi sono: 1 τὸν Ἔρωτα, 3 τὰ καλὰ, 4 τὸ δ’αὔριον, 5 Ἀμϕιτρύωνος ὁ χαλκεοκάρδιος υἱός, 11 ἁ λεύκιππος… Ἀώς, 14 ὁ παῖς, e per intero riporto 6 s.: ὃς τὸν λῖν ὑπέμεινε τὸν ἄγριον, ἤρατο παιδός, τοῦ χαρίεντος Ὕλα, τοῦ τὰν πλοκαμῖδα ϕορεῦντος
Abbiamo qui due ripetizioni in posizione attributiva (6 τὸν… τὸν…, 7 τοῦ… τοῦ…) e un doppio articolo in contiguità (7 τοῦ τὰν…): due fatti caratteristici della lingua prosastica30, senza contare la contemporanea presenza di un relativo (6). A parte ulteriori tentativi di valutare l’‘ammissibilità’ omerica dei singoli casi31, in tutta questa prima parte notevole è proprio la sola alta frequenza, il forte ‘ a g g l o m e r a t o ’ 32. Nel resto, nell’epillio vero e proprio, gli altri otto articoli sono distribuiti in modo abbastanza uniforme (16, 19, 36, 46, 59, 66, 67, 68), e su ben 60 versi. Anche un test linguistico ristretto come quello qui offerto può rivelare una rilevante differenza di tessuto linguistico fra le due sezioni, che è poi la differenza di stile fra due generi letterari diversi33. Fatti simili sono stati del resto osservati anche in Callimaco: nelle parti ‘mimiche’ dei suoi inni la frequenza dell’articolo è molto più alta che nelle parti narrative, ma essa è relati-
|| 29 Nel XVI 5 su 109 vv.; nel XVII 16 su 137 vv.; nel XXII 10 su 223 vv.; nel XXIV 8 su 140 vv. (senza contare il supplemento apportatoci dal Papiro di Antinoe, lacunoso). Prendo sempre da Svensson, che nelle cifre complessive non distingue casi più o meno omerici e casi più o meno influenzati dalla filologia alessandrina (ὦλλοι etc.). 30 K ü h n e r – G e r t h , I p. 613 s. Svensson porta paralleli interni a Teocrito: per il primo fatto 3.35, 4.20, 5. 143, 15. 127; per il secondo 3.49, 14.53, 15.77, 126 (tutti in contesti non epici!). 31 Tale valutazione, in sé difficile, non farebbe che turbare il già di per sé significativo rilevamento statistico, deformandolo in maniera incontrollabile. Quel che conta qui è l’alta frequenza relativa. Per casi omerici di articolo v. comunque K ü h n e r – G e r t h , I pp. 579–31. E può essere interessante far notare il particolare valore ‘affettivo’ dell’articolo, già omerico, in 14, 59 ὁ παῖς, 46 ὁ κοῦρος (e v. ancora 24. 105, 135; cf. Hom. ὁ γέρων, ὁ γεραιός, ὁ ξεῖνος etc.: S v e n s s o n , loc. cit.; g i à i n W i f s t r a n d , art. cit. p. 23s. = 95s.; cf. C h a n t r a i n e , II p. 164). 32 Svensson considera tutto 1–24 come una Vorgeschichte diretta a Nicia (allo stesso modo degli editori di cui sopra), ma in 16–24 di articoli ne ha solo due, contro — ripeto — gli undici di 1–15. Lo si può confutare anche col solo suo argomento. 33 Le differenziazioni stilistiche dei vari generi sono ancora poco studiate: v. R o s s i , art. cit. all’inizio, p. 87 n. 2.
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vamente molto alta anche nella parte introduttiva dell’Inno ad Apollo, pur così omerica nella tematica e nell’allusività verbale34: un ulteriore virtuosismo callimacheo, in quest’ultimo caso, sempre basato sull’uso (o abuso!) dell’articolo. Il v. 16, colla sua omericità e ad un tempo col suo modernismo linguistico, l’articolo, che non offusca l’intenzione emulativa e che la rende, anzi, ancor più marcata e intenzionale, si presenterebbe così, all’inizio della sezione epico– narrativa, come una specie di ‘accordo comune’ (prendo l’immagine dalla teoria dell’armonia musicale), che modula stilisticamente dall’epistola all’epillio35. Ma τò χρύσειον… κῶας è sicuramente portatore di un altro tipo di pointe. Già in Omero l’articolo può avere il valore, fortemente anaforico e rivolto al di fuori del contesto immediato, di ‘il famoso’, ‘quel famoso’: valore che diventa poi sempre più usuale e frequente36. L’espressione varrebbe così « i l f a m o s o , i l f a m i g e r a t o v e l l o d ’ o r o » , e, riferito al poema di Apollonio, sarebbe una specie di pindarico Διὸς Κόρινθος, una ulteriore — e questa volta ancor più violenta — allusione polemica. La concorrenza letteraria, impostata sulla contrapposizione strutturale diretta epillio–epos così come abbiamo cercato d’illustrarla sopra, avrebbe qui uno dei suoi momenti di maggior tensione e la contrapposizione di scuola assumerebbe qui più che mai la forma, del resto consueta in epoca alessandrina, di antagonismo personalistico. Mi rendo conto tuttavia del fatto che una tale pregnanza allusiva si può solo proporre, non provare. Le considerazioni qui fatte sull’uso dell’articolo sono del resto solo delle controprove e delle conferme eventuali di fatti già in precedenza provati, altrove da altri e qui da noi: le prime, statistiche, della precisa divisione del carme; l’ultima, sintattico–stilistica, della priorità apolloniana. Chi volesse rifiutarle non potrebbe comunque sottrarsi al riconoscimento, ottenuto sulla base degli esordi narrativi, di quella che appare ormai essere la chiara s t r u t t u r a a d i t t i c o del carme teocriteo, coll’evidente p u n t o d i s u t u r a , il v. 16, delle due sezioni ovvero dei due diversi generi letterari contaminati: l ’ e p i s t o l a p o e t i c a e l ’ e p i l l i o . Anche Properzio nella sua elegia 1.20, dedicata al mito di Ila, si rivolgerà all’inizio in tono epistolare–parenetico al suo amico Gallo (1 hoc pro continuo te, Galle, monemus amore), come aveva fatto
|| 34 S a n t a n g e l o , art. cit. p. 60s. 35 V. in C a i r n s , op. cit. all’inizio, p. 161 un interessante caso di link–passage topico in Ov. am. 2.11. 36 C h a n t r a i n e , II p. 164: S c h w y z e r – D e b r u n n e r pp. 22, 24s. Sul valore sostanzialmente anaforico dell’articolo in tale uso (anafora che può dirigersi anche al di fuori del contesto: ‘il famoso’, ‘quello di cui tutti parlano’) particolarmente chiaro è K ü h n e r – G e r t h , I pp. 598–602 (la formulazione a p. 598).
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Teocrito con Nicia37, e anche Properzio farà sentire chiaramente il passaggio alla narrazione (17 namque ferunt olim…). Ma la Ringkomposition epistolare, ottenuta colla rinnovata apostrofe finale a Gallo (51 s. his, o Galle, tuos monitus servabis amores || formosum Nymphis credere visus Hylan), fa del suo carme non un ricalco della giustapposizione teocritea dei due generi, bensì, appunto, un’elegia di poeta latino38, sia pure alle prime armi e più che altrove cliens dei poeti alessandrini39.
|| 37 Sicura resta comunque una fonte alessandrina diversa da Apollonio e da Teocrito (Callimaco?), come ha mostrato A . L a P e n n a , Properzio, Firenze 1951 pp. 139–43. Quanto all’identificazione di Callimaco v. le parziali obiezioni di S e r r a o , Problemi cit., pp. 134–40. 38 L a P e n n a , op. cit. pp. 136–8, esclude giustamente che si possa parlare di epillio. V. anche Sesto Properzio, Elegie. Traduz. e note di G a b r i e l l a L e t o . Con un saggio introduttivo di A . L a P e n n a , Torino 1970 p. XXXVs. e la nota della L e t o a p. 63.1. 39 Per questo lavoro devo molto a più d’un amico. La mia gratitudine va a tutti, ma specialmente ad Alan H. Griffiths, che lo ha arricchito di contributi di particolare rilievo.
La valutazione etico–sociale della povertà. Modi del manierismo epico e bucolico alessandrino Per orientarsi sul luogo e sui termini dell’opposizione ‘povertà/ricchezza’ in Grecia dall’età arcaica, attraverso l’età classica, fino all’età ellenistica, è opportuno dare in partenza un punto di riferimento terminologico: se πλοῦτος è riconducibile ad una approssimativa traduzione moderna ‘ricchezza’, la corrispondenza πενία = ‘povertà’ rende assai minor giustizia ai contenuti. Πένης non è il ‘povero’ in senso nostro, bensì colui che vive del proprio lavoro: è notevole come la parola conservi tale valore nel corso dei secoli, mantenendolo immutato attraverso vari cambiamenti di cultura. Ora, nella scala socio–economica l’opposto polare rispetto alla ricchezza sarebbe quello che noi chiamiamo più precisamente miseria e che i greci rendono col concetto di accattonaggio, πτωχεῖα. Sappiamo quindi che cosa si intende quando qui si parlerà di ‘povertà’. Per l’indagine socio–economica i due estremi sarebbero oggi ricchezza/miseria. Ma per la valutazione etico–sociale e più genericamente culturale le cose stanno diversamente. L’opposizione πλοῦτος/πενία si presenta già di per sé come autosufficiente e polare, mentre la πτωχεῖα tende a restar fuori dal sistema dei valori come condizione sub–umana, incidentalmente condannata come tale e destinata a non emergere neppure al livello di una valutazione comparativa rispetto alle altre due. Abbiamo parlato di tendenza: perché vedremo che la realtà è più varia, a seconda di tempi e soprattutto di luoghi. Nelle pagine che seguono l’assunto principale sarà quello di centrare l’assunzione della tematica della povertà – e della povertà vista positivamente – in due opera letterarie alessandrine, l ’ i d i l l i o X X I d e l c o r p u s t e o c r i t e o e l ’ E c a l e d i C a l l i m a c o . Si tratta, a quanto credo, delle due opere che per prime assumono tale tematica come centrale e d i s t i n t i v a del codice letterario a cui appartengono, rispettivamente l ’ i d i l l i o b u c o l i c o e l’epica. La tematica della povertà entra a far parte distintiva del codice letterario dopo che, nella valutazione etico–sociale, l’opposizione polare povertà/ricchezza ha subìto un ribaltamento. In età arcaica e classica è la ricchezza ad
|| [Conferenza letta presso le Università di Siena Mt 3.5.1977, Pavia Mt 10.5.1977, New York Columbia L 28.8.1978, Stanford Mc 8.11.1978, Milano Cattolica Mt 8.3.1983, e Napoli “L’Orientale” Mt 19.4.1983; l’ultima stesura risale al 1983. – Inedito, ritrovato da Elena Rossi tra le carte del padre; cura del testo e parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648126-053
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avere valore positive; nel corso del IV secolo si fa strada nella filosofia (cinica!) una valutazione positive della povertà, ed è come tale che poco più tardi, in età ellenistica, diventa protagonista di un nuovo codice letterario. Innovazioni e sopravvivenze in letteratura avvengono in sintonia con una realtà storica che funge da inevitabile referente: risulterà significativo che la tematica della povertà connotata positivamente sia ambientata, come luogo letterario, nella campagna o comunque nella non–città (i pescatori dello Pseudo– Teocrito, come espressione della fortuna del genere bucolico). Non è la prima volta che questo fatto viene messo in relazione coll’ipertrofia urbanistica dell’epoca ellenistica, che guarda alla campagna con nostalgia tipica di una cultura che diviene sempre più urbana. Come controprova servirà l’evidente stilizzazione manieristica con cui la realtà non urbana, coi suoi valori peculiari, viene presentata letterariamente. Un risultato secondario consisterà nel mostrare non solo che il sistema povertà/ricchezza, così come l’ho delineato or ora, presenta tracce di ribaltamento dei valori anche prima del IV secolo; ma anche che la povertà connotata positivamente affiora anche nella letteratura anteriore all’Ellenismo, sia pure solo come motivo episodico, senza cioè esser parte integrante del codice. Tali voci, che si lasciano cogliere saltuariamente senza costituirsi in sistema organico, provengono da strati sociali che non hanno avuto portavoci autonomi, ma che hanno fatto emergere indirettamente un loro patrimonio dossografico–etico. Solo nel IV secolo tale patrimonio è stato fatto proprio dalla filosofia e solo nel III è entrato in forze nella produzione letteraria. ***** Il carme XXI del corpus teocriteo (Ἁλιεῖς ovvero I pescatori) è sicuramente apocrifo per più d’una ragione. Ma è proprio in tale qualità che esso presenta per noi un interesse speciale: ci permette infatti di seguire un ulteriore passo in avanti della fortuna del genere bucolico, che, come ha convincentemente dimostrato Serrao1, è stato inventato da Teocrito, il quale nell’idillio VII ne fa la sua chiara autodichiarazione di εὑρετής. Qualche anno fa, a proposito dell’altrettanto apocrifo carme VIII, ho parlato di ‘maniera’ bucolica dei più tardi seguaci del genere2. Qui non ripasseremo in rassegna le ragioni linguistiche, stilistiche e metriche che convincono della non autenticità del XXI: lo prenderemo solo come punto di partenza per una veloce rassegna di un topos che, a quanto so,
|| 1 G. Serrao, Problemi di poesia alessandrina, I: Studi su Teocrito, Roma 1971, 61–68. 2 L. E. Rossi Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo, «SIFC» 43, 1971, 5–25.
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non è stato ancora sufficientemente individuato e ‘datato’, quello della ‘ p o v e r t à v a g h e g g i a t a e v e z z e g g i a t a ’ , in altre parole del ‘ p o v e r o ’ e del ‘piccolo’ visti con connotazioni positive, anzi a d d i r i t t u r a a m a b i l i . La situazione del testo è cattiva, ma per i nostri scopi sorvoleremo sulle numerose cruces. Mi atterrò prevalentemente al testo di Gow. Il carme comincia in forma di epistola poetica (come l’XI, il Ciclope, e il XIII, 3 l’Ila ; il VI è meno evidente in tal senso, avendo solo un’apostrofe ad Arato al v. 2). “La povertà (πενία), o Diofanto, è la sola a risvegliare le arti (τὰς τέχνας); è essa sola ad insegnar la fatica, tenendo svegli i lavoratori colle preoccupazioni che dà” (vv. 1–5). E qui comincia l’idillio vero e proprio, che dopo la descrizione dell’ambiente in cui vivono due pescatori, li porta in scena con un dialogo in forma diretta. Parafrasiamo anche queste due sezioni, riservando una traduzione letterale solo ad alcuni passi chiave: “Due vecchi pescatori stavano stesi sul loro giaciglio di muschio nella loro capanna: vicino ad essi gli strumenti del mestiere (vv. 6–8) e qui un lungo elenco (9–13): q u e s t i s o n o p e r i pescatori tutta la loro risorsa, tutta la loro ricchezza; non hanno catenacci né porta né cane; queste cose sembravano supeflue a loro, giacché a proteggerli era la loro stessa povertà; né avevano vicini, giacché il mare, stringendo da presso la terra, lambiva la loro c a p a n n a (vv. 14–18). Circa a metà della notte, svegliati dalla loro stessa fatica, si mettono a parlare” (vv. 19–21). ASFALIONE: “Mentono quelli che dicono che le notti d’estate sono più brevi: ho già fatto un’infinità di sogni e l’aurora non viene mai”. IL COMPAGNO: Ma Asfalione, è la nostra stanchezza e fatica che, svegliandoci, ci fa sembrare lunga la notte”. ASF.: “Sai interpretare i sogni? Perché ne ho visti di belli e vorrei raccontarteli”. Il compagno lo invita a raccontare e Asfalione racconta, non senza aver ricordato che si sono coricati al tramonto, stanchissimi dopo un magro pasto (v. 40s.). Il contenuto del sogno è il seguente: Asfalione ha pescato un pesce d’oro ed ha giurato di non far più il pescatore, ma di servirsi delle ricchezze che l’oro gli procura; poi, al risveglio, teme che il giuramento di non far più il pescatore lo leghi per sempre. “Non aver paura – gli risponde il compagno – il tuo giuramento vale come il pesce che hai pescato, e cioè nulla di nulla: sono tutte cose sognate” (vv. 22–67). Il topos principale del carme è, come si vede, la povertà, che è addirittura la parola–chiave d’apertura (v. 1): || 3 Vd. L. E. Rossi, L’Ila di Teocrito: epistola poetica ed epillio, in Studi classici in onore di Quintino Cataudella, II, Catania 1972, 279–293.
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ἁ πενία, Διόφαντε, μόνα τὰς τέχνας ἐγείρει.
In quella che a tutt’oggi è rimasta per ottant’anni l’unica monografia su Teocrito concepita su arga scala, l’Étude sur Théocrite (Paris 1898), Ph.–É. Legrand affermava (p. 3s.): La tendenza a filosofeggiare su miserie umane che non siano l’amore è talmente estranea agl’idilli considerati nel loro insieme, che un carme ispirato tutto alla povertà non può venire attribuito, senza solide ragioni, al cantore di Dafni, del Ciclope, di Ila.
Il vecchio Legrand aveva pienamente ragione. Vediamo qui di rendere esplicita e di sfruttare questa sua intuizione, che lui stesso non si cura nemmeno di riprendere nell’introduzione al carme della sua edizione (II, 1927, 46–49). Il carme presenta almeno tre principali ragioni di intresse per noi. Vediamole in ordine di importanza crescente. Intanto, in primo luogo, la già menzionata caratteristica di essere una ‘mistione di generi letterari’, e cioè epistola poetica e carme bucolico. Si tratta di un fatto molto frequente nei poeti alessandrini, di cui ho cercato di dare un panorama qualche tempo fa, iscrivendolo nel sistema letterario greco quale doveva apparire ai poeti alessandrini stessi4. Si tratta dell’aspetto più esteriore delle innovazioni alessandrine: le vecchie codificazioni delle istituzioni letterarie del passato, collaudate da una prassi plurisecolare, vengono in un certo senso superate e rinnovate col mescolarle le une colle altre, in modo da creare una codificazione nuova, che trova anche le sue espressioni esplicite in Callimaco (ia. XIII). In secondo luogo ci troviamo di fronte a un carme bucolico non teocriteo. Questo fatto ha il suo peso e va messo in rilievo. Se è vero che Teocrito è l’inventore del genere bucolico – come dicevamo e come io credo che sia vero –, tutta la poesia bucolica posteriore a lui, colla sua maggiore o minore fedeltà al modello, testimonia della fortuna del nuovo genere letterario. Una fortuna, per di più, strettamente legata alle condizioni di vita del periodo storico in cui il genere fa i suoi primi passi post–teocritei, e quindi una fortuna radicata nella situazione storica, non un arbitrario gioco intelletualistico. È ora di smettere di considerare i poeti alessandrini come dei puri giocolieri che in una sorta di raffinato bricolage mettono insieme erudizione e allusività dei frammmenti, da loro scel-
|| 4 L. E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «BICS» 18, 1971, 69–94; vd. ora anche J. Van Sickle, Theocritus and the Development of the Conception of Bucolic Genre, «Ramus» 5, 1976, 18–44.
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ti, del patrimonio letterario che hanno dietro di sé5. Sono, invece, dei poeti a loro modo impegnati nel soddisfare alcune esigenze della società colta e ristretta che li circonda. Ma non ho bisogno di mettere in ulteriore rilievo questo fatto, visto che da qualche tempo a questa parte più d’un antichista se ne è accorto. Ad impedire che lo si vedesse prima, dal momento in cui circa un secolo fa specialmente Wilamowitz riportò l’interesse sulla poesia alessandrina, sono stati da una parte il neo–idealismo che da noi fu rappresentato dal crocianesimo, e dall’altra la stessa innegabile raffinatezza formale degli alessandrini, che andava pur riconosciuta e descritta nelle sue tecniche (operazione svolta dalla filologia positivistica), ma che non andava vista come unica loro caratteristica e – vorrei dire – neanche come la principale. Ora, la poesia bucolica nasce, come ha riconosciuto più d’uno, da una viva nostalgia per la campagna in una società, come quella ellenistica, che si va velocemente urbanizzando. L’esempio più macroscopico di tale processo è proprio Alessandria, una città che in breve tempo diventa la più grande del Mediterraneo orientale, e cioè del mondo Greco ed ellenizzato. Vediamo Teocrito, che di tale esigenza è il primo rappresentante integrale. Il suo realismo è spinto fino a livelli notevoli e non più raggiunti dai suoi imitatori: un omaggio all’estetica alessandrina (o aristotelica) della mimesi, così efficacemente esposta di recente da Serrao6. Ma tale realismo non è totale: come dice giustamete Dover7, Teocrito conserva principalmente quello che nella vita campagnola c’è di piacevole. Il ‘principalmente’ l’ho aggiunto io: perché recentemente è stato messo in luce il fatto che, a differenza degli imitatori, Teocrito include nel suo quadro anche la natura selvaggia, con tutto quello che ha di pericoloso e di minaccioso (gli orsi, i lupi, gli insetti nocivi etc.: pensiamo all’idillio V), e basta confrontare l’idillio I, il Tirsi, dove tutta la natura, nei suoi poli positivi e negativi, è unita nel piangere la morte di Dafni, con l’Epitafio di Adone di Bione, dove sono presenti non tanto animali e piante domestici o selvatici, quanto personaggi mitici, in modo da far chiaro che “manca ogni contatto con il mondo reale”8 dei campi: e lo stesso è per l’Epitafio di Bione. C’è comunque del vero in quanto dice ancora Dover9, e cioè che i campagnoli teocritei, pur non contrapponendo esplicitamente campagna a città, come farà la bucolica posteriore, sono consci || 5 G. Serrao, La poetica del «nuovo stile»: dalla mimesi aristotelica alla poetica della verità, in Storia e civiltà dei Greci, 5. 9, Milano 1977, 200–253, spec. 221–236. 6 G. Serrao, La poetica del «nuovo stile», cit. 7 K. J. Dover, Theocritus. Select Poems, London 1971, LVII. 8 A. Perutelli, Natura selvatica e genere bucolico, «ASNP» s. III, 6, 1976, 763–798, a p. 774s., cfr. 789. 9 K. J. Dover, Theocritus, cit., LVII.
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delle bellezze e dei vantaggi della campagna, “come un cittadino che è stato a lungo confinato in città”. In realtà questa opposizione è qualche volta implicita, come nell’idillio III, dove un fatto eminentemente cittadino, il κῶμος, viene tradotto in termini campestri10. In pochi altri casi il giudizio di Quintiliano (10. 1. 85) è stato ben formulato come per Teocrito: Admirabilis in suo genere Theocritus, sed musa illa rustica et pastoralis non forum modo, verum ipsam etiam u r b e m reformidat. Alla dialettica città/campagna dobbiamo contentarci di fare qui solo qualche accenno. Meglio che altrove la seguiamo ad Atene, dal momento in cui Clistene, colle sue riforme alla fine del VI sec., media le distanze col mescolare la popolazione dell’Attica ripartendo in modo uguale fra cittadini e campagnoli le stesse funzioni politiche; e credo di aver visto l’espressione letteraria di questo fatto politico nell’introduzione del dramma satiresco, con tutte le sue componenti campestri, nella cittadina celebrazione degli agoni tragici11. Si tratta di una integrazione della campagna nella città: e proprio nel momento in cui – per usare una felice espressione di Vegetti12 – la città, durante la Guerra del Peloponneso, “inghiotte la campagna”, proprio in quel momento comincia la crisi dell’ideale del ‘contadino–cittadino’, di quella figura che ci è rimasta rappresentata nei Diceopoli e nei Trigei di Aristofane13. Già nelle Nuvole (del 423) è fortemente presente la contrapposizione ἄγροικος/ἀστεῖος con valenza negativa per il campagnolo, come sarà del resto ancora un secolo più tardi nel ritratto dell’ἄγροικος di Teofrasto (ma non nel Dyskolos di Menandro). Naturalmente tutti ricordiamo anche la profonda nostalgia della campagna che è presente specie in alcune commedie di Aristofane (Acarnesi, Pace): ma dobbiamo ricordare che Atene sta passando un momento di terribile crisi e che, appunto, “ha inghiottito” la campagna senza poterla digerire, anzi assistendo all’annientamento delle sue risorse vitali per le distruzioni della guerra. È tipico il fatto – notato da Austin e Vidal–Naquet – che utopisticamente Platone, in pieno IV secolo, cerchi di restaurare l’ideale unitario in un passo delle Leggi (745 b–d). Ma il processo è avviato e in età ellenistica, soprattutto coll’ipertrofia strutturale e funzionale della città, l’opposizione tra i due mondi torna ad essere totale. Di qui la nostalgia campestre da parte dell’unica cultura di cui ci sia giunta integralmente la
|| 10 L. E. Rossi, I generi letterari, cit., 85. 11 L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «DArch» 6. 2–3, 1972, 248–302. 12 M. Vegetti, Nascita dello scienziato, «Belfagor» 28, 1973, 641–663, a p. 650; vd. anche D. Lanza – M. Vegetti, Ideologia della città, «QS» 2, 1975, 1–37, a p. 19s. 13 M. Austin – P. Vidal–Naquet, Économies et sociétés en Grèce ancienne, Paris 1972, 175.
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voce, quella cittadina. Una nostalgia colta, beninteso. Quella che sotto alcuni aspetti si può chiamare una letteratura di evasione, ma non per questo meno legata ad esigenze autentiche. Noteremo di passaggio l’importanza che ha il genere bucolico per l’affermarsi del topos del locus amœnus. Per tornare al carme XXI, esso si iscrive in un processo di progressiva idealizzazione della campagna, che, attraverso Mosco e Bione, arriverà fino a Virgilio. Vedremo in che modo tale idealizzazione si opera, ma lo vedremo al terzo punto, giacché siamo ancora al secondo: dobbiamo ancora, dopo le necessarie premesse sulla poesia bucolica in generale, renderci conto di come si realizza la q u a l i t à b u c o l i c a d e l c a r m e . È significativo che non ci siano qui pastori o contadini come nel Teocrito autentico (pastori dovunque altrove, contadini nel X – i mietitori Milone e Buceo –, e s’aggiunga, per esempio, la tematica dell’agone del V), bensì dei pescatori. Come nota Gow14, “l’idillio ha buona probabilità di essere il principale documento conservato del ‘pescatore povero’ come tema letterario”. Così come Teocrito trova nella letteratura anteriore dei precedenti tematici (la tematica campestre)15 ma non dei precedenti di genere letterario, così anche nel caso della tematica piscatoria si hanno dei precedenti. Si comincia già con la favola esopica, che ci dà più di un esempio (21 Hausrath = 24 Halm; 13 Hausrath = 23 Halm; 18 Hausrath = 26 Halm), e con Ὡλιεὺς τὸν ἀγροιώταν (Il pescatore al contadino) e il Θυννοθήρας (Il pescatore di tonni) di Sofrone; non serve se non un accenno ai Δικτυουλκοί (I pescatori con la rete) di Eschilo. La commedia nuova ci fornisce gli Ἁλιεῖς di Menandro e la fonte difilea della Rudens di Plauto (Cholmeley 55; Gow II, 369); né va dimenticato l’episodio del vecchio pescatore in Teocrito stesso (I. 39 ss.). In epoca alessandrina la tematica si diffonde soprattutto nell’epigramma: in testa a tutti Leonida di Taranto, oltre a numerosi altri epigrammi dell’Antologia Palatina (l. VII). Non serve poi se non accennare alle numerose rappresentazioni figurative che, nell’ambito del realismo ellenistico, includono anche tematica piscatoria. La vicinanza tematica e alcuni paralleli di lingua e di stile (come il lungo elenco di strumenti ai vv. 9–13) hanno portato più d’uno a supporre paternità leonidea per il carme XXI. A noi il problema qui non interessa: interessa, invece, vedere la fortuna di una tematica, il suo coerente inserimento in uno spiccato interesse della letteratura alessandrina per il reale e il biotico, e soprattutto l’innesto della tematica piscatoria nella forma teocritea dell’idillio bucolico. Tale innesto è sensibile nel fr. 1 di Mosco, una σύγκρισις tra campagna e mare a tutto vantaggio della campagna, dove comunque la vita del ‘pescatore povero’ è presentata nello stesso || 14 A. S. F. Gow, Theocritus, Cambridge 1950, II, 369. 15 Vd. L. E. Rossi Mondo pastorale, cit.
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pathos manieristico del carme XXI (v. 9s. ἦ κακὸν ὁ γριπεὺς ζώει βίον, ᾧ δόμος ἁ ναῦς, / καὶ πόνος ἐντὶ θάλασσα, καὶ ἰχθύες ἁ πλάνος ἄγρα “misera è la vita del pescatore, la cui casa è la barca, / la cui fatica è il mare, e la cui sfuggente preda sono i pesci”). Mi sembra, per di più, che proprio quest’innesto sia significativo per un chiarimento dei modi in cui si manifesta e si realizza ulteriormente nella bucolica post–teocritea il rapporto città/campagna. L’aver messo dei pescatori al posto dei pastori non è neanch’esso un virtuosismo vuoto o un puro esperimento letterario. Accenniamo qui solo alla natura del rapporto economico fra città e campagna, che non è così semplice e lineare come potrebbe far pensare un arbitrario parallelo colla situazione, per esempio, dell’Europa medievale16: le grandi difficoltà di trasporto dei beni prodotti potevano far sì che vicino ad una campagna opulenta una città anche non troppo popolosa vivesse di stenti e di carestia. Il mondo bucolico, anche cogli sparsi accenni teocritei al suo rapporto con la città (id. VI), si presenta in sé conchiuso e autosufficiente, sede di una vita anche socio–economicamente autonoma: la campagna, come dicevamo prima, è presente nei suoi aspetti sia di allevamento sia di coltivazione. Un mondo – come dire – micro–fisiocratico. Il mondo dei pescatori, invece, è più strettamente legato alla vita cittadina: basta che ci ricordiamo l’importanza che ha sempre avuto in Atene il consume del pesce e basta considerare che ogni città non lontana dal mare si è nutrita nell’antichità di pesce, soprattutto di pesce a basso prezzo (le acciughe aristofanee!). Un mondo, quello del pescatore, distinto dalla città, ma pur sempre legato all’agorà e cioè al mercato cittadino. Una scelta quindi, quella di mettere dei pescatori al posto dei pastori, che ha le sue giustificazioni storico–economiche e che ci permette di valutare nella sua giusta misura l’inserimento del nostro anonimo autore del XXI nella realtà del suo tempo e di non farne l’ennesimo poeta ingiustamente qualificato come virtuoso di ingegno o di successo. Con questo siamo pronti per passare alla terza delle nostre considerazioni, in sé la più importante e quella che meno delle altre ha attirato finora l’attenzione degli studiosi: la tematica della ‘povertà’ e, in più, l’atteggiamento manieristicamente vezzeggiatorio di fronte alla povertà stessa. Tutti e due elementi di notevole novità in questo momento dello sviluppo della cultura e della letteratura greca.
|| 16 M. I Finley, The Ancient Economy, Berkeley and Los Angeles 1973, cap. V.
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Riprendiamo le precisazioni fatte all’inizio su quello che nel mondo arcaico e classico s’intende per povertà, πενία17. I πένητες non sono propriamente i miserabili, bensì quelli che vivono esclusivamente del proprio lavoro. Non è necessario illustrare tutto il campo semantico opportunamente chiarito da Bolkestein e da altri studiosi: basta ricordare che la vera miseria, quella di chi non ha sufficientemente da vivere, e che per noi moderni prende spesso il nome di povertà, è per i greci la πτωχεῖα, la situazione di chi è costretto a vivere di elemosina, e chi si trova in tale situazione è lo πτωχός, il mendicante. Questo estremo di miseria non è mai entrato propriamente in alcun sistema di valutazione (se non eccezionalmente in Esiodo) o di cultura, come invece vi è entrato, con delle precise connotazioni, quello (per noi intermedio) di πενία e quello, estremo nell’altra direzione, di πλοῦτος o ricchezza. Prima di entrare in qualche particolare, cercherò, per chiarezza, di dare un quadro schematico delle valutazioni che nell’arco della cultura greca arcaica e classica sono state date della povertà e della ricchezza. Ambedue hanno presentato, in diverse epoche e soprattutto in diversi ambienti18, valutazioni in negativo e valutazioni in positivo. Cominciamo dalla ricchezza. Diremo, per capirci meglio, “ricchezza positiva”, “ricchezza negativa” etc. Per la prima non c’è bisogno di dare esempi. La ricchezza è cosa desiderata fortemente, perché è la base per la realizzazione dell’uomo. La ricchezza è sempre un bene e già qui si introduce la categoria dell’etico e del politico, giacché il ricco è nobile e il nobile è ricco e d’altra parte la ricchezza ha un suo valore di realizzazione politica come indispensabile strumento di potere (pensiamo a Pindaro e alle lodi che fa a Ierone per il modo come spende il denaro). Complementare alla “ricchezza positiva” è la “povertà negativa”. Il vivere strettamente del proprio lavoro è sentito come una limitazione della libertà (pensiamo alle esortazioni di un Esiodo che spinge all’unico modo, nella povera Beozia, di mettere insieme delle sostanze: coltivare duramente la dura terra). A parte il più scarso valore umano del povero, che ha da pensare alle difficoltà materiali, c’è anche una preoccupazione di ordine strettamente politico: la povertà spinge la gente ad azioni cattive (κακουργία) e soprattutto a cercare l’innovazione, il neoterismo e la στάσις19: è, in altre parole, origine di instabilità sociale. Semplifichiamo di molto la documentazione che
|| 17 H. Bolkestein, Wohltätigkeit und Armenpflege im vorchristlichen Altertum: Ein Beitrag zum Problem “Moral und Gesellschaft”, Utrecht 1939, spec. 181–199. 18 Come giustamente mette in rilievo Bolkestein, cit. alla nota precedente. 19 Plat, resp. 422a, Ar. pol. 1265b12, ap. Bolkestein, cit., 186.
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finora è stata raccolta su questo tema20 per passare agli altri due poli complementari. Per “ricchezza negativa” e “povertà posiviva” dobbiamo arrivare alla filosofia post–socratica, e precisamente ai cinici (“la religione del proletariato”, com’è stata definite da alcuni), agli stoici, agli epicurei (il λάθε βιώσας), che trasmetteranno questa tematica in abbondanza alla letteratura latina attraverso autori come Menippo di Gadara, Fenice di Colofone, Cercida e attraverso la cosiddetta diatriba stoico–cinica: maggiori di quelli causati dalla povertà sono i danni causati dalla ricchezza. Quest’ultima spinge soprattutto alla ὕβρις, alla dismisura, e qui, in tema di ὕβρις, c’è una significativa differenza con l’età arcaica e classica, che la facevano nascere dalla smodata ambizione di dominio e dal desiderio di eguagliarsi agli dei; ora è, invece, il danaro in sé a causare ὕβρις. La complementare “povertà positiva” si esprime nella filosofia del contentus vivere parvo (Tib. 1. 1. 25), del non cercare le cure e gli affanni che dà la ricchezza. Il privilegiare la vita semplice e perciò stesso felice nasce dall’approfondimento etico caratteristico delle scuole post–socratiche dal IV sec. in poi. In epoca ellenistica le testimonianze del binomio ‘povertà positiva’ e ‘ricchezza negativa’ sono abbondanti. Abbiamo già citato la diatriba stoico–cinica e l’immensa fortuna che essa ebbe nella letteratura latina e greca di età romana, con questa sua precisa tematica21: Orazio, Tibullo, Seneca, Musonio, Epitteto, Dione Crisostomo, Massimo di Tiro, la satira romana nel suo insieme, e in parte anche Cicerone, Filodemo, Filone, Plutarco; senza trascurare il Nuovo Testamento e la predicazione cristiana, attraverso la quale il tema è venuto a far parte di un patrimonio etico diffuso fino ai giorni nostri. Il carme XXI, che abbiamo visto aprirsi colla parola–chiave πενία, presenta qualcosa di più che la povertà in senso positivo: la presenta addirittura vagheggiata e vezzeggiata in una sorta di sentimentalismo che ricorda la letteratura bohémienne del decadentismo europeo. Nei vv. 14–17 la povertà dei pescatori è presentata con una simpatia che non può sfuggire a chi ricorda la traduzione o la parafrasi che ne abbiamo date in apertura: gli strumenti di lavoro, minuziosamente elencati con tecnica leonidea, sono per i pescatori tutto il loro bene, tutta la loro ricchezza; sono senza protezione e senza cane (sulla porta faremo una considerazione in appendice) e queste cose appaiono loro superflue, ché a proteggerli c’è la loro stessa povertà; e – particolare da non trascurare – sono soli. Questo è manierismo patetico, estraneo del tutto non solo alle altre occorrenze della ‘povertà positiva’, ma anche allo stesso Teocrito (ben più sobria è la
|| 20 Bolkestein, cit., 181–199; K. J. Dover, Greek Popular Morality in the Time of Plato and Aristotle, Oxford 1974. 21 E. G. Schmidt, Diatribai, Kl. Pauly 2, 1967, 1577s.
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notazione di Theocr. fr. 3. 2 alla vita del pescatore). Nei vv. 2–5 è presentata la situazione patetica di chi non può dormire per le preoccupazioni. Nel v. 40s., dove Asfalione ricorda la magra cena della sera prima, c’è pathos pauperistico e di compiaciuta autocommiserazione. Un sussulto in senso contrario sembra dato dalla conclusione del racconto del sogno, dove Asfalione, per sfuggire alla povertà, desidererebbe “regnare sul suo oro” (v. 60); ma, in tipica composizione ad anello, il tema della povertà, colla sua tangibile positività, ritorna con una ‘punta’ finale negli ultimi due versi del carme (66s.): “continua a cercare pesci di carne (e non d’oro), per non morire di fame e di sogni d’oro”, dice il compagno di Asfalione. Dobbiamo tornare al verso di apertura, dove la πενία è presentata in un altro suo aspetto positivo, del quale non abbiamo ancora fatto parola: la povertà come ‘madre delle arti e dei mestieri’, la povertà che spinge al lavoro e agli espedienti, il tema, in altre parole, della ‘necessità che aguzza l’ingegno’. Questo topos è certo molto antico: basta pensare al Pluto di Aristofane, dove è continuamente presente la considerazione politico–economica che la ricchezza abbondantemente ed egualmente distribuita fermerebbe la vita civile coll’allontanare tutti dalla produzione di beni necessari. Ma qui il discorso si farebbe, ancora una volta, troppo ampio, ed è del resto noto: si risale al mito di Prometeo inventore delle tecniche e si dovrebbe affrontare il problema del progresso nel mondo antico e del modo con cui esso è stato visto nelle varie epoche e dovrebbe intrecciarsi con discorsi storico–economici estranei alla finalità della nostra esposizione22. Se ripensiamo al sistema povertà/ricchezza schizzato prima, vediamo che il carme XXI è una specie di summa dei valori positivi della povertà. Mancano esplicite considerazioni di ordine etico, ma al loro posto è subentrata la patetizzazione simpatetica, che – lo ripeto ancora una volta – è uno dei mezzi usati dalla bucolica post–teocritea per la creazione di un suo manierismo.
|| 22 Mi basta rimandare a un bell’articolo di E. R. Dodds, The Ancient Concept of Progress and Other Essays on Greek Literature and Belief, Oxford 1973, 1–25 (The Ancient Concept of Progress, 1969): 1. Non è vero che l’idea di progresso fosse sempre estranea agli antichi; ci fu un momento, nel V sec., in cui fu assunta da molti. 2. Dopo il V sec. la filosofia era variamente ostile all’idea. 3. Sempre le affermazioni più esplicite dell’idea di progresso si riferiscono al progresso scientifico o a scritti di materie scientifiche. 4. La tensione fra fede in progresso scientifico o tecnologia e regresso morale è presente in molti autori (spec. Platone, Posidonio, Lucrezio, Seneca). 5. C’è una correlazione fra prospettiva di progresso ed effettivo progresso: forte nel V sec., età di risveglio culturale; confinata agli scienziati durante l’Ellenismo, età che tende a specializzare la ricerca scientifica; svaniscono del tutto nel tardo impero romano, età di regresso culturale e materiale.
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***** Il vezzeggiamento della povertà porta con sé anche la tematica del ‘ p i c c o l o ’ e del ‘ m o d e s t o ’ . L’esempio più illustre in quest’epoca è l’Ecale di Callimaco. Già la διήγησις ci informa che la vecchietta che ospiterà Teseo nella sua via all’uccisione del toro di Maratona abita “in una casetta lontano lontano” (Dieg. X 29 fr. 230 Pf.: κατ’ ἐσχατιὰν οἰκίδιον; cf. fr. 324 οἰκίον?); altrove l’abitazione verrà chiamata “capanna” (καλιή, fr. 263. 3). Una lunga serie di frammenti (240–252, 268?, 292, 334?, 355) ci dà solo una parte di quello che doveva essere il lungo elenco della modesta suppellettile, dei semplici cibi e dei miseri indumenti: la semplice sediola, i pochi stracci, il legname, la pentola, le olive (248), le verdure selvatiche, il pane e la madia, la povera tavola (252), il berrettuccio campagnolo e il bastone (292) etc. È assurdo che un critico della levatura di Herter abbia visto nei frequenti richiami ad Omero – che in realtà tanto frequenti non sono se non allusivi e innovatori – una sorta di ironia raffinata23: Herter fa così di Callimaco un epico parodico, un poeta epicus ludibundus, mentre Callimaco tende a ben altro, e cioè alla creazione di un vero e proprio anti–epos di vita umile che, con qualche reminiscenza e richiamo omerico, ricordi proprio quello da cui vuole distaccarsi per quella ricerca di originalità che lo mette alla testa dei poeti alessandrini. I poveri sono ancora presenti nei fr. 275?, 290, fr. inc. sed. 489, senza che ci sia chiaro a chi ci si debba riferire. Il pathos è accresciuto dalla solitudine di Ecale (ricordiamo il κατ’ ἐσχατιάν della διήγησις e il fr. 253. 5 “tu, vecchia, abiti in una terra solitaria, ἐρημαίῃ)”, solitudine che è tema raro in tutta la letteratura greca e che significativamente richiama la solitudine dei pescatori del carme XXI. Al pathos contribuisce il fatto che Ecale non è nata povera, ma lo è diventata (fr. 254. 2 λιπερνῆτις: Suid. λ 588 interpreta λιπερνῆτις· ἡ πτωχή, ma non è esatto). Ma il massimo della vibrazione etico–patetica è data dal fatto che, nonostante la sua povertà, Ecale è ospitale: 231. 2 “la sua casa era aperta”, 256 offre generosamente il suo lettuccio a Teseo (cf. 375?) e soprattutto 263. 3s. alla fine del poemetto “spesso ci ricorderemo, vecchia (μαῖα), della tua capanna ospitale (φιλοξείνοιο καλιῆς), che era rifugio per tutti”, parole pronunciate da Teseo o, più probabilmente, dal popolo convocato per le feste istituite da Teseo stesso in suo onore, gli Hecaleia. È significativo che l’ospitalità di Ecale sia messa in rilievo da autori antichi, come Crinagora (Ia), AP 9. 545. 3 (test. 28 Pf., v. II p. C) e che Apuleio (met. 1. 23) e lo Pseudo–Giuliano (epist. 186 Bid.–Cum. = 41 Hertl., test 33, 34 Pf.) trasferiscano esplicitamente alla considerazione etico–filosofica il ‘con-
|| 23 Herter, RE Suppl. 5, 1931, 420s.; Kall. u. Hom. 1929, 55s.
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tentarsi di poco’ di Ecale. Siamo anche nell’Ecale, come nel corpus teocriteo e nella poesia bucolica in generale, in ambiente rustico (interessante anche per l’incrocio fra epos e bucolica, come ha messo a suo tempo in rilievo Serrao per il carme XXV): ma che distanza dall’opulenta natura teocritea! L’Ecale callimachea ha avuto notevole fortuna nella letteratura posteriore24, e quasi sempre troviamo messa in rilievo negli imitatori la tematica pauperistica. Il POxy 15. 1794 (p. 78 Powell) presenta una vecchia che parla della sua miseria e che, come Ecale, è caduta in basso da una situazione sociale superiore. Per la cornacchia di Ap. Rh. 3. 926ss. ci sarebbe il problema cronologico. La letteratura latina presenta, per es., il Moretum pseudovirgiliano; le Metamorfosi di Ovidio in due passi la prendono a modello (8. 620ss., Filemone e Bauci; 2. 534ss., la cornacchia) e in Petronio 135 la casa di Enotea è modellata sulla capanna di Ecale, che è espressamente nominata (135. 8, vv. 15–18). Si può parlare di un manierismo epico, ché l’Ecale è un epillio: ma, nella storia del genere epico, è certo un aspetto meno ingombrante di quanto non sia nella poesia bucolica di maniera. Anche il ‘piccolo’ e il ‘modesto’, come ulteriori qualificazioni del ‘povero’, sono temi caratteristici di una società che tende a “vivere all’interno dei propri limiti umani”. Prendo questa considerazione da Garrison25, che richiama gli spazi chiusi del realismo dell’arte figurativa, a cui corrisponde l’io dell’amicizia epicurea (col suo spazio conchiuso sia in senso affettivo sia in senso locale: il giardino) e stoica. ***** Credo che la novità della tematica pauperistica di maniera, colla sua patetizzazione e il suo vagheggiamento del ‘povero’ e del ‘piccolo’, risulti chiara dalle analisi che abbiamo offerte dei Pescatori e dell’Ecale in relazione al sistema di povertà/ricchezza delineato sopra. La novità sta nel registro e nella rilevanza della tematica stessa: da una parte manierismo e dall’altra essenzialità della tematica nel codice del genere letterario. Per quanto riguarda la polarità, che è sempre esistita, la valutazione etico– sociale si rovescia nel corso del IV secolo nella filosofia ed entra, con fisionomia || 24 Herter, cit., 419ss. 25 D. H. Garrison, Mild Frenzy. A Reading of the Hellenistic Love Epigram, Hermes, Einzelschr. 41, Wiesbaden 1978, spec. 17ss. Garrison insiste su questi concetti a proposito dell’amore come è presentato nell’epigramma ellenistico: gli espedienti letterari e retorici di ironia e distanza, compresa la ἡσυχία o ‘pace’ in amore, sono forme di attenuazione volte a rendere meno traumatica l’esperienza amorosa e a diminuirne la forza distruttrice, così evidenziata nella poesia arcaica e classica.
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rinnovata, nelle opere di letteratura del III. Ma chiunque potrebbe aprire delle brecce in questo doppio sistema, passando in rassegna tutta la letteratura precedente l’età ellenistica. In altre parole: la ‘povertà positiva’ è presente prima degli alessandrini, addirittura dagli inizi della letteratura greca. Per la corrispondente ‘ricchezza negativa’ non entra qui in considerazione la χρημαστική o ‘arte del far denaro’, che è condannata come accumulo di ricchezza nascosta, come tesaurizzazione, e non come ricchezza in sé e per sé: tale condanna è frequente in epoca monetaria26, ma non mancano accenni anche in epoca pre– monetaria (v. per es. Od. 8. 159–64). Per tornare alla povertà connotata positivamente, con simpatia, già in Omero, in un famoso paragone dell’Iliade (12. 432–5), è presentata positivamente la povera filatrice che lavora a giornata e che si guadagna una misera paga per mantenere i figli. L’Eumeo dell’Odissea è, poi, il grande modello di Ecale. La grande letteratura del VI e del V secolo ci fornisce alcuni altri cospicui esempi. Vediamone solo alcuni. Pindaro, nella Nemea 8. 37s., afferma che “c’è chi vagheggia l’oro, chi sterminati campi: io, che la terra mi copra gradito sempre ai cittadini ...” (trad. Pontani). Euripide, nel fr. 892 N.2, fa chiedere a un suo personaggio: “che cosa serve ai mortali se non due cose, il pane e l’acqua?”. L’esempio euripideo più clamoroso resta quello dell’αὐτουργός marito di Elettra nella tragedia omonima: un lavoratore, quindi un πένης, che è sposato a una principessa del sangue e che viene premiato per la sua sensibilità. Né si parli, in epoca più arcaica, dei poeti pitocchi: il caso di Ipponatte è stato definitivamente smascherato come convenzione letteraria (Degani), e del resto, nel quadro del giambo e della iambikè idéa, la pitoccheria è presentata nel suo aspetto più violentemente negativo. [[*] Voglio fare un esempio da Teognide. Di lui ci restano composizioni in distici elegiaci contenenti per lo più principi etico–politici. Nacque a Megara e visse, secondo le testimonianze degli antichi, verso la metà del VI sec. a.C., ma secondo molti studiosi è da collocare almeno mezzo secolo più tardi. Ecco il testo di due distici contigui, 1153 s. e 1155 s.:
|| 26 Ed. Will, De l’aspect éthique des origines grecques de la monnaie, «Revue historique» 212. 2, 1954, 221 e n. 3 [* L’inedito dattiloscritto, peraltro pieno di correzioni autografe e di doppie pagine con versioni alternative, è privo della p. 12 che presentava l’esame della coppia di distici teognidei: si è dunque inserita in parentesi quadre – con alcuni adattamenti – la corrispondente sezione del saggio Ricchezza e povertà (a proposito di Theogn. 1153–56), per cui vd. le pp. 375–380 di questo volume.]
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εἴη μοι πλουτοῦντι κακῶν ἀπάτερθε μεριμνέων ζώειν ἀβλαβέως μηδὲν ἔχοντι κακόν. οὐκ ἔραμαι πλουτεῖν οὐδ’ εὔχομαι, ἀλλά μοι εἴη ζῆν ἀπὸ τῶν ὀλίγων μηδὲν ἔχοντι κακόν. “Possa io, ricco e lontano dalle cattive preoccupazioni, vivere senza danni e libero dai mali.” “Non mi piace essere ricco né me lo auguro, ma possa io vivere del poco e libero dai mali.”
I due distici, lo ripeto, sono contigui, e non è difficile vedere che le due valutazioni della ricchezza e della povertà sono esattamente polari: nel secondo distico c’è una valutazione negativa della ricchezza e una valutazione positiva della povertà, mentre nel primo c’è una valutazione positiva della ricchezza, che sottintende ovviamente una valutazione negativa della povertà. Consideriamo prima di tutto il codice letterario. Secondo criteri moderni, potrebbe venire il sospetto che tale contraddizione violi quello che per noi è un criterio–valore ovvio della composizione letteraria, e cioè l’unità, che in questo caso sarebbe l’unità concettuale: non ci sembra possibile che un autore affermi e neghi la stessa cosa, per di più in stretta contiguità. Ora, a parte le considerazioni che si debbono fare sul diverso concetto di unità che gli antichi avevano anche in opere per loro stessi a loro modo unitarie (faccio un esempio per tutti: l’epinicio pindarico), c’è da dire che il corpus teognideo non è un’opera unitaria neanche secondo criteri antichi, perché è una raccolta di brevi composizioni in distici elegiaci, che erano destinate ad essere cantate nel simposio, molte delle quali non si possono neanche far risalire a Teognide stesso (ce ne sono di Mimnermo, di Solone etc.). Si tratta di una specie di prontuario per il canto simposiale, l’epoca della cui formazione non è per tutti gli studiosi la stessa, ma non si andrà lontani dal vero se la si supporrà collocata fra V e IV secolo a.C. in Attica, ricordando anche che il materiale, quasi tutto gnomico, è passato attraverso ulteriori filtri (quelli della letteratura gnomologica). Ora, all’interno del corpus teognideo numerosi sono i casi di elegie contigue che mostrano analogia di argomento oppure opposizione polare. È naturale trovare fenomeni del genere in una raccolta destinata al simposio, perché l’uso simposiale voleva, almeno in Attica, che una parte dell’intrattenimento musicale avvenisse in questo modo: i simposiasti (che erano in genere in numero di poco inferiore o superiore a dieci) cantavano tutti, uno dopo l’altro, una breve composizione su proposta di uno di loro passandosi un ramoscello di mirto e dovevano rispettare nelle risposte la tematica offerta dalla proposta del primo: qualcosa di simile a quanto avveniva nel canto bucolico dei pastori, così come
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ci è tramandato dalla stilizzazione letteraria di Teocrito, specialmente nell’idillio V. Niente di strano, quindi, nel trovare casi di elegie di contenuto addirittura polare, essendo polarità e analogia espedienti equivalenti a questo scopo. In casi meno evidenti di questo di Teognide la critica moderna cade ancora qualche volta nell’errore di voler ‘restaurare’ i testi e di renderli ‘coerenti’ secondo criteri che sono solo nostri, moderni: e allora scattano i meccanismi della correzione, dell’espunzione e quant’altro può escogitare e ha escogitato ogni critica razionalistica (il positivismo dell’Ottocento ha dato esempi anche illustri di tale comportamento). Il concetto di unità dell’opera letteraria è per gli antichi – lo ripeto – molto diverso dal nostro: e, per di più, neanche per loro la raccolta teognidea poteva valere come un’opera unitaria. Per nessuno, quindi, uno dei due distici può essere espunto: la contraddizione può e deve restare, ma bisogna in qualche modo spiegarcela. Si dovrà forse dire che il secondo distico è più tardo del primo e che magari appartiene al IV secolo o addirittura a un’epoca più tarda? Questo non sembra possibile, perché (a parte considerazioni sulla storia del testo del corpus ) deve appartenere ad un momento in cui la prassi simposiale della coppia o della catena è ancora produttiva, e non si può scendere troppo nella cronologia, perché questa prassi non è più creativa dal principio del IV secolo in poi. Bisognerà allora immaginarsi un simposio socialmente misto, composto di ricchi nobili] e di poveretti? No, certo: questo è un assurdo, di cui non abbiamo peraltro alcun bisogno. La necessità simposiale dell’antitesi ha portato il rispondente, ricco e nobile appartenente all’oligarchia dorica come il proponente, a pescare nel patrimonio dossografico etico estraneo alla sua classe sciale. Semplicemente un gioco delle parti, dunque. Di conseguenza non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a quanto sembra contraddire il sistema omerico e classico di povertà negativa/ricchezza positiva: esso tiene perfettamente fino all’epoca che abbiamo indicato: il IV secolo per la filosofia e il III per la letteratura. Ma il ridimensionamento della ricerca puramente tematica e della ricerca dossografico–etica – coll’aggancio a precise e singole situazioni e a strati sociali – non è tutto. Voglio concludere ribadendo una essenziale considerazione critico–letteraria. Il secondo distico teognideo è emblematico a questo scopo. Ho parlato finora di topos letterario, quello della ‘povertà positiva’, che mi è sembrato fosse stato trascurato e ho cercato di fissarne la sua apparizione in forma o r g a n i c a in opera letterarie. Mi spiego su che cosa intendo per organico: tale è un tema sul quale un’opera letteraria è integralmente costruita, che appartiene cioè al suo codice letterario, al codice del genere a cui appartiene. Un topos può apparire episodicamente dovunque, senza essere parte integrante di un’opera: così è, per esempio, della tematica bucolica prima che essa venga
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assunta per la creazione di un nuovo genere da Teocrito27. Così è per i casi di povertà positiva che compaiono prima del III sec. a.C., e così è in modo particolarmente evidente nel secondo distico teognideo discusso sopra. In esso la povertà positiva non è organica al carme simposiale: quello che è organico in Teognide è qualcos’altro, è un certo tipo di responsione tematica di carattere oppositivo o totalmente polare, per cui se il proponente pregia la ricchezza il rispondente dovrà pregiare la povertà; allo stesso modo che nel carme simposiale attico 900 P. l’amore pederotico è in contrasto coll’amore eterosessuale del carme 901 (tutti e due dalla raccolta di Ateneo, contigui l’uno all’altro). In altri casi la funzione della scelta di un determinato tema può variare: c’è, se mai, da spiegarsi la pura e semplice esistenza di quel tema, e per il caso della povertà positiva siamo stati in grado di darcene una ragione nell’etica delle classi subalterne. Ma nei Pescatori e nell’Ecale il tema della povertà positiva ha un’importanza che trascende quella di semplice motivo: esso è organico alle due composizioni, in altre parole è precisamente quel motivo che fa di quelle due composizioni quello che esse sono. Nel primo caso si tratta di un epillio bucolico post– teocriteo, nel quale l’autore ha sostituito i pescatori ai pastori e ai contadini teocritei rispettando tuttavia il codice della poesia bucolica, facendone cioè le figure centrali e conservando una loro caratteristica, la loro tradizionale povertà. Nell’Ecale il ‘povero’ e il ‘piccolo’ sono organici a un epos che, dalle altezze eroiche dell’epos, si abbassa al mondo umile della campagna attica, trasferito comunque, con un tocco di fedeltà epica, al mondo mitico del pioniere Teseo. Del codice narrativo epico sono conservati l’impresa, il viaggio, l’ospitalità, il successo eroico dell’impresa stessa; del codice etico sono conservati i valori essenziali, come il coraggio invitto dell’eroe e la generosità di chi lo ospita: è solo che la valutazione in positivo si trasferisce ora su un valore nuovo, la povertà, e quanto questa sia centrale è tradito fin dal titolo, che fa del poema il poema della povera Ecale più ancora che il poema di Teseo. Il vedere nel poema un epos parodico ne misconoscerebbe totalmente la natura: tale esso sarebbe se i personaggi ricalcassero, in toni parodici, i personaggi dell’epos. Il che non avviene: non solo Teseo è presentato in tutta la sua dimensione epico–eroica a tutto tondo (come avviene per gli eroi epici del dramma satiresco), ma Ecale è anch’essa presentata come eroina dell’epos, a cui la povertà da una parte nulla toglie, se vista come personaggio nobile del racconto epico; e dall’altra è addirittura virtù egregia e pretesto a vagheggiamenti, se ci spostiamo nell’ottica non solo etica ma anche letteraria del III secolo. || 27 Vd. L. E. Rossi, Mondo pastorale, cit.
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La coerenza e l’interna compiutezza del topos, funzionalizzato ad un ambiente umile da poesia bucolica, ci fa intravedere come il carme XXI sia solo uno dei tanti componimenti del genere che circolavano in epoca ellenistica. Comunque sia, essendo l’unico componimento di tal tipo realmente rimastoci, il suo autore ha titolo sufficiente perché gli riconosciamo un merito di originalità, e precisamente quello di aver modificato a suo modo, ma coerentemente con certe premesse, il codice letterario del genere bucolico.
Appendice (su Ps.–Theoc. 21. 15 e Call. fr. 231 Pf.) Non so se un paio di osservazioni possono aiutarci a datare approssimativamente il carme XXI. Dò la mia osservazione per quello che può valere. Forse l’Ecale precede cronologicamente i Giambi, se si deve credere al valore dell’allusione di fr. 194 (ia. 4). 75–7 (le olive di Ecale) al fr. 248 dall’Ecale28. Ora, il tema della solitudine, raro – come abbiamo detto – lega l’Ecale a Ps.–Theoc. XXI. Ma c’è un’altra considerazione che può far pensare a una maldestra imitazione dell’Ecale fatta dall’anonimo del XXI. Il v. 15 è molto corrotto29, e, nella forma in cui molti editori lo stampano, suona οὐ κλεῖδ’, οὐχὶ θύραν ἔχον, οὐ κύνα· πάντα περισσά || ταῦτ’ ἐδόκει τήνοις· ἁ γὰρ πενία σφας ἐτήρει. Tra l’altro, un esametro diviso in due da punteggiatura, quindi uno scandalo30: a noi comunque interessa il principio del verso. Ora tutte e due le correzioni fatte all’inizio del verso (οὐδεὶς δ’ X Tr.: corr. Buecheler; οὐ χύθραν X, οὐ κύ– Tr.: οὐχὶ θύραν corr. Briggs) sono accettabili, soprattutto la prima, che è paleograficamente corretta (ΟΥΔΕΙϹ < ΟΥΚΛΕΙΔ) e linguisticamente accettabile (κλείς è parola attica e della koiné, ma siamo ben lontani, qui come altrove nel Teocrito autentico o non, da una coerenza dialettale dorica31). Ora, dire che alla capanna dei pescatori manca la chiave e poi che manca la porta è una antiklimax abbastanza goffa. Ma anche la sola affermazione della mancanza della chiave o della porta è sufficiente per quanto vorrei dire32. Penso che l’anonimo del XXI, – se, ripeto, le correzioni colgono nel segno – abbia avuto presente e frainteso Call. Hec. fr. 231 Pf.:
|| 28 Herter, cit., 422. 40ss. 29 V. G. Giangrande, Textual Problems in Theocritus’ Idyll XXI, «AC» 46. 2, 1977, 495–522, che nelle pp. 503–8 tenta la maggior conservazione possibile: οὐδεὶς δ’ οὐ χύθραν εἶχ’, οὐχ ἵνα πάντα περισσά, || πάντ’ ἐδόκει τήνοις· ἄγρα πενίᾳ σφιν ἑταίρη. 30 E Giangrande, cit., lo accetta, ma è cosciente dell’inconveniente. 31 V. per es. K. J. Dover, Theocritus, cit., XXVIIIs. 32 Giangrande, cit., 506 ha ragione ad escludere, dal punto di vista antiquario, porta e chiavistello come reali protezioni di una capanna di pescatori fatta di canne intrecciate: ma non so se
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τίον δέ ἑ πάντες ὁδῖται ἦρα φιλοξενίης· ἔχε γὰρ τέγος ἀκλήιστον. “La onoravano tutti i viandanti per la sua ospitalità, giacché il suo tetto era aperto (a tutti)”.
Che ἄκλῃστος (ἀκλήιστος) abbia valore metaforico per ‘casa ospitalmente aperta a tutti’ (e non il valore letterale di ‘senza chiavistello’) è chiaro in Callimaco se non altro dal γάρ dopo ἦρα φιλοξενίης; e così l’hanno capito sia lo schol. ad Ar. Ach. 127 che riporta il frammento sia alcuni autori che si sono riferiti espressamente all’Ecale (v. l’apparato di Pfeiffer ad loc.). L’autore del XXI avrebbe invece inteso ἀκλήιστον nel senso letterale di ‘senza chiave’. Penso che riceva forza, così, una datazione approssimativa alla fine del III sec. (e cioè abbastanza vicina alla metà del secolo, epoca dell’Ecale) proposta (senza gran fondamento) da alcuni.
|| si abbia ragione di negare un tale assurdo all’autore del XXI, che tradirebbe invece così la sua qualità di cittadino, poco pratico di realia non cittadini e abituato a realia cittadini (proprio come l’autore dell’VIII, v. L. E. Rossi, Mondo pastorale, cit.).
Letteratura di filologi e filologia di letterati ars adeo latet arte sua Ov. met. X 252
1. Letteratura e filologia: due diversi tipi di discorso La letteratura alessandrina fu colta come ogni letteratura, ma lo fu più di molte altre e soprattutto intendeva mostrarsi tale. Chi vuole svalutarla – e fino a un recente passato questo è avvenuto di frequente – la accusa di essere infarcita di erudizione e di filologia; chi invece ne vuole vedere il lato positivo la apprezza proprio per la sua ricchezza d’erudizione. In quella coltissima letteratura l’erudizione veniva spesso esibita con riferimenti espliciti, e per di più nei componimenti cosiddetti programmatici vediamo il compiacimento di una dotta autoriflessione: è quello che chiamiamo metaletteratura, e penso al prologo degli Aitia di Callimaco e all’idillio VII di Teocrito. Non che in precedenza, fra l’altro, il discorso metaletterario mancasse del tutto1: ma è notoriamente con gli alessandrini che la riflessione sui testi, propri e altrui, da una parte si specializzò con i filologi di mestiere e dall’altra si mescolò largamente al testo letterario nella prassi dei grandi autori. Proverò qui a precisare come io vedo il rapporto fra erudizione (o filologia) e letteratura e i diversi espedienti con cui questo rapporto si è realizzato nel pieno fiorire della letteratura alessandrina.
|| [Relazione di convegno (G 27.4.1995, mattina); pubblicata in A. Porro – G. Milanese (edd.), Poeti e filologi, filologi–poeti: composizione e studio della poesia epica e lirica nel mondo greco e romano. Atti del congresso Brescia, Università Cattolica, 26–27 aprile 1995, «Aevum(ant)» 8, 1995, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. 9–32] 1 Rimando a ROSSI 1971, Generi per le leggi dei generi che in epoca arcaica erano non scritte (salvo gli episodici accenni metaletterari dei poeti). Mi troverò forse troppo spesso a citare miei lavori: me ne scuso con la giustificazione che non mi pare opportuno appesantire queste pagine con un apparato erudito che ho già dato altrove a sostegno di alcune idee che oggi mi appaiono utilizzabili in una prospettiva organica. Gli altri pochi rimandi bibliografici rappresentano per lo più una specie di museo personale al quale sono da lungo o da breve tempo affezionato: mi conforto col pensiero che, parlando di un problema generale come faccio qui, l’incompletezza bibliografica è quasi un imperativo. Debbo osservazioni preziose, oltre che ai presenti al convegno di Brescia, anche a Roberto Antonelli, a Lucio Ceccarelli, a Gian Biagio Conte, a Giusto Traina e ad alcuni amici del mio seminario romano. https://doi.org/10.1515/9783110648126-054
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Vorrei essere fin da principio il più chiaro possibile e precisare che vedo due tipi distinti di ‘discorso’2, quello propriamente letterario e quello filologico–erudito, che rappresentano due insiemi distinti nell’ambito di un determinato universo culturale e che nascono da due diverse competenze. Tutti e due quei discorsi hanno proprie leggi e propri obiettivi: il discorso letterario produce opere di letteratura, fortemente autoreferenziali; il discorso filologico–erudito produce invece informazione sulla cultura, sulla storia, sulle opere letterarie stesse. Se vogliamo, com’è utile fare, richiamarci al modello di comunicazione di Jakobson3, diremo che l’opera letteraria svolge una funzione poetica (incentrata sul testo4), mentre il trattato erudito svolge una funzione referenziale (orientata verso una realtà ad esso esterna). Parlare di due diversi generi letterari, le opere di poesia e quelle filologico– erudite, mi sembra riduttivo e soprattutto poco chiarificante: l’intenzione e la funzione sono totalmente diverse, ed è quindi opportuno non ospitare tutti e due i discorsi sotto il pur vasto ombrello della letteratura vera e propria o, per meglio dire in questo caso, della poesia. L’opposizione polare fra i due discorsi non è, bisogna ammetterlo, sempre del tutto tale, perché è alle volte difficile distinguerli l’uno dall’altro, come è in generale difficile separare nettamente la comunicazione poetica da quella referenziale; ma mi prendo la licenza, e la responsabilità, di assumere questa polarizzazione come utile strumento euristico per una cultura letteraria, quella alessandrina, nella quale troviamo i due discorsi mescolati l’uno con l’altro ad opera di intellettuali che non possono non definirsi come poeti (Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito), ma che in altri presenta una assoluta specializzazione (i filologi alessandrini e tutti gli eruditi in genere). Ovviamente la mescolanza, ad alto grado di partecipazione dei due discorsi, si ha solo nei letterati5. Se mi limito qui alla cosiddetta triade alessandri|| 2 SEGRE 1978, che resta fondamentale ma che integro con SEGRE 1982, cit. qui poco oltre. Spero che risulti chiaro che cosa intendo per ‘discorso’, visto che giustamente SEGRE 1978, p. 1057 in. avverte della polisemia del termine nella teoria della comunicazione. 3 JAKOBSON 1960. Del modello di Jakobson mi sono sempre utilmente servito nei miei corsi (ora in ROSSI 1995, spec. pp. 1–17) per impostare il discorso dei condizionamenti esterni (il ‘canale’) della comunicazione letteraria nella Grecia antica. 4 Per ‘autoreferenziale’, nei confronti dell’atto di comunicazione poetico, s’intende ‘che si rifà a se stesso, che vuol comunicare se stesso e non altro’: in altre parole, quello che comunemente viene chiamato il contenuto è inglobato, per il modo con cui lo si dice, nella sua forma. 5 La tipologia dei rapporti può essere alle volte complicata dalla morfologia stessa dei discorsi che vengono a contatto. Debbo a una segnalazione di Emma Scoles la conoscenza di un caso più unico che raro, costituito dalla glosa spagnola (sec. XV–XVII): un componimento lirico che si presenta come esegesi con varianti di un componimento lirico di base. Ora, l’esegesi è attività erudita, ma si trasforma qui in composizione letteraria e diventa un vero e proprio nuovo testo
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na, è che di quei poeti abbiamo abbondante materiale su cui basarci: ma il discorso si potrà continuare sui cosiddetti minori.
2. Un criterio oggettivo di valutazione critica: la realizzazione dello specifico letterario L’intreccio fra filologia e letteratura nei letterati è il vecchio e sempre nuovo interrogativo che la letteratura alessandrina ha posto a critici di diverse tendenze, grosso modo individuabili in due filoni estremi, specie fra noi in Italia: a un crociano troppa erudizione (alias troppa filologia) faceva storcere il naso e faceva scattare la famigerata condanna della ‘non poesia’; a un filologo positivista e a un filologo–storico in generale l’erudizione/filologia faceva e fa piacere, perché accresce il patrimonio storico–esegetico. Ma, intermedia fra le due correnti, c’è quella di chi per le opere dei letterati colti si propone anche un giudizio critico di valore: è la corrente che è oggi giustamente più diffusa, anche se la valutazione in positivo o in negativo è spesso o largamente implicita o evitata. Vorrei che qui la valutazione del successo dell’esperimento letterario fosse del tutto esplicita. Do per lecito e per scontato, per l’ovvia utilità che comporta, il piacere dell’informazione storica, che però lascia fuori della porta il giudizio letterario di valore. Vorrei, invece, affermare la necessità di dare proprio un giudizio di valore per quella che alle volte si può definire una letteratura–contenitore, piena com’essa è d’informazione filologico–erudita. Ma non sto resuscitando il fantasma crociano di poesia e non poesia, e, se mai, lo faccio in buona coscienza critica: cerco di impostare una ricognizione oggettiva del grado di letterarietà, per cui il vero problema del bello nasce, per me, solo a partire dal livello del letterario puro e non contaminato. Oggi, come ben sappiamo, il filone crociano è pressoché estinto, ma, per eccesso di prudenza e per evitare equivoci, parlerò più di letteratura che di poesia, anche se non mi prefiggo un rigore terminologico che sarebbe inutile. Mi pare che il problema della diversa qualità letteraria e, solo in seguito, del valore vada posto da una parte con meno orgogliosa sicurezza e dall’altra con meno timidezze: e mi è sorto il bisogno, e il dovere, da una parte di classificare i diversi modi dell’intreccio fra letteratura e filologia, operazione assolutamente preliminare per accertare la qualità letteraria; e dall’altra
|| che si pone con l’altro in rapporto intertestuale (E. SCOLES – I. RAVASINI, Intertestualità e interpretazione nel genere lirico della glosa, di prossima pubblicazione nella Miscellanea di studi in onore di Bryan Dutton, Universidad de Castilla – La Mancha).
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di dare una valutazione assiologica ovvero di valore dei singoli modi dell’intreccio e addirittura dei singoli autori. Fra i poeti alessandrini chi era più letterato che filologo? Chi era più filologo che letterato? Chi, essendo più letterato, era più abile come tale? Quali autori e quali opere reggevano meglio il delicato connubio? In altre parole: mi propongo qui di indagare prima di tutto i modi e poi i gradi di successo del connubio. Questo connubio è a suo modo una forma di intertestualità6, ma non fra due testi, bensì fra due ‘discorsi’ diversi: quello filologico–erudito e quello letterario, che ho considerati sopra come distinti (§ 1). Vorrei parlare di ‘interdiscorsività’, servendomi di un termine opportunamente coniato da Cesare Segre7, per esprimere quel rapporto e quella interazione che si realizza fra diversi insiemi e fra specifiche competenze nell’ambito di una cultura. Questo può essere accettato solo da chi, come sto facendo io, accetti la distinzione fra letteratura ed erudizione. Il criterio assiologico che annunciavo prima è quindi basato su un criterio molto oggettivo, che è interno agli istituti letterari. Nella mia visione è come se la comunicazione letteraria si inceppasse nel momento in cui nel discorso letterario venga inserito un materiale integralmente desunto dal discorso filologico/erudito senza che quest’ultimo venga metabolizzato. Dopo tale accertamento, che è possibile fare – ripeto – in modo del tutto oggettivo, può impostarsi una valutazione più soggettiva: a parità di integrazione dei due discorsi, si può affermare, e discettarne, quale letterato riesca meglio, e si vede come lo spazio dell’arbitrio critico venga così notevomente ridotto e fatto rientrare nell’ampia provincia del gusto. Se mi si accuserà comunque di aver davvero risuscitato il vecchio spettro di poesia e non poesia, magari nella forma attenuata di ‘più poesia e meno poesia’, l’accusa mi turberebbe, ma non so rinunciare a dichiarare, fin da adesso e per ragioni da precisarsi fra poco, che Teocrito mi piace più di tutti fra i tre della triade alessandrina. Non solo sa mescolare bene i due discorsi, ma lo fa in modo più elegante di tutti. Mi sarei concesso un momento di fruizione umanistica8, senza la quale fare solo il filologo (moderno) sarebbe una condanna (già antica) alla noia. Ma cercherò di giustificarmi dichiarando che il momento – in noi tutti ineliminabile – della fruizione umanistica dei testi, della lettura semplicemente
|| 6 Molti chiarimenti sui rapporti fra testi, ma all’interno del solo discorso letterario, sono venuti da un recente convegno organizzato da Vittorio Citti: Intertestualità. Il ‘dialogo’ fra testi nelle letterature classiche, Cagliari, 24–26 novembre 1994, i cui atti sono di prossima pubblicazione. 7 SEGRE 1982, spec. pp. 23 s. (di cui debbo la segnalazione a Maria Cannatà Fera). 8 Sulla contrapposizione fra umanesimo e storicismo, a proposito di Pfeiffer, v. ROSSI 1976.
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colta e non professionale, è stato quello che mi ha fatto formulare con spontaneità la preferenza per Teocrito ma, in più, mi ha fatto anche scattare il provvido meccanismo razionale della domanda: perché Teocrito mi appare più bello? Ed è qui che, per darmi una ragione che non fosse il superficiale apprezzamento del crocianesimo degli stenterelli, è subentrata l’esigenza di spiegarmi alcuni come. Come concepiva Teocrito il suo mestiere di letterato? Che cos’è che lo rende più simile a Callimaco che ad Apollonio Rodio? E soprattutto, che cosa rende Apollonio Rodio diverso dagli altri due? Spero dunque che questa riflessione sia andata in me oltre la formulazione di una mia discutibile prefenza personale e che mi abbia meglio chiarito il modo di lavorare dei poeti alessandrini, perché solo dopo questa riflessione mi sono reso conto di una singolare coincidenza: l’autore, fra i tre, che ho sempre amato e amo di più – e non sono certo solo in questa preferenza – è quello che ha realizzato meglio, e anche meglio di Callimaco, l’assimilazione dell’erudizione alla letteratura proprio perché ha sentito implicitamente la differenza fra i due discorsi e ha sentito quindi quanto mai il bisogno di assimilarli come diversi e di non giustapporli come omologhi. La riflessione è stata, in altre parole, una verifica: e mi sono sentito così affrancato da un’accusa più grave di quella di crocianesimo, e cioè da quella di intellettualistica astrattezza, di partito preso teorico, di deduzione pura. La deduzione è stata preceduta da un processo intuitivo di induzione, e cioè tutto è partito da una lettura dei testi, che è stata il vero reagente della successiva riflessione teorica. Parlando di filologia e poesia, non si può fare a meno di richiamarsi a un libro che, dal 1968 quando è uscito a Oxford, ha fatto epoca nei nostri studi, alla History of Classical Scholarship di Rudolf Pfeiffer9. Ne è venuta in maniera esplicita una formula, in sé neoumanistica, che in molti prima di lui era stata almeno implicita: la filologia sarebbe nata dalla poesia, sarebbe stata poi praticata sostanzialmente dai poeti e il connubio sarebbe cominciato con l’ambiente alessandrino, precisamente con Filita di Cos. Non voglio ora riprendere in dettaglio la mia posizione, rispettosamente critica, di fronte a questa formula, avendola già esposta anni fa10: mi limiterò a fare qualche accenno sintetico. La strettoia cronologica è la più fragile: in realtà a praticare l’erudizione e a farne sostanza di poesia erano stati anche i poeti precedenti, per non dire tutti (la tradizione poetica si sostanzia di erudizione), e allora si deve ricorrere, come Pfeiffer fa, all’espediente di considerare nel V/IV secolo un Antimaco come «un precursor-
|| 9 PFEIFFER 1968 = 1973 (trad. ital.). 10 ROSSI 1976.
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re» o, peggio, come «una figura solitaria»11. Quanto poi al corno più delicato della formula, e cioè la nascita della filologia dalla poesia, le vie sono due: o se ne fa un’ovvietà, ma allora è più preciso dire che la filologia nasce sulla poesia; o si vuole predicare una fede mistica nell’unità delle funzioni intellettuali, e allora possiamo perdonare la predica fattaci da uno studioso della levatura di Pfeiffer, che ha costruito la sua alta vicenda intellettuale sul concetto, e sul sentimento, dell’umanesimo cristiano, ma in quanto predica non possiamo accettarla noi, che da una parte non siamo Pfeiffer e che dall’altra la troviamo contraddetta dalla realtà dei dati storici: a praticare con successo la vera poesia–filologia sono stati i non molti poeti, ma molti sono stati invece gli eruditi che hanno praticato esclusivamente la filologia, come da Zenodoto in poi, e con un atteggiamento professionale e specialistico che, quello sì, si può dire che nacque in epoca ellenistica. Per non dire di Aristotele e della sua scuola, in cui vanno riconosciuti gli initia vera12 dell’attività filologico–erudita. Quanto ho annunciato in apertura vorrei ora esporlo in qualche dettaglio prendendo alcuni esempi, e non più che alcuni13, dai tre poeti della grande triade: Apollonio Rodio, Callimaco e Teocrito. L’ordine mi è dettato da quella che mi appare una crescente integrazione nell’universo propriamente letterario: l’ordine rappresenta per me, in altre parole, una scala ascendente di realizzazione dello specifico letterario e della sua qualità.
3. Apollonio Rodio (o della filologia) Apollonio Rodio è spesso un filologo in versi: dell’opera letteraria fa più d’una volta un veicolo alternativo di quel materiale che avrebbe potuto fornire con i generi dell’erudizione consueti ai filologi alessandrini, come monografie (syngrammata), commenti (hypomnemata) e lessici. Vediamo alcuni casi esemplari. Credo di aver individuato anni fa14 un singolare procedimento compositivo nel poema di Apollonio. Già nell’antichità i commentatori omerici ci informano
|| 11 Su Antimaco rappresentante della iperdotta cultura letteraria alessandrina v. SERRAO 1979. 12 Mi piace il modo con cui L. RADERMACHER, Artium scriptores (Reste der voraristotelischen Rhethorik), Wien 1951, V, p. 11 designa la retorica che segue a quella fabulosa della tradizione epica eroica. 13 Anche solo una bibliografia recente prenderebbe pagine e pagine. Non ho cercato ricognizioni dell’ultim’ora, ma solo esempi che a me sembrano paradigmatici per il discorso qui condotto. Segnalo, prezioso per tutta la letteratura alessandrina, L. LEHNUS, Bibliografia callimachea 1489–1988, Genova 1989. 14 ROSSI 1968, a cui rimando per i dettagli.
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che i filologi alessandrini vedevano in un verso del penultimo libro dell’Odissea la fine del poema da loro ritenuto autentico, risultando per loro spurio il finale che possediamo (un libro e mezzo): Od. XXIII 296 ἀσπάσιοι λέκτροιο παλαιοῦ θεσμὸν ἵκοντο.
Alla fine dell’Ottocento era stato già notato15 che l’ultimo verso delle Argonautiche non poteva non alludere a quel verso omerico, visto anche che, quanto a tematica, anche le Argonautiche finiscono con un grande ritorno, quello degli Argonauti a Pagase, da dove erano partiti: AP. RH. IV 1781 ἀσπασίως ἀκτὰς Παγασηίδας εἰσαπέβητε.
Oltre alla parola di apertura, la costruzione sintattica del verso è uguale. Ora, gli scoliasti dell’Odissea parlavano di πέρας e τέλος del poema: ma già Eustazio voleva salvare l’autenticità del resto del poema interpretando i due termini non come ‘fine’ del poema, bensì come ‘culmine’ dell’azione del poema stesso, e cioè la riunificazione di Odisseo e Penelope nel loro letto. Fra i filologi moderni alcuni avevano seguito la via di Eustazio, rifiutando l’atetesi alessandrina della fine dell’Odissea, mentre altri avevano rifiutato o minimizzato il riecheggiamento di Apollonio. A me sembrò che tutti e due i fatti (il secondo come sostegno del primo) andassero accettati e ne trovai definitiva conferma nei due versi iniziali del quarto libro di Apollonio, che riecheggiano inequivocabilmente il primo l’incipit dell’Iliade e il secondo l’incipit dell’Odissea: AP. RH. IV 1 s. αὐτὴ νῦν κάματόν γε, θεά, καὶ δήνεα κούρης Κολχίδος ἔννεπε, Μοῦσα, Διὸς τέκος· ἦ γὰρ ἔμοι γε Il. I 1 μῆνιν ἄειδε, θεά, Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος Od. I 1 ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλά16
Insomma: l’ultimo verso delle Argonautiche riecheggia l’explicit dell’Odissea considerata autentica dagli alessandrini, e in più Apollonio ha voluto confer-
|| 15 MEYER 1894, p. 478 s., preceduto da ADAM 1889, p. 92. 16 Si noti l’identico enjambement in AP. RH. IV 2.
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mare la sua fede filologica con l’alludere, all’inizio del quarto libro, agli incipit dei due poemi omerici17. Così, il quarto libro viene ad avere una doppia allusione ‘ad anello’: al principio i due incipit e alla fine l’explicit dell’Odissea ritenuta autentica dagli alessandrini: è come se Apollonio avesse voluto implicitamente dire, più o meno, ‘io credo che con XXIII 296 finisca 1’Odissea autentica’. Ora, ci si può giustamente chiedere: non poteva Apollonio scrivere un syngramma o un hypomnema che contenesse le argomentazioni di quella che era o un’idea filologica sua o una opinio recepta già all’età sua? Se lo ha fatto, non ne abbiamo testimonianza: ma quello che conta è che ha voluto comunicare questa sua convinzione nella sua opera letteraria con un procedimento che a me pare più di giustapposizione che non di fusione dei due discorsi, il filologico e il letterario. A meno che non si voglia promuoverlo riconoscendo nella composizione ad anello del quarto libro un espediente letterario ‘raffinato’, come si usa dire con un aggettivo anche troppo abusato: ma non lo è, a mio parere, perché l’anello non è autoreferenziale bensì totalmente extratestuale, riferendosi a un fatto totalmente esterno al testo. Si potrà dire che Apollonio ha pagato, così, un suo debito omerico, professando la sua appartenenza al genere epico con un espediente compositivo che mette in rilievo incipit ed explicit, che cioè ha usato la composizione ad anello con una precisa funzione: ma non va dimenticato che la fine dell’Odissea era nel suo ambiente letterario una questione controversa, alla quale è evidente che ha voluto dare una sua soluzione. Non posso fare a meno di farmi una domanda maliziosa: se non avessimo avuto notizia dagli scoliasti della problematica filologica degli antichi sulla fine dell’Odissea, avremmo mai potuto capire, dall’interno della tradizione letteraria greca, il procedimento di Apollonio, la cui chiave è all’esterno? Credo di no, e non arrivo proprio a dire che per la fama letteraria di Apollonio sarebbe stato meglio, ma quasi. Se nell’esempio precedente abbiamo avuto a che fare con il materiale che meglio sarebbe stato in un syngramma o in un hypomnema, c’è una serie di casi in cui abbiamo a che fare addirittura con il surrogato di un lessico. Mi riferisco a un procedimento ben noto in Apollonio, che fu messo in luce alla metà del secolo scorso18. È il trattamento degli hapax e dei dis legomena omerici: un hapax apolloniano può corrispondere a un hapax omerico e un dis apolloniano a un
|| 17 In ROSSI 1968, pp. 160 s. ho spiegato perché Apollonio può aver preferito per i due incipit omerici il suo quarto libro al suo primo: ci sono giustificazioni di maggior peso, ma qui basti darne una sola, il semplice buon gusto (anche Apollonio ne aveva). 18 MERKEL 1856, pp. CLVI ss.; ma già accenni in FR. A. WOLF, Praefatio ad Iliadem, 1806, p. XLIV.
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dis omerico; ma può anche succedere che a un hapax corrisponda un dis e che a un dis corrisponda un hapax. Sembra un gioco o un indovinello o nella migliore delle ipotesi un lessico di parole omeriche (o quello che oggi si chiamerebbe un index verborum), ma sono invece le Argonautiche. Siamo, direi, al limite estremo del letterariamente appercepibile, o meglio siamo oltre quel limite, quasi all’enigmistica19. Perfino un acrostico mi sembra, al confronto, un espediente onorevole, perché può svolgere la funzione (letteraria) di titolo del componimento poetico o può essere l’epigrafe dell’autore. Qualcosa di simile succede quando Apollonio illustra nei suoi versi il doppio significato che viene dato a una determinata parola omerica. In questo caso siamo di fronte alla prestazione tipica di un vero ‘lessico’, che non tanto elenca quanto spiega i lemmi. Gli esempi che si possono portare sono molti, ma ne voglio portare uno solo, molto, se non proprio troppo, ingegnoso da parte del poeta e molto ingegnosamente identificato da Giovanna Caggìa20. Per il verbo omerico ἑψιάομαι (Od. XVII 530; XXI 429) i grammatici avevano creduto di identificare due significati: ‘mi diverto, mi diletto’, che in Apollonio è presente in III 117 s. e in III 949 s., e ‘discorro, converso’, che in Apollonio è presente in II 811. Non ha importanza il fatto che la moderna ricerca etimologica riconosca come giusto, e accettabile in entrambi i passi omerici, il senso di ‘mi diverto, mi diletto’: conta solo il fatto che gli antichi vi vedevano anche l’altro valore e che Apollonio credeva nella doppia possibilità. E già questo basterebbe, per un virtuoso della filologia antica. Ma – ed è questa la recente scoperta – Apollonio arriva alla seguente prestazione acrobatica: AP. RH. I 457–459 μετέπειτα δ’ ἀμοιβαδὶς ἀλλήλοισιν μυθεῦνθ’ οἷά τε πολλὰ νέοι παρὰ δαιτὶ καὶ οἴνῳ τερπνῶς ἑψιόωνται, ὅτ’ ἄατος ὕβρις ἀπείη.
Riporto le parole della Caggìa: ἑψιόωνται è stato unilateralmente interpretato dai commentatori o nel senso di ‘discorrono’ [...] o in quello di ‘si divertono’ [...], mentre la presenza da un lato di μυθεῦνται, che
|| 19 Per stabilire un criterio di appercepibilità, bisognerebbe impostare la questione della ricezione (Jauss e la scuola di Costanza), ma con dei criteri variabili per determinare la competenza dei destinatari. La competenza dei destinatari antichi poteva variare, ma per noi moderni, specie per le opere affidate al restauro e all’esegesi filologica, si può parlare di una competenza omogenea. 20 G. CAGGIA 1972; segnalo anche, della stessa autrice, Un caso di ambivalenza semantica in Apollonio Rodio, GIF 26 (1974), pp. 33–40.
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sembrerebbe suggerire, anticipandolo, il significato di ‘conversano’ per ἑψιόωνται, e dall’altro di τερπνῶς ‘piacevolmente, dilettevolmente’, che richiama l’altro valore del termine, sembra dimostrare che Apollonio stia deliberatamente giocando con i due possibili significati, rievocandoli entrambi, con l’arte allusiva che è propria a lui ed agli alessandrini in genere, senza peraltro farne prevalere uno in particolare.
Apollonio ci mostra che uno dei modi di far filologia è quello di usare l’opera letteraria come un veicolo alternativo di quello che avrebbe fornito la filologia. Ma vuol fare anche del virtuosismo. È evidente, nell’esempio qui riportato, non solo che non ha voluto prendere posizione per l’uno o per l’altro significato, utilizzandoli in due passi del suo poema tutti e due; ma anche che ha voluto in uno stesso passo alludere contestualmente ai due significati. A uno scrupoloso notaio della ricerca lessicografica omerica sarebbe bastato il primo espediente, mentre con il secondo Apollonio vuol dimostrare di essere non solo un notaio, ma anche un funambolo. Dalle accuse di extraletterarietà e – perché no? – di cattivo gusto mi farò un dovere, in sede di conclusioni, di liberare Apollonio almeno in parte, visto che – come gli va riconosciuto – ha saputo in molti casi produrre letteratura veramente ‘raffinata’ e addirittura bella21. Non che accuse di extraletterarietà non si possono fare anche a Callimaco, ma Callimaco è extraletterario solo episodicamente e in misura molto inferiore22.
4.1. Callimaco (o della letteratura) Per passare a Callimaco, abbiamo in lui forse l’esempio più pieno di una integrazione equilibrata di filologia/erudizione e di letteratura, perché la sua filologia appare perfettamente funzionale al quadro di ciascuna delle sue opere. In lui il richiamo erudito, pur dichiarato ed esplicito, è uno dei tanti ingredienti del codice letterario da lui adottato, anzi da lui addirittura costruito, come vedremo per gli Aitia. L’Ecale è un poema, o un poemetto, epico che ha come protagonista non un eroe ma un’eroina, la vecchietta che ospita Teseo, e l’eroina è un esempio di an-
|| 21 RENGAKOS 1994, p. 179 nota efficacemente che Apollonio die Argonautika auch als praktisierte Philologie gedichtet hat. Esemplare mi sembra il trattamento riservato ad Apollonio Rodio da Gennaro Perrotta nella sua Storia della letteratura greca. Forse la critica dei crociani, che non mancavano certo di gusto ed avevano intuizioni istintive e geniali, va oggi salvata più nell’identificazione del brutto che non in quella del bello. 22 RENGAKOS 1992, spec. p. 47 per una valutazione complessiva.
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ti–eroe, umile com’è e inserita com’è in un’ambientazione povera23: un anti– epos, dunque. È notevole come l’innovazione di Callimaco influenzi il registro formulare e linguistico. La formula omerica per il sorgere dell’alba è variata e arricchita con particolari umili, tanto da servire come forte ‘segnale’ della nuova realtà letteraria presentata dall’autore (fr. 260, 62 ss. PF., trad. di G. SERRAO): E così mentre l’una parlava e l’altra ascoltava [= le due cornacchie], il sonno le prese. Ma non dormirono a lungo: tosto giunse l’alba gelida, quando le mani dei ladri non sono più in caccia e già risplendono le lucerne del mattino; l’uomo che attinge l’acqua dal pozzo ripete la sua solita cantilena, l’asse stridendo sotto il carro sveglia chi ha la casa sulla strada e sono un tormento, coi loro fitti colpi, gli schiavi dei fabbri che dentro le officine si assordano le orecchie.
Questo è solo uno dei tanti esempi di un adattamento a un modulo omerico, che vuole dichiarare una qualche fedeltà alla tradizione epica, ma è un adattamento ricco di novità tali da stravolgere, con precisa intenzione e funzione, il codice epico fino a portarlo a una opposizione per alcuni aspetti polare. L’Inno V, Per i lavacri di Pallade, è un esempio di quella mistione dei generi letterari tradizionali (la Kreuzung der Gattungen di Kroll)24 che vedremo più oltre praticata con abbondanza e con abilità da Teocrito25. Lasciando qui da parte il problema della mimesi del rito26, va notato che si tratta di una composizione che ha come ascendenza paradigmatica sia l’inno lirico sia l’elegia: dell’inno lirico ha il dialetto dorico, che si rifà alla grande lirica corale del passato, e la funzione è quella di mimare il canto lirico che accompagnava la cerimonia argiva del bagno della statua della dea nelle acque dell’Inaco; dell’elegia ha il distico elegiaco, forma inconsueta negli inni di tipo epico–omerico, e la ragione può essere stata l’aver assegnato alla celebrazione (letteraria) della dea un unico tema narrativo, quello di Tiresia accecato perché reo di aver visto la dea nuda bagnar-
|| 23 ROSSI 1995, p. 593. 24 ROSSI 1971, Generi e, in seguito, molto della produzione di G.B. CONTE (v. spec. CONTE–BARCHIESI 1989; CONTE 1991, precisam. il cap. IV), che ha giustamente impostato il problema della funzione dei singoli casi di mistione a Roma e ha parlato di ‘generi in movimento’. Io cercai a suo tempo (ROSSI 1972) di seguire il ‘movimento’ di un genere, il dramma satiresco, dal momento della sua nascita in poi (a Roma i generi arrivano già ‘inventati’ dalla Grecia, e Conte ne mostra il corto circuito a Roma con gli altri generi). Diversamente FANTUZZI 1993, che tende a vedere la mistione dei generi come meno rilevante nell’economia del sistema letterario alessandrino. 25 ROSSI 1995, p. 590. 26 Per la mimesi del rito in Callimaco v. NICOLAI 1992, Fondazione.
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si nella fonte Ippocrene. Nulla di gratuito nelle scelte di questo poeta, che una volta veniva considerato un puro giocoliere.
4.2. Gli Aitia di Callimaco: struttura e funzione Sugli Aitia bisogna fare un discorso più dettagliato, per gli utili spunti di metodo che ci offrono. Gli Aitia sono un poema eziologico–catalogico, una grande enciclopedia del mito destinata formalmente a ‘spiegare’ l’origine di culti, usanze, denominazioni, ma sostanzialmente composta per conservare un grande patrimonio mitologico. L’erudizione è la sostanza stessa di questo poema, ma non è esterna ad esso: ne è la struttura e la materia27. E proprio a proposito di Callimaco e degli Aitia, vale la pena accennare al problema generale dell’assunzione del mito da parte dei poeti alessandrini: mi sembra che così si capisca meglio non solo la costruzione, ma soprattutto la funzione degli Aitia, funzione che mi appare di non scarso peso nella politica culturale dell’epoca. Si è detto e si dice spesso che questi poeti amavano i miti rari, poco diffusi. Qualche volta però corriamo il pericolo di sbagliarci, in questa valutazione. Faccio un esempio che mi pare emblematico e che prendo da Teocrito. È noto l’imbarazzo in cui ci troviamo a proposito della morte di Dafni nell’Idillio I: per la cursorietà della narrazione non riusciamo bene a capire come Dafni muore, ed è stato detto che si tratta di una versione rara del mito. Io credo che qui debba valere un principio universale di metodo, e cioè che, quando le cose vengono date per scorcio, è proprio il caso di dire che l’autore allude a una versione ben nota, per la quale non c’è alcun bisogno di dettagli. In altre parole: la morte di Dafni in Teocrito è una crux narrativa per noi, ma certamente non lo era per gli antichi. Detto questo, che vale soltanto come ammonimento alla prudenza, c’è da dire che gli antichi, e già ben prima degli alessandrini, i particolari dei miti (ma non i miti in toto) potevano addirittura inventarseli di sana pianta, e soprattutto potevano combinarne diverse varianti, il che faceva parte di quel diritto–dovere di innovazione che veniva esercitato in tutta la cultura letteraria greca. Cito qui una bella formulazione di Gian Biagio Conte28, che chiarisce il concetto di funzione del mito:
|| 27 Una impostazione crociana del tutto perenta è quella della distinzione fra struttura e poesia, notoriamente da Croce applicata alla Divina Commedia. 28 CONTE 1984, p. 46.
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Va da sé che ogni mito, nel suo complesso di varianti, possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno ad un tema–funzione fondamentale. Ma, nell’utilizzazione che ne fa, il testo letterario opera per selezione, riducendo al proprio orientamento i tratti significativi del mito: ne attiva alcuni a preferenza di altri.
Nel callimacheo ἀμάρτυρον οὐδὲν ἀείδω (fr. 612 PF.: «non canto nulla che non sia attestato»)29 c’è certamente una esplicita opposizione almeno all’invenzione di sana pianta, e cioè la rivendicazione di una fedeltà documentaria che va di pari passo con l’ostentata intenzione di realismo, di mimèsi della realtà30. C’è chi molto opportunamente, a proposito dell’aition alessandrino, ha parlato di ‘storicizzazione del mito’31. E invero Callimaco propone miti rari: ma sono i miti relativi alle diverse località e isolette, alcune davvero remote, di quella sua periegesi mitografica del mondo greco che sono gli Aitia, per cui poco frequentati e molto remoti sono i luoghi, e non i miti in sé: scopo e funzione non vanno assegnati ai miti e alla loro scarsa diffusione (che hanno fatto pensare a molti a una fallace e falsa propensione al raro per se, al gioco, all’elitarismo, alla ‘raffinatezza’), bensì ai luoghi, che ripristinano, almeno nell’intenzione, una ecumenicità che era stata dell’epos e che si era da secoli perduta. Callimaco, da Alessandria come nuovo centro, guarda alla periferia del mondo greco: è tutt’altro che elitario nella sua selezione dei miti. Mi viene in mente a questo proposito il titolo, e in grande parte anche il contenuto, di uno scritto memorabile del 1967 di Carlo Dionisotti: Geografia e storia della letteratura italiana32. In quello scritto Dionisotti metteva sotto esame critico la concezione unitaria della cultura e della letteratura italiana, che fino all’Ottocento, e in realtà fino ai giorni nostri, era stata sbandierata a scopi politico–propagandistici perseguiti anche in buona fede, ma che non era per questo meno falsa: e segnalava centri di produzione culturale e letteraria assoluta-
|| 29 Altre affermazioni di fedeltà documentaria di Callimaco stesso in Pretagostini, nella prima sezione della sua relazione a questo stesso convegno. 30 Sulla mimesi in Callimaco v. SERRAO 1977. Non si può fare a meno di segnalare un analogo atteggiamento degli storiografi: NICOLAI 1992 imposta su basi nuove il rapporto fra vero e verosimile nella storiografia antica; TRAINA 1991 precisa il rapporto fra mito e storia nell’ellenismo periferico. 31 SERRAO 1979, p. 310: l’atteggiamento dei poeti arcaici e tardo–arcaici invece, con la loro celebrazione del laudandus che viene innalzato ai livelli dell’eroe mitico (Pindaro), è da lui definito ‘miticizzazione della storia’. 32 DIONISOTTI 1967. In realtà passò qualche tempo prima che ci si accorgesse quanto rivoluzionariamente fondamentali fossero quelle idee, che rinnovarono poi da cima a fondo la storiografia letteraria italiana. E dire che quello scritto era già da anni sul mercato scientifico, precisamente su Italian Studies 6 (1951), pp. 70–93.
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mente eccentrici e non omologati rispetto a Firenze e a Roma rivalutandoli come autonomi. Sarebbe bello, analogicamente, impostare una Geografia e storia del mito greco, che ci proporrebbe dei sondaggi preziosi nell’ampio universo sommerso della cultura e della fantasia periferica del mondo greco. Callimaco, da poeta, si è comportato un po’ come Dionisotti: nella costruzione stessa degli Aitia, è stato un prezioso assertore delle identità periferiche, che mirava a ricostruire anche archeologicamente, quelle identità che erano state obliterate o ignorate dalla centralizzazione della cultura panellenica avvenuta, dopo l’epoca arcaica, prima ad Atene e poi ad Alessandria, quest’ultima nei suoi effetti ben più ecumenica di quanto fosse stata Atene, come prova proprio Callimaco con la sua enorme influenza sulla letteratura romana. Ma lo prova anche la temperie culturale alessandrina in generale, con la sua pronunciata preferenza per l’epos, per l’elegia arcaica e per la lirica arcaica a tutto detrimento del dramma attico, sentito come legato a una polis sola. Riprendere il grandioso programma di Callimaco potrebbe essere per noi moderni una doverosa integrazione storiografica a un panorama della cultura greca che si proponesse di riparare i torti fatti alla periferia da una Atene prepotente e imperialistica sul piano culturale non meno che su quello politico e militare, una Atene il cui operato è stato troppo a lungo sottoscritto da noi moderni sul piano storiografico: lo faremmo, come sarebbe compito a noi adeguato, operando nel campo del discorso filologico–erudito, mentre in Callimaco l’erudizione era stata la base di un suo grandioso programma poetico. La sua visione storico–erudita si integrò perfettamente in una grande opera letteraria, la cui perdita quasi completa non lamenteremo mai abbastanza.
5. Teocrito (o della letteratura elegante) Ho lasciato per ultimo, e con intenzione, Teocrito, che è un vero miracolo di dissimulazione. Il richiamo erudito è in lui sotterraneo, è un atto di virtuosismo non gratuito ma funzionale allo specifico letterario e per di più generosamente dispensabile, nel senso che chi non lo vede gode ugualmente dell’opera nel suo intero: alcuni di questi sottili richiami sono venuti gradualmente alla luce nel corso degli ultimi decenni e ne verranno ancora in futuro, il che è riprova della sua dissimulazione, appunto. In Teocrito il codice letterario di integrazione dell’erudizione è un codice nascosto, riservato a chi riesce a decifrarlo e che può benissimo restare nascosto a chi non ci riesce, senza che ne venga danno alla limpidezza del suo dettato poetico, senza che ne venga inquinata la comunicazione letteraria. In questo senso il virtuosismo, virtuosisticamente criptico, è funzionale alla realizzazione del suo codice letterario stesso.
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Nel suo carme programmatico, l’Idillio VII, si autopresenta come πρῶτος εὑρετής del genere bucolico33, ma lo fa con una elegante discrezione che lo rende molto superiore alle esplicite e violente affermazioni metaletterarie del Callimaco del prologo degli Aitia e degli epigrammi. Teocrito dice tutto riuscendo nello stesso tempo a non abbandonare il registro narrativo dell’idillio: è discreto e quindi elegante e, in sostanza, metaforico, perché la sua metaletteratura, che è così allusiva e dissimulata, merita a mala pena tale definizione. In una recente nuova lettura degli Idilli XXIX e XXX, i cosiddetti paidikà eolici, Pretagostini mette in luce una straordinaria strategia teocritea34. In questi due idilli Teocrito ha usato sia il dialetto eolico sia due versi usati in origine dai poeti eolici, il pentametro eolico e l’asclepiadeo maggiore. Questo è quanto si diceva finora per caratterizzare questi due carmi, che nella lingua, nel metro e infine nella tematica dell’amore efebico si presentavano come una ricostruzione archeologica di un genere lirico arcaico, per giunta in versi lirici usati stichicamente e cioè come fossero versi recitativi35. Ma Pretagostini ha sottoposto a scrutinio puntiglioso lingua, tematica e metro dei due idilli e ne è venuto un risultato ormai per Teocrito non più sorprendente, vista la sua diabolica e sotterranea abilità: nel XXIX lingua e tematica sono molto fortemente eolici, e Teocrito ha usato come verso «un vero fossile metrico», il pentametro eolico, ormai bandito da secoli; il XXX è invece ricco di contenuti culturalmente a lui contemporanei, e il verso da lui usato è l’asclepiadeo maggiore, rimasto sempre in uso e destinato anche a sopravvivergli. Si dirà che Teocrito ha scritto un capitolo di storia letteraria? Lo ha fatto, ma in modo così coperto ed elegante, così perfettamente integrato non solo da farsi perdonare, ma anche da meritare il nostro plauso. Uno degli espedienti usati con mano più leggera è in lui la cosiddetta mistione dei generi letterari, che è forse il modo più generoso di professare fedeltà a una tradizione letteraria, di dichiarare in modo implicito la propria erudizione. Una panoramica è tutto quello che mi consento qui, rimandando altrove per i dettagli36 e segnalando solo gli idilli, senza indicare i procedimenti, ‘segnalati’ alle volte solo da una parola–chiave: IV (mimo e carme bucolico), VI (epistola poetica e idillio bucolico), XI (epistola, canto d’amore e carme bucolico), XIII || 33 Per la ricognizione dell’allusivo discorso teocriteo rimando specialmente a M. PUELMA 1960 e a G. SERRAO 1971, pp. 11 ss. e spec. 48. 34 R. PRETAGOSTINI, Ripresa, presentato al mio seminario romano il 2.3.1995 e di prossima pubblicazione (di cui una sintesi è nella seconda sezione della sua relazione a questo stesso convegno). 35 Vedremo qui oltre la traduzione esametrica, e cioè recitativa, della ninna–nanna, canto lirico. 36 ROSSI 1971, Generi, pp. 84 s. = 1993, pp. 70 ss.
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(epistola ed epillio, per di più in dialetto dorico), XVI (encomio in esametri, mentre l’encomio era tradizionalmente lirico; e in più carme di accattonaggio, come l’Iresione, il chelidonismo rodio, il coronisma), XVII (altro encomio in esametri), XVIII (epillio e canto nuziale), XXII (inno, epillio e poesia drammatica: tre generi!). L’Idillio III presenta la trasposizione in ambiente campestre di un fatto precipuamente cittadino come il komos. Callimaco, che aveva teorizzato esplicitamente la mistione di generi e di dialetti nel Giambo XIII (fr. 203 PF.), non l’ha certo praticata né frequentemente né con tanta leggerezza come il suo grande collega. Un vero miracolo è la traduzione in esametri della ninnananna che Alcmena canta per Eracle bambino37: XXIV 7–9 εὕδετ’, ἐμὰ βρέφεα, γλυκερὸν καὶ ἐγέρσιμον ὕπνον· εὕδετ’, ἐμὰ ψυχά, δύ’ ἀδελφεοί, εὔσοα τέκνα· ὄλβιοι εὐνάζοισθε καὶ ὄλβιοι ἀῶ ἵκοισθε.
La ninna–nanna era un canto lirico, che qui viene chiuso nella prigione esametrica senza che si rinunci a caratteristiche essenziali del genere, come le anafore, le rime (interne) e le parole–chiave. Questo è solo un esempio fra tanti, perché in realtà in questo poeta straordinario tutte le componenti poetiche del mondo bucolico, come l’agone, vari tipi di canto popolare e d’amore vengono rese in esametri, con l’aggiunta episodica di un espediente come il ritornello, non però rigidamente simmetrico38. E sarebbe troppo lungo parlare qui della lingua, che è nel fondo omerica, ma dorizzata, e non aliena da frequenti colloquialismi: un esametro assolutamente inedito dal punto di vista linguistico, insomma. Teocrito è grande perché sa dissimulare anche le sue simulazioni. Nel ‘motto’ dato in apertura (met. X 252 ars adeo latet arte sua) Ovidio si riferisce a Pigmalione di fronte al suo capolavoro, la donna d’ebano da lui creata, dove l’opera è così perfetta che non si vede l’artificio che simula la natura. Ma il dissimulare l’artificio è, già nella teoria letteraria degli antichi, il massimo obiettivo dell’arte, come ci dice Quintiliano: I 11, 3 si qua in his ars est discentium, ea prima est ne ars esse videatur.
|| 37 ROSSI 1971, Generi, p. 86 = 1993, p. 72. 38 ROSSI 1971, Generi, p. 86 = 1993, p. 72.
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La dissimulazione è addirittura il requisito fondamentale dell’arte, senza il quale arte non c’è: IV 2, 127 perire artem putamus nisi appareat, cum desinat ars esse si appareat.
Noi crediamo – dice Quintiliano – che l’arte perisca se l’artificio non sia evidente, mentre è vero proprio il contrario. Sembra quasi un galateo di buone maniere, dove il vero signore si vede dalla sua tenuta e dai suoi modi poco appariscenti, non ostentati, e peggio per i rozzi, se non si accorgono che è un vero signore, oltre ad essere abile. Questo è Teocrito, un vero gran signore della letteratura. E non siamo soltanto noi moderni ad essere tardi a scoprire le sue carte nascoste: bastano pochi decenni dopo di lui e l’imitatore dell’idillio VIII già non ne decifra più alcune procedure, come il rispetto della gerarchia dei pastori e alcuni fatti di realismo della lingua39.
6. Considerazioni conclusive (o della filologia integrata nella letteratura) Per concludere, temo ancora che ad alcuni sia apparso eccessivo il mio ricorso a giudizi di valore. Ma non voglio farmi addebitare questo abuso come pura espressione di un arbitrario giudizio personale: lo voglio piuttosto definire un indice di fruibilità, o meglio ancora una valutazione di godibilità letteraria, fondata su basi oggettive, che non va confusa con un giudizio estetico che si presenti a un tempo come assoluto e come arbitrario. Mi sono sforzato infatti di stabilire il grado di letterarietà, come dicevo all’inizio (§ 2). La letteratura si nutre di quello che all’origine letterario non è (la cronaca e l’erudizione) e lo trasforma in letteratura: questo procedimento in Apollonio Rodio lo si riscontra qualche volta sì e qualche volta proprio no, a differenza degli altri due poeti, dove è quasi costante. È significativo che proprio nell’eruditissima epoca ellenistica abbia il suo vero atto di nascita il poema didascalico40, che nei vari autori ha una miscela variabile di intento erudito e di eleganza letteraria (Arato, Nicandro), quando non abbia finalità esclusivamente didascaliche (Pseudo–Scimno). || 39 ROSSI 1971, Mondo pastorale. 40 Le Opere e i giorni di Esiodo non sono poema didascalico, bensì semplicemente poesia epica appartenente a un genere ancora indiviso: ROSSI 1995, pp. 72 s., 605 s.
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Prego quindi chi abbia recepito il mio discorso di sostituire a un (intuitivo) giudizio di valore la differenziazione dei metodi compositivi dei vari poeti, delle diverse poetiche: non ‘meglio’ o ‘peggio’, bensì ‘in un modo’ e ‘diversamente da’. Callimaco strutturava i suoi testi poetici interamente con materiale erudito, ma di quel materiale faceva carne della carne della letteratura. Gli Aitia sono poesia ancorata alla tradizione, come lo erano stati al loro tempo Omero, Esiodo, i lirici e i tragici, e in più c’era in lui un gusto autonomo dell’erudizione storica e filologica che però si integrava e si fondeva totalmente nella composizione letteraria41: gli Aitia non esisterebbero se non fossero costruiti, come sono, su un impianto paratattico, ovvero precisamente catalogico, di erudizione, funzionalizzato però a un grandioso progetto letterario portatore di un’intenzione culturale che è anche rivoluzionaria: questa è, a mio parere, la grande novità che ci offre Callimaco, il vero innovatore che sprovincializza la cultura letteraria greca non con un manifesto teorico–politico, ma con un’opera letteraria di alta dignità. Ho avuto occasione altrove42 di formulare così quella che appare essere la sua poetica: «non più ‘io faccio poesia meglio degli altri’, bensì ‘io faccio poesia diversamente dagli altri’». Il giudizio sul ‘meglio’ era in Callimaco implicito, ed era implicito in quella forma di perenne e formalizzato agone che il mondo greco ci ha proposto in tutte le manifestazioni della propria cultura letteraria43: ‘io sono diverso (e quindi migliore) dei miei predecessori’. Nell’epoca arcaica e classica gli agoni erano legati a occasioni esterne, come gli agoni epici e quelli drammatici; in epoca alessandrina l’agone diventò libresco, come è il caso del genere letterario ‘antologia’44. È a noi – a mio parere – che spetta un giudizio esplicito sul ‘meglio’. Quando dico che l’erudizione si integra nella composizione letteraria intendo proprio una fusione totale. È lo stesso processo che vediamo in opera nei carmi di Teocrito: in lui l’erudizione, il richiamo intertestuale, che sono isolati e riposti, diventano letteratura. Teocrito non differisce in questo gran che da Callimaco, se non nel fatto che la sua erudizione è ‘sparsa con la mano e non col sacco’, come la leggenda dice che Corinna ammonisse Pindaro a fare. Più eleganza, più buon gusto, più leggerezza, e per quest’ultima penso a Italo Calvino e alle sue brillanti Lezioni americane. || 41 Se posso permettermi un’incursione nelle letterature moderne, dirò che non diverso è il modo in cui Dante ed Eliot integrano e assimilano l’erudizione. 42 ROSSI 1995, p. 588. 43 In questo senso va riabilitata la famosa definizione di Burkhardt della cultura greca come cultura ‘agonale’, definizione che molte volte siamo stati portati a rifiutare come unilaterale e schematica. 44 Ho formulato questa definizione in ROSSI 1995, pp. 634 ss., 641 s.
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In Apollonio Rodio, invece, si assiste a una quasi equivalenza ovvero intercambiabilità dei due discorsi, del discorso letterario e del discorso filologico– erudito: quello che troppo spesso ci fornisce Apollonio è la notazione filologico–erudita semplicemente trascritta nel contesto poetico, naturalmente con l’adattamento al codice poetico dello stile e del metro e alla costruzione letteraria (come la composizione ad anello del suo IV libro), ma rimanendo filologia ed erudizione. Qualcosa – ripeto quanto ho detto prima – che avrebbe potuto fornirci benissimo con un’opera erudita. Sia chiaro che ho dato una valutazione di Apollonio soltanto per quello che riguarda il rapporto fallito fra filologia ed erudizione: non voglio certo negare che sappia essere anche grande narratore epico, come indubbiamente è nello splendido terzo libro, il libro di Medea, e in tante sezioni degli altri tre. Apollonio Rodio, almeno dove fa la filologia che gli abbiamo visto fare, ci offre solo filologia, sia pure quella di un letterato. Non ho certo bisogno di ricordare che dell’impostazione teorica della ‘non–poesia in versi’ ci è stato maestro già Aristotele nella Poetica. Callimaco e Teocrito ci offrono invece letteratura, sia pure letteratura di filologi (la concessiva è necessaria per riguardo al vecchio pregiudizio crociano): in loro il discorso letterario ha una sua integrità totale, perché l’erudizione e la filologia si distillano in puro materiale letterario. Ho quindi espresso la mia preferenza per i letterati che nel calice del prodotto letterario hanno saputo mescere le varie componenti con abilità, e solo perché mi pare che si ottengano risultati migliori quando i due discorsi, quello letterario e quello filologico–erudito, siano tenuti distinti e si possano quindi fondere, come fanno Callimaco e Teocrito, ma non confondere (o equiparare) a seguito di una semplice giustapposizione, come tanto spesso fa Apollonio. Ho dato la preferenza ai primi due e, fra i due, ho dato la palma a Teocrito, in una scala ascendente che si può ora sintetizzare con una formula: non integrazione (Apollonio Rodio o della filologia), integrazione (Callimaco o della letteratura), integrazione dissimulata (Teocrito o della letteratura elegante). Non è certo un’idiosincrasia mia personale né una novità critica che io offro: è il parere generale, sia di noi storico–filologi sia di noi lettori. Ho solo cercato di fornirmene – come dicevo – una verifica, una ragione basata sugli istituti letterari, e non è dopo tutto una ragione offensiva per Apollonio, perché la considero conseguenza non di un’inferiorità di mezzi (prova ne siano i suoi episodici successi), bensì di una poetica diversa. E allora risulta che mi sono compromesso con una preferenza che è sostanzialmente di poetica: leggo più volentieri Callimaco e Teocrito per il loro modo di far poesia e vorrei saper fare poesia come loro, non mescolando alla lingua poetica della tradizione quel materiale allotrio alla letteratura che sono l’erudizione e la filologia allo stato puro.
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L’atlante occidentale degli Aitia di Callimaco. Mito e modi di lettura Le prime due relazioni, quelle di Cristiano Grottanelli e di Claude Calame1, hanno scatenato un ben giustificato terrorismo contro la categoria “mito” positivisticamente intesa. Io la userò, con opportune precisazioni, perché mi è e ci è necessaria, come risulta dalle stesse due relazioni che ho richiamate. Da esse prendo come spunto, per chiarire la mia posizione, due parole–chiave che liberamente estrapolo: “produzione” e “tradizione”. Produzione del mito significa richiesta di mito e consumo di mito: finché il mito viene prodotto e consumato, vuol dire che svolge una funzione, ed è attraverso la sua funzione che mi pare opportuno definirlo. E mito, dopo tutto, non è che tradizione: il bisogno di una comunità è quello di reperire o di creare una tradizione che le dia una identità. Mi viene in mente un libro recente, a cura di E.J. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione2, dal quale apprendiamo per esempio che alcune “millenarie” tradizioni della monarchia britannica risalgono solo ai tempi della Regina Vittoria: la tradizione, in molti casi, si crea addirittura, ma ovviamente non ex nihilo. Si tratta in sostanza di “affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato”, come dice Hobsbawm stesso3, perché la tradizione mitica non viene totalmente e gratuitamente inventata, ma è memoria che affonda in un passato più o meno lontano. In questo senso la tradizione si costruisce con una sorta di adattamento della memoria, che ha un suo momento iniziale da quando il passato, selezionato e strutturato, svolge una sua funzione di identificazione4. È da tempo che non si cerca più lo Ur–Mythos, il mito “originario”, dando a questa qualifica il valore di “autentico”, attività ti-
|| [Relazione di convegno (V 4.10.1996), pubblicata in G. Pugliese Carratelli – A. Stazio – S. Ceccoli (edd.), Mito e storia in Magna Grecia. Atti del trentaseiesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 4–7 ottobre 1996, Taranto, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, 1997, pp. 69–80] 1 C. CALAME, Mythe et histoire dans l’Antiquité grecque. La création symbolique d’une colonie, Lausanne 1996, ci ha dato uno studio prezioso sulle varianti, reperibili in poeti e storiografi, relative alla fondazione di Cirene. 2 E.J. HOBSBAWM – T.RANGER (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino 1987 (trad. ital.; l’originale inglese è The Invention of Tradition, Cambridge 1983). 3 Hobsbawm, op.cit., p. 4. 4 Prendo in questo senso la formulazione di Calame nell’estratto della sua relazione: “la narrazione del passato eroico mira, senza soluzione di continuità, al presente”. https://doi.org/10.1515/9783110648126-055
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pica di una critica autenticistica che rifiuta ed espunge: di miti ne esistono tanti quante sono le loro successive versioni, di ognuna delle quali è necessario individuare la specifica funzione. Il mito, in altre parole, vive solo nelle sue varianti. Desidero offrire qui una recensio, sia pure cursoria, della presenza dell’occidente greco nella storiografia e soprattutto nella poesia: da questa recensio risulterà che l’occidente greco è presente in varia misura dall’età arcaica all’età ellenistica, e che in quest’ultima il principale cantore dell’occidente risulta essere Callimaco. Se prendo come centro della mia prospettiva un’opera come gli Aitia, è non solo per mostrare il grande interesse di Callimaco per l’occidente, ma anche per riproporre delle considerazioni di metodo che possono condurci a una lettura dell’utilizzazione del mito da parte degli antichi. Penso che il vero discrimine stia nella linea che distingue due funzioni principali del mito. Una è quella etico–paradigmatica, che proponeva un mito come paradigma per l’azione dei contemporanei, e di cui vedo gli esempi meglio conservati nell’epos e nella lirica corale di Pindaro, che all’epos si rifà: miti che illustrano la virtù degli eroi dell’epos che a loro volta illustrano la virtù di un contemporaneo, che ha preso esempio dagli eroi del mito e che deve servire a sua volta di esempio. Oppure ci sono miti che illustrano i pregi di un luogo, di un’istituzione e che devono raccomandarne l’ammirazione: questa seconda è una funzione che voglio chiamare individuante e che doveva dare di un luogo o di una comunità (richiamandone le origini e la storia, e cioè l’aition) delle caratteristiche di identità, in altre parole una specie di targa culturale, e qui l’esempio più illustre mi sembrano proprio gli Aitia di Callimaco sia per la vastità del progetto sia per la riuscita davvero eccellente di quell’esperimento letterario. Preciso di nuovo le due utilizzazioni del mito: una etico–paradigmatica e una eziologico–individuante, che in realtà in parte possono coincidere, ma che emergono di volta in volta con una loro prevalenza. In questa relazione sarà il secondo tipo a interessarmi, quello che sta alla base della costruzione degli Aitia, una specie di rassegna enciclopedica individuante della cultura greca strutturata secondo una panoramica geografica. Come sempre meglio ci rendiamo conto, il nostro apprezzamento globale della cultura greca è risultato spesso difficile perché è stato spesso parziale, dato l’assoluto predominio della cultura attica, al suo apice almeno dalla metà del VI fino a tutto il IV secolo a.C.: un predominio che a intermittenze durò poi ancora a lungo nel mondo antico, e che si è rinnovato nel mondo moderno per l’abbondanza della produzione letteraria conservata, conseguenza dell’accortezza nella trasmissione di quello stesso patrimonio letterario. Chiamerei “prospettiva attica” questa falsa prospettiva. Ma c’è un altro pericolo che va evitato,
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quello di chi voglia cercare (ed eventualmente credere di trovare) dei precisi confini cronologici di alcuni fenomeni culturali che per loro natura non si escludono l’un l’altro, ma possono essere compresenti: intendo nel nostro caso il mito etico–paradigmatico e il mito eziologico–individuante. Non c’è un Wendepunkt cronologico, non ci sono dei momenti che si possano utilizzare come ante quem o post quem. Già Omero, che è principalmente etico–paradigmatico, è ricco di aitia. E anche una visione globale della cultura attica fra il VI e il IV secolo a.C., così ampiamente documentata, ha per noi il vantaggio di offrirci generosamente tutti e due i procedimenti, in alcuni casi totalmente intrecciati fra di loro: penso alle Eumenidi di Eschilo (458 a.C.) e al mito eziologico dell’Areopago, che ha però allo stesso tempo tutta la sua valenza paradigmatica di una Atene fondatrice di cultura5. Si tratta di un uso polivalente del mito, dove è per noi interessante trovare, già operante, l’aition, che si avrebbe torto a vedere come procedimento totalmente o quasi esclusivamente proprio della dotta cultura ellenistica. Che spazio ha occupato l’occidente greco e nella poesia e nella storiografia? In epoca arcaica la differenza fra questi due generi letterari è abbastanza sfumata, almeno dal punto di vista della pubblicazione e della diffusione, se Erodoto alla fine del V sec. a.C. ci offre una storiografia che si rivolge a una platea simile a quella degli agoni rapsodici e che vuole in certo modo sostituire Omero. L’epica arcaica sembra aver dato spazio all’occidente mediterraneo collocando proprio in occidente alcuni episodi del nostos di Odisseo. Dall’Odissea, a cui si devono aggiungere l’Odissea ciclica e la Telegonia, si ricava l’impressione che fosse ancora possibile considerare alcune zone dell’occidente come aree “sensibili” dell’ecumene, aree in cui era possibile collocare popolazioni con caratteristiche straordinarie, esseri mostruosi, thaumata in generale6. Dico questo anche se va tenuto conto della estrema indeterminatezza della geografia dell’Odissea7: la localizzazione occidentale del poema è processo graduale, nel tempo, della cultura greca. Ora, la colonizzazione greca della Sicilia e dell’Italia meridionale — se si prescinde da Pitecusa e poi da Cuma (che Strabone 5. 4. 4 definisce come la più antica di tutte le colonie siceliote e italiote) — inizia intorno o poco dopo il 750 || 5 A. CAMERON, Callimachus and His Critics, Princeton N.J. 1995, p. 42 opportunamente richiama a un interesse eziologico diffuso e antico almeno quanto le Eumenidi. 6 È notevole, anche se si tratta di aggiunta tarda, che in una parte spuria della Teogonia di Esiodo (1011–1013, 1016) si parli di mondo latino e degli etruschi. 7 Segnalo, a questo proposito, le relazioni di Alfonso Mele e di Lorenzo Braccesi in questo stesso Convegno. V. anche F. PRONTERA, L’estremo Occidente nella concezione geografica dei Greci, in La Magna Grecia e il lontano Occidente (Atti Taranto XXIX) 1989, Taranto 1990, 55–82.
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a.C. (Nasso, Zancle) e prosegue fino intorno al 580 (Agrigento, l’ultima grande colonia, e Lipari)8. La prima colonizzazione sulle coste dell’Asia Minore si deve porre, secondo la datazione tradizionale, alla fine del II millennio. Dunque, se la colonizzazione dell’occidente è tutta posteriore alla fine della cosiddetta “età oscura”, il vicino Oriente ospitava importanti insediamenti greci già all’inizio della stessa “età oscura”. Questo approssimativo quadro cronologico permette di capire per quale motivo nell’ottica degli aedi arcaici l’occidente potesse prestarsi a ospitare personaggi e vicende posti al di fuori della normale umanità. Va ricordato che Filita di Cos (fine IV – inizio III sec. a.C.) nel suo Hermes esametrico (fr. 1 K.), e quindi epico, localizzi l’isola odissiaca di Eolo (che in Omero era vagante) in un occidente reale e storico, e cioè a Lipari. Per completare il quadro dell’epica arcaica bisogna ricordare almeno i Nostoi, di cui abbiamo ben poco, ma che potevano comprendere peregrinazioni in occidente9, e i numerosi poemi dedicati ad Eracle, eroe che operò anche in occidente (Cinetone, Pisandro, Paniassi)10: le sue grandi imprese occidentali furono il furto delle mandrie di Gerione e i pomi delle Esperidi. A questi va aggiunto Stesicoro (attivo nella prima metà del VI sec.) come poeta epico–lirico che crea uno spazio lirico alternativo all’epica esametrica, se si accetta la definizione da me data anni fa11. I suoi omaggi all’occidente sono numerosi, e non è da meravigliarsene, trattandosi di cittadino dell’occidente: penso soprattutto a carmi come la Gerioneide con Tartesso, la Ilioupersis se c’è da dar fede alla Tabula Iliaca capitolina con Enea e l’Esperia, l’Elena e la Palinodia con l’omaggio ai Dioscuri e a Locri, la Scilla con Eracle. In realtà Stesicoro nelle sue scelte è un eclettico, che risponde alle esigenze dei suoi committenti, siano essi o no occidentali (per esempio Sparta nell’Orestea). Anche in campo storiografico l’occidente non è stato assente. Due figure del V secolo come Antioco di Siracusa e Ippi di Reggio12 hanno avuto grande peso anche come fonti: specie Antioco è servito a Tucidide, a Filisto, a Timeo e a Strabone.
|| 8 D. MUSTI, Storia greca, Roma–Bari 1989, p. 190. 9 Nei frammenti e nel riassunto di Proclo in realtà non ne rimane traccia (v. pp. 93–99 Bernabé). 10 BERNABÉ, pp. 117, 164, 167–170, 174–184. 11 L.E. ROSSI, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, in Orpheus 4, 1983, pp. 5–31. 12 Per quest’ultimo v. M. GIANGIULIO, Per la tradizione antica di Ippi di Reggio (FGrHist 554), in ASNP, s. III, 22.2, 1992, pp. 303–364; dello stesso GIANGIULIO, Ippi di Reggio, la Suda e l’erudizione pinacografica antica (FGrHist 554 T 1 = Suda i 591 Adler), in Ἰστορíη. Studi G. Nenci, Galatina 1995, pp. 225–243.
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Fra IV e III sec. a.C. c’è un intensificarsi di poesia eziologica13, legata a un intensificarsi di ricerche locali, dovute al riemergere di località periferiche per lungo tempo ignorate. La prassi eziologica, come dicevo, è stata per troppo tempo vista come attività prevalentemente erudita e quindi tipica di quello che si voleva che fosse la cultura alessandrina, mentre fu sempre, e certo anche in età ellenistica, una manifestazione di erudizione fortemente funzionalizzata e, come si usava dire fino a poco tempo fa, impegnata: impegnata, appunto, nella caratterizzazione individuante di luoghi e culture. Vorrei qui proporre una valutazione particolare degli Aitia di Callimaco14, un’opera di grande novità letteraria nella sua qualità di poema catalogico– eziologico di grande respiro costruito come tale, volto a conservare il patrimonio culturale anche di luoghi remoti dell’intero mondo greco, con un ecumenismo veramente ellenistico: un mondo del tutto diverso dal localismo della cultura attica. Nella costruzione stessa degli Aitia Callimaco è stato un assertore delle identità periferiche, quelle identità che erano state obliterate dalla centralizzazione della cultura attica. Ora, mi sono chiesto quanto posto abbia l’occidente greco negli Aitia di Callimaco. Per Callimaco sono appena apparsi due preziosi sussidi: uno di Giulio Massimilla e uno di Giovan Battista D’Alessio15. Pur nella frammentarietà dell’opera, il materiale che si ricava non è poco16: L. II: fr. 43 (De Siciliae urbibus)17: Sicilia (ed ecisti di Zancle) frr. 44–47 (Busiris–Phalaris)18: Egitto–Agrigento L. III: fr. 64 (Sepulcrum Simonidis): Camarina, (Siracusa, per Simonide), Agrigento frr. 84–85 (Euthycles Locrus): Locri Epizefirii
|| 13 CAMERON, op. cit., 43 e n. 127; v. anche 42 sul filone rappresentato dagli attidografi e dagli esempi storici nell’oratoria attica. 14 Da me inizialmente proposta in Letteratura di filologi e filologia di letterati, in Aevum Antiquum 8, 1995, pp. 9–32, precis. 20–24. Per una visione d’insieme degli Aitia, con utili dettagli, v. L. LEHNUS, Callimaco tra la “polis” e il regno, in Lo spazio letterario della Grecia antica, I.2, Roma 1993, pp. 75–105, spec. 79–95. 15 G. MASSIMILLA, Callimaco, Aitia. Libri primo e secondo. Introd., testo critico, trad. e comm., Pisa 1996 (a p. 324 un elenco dell’interesse di Callimaco per l’occidente anche al di fuori degli Aitia); G.B. D’ALESSIO, Callimaco. Trad. e note con testo greco a fronte, I–II, Milano 1996. Debbo utili suggerimenti a Pietro Cappelletto. 16 Cito i frammenti da Pfeiffer, indicando per comodità i suoi titoli sintetici. 17 = 50 Massim. Sul novero delle città siciliane implicate v. MASSIMILLA, op.cit., p. 325. 18 = 51–55 Massim., p. 360ss.
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L. IV fr. 93 (Theudotus Liparensis): Lipari fr. 96 (Venator Gloriosus): Posidonia? frr. 98–99 (Euthymus): Locri, Temesa frr. 106–107 (Gaius Romanus)19: Roma [fr. 115? da l. III? (Onnes et Tottes20: Lipari o Lemno?]
Mi soffermerò su un frammento soltanto. La sequenza più estesa (forse un aition completo) è quello delle città siciliane (fr. 43 Pf. = 50 Mass., 1-83), in cui la musa Clio, la musa della storia, istruisce Callimaco sulle colonie di Sicilia. Quello che rende interessante il passo è l’attenzione di Callimaco per le procedure rituali concernenti la colonizzazione a proposito della fondazione di Zancle (58 sgg.): ornitomanzia, erezione delle mura, divisione degli spazi, lite degli ecisti Periere e Cratemene per la falce con cui Zeus aveva evirato Crono, oracolo di Apollo. Qui l’aition si rivela non strumento favoloso di legittimazione, ma storia riscontrabile nelle fonti e nella recente memoria dei coloni21. Si è parlato per Callimaco, e per tutta la cultura ellenistica, di storicizzazione del mito: ma, nel procedimento letterario, abbiamo qui una assunzione della storia in quello che era il luogo del mito, e quindi una specie di mitizzazione della storia. Ricordo il programmatico fr. 612 Pf.: amàrtyron oudèn aeìdo, “non canto nulla che non sia attestato”. Si dirà che quanto rilevato nel fr. 43 è simile a quanto leggiamo nel callimacheo Inno ad Apollo per Cirene con la fondazione dei Karneia, ricca di tante prescrizioni per ecisti22, ma qui negli Aitia c’è qualcosa di più, e cioè il v. 66 sg.: Che tu vada protetto, ti dico, dalle ali dello sparviero e [dell’avvoltoio (?)] se in terra straniera tu guidi mai genti in colonie. (traduz. D’Alessio)
È Clio, la Musa, che parla a Callimaco stesso, discendente dell’ecista Batto di Cirene e ancora possibile ecista a sua volta per un’attualità storica che riguarda soprattutto l’oriente di Alessandro e dei suoi successori. Mito, storia e attua-
|| 19 Importante la parola Panellàdos: i greci tutti o anche i romani come greci? V. n. di D’ALESSIO, op. cit., ad loc. 20 V. 11: le fornaci di Efesto sono a Lemno o a Lipari? G. MASSIMILLA, in ZPE 95, 1993, 33–44 (segnalatomi da A. Pagliara). 21 V. l’esauriente commento di MASSIMILLA a pp. 339–41. 22 R. NICOLAI, La fondazione di Cirene e i Karneia cirenaici nell’Inno ad Apollo di Callimaco, in MD 28, 1992, 153–173. Su mito e storia di Cirene da Pindaro a Callimaco v. C. CALAME, Mythe et histoire, cit.
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lità s’intrecciano: la ktìsis, ovvero la fondazione di una nuova comunità, è attualità che si proietta nel futuro, invece di annidarsi nei recessi della storia mitica. Resta da vedere, nei suoi rapporti con l’occidente, l’epos tradizionale in età ellenistica, quello che fu chiamato anti–callimacheo. Per quanto riguarda la sua qualificazione storico–letteraria, richiamo qui brevemente la storia della questione23: lo si era considerato da una parte esiguo (ma lo è solo per la frammentarietà della conservazione) e soprattutto perdente dal punto di vista qualitativo (e solo in questo senso si poteva aver ragione, ma è fatto poco rilevante per noi), finché il libro di Konrat Ziegler (1934 in prima edizione) richiamò l’attenzione su questo fenomeno letterario che, pur contrario ai dettami del Museo, aveva avuto notevole fortuna e diffusione. Naturalmente da valutazioni negative restava escluso l’epos di Apollonio Rodio, la cui opposizione a Callimaco è oggi peraltro giustamente contestata. Ora, come si pone il contemporaneo epos ellenistico nei confronti del mondo occidentale? In Apollonio c’è della geografia occidentale soprattutto nel IV libro, alla fine delle Argonautiche (552 sgg.), in grazia del disegno del grande nostos, che è circolare da Iolco a Iolco, con una lunga incursione nelle regioni che portano fino all’Eridano e al Rodano24. Per di più l’occidente rappresenta ancora, in termini epici arcaici, il remoto e l’esotico. Ma è l’impianto delle due opere che è diverso: Apollonio è tradizionalmente epico, con excursus eziologici man mano che la narrazione del viaggio ne offre l’occasione, mentre Callimaco offre una specie di manifesto eziologico sistematico, la cui estensione geografica ci è dato solo di intravedere, ma che doveva essere innovativamente molto ampia25. Ma, per quanto riguarda il resto della produzione epica ellenistica26, l’interesse per l’occidente sembra minore anche rispetto a quello di Apollonio. Fra cinquanta poeti27 (alcuni dei quali autori di vari poemi), si riscontra un possibile interesse per l’occidente in Demostene di Bitinia (Ktiseis), in Diotimo di Adra-
|| 23 Sulla quale informa esaurientemente, con inquadramento nei vari momenti della ricerca, M. FANTUZZI, in: K. ZIEGLER, L’epos ellenistico, II ediz. a cura di F. DE MARTINO con premesse di M. Fantuzzi, Bari 1988, pp. XXIII–LXXXVIII; Fantuzzi fornisce anche una preziosa lista dei poeti. 24 E. DELAGE, La géographie dans les Argonautiques d’Apollonius de Rhodes, Paris 1930: l’occidente a pp. 192–276. 25 L. LEHNUS, art. cit., spec. 84 giustamente rimpiange la perdita di tanta storiografia a cui Callimaco attinse (Senomede di Ceo, Agia e Dercilo argivi, Aetlio di Samo, Anticlide di Atene, Leandrio di Mileto; e, risalendo ai sec. V–III, Ellanico per il mondo eolico e Timeo per l’Occidente). 26 Sull’epica in rapporto con il perdurante uso degli agoni v. M.R. PALLONE, L’epica agonale in età ellenistica, in Orpheus 5, 1984, pp. 156–166. 27 Prendo sempre dalla lista di FANTUZZI, cit.
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mittio (Heràkleia), in Callimaco iunior di Cirene (figlio della sorella di Callimaco: scrisse qualcosa come un Perì néson), in Cleone di Sicilia (Perì liménon). L’unico che sembra da ascrivere con sicurezza a interessi occidentali è Nicandro di Colofone, che scrisse una Sikelìa in più libri. Quali sono, d’altra parte, i temi più frequenti della ricca produzione epica ellenistica? Dò qualche esempio: per l’epica arcaizzante le Tebaidi, per l’epica locale la Messenia, Argo, per l’epica encomiastica (molto abbondante) Alessandro e i diadochi28. Non si può sfuggire a una conclusione: che l’occidente greco è stato poco presente nell’epica di tipo tradizionale29 e che Callimaco riempie per noi questo vuoto con un’opera di impianto del tutto nuovo, che permetteva di sfuggire alle restrizioni di una narrazione epica e di spaziare liberamente in tutto il mondo greco30. Mi domando se si può verificare quanto qui ho esposto sulla base del materiale archeologico. Penso ai vasi (con il loro linguaggio narrativo) e alle monete (con il loro linguaggio simbolico) e al loro legame figurativo con i luoghi. Forse i vasi, quanto a tematica mitologica, trattano miti più diffusi, più panellenici, e questo sia per i luoghi della grande produzione, che erano relativamente pochi, sia per i luoghi di destinazione, fra i quali le sedi minori sono per noi meno controllabili dal punto di vista archeologico. Sicuramente le monete possono dare sotto questo aspetto risultati più concreti: i miti locali vi sono ovviamente privilegiati rispetto a qualunque altra tematica, ma c’è anche da dire che la diffusione delle monete segue logiche diverse rispetto alla diffusione dei vasi. Per concludere: la quasi perduta storiografia, l’avara epica ellenistica, vasi e monete da una parte e dall’altra i generosi Aitia di Callimaco. Certo, la destinazione di vasi e monete era sociologicamente più estesa, così come lo era, localmente, la destinazione dei poemi eziologici locali. La storiografia, d’altra parte, aveva una sua funzione erudita, ma viveva anche di scambio reciproco di notizie con l’epica stessa: lo stesso Tucidide a suo tempo per la guerra di Troia partiva da Omero, pur correggendolo. E Callimaco? Se è vera, come credo che sia, la tesi di chi sostiene l’elitarismo della letteratura callimachea, e la minor diffusione rispetto alla letteratura di tipo epico–omerico, allora gli Aitia furono un medagliere geografico ad uso dei dotti con sede nei principali centri di cul-
|| 28 M.P. NILSSON, Cults, Myths, Oracles and Politics in Ancient Greece, Göteborg 1986 (= Lund 1951): sui diadochi pp. 108–112. 29 ZIEGLER, op. cit., cap. IV. 30 Un caso particolare è l’Alessandra di Licofrone, strano prodotto letterario a mezzo fra epos e dramma (una lunga rhesis narrativa in forma di profezia), dove Troia distrutta rinasce a Roma (vv. 1226–1282). La cronologia oscilla di un secolo, fra l’inizio del III sec. a.C. e l’inizio del II.
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tura ellenistici, soprattutto Alessandria. Ma non furono per questo meno influenti, come ci conferma la grande fortuna di Callimaco a Roma: furono un’anagrafe storico–mitologica del mondo ellenizzato, un orgoglioso censimento di quel mondo. Gli Aitia furono un’anagrafe del mondo greco visto da un osservatorio di grande prestigio politico ma soprattutto culturale, Alessandria, e di questa anagrafe, come ho cercato di mostrare, penso si sia giovata in modo particolare la grecità d’occidente. Va aggiunto, ad accrescere il pregio dell’operazione callimachea, che il suo occidente non viene dall’epos arcaico, ma da una visione autonoma della rinnovata carta geografica del mondo ellenizzato31. Non mi pare azzardato definire Callimaco come un benefattore letterario, e quindi storico, dell’occidente greco.
|| 31 Per un utile panorama diacronico della visione geografica dei greci, v. F. PRONTERA, Il Mediterraneo come quadro della storia greca, in I Greci, 2.I, Torino 1996, 25–45, spec. 44: “Il Mediterraneo come tale non ha [...] mai orientato le riflessioni dei Greci sulla loro civiltà”. Callimaco, pur in un mondo recentemente molto ampliatosi verso oriente, sembra tuttavia concentrarsi su un quadro mediterraneo, fornitore di aitia culturali molto antichi.
La dedica nella letteratura alessandrina Ecco una mia proposta, che vorrei sottoporre a verifica. Mi pare di intravvedere nel corpus teocriteo una differenza morfologica con il corpus–autoedizione di Callimaco, ma al di là dalla presenza di apocrifi. Non so se sia stato osservato in Teocrito quello che a me pare un arcaismo di notevole interesse, e cioè la dedica personale1 di alcuni idilli: 6 Dameta e Dafni, ad Arato; 11 il Ciclope, 13 l’Ila, 28 la Conocchia a Nicia il medico; a Ierone il 16, le Cariti; al Tolemeo il 17; se si deve dar fede al titolo trasmesso da Ateneo, Berenice, il fr. III Gow. Parlo di arcaismo, perché la dedica esplicita di composizioni era propria della lirica arcaica e tardo arcaica (dedica a singoli, come nella lirica simposiale, nell’epinicio e nel threnos; e dedica a poleis per la lirica corale sacra). L’epoca arcaica era segnata dall’occasione esterna della pubblicazione ed era quanto mai ancora lontana dalla confezione di libri: la comunicazione letteraria avveniva in arcaico per canali diversi da quelli dell’epoca ellenistica. Mi pare che in Callimaco non ci siano dediche. Mi domando se Callimaco abbia qualche volta praticato la dedica e abbia escluso tali composizioni dalla sua autoedizione in quanto disadatte a una pubblicazione libresca (salvo i virtuosistici epinici in distici; la Chioma di Berenice, poi, è un encomio travestito da aition; e le lodi ai Tolemei negli Inni non sono strutturali ma episodiche): è da credere che la dedica l’abbia praticata, come l’ha praticata Teocrito, ma che non abbia incluso tali composizioni nella sua autoedizione, la cui autorità avrà poi impedito di inserire tali carmi (come impedì che venissero inseriti degli apocrifi). Il fatto è che la nuova forma usuale del carme dedicato e/o d’occasione reale (o simulata) era diventato l’epigramma, e di Callimaco abbiamo sì gli epigrammi, molti dei quali sono dedicati o mimano l’occasione: ma è significativo che la documentazione che abbiamo (assenza di papiri con epigrammi)
|| [Il saggio probabilmente risale al 1998. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
1 Intendo per dedica la dichiarazione esplicita dell’occasione e non la dedica formale di un’opera come proprietà del dedicatario, che è del mondo romano e moderno. Per quest’ultimo valore v. l’utile voce di M. Fuhrmann, Widmung , in “Der Kleine Pauly”, 5, 1975, col. 1373 s., che cita J. Ruppert, Quaestiones ad historiam dedicationis librorum pertinentes, Diss. Leipzig 1911 e T. Janson, Latin Prose Prefaces, 1964. Diversa è la dedica dell’epigramma, che continua ad essere composizione d’occasione, vera o simulata che quest’ultima sia. [altra bibl. in Birt, 312.3; v. Birt 312–5, 318, ma è quasi solo mondo romano] https://doi.org/10.1515/9783110648126-056
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spinga a credere che Callimaco non li avesse inclusi nella sua autoedizione2. (Fra parentesi, sugli epigrammi di Teocrito, che hanno una tradizione diversa da quella degli idilli, avrà molto da dirci la prossima tesi di dottorato di Laura Rossi[3], che offrirà un’analisi tipologica di grande interesse e una proposta di datazione del libellus entro limiti piuttosto stretti). Confrontando la prassi autoeditoriale che ci è così autorevolmente nota attraverso Callimaco, mi domando quanto fosse usuale inserire simili composizioni in un liber d’autore. Che fosse del tutto inusuale? Ovviamente circolando, almeno alcuni di tali carmi dedicati saranno stati comunque reperiti da chi cominciò a mettere insieme le opere di Teocrito, in assenza di una sua autoedizione (come furono reperiti e messi insieme gli epigrammi di Callimaco, che – lo abbiamo visto – nell’autoedizione non dovevano essere inclusi). La dedica e l’apostrofe erano tipiche di una comunicazione aurale, che venne poi abbondantemente mimata dai romani, con l’inclusione di tali componimenti nei vari libri (valga per tutti l’esempio di Catullo, con dedica iniziale e apostrofi nei carmi)4. A Callimaco la mimesi era sì familiare: ha mimato il rito in tre dei suoi Inni (II, V, VI), ma non mi pare che la dedica sia stata da lui neanche mimata in carmi compresi nella sua autoedizione (e penso, nel dettaglio, al liber dei Giambi , che sembra privo di dedica iniziale o di apostrofi). Fino a prova contraria, la mia impressione è che la vera opera d’occasione, quella con dedica o mimata o reale, fosse ormai solo l’epigramma e che altre composizioni, come gli idilli di Teocrito, se dedicati non dovessero far parte di autoedizioni. La loro presenza nel corpus sarebbe una conferma ulteriore, seppur pleonastica, della mancanza di autoedizione da parte di Teocrito, la cui autorità avrebbe del resto ostacolato, come per Callimaco, anche l’intrusione di falsi5.
|| 2 Già sostenuto da Pfeiffer nella sua edizione, vol. II, p. XCII e ora da G. B. D’Alessio, Callimaco. I. Inni, epigrammi, Ecale, Milano 1996, p. 47 s. [3 La tesi di Dottorato di Laura Rossi, dal titolo Gli ‘Epigrammi’ di Teocrito: un metodo di approccio (IX ciclo, Università “La Sapienza” di Roma), è stata discussa il 29.9.1998 all’Università di Firenze, ed è stata poi pubblicata in inglese come The Epigrams Ascribed to Theocritus: A Method of Approach, “Hellenistica Groningana V”, Paris 2001.] 4 Ricordo la dedica di Nicandro [a Protagora di Cizico, cui sono dedicati sia i Theriakà sia gli Alexiphàrmaka], che peraltro la prende da Esiodo, dagli alessandrini considerato il padre dell’epica didascalica. 5 Questi ultimi sono otto, allo stato attuale degli studi: 8, 9, 19 Il ladro di favi, 20 Il Bucolisco, 21 I pescatori, 23 l’Erastes, 25 l’Eracle uccisore del leone, 27 l’Oaristys.
La letteratura alessandrina e il rinnovamento dei generi letterari della tradizione 1. I generi letterari e la loro mistione. I vari sistemi letterari Ormai molti anni fa, nel 1971, uscì un mio articolo sulle leggi dei generi letterari nel mondo antico che ebbe una fortuna certo immeritata1: me la posso spiegare solo considerando il fatto che di quell’argomento da un pezzo non si scriveva quasi più. In Italia, poi, c’era stata la lunga parentesi crociana, durata più di mezzo secolo, durante la quale chiunque parlasse di genere letterario, anche dopo che Croce aveva attenuato la sua condanna assumendolo come «pseudoconcetto» in La poesia del 1936, rischiava di essere bollato a dir poco come sciocco. Quel mio vecchio lavoro dovrebbe oggi essere riscritto e in gran parte è stato realmente riscritto da più studiosi, alcuni dei quali sono qui presenti. Prendendo spunto da alcune delle loro argomentazioni, cercherò adesso di dire in che modo vorrei a mia volta, almeno in parte, riscriverlo. Qualche dissenso ha suscitato recentemente la mia assunzione del concetto della mistione dei generi letterari (la Kreuzung der Gattungen di Kroll2). Anche se io rifiutavo l’impostazione integralmente ludica della letteratura alessandrina, quella che si esprime con la formula di Spiel mit den Formen3, i miei suggerimenti di mistione (alcuni già divulgati e alcuni nuovi) potevano apparire sospesi in un’aura non abbastanza ben definita dalle coordinate dei singoli contesti letterari. Quello che allora non resi esplicito, e che adesso va chiarito, era il concetto indispensabile di s i s t e m a l e t t e r a r i o 4: lo hanno precisato recentemente Conte per la letteratura latina5 e Fantuzzi per quella greca6.
|| [Relazione di convegno, pubblicata in R. Pretagostini (ed.), La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca. Atti del Colloquio Internazionale, Università di Roma “Tor Vergata”, 29–30 aprile 1997, «SemRom» Quaderni 1, Roma, Quasar, 2000, pp. 149–161] 1 L. E. Rossi 1971. Desidero giustificarmi per i numerosi riferimenti (che mi esimono dal ripetermi) a miei lavori anteriori, trattandosi qui di una esposizione sintetica di idee più antiche e più recenti (e di qualcuna nuova). 2 Kroll 1924. 3 Snell 1963, cap. XV. 4 Credo di averne tenuto esplicitamente conto in alcuni lavori posteriori (1972, 1978) e specialmente nella Letteratura greca (1995), in cui ho cercato di impostare la trattazione dal punto https://doi.org/10.1515/9783110648126-057
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Siamo debitori del concetto di sistema alla linguistica di Saussure, e niente è più efficace per illustrarlo del magnifico paragone, sempre saussuriano, con la situazione dei pezzi degli scacchi sulla scacchiera: ogni pezzo ha un suo valore a seconda della situazione che, mossa dopo mossa, si viene creando sulla scacchiera stessa. Questo vuol dire che i generi tradizionali, a cui i greci restarono attaccati fino allo scrupolo, mescolati o no che fossero, e variamente rinnovati, in qualcosa di essenziale diventavano diversi da quello che erano prima, e cioè a seconda del loro c o n t e s t o n e l s i s t e m a : il sistema letterario (la partita a scacchi) procedeva di volta in volta verso nuove combinazioni e i generi (i pezzi degli scacchi) prendevano di volta in volta valori nuovi. Il compito dello storico si fa allora impegnativo. Si tratta di verificare a quale situazione, a quale momento ci si debba riferire: per restare ancora nella metafora saussuriana, si tratta di individuare chi sono di volta in volta i nuovi giocatori della partita a scacchi, e cioè da una parte i pubblici e dall’altra gli autori, e di valutare la posizione e quindi il valore dei singoli pezzi, e cioè le opere letterarie. La Kreuzung, ovvero la mistione dei generi, non si può però negare7. Ci sono dei casi in cui essa è talmente palese da apparire come tenacemente voluta, da essere il frutto di un consapevole Kunstwollen. Fantuzzi8 è nel vero quando rileva che Callimaco teorizza esplicitamente non la mistione dei generi bensì quella che chiamerei la ‘unione personale’, e cioè la πολυείδεια in un unico autore. Ma il fatto che Callimaco non difendesse esplicitamente la prassi della contaminazione dei generi9 non mi pare significativo. Callimaco non aveva nessun bisogno di difendere nella teoria una prassi (da lui del resto praticata) che era diventata generale proprio per quella necessità di cui parlavo sopra: nessun poeta greco ha mai dovuto giustificare la sua dipendenza dal passato tradizionale e il suo bricolage con quella tradizione proprio perché quello era (ed è) l’unico modo di far letteratura, dal livello della lingua a quello del genere.
|| di vista dei diversi modi della comunicazione letteraria: questa si adattò sempre alle condizioni esterne, diverse attraverso le varie epoche. 5 Fra i suoi molti lavori sull’argomento, vd. per es. Conte 1991. 6 Fantuzzi 1993. Anche Cameron 1995, spec. pp. 145–154, cerca di negare la mistione o, piuttosto, le innovazioni alessandrine: una specifica reazione a Cameron 1995, spec. p. 151 ss., è Thomas 1998, p. 208 n. 6, che difende mie vecchie proposte (L. E. Rossi 1971), fra cui lo ‘scandalo’ di un inno callimacheo (il V, Per i lavacri di Pallade) in distici elegiaci, che non si può far passare come un generic commonplace. Giuste critiche a Cameron anche in Cozzoli 1998. 7 Nuovi contributi in questo senso trovo in Harder–Regtuit–Wakker 1998. 8 Fantuzzi 1993, pp. 44–51. 9 Fantuzzi 1993, p. 48 s. A me pare, però, che la libertà dialettale invocata nel Giambo 13 vada nella direzione della mistione.
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Un principio fondamentale della critica storica è che quanto non è esplicitamente teorizzato può non esserlo proprio perché è ovvio. L’atteggiamento giusto, allora, a me pare sia non quello di negare la mistione, che è innegabilmente presente, ma di capirne il valore. Ovviamente la mistione non è l’unico espediente con cui l’autore alessandrino opera: ma, certo, rimescolare le carte è l’espediente (ovvio) di chi vuole pur sempre servirsi delle stesse carte, e questo i greci lo vollero sempre, perché, nella loro costante ricerca di originalità, si fidavano del destinatario, di chi cioè avrebbe saputo misurare la distanza dell’opera presente dalle venerate opere della tradizione. Il gioco con le forme, allora, può restare un dato acquisito, e non come intellettualistico fine a se stesso, ma come naturale e necessario sviluppo delle istituzioni letterarie: una specie di ‘gioco necessario’ per mandare avanti l’esperienza letteraria, così come l’ «allusione necessaria» – secondo la felice formula di Maria Grazia Bonanno10 – era ed è il modo naturale con cui la lingua poetica non si ferma ma va avanti conservando, e sempre mutando, il suo rapporto con la tradizione. L’allusione necessaria è il rapporto intertestuale, che comprende in sé anche il gioco necessario fra generi e cioè il rapporto dialettico fra modelli compositivi vecchi e nuovi.
2. Teocrito, un astuto contrabbandiere letterario Un campionario istruttivo di mistioni ci viene da Teocrito, che è un formidabile contrabbandiere letterario perché nasconde abilmente i suoi procedimenti11. L’Id. 4 (i Boukoloi) è mimo bucolico; il 6 (Boukoliastai) è epistola poetica e idillio bucolico (agone); l’11 (Il Ciclope) è epistola, canto d’amore e carme bucolico; il 16 (Le Cariti) e il 17 (Il Tolemeo) sono encomi in esametri e il 16 è in più anche Bettelgedicht, come fu ben definito a suo tempo da Merkelbach12; il 18 (Epitalamio di Elena) comincia come epillio e continua (9 ss.) come canto di nozze (in esametri, naturalmente); il 3 traduce in esametri e in komos campestre con παρακλαυσίθυρον (in esametri) quello che era il komos cittadino; l’Idillio 22 (I Dioscuri) è inno, epillio e poesia drammatica (con un dialogo del tutto autonomo). La diegesi e la mimesi drammatica, per rifarsi alla Poetica di Aristotele, non sono più giustapposte, come in Omero, ma mescolate.
|| 10 Bonanno 1990. 11 L. E. Rossi 1971, p. 84 s. 12 Merkelbach 1952.
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Quanto all’assunzione della tecnica drammatica nell’epillio, è interessante, per la critica antica, un passo del Sublime (27. 1), dove l’anonimo fa gran caso di una occorrenza di discorso diretto non annunciato in Omero (Il. 15. 346–349), e quindi di mistione già omerica. Questa notazione resta importante per la teoria, indipendentemente dalla realtà o meno del fenomeno, che si può ben negare al passo omerico citato: così giustamente Russell 1964, nel suo commento al passo. Segnalo qui un ulteriore espediente teocriteo, che credo non sia stato notato. Nell’Id. 3 (il Komos) il παρακλαυσίθυρον è strutturato prima in strofette di due esametri ciascuna (vv. 6–11) e poi, dal v. 12, in strofette di tre esametri ciascuna. Ma c’è un verso, il 24, che è isolato fra le strofette tristiche, che ne interrompe la serie: ὤμοι ἐγών, τί πάθω, τί ὁ δύσσοος; οὐχ ὑπακούεις.
Questo verso divide la sezione dell’invito ad Amarillide (6 ss.) dalla sezione della disperazione dell’amante (25 ss.). Ora, l’isolamento strofico del verso e l’οὐχ ὑπακούεις («tu non presti ascolto!»13) ne fanno un “a parte” che evidenzia un vero cambiamento di genere: che il mimo arieggi il dramma può apparire normale, ma non altrettanto normale apparirà il fatto che all’interno del mimo il παρακλαυσίθυρον, in origine carme interamente lirico, sia interrotto da una formula drammaturgica, che qui svolge la funzione di sezione recitativa intermedia fra due sezioni liriche. E questo in contiguità con l’ormai consueto trattamento recitativo (esametri) contaminato con l’espediente lirico (lirico–mimetico) della costruzione a strofette chiaramente denunciate dalla strutturazione sintattica14: in 6 ss. abbiamo la prima sezione con tre strofette di due esametri ciascuna seguite da quattro di tre esametri ciascuna; in 25 ss. la seconda sezione, tutta formata da strofette di tre esametri ciascuna15.
|| 13 Sono dalla parte di chi qui è per la frase affermativa, come fa Gow: l’interrogazione, in quanto legata alla situazione reale del dialogo, sarebbe in contraddizione con l’isolamento formale (staccato dal dialogo) rispetto alla costruzione strofica che ne fa un “a parte” rispetto al canto, che nel resto è tutto rivolto ad Amarillide. 14 Sulla ricerca alle volte eccessiva di strutturazione strofica, a suo tempo ben definita Strophenjagd, vd. L. E. Rossi 1971, p. 85 e n. 89. Ma qui siamo di fronte a strofette inequivocabili. Ho ripreso l’argomento della mimesi lirica a proposito dell’Idillio 8 in L. E. Rossi 2000. 15 L’ultima strofetta (tristica) del carme (52–54, «ho mal di testa, non canto più, mi butterò a terra disteso») è parte integrante del canto: il “giacere” davanti alla porta dell’amata (la θυραυ-
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Quanto a nuove scoperte di mistione, dò notizia di uno studio di Laura Rossi16 sugli epigrammi di Teocrito: fra l’altro, la Rossi dà una lettura molto acuta dell’epigramma 417, che rivela mescolanza sia di elementi bucolici, sia di sottogeneri epigrammatici ed epigrafici con l’utilizzazione di loci amoeni epici e lirici, sia, infine, di una lingua poetica che modula dal livello medio alla lingua poetica molto alta (epica, lirica, drammatica): il tutto finalizzato a realizzare una dedica e una preghiera ad un Priapo gentile, quasi un’ Afrodite. Siamo al colmo del bricolage, che è l’assunzione di vecchie parti compositive per formare nuovi insiemi.
3. La Kreuzung come espediente funzionale Perché tutto questo avveniva? Perché i vecchi generi letterari non avevano più una loro vita autonoma, specie i generi lirici, così legati all’occasione e poi divenuti, per di più, così ‘difficili’ metricamente. È significativo che Aristotele, nella Poetica, non parlò di quella parte della lirica che dovremmo più propriamente chiamare melica, la poesia divenuta ‘difficile’ e per gli autori e per il pubblico18. Il gioco apparve particolarmente necessario, ricordiamolo, nei casi in cui avvenne la ‘traduzione’ esametrica o elegiaca di sezioni tradizionalmente meliche: oltre ai casi già nominati, ricorderò la generalizzata traduzione esametrica dell’agone bucolico negli idilli totalmente o parzialmente bucolici, e casi singoli come la ninna–nanna di tre esametri nel 24 (Herakliskos, 7–9)19. Insieme con la caduta in desuetudine delle occasioni, giocò un suo ruolo anche la progressiva perdita di competenza metrica e da parte dei letterati e da parte del pubblico. La traduzione di materiale lirico in versione recitativa è pur sempre un atto di virtuosismo: ma più che di gioco necessario, parlerei qui di g i o c o a d d i r i t t u r a o b b l i g a t o , per la mancanza di vere alternative metriche che permettessero una totale fedeltà ai modelli formali di una volta. Altre spie formali non mancano e fungono da ‘segnale’ per il destinatario: la ninna–nanna dell’Herakliskos è ‘segnalata’ da anafore, da rime, da parole– chiave.
|| λία) è topico del παρακλαυσίθυρον (vd. L. E. Rossi 1974). Non lo staccherei quindi tipograficamente dal resto, come fa Gow, e come invece è giusto fare per il v. 24. 16 L. Rossi 1998. 17 Secondo lei non teocriteo (vd. sopra), ma comunque tipicamente alessandrino. 18 Sul rapporto di un Orazio con la poesia lirica greca vd. L. E. Rossi 1998a. 19 Lo notavo sempre in L. E. Rossi 1971, p. 85 s.
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Si dovrà solo ammettere, per rendere giustizia ad alcuni fatti oggettivi, che non sempre il gioco fu del tutto necessario o obbligato: fu qualche volta, a onor del vero, un lusso, un atto di virtuosismo puro, ma fortemente funzionalizzato alle esigenze di un pubblico dotto che voleva anche il gioco. Un caso singolare di archeologia lirica quasi integrale è il carme eolico 29 di Teocrito, come ha mostrato recentemente Pretagostini20. È giusto dire che la letteratura alessandrina non è solo gioco, seguendo un orientamento ormai diffuso: ma sarebbe ingiusto dire che non è mai gioco. Ora, la sfida, per la critica, è capire il significato e il valore contestuale di questi procedimenti. È interessante notare che di generi letterari, nella cultura grammaticale e retorica antica, si parli molto a proposito di letteratura alessandrina21: lo si fa meno quando si trattano l’età arcaica e quella classica, perché la natura di un fenomeno la si riconosce meglio nel m o m e n t o i n c u i q u e l f e n o m e n o s i t r a s f o r m a . E le spinte alla trasformazione furono particolarmente forti proprio in età ellenistica, quando, per usare una mia vecchia formula, le leggi dei generi venivano scritte proprio per non essere rispettate. L’approdo della comunicazione letteraria a un uso sempre più diffuso della scrittura per la pubblicazione, l’approdo cioè alla cultura del libro, è il fatto più macroscopico di quest’epoca, che configura i generi letterari rinnovati. Finite quasi del tutto le occasioni esterne (agoni epico–citarodici, simposio, agoni drammatici), i generi destinati a quelle occasioni non vennero buttati via: non potendo continuarli in forma pura, li si metabolizzava in generi nuovi, misti22.
4. L’epos rinnovato Se in un veloce panorama della produzione letteraria greca cominciamo dall’epos, potremmo dire che la prima grande trasformazione di un genere letterario in Grecia non è fatto alessandrino, ma è già almeno tardo–arcaico. L’epica alessandrina, così efficacemente messa in luce da Ziegler23, fu molto diffusa e in
|| 20 Pretagostini 1997. Sul recupero della tradizione lirica arcaica negli Idilli 29 e 30 vd. anche Hunter 1996. 21 Un utile panorama di critica antica, pur in taglio prospettico ben definito (l’unità dell’opera letteraria), è Heath 1989. 22 Molto strano è l’accanimento con cui Cameron 1995, pp. 152–154 e passim, cerca di negare la (evidente) influenza del (chiaramente attestato) nuovo modo di comunicazione letteraria (il libro invece dell’occasione pubblica). 23 Ziegler 1988.
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sé non fu innovativa bensì conservatrice, riproponendo un’innovazione già da tempo affermata, e cioè la trasformazione dell’epos originario da c i c l o e p i c o a l i b r o s t r u t t u r a t o . La trasformazione in libro, e cioè in sequenza narrativa continuata e in qualche misura coerente e in sé conchiusa, era avvenuta fin dal momento in cui si era cominciato a ordinare l’arcipelago epico originario. Fu il momento in cui si organizzarono l’Iliade e l’Odissea, e cioè per alcuni (me compreso) già nell’VIII–VII sec. a. C., per altri più tardi, certo non oltre il VI sec. ad Atene con Pisistrato. Ma una trasformazione comunque avvenne: da una serie non ben definita di canti epici, con numerose varianti, si passò al poema continuato e organizzato24. Alcuni esempi post–omerici sono l’epica di Paniassi nel V sec. e quella di Antimaco nel IV. E già Pisandro, fra VII e VI sec., aveva strutturato in un unico poema in due libri, Herakleia, quello che originariamente era il vasto ciclo delle imprese di Eracle. Sono le prime vittorie del libro sull’epica, che hanno profondamente trasformato la natura originaria del genere, ma la consapevolezza di questa trasformazione è stata così graduale da non essere neanche avvertita: la promozione dei due poemi omerici a libro organizzato, così esplicita ormai nella Poetica di Aristotele, è stata in realtà una realizzazione graduale e lunga. Metterei questa fra le innovazioni più o meno inconsapevoli, dovuta prima alla graduale scomparsa della cultura orale per la presenza della scrittura (sec. VIII–VII) e poi alla graduale attenuazione della cultura aurale per l’affermarsi del libro (dal sec. IV in poi). Un’altra innovazione inconsapevole è la nascita del poema didascalico, e questa è di età alessandrina. Arato e Nicandro sono degli innovatori, ma non lo sanno, perché credono di rifarsi a Esiodo, che in realtà non era poeta didascalico, ma semplicemente epico25. Un metabolismo altamente consapevole è invece quello dell’epos in mano a Callimaco. Callimaco, come ci è stato chiarito dal libro di Ziegler già citato, rappresentò una posizione minoritaria nella sua reazione all’epos monumentale. Ma va messa in luce l ’ e c o n o m i c i t à 26 del suo compromesso con l’epos. L’Ecale è un anti–epos, un anti–epos quasi polare, con la sua eroina donna e povera (cantare nell’epica di forma tradizionale i grandi eroi contemporanei, come i dinasti, fu compito dell’altra corrente letteraria); e d’altra parte gli Aitia
|| 24 Tengo però ferma la distinzione fra unità redazionale ricavata da materiali già esistenti (i poemi omerici) e unità d’autore (l’epica successiva, rappresentata da Apollonio Rodio e da Virgilio, per capirci): precisazione che mi pare necessaria, visto il dilagare dell’unitarismo omerico negli ultimi tempi. Sull’unità redazionale in Omero e in Esiodo vd. L. E. Rossi 1997. 25 L. E. Rossi 1995, pp. 68–79, e L. E. Rossi 1997. 26 Per l’economicità vd. L. E. Rossi 1998b.
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mostrano che Callimaco, non volendo fare epica infedelmente (libro!) come la si era fatta dopo Omero, ritorna a una specie di ciclo, organizzato con criterio geografico–mitografico invece che narrativo27. «Callimaco tra la polis e il regno» è una indovinata formula di Luigi Lehnus28: e gli Aitia, con la loro ampia periegesi geografico–mitografica con finalità eziologiche, sono appunto il prodotto di una nuova centralità, quella di Alessandria, contrapposta all’ecumenicità panellenica dell’epos arcaico. Molte operazioni di mistione sono presenti anche in Callimaco, come recentemente ha rilevato in dettaglio lo stesso Lehnus. Importante è anche il modo con cui Callimaco realizzò i suoi Inni29. Sotto il termine “inno” andavano sia le preghiere liriche sia gli Inni omerici, che non sono né inni (cioè preghiere) né omerici30, perché sono proemi alla recitazione dell’epos. A Callimaco mancava sia l’occasione per l’inno–preghiera sia la funzione proemiale dell’inno omerico. E allora che cosa fece? Dell’inno–preghiera negli Inni cosiddetti mimetici (2 Ad Apollo, 5 Lavacri di Pallade, 6 A Demetra) introdusse la descrizione di un rito solo descritto e non accompagnato come nella lirica corale (penso specialmente ad Alcmane); dell’inno omerico conservò in tutti e sei una parvenza di narrazione epica, che appare però compressa. Ne venne un nuovo genere, che aveva come funzione principale un deposito di memoria letteraria, oltre a funzioni celebrative del potere che lo legava alla realtà politica extratestuale.
5. Il dramma Il genere letterario che si fa più notare per le sue metamorfosi è il dramma. La tragedia, durante il IV sec., già era in decadenza e la commedia da antica (V–IV sec.) diventò nuova (IV sec.): nell’antica il personaggio era la polis della scena che stava in scena davanti alla polis della cavea, nella nuova era invece l’individuo che stava in scena davanti a una polis ormai in decadenza, costituita da singoli individui. Ma poi lo spazio occupato dal dramma venne preso dal mimo letterario e le antiche forme (le rheseis e gli stasimi) diventarono elementi di un universo spettacolare che possiamo chiamare concertistico. Il dramma satiresco diventò, a sua volta, uno spettacolo del tutto nuovo rispetto al V sec.31. L’eclissi del teatro produsse, per esempio, una singolare conservazione: l’Alessandra di || 27 Vd., sugli Aitia, L. E. Rossi 1998b. 28 Lehnus 1993. 29 Sull’inno callimacheo Pretagostini 1991. 30 Formula da me adottata in L. E. Rossi 1995, pp. 62–65. 31 L. E. Rossi 1972.
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Licofrone, in trimetri e detta da un solo personaggio, è una rhesis drammatica che contamina lirica (lamento, monodia) ed epica (rievocazione di avvenimenti e profezia) in forma drammatica. Il sistema letterario non poteva fare a meno dei tre generi che avevano tenuto il campo per secoli: l’epica (finita nelle sue forme originarie e per di più in parziale crisi nelle sue reviviscenze), la lirica (finita con la fine delle grandi occasioni e in crisi nelle sue complicate strutture metriche formali) e il dramma (tramontato con la polis). I tre generi rivissero in forma contaminata, e quindi nuova: sempre di mistioni si trattò, ma non arbitrarie e gratuite.
6. Il caso del mimo orchestico Un caso che mi sembra particolarmente interessante per rilevare l’importanza del sistema, ovvero del contesto letterario, è quello del mimo orchestico (non quello letterario quindi, ma quello danzato). Il mimo orchestico, come sequenza di unità gestuali discrete (e non continue com’era nella vera danza), veniva dato come invenzione romana nella forma del cosiddetto pantomimo e ne veniva precisata anche una data: nel 22 a. C. Pilade di Cilicia e Batillo di Alessandria avevano dato a Roma spettacoli che erano rimasti famosi. Il successo che costoro avevano ottenuto e le ricchezze che loro stessi e i loro colleghi avevano accumulate furono enormi. Ma accettare a valore facciale la notizia del pantomimo come invenzione romana non è, a rigore, giusto: da inequivocabili indizi verbali, metrici e drammaturgici ne riconosciamo manifestazioni anche in Grecia, a stare anche solo ad alcune commedie di Aristofane (nel finale delle Vespe con il mimo dei figli di Carcino, nella parodo della Pace, 301 ss., nella Lisistrata, 797 ss. = 821 ss., nel finale delle Donne al parlamento, 1165 ss.)32. La notizia della novità, anzi ‘invenzione’ romana va spiegata quindi con una presenza del pantomimo in un sistema spettacolare del tutto nuovo nel quale, in assenza di manifestazioni teatrali ormai quasi o del tutto scomparse, il pantomimo stesso acquistò un ruolo centrale e autonomo. Solo in questo senso va presa la notizia dell’invenzione romana, che ha una sua quota di verità se solo la riferiamo al contesto della vita dello spettacolo a Roma.
|| 32 L. E. Rossi 1978 (è d’accordo Mastromarco 1983, p. 31).
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7. I generi letterari e l’economicità delle trasformazioni È un’ovvietà ormai – credo – dire che il genere come istituto letterario dai contorni positivisticamente fissi non esiste, perché ne esistono solo le sue continue metamorfosi, riconoscibili da vari punti di partenza e da sempre ulteriori punti di arrivo. Anche il mito in sé, il mito originario, come lo voleva il positivismo, non esiste, perché si adattò continuamente alle nuove richieste di genealogia storica: il mito non fu solo memoria, ma memoria continuamente elaborata33. Si trattò di due casi di metabolismo di natura simile: il mito si riarticolò in tutte le sue giunture e funzioni narrative, restando fermi (o addirittura con varianti) i nomi mitici; il genere visse di una combinazione sempre mutevole di variabili strutturali (metro, dialetto, tematica, dimensione, costruzione). Quello che colpisce è – come dicevo per Callimaco – l ’ e c o n o m i c i t à dei procedimenti: i vari fattori cambiarono e nacquero nuove combinazioni, ma sembra che i cambiamenti venissero effettuati con una costante attenzione all’economicità del cambiamento stesso. In altre parole: il nuovo si creò, per rispettare esigenze nuove, ma non ex novo, bensì cercando di m a n t e n e r e u n v o l u t a m e n t e r i c o n o s c i b i l e l e g a m e con il vecchio (il ‘segnale’). È la dialettica fra vecchio e nuovo, che nella cultura greca ha avuto sempre una banda di oscillazione quanto mai ristretta a causa del grande rispetto che i greci ebbero per le forme della tradizione. È per questo che alle volte riesce difficile identificare la nascita di generi letterari consapevolmente nuovi in età ellenistica. Molti mi daranno sulla voce, e menzioneranno almeno il poema didascalico: ma, come ho detto, secondo me non fu innovazione consapevole (vd. sopra, § 4). C’è poi la poesia bucolica: quest’ultima fu invece molto consapevole, come ci ha mostrato a suo tempo Serrao nei suoi studi su Teocrito34, mostrandoci che è lui stesso a proclamarsene inventore nell’Idillio 7, pur essendo ampiamente debitore a molti generi tradizionali. Molto si potrebbe dire sul romanzo, che fu una forma nuova di narratività adeguata agli interessi di un pubblico in continua mutazione: i suoi inizi datano proprio dall’età ellenistica e le sue componenti furono le più varie. Ma forse il genere più nuovo fu proprio l ’ e p i g r a m m a l e t t e r a r i o , che in una composizione solo formalmente tradizionale assorbì in epoca alessandrina una quantità di elementi che erano stati presenti separatamente in generi tradizionali e che si presentavano come riusi, ma contestualizzati in maniera del tutto nuova: poesia melica, elegia, giambo, lirica simposiale, commedia, mimo,
|| 33 L. E. Rossi 1998b. 34 Serrao 1971, pp. 11–68; vd. anche recentemente Stanzel 1995.
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convenzioni epigrafiche35. L’epigramma fu, salvo trascurabili eccezioni, l’unica forma di poesia non epica praticata dall’età ellenistica in poi: come tale, metabolizzò gli ingenti materiali che erano stati rappresentati dai vari generi poetici tradizionali.
8. L’Anthologia, un liber come prodotto del libro E fu proprio l’epigramma ad essere protagonista di quella che a me pare una grande novità letteraria. Che cos’è l’Antologia? Intendo per antologia quel metodo di raccolta di composizioni che ha prodotto le varie successive versioni di quella che, complessivamente, chiamiamo Anthologia Graeca. I suoi prodromi vanno visti addirittura nel III sec. a. C. (o al più tardi nel II36), e si tratta quindi di invenzione alessandrina. Ora, quale è la formula dell’Anthologia? La pubblicazione, in forma di libro o meglio di liber, di varie serie di componimenti, raggruppati per tematica, che rispondono alla logica dello ζῆλος ovvero della aemulatio: delle serie di epigrammi di vari autori (Simonide, Platone etc.) chiuse dall’epigramma dell’antologista. Vedo questo procedimento come una palese r e v i v i s c e n z a l i b r e s c a d e l l ’ a g o n e t r a d i z i o n a l e , da quello epico–citarodico, a quello simposiale, a quello drammaturgico, fino a quello bucolico della realtà: i vari poeti vennero posti in gara fra loro e l’ultimo nell’ordine, e cioè l’antologista, si autopropose come vincitore. È troppo audace definire l’Anthologia a sua volta un genere letterario nuovo? È una formula che ho proposto recentemente37 e, pur consapevole dei limiti di ogni formula, la ripropongo qui: trattare il ‘metodo antologico’ come una semplice formula editoriale mi sembrerebbe riduttivo, proprio nella considerazione dell’intero sistema letterario coevo. Non so se si possano trovare altri casi in cui la differenza nella comunicazione letteraria (libro o liber contrapposto all’auralità) venga espressa in maniera implicita ma trasparente con tanta forza innovativa e nello stesso tempo con tanto rispetto per l’antica tradizione agonale, che si fondava sull’occasione esterna e sull’esecuzione pubblica: mancando queste due ultime, l’invenzione fu di sostituire ad esse la pagina e il libro. I l ‘ m e t o d o a n tologico’ non fu un semplice espediente editoriale o librario, bensì la trasformazione di un evento tipico della cultura orale–aurale in istituto letterario li-
|| 35 Rimando di nuovo a L. Rossi 1998. 36 Come recentemente pensa Argentieri 1998. 37 L. E. Rossi 1995, p. 634 ss.
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b r e s c o . L’epigramma, in sé già portatore di tante novità, si organizzò in maniera che fu allo stesso tempo tradizionale e nuova.
9. Quali generi letterari i greci non hanno riutilizzato e mescolato? La letteratura è come il maiale: non se ne butta via mai niente. E tanto meno ne buttavano via i greci, attaccati com’erano a tutti gli aspetti sostanziali e soprattutto formali delle loro istituzioni letterarie. Vista la costante – verrebbe da dire forsennata – attività combinatoria che percorre tutto l’arco della letteratura greca, e specialmente della letteratura alessandrina, mi sembra che sarebbe un buon esercizio euristico verificare quello che, delle vecchie forme, i greci non hanno riutilizzato mescolandolo: è paradossale affermare che forse non si andrebbe molto oltre la p a r a b a s i della commedia antica? Dopo tutto, la parabasi era troppo intimamente legata al suo habitat storico, la polis: era impossibile esportarla. La contaminazione dei generi fu realmente, a quanto appare, il principale espediente della continuazione vitale di una tradizione: capirne le tecniche e soprattutto le ragioni è stato compito della ricerca più recente, che in questi ultimi anni ha fatto progressi di grande rilievo tenendo sempre più presente, come dicevo all’inizio, il contesto, e quindi le mutevoli funzioni delle opere, nell’ambito dei singoli sistemi letterari.
Bibliografia L. Argentieri, Epigramma e libro. Morfologia delle raccolte epigrammatiche premeleagree, «ZPE» 121, 1998, pp. 1–20 M. G. Bonanno, L’allusione necessaria, Roma 1990 A. Cameron, Callimachus and His Critics, Princeton 1995 G. B. Conte, Generi e lettori, Milano 1991 A.–T. Cozzoli, Callimaco e i suoi ‘critici’. Considerazioni su un recente lavoro, «Eikasmos» 9, 1998, pp. 135–154 M. Fantuzzi, Il sistema letterario della poesia alessandrina nel III sec. a. C., in G. Cambiano – L. Canfora – D. Lanza (dirr.), Lo spazio letterario della Grecia antica, I, La produzione e la circolazione del testo, 2, L’ellenismo, Roma 1993, pp. 31–73 M. A. Harder – R. F. Regtuit – G. C. Wakker (Edd.), Genre in Hellenistic Poetry, «Hellenistica Groningana» 3, Groningen 1998 M. Heath, Unity in Greek Poetics, Oxford 1989 R. Hunter, Theocritus and the Archaeology of Greek Poetry, Cambridge 1996 W. Kroll, Studien zum Verständnis der römischen Literatur, Stuttgart 1924
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L. Lehnus, Callimaco tra la ‘polis’ e il regno, in G. Cambiano – L. Canfora – D. Lanza (dirr.), Lo spazio letterario della Grecia antica, I, La produzione e la circolazione del testo, 2, L’ellenismo, Roma 1993, pp. 75–105 G. Mastromarco, Commedie di Aristofane, I, Torino 1983 R. Merkelbach, Bettelgedichte (Theokrit, Simonides und Walther von der Vogelweide), «RhM» 95, 1952, pp. 312–327 R. Pretagostini, Rito e letteratura negli inni ‘drammatici’ di Callimaco, in AA.VV., L’inno tra rituale e letteratura nel mondo antico, Atti Colloquio Napoli 21–24 ottobre 1991, «AION(filol)» 13, 1991, pp. 253–263 R. Pretagostini, La ripresa teocritea della poesia erotica arcaica e tardoarcaica (Idd. 29 e 30), «MD» 38, 1997, pp. 9–24 L. Rossi, Gli epigrammi di Teocrito: un metodo di approccio. Tesi di dottorato inedita, Roma 1998 L. E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «BICS» 18, 1971, pp. 69–94 (= F. Ferrari – M. Fantuzzi – M. Ch. Martinelli – M. S. Mirto (curr.), Dizionario della civiltà classica, I, Milano 1993, pp. 47–84) L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «Dial. di Archeol.» 6, 1972 [1973], pp. 248–302 L. E. Rossi, Un’immagine aristofanea: l’’amante escluso’ in nub. 125 sg., «Archeologia classica» 25–26, 1973–74 [1975], pp. 667–675 L. E. Rossi, Mimica e danza sulla scena comica greca, «RCCM» 20, 1978, pp. 1149–1170 L. E. Rossi (con la collaboraz. di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglino, Letteratura greca, Firenze 1995 L. E. Rossi, Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in F. Montanari – S. Pittaluga (curr.), Posthomerica, I, Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, Genova 1997, pp. 7–22 L. E. Rossi, Orazio, un lirico greco senza musica, «SemRom» 1, 1998a, pp. 163–181 L. E. Rossi, L’atlante occidentale degli Aitia di Callimaco: mito e modi di lettura, in AA.VV., Mito e storia in Magna Grecia. Atti del XXXVI convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, 4– 7 ottobre 1996), Napoli 1998b, pp. 69–80 L. E. Rossi, Origine e finalità del prodotto pseudepigrafo. Pseudepigrafia preterintenzionale nel Corpus Theocriteum: l’idillio VIII, in AA.VV., La letteratura pseudepigrafa nella cultura greca e romana. Atti del colloquio di Napoli (15–17 gennaio 1998), «AION (fil.)» 22, 2000, in corso di stampa D. A. Russell, On the Sublime, Oxford 1964 G. Serrao, Problemi di poesia alessandrina, Roma 1971 B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. Torino 1963 (I ed. orig. 1946) K. H. Stanzel, Liebende Hirten. Theokrits Bukolik und die alexandrinische Poesie, Stuttgart – Leipzig 1995 R. F. Thomas, ‘Melodious Tears’: Sepulchral Epigram and Generic Mobility, in Harder– Regtuit– Wakker 1998, pp. 205–223 K. Ziegler, Das hellenistische Epos, Leipzig 1936, 19662 (tr. it. Bari 1988, a cura di F. De Martino con Premesse di M. Fantuzzi)
Origini e finalità del prodotto pseudepigrafo. Pseudepigrafia preterintenzionale nel corpus Theocriteum: l’Idillio VIII 1. Premessa Intendo qui proporre alcune idee sul falso letterario, sui suoi scopi e sulle sue vicende editoriali prendendo spunto dal corpus teocriteo, e specialmente dall’Idillio VIII, un idillio bucolico con agone, che fra i falsi del corpus è – io credo – il pezzo più interessante. Parlerò all’inizio della tipologia del non autentico (§ 2), poi mi soffermerò brevemente sul corpus (§ 3) e, con una parentesi sul mercato librario (§ 5), passerò a parlare dell’idillio VIII (§§ 4, 6), che non è teocriteo, ma secondo me non è stato composto come falso intenzionale. Ne anticipo ora la ragione: l’originalità letteraria dell’anonimo è, sia pure implicitamente, dichiarata, tanto da far pensare non a un falsario, ma a un autore che opera in piena autonomia; e che soprattutto sembra rivelare chiaramente il proprio rapporto con Teocrito e nello stesso tempo la propria distanza da lui in quanto autonomo ζ η λ ω τ ή ς ovvero a e m u l a t o r . Si potrebbe parlare di falso intenzionale se si vedesse la volontà di identificarsi col modello, pur con le infedeltà (involontarie) che in questi casi la filologia, antica e moder-na, usa mettere in rilievo: ma credo che qui ci troviamo di fronte a un letterato che vuole distinguersi da quello che prende pur sempre a suo modello e che è entrato nel corpus teocriteo per vicende editoriali (§ 7). Non mi pare che il falso preterintenzionale in generale sia stato molto trattato, pur rispondendo a una tipologia, se non frequente, certo più d’una volta ipotizzabile1.
|| [Relazione di convegno (V 16.1.1998, seduta pomeridiana); pubblicata in G. Cerri (ed.), La letteratura pseudoepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi, Napoli 15– 17 gennaio 1998, «AION(filol)» 22, 2000, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, pp. 231–261; discussione nelle pp. 263–272] 1 Trovo una menzione fatta en passant di una völlig ‘unschuldige’ Pseudepigraphie da parte di K. von Fritz nella discussione su Syme 1972, p. 20; interessanti ulteriori specificazioni in Smith 1972 e, da parte di K. von Fritz, nella discussione ibid., p. 216 (antiche attribuzioni erronee nella letteratura giudaica). L’attenzione e la curiosità per questi fatti mi nacque quando ascoltai la prolusione romana di Scevola Mariotti (1964), che aveva il titolo Falsi enniani senza falsario e che oggi è divenuta Mariotti 1991. È difficile, per un tema del genere, fare un controllo bibliohttps://doi.org/10.1515/9783110648126-058
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La filologia ha molto trattato il non autentico, usando le proprie armi, sempre più affinate, per svelarne i procedimenti e i risultati, ma, positivistica-mente soddisfatta delle sue acquisizioni, non sempre si è posta il problema degli scopi e della funzione del falso, di come e perché ogni singolo falso è nato: cercherò qui di porre questo problema in partenza, perché ci aiuta a meglio comprendere da una parte le procedure editoriali, profondamente diverse da epoca a epoca, e dall’altra le caratteristiche di più di un’opera di letteratura. Voglio eliminare subito un equivoco: come si vedrà meglio in seguito, intendo dire che l’idillio VIII va sottratto a un banale falsario non perché sia originale o ben riuscito, ma perché mi sembra che a dichiarare la propria autonomia e a negare quindi la paternità teocritea sia l’autore stesso con implicito linguaggio metaletterario. In altre parole, forse più efficaci: l ’ a u t o r e d e l l ’ i d i l l i o VIII vuole solo essere teocriteo, non vuole far finta di essere Teocrito.
2. Tipologia del non autentico in letteratura Mi sembra utile fermare l’attenzione sulle diverse manifestazioni del non autentico in letteratura2 prendendo spunto dalle categorie in uso presso gli antichi3: si tratta di una tipologia molto varia e sfumata, che tocca anche il confine con la produzione letteraria autentica. La pseudepigrafia, ovvero la produzione di falsi, che è quanto qui ci interessa, non è – come si sa – se non uno dei tanti modi in cui si realizza il non autentico. Si può parlare di f a l s o ( o p s e u d e p i g r a f o ) quando si tratta di opera propria fatta passare per altrui, che è di gran lunga il tipo più frequente nel mondo antico. Ma c’è anche il p l a g i o ,
|| grafico accurato, ma mi sento di confermare quanto dico sopra nel testo sulla quanto meno scarsa sensibilità al fenomeno. 2 L’utilità di parlare genericamente del ‘non autentico’ risulterà chiara dalle precisazioni terminologiche e sostanziali date in questo paragrafo. 3 Molto utili sono Stemplinger 1912, Ziegler 1950, Ronconi 1968, Speyer 1969 e 1971 (con ampio panorama anche sul mondo orientale, egizio e cristiano; v. la discussione offerta da Bickerman 1973), Pseudepigrapha I 1972. In questo paragrafo amplio quanto avevo scritto in Rossi 1998 (nel quadro generale di Gigliucci 1998, dove i vari autori offrono interessanti contributi sul Classicismo). – Come spesso ci succede, anche qui scopriamo che molto di quanto noi epigoni ci troviamo a formulare è stato fulmineamente anticipato da Giorgio Pasquali 1929 = 1986, che in un breve articolo ha offerto, sotto molti dei punti di vista qui proposti, un veloce panorama dell’Antico Oriente, della Bibbia e di tutta la letteratura greca. Segnalo, per esempio, che in non più di 20 righe Pasquali (p. 93 s.) riesce a dare un quadro (il suo, ovviamente, che personalmente condivido in pieno) delle vicende compositive nonché editoriali dei poemi omerici.
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che è opera altrui fatta passare per propria. È importante specificare i diversi mezzi e i diversi scopi con cui e per cui si produssero (e si producono) i falsi. I m e z z i – è chiaro – si affinano con l’affinarsi di quella che oggi chiamiamo sensibilità filologica4: la critica autenticistica nasce del resto già nel mondo antico5. Gli s c o p i possono essere i più vari, da quello r e l i g i o s o , a quello p o l i t i c o , a quello d o t t r i n a l e (come presso i filosofi), a quello puramente l e t t e r a r i o , nato da ambizione virtuosistica o spesso da desiderio di lucro (frequente nel commercio librario dal IV sec. a.C. in poi: § 5). In fatto di letteratura un concetto fondamentale è quello di t r a d i z i o n e . È questa parola–chiave che ci porta a configurare una tabella tipologica molto varia e sfumata. Ci si dovrebbe servire di concetti, molto ampi e in parte discussi, come i n f l u e n z a e f o r t u n a , che chiariscono a vari livelli il rapporto con la tradizione. Provo a elencare alcuni termini non certo con l’intenzione di definirli, il che comporterebbe un discorso grande come tutta la letteratura, ma solo per proporli all’attenzione con lo scopo di intravvedere un confine, pur vago e mobile, che segni il rapporto creativo con la tradizione e quindi il grado dell’ o r i g i n a l i t à letteraria. Mentre il falso ci condurrebbe a valutazioni molto diverse a seconda dei casi – e qui di seguito ne discuterò un caso interessante –, il p l a g i o (comunemente chiamato ‘furto’6 dagli antichi) rappresenterebbe invece il grado zero dell’originalità, essendo un r i u s o i n t e g r a l e , furtivo perché senza mediazioni. Diverso è il caso di r i u s o c r e a t i v o , un tipico esempio del quale è la m e t a p o i e s i , attuata sistematicamente per esempio nell’uso del cantare a simposio con variazioni della risposta sulla proposta. Trattandosi di contatti tra testi, il nesso che si stabilisce è l’ i n t e r t e s t u a l i t à 7. La critica antica si è servita di concetti come quello di i m i t a z i o n e (gr. μίμησις, lat. imitatio) e quello di c o m p e t i z i o n e o e m u -
|| 4 Utili materiali e osservazioni in Grafton 1996 (il libro ha molte parti di seconda mano, ma è vivace e utile; insiste, giustamente, sulle tecniche del falso; ma ingenuo e inesatto è, per es. (cap. III), equiparare Wolf e Niebuhr nella critica autenticistica; e ancora più inesatto e frivolo fare il paragone fra Porfirio, Isaac Casaubonus e Richard Reitzenstein, ibid.). Sulla filologia degli antichi v. il classico Pfeiffer 1968 (= 1973) e, recentemente, Montanari 1994. 5 Sarebbe utile farne una storia dettagliata, che, a quanto so, non esiste: bisognerebbe partire, per integrarli, dai materiali offerti (ma non ordinati) da Pfeiffer 1968 (=1973) e 1976. 6 Ziegler 1950, coll. 1956–1962. Sonnino 1998 tratta il caso singolare dell’accusa di plagio nella commedia attica antica. 7 Per un bilancio e per prospettive v. i vari contributi offerti in Intertestualità 1994.
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l a z i o n e 8 (gr. ζῆλος, lat. aemulatio), procedimenti che rendono attivo il rapporto con la tradizione (generi letterari, lingua poetica etc.: spazio metaforico, insomma). Si possono specificare alcuni dei modi, e qui soccorrono termini come c i t a z i o n e (un plagio più o meno esplicitamente dichiarato, e quindi non più tale nella misura in cui il testo a cui ci si riferisce sia presupposto come noto al destinatario), a l l u s i o n e (per cui vigono le stesse condizioni della citazione), p a r o d i a (di cui la paratragedia è espressione privilegiata), s a t i r a etc. P a r a f r a s i , t r a d u z i o n e (con i suoi variabili livelli di dignità), c e n t o n e possono essere visti come in scala approssimativamente discendente di originalità letteraria, che non arriva però mai al grado zero: anche ai centonari va riconosciuta una loro originalità nella selezione e nell’ordinamento del materiale, e propongo di definirli, ma non per denigrarli del tutto, ‘i facchini dell’intertestualità’. La c o n t a m i n a t i o è fenomeno ben noto della commedia latina e può considerarsi una mistione di varie categorie precedenti (traduzione, parafrasi, allusione): anche qui il grado di originalità può essere rilevante, anche perché il procedimento viene implicitamente o esplicitamente denunciato dall’autore9. Aggiungo una forma che ha avuto fortuna, soprattutto nell’antichità e nel medioevo, e che rientra nel nostro campo d’indagine: la c o m p i l a z i o n e 10. Certamente è molto quello che resta fuori da questa disordinata lista. E non è tanto per puro furor terminologico quanto per comodità che integro qui alcuni termini11, che si spiegano peraltro da soli: a n o n i m o , p s e u d o n i m o , o r t o n i m o , a cui corrispondono a n e p i g r a f o , a p o c r i f o o p s e u d e p i g r a f o , o r t o e p i g r a f o . Riguardano non la sostanza (che richiede un’ulteriore ricerca, di cui tento qui di dare un esempio), ma la forma editoriale in cui i prodotti letterari si presentano, a seconda che nella redazione a noi nota il nome dell’autore o manchi o sia falso o sia giusto. Quanto precede vale per un (qui approssimativo) ordinamento sia tassonomico sia assiologico per quanto riguarda l’originalità, che in letteratura è ovviamente un valore. Ma sarebbe interessante porsi anche il problema delle v a l u t a z i o n i s i a e t i c h e s i a s t o r i c h e che di tempo in tempo si sono date. || 8 Le letterature antiche, specie quella greca, vedono la produzione letteraria, in modo molto esplicito, come una gara, un agone con il patrimonio della tradizione. 9 Fondamentali, per la contaminatio, i prologhi di Terenzio. 10 Materiali, per il mondo moderno, offrono vari contributi in Gigliucci 1998. Quanto alla valutazione etica della compilazione e del manuale, sarebbe interessante farne una storia, dalla quale credo si rileverebbero valori etici discendenti (vd. qui oltre, nel testo) dal mondo antico e medievale a quello moderno. 11 Prendendoli da Speyer 1971.
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Anche qui credo che manchi una storia e azzardo qualche mio spunto personale. Credo che il plagio/furto sia stato sempre eticamente svalutato12 e giuridicamente perseguito come impostura, e la sua valutazione storica può raggiungere livelli minimi. La pseudepigrafia invece – praticata in sé quasi esclusivamente in antico, favorita dalla molto minore possibilità di c o n t r o l l o e d i t o r i a l e 13 – non ha avuto vere censure etiche o giuridiche14: la critica autenticistica ha comunque sempre cercato di mettere riparo a quelli che considerava come guasti, senza che però i guastatori venissero veramente condannati. Più importante è, piuttosto, stabilire il valore storico di volta in volta attribuito al prodotto pseudepigrafo. La tendenza positivistica è stata di eliminare il non autentico, considerandolo privo di valore: ma oggi si tende a distinguere falso da falso, cercando di darsi ragione (storica) della nascita di ogni falso, che è preziosa testimonianza dell’epoca in cui nasce. Il discorso dovrebbe ampliarsi alla vita del mito e delle leggende, che hanno inestimabile valore in sé come testimonianze di sensibilità culturale15. I filologi alessandrini, com’è noto, trattavano i versi spuri non con l’espunzione, come facciamo noi, ma con il segno diacritico dell’obelo, che atetizzava senza obliterare, ottenendo il risultato, voluto o no che fosse, di conservare la documentazione del guasto e la possibilità di valutarlo storicamente. Alla tipologia qui disordinamente elencata – e abbondantemente considerata dalla critica – aggiungo, come ho annunciato (§ 1), lo p s e u d e p i g r a f o p r e t e r i n t e n z i o n a l e , che in realtà dovrebbe sottrarsi alla categorizzazione del non autentico. Per dare consistenza a questa categoria, in realtà trascurata, bisognerebbe sia rivedere accuratamente la tradizione manoscritta di molte opere, essendo la pseudepigrafia, in questo caso, conseguenza non di i n t e n z i o n e a u t o r i a l e bensì di v i c e n d e e d i t o r i a l i ; ma, in man-
|| 12 La libertaria e romantica reazione contro il classicismo inteso genericamente come imitazione e dipendenza si spiega in quel particolare clima ideologico. 13 Ho trattato altrove (Rossi 2000, L’autore) il rapporto dell’autore antico con il suo testo sotto il profilo dei vari gradi di controllabilità del testo stesso, durante e dopo la vita dell’autore. 14 Anche se alcuni termini (per es. νόθος per ‘bastardo, apocrifo’) fanno trasparire una valutazione almeno oggettivamente negativa per il non autentico: peccato che Ogden 1996, molto utile sul piano storico–sociologico, non consideri anche la terminologia letteraria, che nasce da estensioni semantiche (e metaforiche) di ‘bastardo’. 15 Una notevole emozione storica è la lettura di Hobsbawm–Ranger 1987 (=1993), dove dal saggio introduttivo di Hobsbawm si impara, per esempio, che alcune ‘millenarie’ tradizioni della monarchia britannica nascono sotto la Regina Vittoria, ma non per questo sono meno importanti per valutare il significato del loro (tardivo) nascere.
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canza di sicuri indizi esterni, dovrebbe soccorrere l ’ a n a l i s i i n t e r n a , come qui cerco di fare per l’idillio VIII pseudoteocriteo. In tema di plagio e di tradizione, non posso fare a meno di segnalare una splendida battuta per la quale non mi è riuscito di risalire alla paternità e che comunico quindi come anepigrafa, avendo solo buona ragione di credere che risalga ad ambiente iberico (l’ho trovata citata, anonima, in spagnolo)16. Mi è sembrata particolarmente adatta a creare un utile cortocircuito mentale: Todo lo que no es tradición es plágio. Provo a dare la mia esegesi, che non considero certo l’unica possibile, ed è questo il pregio del bon mot di qualità. Il linguaggio letterario, che vive della e nella tradizione e che opera quindi al livello della connotazione, sarebbe l’unico ad essere creativo e quindi originale; la lingua usuale della comunicazione invece, che opera al livello della denotazione, non avrebbe nulla di creativo e sarebbe quindi plagio: insomma, è plagio tutto quello che, non essendo tradizionale, non è originale. È a mio parere la più bella confutazione degli eccessi della sublime indipendenza ispiratrice predicata dalla poetica romantica e anticlassicistica: è originale solo — per paradosso — chi sappia copiare, ovvero praticare l’imitatio, ovvero situarsi nell’alveo della tradizione. Ma questa era solo una divagazione.
3. Il corpus teocriteo È possibile seguire passo passo il crearsi del corpus teocriteo? Purtroppo no, perché quello che ci manca è la saldatura fra quel poco che sappiamo della fase antica e la complessa tradizione medievale, che ci presenta le tre famiglie di manoscritti (l’Ambrosiana, la Laurenziana e la Vaticana) con diverso materiale e con diverso ordinamento dei carmi17. Del resto, quanto a ordine dei carmi, anche i papiri testimoniano organizzazioni a loro volta diverse18.
|| 16 Mi è capitato di citarla altre volte e la segnalo ancora nella speranza che qualcuno sia in grado di scoprirne l’autore. [Rossi aveva citato l’aforisma in Riflessioni conclusive, in V. Citti (ed.), Intertestualità: il dialogo fra testi nelle letterature classiche. Atti del Convegno internazionale, Cagliari 24–26 novembre 1994, «Lexis» 13, 1995, pp. 275–281, a p. 277 n. 1; nella Letteratura greca, Firenze 1995, p. 9; e in Tipologia del non autentico nel mondo antico, in R. Gigliucci (ed.), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, «Studi (e testi) italiani» 1, 1998, Roma 1998, pp. 15–18, a p. 17 (da dove peraltro è ripreso il paragrafo del testo). Si tratta di un aforisma di Eugenio d’Ors (1881–1954); la versione completa, in catalano, è «Fora de la Tradició, cap veritable originalitat. Tot lo que no és Tradició, és plagi» («Glosari. Aforística de Xènius», XIV, La Veu de Catalunya, 31–X–1911), mentre la versione in castigliano recita: «Clasicismo. Sólo hay originalidad verdadera cuando se está dentro de una tradición. Todo lo que no es tradición es plagio» (1911, «Primeros lemas», XVII, Gnómica, 1941) – G. C.] 17 Non entro qui nella questione: v. Gallavotti 1993 (1946) e Gow 1952 (1950). 18 P.Oxy. 2064 + 3548.
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In quello che ci resta della tradizione papiracea l’idillio VIII è presente, ma c’era anche il IX, testimoniato da un papiro recentemente riletto19: del resto l’idillio è provvisto di scoli, fatto che ne confermava già l’esistenza nel corpus, e d’altra parte 8. 77 (giustamente a suo tempo espunto da Valckenaer) è doppione di 9. 720. Virgilio, com’è noto, aveva di fronte un corpus con gli apocrifi21.
Vediamo ora, pur nella grande incertezza della storia antica del testo, se si può almeno isolare qualche spunto su cui riflettere. L’espandersi dell’uso del libro22 in età ellenistica è la condizione per la nascita del liber poetico come prodotto letterario: come in epoca assai antica nell’ambito di una cultura orale fiorì l’epos nella sua forma di ciclo aperto, anche qui il mezzo di comunicazione (il libro, un manufatto) fu la condizione per la nascita di un nuovo prodotto letterario, allo stesso tempo composito e in sé conchiuso: lo vedo come una delle realizzazioni della fortunata formula “il mezzo è il messaggio”, per cui si può ben dire che il libro crea il liber. Dirò, tra parentesi, che altrove23 ho interpretato l’anthologia epigrammatica come tipica istituzione letteraria che si sostituisce, in una diversa cultura della comunicazione, all’agone aurale dei vari tipi (agoni rapsodici e citarodici, agone simposiale, agone drammaturgico, agone bucolico della realtà): l’agone nell’anthologia è diventato una gara tra poeti sulla pagina scritta, ovvero la pagina scritta è servita a mimare l’agone orale–aurale, dove il vincitore è l’antologista, e cioè l’ultimo delle microserie di epigrammisti (§§ 7, 8).
Un recente lavoro24 offre un’utile morfologia delle raccolte epigrammatiche che vengono realizzate fin dall’inizio dell’epoca ellenistica. I tipi di raccolta individuati sono la silloge, il liber o libellus e l’anthologia. La s i l l o g e (dal IV sec. a.C. in poi) è una raccolta redazionale di epigrammi altrui, il l i b e r o l i b e l l u s è una autoedizione, l’ a n t h o l o g i a è l’uno e l’altro (grazie alle
|| 19 Da Peter Parsons nel 1983 (P. Oxy. 3548, fr. 44). 20 Provocato da un fatto che ne conferma la contiguità: l’omoioarchon, forse non meccanico (visto il lieve adattamento iniziale, che però può essersi verificato in un secondo tempo). 21 V. Gow 1952, I, pp. LIX–LXII e i prolegomena di Gallavotti 1993. Un panorama dei problemi della storia antica del testo offre Serrao 1990, pp. 111–113. Un comodo panorama della tradizione offre Gutzwiller 1996, tavola I a p. 147. 22 Parlando di ‘libro’, qui e nel seguito, non mi riferisco alla realtà materiale del manufatto in termini codicologici, bensì solo alla istituzione editoriale in generale; per liber intendo una istituzione insieme editoriale e, soprattutto, letteraria. 23 Rossi 1995, p. 634 ss.; per ulteriori precisazioni Rossi 2000, La letteratura. 24 Argentieri 1998, spec. p. 2.
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aggiunte dell’antologista). La formula sintetica25 è efficace: nella silloge si compila; nel libellus si crea per compilare; nell’anthologia si compila per creare. Fin qui si è parlato di epigrammi. Per estendersi anche a composizioni di altro tipo, la silloge diventa quello che comunemente viene definito un corpus, e cioè o un corpus con apocrifi come quello teocriteo oppure un corpus d’autore, e cioè un liber, un’autoedizione complessiva come quella di Callimaco. Non sembra facile farsi un’idea della crescita del corpus teocriteo. L’epigramma A. P. 9. 205 (presente anche nella tradizione manoscritta di Teocrito), dato come di Artemidoro di Tarso (I sec. a.C.), ci fa certi26 del fatto che Teocrito non pubblicò i suoi idilli in una autoedizione: Βουκολικαὶ Μοῖσαι σποράδες ποκά, νῦν δ’ ἅμα πᾶσαι ἐντὶ μιᾶς μάνδρας, ἐντὶ μιᾶς ἀγέλας. Le Muse bucoliche, una volta sparse, ora tutte insieme sono di un’unica mandra, di un unico gregge.
Artemidoro si vantava di aver raccolto le muse bucoliche, e se ne qualificava come il primo raccoglitore. Wilamowitz27 riteneva che a lui andasse il merito di aver raccolto tutti i bucolici (compresi quindi Mosco, Bione e gli altri), mentre al figlio Teone (come appare da un altro epigramma, A. P. 9. 434) andrebbe il merito di aver raccolto il solo Teocrito, del quale aveva curato anche un hypomnema. Ma su questo c’è ancor oggi incertezza. In tanta penuria di dati, non sappiamo in quale momento e in qual modo gli apocrifi (ovvero pseudepigrafi) teocritei possono essere entrati a far parte del corpus. In quanto segue presenterò un’ipotesi (§ 7), fondandomi su quella che mi sembra essere la natura di almeno uno di essi, e cioè l’idillio VIII qui trattato (§ 6).
|| 25 Formulata da Argentieri (v. n. preced.) e da me lievemente adattata. 26 Fu Wilamowitz ad affermarlo (e v. anche Gallavotti, già nei prolegomena di 11946). Gow 1952, I, p. LIX s. ha qualche dubbio, ma è certo che l’edizione che la tradizione ci offre non può essere d’autore, vista la presenza degli apocrifi sicuri. Se ben colgo le argomentazioni di Gutzwiller 1996, Teocrito non avrebbe potuto creare lui stesso un’autoedizione bucolica, non essendogli possibile definire il genere (a new genre is a contradiction in terms, p. 121): ma questo non mi pare probabile, se si accetta (come mi pare si debba) la autodichiarazione di creatore del genere fatta nell’idillio VII (Serrao 1971). 27 Wilamowitz 1906, p. 123 ss.
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4. L’idillio VIII e le spie di non autenticità teocritea Varie sono state le spie della non autenticità teocritea dell’idillio VIII venute in luce nel corso degli studi e ne dò qui un cursorio elenco. Me ne sono occupato anni fa28. Dopo Valckenaer (1779), gli indizi di non autenticità furono raccolti fra gli altri soprattutto da Kattein (1901), da Wilamowitz (1906 e 1923), da Perrotta (1925) e da Gow nella sua edizione commentata (1950). Rostagni (1913) e Bignone (1934) tentarono di salvare l’autenticità teocritea, sostanzialmente fondandosi sulla buona qualità del componimento. Ad essere rilevate in negativo furono particolarità lessicali e prosodiche contrarie all’uso teocriteo; l’uso del distico elegiaco per parte dell’agone (33–60), estraneo al Teocrito a noi noto29; scarsa conoscenza del mondo reale dei pastori, che Teocrito invece rappresentava con fedele e vivace realismo; ignoranza delle regole dell’agone bucolico così come vengono presentate da Teocrito, fatto messo in luce in modo efficace da Merkelbach in un famoso articolo30; Serrao31 ha poi notato acutamente che la vittoria viene attribuita a Dafni per la dolcezza del canto (vv. 38, 71 e 82–84), categoria valutativa del tutto estranea alle regole dell’agone bucolico reale, che Teocrito invece rispettava. A queste prove io aggiunsi un’ulteriore spia, che riguardava la scarsa conoscenza della vita dei pastori e della loro lingua: l’evidente catacresi di una interiezione, σίττα al v. 69, che nella lingua dei pastori (cf. 4.45, 5.3, 5.100) aveva carattere di interiezione di forte richiamo (‘pst!’) e qui invece ha impropriamente valore di generica esortazione (σίττα, νέμεσθε νέμεσθε, ‘orsù, pascolate pascolate!’). Facevo inoltre notare l’uso linguisticamente improprio dei vocativi per rivolgersi al bestiame, altra palese catacresi32. Fu Wilamowitz33 a mettere per primo in rilievo il carattere di poesia sentimentale dei campi quale celebrazione di un ambiente sentito come contrapposto alla vita della città, un atteggiamento vicino a quello che fu poi di Virgilio. Questo anonimo ha il merito di avere inaugurato la maniera bucolica con una visione idealizzata e patetica sia dell’amore sia della natura come paesaggio–
|| 28 Rossi 1971: non riporterò qui alla fine tutte le indicazioni bibliografiche di allora, date spec. a pp. 5–7; per una ricca bibliografia recente, e relativa discussione, v. Fantuzzi 1998, p. 78 s. 29 Rilevato da Reitzenstein 1893, p. 189 ss., e poi ripreso da Kattein, Wilamowitz, Perrotta etc. Qui al § 6 dò una valutazione diversa del fenomeno. 30 Merkelbach 1956, spec. 117. 31 Serrao 1975, p. 78. 32 Sui vocativi v. ora Williams 1973. 33 Wilamowitz 1906, p. 122.
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stato d’animo. La sua influenza su tutta la poesia bucolica posteriore, antica e moderna, fu invero grande. Quanto alla cronologia34, non so vedere questo anonimo troppo lontano da Teocrito, di cui non si ha più notizia intorno alla metà del III sec.: e del resto non può essere di molto posteriore a lui, visto che nel II sec. Mosco e Bione mostrano sviluppi ben più rilevanti rispetto agli inizi del genere bucolico. A confermare la mia proposta di collocare l’autore in ambiente cittadino (Alessandria), aggiungo ora che l’estraneità linguistica (da cui le catacresi) rispetto alla vita dei pastori35 va spiegata col fatto che nella regione del Delta e nella valle del Nilo i pastori non erano greci, ma egizi: la cultura greca ad Alessandria è cultura cittadina che parla greco, circondata da una cultura agricola che non parla greco36. L’idillio VIII, che secondo me – come ho detto – è molto antico e cioè molto vicino a Teocrito stesso, fa pensare che la maniera bucolica abbia cominciato molto presto ad affermarsi. Quanto poi al corpus, in un’epoca in cui la pratica del liber cominciava a diffondersi (III–II sec. a.C.), non è da credere che una raccolta teocritea o bucolica abbia dovuto attendere il I sec. a.C. con Artemidoro e Teone per prodursi: direi che è sicuro che la loro o le loro raccolte abbiano avuto dei precedenti, sulle quali l’uno e l’altro si sono fondati.
5. Considerazioni sul mercato librario nel IV e III sec. a.C. A questo punto è necessaria una considerazione di ordine generale: la concorrenza editoriale sul mercato librario. C’erano certamente più sillogi–corpora che concorrevano con la quantità, e alla fine una di queste si imponeva. Perché, tornando agli scopi della falsificazione, elencati prima, mi pare che il più ovvio debba essere stato, in età ellenistica e per testi letterari, il l u c r o 37. All’inizio (§ 1) ho accennato, come scopi dei falsi, a religione, politica, dottrina filosofica. Ma
|| 34 Rossi 1971, p. 25. Già Perrotta, art.cit., pp. 20, 23 ss. riconosceva, guidato da uno scolio (ad 9.1), che parla del personaggio Menalca, la dipendenza dello Pseudo–Teocrito da Ermesianatte, oltre che dal Dafni o Litierse di Sositeo. Anche Gow 1952, II, p. 171 è per cronologia alta. 35 Che consideravo (Rossi 1971, pp. 12–18) favorite da una errata lettura sintattica di vari testi teocritei praticata non solo da chi non aveva familiarità con l’ambiente pastorale, ma anche da chi era incline a non capire certi colloquialismi, come alcuni tipi di imperativo. 36 Debbo questa preziosa osservazione a una conversazione pisana con Arnaldo Momigliano, antica ma purtroppo di poco posteriore alla pubblicazione di Rossi 1971, a cui ora la aggiungerei. 37 Lucidamente Pasquali 1929 = 1986, pass.
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il lucro, col diffondersi del libro, dovette acquistare sempre maggior rilievo. Ora, una situazione analoga a quella che io suppongo per l’età ellenistica risale almeno al V–IV sec. a.C. in un ambito particolare: il commercio librario del materiale degli o r a t o r i , come ha bene messo in luce a suo tempo Dover38, favorì l’inclusione di falsi o di rielaborazioni. Galeno, nel II sec. d. C., nel suo Sulle proprie opere dichiara di aver difficoltà a controllare personalmente la diffusione delle sue opere circolanti come anepigrafe39: la m e d i c i n a , allora come oggi, era merce di grande consumo. E si può credere che il controllo del materiale anepigrafo degli oratori fosse altrettanto difficile nel V–IV sec. a.C., soprattutto dopo la morte degli autori. Dover40 ha ragione quando minimizza la probabilità di falsi puramente letterari nel V–IV sec. a tutto vantaggio degli utilissimi, molto ricercati e meno controllabili falsi dell’oratoria, che dovevano dare credito a strumenti utili per il pubblico come ‘modelli’ nella pratica della difesa processuale nell’Atene democratica, ma questo non valeva più per l’epoca ellenistica, quando la circolazione del libro era molto aumentata e la poesia passava ormai non più per la pubblicazione aurale, bensì per il medium librario. In altre parole, se nel V–IV sec., per la diffusione dei processi, i librai guadagnavano a vendere corpora di oratoria giudiziaria, dal III sec. in poi guadagnavano non meno a vendere corpora poetici: la poesia era anch’essa merce richiesta, grazie alle mutate condizioni della pubblicazione. Andrea Bagordo41 mi segnala Anth. Pal. 10. 42, attribuito a Luciano, e quindi, se l’attribuzione è giusta, risalente al II sec. d.C.: ἀρρήτων ἐπέων γλώσσῃ σφρηγὶς ἐπικείσθω· κρείσσων γὰρ μύθων ἢ κτεάνων φυλακή.42 Di versi non detti prima sia posto un sigillo sulla mia lingua: la custodia della poesia dev’esser più forte che quella delle ricchezze. (trad. A. Bagordo) L’autore dice che è più facile rubare poesia che danaro: una testimonianza preziosa sulla fragilità del diritto d’autore, testimonianza che ha il solo torto di essere tarda rispetto
|| 38 Dover 1968 (v. l’indice s.υυ. ascription of speeches, booksellers, publication). 39 Galen. II, 92. 4–8 et al. Marquardt (Dover 1968, p. 153 s.). 40 Dover 1968, p. 153. 41 A cui risalgono tutti i contenuti di questo excursus: Bagordo li pubblicherà, aggiungendo numerose altre implicazioni. 42 Ecco le due traduzioni latine offerte da Fr. Dübner, II, Parigi 1888, la prosastica (Arcanorum verborum linguae sigillum sit impositum: melior enim sermonum quam divitiarum custodia) e la poetica (His, quae dicta nocent, linguam tibi pone sigillum. // Plus voces, minus est res retinere suas).
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all’epoca di cui stiamo trattando: ma è così singolare, da spingere a considerarla con un certo dettaglio43. È strano che, a livello di traduzione–esegesi, si sia andati in direzioni assai diverse, per lo più equivocando l’epigramma come una generica esortazione al silenzio. Basterà qui segnalare diverse traduzioni più o meno recenti dell’inizio del primo verso: words that should not be spoken (W. R. Paton, 1918); wünschst du ein Wort zu verbergen (H. Beckby, 1958); per i segreti (F. M. Pontani, 1980); die Worte zu hüten (D. Ebener, 1981). Per la resa di ἀρρήτων ἐπέων qui proposta, che è la chiave di tutto, Bagordo confronta Bacchyl. fr. 5. 3 s. Sn.–M., dove si dice che ἀρρήτων ἐπέων πύλας // ἐξευρεῖν, dal che risulta chiaro che in Luciano il significato dev’essere, come in Bacchilide, ‘poesia non ancora detta’, ‘originale’; per il sigillo non si può fare a meno di pensare al famoso Theogn. 19s. (ripreso alla lettera), dove però il sigillo è inteso certamente a valore letterale, mentre nel nostro epigramma ha valore metaforico (‘sigillo alla mia lingua’)44. Se l’interpretazione dell’epigramma è giusta, rispecchia una realtà editoriale piuttosto arcaica che tarda. Basterà questo a togliere l’epigramma a Luciano e ad arretrarne la cronologia fino ad epoca ellenistica? Oppure si può pensare che si trattasse di un topos a suo tempo molto diffuso e poi diventato uno stereotipo, di cui ci sarebbe arrivato solo questo prezioso esemplare.
6. L’idillio VIII come ‘falso d’autore’. I distici elegiaci e l’iniziativa letteraria Se i falsari hanno prodotto falsi per rimpolpare i corpora autentici allo scopo di presentare sul mercato raccolte più ampie di quelle che già circolavano, per sconfiggere cioè la concorrenza con la quantità presentando dei c o r p o r a p l e n i o r a , vale la pena riflettere su ogni apocrifo per vedere se è nato come tale o no (§ 2, fin.), se cioè l’autore ha avuto l’intenzione di mimetizzarsi sotto il nome di un altro o se invece dimostra una precisa volontà letteraria autonoma. Ora, ho detto (§ 4) che una delle spie di non autenticità dell’idillio VIII è stata vista nel fatto che parte dell’agone è costruito in d i s t i c i e l e g i a c i , apparentemente estranei all’agone teocriteo autentico: ed è possibile che sia spia veritiera, come vedremo. Ma non riesco, oggi, a sottrarmi all’imbarazzo nel considerare questo fattore come segno di maldestra imitazione del modello, quella che risulterebbe evidente in chi volesse ma non riuscisse a mimetizzarsi, come
|| 43 Bagordo mi informa che, a stare alle sue ricerche, nessuno ha dedicato ad esso l’esegesi che sembra davvero meritare. 44 V. l’interessante interpretazione del ‘sigillo’ di Teognide (volto a salvaguardare l’ortoepigrafia) che offre Cerri 1992.
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accade spesso negli pseudepigrafi45. Da un esame interno più approfondito del carme mi par di vedere una tecnica combinatoria46 nella composizione letteraria tipica di poeta alessandrino, pur diverso da Teocrito, e non di falsario. Vorrei dunque mostrare la sua natura di poeta autonomo, dotato di un notevole grado di iniziativa letteraria, fondandomi proprio sulla c o s t r u z i o n e ‘ s t r o f i c a ’ dell’VIII in parallelo con quella che appare nel Teocrito autentico. A una poesia tutta affidata al verso recitativo, l’esametro, si poneva il problema dell’espediente con cui presentare le parti originariamente liriche, con cui – in altre parole – tradurre in recitativo il canto47 senza uscire dal verso recitativo, e cioè realizzare la m i m e s i l i r i c a del canto. La costruzione a strofette di versi recitativi (esametri), affidata o alla presenza di ritornelli (refrain) o al cambio di personaggio o anche al solo isolamento sintattico, è l’espediente con cui Teocrito realizza la m i m e s i l i r i c a senza usare versi lirici48. Offro qui un elenco senza fare distinzione fra idilli bucolici e non, di mimesi lirica in versi recitativi realizzata con lo strumento della strofizzazione: I: 64–145 (diciannove strofette variabili di 2hex, 3hex, 4hex, 5hex, isolate da due diversi tipi di ritornello); II: 17–63 (nove strofette di 4hex ciascuna isolata da un ritornello); 64–135 (dodici strofette di 5hex ciascuna isolate da due diversi ritornelli); III: 6–11 (tre strofette di 2hex ciascuna); 12–23 e 25–5449 (quattro + dieci strofette di 3hex ciascuna); V: 1–79 (il preagone, v. qui oltre, senza regolarità di alcun tipo); 80–13750 (l’agone vero e proprio: ventinove strofette di 2hex),
|| 45 Almeno in tutti quegli pseudepigrafi che siamo in grado di dimostrare tali, fondandoci proprio sulle spie di imitazione non riuscita. In Rossi 1971 mettevo molto l’accento sulla scarsa destrezza dell’anonimo (e sotto alcuni aspetti resto della stessa idea, ma sotto altri no, v. oltre alla fine di questo paragrafo), pur apprezzandolo per l’inaugurazione della maniera bucolica. Oggi invece lo apprezzo di più proprio per la sua iniziativa letteraria. 46 Si parla comunemente di bricolage (v. Rossi 2000, La letteratura) a proposito della combinazione di elementi di generi letterari diversi (la Kreuzung der Gattungen). 47 Sulla ‘traduzione’ del lirico in recitativo v. oltre: ne ho trattato in Rossi 1971, I generi, p. 84s. (= 1993, pp. 70–72), dove parlavo di ‘prigione esametrica’, dalla quale il poeta alessandrino cerca di liberarsi con degli espedienti. Per la sensibilità di Teocrito al canto popolare, che era ovviamente tutto cantato e quindi lirico, v. Pretagostini 1992. 48 Parlare di ‘strofe’ di versi recitativi è lecito perché è necessario: il destinatario alessandrino sentiva la differenza fra esametri stichici e esametri organizzati in simmetrie che erano state proprie, prima, solo della poesia in metri lirici. Sull’uso teocriteo del ritornello v. oltre. Diverso, e qui non pertinente, il discorso sui carmi XXVIII, XXIX e XXX, che sono integralmente in versi lirici; gli ultimi due, per di più, sono per intero canti d’amore eolici, senza cornice recitativa. 49 Sull’isolamento del v. 24 dalle strofette v. Rossi 2000, La letteratura.
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X: 24–37 e 42–55 (due canti, il canto d’amore di Buceo e il Litierse di Milone, di sette strofette di 2hex ciascuno); [VIII]: 33–60 (otto strofette di doppi distici elegiaci ciascuna, a coppia51); 63–70 e 72–80 (due canti a coppia di quattro strofette di 2hex ciascuno52).
Vediamo come gli espedienti liricizzanti sono distribuiti nei singoli idilli. Nei primi due (il Tirsi e Le incantatrici) ci sono i ritornelli, che nel I isolano addirittura strofette diseguali, per la disperazione di chi ha praticato in casi simili la cosiddetta Strophenjagd, la ‘caccia’ alla responsione strofica esatta53; nel II Teocrito offre strofette anch’esse di estensione diseguale, pur limitandosi alla tenue variazione di quattro o cinque esametri nelle due parti del canto di Simeta: tutto questo basta a renderci certi che la strutturazione data dai ritornelli, in tutti e due gli idilli, era sentita come sufficiente, senza bisogno di altri espedienti, per assicurare la mimesi lirica54. Nel III idillio (il Komos) tre distici esametrici (6–11) sono seguiti (12 ss.) da tredici strofette di tristici esametrici ciascuna: le strofette sono ‘segnalate’, ovvero messe in evidenza, dall’isolamento sintattico. Nell’idillio V, il grande agone, la prima metà, dialogica (fino al v. 79), si presenta come un preagone con sue proprie botte e risposte, costituendo un blocco in qualche modo simmetrico al successivo agone vero e proprio (80–137)55: il parallelismo fra i due agoni resta così a suo modo criptico grazie all’esametricità del tutto, perché il preagone si presenta anche come semplice dialogo, dove l’esametro (verso recitativo) è a suo posto; ma la differenza è anche resa sensibile nell’agone vero e proprio, che nella realtà era lirico e in cui l’esametro, con la costruzione a strofette, viene strumentalizzato a una ‘ t r a d u z i o n e ’ r e -
|| 50 A suo tempo Ahrens e poi Gallavotti hanno escluso dall’agone, togliendoli a Comata, i vv. 136 s. Mi allineo con gli altri editori nell’integrarli nell’agone (bene analizzato da Serrao 1975): fra altre ragioni per es. l’insulto di 137 trova paralleli nel preagone (vv. 77 e 79), ed è bene che 138 παύσασθαι κέλομαι τόν ποιμένα siano le prime parole di Morsone, il giudice, che interrompe la gara. 51 Una strofetta deve essere caduta per vicenda meccanica. Sembra la soluzione più economica dell’annosa questione (Serrao 1990, p. 112): per informazione sulla ricerca più antica v. Di Gregorio 1984, p. 290 s.; sulla più recente Köhnken 1995, p. 297 s. 52 Sul v. 77 v. § 3. 53 Sulla Strophenjagd, ovvero la ricerca ‘chirurgica’ da parte dei filologi della esatta responsione strofica nel numero dei versi recitativi, v. Rossi 1971, I generi, p. 85 e n. 89 (= 1993, p. 72 e n. 89). 54 In II, 104–106 c’è addirittura enjambement fra due strofette, interrotte dal ritornello, con il che appare evidente che, in presenza del ritornello, non c’è bisogno neanche di chiusura sintattica della strofetta (come del resto avveniva spesso fra le unità strofiche della melica: Pindaro fa enjambement non solo fra strofi, ma addirittura fra triadi). 55 Come a suo tempo riconobbe Legrand 1898, p. 159 ss.
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c i t a t i v a d i u n a p r e s t a z i o n e o r i g i n a r i a m e n t e l i r i c a (nessuno penserà a dei pastori che gareggiassero in esametri!). È, questa, una delle manifestazioni della tecnica dissimulatoria di Teocrito, che era un formidabile contrabbandiere letterario. Nell’idillio X (I mietitori) i canti affidati a Buceo e a Milone sono costituiti da sette distici esametrici ciascuno, ugualmente chiusi sintatticamente distico per distico (che fungeva per lui da espediente strofizzante quando non c’era cambio di personaggio): risultano come dei falsi distici elegiaci56. Esaminiamo ora come si comporta l’autore dell’idillio VIII. I due canti finali (di Dafni e di Menalca, 63–70 e 72–80) sono canti di media lunghezza, ciascuno di quattro strofette di quattro esametri ciascuna, i quali sono sintatticamente chiusi a coppia, tanto da presentarsi anche qui come falsi distici elegiaci, espediente che ricorda l’idillio X, ma anche parte del III (6–11). È chiaro però che, essendo l’VIII un agone, la strutturazione a distici (che – ripeto – è sintattica, perché i ‘distici’ sono in serie continuata a due in bocca a uno stesso personaggio) richiama la strutturazione a distici (sempre sintattica, ma in realtà obbligata per il cambio costante di personaggio) dell’idillio V, l’agone teocriteo più tipico come tale, mentre il III e il X sono mimi: questo ci dà la conferma che i distici esametrici dei due canti finali dell’VIII alludono in modo implicito ma trasparente alle disticomitie singole a botta e riposta dell’agone bucolico vero e proprio dell’idillio V, non rinunciando a mostrare la contaminatio con il III e con il X. Ma l’VIII mostra anche dipendenza dall’idillio VI, anch’esso un agone, dove le due unità agonali sono anch’esse canti di media lunghezza (pur di lunghezza non uguale fra loro, v. oltre). L’anonimo ha contaminato liberamente il ‘metodo agonale’ del V (distici a botta e risposta) e del VI (canti di media lunghezza): la sua variazione appare intenzionale. Ai primi scambi agonali (33–60) ha assegnato doppi distici elegiaci (quattro versi) per ciascuno e ai due canti finali (63–80) quattro distici esametrici (otto versi) per ciascuno, tutti e quattro, come gli altri, isolati l’uno dall’altro attraverso la sintassi. L a c o s t r u z i o n e strofica appare studiata, con elaborazione e simmetrie di cui non troviamo paralleli nel Teocrito conservato. Ma vediamo la più grande novità compositiva dell’anonimo, la più visibile, quella che ha creato scandalo, e cioè l ’ u s o d e l l o s t e s s o d i s t i c o e l e g i a c o v e r o e p r o p r i o (33–60). Lascio per ora da parte la almeno
|| 56 Non inganni la usuale (e opportuna) presentazione tipografica con rientranze (dove peraltro, normalmente, a rientrare è il primo verso in qualità di capoverso, e non il secondo, in eisthesis, come nel distico elegiaco).
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parziale natura epigrammatica delle unità singole dei doppi distici elegiaci57. Quello che qui interessa è lo statuto storico–letterario del distico elegiaco in sé nella letteratura alessandrina, e restano aperte due possibilità: una è che si tratti di innovazione dell’anonimo; l’altra è che anch’esso fosse presente in carmi perduti di Teocrito, nel qual caso la contaminatio interna a Teocrito, già qui sopra segnalata, sarebbe ancora più ampia. In tutti e due i casi, comunque, l’uso del distico elegiaco per delle unità agonali sarebbe stato non un goffo espediente di falsario, ma o un omaggio al Teocrito di carmi per noi perduti oppure un riflesso della incipiente grande fortuna dell’epigramma contemporaneo, e quindi un nuovo esempio di mistione dei generi, di cui la letteratura alessandrina è ricca. Ora, l’uso del distico elegiaco poteva anche non essere un’innovazione. Se il canto dei pastori nella realtà era in versi lirici e il virtuosismo del Teocrito a noi noto – come abbiamo visto – consisteva nel conservare tali canti lirici nella prigione esametrica, nulla gli vietava, dopo tutto, di chiuderli anche nella prigione del distico elegiaco in idilli perduti (lo pensa anche Gow58), e io aggiungo che questo sarebbe stato un ulteriore efficace fattore di differenziazione fra dialogo (esametro) e canto lirico (distici elegiaci), come lo è nell’idillio VIII. Quello però che Teocrito, a mio parere, non avrebbe fatto è l ’ u t i l i z z a z i o ne di due o più espedienti di mimesi lirica contestuali ( n e l l o s t e s s o c a r m e ) , e cioè il distico elegiaco e in più le strofette esametriche, perché negli idilli autentici mostra di contentarsi sempre di uno solo di questi espedienti, come abbiamo visto nell’elenco offerto qui sopra. Assai significativo è, per di più, che negli idilli I e II usi solo un espediente che è addiritura esterno alla strofe, e cioè il ritornello, da lui considerato sufficiente – come ho notato sopra – per assicurare la mimesi lirica. Viene in luce ancora una volta la grande e c o n o m i c i t à 59 praticata dai poeti alessandrini, e soprattutto da Teocrito, nell’uso dei loro espedienti letterari. Ma molte volte, sempre per quanto riguarda la mimesi lirica, non usa alcun espediente lirico–mimetico, e cioè né i ritornelli né le strofette né l’equiparazione del numero di versi quando ci siano due canti lunghi accoppiati. Anche qui non distinguo fra idilli bucolici e non: VI: 6–19, 21–40 (due canti, Dafni e Dameta, di 14 e 20 vv. rispettivamente); VII: 52–89, 96–127 (due canti, Licida e Simichida, di 38 e 32 vv. rispettivamente);
|| 57 Ne parlerò al § 8. 58 Gow 1952, II, p. 171 sub (v). Perrotta 1978, p. 20 pensa che l’anonimo sia un seguace di Ermesianatte, che aveva cantato (ovviamente in metro elegiaco) gli amori di Dafni e Menalca. 59 Rossi 2000, La letteratura.
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XI: 19–79 (il canto d’amore del Ciclope); XV: 100–144 (il canto della γυνὴ ἀοιδός); XVIII: 9–58 (il canto di nozze per Elena); XXIV: 7–9 (la ninna–nanna per Eracle bambino, dove la mimesi del canto popolare è affidata solo a fattori verbali come anafore, rime e parole–chiave60).
Se queste ulteriori considerazioni sulla differenza di procedimenti letterari fra il Teocrito autentico e l’anonimo confermano la non autenticità dell’idillio VIII, ne tradiscono però la volontà di presentarsi come una specie di summa di espedienti teocritei mai compresenti nel suo modello, con un accumulo che definirei quasi barocco: non riesco proprio a vedere in lui la passività di un imitatore pedissequo. Dalla lettura del carme ci si rivela che non poteva essere confuso con il Teocrito autentico, e questo perché non lo voleva. I curatori del corpus sono stati di bocca buona: il loro interesse era di confezionare un corpus plenius (§ 7). È chiaro che mi piacerebbe molto risolvere, quanto ai distici elegiaci, per l’una o per l’altra possibilità, e cioè per innovazione integrale o per contaminazione con un perduto carme di Teocrito. Ma in tutti e due i casi il tasso della sua autonoma iniziativa letteraria resterebbe alto: anche nel secondo caso, perché l’antieconomico ‘raddoppio’ (distici elegiaci più strofette esametriche) sarebbe stato certamente solo suo. Quello che fin qui è venuto in luce non è procedimento da falsario, perché l’anonimo dichiara la propria distanza dal modello, in quanto qualifica sia la propria adesione sia la propria distanza ovvero dissidenza intertestuale. Alcune dissidenze, d’accordo, furono involontarie (specie quelle linguistiche e la sorprendente ignoranza agreste): ma alcune, e importanti come la strutturazione metrica, sembrano proprio volute. Ma anche alcuni degli stessi usi linguistici considerati devianti, come 62 ᾠδάν, sono a mio parere spie non di imperizia, ma di semplice noncuranza da parte di chi proprio non sentiva il bisogno di mimetizzarsi: sono segni di indubbia non autenticità teocritea, ma sono anche segni di indipendenza di chi usa una lingua a lui più familiare, senza troppo preoccuparsi di quelle che gli apparivano minuzie, per di più in presenza di forme che sembravano autorizzare una parziale devianza61. In sintesi: non tutto quello || 60 È un caso che la ninna–nanna si presenti come una unica strofetta esametrica tristica, praticata altrove in serie? Sarebbe pur sempre l’unico fattore metrico funzionale alla liricizzazione. 61 Teocrito usa sempre la forma ἀοιδ– per il sostantivo: Gow ad loc. segnala che la forma ‘scorretta’ compare solo qui e nell’apocrifo IX 1, 2, 28 (a cui va aggiunto 32). Ma per il verbo il Teocrito autentico usa anche ᾀδ–, ᾀσ– (1.145, 148, 3.38, 5.31, 14.30) accanto ai normali ἀειδ–, ἀεισ–, fatto che poteva ben favorire la libertà di usare la forma non teocritea del sostantivo. Altre catacresi linguistiche (prosodiche e lessicali) sono invece chiari indizi di imperizia (§ 4).
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che non è teocriteo va valutato allo stesso modo. O vogliamo che avesse letto in maniera così disastrosamente distratta il suo Teocrito? Prima di assegnare patenti di sciocca incompetenza, è bene cercare di dare delle giustificazioni: e nel nostro caso sembra che almeno alcune ce ne siano, a stare a quanto si è finora individuato e a quanto qui faccio seguire. Recentemente Fantuzzi62 ha riconosciuto un ulteriore elemento di non autenticità dell’VIII nella presentazione di Dafni, che in Teocrito è figura mitica nell’idillio I, dove la natura è idealizzata nel compianto per la morte dell’eroe, ed è invece personaggio bucolico in qualità di semplice pastore nell’Idillio VI: mentre Teocrito distingue in due composizioni diverse i due personaggi, l’autore dell’VIII li contamina, ambientando un Dafni semplice pastore, preso dall’idillio VI, nel quadro di un mondo campestre sentimentale e idealizzato, preso dall’idillio I. Ma anche qui vedo il fattore non teocriteo non come maldestra imitazione, bensì come frutto di attenta lettura del modello, che porta ad attuare un procedimento che non vuole nascondersi, ma mostrarsi. Lo stesso Fantuzzi mette in luce l’attenzione e – vien da dire – addirittura l’amore con cui l’anonimo ha letto il suo Teocrito, e – a parte l’idillio V – come ha saputo anche qui contaminare il I e il VI63. L’intenzionalità letterario–combinatoria dell’anonimo dell’VIII ne viene confermata. La dissidenza appare quindi plurima. L’autore sembra dire, in implicito linguaggio metaletterario: ‘So bene come faceva Teocrito, ma guardate come sono bravo a innovare [forse con l’introduzione dei distici elegiaci, ma certamente con la loro mescolanza ‘antieconomica’ a strofette esametriche] e nello stesso tempo a conservare, ma a modo mio [con più d’un distico esametrico assegnato a ciascuno dei contendenti]. E poi vi presento un agone fatto di canti di media lunghezza [ma plurimi e non a semplice coppia]. E per di più vi presento un Dafni pastore ambientato come Teocrito non aveva fatto’.
Una contaminazione così ampia esclude il falsario che voglia mimetizzarsi: l’anonimo mostra di aver composto un carme con tutti elementi teocritei (operando una Kreuzung molteplice), ma che Teocrito non avrebbe mai composto. Dopo l’individuazione di tanti elementi tutti teocritei, il dubbio sui distici elegiaci si potrebbe quasi risolvere con la fondata ipotesi che fossero presenti anch’essi nel Teocrito perduto.
|| 62 Fantuzzi 1998, che usa l’efficace definizione di pathetic fallacy. 63 E anche il IV: v. ancora Fantuzzi 1998.
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Sembrano strizzatine d’occhio degne del miglior poeta alessandrino: degne addirittura di Teocrito per l’alta qualità della tecnica metaletteraria allusiva64, ma non tali da attribuire il carme a lui. E allora? Allora dovrebbe risultare chiaro che l’VIII non è un pedissequo falso voluto per scopi editoriali, ma l’opera di un manierista bucolico, certo il più antico che abbiamo, animato da ζῆλος e non da intenzioni falsificatorie. Per quanto presto possa essere cominciata l’attività dei βιβλιοπῶλαι su materiale bucolico (§ 5), l’autore dell’VIII sembra esserne fuori: la sua composizione mostra il modello seguito, ma anche la sua distanza nei confronti del modello stesso. Il suo scopo non era il lucro, ma la scoperta a m b i z i o n e l e t t e r a r i a . Direi che, come esempio di ζῆλος ovvero di aemulatio, è da manuale: questo era il modo, specie fra gli alessandrini, di praticare oppositio in imitando, di comporre poesia firmata e di presentarla, naturalmente, come ortoepigrafa. Mi par di vedere nell’anonimo un Kunstwollen totalmente autonomo. A questo punto ritorno sull’equivoco da cui avevo messo in guardia all’inizio (§ 1). Per riscattare l’anonimo dall’accusa di falso intenzionale non sto invocando la categoria pseudo–oggettiva del bello come discrimine, che è un criterio scorretto: ripeterei l’errore di alcuni – più su da me denunciato (§ 4) – che consiste nel dire ‘è bello, quindi è autentico’ e che qui – in chi mi fraintendesse – diventerebbe ‘è bello, quindi non è di un falsario, ma di un poeta firmato’. Il giudizio estetico sull’idillio VIII qui non entra in discussione, perché non avrebbe, se positivo, alcuna forza probante per nessuna tesi: a me (e a molti) pare opera riuscita, ma, per il mio scopo, lascio ampia libertà di giudicarlo anche brutto e mal riuscito65. Quello che conta è l a d i c h i a r a z i o n e metapoetica (implicita, ma chiara) dei suoi procedim e n t i c o m p o s i t i v i , che lo candida alla più autonoma dignità letteraria, indipendentemente dalla riuscita del suo esperimento: è lui stesso a dire, implicitamente alla maniera alessandrina, ‘anch’io sono poeta’, diversamente dai famosi versi di Virgilio (ecl. 9.32–34), dove Licida è esplicitamente poeta anche lui: et me fecere poetam Pierides, sunt et mihi carmina, me quoque dicunt vatem pastores.
|| 64 Laura Rossi 1998 rileva una quantità sorprendente di espedienti combinatori negli epigrammi teocritei, che accrescono per noi la già alta valutazione dell’abilità dei letterati alessandrini. 65 Perrotta 1978 è ferocemente critico, ma bisogna ammettere che il confronto con il Teocrito autentico, in molti dettagli, è oggettivamente tutto a danno dell’anonimo.
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7. L’inclusione dell’Idillio VIII nel corpus Come si può supporre per molti altri casi, l’autore avrà fatto circolare la sua composizione con il suo nome, e cioè come ortoepigrafa, e solo in seguito questa sarebbe diventata anepigrafa e poi pseudepigrafa attraverso le cure di un raccoglitore editoriale. Ma allora avremmo, come risultato finale, una p s e u d e p i g r a f i a p r e t e r i n t e n z i o n a l e , un falso per cui il falsario sarebbe l’editore del corpus in cerca di materiale e non l’autore del carme. Prendendo a prestito dalla ‘metamorfosi delle funzioni’ dei formalisti russi66, parlerei qui di m e t a m o r f o s i d e l l e i n t e n z i o n i , che si sarebbe realizzata col passare del tempo, da autore a raccoglitore. L’esame interno dell’idillio mi convince del fatto che l’anonimo non si è comportato da falsario editoriale con lo scopo di integrare un corpus, e quindi col desiderio di mimetizzarsi sotto il nome di un altro. Alla qualifica di falso editoriale vero e proprio candiderei invece, per contrasto e quasi per provocazione, il piattamente e falsamente fedele nonché goffo idillio IX67, opera di un grammatico che non merita altra qualifica. Non so pensare al curatore di un corpus che non includa qualcosa di suo (in questo caso il IX), che però non dovrebbe avere alta ambizione letteraria, dovendo appunto mimetizzarsi o almeno non ostentare l’originalità del suo rapporto intertestuale: le eventuali dissidenze intertestuali (compositive, linguistiche etc.), che sono spesso presenti nei falsari, risultano in questi casi involontarie, perché non è dato giustificarle vedendole come parte di un progetto letterariamente autonomo, riuscito o no che esso sia. I corpora come quello teocriteo appaiono come una specie di anthologia in cui l’antologista, invece di mettersi in luce, si nascondeva: e in questo senso ogni corpus con pseudepigrafi è un precedente morfologico dell’anthologia, nella quale ultima, però, quello che era stato il curatore truffaldino del corpus diventò invece il trionfante firmatario, con i suoi epigrammi conclusivi di serie (§3). La soggettiva dichiarazione metapoetica di originalità nel caso dell’anthologia è esplicita perché è affidata alla morfologia editoriale (la sequenza delle composizioni e la messa in evidenza dell’ultima), mentre nel caso dell’idillio VIII è pregnantemente implicita per dichiarare quanto ho formulato sopra (§ 1): ‘ N o n v o g l i o e s s e r e T e o c r i t o : v o g l i o s o l o essere teocriteo’.
|| 66 Mukářovský 1971, spec. p. 67. 67 Se è poi un’unità e non un accrocco, come pensano molti: gli studi recenti sono segnalati in Köhnken 1995, p. 299 ss.
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Lascio qui da parte gli altri apocrifi, che meriterebbero ognuno un’indagine a parte. E tale indagine, come nel caso dell’idillio VIII, dovrebbe partire da un e s a m e i n t e r n o , visto che mancano sicuri indizi esterni. Sia che si accetti la mia valutazione dell’idillio VIII sia che non la si accetti, penso che di fronte a un apocrifo ci si debba chiedere comunque sempre se sia nato come tale o no, precisandone il tasso di iniziativa letteraria, sia esso dichiarato esplicitamente oppure sia più o meno chiaramente implicito. E, se le mie considerazioni in questo caso specifico saranno accettate, essendoci impossibile seguire in concreto dettaglio il nascere del corpus teocriteo, potremo almeno intravedere i modi in cui tale nebulosa passò attraverso fasi di progressiva condensazione.
8. Appendice. L’idillio VIII come anthologia o libellus precoci? Per i sei interventi in distici elegiaci (33–60) si è molto parlato di epigrammi: Reitzenstein, per primo, li voleva epigrammatici e fu seguito da molti; altri, come per esempio Perrotta, ne consideravano tali solo alcuni68. Ma giustamente lo stesso Perrotta69 faceva notare una singolare contrapposizione fra la sezione elegiaca in blocco, in cui domina il tema dell’amore, e la sezione esametrica, in cui la tematica è bucolica; e doveva ammettere che “certo, non si può negare che all’epigramma questi carmi [scil. quelli erotici] siano assai vicini: spesso, per ridurli a veri epigrammi, basterebbe mutare poco o nulla”. Consideriamoli tali o quasi tali, in un’epoca in cui il genere epigrammatico si stava diffondendo. Ora, qui il genere è non solo l’epigramma, ma l a s e q u e n z a d i e p i g r a m m i legati da vincoli tematici e formali, così come era richiesto dall’agone bucolico a botta e risposta: i doppi distici elegiaci I–II (33–40), III–IV (41–48)70, V–71 , VII–VIII (53–60) hanno fra loro, a coppie, corrispondenza formale e tematica, realizzando quel modo di sequenza tipico dell’agone. Mi sono spesso richiamato, sopra, all’anthologia epigrammatica72, che in realtà si configura normalmente non a coppie bensì a serie più o meno lunghe. Tenendo presente questa limitazione, anche se potrebbe indebolirne il valore, ho un’ulteriore proposta da fare. Da una ricerca recente73 risulta che per l’anthologia epigrammatica non abbiamo documentazione papiracea prima del II sec. a.C. Potrebbe essere la sezione epigrammatica dell’agone dell’VIII, collocato al III sec. o anche poco più tardi, un immediato antenato dell’anthologia epigrammatica?
|| 68 Reitzenstein 1893, p. 189 ss.; Perrotta 1978, p. 21 è favorevole a considerare veri epigrammi solo 49–52 e 57–60. 69 Perrotta 1978, pp. 11 s., 21. 70 Di Gregorio 1984, p. 289 s. informa sulle varie proposte di attribuzione e di spostamento di versi. 71 Ho già segnalato sopra il problema dell’integrazione di un epigramma. 72 Al § 3 per segnalare una manifestazione dei mutati modi della comunicazione; al § 7 per un confronto oppositivo fra il curatore di un corpus (che si nasconde) e l’antologista (che si firma). 73 Argentieri 1998.
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Bisognerebbe allora considerarli epigrammi di autori diversi (come pure alcuni hanno fatto) inclusi nella composizione dall’anonimo. Oppure potrebbe trattarsi di un embrione di precoce libellus epigrammatico di un solo autore, l’anonimo del carme, come è il liber di epigrammi di Posidippo del P. Mil. Vogl. Inv. 1285, ancora inedito, che sembra essere del III sec. a.C. Queste considerazioni aumenterebbero l’interesse storico–letterario di una composizione già pregevole per altre ragioni, fra cui quella di aver dato inizio alla poesia bucolica di maniera74.
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|| 74 Per questo lavoro devo molto a Adele–Teresa Cozzoli, Gabriele Pedullà, Gregorio Serrao e agli amici del seminario romano.
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Dibattito* A. [T.] Cozzoli: Innanzitutto faccio le congratulazioni al Prof. Rossi per la sua interpretazione dell’idillio VIII; mi sembra che egli abbia messo in evidenza la presenza nel componimento di alcuni elementi che sono un po’ contrastanti: se da un lato, infatti, c’è una maldestra imitazione di Teocrito, sia per la lingua sia per la scarsa conoscenza delle regole dell’agone bucolico, dall’altro, però, c’è una raffinatezza, soprattutto nell’ultima parte dell’idillio. Mi chiedevo se abbia preso in considerazione la possibilità che queste coppie di distici elegiaci derivino da un’imitazione, o meglio da una contaminazione della struttura dell’agone bucolico teocriteo con la Leonzio di Ermesianatte di Colofone, dove si trattava dell’amore dei pastori e, in particolare, di Dafni e Menalca (cfr.frr.2–3 Pow.); vorrei sapere, quindi, se questa può essere un’altra possibilità, oltre alle due ipotesi che ha suggerito nella relazione. G. Cerri: (…) Mi ha persuaso la dimostrazione che L. E. Rossi ha svolto sull’idillio ottavo, frutto più di emulazione e di esercitazione poetica che non di volontà falsaria; mi pare che abbia supposto che questo carme sia confluito per opera di altri nel Corpus, prendendo in considerazione la possibilità di un interesse editoriale–economico a presentare un Teocrito “allargato”. Mi chiedo perché non venga preso in considerazione (ma forse lo si fa ed io lo ignoro) il caso delle bibliotechine private dell’erudito, del lettore accanito, del letterato. Immaginiamo: un appassionato di poesia teocritea decide di scrivere un’ode in stile teocriteo, anche senza alcuna volontà di pubblicarla (come succede anche oggi); poniamo che egli scriva un bel carme su di una tavoletta di cera e, contento della sua creazione, pensi di conservarlo. Ma dove lo scrive per conservarlo? || [* Del dibattito, che comprende la discussione su tutti gli interventi della seduta pomeridiana, si riportano soltanto le parti relative all’intervento di Rossi. – G. C.]
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Può essere che, come facciamo noi anche oggi, prenda il libro di Teocrito e lo trascriva per conservarlo: se lo faccio io oggi, il mio componimento non si confonderà mai, perché il libro di Teocrito è a stampa e io faccio l’aggiunta a matita o a penna; ma se fossi un antico e andassi a scrivere la mia ode su uno spazio rimasto bianco del volumen, o sul retro del papiro, soltanto io saprò che non è di Teocrito, perché sono il possessore del libro; alla mia morte il mio libro potrebbe andare a finire sulle bancarelle, dove la mia aggiunta non sarebbe riconoscibile e finirebbe con l’essere considerata opera teocritea. Mi chiedo se questa pista sia possibile: non intendo dire che si debba ricorrere a quest’ipotesi indiscriminatamente, né che debba essere assunta in particolare per l’idillio VIII di Teocrito, ma mi chiedo se un processo di questo genere possa essere considerato uno dei grandi canali della pseudepigrafia antica. In sostanza, parlo dell’indistinguibilità tra libri in senso stretto e appunti personali nelle biblioteche, prima dell’avvento della stampa. – (Un interlocutore fa notare che era usuale apporre una firma alla fine del rotolo) –. Ma se scrivo un’ode per me, senza volontà di pubblicarla, non scriverò il mio nome alla fine di essa secondo tale prassi, e allora il mio scritto potrebbe essere confuso con la produzione autentica dell’autore cui il volumen è intitolato, anche se viene dopo l’explicit, perché dai lettori successivi sarà ritenuto un’aggiunta derivata da un’editio plenior. P. Bernardini: (…) Al Prof. Rossi chiedo una delucidazione a proposito del concetto di “preterintenzionale”: tale termine, se ho ben capito, indica che non c’è intenzione di produrre un falso; secondo me, tuttavia, il concetto può risultare difficilmente applicabile al caso di un poeta che intenzionalmente imita Teocrito, tanto da comporre un carme così simile ai suoi da creare un problema di attribuzione. (…) R.Pretagostini: Sono d’accordo con Rossi che siamo di fronte all’intervento di una persona dotta che cerca di imitare Teocrito. Costui mette insieme due modelli di riferimento diversi che trovava già in Teocrito: il canto a botta e risposta e il canto più lungo, che in questo componimento sono affiancati l’uno all’altro. Noi sappiamo che Teocrito sottopone queste realtà quotidiane ad un processo di letterarizzazione, che trova applicazione attraverso lo strumento dell’esametro; io credo pertanto che il falsario abbia inevitabilmente confuso due realtà diverse: il canto a botta e risposta dei pastori, che poteva essere anche dialogato (così me lo immagino in una realtà antropologica) e il canto lungo che era una composizione sicuramente lirica, magari con metri molto semplici, come giustamente sostiene Rossi, ma sicuramente accompagnati dalla musica. Questa diversa realtà antropologica fu confusa nella produzione teocritea, perché è stata omologata dall’uso dell’esametro sia in un caso che nell’altro. Ma
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Teocrito, per quanto mi sembra, non compose nessun idillio in cui metteva insieme canto a botta e risposta e canto ‘lirico’ lungo; tale soluzione è adottata da questo autore, che usa un tipo di canto che è quasi una sticomitia insieme col canto lungo; ciò significa che egli ha imitato Teocrito in maniera così esclusivamente letteraria da perdere completamente di vista il punto di partenza del reale da cui era partito Teocrito. (…) L.E.Rossi: Certamente, come osserva Adele Teresa Cozzoli, Ermesianatte è dietro l’idillio ottavo e seguendo questa strada andiamo al principio del grande successo dell’elegia, dell’epigramma e del grande rinnovamento letterario su cui non è il caso di dibattere in questa sede. Segnalo, oltre ad Ermesianatte, anche Sositeo, la cui presenza fu fatta notare da Perrotta per ragioni di contenuto. Ringrazio Cerri. Devo dire che noi abbiamo spesso un tremendo complesso ad immaginare certe cose, ma tali cose avvenivano senza dubbio nel mondo antico e non dobbiamo aver paura di presentare alcuni probabili scenari. Le vie per cui una composizione firmata o firmabile diventava anepigrafa possono essere mille. Come supporto scrittorio io immagino il papiro, un materiale scrittorio in fondo abbastanza comodo da conservare (non è come le Leggi di Platone conservate ἐν κηρῷ – come dice Diogene Laerzio – che era piuttosto scomodo): in età alessandrina c’è dunque questo materiale così comodo che ha, tuttavia, il pericolo di andare per vie abbastanza imprevedibili (come nel caso di Galeno che diceva “Guardate che ci sono dei miei scritti anepigrafi, perché io li ho fatti girare, li ho dati agli amici”). Noi siamo d’abitudine troppo prudenti, troppo timidi: ma dobbiamo, invece, immaginare scenari di questo tipo e certamente anche questa tua proposta della bibliotechina privata è plausibile, data la moltitudine di soggetti interessati alla letteratura. L’intervento di Paola Bernardini mi dà l’occasione di precisare meglio il concetto di preterintenzionalità. Tu sostieni che ci sono troppe somiglianze per non farne un imitatore: ma un imitatore non è necessariamente un falsario! Altrimenti cade del tutto la categoria – così importante nel mondo antico – dello ζῆλος (aemulatio). È certo che siamo in presenza di un falso che è diventato un falso attraverso il raccoglitore che lo ha messo insieme. È vero che ci sono molte somiglianze con Teocrito, ma alcune lo sono, altre non lo sono, e per alcune ho l’impressione che l’autore non ci facesse moltissimo caso; ce ne sono alcune che sono metabolizzate in un modo tale che mi fa sospettare un grado di intenzionalità, di volontà letteraria, di Kunstwollen da parte sua. No, no, non ci sono solo somiglianze, ma anche differenze, che io comunque non valuto tutte sullo stesso piano, e poi c’è in mezzo qualche cosa che mi pare sia chiaramente “firmata”.
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Grazie mille a Pretagostini: tu ti sei occupato di fatti popolari e antropologici in Teocrito. Io direi che questo anonimo confonde il canto a botta e risposta contenutistico dell’agone vero con gli agoni istituzionalizzati di canto, e questo non fa che confermare la sua non teocriticità, il che in fondo ci fa piacere; l’anonimo in sostanza dice “Guardate come sono bravo io, che vi trasformo in lirica anche l’agone bucolico”: questa è un ’ulteriore bravura e compie un’operazione di stilizzazione ancora più forte di quanto non facesse Teocrito, che già lo faceva adoperando l’esametro; i suoi esametri, anche quando sono utilizzati per il parlato, sono di alta qualità, ma questo anonimo addirittura adopera il distico; ci sono due composizioni che sono molto epigrammatiche: invito tutti a leggerle. Hai implicitamente ricordato, da vero alessandrino, un tuo lavoro di alcuni anni fa. (…)
Index nominum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Giulio Colesanti, Enzo Franchini, Roberto Nicolai, Virgilio Irmici Acheo: 484, 485 Achille: 3, 4, 6, 35–36, 40, 49–50, 58, 61, 68, 91, 127, 129–130, 132, 148, 163, 186–187, 207, 293, 666, 668 Ade: 356 Admeto: 526, 659 Adorno, Th.: 76 Adrados, F. R.: 224 n. 36, 464 Adrasto: 125, 350 Aetlio di Samo: 773 n. 25 Afrodite: 134, 325, 402, 404, 408, 579, 580, 581, 586, 782 Agamennone: 4, 35–36, 40, 43, 49–50, 58, 122, 124, 132, 186, 207, 354, 357 Agatone: 339, 463 Agaue: 565, 576, 578, 579, 581, 585 Agen: 529 Agia di Argo: 773 n. 25 Ahrens, H. L.: 51, 687 n. 7, 804 n. 50 Aiace (d’)Oileo: 6, Aiace Telamonio: 6, 35, 48, 49, 131, 132, 179, 186 Alcenore: 444 Alceo (commediografo): 646 Alceo: 83, 203, 287, 328, 335–338, 343, 365, 371 s., 382 s., 386–389, 394 s., 398, 400 s., 403 s., 408, 410, 418, 411, 423, 426, 430, 474, 634 n. 3 Alcesti: 404 s. Alcibiade: 339, 401, 461, 645, 647 Alcidamante: 112, 350 Alcifrone: 699 n. 14 Alcinoo: 37–38, 193 Alcmane: 277, 289, 291, 336, 342, 346, 348 s., 398, 410, 415, 418, 423, 434, 785 Alessandro Etòlo: 496, 528 Alessandro Magno: 356, 528, 529, 608, 772 Alessandro, figlio di Aminta: 391 Alessi: 547
https://doi.org/10.1515/9783110648126-059
Alighieri, Dante: 408, 763 n. 41 Allen, T. W.: 17, 677 n. 16 Aloni, A.: 165 n. 49 Altea: 484 Aly, W.: 225 n. 40, 505 Amarillide: 781 e n. 13 Amipsia: 646, 648 Amory, A.: 90 n. 171 Anacreonte: 83, 87, 289, 295, 287, 296, 326–328, 234 s., 355, 357, 365, 370– 372, 400 s., 404, 410, 418, 423, 430, 474 e n. 50, 634 n. 3 Anassandrida: 547 Anassimandro: 85 Anassìmene: 85 Anattoria: 405 Andersen, L.: 222 n. 33, 241 n. 79 Andrea Cappellano: 409 Andromaca: 36 Anonimo del Sublime: 402 Anticlea: 58 Anticlide di Atene: 773 n. 25 Antidòro di Cuma: 254 Antifane: 547 Antigone: 404 s. Antiloco: 3, 4 Antimaco: 759, 751 n. 11, 784 Antioco di Siracusa: 770 Antioco III il Grande: 356 Antistene: 477, 477 n. 62 Antonelli, R.: 396, 414, 422 Apellicone di Teo: 164 n. 44 Apollo: 3, 35, 41, 100, 106, 134, 352, 356 s., 434, 565, 575, 591 Apollonio Rodio: 88, 164, 180, 203, 405, 676–680, 682, 694, 721–722, 725, 726 n. 37, 746, 720–751, 752 e n. 29, 753–754, 755 e n. 21, 762, 764, 773, 784 e n. 24 Arato di Soli: 255, 762, 784 Archefonte: 444–446, 449, 451 s.
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Archelao: 575 Archestrato di Gela: 88 Archiloco: 83, 109, 138, 206, 286, 287328, 336, 338, 365, 370 s., 397 s., 400 s., 407 s., 421, 423, 426–429, 432, 553 Archippo: 645–646 Arctino: 5 Arend, W.: 5, 23, 37 n. 18, 176, 182 Areta: 37 Argentieri, L.: 788 n. 36. 789 n. 25 Argonauti: 347 Arianna: 340, 565, 568 Arione: 287 Aristarco: 5, 129, 142, 175 n. 5, 256, 673, 676 n. 11, 677, 683 Aristia: 473 n. 54, 485 s., 503, 505 Aristodemo: 325 Aristofane: 366, 403, 409, 417, 420, 452, 453 n. 35, 453 n. 36, 454, 472 n. 61, 524, 525, 538, 542, 553, 554, 560, 561, 563, 564, 565, 567, 569, 576, 599, 620, 630, 634 n. 4, 636 n. 7, 639, 643-646, 648, 650 e n. 50, 651, 730 Aristofane di Bisanzio: 129, 419, 673, 683 Aristofonte: 547 Aristomene: 646 Aristosseno di Taranto: 281, 292, 431 Aristotele: 39, 91, 128, 134, 144, 156, 180, 292, 387, 398–401, 409, 431, 434, 445, 448, 448 n. 16, 449 n. 23, 454, 454 n. 40, 455 s., 456 n. 46, 465 n. 12, 481, 482 n. 72, 488, 490, 491, 496, 497, 510, 513, 517, 519, 520, 521, 522, 527, 528, 532, 582, 601, 603, 606, 607, 608, 612, 613, 624, 626, 642 n. 24, 660, 667, 741 Arnott, W. G.: 645 n. 38 Arpalo: 529 Arrighetti, G.: 80 n. 147, 154 n. 1, 170 n. 62, 224 n. 38, 245 n. 108 Artemide: 370, 579 Artemidoro di Tarso: 706 n. 37, 713, 798, 800 Aspasia: 404, 646 Atena: : 12, 35, 37–38, 50, 461, 482 n. 74, 649
Ateneo: 292, 328, 340, 357, 383, 387– 389, 394 s., 411, 443, 445, 446 n. 11, 475 n. 56, 528 Atridi: 484 Aubignac, F. H. d’: 25, 128, 130 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano: 408 Aurora (divinità): 3 Austin, M. M.: 731 Averincev, S.S. : 243 n. 85 Bacchilide: 83, 291, 274, 275, 277, 279, 280, 329–321, 324, 326, 341, 343– 347, 382, 410, 413, 423, 430, 621, 623 Bachtin, M.: 638 Bagordo, A.: 801–802 Barbe, N.-B.: 201 n. 16 Barigazzi, A.: 446 n. 12 Barnabò, L.: 114 Barner, W.: 384 Barthes, R.: 210 n. 16, 416 Batillo di Alessandria: 567, 568, 786 Baudelaire, Ch.: 426 Bdelicleone: 454 Beazley, J. D.: 611 Beccaria, G. L.: 65 n. 97 Bechtel, F.: 216 n. 13 Beckett, S.: 416 Bekker, I.: 17 n. 9 Bellerofonte: 649 n. 48 Benseler, G.: 216 n. 13 Bergk, Th.: 14 n. 4, 54 n. 69, 389, 411 Bergson, H.: 631, 643 Bernabé, A.: 236 n. 67, Bernardini, P.: 815–816 Bethe, E.: 677 Bianchi Bandinelli, R.: 25, 76 n. 131 Biehl, W.: 609 Bignone, G.: 799 Bione: 713, 798, 800 Birdwhistell, R.: 593 Björck, G.: 23, 29 Bleicher, Th.: 25 n. 2 Blepiro: 566 Blum, H.: 75 n. 129 Blumenthal, A. von: 250 n. 132, 526
820 | Index nominum
Blümer, W.: 251 n. 134 Boeckh, A.: 51, 288, 396, 412, 414, 435 Bogatyriëv, P.: 490 Bonanno, M. G.: 208, 396 s., 399, 404, 406, 408, 413, 415, 417, 419, 421, 633 n. 1, 780 Borges, J. L.: 190 Bourgeois, A.: 202 Bovary, E.: 416 Bowra, C. M.: 26, 77 e n. 135, 90 n. 171, 522 Braccesi, L.: 769 n. 6 Brecht, B.: 589 Briseide: 35 Brodskij, I. A.: 418 Brommer, F.: 610 Brunck, R.: 411 Buceo: 804–805 Buchheit, V.: 8 Bupalo: 328 Burckhardt, J.: 328, 352, 644 n. 34, 763 n. 43 Burges, J. S.: 221 n. 32 Burkert, W.: 223, Burzachechi, M.: 45 n. 43 Buschor, E.: 610 Cadmo: 45, 575, 579, 580, 581 Cadmo di Mileto (prosatore): 85 Caggìa, G.: 754 e n. 20 Cairns, F.: 714 n. 1 Calame, C.: 231 n. 58, 288, 767 e nn. 1 e 4 Calcante: 58 Calderan, R.: 266 Callia: 485 n. 84, 647 Callimaco iunior: 774 Callimaco: 149, 206, 379, 422, 477, 529, 530, 599, 694, 718 n. 16, 726 n. 37, 746, 750–751, 755, 757 e n. 26, 758 e n. 29, 759, 763–764, 768, 771–775, 776–777, 779, 784–785, 787 Callino: 287, 364 s., 370 s., 430 Calonda: 109 Cameleonte: 409, 434, 496 Cameron, A.: 779 n. 6, 783 n. 22 Cannatà Fera, M.: 749 n. 7 Cantilena, M.: 117, 166 n. 53, 239 n. 73
Caos: 257 n. 160 Capaldo, M.: 205 n. 4 Cappelletto, P.: 771 n. 15 Carasso: 403 Carcino: 551, 560, 571 Carducci, G.: 420 Cariddi: 38 Caronte: 475, 559 Casanova, A.: 237 n. 69 Casaubon, I.: 444 n. 5, 445, 445 n. 10, 446, 407, 481 n. 71, 494, 507, 519, 533, 608, 657, 793 n. 4 Caskey, J. L.: 26 Cassandra: 484, 565 Cassio, A. C.: 176 n. 7, 245 n. 109, 246 n. 112 Càssola, F.: 165 n. 48 Caterina da Siena (santa): 409 Catullo, Gaio Valerio: 401, 405–407, 421 s., 435 Cavallo, G.: 33 n. 13 Ceccarelli, L.: 172 n. 17, 46 n. 1 Cerbero: 540 Cerri, G.: 171, 802 n. 44, 814, 816 Chadwick, J.: 26, 44, 54 n. 67 Chantraine, P.: 4, 52 n. 62, 723 n. 27 Cheremone: 528 Cherilo: 505, 511, 605, 611, 627, 657 Chersia di Orcomeno: 236 n. 67 Chiabrera, G.: 411 Chionide: 646 Ciani, M. G. : 171 Cibele: 432 Cicerone, Marco Tullio: 573 Ciclope (vd. anche Polifemo): 467, 467 nn. 20–21, 468–471, 473–476, 476 n. 58, 477, 477 nn. 61–62, 478 s., 479 n. 67, 480, 480 n. 70, 485 s., 654 661, 663, 664 n. 16, 751, 807 Ciclopi: 38 Ciconi (popolo): 38 Cimmeri (popolo): 38 Cimone: 296, 645 e n. 40 Cinesia: 476 n. 58 Cinèta: 702 e n. 21 Cineto: 351 Cinetone: 770
Index nominum | 821
Cingano, E.: 237 n. 69, 238 n. 70, 241 n. 79 Circe: 38 Citti, V.: 749 n. 6 Cleante: 531 Cleide: 405 Cleomene: 351 Cleone di Sicilia: 774 Cleone: 449 n. 23, 566, 643, 645, 647 Clio: 772 Clistene: 124, 289, 429, 510, 511, 514, 565, 607, 609, 629, 641, 660, 732 Clitemestra: 405 Cobet, C. G.: 679 Coli, U.: 443 n.* Colli, G.: 414 Columella, Lucio Giunio Moderato: 156 Comata: 686–687, 690–693, 701, 705, 804 n. 50 Cònaro: 702 e n. 21 Conflenti,G.: 481 n. 71 Conte, G. B.: 210 n. 16, 723 n. 26, 746 n. 1, 757, 778 Copley, F. O.: 469 n. 26 Coricio: 568 Coridone: 688–689, 694–695 Corinna: 347, 423, 763 Couat, A.: 690 Cozzoli, A. T.: 779 n. 6, 812 n. 74, 814, 816 Cranao: 649 Cratete di Mallo: 164 n. 44, 257 Cratete: 417, 547, 646–647 Cratino: 88, 485, 494, 646 e n. 43 Creonte: 590, 598 Crise: 35, 41, 576 Criseide: 35 Crisippo: 257 Crizia: 295, 296, 474 Croce, B.: 193, 413, 757 n. 27 Crocilo: 691 Cromio di Etna: 142 D’Alessio, G. B.: 237 n. 69, 771–772, 777 n. 2 D’Avenia, A.: 172 n. 1 d’Ors, E.: 796 n. 16 Dafni: 471 n. 38, 530, 686, 688, 694 e n. 31, 697, 712, 757, 785, 806 e n. 58,
808, 814 Dahlmann, H: 688 n. 14 Dale, A. M.: 465 n. 12, 485 n. 87 Dalfen, J.: 231 n. 59 Dameta: 693 n. 26, 806 Damone: 434, 510, 607, 609 Danae: 467 n. 21, 662 Danek, G.: 148 Davies, M.: 155 n. 11, 231 n. 59, 241 n. 77 De Romilly, J.: 659 de’ Nobili, F.: 457 Deianira: 662 Demetra: 81 n. 150, 134, 477 Demetrio del Falero: 677 n. 15 Demetrio Triclinio: 253, 258 Demo: 448 n. 16, 638–639, 641 Democle: 446 n. 11 Demodoco: 38, 42–43, 122–123, 130, 175, 187, 293, 350, 355 Demostene: 149 Demostene di Bitinia: 773 Denniston, J. D.: 109, 160 n. 32, Dercilo di Argo: 773 n. 25 Detienne, M.: 227 n. 48 Deucalione: 257 n. 160 Di Benedetto, V.: 490 Di Marco, M.: 483 n. 77, 609, 660 Diano, C.: 417 Diceopoli: 471 n. 34, 493, 635, 639, 644 Difilo: 547 Diggle, J.: 609 Dihle, A.: 34, 70, 147–148, 155 n. 7, 245 n. 108 van Dijk, G.–J.: 231 n. 59 Dindorf, K. W.: 526 Dinocolo: 459, 547 Dinomenidi: 459 Diocle: 485 n. 84, 646 Diodoro Siculo: 102 Diogene Laerzio: 816 Diogeniano (personaggio del De Pythiae oraculis di Plutarco): 105 Diomede: 6, 36, 186 Diomo: 712 Dionigi di Alicarnasso: 91, 138, 342 Dionisio Calco: 382 Dionisio Trace: 256
822 | Index nominum
Dionìso: 293, 340, 345, 353, 403, 432, 464, 473 s., 474 n. 51, 475, 477, 480 n. 65, 480 n. 70, 484, 493, 499, 505, 519, 529, 540, 559, 565, 568, 575, 577, 578, 580, 585, 586, 591, 605, 618, 626, 629, 647, 654, 658, 661–662 Dionisotti, C.: 758–759 Dioscoride: 451, 496, 523, 529 Dioscùri: 357, 770 Diotimo di Adramittio: 776–777 Discorso giusto: 640 Discorso ingiusto: 640 Dithmar, R.: 231 n. 59 Dodds, E. R.: 102, 427, 584 Dolone: 36, 147 Donato, Elio: 460 Dori: 54 Dover, K. J.: 268, 269, 400, 645: n. 38, 716 e n. 6, 731, 801 Dow, S.: 453 n. 36, 454, 455 n. 45, 456 n. 46 Droysen, J. G.: 95 Dübner, F.: 801 n. 42 Duchemin, J.: 462 n. 2, n. 3, 466 n. 17, 468, 468 n. 23, 469 n. 27, 486 n. 89 Düntzer, H.: 26, 683 Durante, M.: 52, 84 Ebener, D.: 802 Ecale: 379 Ecateo di Abdera: 254 Ecateo di Mileto: 236 n. 67 Ecfantide: 646 Ecuba: 68 Èdipo: 186, 590, 592, 596, 597, 598, 613, 614, 631 Edwards, A. T.: 217 n. 13, 244 n. 106, 244 n. 107, 245 n. 108, 245 n. 109, 246 n. 110, 246 n. 114, 247 n. 117 Edwards, G. P.: 80 Edwards, M. W.: 62 Efesto: 35–36, 656, 772 n. 20 Efialte: 647 Egemone di Taso: 88 Egesino di Salamina: 236 n. 67 Egisto: 89, 122
Ehrenberg, V.: 633 Elena: 23, 35–36, 357, 405, 403 Elettra: 405, 565 Elio Aristìde: 568 Elio Teone: 194 n.2, 199 Eliot, T. S.: 414, 763 n. 41 Ellanico: 773 n. 25 Ellendt, J. H.: 26 Emmenidi: 326 Empedocle: 86, 351, 549 Enea: 770 Eneo: 662 Eolo: 38 Epicarmo: 459, 484 s., 546, 547, 555, 646, 712 Era: 12, 36, 71, 352 n. 4, 591 Eracle: 48, 142, 186, 359, 495, 500, 526, 530, 540, 612, 657, 715, 770 Eraclìto: 85, 140 Ercolani, A.: 205 n. 3, 206, 211 n. 16, 237 n. 69, 238 n. 73, 633 n. * Eretteo: 649 Erinni: 483 s. Ermesianatte: 713, 800 n. 34, 806 n. 58, 816 Ermogene di Tarso: 194 n.2, 199 Ero(n)da: 460, 555 Erodoto: 33, 46, 51, 102, 125, 132, 347, 287, 350, 403, 511, 769 Eschilo: 280, 281, 421, 454, 458 s., 472 n. 40, 475 n. 56, 484, 488, 496, 503, 504, 505, 508, 509, 511, 521, 523, 524, 526, 528, 568, 589, 605, 607, 609, 610, 611, 620, 627, 629, 640, 644, 647, 657, 660 Esichio: 389, 543 Esiodo: 12, 14, 19, 29, 43, 65–66, 72, 79– 81, 83–85, 87, 102, 106, 110, 118, 121, 138; 152–163, 176–177, 184, 207, 210, 213–258, 349 s., 408, 428, 474 n. 50, 478, 678 n. 23, 763, 777 n. 4, 787 e n. 24 Esopo: 400 Estienne, H. (Stefano, Stephanus): 383, 410 s., 415, 435 Eteocle: 358 Ettore: 3, 4, 23, 35–36, 68, 91, 127, 666
Index nominum | 823
Eubeo di Paro: 88 Euclide (arconte): 385 n. 7 Euclide: 646 Eueno: 382 Euergides, pittore di: 517 Euforbo: 667 Euforione di Calcide: 255, 356 s. Eufronio: 665 e n**, 666, 668, 670 Eunico: 666 Eupoli: 646 e n. 43 Euripide: 140, 453 n. 35, 274, 275, 280, 281461, 468 n. 23, 473 s., 474 n. 52, 476 s., 477 n. 61, 485 s., 492, 493, 497, 499, 509, 524, 525, 526, 527, 553, 565, 575, 579, 580, 581, 585, 587, 591, 604, 609, 620, 627, 629, 640–642, 656, 669 Eustazio: 674, 752 Euticle: 646 Evatlo: 540 Evelyn–White, H. G.: 158 n. 24 Falstaff: 480 Fantuzzi, M.: 778–779, 808 Faone: 415 Feaci (popolo): 37–38, 42–43, 122 Femio: 38, 42–43, 122–123, 130, 175, 187, 190, 293, 350, 355, 359 Fenice: 49, 132 Ferecide di Siro: 85 Ferecrate: 646 n. 43 Ferete: 526 Ferretti, P.: 266, 273 Ferrin Sutton, D.: 608, 610 Festo Aftonio, Elio: 194 n.2, 199 Fick, A: 11, 71, 132, 246 n. 110 Fidippide: 539, 540, 542, 544 Filemone: 547 Filezio: 17 Filistione: 549 Filisto: 770 Filita di Cos: 750 Filocle: 4521, 525, 642 n. 24, 669, 642 n. 24, 669 Filocleone: 453, 551, 552, 555, 556, 557, 558, 559, 560, 561, 563, 571, 640, 644
Filone di Biblo: 222 Filosseno: 477, 477 n. 61 Filottete: 473 n. 47, 599 Finley, M. I.: 26, 47, 131 Finsler, G.: 25 n. 2 Flacelière, R:. 106 Focilide: 287, 474 Fogelmark, S.: 123 Formide/Formo: 459 Formione: 647 Foscolo, U.: 415 Fowler, R.: 236 n. 67, 239 n. 73 Fozio: 3, 606, 628 Fraccaroli, G.: 413 Fraenkel, E.: 23 n. 19, 270, 483, 589, 599, 644, 676 n. 10, 707 n. 40, 709 Francesca da Polenta (personaggio dantesco): 409 Fränkel, H.: 20, 41 n. 27, 57, 168 n. 62, 268, 269, 270, 676 n. 14 Frazer, R. M.: 245 n. 108 Friedländer, B. P.: 224 n. 38, 674 Frinico: 508, 511, 512, 540, 558 Frisk, H.: 15 Fritz, K. von: 224 n. 36, 224 n. 38, 791 n.1 Fusi, D.: 167 n. 56 Gabathuler, M.: 523 Galeno: 549 Gallavotti, C.: 804 n. 50 Gallo, I.: 607, 609, 611 Gamacchio, P.: 202 n. 1 Ganimede: 469, 476 García Ramón, J. L.: 245 n. 109 Gehring, A.: 679 Gelòne di Siracusa: 434, 459 Genette, G.: 498 Gentili, B.: 54 n. 69, 75 n. 130, 114, 116, 118, 386, 387 n. 10, 399, 411 Giannini, P.: 115 Giasone: 715 Giocasta: 358, 565, 592, 598 Giovanni della Croce (santo): 575 Giovenale, Decimo Giunio: 533, 608 Giuliano, Flavio Claudio, detto l’Apostata (imperatore romano): 460 Glauco: 36
824 | Index nominum
Gluck, Chr. W.: 344 Glykera: 529 Goethe, J. W.: 25, 61, 411 s., 414, 418, 431, 435 Goettling, K. W.: 225 n. 40 Gogol, N. V.: 171 Goody, J.: 238 n. 73, 239 n. 74 Gòrgone: 500 Gow, A. S. F.: 443, 444 n. 4, 445–447, 449, 451 n. 30, 693 n. 25, 716, 729, 781 nn. 13 e 15, 798 n. 26, 799, 800 n. 34 Grafton, A.: 793 n. 4 Graindor, P: 455 n. 42 Greco, G.: 167 n. 59 Griffiths, A. H.: 726 van Groningen, B. A.: 142, 166 n. 52, 217, 238 n. 73, 380 Grossi, P.: 443 n.* Grottanelli, C.: 767 Gruppe, O. F.: 225 n. 40 Guarducci, M.: 443 n.*, 453 n. 36 Gutzwiller, K.: 798 n. 26 Hainsworth, J. B.: 9–13, 16, 21–23, 63, 71, 85 n. 162, 90 n. 171, 107, 110, 270, 717 Hall, E. T.: 595, 596, 599 Harvey, D.: 645 n. 38 Haslam, M. W.: 277, 349 Havelock, E. A.: 33, 40, 74 n. 127, 75 n. 130, 80, 129, 168 n. 60, 168 n. 62 Heath, M.: 144–145, 227 n. 47, Hegel, G. W. Fr.: 396–398, 401, 412, 414 s., 417 Heine, H.: 371 Heitsch, E.: 154 n. 1, Hera Lacinia: 351 Hermann, J. G. J.: 19–20, 26, 50, 56, 120, 130, 166 n. 52, 269, 288, 414, 493, 518, 519, 520 Hermes: 36–38, 106, 134 Herrmann, M.: 457 Heubeck, A.: 73 Heyne, C. G.: 213 Hilberg, I.: 15, 24 n. 21 Hirschberger , M.: 236 n. 68, 238 n. 70
Hobsbawm, E. J.: 767 Hoekstra, A.: 9–20, 22, 23, 63–64, 70, 72, 81, 103, 110, 155 n. 8, 246 n. 110 Hölderlin, Fr.: 411, 414 s., 435 Holland, G. R.: 472 n. 45 Hölscher, U.: 222 n. 33 Howald, E.: 6, Hunter, R. L.: 236 n. 68, 237 n. 69, 239 n. 73 Hypnos: 656, 666 Iacobs, Fr.: 411 Iber, F.: 678 n. 23 Ibico: 291, 326–328, 331, 336, 348, 355, 370, 404, 410, 415, 423 Ieròne I di Siracusa: 329, 378, 459, 735 Ieròne II di Siracusa: 776 Ifigenia: 405 Igino, Gaio Giulio: 156 Ila: 715, 717, 722 Inghirami, T.: 460 Ione di Chio: 44, 502 Iperbolo: 643, 648 Ippi di Reggio: 770 Ippoclide: 564 Ippolito: 579, 586 Ipponatte: 287, 328, 336, 338, 370–372, 423 Ipponico: 647 Ippostrato: 351 Irigoin, J.: 271 Irmici, V.: 205 n.3, 667 n. 1 Irwin, E.: 236 n. 68 Isler, F.: 14 Isocrate: 112, 523, 678 n. 26 Jachmann, G.: 11, 17, 71 Jackson, J.: 109, 570 Jacoby, F.: 217, 343 n. 84, 253 Jaeger, W.: 412, 436, 572, 573, 667 Jahn, O.: 500, 501, 610 Jahnkuhn, H.: 9 n. Jakobson, R.: 31, 344, 397, 747 Janko, R.: 148, 241 n. 77 Jason, H.: 77 Jauss, H. R.: 754 n. 19
Index nominum | 825
Kaibel, G.: 646–647 Kakridis, J. Th.: 3, 3 n. 1, 39 n. 22, 131, 155 n. 11 Kannicht, B.: 447 Kannicht, R.: 609 Kassel, R.: 473, 609 Kattein, C.: 696 n. 1, 706 n. 34, 707 n. 38, 798, 799 e n. 29 Katz, J.: 231 n. 57 Kavafis, K.: 418 Keats, J.: 414 s. Kells, J. H.: 276 Kirchhoff, A.: 26, 37, 50, 130, 154, 210, 229 n. 50, , 675 Kirk, G. S.: 26, 47, 54, 77, 90 n. 171, 106, 113, 116, 118, 163 n. 37, 167 n. 58, 177 n. 10, 223, 225 n. 41, 238 n. 70, 239 n. 73, 245 n. 108 Kleberg, T.: 33 n. 13 Kott, J.: 422 Krafft, F.:247 n. 117 Kranz, W.: 466 n. 14 Kraus, W.: 226 n. 44, Kretschmer, P. F.: 248 n. 120 Kroll, W.: 714 n.1, 756, 778 Krummen, E.: 216 n. 10 Kullmann, W.: 3, 5 n. 4, 39 n. 22, 175, 176 n.6 Kurt, Chr.: 385 n. 8 L. Mario Antioco Corinzio: 502 La Penna, A.: 461 n.*, 688 n. 14, 726 n. 37 Lachmann, K.: 26, 50, 130, 683 Lacone: 686–687, 690–693, 701, 705, 707 Laerte: 38 Laio: 186 Lamaco: 644 Lambert, W. J.: 222 n. 33 Lancillotto del Lago: 409 Laocoonte: 670 Lasserre, Fr.: 482, 482 n. 74, 483, 501, 609 Latimer, J.: 217 n. 15 Latte, K.: 101, 226 n. 4 Laum, B: 268 Lawler, B.: 554
Leandrio di Mileto: 773 n. 25 van Leeuwen, J.: 11, 19, 19 n. 11., 20 Legrand, Ph.–É.: 680, 730 Lehnus, L.: 785 Lehrs, K.: 225 n. 40 Leo, F.: 237 n. 69 Leonida (re di Sparta): 105 Leopardi, G.: 134, 370 s., 402, 405, 407 s., 414–416, 422, 623 Leopardi, M.: 414 s. Lesbia (pseudonimo di Clodia Pulcra): 407 Lesky, A.: 10 n. 2, 17, 23 n. 18 e n. 20, 37, 72, 90 n. 171, 222 n. 33, 526 Lestrigoni: 38 Leto, Pomponio: 460 Leumann, M.: 11, 106, 143 Libanio: 568 Licambe: 338 Licida: 685 n. 4, 806, 809 Licofrone: 530, 531, 608 Licurgo: 529 Lindhamer, L.: 269 Lino: 431 Lisia: 138 Lisistrata: 405, 635 Litierse: 530 Livio Andronìco: 176 n. 8, 460 Livio, Tito: 573 Livrea, E.: 682 n. 36 Lloyd–Jones, H.: 461 n.* Lobel, E.: 383 s., 389, 411 Lord, A.: 21 n. 16, 37 n. 18, 64, 76, 90 n. 171 Lotman, J. M.: 34 Lotofagi (popolo): 38 Lowe, N. J.: 645 n. 38 Luciano: 89, 106, 110, 112, 116, 568,699 n. 14, 801–802 Lucrezio Caro, Tito: 415 s. Luther, W.: 226 n. 44 Maas, P.: 20, 55, 269, 466 n. 15, 678 n. 22 Macone: 445, 450–453, 455 s. Maehler, H.: 270 Magnete: 646 Malinowski, B.: 490 Maltese, E. V.: 609
826 | Index nominum
Mancini, A.: 466, 472 n. 44, 475, 438 Manganaro, G.: 512 Manilio, Marco: 156 Mann, Th.: 618 Manuele Moscopulo: 156 Marg, W: 39 n. 23 Mariotti, S.: 8, 445 n.*, 461 n.*, 678 n. 21, 791 n.1 Marsia: 482 n. 74 Marsilio, M. S.: 217 n. 15, 219 n. 26 Marzullo, B.: 70 n. 114, 72 n. 122 Masqueray, P.: 472 n. 42 Massimilla, G.: 771 Mastromarco, G.: 633 n. 1, 661, 786 n. 32 Matrone di Pitane: 88 Mauron, Ch.: 508 Mazon, P.: 160 n. 24, 160 n. 30 Mazza, S.: 266, 272 McLeod, W. E.: 103–104, 107, 111 McLuhan, M.: 76, 86 Mecenate, Gaio Cilnio: 568 Medea: 84, 404 s., 683, 764 Meier–Brügger,H.: 216 n. 13 Meillet, A.: 10, 15, 26, 54 n. 69, 132 Meister, K.: 10, 26, 52, 61, 132 Melanippo: 350 Mele, A.: 769 n. 7 Meleagro: 49 Memnone: 3, 4, 186 Menalca: 686, 688, 694 n. 31, 697, 800 n. 34, 805, 806 n. 58, 814 Menandro: 405, 543 Menealo: 35, 37, 72, 123, 186 Menecrate di Siracusa: 549 Menesteo: 48 Merkel, R.: 719 n. 18 Merkelbach, R.: 156 n. 12, 687 n. 9, 690, 707 n. 38, 780 Messio Cicirro: 497 Meyer, E.: 168 n. 62, 675 n. 8, 676–677, 683 Miller, H. W.: 600 Milone: 804 Mimnermo: 287, 365, 370 s., 376, 430 Minton, W.: 245 n. 108 Mirrine: 476 n. 58 Mirsilo: 335
Mnesimaco: 547 Momigliano, A.: 477, 800 n. 36 Montale, E.: 118, 418 Montanari, F.: 39 n. 22, 154 n. 1 Monti, V.: 170 s. Mooney, G. W.: 682 n. 34 Morichide: 648 Morpurgo–Davies, A.: 245 n. 109 Morsone: 687, 692, 804 n. 50 Mosco: 713, 788, 800 Most, G. W.: 391 Most, G.: 217, 231 n. 59, 246 n. 113 Motokiyo, Z.: 593 Mounin, G.: 556 Mövius, R.: 457 Mozart, W. A. 344 Mukařovský, J.: 489 Müller, K. O.: 288, 414 Munding, H.: 247 n. 117 Mureddu, P. : 244 n. 107, 247 n. 118 Murray, G.: 34, 78, 138, 166, 462 Musa/Muse: 325 Museo: 188 Musti, D.: 314, 445 n.* Mützell, W. J. K.: 225 n. 40 Naeke, A. F.: 15 n. 6 Nagler, M. N.: 65, 90 n. 171 Nagy, G.: 54 n. 69, 216 n. 13, 224 n. 39 Napolitano, M.: 633 n. * Nauck, A.: 679 Neander, M.: 410 Neottolemo: 186, 359 Neottolemo di Pario: 496 Nerone (Nerone Claudio Cesare): 568 Nestore: 3, 37, 40, 186 Neumann, G.: 9 n. Nevio, Gneo: 8 Newiger, H.–J.: 599 Nicandro di Colofone: 255, 762, 774, 784 Nicanore: 164 n. 44 Nicia: 638 n. 12 Nicia (amico di Teocrito): 714, 724, 726, 776 Nicolai, R.: 172 n. 1, 208, 210 n. 15, 229 n. 51, 384, 633 n* Nicolò Punzi, A. M.: 206 n. 6
Index nominum | 827
Nicomaco: 525 Niebhur, B. G.: 793 n. 4 Nieddu, G. F: 123 Nietzsche, F. W.: 414, 574, 580, 584 Nillson, M. P.: 44, 223 n. 35, 229 n. 52, 520, 530 Norden, E.: 470 n. 33 Northrup, M. D.: 221 n. 31; Nosside: 493 Nöthiger, M.: 343 Notopoulos, J. A.: 17, 19, 21 n. 16, 64, 79 n. 142, 110 Novalis (pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg): 414 O’Neill, E.: 12, 19 Odisseo (vd. anche Ulisse): 23, 37–38, 43, 49, 58, 62, 71–72, 91, 122–123, 127, 132, 148, 170, 175, 179, 187, 293, 359, 461, 461 n. 1, 472–474, 474 n. 49, 475, 475 n. 53, 476 s., 477 n. 62, 478, 478 n. 63, 479, 479 n. 67, 480, 485, 492, 494, 628, 654–656, 663 e n. 15 Ollier, Fr.: 398 Omero: 3, 5, 10, 12, 16–18, 23, 25, 28–30, 34, 40–41, 49, 51, 56, 58, 61, 65–66, 70, 78–85, 87–89, 91, 94, 103, 106, 108–109, 114–116, 118–120, 122, 124–125, 127–128, 136–154, 157, 177, 188, 203, 210, 287, 342–344, 346, 349–351 s., 357, 359, 378, 384, 397, 399, 417, 426 s., 431, 468 n. 23, 474, 474 n. 50, 475, 475 n. 56, 478, 478 n. 63, 485, 622, 654, 674, 677–678, 719 n. 18, 723, 725, 763, 774, 780, 784 n. 24 Ong, W. J.: 203–204 Orazio Flacco, Quinto: 341, 403, 406, 415, 419 s., 423, 435, 440, 482 n. 72, 497, 506, 606, 628, 782 n. 18 Oreste: 591 Orfeo: 188, 431 Ott, U.: 692 n. 24, 694 n. 29 Ovidio Nasone, Publio: 156, 406, 408, 423, 435
Paflagone: 643 Paganelli, L.: 609 Page, D. L.: 26, 44, 50, 106, 139, 273, 286, 426, 434, 675 n. 9, 677–678 Pagliara, A.: 772 n. 20 Pagliaro, A.: 52, 54 n. 69 Palemone: 693 n. 26 Paley, F. A.: 468 s., 480 n. 68 Palinuro: 8 Pallada: 699 n. 14 Pallone, M. R.: 350 n. 3, 352 n. 4 Palmisciano, R.: 194 Pandaro: 36 Panezio di Leontini: 356 Paniassi: 770, 784 Panto: 667 Paolo Malatesta (personaggio dantesco): 409 Pape, W.: 216 n. 13 Pardini, A.: 385 n. 7 Paride: 3, 35 Paride (attore): 568 Parke, H. W.: 101, 104–106, 109–110 Parmenide: 86 Paroli, T.: 77 n. 135 Parry, A.: 61, 110 Parry, M.: 5, 9–16, 21, 23–24, 26–28, 32, 60–67, 69–71, 76–77, 79, 96, 110, 118, 128–129, 136, 143, 182 Parsons, P. J.: 270, 273 Pascoli, G.: 420 Pasquali, G.: 168 n. 61, 413, 436, 674 n. 3, 683, 723 n. 26, 792 n. 3 Paton, W. R.: 802 Patroclo: 3, 4, 36, 127, 129–130, 293, 666, 668 Pausania: 102, 549 Pavese, C. O.: 79 n. 142, 110, 120, 247 n. 117, 426 Pedullà, G.: 812 n. 74 Peleo: 163 Pelope: 359 Penelope: 35, 37–38, 127 Penteo: 576, 577, 578, 579, 580, 581, 585, 586, 591 Pentesilea: 3, 186
828 | Index nominum
Pericle: 289, 434, 404, 434, 498, 573, 646–647 Perikleitos di Lesbo: 352 Péron, J.: 245 n. 108 Perrotta, G.: 465 n. 12, 474 n. 52, 486 n. 89, 713, 715 n. 4, 719 n. 18, 720–721, 799 e n. 29, 800 n. 34, 806 n. 58, 809 n. 65, 811 n. 68, 816 Perseo: 500 Pessoa, F.: 418 Pestalozzi, H.: 3, 3 n. 1, 4, 4 n. 3, 39 n. 22 Petrarca, F.: 117–118, 411, 420, 435, 623 Pfeiffer, R.: 252 n. 135, 627, 749 n. 8, 750– 751, 777 n. 2 Phálaros: 702 n. 21 Pheidon (tiranno): 125 Philippson, P.: 236 n. 68 Piccaluga, G.: 117 Picone, G.: 633 n. 1 Pignatiello, R.: 266, 273 Pilade di Cilicia: 567, 568, 786 Pilemene: 49, 132 Pindaro: 56, 76, 83, 142, 268, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 287, 291, 424–427, 429– 432, 434, 436, 341–348, 359, 371, 376, 378, 382, 398, 404, 410 s., 415, 417, 420, 421, 423, 430, 435, 597, 598, 619, 621, 622, 623, 679 n. 24, 735, 758 n. 31, 763, 772 n. 22, 788, 804 n. 54 Pirra: 257 n. 160 Pisandro: 770, 784 Pisetero: 635, 644 Pisistratidi: 427 s., 355, 459, 478 Pisistrato (tiranno di Atene): 44, 73, 91, 124–125, 128, 130, 141, 146, 176 n. 7, 180, 183, 191, 351 s., 360, 784 Pitagora: 347 Pittaco: 335, 386 Pizia (sacerdotessa di Apollo a Defi): 82, 100 Platone: 29, 33, 41, 75, 130, 144, 149, 288, 292, 339, 346 s., 351 s., 354, 401, 415, 430, 434, 476 n. 59, 478, 510, 543 Platone (commediografo): 646 n. 43
Plauto: 547, 569 Plutarco: 101–102, 105–106, 112, 116, 389, 411 Pluto: 641 Pohlenz, M.: 414, 474 n. 52, 495, 506, 520, 526 Pöhlmann, E.: 599, 613 Policrate di Samo: 328, 331, 348, 355 Polifemo (vd. anche Ciclope): 38, 170, 461, 466 s., 467–469, 469 n. 25, 473, 474 nn. 51 e 52, 477, 477 n. 61, 478 n. 63, 492, 494, 499, 654–656, 661 Polinìce: 358 Pollùce, Giulio: 450 n. 25 Pontani, F. M.: 237 n. 69, 370, 802 Porfirio: 793 n. 4 Poseidone: 37, 649, 655–656 Posidippo: 405, 812 Posidone Eliconio: 350 Prassagora: 405 Pràtina di Fliunte: 281, 465, 485, 504, 505, 511, 512, 515, 518, 520, 523, 605, 607, 610, 611, 613, 626, 627, 657–658 Prato, C.: 119 Pretagostini, R.: 758 n. 29, 783, 815–816 Priamo: 27, 36, 68 Priàpo: 499, 782 Privitera, G. A.: 171, 206 n. 6, 402 Prochita: 8 Proclo: 3, 156 Prometeo: 257 n. 160, 421 Properzio, Sesto: 156, 406, 435 Protagora di Cizico: 777 n. 4 Pseudo–Scimno: 762 Pseudo–Teocrito: 693–694, 697, 700– 703, 707–708, 711–712, 800 n. 34 Pucci, P.: 224 n. 38, 230 n. 55, 665 e n.* Puelma, M.: 421 Pugliese Carratelli, G.: 445 n* Pythionike: 529 Python: 528 Quasimodo, S.: 407, 422, 424 s. Quintiliano, Marco Fabio: 342, 423 Rabelais, Fr.: 392 n. 6
Index nominum | 829
Radermacher, L.: 751 n. 12 Radt, S.: 609 Ranger, T.: 767 Reiske, J. J.: 468, 703 n. 24 Reitzenstein, R.: 365, 696 n. 3, 712 n. 58, 718 n. 17, 793 n. 4, 799 n. 29 Rengakos, A.: 755 n. 21 Ribbeck, O.: 501 Ribuoli, R.: 266, 273 Richardson, N.: 165 n. 48 Rintone: 493 Risch, E.: 18, 52 n. 62 Ritschl, Fr. W.: 414 Rodopi: 403 Rohde, E.: 414 Romagnoli, E.: 206 n. 6, 413, 420 Romilly, J. de: 509, 607 Ronsard, P. de: 453, 477 Rosenmeyer, T. G.: 245 n. 108 Rösler, W.: 384, 387 n. 10, 401 Rossi, L.: 778, 782, 809 n. 64 Rossignol, J.-P.: 472 n. 39 Rossini, G.: 344 Rostagni, A.: 799 Ruijgh, C. J.: 13 n. 3, 14, 70 n. 113, 144 Russell, D. A.: 781 Russo, C. F.:241 n. 79 Russo, F.: 266, 273 Russo, J. A.: 21 n. 16, 65 Rutherford, I.: 222 n. 33, 231 n. 57, 239 n. 73 Rzach, L.: 237 n. 69, 245 n. 109 Sachs, E.: 3 Saffo: 203, 206, 287, 289, 328, 336, 343, 357, 371, 391 s., 398, 400–408, 410, 412, 415 s., 418, 421, 423–426, 430, 435 Saïd, S.: 225 n. 41 Sallustio Crispo, Gaio: 573 Salvatori, G.: 266, 272, 273, 274 Sandbach, F. H.: 246 n. 110 Santangelo, G.: 723 n. 26 Sarmento: 497 Sarpedon(t)e: 4, 665 n**, 666, 668 Saussure, F. de: 488, 779 Sbardella, L.: 148, 155 n. 10, 172 n. 1, 206
Scarcia, R.: 408 Schadewaldt, W.: 3, 37, 72, 131–132, 142 Schelling, Fr.: 414 Schiller, Fr.: 414 Schliemann, H.: 26–27, 131 Schmid, W.: 4, 236 n. 68 , 473480 n. 70 Schmidt, J. U.: 233 n. 62 Schneidewin, Fr. W.: 411 Schoeck, G: 3, 3 n. 1 Schroeder, O.: 54 n. 69 Schubert, F.: 344 Schulze, W.: 13, 18, 61–62, 599 Schwartz, E.: 674, 676 n. 10 Schwarz, J.: 221 n. 31, 237 n. 69, 343 n. 84 Schweighäuser, J.: 445 Schwinge, E. R.: 480 n. 69 Schwyzer, E.: 698 n. 12, 699 e n. 15, 700 Scilla: 38 Scoles, E.: 747 n. 5 Seaford, R.: 609 Sealey, R.: 514 Segre, C.: 278, 374, 747 n. 2 Seidensticker, B.: 608 Seleuco Omerico: 475 n. 56 Sellschopp, I.: 245 n. 108, 246 n. 114, 247 n. 116, 247 n. 117, Sèmele: 372, 575, 576, 577 Semonide: 287, 423 Senarco: 555 Senni, C.: 266, 272 Senofane: 355, 365, 427, 474, 86, 91, 132, 140 Senofonte: 292, 340, 476 n. 59, 565, 568 Senofonte corinzio: 330 s., 356 Senomede di Ceo: 773 n. 25 Serrao, G.: 679 n. 27, 694 n. 29, 726 n. 37, 728, 731, 739, 756, 787, 799, 804 n. 50, 812 n. 74 Severyns, A.: 5, 14, 21, 382, 464 s. Shakespeare, W.: 591, 650 Shipp, G. P.: 36, 71 Siegmann, E.: 609 Sileno: 467, 469, 472, 472 n. 44, 473 s., 474 n. 52, 475 s., 478, 480, 482, 484, 654–656, 661–664 Silk, M. S.: 643–644 Silla, Lucio Cornelio: 110
830 | Index nominum
Simeta: 405, 804 Simichida: 685 n. 4, 806 Simon, E.: 610 Simonide: 83, 277, 279, 291, 324, 330 s., 334, 336, 346, 348, 410, 423, 771, 788 Siracosio: 648 Sirene: 38 SkafteJensen,M.: 172–180, 217 n. 15 Snell, B.: 270, 271, 402, 508, 607, 609, 659 Socrate: 340, 575, 673 Sofocle: 281, 496, 509, 521, 523, 524, 525, 526, 553, 565, 589, 590, 591, 597, 599, 609, 618, 619, 620, 624, 627, 631, 669 Sofrone: 555 Solmsen F.: 160, n. 30, 229 n. 52, 252 n. 136 Solone: 48, 124–125, 132, 142, 287, 292, 328 s., 365, 376, 386, 430, 448, 649 Sonnino, M.: 633 n *, 645 n. 38 Sosibio Lacone: 547, 548 Sositeo: 481, 529, 530, 531, 608 Sositeo: 713, 800 n. 34, 816 Spitzer, L.: 148 Stahl, M.: 462 n. 3, 465 n. 10, 469 n. 25 Stählin, O.: 4, 493 Stanislavskij, K.: 600 Starobinski, J.: 416 Stefano, Stephanus: vd. Estienne, H. Steffen, V.: 609 Steiner, G.: 191, 650 Steitz, A.: 246 n. 110 Stesandro di Samo: 351 Stesicoro: 122, 268, 273, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 284, 287, 315, 341–349, 352, 354 s., 356–360, 410, 423, 471 n. 38, 712, 770 Stobeo: 359, 411 Strabone: 102, 770 Strauss Clay, J.: 225 n. 40 Strepsiade: 456 n. 35, 539, 542, 544, 635 Suda: 357 s. Sulzer, A.–I.: 271 Svenbro, J.: 122–124, 141, 226 n. 44, 354, 359
Svensson, A.: 724 nn. 29–32 Tacito: 573 Taillardat, J.: 538, 540 Talete: 85 Tamiri: 122 Tandoi, V.: 681 n. 32 Taplin, O.: 599 Tarn, W. W.: 529 Teagene di Reggio: 132, 140 Tedeschi, G.: 365 s. Telegono: 186 Telemaco: 37–38, 50 Telemann, G. P.: 371 Teleste: 565, 568 Temistocle: 512 Tentoni, M.: 266, 273 Teocrito: 140, 376, 379, 405, 416, 460, 471 n. 38, 477, 499, 529, 530, 531, 538, 556, 679 e n. 25, 686, 688–689, 693, 694 e n. 30, 695, 697, 699–700, 701 e nn. 19–20, 702–703, 706, 708 n. 41, 709 n. 49, 712–713, 714–715, 717, 720–722, 726 e n. 37, 746, 749– 751, 756, 759–764, 776, 777, 780, 787, 791–792, 798–800, 805–810, 812–816 Teofilo: 547 Teognide: 82, 103, 287, 328, 335, 355, 368, 375 e n. 2, 376–379, 387, 410, 421, 430, 435, 474, 474 n. 50, 525 Teone: 798, 800 Teopompo: 485 n. 84 Teòsseno di Tenedo: 331, 348 Terenzio Varrone, Marco: 460, 794 n. 9 Teròne di Agrigento: 275, 334 Terpandro: 332, 352 Tersicore: 325 Tersite: 3, 4, 36 Terzaghi, N.: 501 Tèseo: 48, 110, 379, 588, 579, 631, 649, 755 Tespi: 457 s., 517, 554, 556, 627, 668 Testa, C.: 266, 273 Teti: 3, 4, 36 Teucro: 6, Thanatos: 666
Index nominum | 831
Theoria: 640 Thomas, R. F.: 779 n. 6 Thomson, G.: 512 Thummer, E.: 326 Timeo: 770, 773 n. 25 Timocle: 502 Timone di Fliunte: 88 Tiresia: 358, 576, 580 Tirsi: 685 n. 4, 688–689, 695 Tirteo: 119–120, 287, 430 Todd, O. J.: 104, 111 Tolemei: 452 Tolemeo II Filadelfo: 453, 453 n. 1, 444 s., 776 Tondo, S.: 443 n.* Too, Y. L.: 204 n. 2, 209 n. 11, Torniai, F. SJ: 391 n. 1 Traina, G.: 746 n. 1 Trasibùlo (figlio di Xenocrate di Agrigento): 425 s., 430 s. Treu, M.: 349 Triclinio, Demetrio: 476 n. 57, 664 n. 16 Trigeo: 493, 515, 566, 635, 640, 644, 649 n. 48 Triulzi, S.: 193 Troxler, H.: 245 n. 109, 246 n. 110, 250 n. 132 Tucidide: 33, 134, 770, 774 Tucidide di Melesia: 540 Turner, E. G.: 19, 33 n. 13, Tynjanov, J.: 491 Tyrwhitt, Th.: 468 Tzetze, G.: 156 Ulisse (vd. anche Odìsseo): 678 Ungarelli, G.: 266, 272, 273, 274 Usener, H.: 14, 54 n. 69, 64, 111, 115–116, Uspenskij, B. A.: 34 Ussher, R. G.: 609 Valckenaer, L. C.: 678, 702, 799 Vallet, G.: 395 Varrone, Marco Terenzio: 24 n. 21, 106, 156 Vendryes, J.: 20 n. 14, 269 Venti, P.: 241 n. 77 Ventris, M.: 27, 44, 128
Verdenius, W. J.: 217 n. 15, 219 n. 26, 229 n. 51, Verdi, G.: 394 Vernant, J. P.: 230 n. 55 Vetta, M.: 43 n. 38, 227 n. 48, 266, 274, 443 Vico, G. B.: 25, 128, 130, 178, 183, 431 Villoison, J.–B.–G. d’Ansse de: 283 Virgilio Marone, Publio: 78, 134, 164, 180, 406, 408, 686, 689, 693–694, 696, 712, 784 n. 24, 797, 799 Vittoria (regina d’Inghilterra): 767, 795 n. 15 Volk, K.: 231 n. 57 Voltaire (pseudonimo di François–Marie Arouet): 617 Von der Mühll, P.: 11, 39 n. 23, 130, 677 n. 16 Wackernagel, J.: 5, 6, 39, 53, 58, 128, 155 n. 11, 175 n. 5 Wade–Gery, Th.: 34 Walcot, P.: 222 n. 33, 231 n. 57 Waltz, P.: 238 n. 71, 238 n. 73 Weber, M.: 385 Webster, T. B. L.: 44, 503, 610 Wecklein, N.: 467 n. 21, 476 n. 59 Weinreich, O.: 568 Welcker, F. G.: 216 n. 13, 288, 396, 412, 414, 435, 481 n. 71, 498, 499, 501, 608, 610 Wernicke, F. A.: 15 n. 6, 106 West, M. L.: 120, 152 n. 1, 160 n. 21, 160 n. 22, 159 n. 26, 160 n. 31, 162 n. 35, 218, 221 n. 31, 222 n. 33, 225 n. 41, 228 n. 49, 229 n. 52, 230 n. 56, 231 n. 57, 232 n. 60, 236 n. 68, 237 n. 69, 238, 245 n. 109, 246 n. 110, 246 n. 113, 253 n. 138, 286, 400 Wetzel, W.: 609 Whitman, C.: 630, 635–634, 607 n. 48 Wifstrand, A.: 167 n. 55, 681 n. 33 Wilamovitz–Moellendorff, U. von: 14 n. 5, 130, 137, 160 n. 24, 176, 217 n. 18, 237 n. 69, 347, 387, 392, 401, 412, 414, 435, 466 n. 17, 493, 575, 676, 677 n. 16, 683, 687 n. 7, 696, 707 n.
832 | Index nominum
38, 711 n. 54, 715 n. 4, 731, 798 e n. 26, 799 e n. 29 Will, E.: 217 n. 15 Winckelmann, J. J.: 95, 572, 573 Witte, K.: 10, 13, 26, 61, 132 Wolf, F. A.: 25, 27, 44, 50, 61, 128, 130, 183, 221 n. 30, 213, 350, 412, 431, 793 n. 4 Wood, R.: 25, 28, 128 Wordsworth, C.: 702 Wormell, D. E. W.: 101, 104–106, 109–110 Wyatt, W. F. Jr.: 18 n. 10, 61 n. 79 Xanto: 352 Xenocle: 525 Xenocrate: 325
Xenocrito di Locri: 352 Xenodamo di Citèra: 352 Yates, F. A.: 75 n. 129 Zampetti, L.: 266, 273, 274 Zenodoto di Efeso: 129, 142, 256, 676 n. 11, 677 n. 15, 683–684, 751 Zenone: 257 Zeus: 19, 35–36, 71, 80, 81 n. 150, 106, 163, 334 s., 352, 453, 575, 576 Ziegler, K.: 106, 773, 783–784 Zieliński, Th.: 245 n. 108, 640 Zumbach, O.: 17 Zwierlein, O.: 485 n. 8
Index locorum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Giulio Colesanti, Enzo Franchini, Roberto Nicolai, Virgilio Irmici Ach. Tat. – 1. 1. 3: 195 – 1. 1–2.3: 196 – 1. 1. 9: 195 – 1. 1. 13: 195 Achae. Hephaest.: 484 adesp. eleg. 27 W.2: 296, 297, 338 adesp. lyr. PMG 1005 Page: 389 Ael. – v. h. 3. 43: 352 n. 4 – v. h. 2. 8: 525 Aesch. – Agamemnon: 416 – Ag. 104: 450 n. 25 – Ag. 1186: 484 – Ag. 1186 ss.: 483 n. 78 – Ag. 1186–1193: 484 – Ag. 1188: 484 n. 79 – Ag. 1189: 484 – Ag. 1190: 484 – Ag. 1191: 442 – Diktyoulkoí: 472 n. 40, 659, 661, 733 – Dictyulc. 821 ss.: 467 n. 21 – Eumenides: 456, 459, 658, 667, 769 – Eum. 589: 511 – Isthmiastaí o Theoroí: 661–662 – Orestea: 637 n. 11 – Persae: 458 s. – Prometheus: 421 – Septem adversus Thebas: 458 s. – Sept. 387–650: 195 – Supplices: 458 s. – fr. 317 Radt = 317 Ν.2 = 628 M.: 479 n. 67 Agath. schol. – AP 5.237.6: 542 – AP 5.280.4: 542 – AP 5.297.8: 542 Aethiopis: 186, 189, 675 Alc. – fr. 249. 5 V.: 388
https://doi.org/10.1515/9783110648126-060
– fr. 249. 6–9 V.: 382 s., 354 – fr. 338 V. (= L.–P.): 327, 480 n. 68 – fr. 346 V. (= L.–P.): 306–308, 327, 372 – fr. 401 B V.: 426 Alcm. – fr. PMG 1 Page: 411, 418 – fr. PMG 101 Page: 417 – fr. PMG 126 Page = 146 C.: 434 Alcmeonis: 186 Alex. – fr. 135, 6 K.: 505 – fr. 136: 549 – fr.142: 548 Anacr. – fr. 1 G. = PMG 348 Page: 370 – fr. 13 G. = PMG 385 Page: 87 – fr. 33 G. = 43 D. = PMG 356 Page: 437, 372, 467 – fr. 36 G. = PMG 395 Page: 466 n. 15 – fr. 38 G. = PMG 396 Page: 467 – fr. 56 G. = 96 D. = 2 W.2: 291, 337, 355, 365, 367 – fr. 83 G. = PMG 378 Page: 400 – fr. 94 G. = PMG 376 Page: 400 – fr. 96 G. = PMG 374 Page: 357 – fr. 107 G. = PMG 412 Page: 703 n. 26 – fr. 149 G. = PMG 472 Page: 357 – fr. PMG 372 Page: 543 – fr. PMG 440 Page: 543 Anaxandr. 10 K.–A. = 10 K. = Mein. 3 p. 165: 449 n. 22 Anth. Pal. – 5. 208: 469 n. 27 – 6. 248.5: 447 n. 14 –7. 52: 217 n. 20 – 7. 53: 217 n. 20 – 7. 54: 217 n. 20 –7. 55: 217 n. 20 – 7. 708: 451 s. – 9. 184: 423 – 9. 64: 217 n. 20
834 | Index locorum
– 9. 161: 217 n. 20 – 9. 572: 217 n. 20 – 10. 42: 801–802 – 12. 7: 469 n. 27 – 24. 96: 104 Ap. Rh. – Argonautica: 179, 192, 668, 684, 719– 720 – 1. 1: 682 – 1. 1–4: 720 – 1. 1: 721 – 1. 2: 721 – 1. 3: 721 – 1. 4: 721 – 1. 20: 682 – 1. 20–227: 721 – 1. 209: 718 n. 16 – 1. 457–459: 754 – 1. 519–521: 88 – 1. 735– 741: 195 – 1. 737– 760: 196 – 1. 752– 758: 195 – 1. 1164: 719 e n. 19 – 1. 1172: 707, 719 – 1. 1172 ss.: 718 n. 15 – 1. 1232: 722 n. 24 – 1. 1280–1282: 88 – 2. 164–165: 88 – 2. 211: 721 – 2. 516 ss.: 718 – 2. 669–671: 88 – 2. 728: 677 – 2. 811: 754 – 2. 871: 721 – 3: 764 – 3. 2: 721 – 3. 117 s.: 754 – 3. 949 s.: 754 – 3. 1201: 719 n. 19 – 4: 753, 764 – 4. 1 s.: 680, 752 – 4. 2: 681, 752 n. 16 – 4. 109–113: 88 – 4. 267: 718 n. 16 – 4. 552 ss.: 773 – 4. 885: 88 – 4. 1206–1209: 719 n. 19
– 4. 1537: 719 n. 19 – 4. 1731: 719 n. 19 – 4. 1781: 676–677, 683, 752 – contra Zenodotum: 684 Apostol. 1245, p. 553. 8 Leutsch– Schneid.: 479 n. 67 Apul. – met. 2. 4: 196 – met. 5. 1: 195– 196 – met. 5. 4: 195– 196 Archil. – 67a. 5 D3 (= 105. 5 Tarditi): 539 – fr. 1 W. 2: 111 – fr. 5 W.2: 426, 370, 397 – fr. 114 W.2: 397, 427 – fr. 172 W.2 = 88 D.: 338 – fr. 174. 1 W2: 250 n. 127 – fr. 223 W.2: 429 Archipp. – Ichthyes 646 – Ploûtos: 646 – Rhínon: 646 Aristaen. 2.20: 537 Aristias Cycl. fr 4 Snell–Kannicht = fr. 4 N.2 = 4 Steffen2: 475 n. 54, 485 Aristoph. – Acharnenses: 636, 639, 642, 644 – Ach. 27: 649 – Ach. 204-232: 643 – Ach. 280–346: 643 – Ach. 400 s.: 470 n. 33 – Ach. 498–499: 651 n. 52 – Ach. 571: 540 – Ach. 626–664: 643 – Ach. 628–658: 642 – Ach. 654: 543 – Ach. 710: 540 – Ach. 738: 524 – Ach. 836 ss.: 466 n. 16 – Ach. 864: 705 n. 31 – Ach. 938–975: 291 – Ach. 1008 ss.: 471 n. 34 – Anàgyros: 645 – aves: 594, 598, 646–648 – av. 39–41: 452 – av. 109–111: 452 n. 35 – av. 123: 633, 638
Index locorum | 835
– av. 266–293: 564 – av. 451–638: 643 – av. 627: 643 – av. 1022: 458 n. 16 – av. 1636: 543 – av. 1720: 467 – av. 1723: 467 – Babylònioi: 645 – Daitalês: 645 – ecclesiazusae: 636, 638, 641 – eccl. 289 ss: 450 n. 27 – eccl. 293: 495 – eccl. 530: 543 – eccl. 676–80: 366 – eccl. 952: 704 n. 30 – eccl. 952 ss.: 537 – eccl. 963: 541 – eccl. 1112 ss.: 451 n. 34 – eccl. 1128 ss.: 451 n. 34 – eccl. 1165 ss.: 786 – equites: 638–639, 643 – eq. 41: 448 n. 16 – eq. 105 ss.: 474 n. 52 – eq. 242: 495 – eq. 273: 650 – eq. 336: 703 n. 26 – eq. 338: 703 n. 26 – eq. 387–90: 540 – eq. 490 s.: 540 – eq. 551–564: 644 – eq. 563–574: 644 – eq. 571–3: 538, 540 – eq. 581–594: 644 –eq. 581–596: 641 – eq. 595–606: 644 – eq. 776: 543 – eq. 783: 5543 – eq. 841–847: 540 – eq. 973 ss.: 466 n. 16 – eq. 1195: 543 – eq. 1327–1328: 641 – eq. 1332: 448 n. 16 – eq. 1446: 543 – Georgoì: 645 – Gêras: 645 – Gerytàdes: 6045 – Holkàdes: 645
– Hôrai: 6045 – Lysistrata: 403, 636, 644 – Lys. 162: 467 n. 21 – Lys. 227: 467 n. 21 – Lys. 248: 543 – Lys. 254: 495 – Lys. 537: 448 n. 16 – Lys. 624 s.: 453 n. 36 – Lys. 671: 540 – Lys. 690: 448 n. 16 – Lys. 797 ss.: 786 – Lys. 797–799: 567, 594 – Lys. 821 ss.: 786 – Lys. 821–823: 567, 594 – Lys. 895: 543 – Lys. 1082: 645 – Nêsoi: 645 –nubes: 474 n. 52, 640, 643, 646 – nub. 119: 539 – nub. 207 s.: 452 n. 35 – nub. 434: 540 – nub. 451: 540 – nub. 547: 537 – nub. 563–74: 644 – nub. 595–606: 644 – nub. 690: 704 n. 30 – nub. 783: 108 – nub. 863 s.: 453 n. 36 – nub. 1047: 540 – nub. 1142: 543 – nub. 1206 ss.: 471 n. 34 – nub. 1282: 543 – nub. 1353–1372: 291 – Odomantoprésbeis: 645 – pax: 636, 638 n. 12, 640, 644, 648 – pac. 301 ss.: 786 – pac. 505: 452 n. 35 – pac. 534: 453 n. 35 – pac. 715: 470 n. 33 – pac. 715 ss.: 471 n. 34 – pac. 734: 648 – pac. 781–795: 560 – pac. 832–841: 308 – pac. 856 ss.: 471 n. 34 – pac. 1127–1139: 642 – pac. 1265 ss.: 366 – pac. 1330: 467
836 | Index locorum
– Plutus: 641 – Plut. 290 ss.: 477 n. 61 – Plut. 487 s.: 540 – Plut. 704: 543 – Polyidos: 645 – ranae: 409, 640, 642, 645, 647–648 – ran. 85: 471 n. 34 – ran. 200 s.: 475 – ran. 257: 543 – ran. 413–39: 466 – ran. 469: 540 – ran. 493: 543 – ran. 655: 501 – ran. 686–705: 631, 650 n. 50 – ran. 689–691: 540 – ran. 718–737: 631, 650 n. 50 – ran. 734: 650 n. 50 – ran. 791–4: 540 – ran. 849: 565 – ran. 877 s.: 540 –ran. 959: 641 – ran. 1030– 1036: 254 – ran. 1039: 644 – ran. 1078-1098: 642 – ran. 1136: 543 – ran. 1222: 543 – ran. 1309 ss.: 565 – ran. 1332: 571 – Skenàs katalambànousai: 645 – Thesmophoriazusae: 403, 369, 640– 643, 648 – Thesm. 58: 571 – Thesm. 228: 543 – Thesm. 839: 650 n. 49 – Thesm. 1177 s.: 565 – Triphàles: 645 –vespae: 456, 452, 638, 640, 642, 644 – vesp. 54: 524 – vesp. 158–160: 453 – vesp. 168: 453 – vesp. 230: 495 – vesp. 249: 306 – vesp. 303 ss.: 453 n. 36 – vesp. 320–322: 453 – vesp. 333: 448 n. 16 – vesp. 340: 453 – vesp. 427: 454
– vesp. 474: 454 – vesp. 517: 453 – vesp. 546: 453 – vesp. 548: 453 – vesp. 548 s.: 453 – vesp. 551: 453 – vesp. 571: 453 – vesp. 575: 453 – vesp. 577: 453 – vesp. 587: 453 – vesp. 605 ss.: 453 n. 36 – vesp. 620: 453 – vesp. 620 s.: 453 – vesp. 626–628: 453 – vesp. 628–630: 453 – vesp. 703: 453 – vesp. 729 ss: 594 – vesp. 743: 594 – vesp. 751: 571 – vesp. 752: 450 n. 26 – vesp. 999 ss: 453 – vesp. 1075 s.: 453 – vesp. 1076: 645 – vesp. 1089: 453 – vesp. 1113: 453 n. 36 – vesp. 1120 s.: 453 n. 36 – vesp. 1208 ss.: 474 n. 52 – vesp. 1219–1264: 291 – vesp. 1259: 297 – vesp. 1326: 467 n. 21 – vesp. 1411: 543 – vesp.1474–1537: 550, 786 – vesp.1487–1494: 557–558 – vesp. 1489: 570 – vesp.1520–1524: 562 – fr. 504 K.–A. = 488 K.: 471 n. 34 – fr. 707: 633, 638 Aristoph. Byz. perì prosphonéseon, p. 161 Nauck: 699 n. 14 Aristot. – Ath. pol.: 454 – Ath. pol. 9. 1: 450 n. 25 – Ath. pol. 16. 5: 513 – Ath. pol. 19. 3: 387 – Ath. pol. 20. 5: 347 – Ath. pol. 21: 513 – Ath. pol. 21. 2. 4: 607
Index locorum | 837
– Ath. pol. 63. 4: 413 – didaskalíai: 660 – hist. an. 488 b: 445 – met. 1093a 28: 155 n. 9, – poetica: 669, 764, 780, 782, 784 – poet. 1447b 21: 528 – poet. 1448b 25: 409 – poet. 1449a 10: 517 – poet. 1449a 19 ss.: 510 – poet. 1449a 19–21: 517, 605, 626, 657 – poet. 1449a 20: 507 – poet. 1451a: 187, 241 n. 77 – poet. 1451b 1 ss.: 400 – poet. 1452b 21s.: 543 – poet. 1456a 25 ss.: 601 – poet. 1456a 25–27: 624 – poet. 23. 1459a–b: 128, 187 – poet. 1459a 10: 522 – poet. 1460a 7: 522 – rhet. 1407b 4–5: 114 Asclep. – AP 5. 164: 538 – AP 5. 167: 538 – AP 5. 189: 538 – AP 12. 50 s.: 306 Athen. – 12f: 675 n. 11 – 15d: 568 – 20e: 565 – 22a: 565 – 66: 343 n. 84 – 365a: 449 n. 21 – 365d: 449 n. 21 – 584f: 446 n. 11 – 601a: 356 – 608c: 528 – 635a, f: 356 – 635e: 352 – 695a: 383 – epit. 1. 17f: 475 n. 56 Bacchyl. – ep. 5. 19.s: 274 – ep. 5. 24: 274 – ep. 5. 29 s.: 274 – ep. 5. 39 s.: 274 – ep. 5. 61 s.: 274
– ep. 5. 64–68: 274 – ep. 5. 100 s.: 274 – ep. 5. 100–102: 274 – ep. 5. 110 s.: 274 – ep. 5. 118 s.: 274 – ep. 5. 170–172: 274 – ep. 5. 191 s.: 274 – dith. 16. 2–4: 274 – dith. 16. 20–22: 274 – dith. 16. 27–29: 274 – dith. 17. 21–23: 274 – dith. 17. 29–32: 274 – dith. 17. 29–33: 274 – dith. 17. 36–38: 274 – dith. 17. 41–43: 274 – dith. 17. 43 s.: 274 – dith. 17. 58 s.: 274 – dith. 17. 68 s.: 274 – dith. 17. 69 s.: 274 – dith. 17. 101–103: 274 – dith. 17. 110 s.: 274 – dith. 17. 115 s.: 274 – dith. 18. 5–7: 274 – dith. 18. 13–14: 274 – dith. 18. 16 s.: 274 – dith. 19. 12–14: 274 – dith. 19. 19–23: 274 – dith. 19. 19–25: 274 – dith. 19. 25–28: 274 – dith. 20. 5–6: 274 – pae. 4. 79: 329 – pae. 5: 413 – fr. 5. 3 s.: 802 Call. – Aitia: 746, 755, 757–759, 763, 768, 771– 772, 774, 784–785 – Ait. prol.: 760 – epigrammata: 760, 777 – epigr. 25. 6 Pf.: 111 – epigr. 27 Pf.: 255 – epigr. 28 Pf.: 187 – epigr. 28. 5 Pf.: 599 – epigr. 46.2 Pf.: 477 – epigr. 52.3 Pf.: 599 – epigr. 63 Pf.: 538 – fr. 1 Pf.: 530
838 | Index locorum
– fr. 114 Pf.: 196 – fr. 194 Pf. (vv. 69, 78, 80): 540 – fr. 612 Pf.: 758, 772 – Hecale: 379, 738–739, 755, 784 – Hec. fr. 260, 62 ss.: 756 – hymni: 785 – hymn. Ap.: 772, 777, 785 – hymn. Cer.: 777, 785 – hymn. lavacr. Pall.: 756, 777, 785 – iambi: 777 Callin. fr. 1. 1–4 W.2: 111, 364 s., 370 Calp. Sic. – 2. 27: 693 n. 27 – 2. 99 s.: 693 n. 32 – 4. 149: 695 n. 32 – 6. 85–92: 695 n. 32 carmina convivalia – PMG 884–917 Page: 464 – PMG 884–887 Page: 303 – PMG 888 Page: 303, 389 – PMG 891 Page: 303, 382 s., 389, 394 – PMG 893–896 Page: 303 – PMG 898–899 Page: 303 – PMG 900–901 Page: 303, 743 – PMG 902 Page: 303, 368 – PMG 904–905 Page: 303 – PMG 906 Page: 303, 387 – PMG 907 Page: 303, 387 – PMG 911 Page: 303 – PMG 913 Page: 303 – PMG 917c 9 Page: 385 carmina popularia – PMG 853 Page: 352 – PMG 856 Page: 329 – PMG 857 Page: 329 Catull. – 13. 1: 702 n. 22 – 64: 196 – 64. 1: 718 n. 14 – 64. 105– 115: 195 – 64. 125– 130: 195 – 64. 251– 264: 195 certamen Homeri et Hesiodi: 217 Chamael. – fr. 37 Wehrli: 496 – fr. 38 W.: 506 chelidonismόs: 761
Claudian. – cons. Hon. 4. 520: 196 – rapt. Pros. 1. 1238: 196 – rapt. Pros. 2.30: 196 Clem. Alex. strom. 6, 2. 25,1: 675 n. 7 Cratet. fr. 78 B.: 233 Cratet. Com. Métoikoi: 646 Cratin. – Cheírones: 647 – Dionysaléxandros: 646 – Drapétides: 646 – Lákones: 646 – Malthakoí: 646 – Némesis: 646 – Nómoi: 646 – Panóptai: 646 – Plôutoi: 646 – Pytíne: 647 – Seríphioi frr. 223 e 228: 647 – Thrâittai: 646 – fr. 41 K. = 44 Bonanno: 548 – fr. 141 K.: 494 – fr. 302.2 K.: 541 – Odyss.: 485 – Odyss. fr. 146 K.–A. = 135 K.: 485 – Odyss. fr. 150 K.–A. = 143. 3 K.: 485 Cypria: 186 Damon. fr. 18 Lasserre: 565 Demetr. de eloc. 169: 481, 494, 606, 657 Dicaearch. ap. Athen. 13,620 c = fr. 87 Wehrli: 351 Diod. Sic. – 17. 114: 19 – 18. 26: 196 Diodor. ΑΡ 5.122. 5: 543 Diog. Laert. – 1. 78: 386 – 5. 87: 254 – 6. 1. 18: 477 – 9. 110: 530 Diogen. – 232 p. 200. 9 ss. Leutsch–Schneid.: 485 n. 85 – 735 p. 292. 4 Leutsch–Schneid.: 479 n. 67 Diom. I p. 491. 4 ss. Keil: 506
Index locorum | 839
Dion. Hal. – Ant. Rom. 7. 72. 10–12: 496 – de comp. verb. 16: 91 – de comp. verb. 19 p. 85. 12 ss. U.–R.: 342 – imit. 2. 2. 7 p. 205. 11 s. U.–R.: 342 Dioscor. – AP 7. 37 = 22 G.–P.: 523 – AP 7. 411 = 21 G.–P.: 505 – AP 7. 707 = 23 G.–P.: 529 – AP 7. 708: 451 s. Diph. fr. 74 K.–A. = 73 K. = Mein. 4, p. 411: 449 n. 22 Drom. fr. 1 K.–A. = 1 K. = Mein. 3, p. 541: 449 n. 22 eiresióne: 761 EM 156,4: 680 Emped. 6.2 D.–K.: 19 Enn. – ann. 43, 230: 24 n. 21 – var. 14 V.2: 24 n. 21 Epicharm. – Comastae aut Hephaest.: 484 – Cycl.: 485 Ephipp.12: 549 Epicrat. 11. 27 s.: 549 Erakleia: 186 Ero(n)d. – 4. 20–28: 195 – 4. 66– 68: 195Euphor. – Περὶ Ἰσθμιῶν fr. 180, ap. Athen. 182 e–f: 356 – fr. 181, ap. Ath. 633f: 356 s. Eupol. – Âigesfr. 13: 647 – Andrógynoi: 647 – AutólykosI: 647 – Autólykos II: 647 – Astráteuoi: 647 – Báptai: 647 – Chrysôungenos: 647 – Dêmoi: 647 – Heílotes: 647 – Hybristodíkai: 647 – Kólakes: 647 – Lákones: 647 – Marikâs: 647
– Noumeníai: 647 – Phíloi: 647 – Póleis: 647 – Prospáltioi: 647 – Taxíarchoi: 647 – fr. 148. 3 K.–A. = 139. 3 K.: 468 n. 22 Eur. – Alcestis: 659 – Bacch. 73 ss.: 470 n. 31 – Bacch. 88–91: 274 – Bacch. 123–125: 274 – Bacch. 126 s.: 274 – Bacch. 166 s.: 274 – Bacch. 399–401: 274 – Bacch. 408 s.: 274 – Bacch. 530–532: 274 – Bacch. 547–549: 274 – Bacch. 553 s.: 274 – Bacch. 569–571: 274 – Bacch. 602 s.: 274 – Bacch. 800–841: 577–578 – Bacch. 997–1000: 274 – Bacch. 1020–1022: 274 – Bacch. 1025 s.: 274 – Bacch. 1163: 274 – Bacch. 1168 ss: 565 – Cyclops: 654, 656, 659, 661–662, 663 n. 15, 664 e n. 16, 712 – Cycl. 1–40: 654 – Cycl. 17: 473 – Cycl. 24: 474 – Cycl. 25 s.: 473 – Cycl. 30 s. 477 – Cycl. 31: 474 – Cycl. 37–40: 473, 484 – Cycl. 41: 710 – Cycl. 41–81: 471, 655 – Cycl. 49: 705, 708 – Cycl. 49 ss.: 699–700, 703, 708 – Cycl. 52: 710 n. 53 – Cycl. 63–81: 473 – Cycl. 76–81: 474 – Cycl. 82–355: 655 – Cycl. 121: 477 n. 62 – Cycl. 123: 473 – Cycl. 126–128: 477 – Cycl. 129: 478 n. 63
840 | Index locorum
– Cycl. 133–174: 655 – Cycl. 138 s.: 472 – Cycl. 139 s.: 473 – Cycl. 153: 476 n. 58 – Cycl. 160: 472 – Cycl. 160–162: 472 n. 44 – Cycl. 172 s.: 473 – Cycl. 173: 474 – Cycl. 175–272: 655 – Cycl. 197: 485 n. 87 – Cycl. 203: 467 – Cycl. 204 s.: 473, 474 n. 51 – Cycl. 203–346: 461 – Cycl. 210: 467 n. 21 – Cycl. 241 ss.: 477 – Cycl. 249: 477 – Cycl. 273–315: 655 – Cycl. 288 s.: 477 – Cycl. 316–346: 477 n. 62 – Cycl. 323 ss.: 480 n. 68 – Cycl. 331: 480 n. 68 – Cycl. 334–338: 477 – Cycl. 347–355: 461 – Cycl. 356 ss.: 477 – Cycl. 356–374: 655 – Cycl. 356–374: 461 – Cycl. 383 ss.: 472 n. 42 – Cycl. 375–426a: 655 – Cycl. 375–482: 461 – Cycl. 419: 484 – Cycl. 422: 474 – Cycl. 423: 461 n. 1 – Cycl. 426 s.: 461 – Cycl. 426b–482: 655 – Cycl. 428–430: 473 – Cycl. 431: 480 – Cycl. 435 s.: 473 – Cycl. 437 s.: 473 – Cycl. 441 s.: 474 – Cycl. 442: 474 – Cycl. 445 s.: 477 s., 484 – Cycl. 447 s.: 478 – Cycl. 451: 479 – Cycl. 452: 480 – Cycl. 460-463: 472 n. 42 – Cycl. 461: 472 – Cycl. 469–471: 467 n. 21
– Cycl. 476–482: 474 – Cycl. 477: 472 – Cycl. 483–486: 461, 462 n. 3, 472 – Cycl. 483–518: 656 – Cycl. 484: 472 n. 41 – Cycl. 487: 461 – Cycl. 487–494: 462 n. 3 – Cycl. 488: 462 n. 3 – Cycl. 488–494: 461 – Cycl. 492: 462 n. 3, 475 – Cycl. 492 s.: 463, 477 – Cycl. 493: 474 – Cycl. 495: 479 s. – Cycl. 495 ss.: 462 n. 3 – Cycl. 495–518: 461–473 – Cycl. 497: 463 s. – Cycl. 499: 462 n. 2 – Cycl. 498–502: 467 – Cycl. 499–502: 462, 469 – Cycl. 501 s.: 466 n. 15 – Cycl. 502: 467 – Cycl. 507–509: 464, 477, 479 – Cycl. 508: 463 – Cycl. 510: 462 n. 2, 466, 469 s. – Cycl. 511 ss.: 467, 469, 471 – Cycl. 512: 462 n. 2 – Cycl. 513: 462 – Cycl. 514: 307 – Cycl. 514 s.: 462 – Cycl. 515: 462 n. 2 – Cycl. 517 s.: 469 s. – Cycl. 519 ss.: 472 n. 45, 474, 474 n. 53 – Cycl. 519–543: 480 n. 69 – Cycl. 519–607: 656 – Cycl. 521: 474 n. 51 – Cycl. 521 ss.: 474 – Cycl. 524: 480 – Cycl. 529: 470 – Cycl. 530: 479 – Cycl. 530–532: 480 – Cycl. 530–542: 479 – Cycl. 531: 477, 479 – Cycl. 532: 479 – Cycl. 533: 479 – Cycl. 534: 479 – Cycl. 535: 476 n. 59, 479 – Cycl. 536: 479
Index locorum | 841
– Cycl. 537: 477, 479 – Cycl. 538: 479 – Cycl. 539: 477, 480 – Cycl. 540: 480 – Cycl. 541: 480 – Cycl. 543: 475 – Cycl. 544: 476, 480 n. 69, 664 n. 16 – Cycl. 544–575: 480 n. 69 – Cycl. 553: 467 – Cycl. 555: 467 – Cycl. 557 s.: 475, 485 – Cycl. 560: 475 – Cycl. 561: 475 – Cycl. 562: 475, 476 n. 58 – Cycl. 563: 476 – Cycl. 566: 475 – Cycl. 567: 475 n. 53 – Cycl. 568: 476 – Cycl. 569: 476 – Cycl. 575: 476 – Cycl. 579 s.: 476 – Cycl. 581–584: 469 – Cycl. 581–589: 467, 656 – Cycl. 588: 476 – Cycl. 608–623: 656 – Cycl. 619–623: 473 – Cycl. 624–655: 656 – Cycl. 652: 472 – Cycl. 653: 472 – Cycl. 655: 472 – Cycl. 656–662: 471 s., 472 n. 41, 656 – Cycl. 663–709: 656 – Cycl. 678: 480 n. 70 – Cycl. 693: 474 – Cycl. 707: 485 n. 87 – El. 112 ss.: 565 – El. 432– 486: 195 – El. 471– 475: 195 – El. 1137– 1128: 195 – Heraclidae: 142 – Ion 184– 218: 195 – Iphigenia Aulidensis: 669 – Med. 609: 705 n. 31 – Med. 878: 703 n. 25 – Med. 1069–1075: 593 – Phoen. 301 ss.: 565 – Phoen. 352 s.: 483 n. 78
– Phoen. 1125– 1127:195 – Phoen. 1137– 1138: 195 – Suppl. 390: 483 n. 78 – Tro. 308: 467 – Tro. 308 ss.: 565 – fr. 793 N.2: 479 n. 67 – fr. 862 N.2: 546 Eust. – 855. 23 ss.: 699 n. 14 – 1948. 49: 647 – 1963. 39: 699 n. 14 FGrH 264 T 1: 254
Gal. 2. 92. 4–8: 801 Gell. 20. 8: 258 n. 163 Heliod. – 3. 4: 196 Heracl. – fr. 22 B 57 D– K: 254 – fr. 106 D– K: 254, 229 n. 52 Hermesian. frr. 2–3: 814 Hermipp. – Artopólides: 647 – Demótai: 647 – Môiraifr. 47: 647 – Phormophóroi: 647 – Stratiôtai o Stratiótides: 647 – Theoí: 647 Herodot. – 1. 8: 205 n. 4 – 2. 34–37: 537 – 2. 53. 2: 254 n. 142 – 2. 135: 403 – 4. 20: 196 – 5. 58: 46 – 5. 67: 124–125, 350 – 6. 57.2: 103 – 6. 129: 565 – 7. 220.3: 104 – 7. 239: 105 – 9. 55. 2: 448 n. 16 Hes. – Astronomia: 243 n. 84
842 | Index locorum
– Eoie: 189, 235– 239, 242– 243 – Epikedeion: 243 – Megala Erga: 243 n. 84 – Opera et dies: 142, 152– 167, 177, 179 n. 14, 227– 235, 242, 762 n. 40 – op. 1–10: 154, 162, 205, 227 – op. 5–7: 249 – op. 10: 682 – op. 11–26: 227 – op. 11–41: 80, 154 – op. 22: 246 n. 111 – op. 23: 251 – op. 25–26: 249 – op. 27–29: 217, 227 – op. 29: 248 – op. 42– 105: 154, 162, 227, 230, 234 – op. 47-105: 232 – op. 54: 245 – op. 63: 246 – op. 68: 246 – op. 70: 232 – op. 71–72: 232 – op. 81–82: 250 n. 130 – op. 104: 244 – op. 106: 155 – op. 106–201: 154, 228, 230 – op. 121– 123: 252 – op. 139: 246 – op. 148–149: 241 n. 78 – op. 150–151: 249 – op. 179: 251 – op. 202: 155, 250 n. 127 – op. 202–212: 154, 228, 230, 250 – op. 205: 249 – op. 210: 249 – op. 213–235: 154, 228 – op. 216–217: 249 n. 126, 251 – op. 218: 249 – op. 229: 244 – op. 234: 234 – op. 235– 382: 228 – op. 238: 249 – op. 239: 244 – op. 253: 248, 250 n. 130 – op. 265–266: 249 – op. 276: 155 – op. 280: 246 n. 111
– op. 281: 244 – op. 285: 110 – op. 286–382: 154 – op. 286–293: 249 n. 126 – op. 293–295: 249 – op. 299–301: 161, 234 – op. 299–316: 249 – op. 302: 232 – op. 303–307: 249 – op. 306–307: 161, 234 – op. 317–319: 249 – op. 346: 249 – op. 352: 249 – op. 354–358: 249 – op. 360–366: 253 n. 137 – op. 365: 479 n. 67 – op. 373–375: 161, 234 – op. 378–384: 253 n. 137 – op. 383–384: 161, 229 n. 52, 234 – op. 383–617: 154, 228, 230 – op. 392: 246 n. 111 – op. 405–409: 161 n. 34 – op. 408: 246 n. 113 – op. 414: 257, 718 – op. 416: 80 – op. 427: 246 n. 113 – op. 448–451: 161, 229 n. 52, 234 – op. 464: 249 – op. 486: 718 – op. 493– 563: 157– 159, 184, 208, 234 – op. 504: 246 n. 110 – op. 509: 241 n. 78 – op. 510: 246 n. 111 – op. 526: 246 n. 111 – op. 565–566: 229 n. 52 – op. 568–569: 229 n. 52 – op. 571: 249 n. 125 – op. 576: 246 n. 113 – op. 582: 718 – op. 582 ss.: 474 n. 50 – op. 589: 257 – op. 594–599: 249 – op. 605: 249 n. 125 – op. 611: 246 – op. 614–617: 161, 234 – op. 618–630: 234 – op. 618–694: 154, 159– 160, 184, 208, 228
Index locorum | 843
– op. 630: 385 – op. 631–642: 234 – op. 643–645: 234 – op. 650–653: 380 – op. 650–659: 217 – op. 650–662: 234 – op. 658: 164 n. 36 – op. 663–694: 234 – op. 666: 246 – op. 668: 80 – op. 678: 345 – op. 679: 718 – op. 683: 246 – op. 693: 246 – op. 695–705: 161, 234 – op. 695–764: 154, 228 – op. 696: 246 – op. 698: 246 – op. 722 s.: 449 n. 21, 474 n. 50 – op. 727–732: 161, 234, 234 – op. 742: 474 n. 50 – op. 757 –758: 234, 161 – op. 765–766: 234 – op. 765–779: 228, 230 – op. 765–828: 154, 160, 229 – op. 765–929: 234 – op. 769: 234 – op. 780–804: 228 – op. 805 821: 228 – op. 822: 161 n. 32 – op. 822–825: 228 – op. 826– 828: 161 n. 33, 228 – scutum Herculis: 240– 242 – scut. 1– 56: 240 – scut. 57–77: 240 – scut. 75–76: 241 n. 78 – scut. 78–121: 240 – scut. 122–138: 240– 241 – scut. 139–317: 195, 241 – scut. 139–320: 240 – scut. 154–158: 195 – scut. 209: 241 n. 78 – scut. 210: 195 – scut. 228–234: 195 – scut. 251–7: 195 – scut. 274: 195 – scut. 277: 195
– scut. 280: 195 – scut. 281: 478 – scut. 321– 412: 240 – scut. 376: 241 n. 78 – scut. 400: 241 n. 78 – scut. 413–423: 240 – scut. 424–462: 240 – scut. 463–480: 240 – scut. 478–607: 197– 200 – theogonia: 161– 163, 177, 219– 226, 242 – theog. 1– 4: 250 n. 130 – theog. 5: 682 – theog. 13: 246 – theog. 19: 246 n. 110 – theog. 21: 244 – theog. 22– 25: 217 – theog. 26– 28: 145 n. 108, 249 – theog. 33: 244 – theog. 35: 249 – theog.40: 249 n. 126 – theog. 41: 246, 249 n. 125 – theog. 56: 244 – theog. 65: 248 – theog. 67: 248 – theog. 105: 244 – theog. 110: 244 – theog. 121–122: 249 – theog. 140–141: 250 n. 130 – theog. 144–145: 250 n. 130 – theog.148: 250 n. 129 – theog. 152: 241 n. 78 – theog. 164 166: 245 n. 110 – theog. 170–172: 245 n. 110 – theog. 195–200: 250 n. 130 – theog. 207–210: 250 n. 130 – theog. 211–212: 249 – theog. 215–216: 250 n. 130 – theog. 310: 250 n. 129 – theog. 325: 246 – theog. 371: 246 n. 110 – theog. 395– 396: 248 – theog. 429– 447: 249 – theog. 440: 249 n. 125 – theog. 443: 244 – theog. 446: 244 – theog. 479: 80 – theog. 487: 246 n. 12
844 | Index locorum
– theog. 507–616: 162, 234 – theog. 514: 244 – theog. 520: 244 – theog. 521–616: 232 – theog. 535–560: 164 – theog. 543: 245 – theog. 548–549: 245 n. 110 – theog.559: 245 – theog. 559–560: 245 n. 110 – theog. 570–571: 232 – theog. 572: 232 – theog. 585: 246 – theog. 593: 232 – theog. 593–599: 232 – theog. 603–612: 249 – theog. 605: 232 – theog. 625: 245 – theog. 634: 245 – theog. 644–653: 245 n. 110 – theog. 655–663: 245 n. 110 – theog. 673: 241 n. 78 – theog. 693: 19 – theog. 702–703: 244, 249 n. 125 – theog. 821: 246 – theog. 840: 244 – theog. 862–866: 249 n. 126 – theog. 886: 80 – theog. 890: 246 n. 12 – theog. 899: 246 n. 12 – theog. 904: 244 – theog. 923: 80 – theog. 944: 80 – theog. 992: 246 – theog. 994: 246 – theog. 1011–1013: 769 n. 6 – theog. 1016: 769 n. 6 – fr. 9 M.– W.: 237 – fr. 123. 2 M.–W. (= 198.2 Rz.): 495 – fr. 195 M.– W.: 240 – fr. 265 Rz. = 357 M.–W.: 350 Hesych. – s.v. ἄϱϱυ: 699 e n. 14 – s.v. δαμώματα: 347 – η 650: 237 – s.v. κατά, κ 1005 L.: 385 – s.v. σίττα: 699 en. 14 – s.v. φαλαϱόν: 707 n. 39
– s.v. ψίττα: 699 n. 14 – s.v. ψιττάζων: 699 n. 14 Hippon. 32 W.2: 330 Hippostrat. FGrHist 568 F 5: 351 Hom. – Batrach. 1: 207 n. 8 – Ilias: 154– 156, 179, 185, 187, 675, 678 n. 23, 679 n. 27, 680–682, 784 – Il. 1. 1: 163, 681, 752 – Il. 1. 1–7: 56 – Il.1. 5: 676 n. 11 – Il. 1. 6: 189, 207 – Il. 1. 89: 57 – Il. 1. 141: 14, 64 – Il. 1. 168: 20 – Il. 1. 259: 57 – Il. 1. 265: 48 – Il. 1. 290: 108 – Il. 1. 413: 7 – Il. 1. 493: 716 – Il. 1. 494: 108 – Il. 1. 511: 148 – Il. 1. 517: 148 – Il. 1. 528: 58 – Il. 1. 544: 148 – Il. 1. 560: 148 – Il. 2: 50 – Il. 2. 393: 18 – Il. 2. 484: 163 – Il. 2. 484–762: 235 – Il. 2. 511: 48 – Il. 2. 557: 48 – Il. 2. 558: 124 – Il. 2. 572: 125, 132 – Il. 2. 592: 87 – Il. 2. 594–600: 122 – Il. 2. 615: 19 n. 12 – Il. 2. 811: 107 – Il. 3. 10: 58 – Il. 3. 125– 128: 195 – Il. 3. 144: 48 – Il. 3. 206: 143– 144 – Il. 3. 209: 716 – Il. 3. 212: 716 – Il. 3. 216: 716 – Il. 3. 221: 716 – Il. 3. 328– 338: 195
Index locorum | 845
– Il. 5. 9: 107 – Il. 5. 164: 20 – Il. 5. 534: 11 – Il. 5. 571: 20 – Il. 5. 576: 49, 132 – Il. 5. 703: 178 n. 12 – Il. 5. 711: 148 – Il. 5. 722– 733: 195 – Il. 5. 755: 148 – Il. 5. 784: 148 – Il. 5. 775: 148 – Il. 6. 2: 19 – Il. 6. 150: 235 – Il. 6. 168: 45 – Il. 6. 339: 18 – Il. 6. 373: 20 – Il. 7. 175: 45 – Il. 7. 277: 16 n. 8, 67 – Il. 8. 23: 716 n. 9 – Il. 8. 322: 58 – Il. 8. 555–565: 171 – Il. 9: 49 – Il. 9. 149: 270 – Il. 9. 186: 75 – Il. 9. 394: 20 – Il. 9. 683: 13 – Il. 10: 53 – Il. 10. 15: 246 – Il. 10. 41: 147– 148 – Il. 10. 65: 53 – Il. 10. 83: 148 – Il. 10. 142: 148 – Il. 10. 261: 47, 131 – Il. 10. 276: 148 – Il. 10. 314: 107 – Il. 10. 317: 20 – Il. 10. 386: 148 – Il. 10. 546: 270 – Il. 10. 553: 246 – Il. 11. 24– 45: 195 – Il. 11. 25– 28: 195 – Il. 11. 38– 40: 195 – Il. 11. 86: 718 n. 15 – Il. 11. 140: 143– 144 – Il. 11. 299: 178 n. 12 – Il. 11. 632– 635: 195 – Il. 11. 647: 67
– Il. 11. 673: 19 n. 12 – Il. 11. 686: 19 – Il. 11. 698: 19 – Il. 11. 711: 107 – Il. 13. 32: 107 – Il. 13. 43: 246 – Il. 12. 105: 47 – Il. 13. 130: 47 – Il. 13. 145: 716 n. 9 – Il. 13. 252: 143– 144 – Il. 13. 299–300: 250 n. 130 – Il. 13. 658: 49, 132 – Il. 13. 663: 107 – Il. 13. 952: 246 – Il. 14. 153–351: 71 – Il. 14. 193: 148 – Il. 14. 211: 148 – Il. 15. 346–349: 772 – Il. 15. 371: 89 – Il. 15. 519: 11 – Il. 15. 640: 143– 144 – Il. 15. 724 s.: 270 – Il. 15. 727: 6–7, 72 – Il. 16: 666 – Il. 16. 72–73: 50 – Il. 16. 74: 11 – Il. 16. 84 ss.: 50 – Il. 16. 102: 7, 72 – Il. 16. 131– 139: 195 – Il. 16. 212: 47 – Il. 16. 298: 68 – Il. 16. 387: 15 – Il. 16. 692: 178 n. 12 – Il. 17. 51 s.: 667 – Il. 18: 240– 242 – Il. 18. 94: 7 – Il. 18. 478–608: 145, 195 – Il. 18. 494 ss.: 564 – Il. 18. 604–606: 564 – Il. 19. 91: 250 n. 130 – Il. 20: 125 – Il. 20. 458: 673 n. 4 – Il. 21: 125 – Il. 21. 1: 716 n. 9 – Il. 21. 518: 108 – Il. 21. 518: 270 – Il. 22. 64: 20
846 | Index locorum
– Il. 22. 74: 716 n. 9 – Il. 22. 395: 68 – Il. 23. 24: 68 – Il. 23. 724: 270 – Il. 23. 731–732: 15 n. 7 – Il. 23. 760: 20 – Il. 24. 60: 20 – Il. 24. 298: 68 – Il. 24. 766: 23 –Il. 24. 804: 675 n. 8 – Odyssea: 154– 156, 179, 185, 187– 207, 769, 663 n. 15, 674–675, 677, 678 n. 23, 679 n. 27, 680–683, 769, 784 – Od. 1. 1: 681, 752 – Od. 1. 10: 163, 178– 179, 189, 206, 215– 216 – Od. 1. 29: 89 – Od. 1. 226: 449 n. 21 – Od. 1. 241: 20 – Od. 1. 351: 179 – Od. 3. 181: 11, 13 – Od. 3. 267–272: 122, 354 – Od. 3. 278–283: 8 – Od. 3. 293: 107 – Od. 3. 304: 357 – Od. 3. 422: 8, 68 – Od. 3. 471: 475 n. 56 – Od. 4. 16–18: 123 – Od. 4. 238: 475 n. 56 – Od. 4. 333–350: 72 – Od. 4. 354: 107 – Od. 4. 607: 107 – Od. 4. 844: 107 – Od. 5. 101: 107 – Od. 5. 272: 20 – Od. 5. 400: 716 n. 10 – Od. 6. 74: 89 – Od. 6. 122: 65 – Od. 7. 82–97: 195 – Od. 7. 192: 20 – Od. 7. 203 475 n. 56 – Od. 7. 244: 107 – Od. 8. 74–82: 39 n. 23 – Od. 8. 83: 75 – Od. 8. 250 s.: 564 – Od. 8. 370–84: 564 – Od. 8. 486 ss.: 123
– Od. 8. 500: 178, 189, 207 – Od. 8. 521: 75 – Od. 9: 654 – Od. 9. 14: 178, 189 – Od. 9. 62: 72 – Od. 9. 105: 72 – Od. 9. 110: 473 – Od. 9. 357–359: 473, 485 – Od. 9. 473: 716 n. 10 – Od. 9. 508: 107 – Od. 9. 565: 72 – Od. 10. 40: 270 – Od. 10. 77: 72 – Od. 10. 133: 72 – Od. 10. 522: 107 – Od. 10. 551–560: 8 – Od. 11. 51–80: 8 – Od. 11. 224: 57 – Od. 11. 333: 193 – Od. 11. 334: 75, 170 – Od. 11. 362–369: 204 – Od. 11. 429: 68 – Od. 11. 604: 246 – Od. 12. 8–15: 8 – Od. 12. 39: 718 n. 15 – Od. 12. 181: 716 n. 10 – Od. 12. 369: 65 – Od. 13. 1: 193 – Od. 13. 2: 75, 170 – Od. 13. 96: 107 – Od. 13. 234: 107 – Od. 13. 439: 674 – Od. 14. 178: 107 – Od. 14. 257: 72 – Od. 14. 258–272: 72 – Od. 14. 371: 20 – Od. 14. 508: 250 n. 127 – Od. 15. 234: 12, 63 – Od. 15. 403: 107 – Od. 15. 533: 270 – Od. 17. 124–141. 72 – Od. 17. 399: 20 – Od. 17. 427–441: 72 – Od. 17. 478: 475 n. 56 – Od. 17. 518– 521: 204– 205 – Od. 17. 530: 754 – Od. 18. 134: 716 n. 9
Index locorum | 847
– Od. 18. 140: 20 – Od. 18. 146: 18 – Od. 19. 33: 47 – Od. 19. 163: 249 n. 123 – Od. 19. 172: 107 – Od. 19. 177: 54 n. 67 – Od. 19. 223: 23 – Od. 19. 302: 18 – Od. 20. 136: 475 n. 56 – Od. 20. 138: 716 n. 9 – Od. 20. 185: 16, 68 – Od. 20. 235: 17, 68 – Od. 20. 254: 16, 68 – Od. 20. 321: 68 – Od. 21. 89: 475 n. 56 – Od. 21. 429: 754 – Od. 22. 131: 13, 15, 69 – Od. 22. 212: 68 – Od. 22. 241: 68 – Od. 22. 247: 13, 15, 69 – Od. 22. 319: 12 – Od. 22. 324: 18 – Od. 22. 330 ss.: 359 – Od. 23. 295 ss.: 674, 675 n. 9 – Od. 23. 296: 673, 676–678, 680, 683– 684, 752–753 – Od. 23. 297: 674 – Od. 23. 297–372: 673 – Od. 23. 297 – 24. 548: 676 – Od. 23. 310–343: 676 n. 11 – Od. 24. 1–204: 676 n. 11 – Od. 24. 310: 23 – hymni Hom.: 165, 785 – hymn. Hom. Ap. 146 ss.: 134 – hymn. Hom. Ap. 146–164: 350 – hymn. Hom. Ap. 163: 17 – hymn. Hom. Ap. 341: 19 – hymn. Hom. Ap. 464: 113 – hymn. Hom. Ap. 506: 18 – hymn. Hom. Aphr. 127: 18 – hymn. Hom. Dem. 17: 19 – hymn. Hom. Dem. 54: 81 – hymn. Hom. Dem. 55: 18 – hymn. Hom. Dem. 75: 81 – hymn. Hom. Dem. 248: 20 – hymn. Hom. Dem. 325: 18 – hymn. Hom. Dem. 413: 18
– hymn. Hom. Dem. 450: 18 – hymn. Hom. Dem. 451: 18 – hymn. Hom. Dem. 469: 18 – hymn. Hom. Dem. 492: 81 – hymn. Hom. Herm. 481: 478 – hymn. Hom. 30. 9: 19 Hor. – a. p. 220–250: 496 – a. p. 222: 482 n. 72 – a. p. 222–224: 482 – a. p. 223: 659 – a. p. 225–250: 482 – a. p. 223: 506, 518, 607, 628 – carm. 1. 9: 480 n. 68 – carm. 3. 10: 538 – serm. 1. 5. 63 s.: 497 IG – VII. 4240b– c: 217 n. 20 – XII.5. 444: 217 n. 20 Ibyc. – fr. PMG 282 Page: 291, 348, 315 – fr. PMG 288 Page: 370 s. Idomen. FGrHist 338 F 3 ap. Athen. 12. 532f: 478 n. 64 Ilias parva: 186 Ilioupersis: 186 Ion. – fr. 6 Blumenthal: 498 – PMG fr. 745 Page: 308 Isoc. Panath. 121–122: 524 korónisma: 761 Lityerses: 685 n. 4, 804 Liv. Andr. Odusia: 683 Long. Soph. – praef. 2: 195 – praef. 2– 4.2: 196 [Longin.] – de subl. 10: 209 n. 11 – de subl. 10. 2: 402 – de subl. 27. 1: 781 Lucan. – 1. 1: 681 n. 32 Lucian. – bis. acc. 31: 468 n. 22
848 | Index locorum
– dial. mer. 5. 4: 467 n. 21 – Icaromen. 16: 453 n. 35 – Iup. trag. 6: 106 – Tim. 1: 89 – Toxar. 6: 196 Lucr. 3. 152 ss.: 415 Lyc. – Alexandra: 774 n. 30, 785–786 – Alex. 1226–1282; 774 n. 30 Macho – chria 1: 451 n. 30 – chria 5 (25–45 Gow):443 s., 413 – 27 Gow: 451 n. 30 – 28 Gow: 444 n. 3, n. 4 – 29 Gow: 444 n. 4, 403 – 30 Gow: 446 – 32 Gow: 446 s. – 37 Gow: 447 – 42 Gow: 446 – 43 Gow: 444 n. 3, 405 – 44 Gow: 447, 451 n. 30, 452 – 45 Gow: 444 n. 3, 447 – 266 ss. Gow: 449 n. 21 – 310 Gow: 451 n. 30 – 333 Gow: 451 n. 30 – 349 Gow: 451 n. 30 – 403 Gow: 451 n. 30 – 426 Gow: 451 n. 30 – chria 18 (439 ss. Gow): 451 n. 29 Mart. 10. 14. 7 s.: 538 Melanipp. fr. 758 PMG: 482 n. 74 Meleagr. – AP 5. 191, 12.72: 538 – AP 5. 208: 469 n. 27 Men. – epitr. 50: 543 – epitr. 734: 543 – georg. 34: 543 – peric. 294: 543 – phasm. 28: 543 Mimn. – fr. 2 W.2: 370 – fr. 11. 1 W.: 721 n. 21 – fr. 14 W.2: 365 Mosch. – Europa 1: 718 n. 14
– 2. 37– 40: 195 – 2. 43– 47: 195 – 2. 50– 3: 195 Naupactia: 186, 236 n. 67 Nic. – alexipharm.: 777 n. 4 – ther.: 777 n. 4 Nicol. 1 K.–A. = 1 K. = Mein. 4 p. 579: 449 n. 22 Nonn. – 1. 45– 92: 196 –1. 46: 718 n. 14 – 3. 131– 179: 196 – 5. 135– 189: 196 – 14. 123: 495 – 25. 380– 572 : 196 – 25. 388– 393: 195 – 25. 417– 418: 195, 229 n. 52 – 25. 434– 438: 195 – 25. 472– 480: 195 – 41. 295– 302 : 196 Nostoi: 186, 770 Oedipodea: 186 Oichaliahalosis: 186 oracula Graeca (P.–W.) – 1: 103 – 1. 1: 110 – 1.8: 111 – 2: 107 – 4: 109, 111 – 11. 44: 104 – 31: 108 – 31. 1: 106 – 33: 103 – 33. 1: 107 – 35. 2: 106 – 35. 7: 110 – 43. 69: 103 – 44. 3: 110 – 46. 1: 106 – 46. 6: 106, 115–116 – 73: 108 – 73. 1–2: 109 – 94: 109 – 94. 1: 111
Index locorum | 849
– 95. 4: 104 – 100: 14, 111, 104 – 100. 2: 106 – 129. 2: 106 – 154: 110 – 169: 110 – 181: 103 – 220. 2: 120 – 222: 106 – 226. 6: 106 – 250: 106 – 273. 1: 110 – 318. 2: 106 – 328. 4: 104 – 357. 2: 106 – 381. 1: 107 – 382: 111 – 382. 4: 106 – 409. 4: 106 – 434: 110 – 471. 3: 106 – 473. 4: 106 – 473. 20: 106 – 483: 105 – 493. 9: 106 – 575. 2: 109 Ovid. – amores: 368 – am. 2. 11: 725 n. 35 – ars. am.: 408 – ars am. 2. 523 s.: 538 – ars am. 3. 581: 538 – heroid.: 408 – medic. fac.: 408 – metamorph.: 408 – met. 1. 1 ss: 681 n. 32 – met. 6. 75–77: 195 – met. 6.75–104: 196 – met. 6. 90–92: 195 – met. 6. 103–108: 195 – met. 6. 105: 196 – met. 10. 252: 746, 761 – met. 14. 709 s.: 538 – remed. amor.: 408 – trist. 2. 409–12: 497 Paul. Silent. AP 5.264.3, 8: 542
Paus. – 1. 3. 1: 237 – 1.20. 3: 195 – 1. 22. 6: 195 – 1. 43. 1: 237 – 2. 16. 4: 237 – 4. 2. 1: 435 n. 67 – 5. 10. 6– 7: 195 – 9. 29. 1– 2: 436 n. 67 – 9. 31. 4– 5: 233, 237, 251 – 9. 31. 5– 6: 242 PCol. 7511 (Archilochus): 338 Petr. – 29. 6: 195– 196 – 29.52: 196 – 29. 83: 196 – 83. 3: 195 – 89: 195 PFlinders Petrie XXV1: 217 Pherecr. – Agathoí fr. 1: 647 – Ágrioi: 647 –Autómoloi(?): 647 – Cheíron fr. 155: 647 – Doulodidáskalos: 647 – Epilésmon o Thálatta: 647 – Ipnós o Pannychís: 647 – Krapátaloifr. 100: 647 – Metallês: 647 – Métoikoi: 647 – Myrmekánthropoi: 647 – Pérsaifr. 131: 647 – Petále: 647 – Tyrannís: 647 – fr. 5 K.–A. = 5 K.: 471 n. 34 PHibeh 172: 18–19 Phil. Alex. –agricult. 2.102.20 C.– W. (1. 306 M.): 537 –Cherub. 1. 192. 20 C.–W. (1. 155 M.): 537 Philargyr. p. 19. 14 ss.: 697 Philit. – Hermesfr. 1: 770 Philostr. – im. 1. 11. 2: 195 – im. 1. 13. 9: 195 – im. 1. 23. 5: 195 – im. 1. 26.2– 3: 195
850 | Index locorum
Philox. – fr. PMG 819 Page: 477 n. 61 – fr. PMG 822 Page: 477 n. 61 Phot. – lex. I, p. 315 N.: 387 – lex s.v. σατυρικὸν δρᾶμα: 659 – lex. s.v. ψύττα: 699 n. 14 Phryn. Com. – Epiáltes (o Ephiáltes?): 647 – Komastaí: 647 – Monótropos: 648 – Môusai: 648 – Mystai: 648 – Tragoidoí o Apeleúteroi (?): 648 Pigr. Cari. – Bratracho(myo)machia: 681 – Ilias: 681 – Margites: 681 Pind. – Isthm. 1. 1: 272 – Isthm. 1. 12: 271, 272 – Isthm. 1. 13: 271, 272 – Isthm. 1. 15: 270 – Isthm. 1. 15 s.: 272 – Isthm. 1. 17 s.: 272 – Isthm. 1. 22 s.: 272 – Isthm. 1. 22–28: 272 – Isthm. 1. 30: 270 – Isthm. 1. 31: 270 – Isthm. 1. 36–38: 272 – Isthm. 1. 43–45: 272 – Isthm. 1. 45 s.: 272 – Isthm. 1. 47: 272 – Isthm. 1. 52 s.: 272 – Isthm. 1. 52–54: 272 – Isthm. 1. 60–62: 272 – Isthm. 1. 64–66: 271, 272, 621 – Isthm. 1. 64 s.: 272 – Isthm. 1. 68: 272 – Isthm. 2: 324, 331 – Isthm. 2. 1: 327 – Isthm. 2. 1 s.: 272 – Isthm. 2. 1– 11: 284, 311 – Isthm. 2. 1–12: 325 – Isthm. 2. 3–5: 326 – Isthm. 2. 7 s.: 272 – Isthm. 2. 8: 272
– Isthm. 2. 9: 327 – Isthm. 2. 15 s.: 272 – Isthm. 2. 19 s.: 272 – Isthm. 2. 26: 272 – Isthm. 2. 35 s.: 272 – Isthm. 2. 36 s.: 272 – Isthm. 2. 39 s.: 272 – Isthm. 2. 43: 272 – Isthm. 3–4. 5 s.: 272 – Isthm. 3–4. 9: 272 – Isthm. 3–4. 9–11: 272 – Isthm. 3–4. 10: 272 – Isthm. 3–4. 12: 272 – Isthm. 3–4. 36: 272 – Isthm. 3–4. 36 s.: 272 – Isthm. 3–4. 40–43: 272 – Isthm. 3–4. 52 s.: 272 – Isthm. 3–4. 53b: 272 – Isthm. 3–4. 53b–54: 272 – Isthm. 3–4. 55: 272 – Isthm. 3–4. 62 s.: 272 – Isthm. 3–4. 65: 272 – Isthm. 3–4. 71b–73: 272 – Isthm. 3–4. 88: 272 – Isthm. 3–4. 89b–90: 272 – Isthm. 5. 2 s.: 272 – Isthm. 5. 5 s.: 272 – Isthm. 5. 8 s.: 272, 621 – Isthm. 5. 12: 272 – Isthm. 5. 15: 272 – Isthm. 5. 17–19: 272 – Isthm. 5. 48 s.: 272 – Isthm. 5. 59–61: 272 – Isthm. 6. 1: 272 – Isthm. 6. 1–3: 272 – Isthm. 6. 7–9: 272 – Isthm. 6. 8: 270 – Isthm. 6. 17 s.: 272 – Isthm. 6. 19–21: 272 – Isthm. 6. 22: 272 – Isthm. 6. 25–28: 272 – Isthm. 6. 28: 272 – Isthm. 6. 28–30: 272 – Isthm. 6. 32 s.: 272 – Isthm. 6. 33 s.: 272 – Isthm. 6. 36: 272 – Isthm. 6. 37 s.: 272
Index locorum | 851
– Isthm. 6. 37–40: 272 – Isthm. 6. 39 s.: 272 – Isthm. 6. 42 – Isthm. 6. 43: 272 – Isthm. 6. 46: 272 – Isthm. 6. 47 s.: 272 – Isthm. 6. 50: 272 – Isthm. 6. 53 s.: 272 – Isthm. 6. 57 s.: 272 – Isthm. 6. 69: 272 – Isthm. 6. 73: 272 – Isthm. 7. 3 s.: 273 – Isthm. 7. 10: 273 – Isthm. 7. 12–14: 271, 273 – Isthm. 7. 18 s.: 273 – Isthm. 7. 45 s.: 273 – Isthm. 7. 46 s.: 273 – Isthm. 8. 1–3: 273 – Isthm. 8. 9–10: 273 – Isthm. 8. 12 s.: 273 – Isthm. 8. 15–15a: 273 – Isthm. 8. 19 s.: 273 – Isthm. 8. 27: 273 – Isthm. 8. 30: 273 – Isthm. 8. 38 s.: 273 – Isthm. 8. 47 s.: 273 – Isthm. 8. 49 s.: 273 – Isthm. 8. 52: 273 – Isthm. 8. 52–54: 273 – Isthm. 8. 59 s.: 273 – Isthm. 8. 64 s.: 273 – Isthm. 8. 66 s.: 273 – Nem. 1: 142 – Nem. 1. 27: 384 – Nem. 2. 1: 165 – Nem. 5. 13: 83 – Nem. 7: 359 – Ol. 1. 14–17: 329 – Ol. 1. 52 s.: 359 – Ol. 2. 83–88: 275 – Ol. 9. 35–41: 359 – Ol. 10. 13: 352 – Ol. 11. 15: 352 – Ol. 13: 330 – Paean. 6: 359 – Pyth. 2. 18: 352 – Pyth. 4: 420
– Pyth. 4. 57: 84 – Pyth. 4. 68 s.: 721 n. 21 – Pyth. 4. 70 ss.: 681 – Pyth. 4. 163 ss: 682 – Pyth. 6 : 325 s., 330 – frr. 118–128 Sn.–M.: 347 – fr. 122 Sn.–M: 330, 356 – fr. 123 Sn.–M.: 348 – fr. 124a.b Sn.–M.: 325 s., 331 – fr. 124.a.b 6 Sn.–M.: 330 – fr. 129 Sn.–M.: 371 – fr. 140b Sn.–M.: 352 Plat. – apol. 34d: 249 – apol. 41a: 254 – apol. 46b: 446 – Crat. 397e– 398a: 252 – epist. 314d: 549 – Ion 531a: 254 – leges: 816 – leg. 637ab: 478 n. 64 – leg. 658g: 254 – leg. 764d 5 ss.: 430 – Men. 75e: 674 – Menex. 249d: 470 n. 33 – Phaedrus: 142 – Phaed. 60d: 543 – Phaed. 82d: 543 – Phaedr. 252b: 104 – resp. 354a: 470 n. 33 – resp. 363a: 254 n. 142 – resp. 377d: 254 n. 142 – resp. 395a.: 503 – resp. 424c: 510 – resp. 424c 5: 434 – resp. 469a: 252 – resp. 544d: 249 – symp. 176e 6 339 – symp. 183a: 537 – symp. 203d: 537 – symp. 212 cd: 463 – symp. 222d: 493 – symp. 223b: 463 – symp. 223d: 502 Plat. Com. – Cleophôn: 648 – Hai aph’hierôn: 648
852 | Index locorum
– Hellás o Nêsoi: 648 – Heortaí (?): 648 – Hypérbolos: 648 – Lákones o Poietaí fr. 71: 648 – Métoikoi: 648 – Nîkai: 648 – Peísandros: 648 – Periálges: 648 – Poietés (?): 648 – Présbeis: 648 – Rabdoûchoi: 648 – Skeuaífr. 138: 648 – Sophistaí: 648 – Symmachía fr. 168: 648 – fr. 83 K: 542 – fr. 548 K.: 548 – fr. 90 K.: 553 PLille 76 a, b, c (Stesichorus): 343, 347, 358 Plin. – 35–28, 99: 195 – 33–37: 196 Plot. 6. 5. 10: 537 Plut. – Cim. 13. 7: 645 n. 40 – Crass. 33: 564 – mor. 402: 243 n. 84 – mor. 608c: 249 n. 123 – mor. 759b: 537 – mor. 730: 243 n. 84 – praec. reip. ger. 798d: 388 s. – pyth. orac.: 105 – pyth. orac. 396 c–d: 105 – pyth. orac. 405e: 101 – pyth. orac. 408b–c: 101 – pyth. orac. 408d: 106 – Thes. 20: 251 n. 135 Poll. – 4. 60 (p. 219. 6 Bethe): 357 – 4. 99: 496 – 4. 110: 509 – 4. 118: 496 – 6. 123 (p. 34. 21 s. Bethe): 449 n. 22 – 8. 16–18 (p. 112. 24 ss. Bethe): 448 n. 16 – 8. 8 (p. 111.7 Bethe): 450 n. 25 – 9. 122: 699 n. 14 – 9. 127: 699 n. 14 – 10. 85: 343 n. 84
Polyb. – 2. 14: 195 – 3. 94. 7: 385 s. – 31. 3–4: 195 Polyaen. 5. 47: 356 POxy – 2256, 3: 458 – 2298 = Alc. 249 V.: 383, 386–389, 394 s. – 2355: 240 – 2359, fr. 1 = PMG Stesich. 222 Page: 342 – 2360 = PMG Stesich. 209 Page: 342 – 2494A: 240 – 2735 = S 166–219 P. = PMGF p. 248 s. Davies: 355 Praxis. – fr. 22b W.: 254 Procl. chrest., ap. Phot. 320b 33 ss. Bekk.: 465 Prodic. fr. 5 D.-K.: 477 n. 62 Prop. – 1. 16. 14–22: 538 – 1. 20. 1: 725 – 1. 20. 17: 718 n. 14, 726 – 1. 20. 51 s.: 726 – 2. 4. 17–22: 469 n. 27 ps.–Plat. Minos 321a: 520 ps.–Plut. – de mus. 1132b c: 347 – de mus. 1133c: 352 – de mus. 1134b c: 352 – de mus. 1134e: 352 PSchøyen MS 5068: 253 n. 137 PVindob. Rainer 29801 (n. 17 Heitsch2): 706 n. 37 Quint. – 1. 1. 15: 256 n. 151 – 1. 11. 3: 761 – 4. 2. 127: 762 – 10. 1. 62: 342 – 10. 1. 85: 732 – 11. 61–136: 593 Quint. Smyrn. – 5. 20–127: 195 – 5. 80– 89: 195 – 5. 57–67:195 – 5. 66– 68:195
Index locorum | 853
– 5. 120–127: 196 – 5. 200–294: 196 – 6. 220–226:195 – 6. 232–6:195 – 6. 265–8: 195 Sapph. – fr. 1. V.: 408 s. – fr. 16 V.: 371 – fr. 31 V.: 391 s., 401, 415 s. – fr. 88. 16 L.–P. (= V.): 543 – fr. 94 V.: 292, 424 – fr. 131 L.–P. (= V.): 541 – fr. 176 V. (= L.–P.): 357 Schol. ad Iuv. sat. 3. 175, p. 41. 14 ss. Wessner: 533 schol. in Aristoph. – ad pac. 797: 347 – ad ran. 85: 471 n. 34 Schol. in Hes. – ad op. 97: 256 n. 153 – ad theog. 79: 256 n. 153 – ad theog. 114– 115: 256 n. 153 – ad theog. 138: 256 n. 153 – ad theog. 153a: 256 n. 153 – ad theog. 459: 257 n. 158 Schol. in Hom. – ad Il. 1. 4 ss.: 676 n. 11 – ad Il. 2. 333– 335: 237 – ad Il. 2. 494– 877: 145 – ad Il. 14. 394– 9: 145 – ad Il. 15. 362– 364: 145 – ad Il. 15. 624– 5: 145 – ad Il. 18. 39: 256 n. 154 – ad Od. 15. 74: 256 n. 154 schol. in Pind. – ad Isthm. 2. 1: 325 – ad Isthm. 2. 1a, p. 213. 22s. Drachm.: 326 – ad Nem. 2. 1c, p. 29. 9-18 Drachm.: 351 – ad Ol. 2. 85, p. 153a, b Drachm.: 276 – ad Ol. 9. 14, p. 268. 2 ss. Drachm.: 473 n. 45 schol. in Theocr. – prolegomena p. 3. 18 ss.: 697 – ad 4. 45 e: 698 – ad 5. 3 c: 698
– ad 5. 100: 698 – ad 7. 153 b, p. 114. 7 Wendel: 477 n. 61 Serv. – in Verg. ad Aen. 7, 268: 237 – in Verg. ad ecl. 3. 59: 687 n. 10 Septuaginta: 384 Sil. 1.1: 681 n. 32 Simon. – fr. PMG 509 Page: 330 – fr. PMG 513 Page: 325 Sol. – fr. 1. 1 s. W.2: 329 – fr. 4. W.2: 365 – fr. 13 W.2 = 1. 67 G.–P.: 142, 386 Soph. – Ajax: 142 – Aj. 5: 287 – Aj. 693–718: 465 n. 12 – Ant. 1115–1152: 465 n. 12 – El. 630 s.: 703 n. 26 – Ichneutaí: 659 – Ichn. 118–124: 483 n. 75, 502 – Ichn. 170: 699 n. 14 – Ichn. 177 ss.: 495 – OC 668– 719: 195 – Oedipus rex: 642 n. 24, 649, 669 – OR 58: 616 – OR 147: 615 – OR 216: 615 – OR 276: 615 – OR 401: 590 – OR 430: 705 n. 31 – OR 629: 650 – OR 650–679: 597–598 – OR 676: 703 n. 26 – OR 1086–1109: 465 n. 12 – OR 1119–1122: 596 – OR 1121: 615 – OR 1146: 705 n. 31 – Phil. 16: 485 n. 87 – Phil. 17 s.: 485 n. 87 – Phil. 19: 485 n. 87 – Phil. 159: 485 n. 87 – Phil. 327: 599 – Phil. 712–717: 473 n. 47 – Phil. 952: 485 n. 87 – Phil. 1451: 385
854 | Index locorum
– Poiménes: 699 n. 14 – Trach. 633–62: 465 n. 12 – fr. 934 Radt = 848 N.2 = 934 P.: 479 n. 67 – fr. 851 P: 525 Sosib. Lacon. FGrHist 595 F 7: 547 Stat. – Ach. 1. 1ss.: 641 n. 32 – Theb. 545– 551: 196 Stesich. – Cerberus: 347 – Cycnus: 347 – Equus ligneus: 347 – Eriphyla: 343, 347 – Europeia: 347, 358 – Geryoneis: 353, 347 s., 358, 770 – Helena: 343, 347, 357, 770 – Hespria: 770 – Ilioupersis: 343, 347, 770 – Nostoi: 343, 347 – Oresteia: 342 s., 347–349, 357, 770 – Palinodia(e): 343, 347 s., 357, 359, 770 – Peliae ludi: 343, 347 – Scylla: 347, 770 – Syotherae: 342 s., 347 – fr. PMGF 222b. 201 Davies (P. Lille): 270 – fr. PMGF 222b. 205 Davies (P. Lille): 270 – fr. PMGF 222b. 213 Davies (P. Lille): 270 – fr. PMGF 222b. 214 s. Davies (P. Lille): 273 – fr. PMGF 222b. 223 Davies (P. Lille): 273 – fr. PMGF 222b. 223 s. Davies (P. Lille): 273 – fr. PMGF 222b. 225 s. Davies (P. Lille): 273 – fr. PMGF 222b. 227 Davies (P. Lille): 273 – fr. PMG 178 Page: 273 – fr. PMG 179 Page: 273 – fr. PMG 181 Page: 273 – fr. PMG 187 Page: 273 – fr. PMG 192 Page: 273 – fr. PMG 200 Page: 273 – fr. PMG 207 Page: 241 n. 77 – fr. PMG 209 Page: 342 – fr. PMG 209. 1–4 Page: 273 – fr. PMG 210 Page (Stesichorus 33): 366 – fr. PMG 210 Page: 273
– fr. PMG 211 Page: 273 – fr. PMG 211 Page: 357 – fr. PMG 212 Page: 273 – fr. PMG 212. 1 Page: 357, 357 – fr. PMG 216 Page: 357 – fr. PMG 219 Page: 273 – fr. PMG 221 Page: 273 – fr. PMG 222 Page: 342 – fr. PMG 223 Page: 273 – fr. PMG 232 Page: 273 – fr. PMG 232 Page: 356 – fr. PMG 235 Page: 273 – fr. PMG 240 Page: 273 – fr. PMG 243 Page: 273 – fr. PMG 244 Page: 273 – fr. PMG 244 Page: 359 – fr. PMG 245 Page: 273 – fr. PMG 245 Page: 359 – fr. PMG 278 Page: 273 – fr. SLGS7 Page: 273 – fr. SLGS11. 1–10 Page: 273 – fr. SLGS11. 16–26 Page: 273 – fr. SLGS13. 2–5 Page: 273 – fr. SLGS14 Page: 273 – fr. SLGS15. II Page: 273 – fr. SLGS17 Page: 273 Stob.5.59 (5.43 Hense): 677 n. 15 Strab. – 5. 4. 4: 769 – 10. 3. 17: 357 – 12. 3. 19: 444 n. 3 Strat. AP 12. 7: 469 n. 27 Suid. – s.v. ἀπώλεσας τòv οἶνον ἐπιχέας ὕδωρ (A 3668), 1, p. 330. 21 ss. Adler: 485 n. 85 – α 3924: 256 n. 152 – δ 430: 257 – s.v. ἐπιτήδευμα, 2, p. 386. 32 ss. Adler: 347 – η 583: 217, 238, 242 – s.v. Θέογνις, 2, p. 692. 13 Adler: 375 n. 2 – s.v. Πíγρης p. 1551 Adler: 681 – s.v. Στησίχορος, 4, p. 433. 16 ss. Adler: 347 s. – s.v. τήνελλα, 4, p. 542. 22 ss. Adler: 473 n. 45
Index locorum | 855
Telegonia: 675 e n. 7, 769 Thebais: 186 – fr. 1: 680 Theocr. – 1: 685, 757, 804, 806, 808 – 1. 13: 658 n. 20 – 1. 15: 711 n. 54 – 1. 20: 711 n. 54 – 1. 27–62: 196 – 1. 64–145: 803 – 1. 65: 689 n. 15 – 1. 115: 711 – 1. 145: 807 n. 61 – 1. 148: 807 n. 61 – 1. 151: 710–711 – 1. 152: 703 n. 25 – 2: 405, 694 n. 29, 804, 806 – 2. 17–63: 803 – 2. 64–135: 803 – 2. 104–106: 804 n. 54 – 3: 468 n. 22, 441 n. 78, 761, 780 – 3. 3: 711 n. 54 – 3. 5: 707 n. 39 – 3. 6: 781 – 3. 6 ss.: 781 – 3. 6–11: 781, 803–804 – 3. 12–23: 803–804 – 3. 24: 781 e n. 15 – 3. 25 ss: 781 – 3. 25–54: 803 – 3. 35: 724 n. 30 – 3. 38: 807 n. 61 – 3. 47: 711 n. 54 – 3.49: 724 n. 30 – 3. 52 s.: 538 – 3. 52–54: 781 n. 15 – 3. 53: 537, 538, 541 – 4: 708 n. 42, 760, 780 – 4. 1: 718 n. 16. – 4. 3: 711 n. 54 – 4. 20: 724 n. 30 – 4. 44–49: 698 – 4. 45: 711, 799 –4. 45 s.: 704, 708 – 4. 46: 705, 711 – 4. 48: 709 n. 44 – 4. 61: 718
– 4. 62: 709 n. 48 – 5: 376, 685, 688, 692 n. 24, 702 n. 23, 705, 707, 808 – 5. 1: 710 – 5. 1 s.: 690–691 – 5. 1–4: 698, 704 n. 28 – 5. 1–79: 690, 701 n. 18, 803–804 – 5. 3: 699, 707–708, 710–711, 799 – 5. 3 s.: 690–691 – 5. 5: 691, 692 n. 24 – 5. 5–7: 691 – 5. 8 s.: 709 n. 48 – 5. 8–10: 691 – 5. 11–13: 691 – 5. 12 s.: 692 n. 24 – 5. 13: 711 n. 54 – 5. 20: 692 – 5. 21: 693 e n. 25, 706 n. 36 – 5. 22: 686, 706 n. 36 – 5. 23 s.: 706 n. 36, 709 n. 47 – 5. 25: 692, 706 n. 36, 709 n. 46 – 5. 25–27: 692 – 5. 28–30: 692 – 5. 30: 693 e n. 25 – 5. 31: 690, 709 n. 47, 807 n. 61 – 5. 31 s.: 702 – 5. 31–34: 691 – 5. 32: 691 – 5. 33: 690–691 – 5. 33 s.: 691 – 5. 34: 690 – 5. 35: 690 – 5. 39: 692 – 5. 41: 709 n. 45 – 5. 43: 709 nn. 45-46 – 5. 45: 690 – 5. 45–49: 691 – 5. 46–48: 691 – 5. 48 s.: 691 – 5. 49: 691–692 – 5. 50–54: 690–692 – 5. 55: 690 – 5. 55–59: 690 –692 – 5. 60: 693 – 5. 60–62: 692 – 5. 63 ss.: 706, 709 – 5. 63–65: 692
856 | Index locorum
– 5. 68 s.: 690, 692 – 5. 70 s.: 690, 692 – 5. 71: 711 n. 54 – 5. 72 s.: 692 – 5. 74 s.: 692 – 5. 75: 690, 692, 709 n. 46 – 5. 76: 708 n. 43 – 5. 76 s.: 692 – 5. 77: 690, 692, 709 n. 46, 804 n. 50 – 5. 78: 693 – 5. 78 s.: 692 – 5. 79: 690, 709 n. 46, 804 n. 50 – 5. 80: 701 – 5. 80–137: 803–804 – 5. 80 ss.: 704 n. 28 – 5. 82 ss.: 707 n. 38 – 5. 87: 709 n. 45 – 5. 88: 706 – 5. 89: 707 n. 38 – 5. 90: 706, 707 e n. 38 – 5. 92–95: 687 n. 7 – 5. 96: 707 n. 38 – 5. 100: 699–700, 701 n. 20, 704, 707– 708 e n. 43, 711, 799 – 5. 100 s.: 699–700 – 5.100–103: 698, 701, 703–704 – 5. 101: 701 n. 20 – 5. 102: 700, 705, 708 n. 43, 711 – 5. 102 s.: 702, 707–708 – 5. 103: 707 n. 39, 708 – 5. 104 s.: 706 e n. 34 – 5. 106: 707 n. 38 – 5. 106 s.: 706 – 5. 108: 710 – 5. 110: 711 – 5. 113: 711 n. 54 – 5. 114: 707 n. 38 – 5. 116 s.: 709 n. 45 – 5. 116–9: 687 n. 7 – 5. 120–123: 687 n. 7, 704 n. 28 – 5. 122: 707 n. 38 – 5. 126: 707 n. 38, 711 n. 54 – 5. 132–135: 687 – 5. 136 s.: 686–687, 804 n. 50 – 5. 137: 687, 692, 804 n. 50 – 5. 138: 804 n. 50 – 5. 138 s.: 686
– 5. 141–144: 706 – 5. 143: 724 n. 30 – 5. 145: 710 – 5. 145 s.: 706 – 5. 147: 707 n. 39, 708 n. 43, 709 n. 45, 711 – 5. 149 709 n. 44 – 5. 149 s.: 709 n. 48 – 6: 685, 688, 694 n. 29, 707 n. 33, 760, 776, 780, 805, 808 – 6. 5: 693 – 6. 6–19: 806 – 6. 21–40: 806 – 6. 43: 685 – 6. 46: 685 – 7: 685 e n. 4, 760, 777, 788 n. 26 – 7. 21: 711 n. 54 – 7. 52–89: 806 – 7. 96–127: 806 – 7. 88 s.: 689 n. 15 – 7. 122–124: 538 – [8]: 685, 688–689, 694, 696–697, 700– 701, 704 n. 28, 705, 712, 762, 777 n. 5, 781 n. 14, 791–792, 796–798, 802–803, 806–811, 814–815 – [8]. 1–32: 694 n. 31 – [8]. 2: 711 n. 54 – [8]. 3 s.: 701 n. 19 – [8]. 6: 706 n. 36, 710 n. 50 – [8]. 7: 706 n. 36 – [8]. 8: 710 n. 50 – [8]. 9: 697, 710 n. 50 – [8]. 11: 694 n. 31, 701 n. 19, 706 n. 36 – [8]. 11–17: 701 n. 19 – [8]. 12: 694 n. 31, 701 n. 19 – [8]. 13: 694 n. 31, 706 n. 36 – [8]. 14: 694 n. 31, 697, 706 n. 36 – [8]. 16: 711 n. 54 – [8]. 18 s.: 694 n. 31, 701 n. 19 – [8]. 20: 701 n. 19 – [8]. 21 s.: 694 n. 31, 701 n. 19 – [8]. 25–30: 697 – [8]. 26: 706, 709 – [8]. 26 s.: 706 – [8]. 28: 701 n. 19 – [8]. 29: 701 n. 19 – [8]. 30: 693
Index locorum | 857
– [8]. 33–40: 811 – [8]. 33–48: 701 n. 19 – [8]. 33–60: 696, 804–805 – [8]. 35: 697 – [8]. 38: 799 – [8]. 41–44: 811 – [8]. 45: 697 – [8]. 49: 697, 710 e n. 53 – [8]. 49 ss.: 709 – [8]. 49–52: 811 n. 68 – [8]. 51: 710 n. 53 – [8]. 52: 696 n. 6 – [8]. 53–60: 811 – [8]. 57–60: 811 – [8]. 62: 807 – [8]. 63: 697, 706, 710 – [8]. 63–70: 707, 804–805 – [8]. 63–80: 805 – [8]. 65: 710 – [8]. 65 s.: 706 – [8]. 67: 697, 709 – [8]. 69: 698 n. 12, 701, 799 – [8]. 69 s.: 706 – [8]. 69–70: 699 – [8]. 71: 799 – [8]. 72: 707 e n. 38 – [8]. 72–80: 707, 804–805 – [8]. 73: 707 n. 38 – [8]. 77: 797 – [8]. 82–84: 686, 688, 799 – [8]. 88: 706 n. 34 – [8]. 88 s.: 701 n. 19 – [8]. 90 s.: 701 n. 19 – [9]: 685, 688, 696 e n. 2, 777 n. 5, 810 – [9]. 22–27: 665 – [9]. 72: 797 – 10: 665 e n. 4, 694 n. 29, 708 n. 42, 805 – 10. 22 s.: 702 n. 22 – 10. 24–37: 804 – 10. 38 s.: 689 n. 15 – 10. 42–55: 804 – 11: 477 n. 61, 694 n. 29, 714, 760, 776, 780 – 11. 19–79: 807 – 11. 29: 543 – 11. 44: 702 n. 22 – 13: 694 n. 29, 717, 722–724, 760, 776
– 13. 1: 724 – 13. 1–15: 715, 724 n. 32 – 13. 1–24: 724 n. 32 – 13. 3: 724 – 13. 5: 716, 724 – 13. 6 s.: 724 – 13. 10: 715 – 13. 11: 724 – 13. 14: 724 n. 31 – 13. 16: 715–717, 719–721, 724–725 – 13. 16 ss: 720 – 13. 16–24: 715, 720–722, 724 n. 32 – 13. 17 ss.: 721 – 13. 19: 724 – 13. 21: 716, 720 – 13. 23: 716 n. 7 – 13. 24: 717 n. 12 – 13. 25: 717, 717 – 13 25 ss.: 720, 722 – 13. 25–28: 720 – 13. 28: 720 – 13. 34 s.: 718 – 13. 36: 724 – 13. 40–42: 718 – 13. 46: 724 e n 31 – 13. 48: 722 n. 24 – 13. 50: 717 n. 12 – 13. 59: 724 e n. 31 – 13. 61: 717 n. 12 – 13. 62: 717 n. 12 – 13. 66: 724 – 13. 67: 721 n. 21, 724 – 13. 68: 724 – 13. 69: 711 n. 54 – 14: 694 n. 29, 708 n. 42 – 14. 30: 807 n. 61 – 14. 53: 724 n. 30 – 15: 708 n. 42 – 15. 77: 724 n. 30 – 15. 80– 83: 196 – 15. 100–144: 807 – 15. 126: 724 n. 30 – 15. 127: 724 n. 30 – 16: 714, 761, 776, 780 – 17: 714, 724, 761, 780 – 18: 761, 780 – 18. 1: 718
858 | Index locorum
– 18. 1–8: 780 – 18. 9 ss.: 780 – 18. 9–58: 807 – 18. 38: 467 – [19]: 777 n. 5 – [20]: 777 n. 5 – [21]: 728–737, 777 n. 5 – 22: 722–723, 724 n. 29, 728 – 22. 103: 717 – 22. 27: 718 – 22. 141: 717, 723 – [23]: 777 n. 5 – 24: 714, 724 n. 29 – 24. 1: 718 – 24. 7–9: 761, 782, 807 – 24. 11: 711 n. 54, 718 – 24. 13: 718 – 24. 20: 717 – 24. 77: 711 n. 54 – 24. 105: 724 n. 31 – [25]: 679, 777 n. 5 – [25]. 1: 718 – [27]: 777 n. 5 – [27]. 47: 700 – [27]. 48: 710 – 28: 776, 803 n. 48 – 29: 760, 783 e n. 20, 803 n. 48 – 30: 760, 783 n. 20, 803 n. 48 – epigrammata: 777, 782 – ep. 4: 782 – fr. 3: 776 – fr. 3. 2: 744 Theogn. – 19 s.: 802 e n. 44 – 177 s.: 378 – 295–298: 296 – 309–312: 296 – 313 s.: 368 – 351 ss.: 378 – 384 s.: 378 – 493 s.: 366 – 563–566: 296 – 757–764: 296 – 763 s.: 291, 365 – 775–784: 375 n. 2 – 805–810: 103 – 825–830: 365 n. 3, 366 n. 5
– 905: 385 – 1153–1156: 374 s.; 377 n. 9, 740 – 1320: 543 Theseis: 186 Thesprotis: 675 n. 7 Thuc. – 1. 1. 25 – 1. 10.5: 190 – 1. 24– 27: 195 – 2. 17.1: 110 – 3. 104: 134 – 11. 1: 190 Tib. – 1. 1. 25: 379 – 1. 2. 1: 538 Timaeus ap. Ath. 6, 250b = FGrHist 566 F 32: 376 Timocl. fr. 10 K.–A. = 10 K. = Mein. 3 p. 596: 449 n. 22 Timomach. ap. Athen. 638a = FGrHist 754 F 1: 351 TrGF – 2 T 6: 505 – 4 T 1: 511, 520 – 4 T 7: 505 – 4 F 3: 511 – 20 T 6: 505 – 24 T 3 a: 521 – 24 T 3b: 525 – 36 T 1: 525 – DID A 2a: 522 – DID A 2a, 17: 520 Tryph. – 4: 681 – ap. Athen. 618c: 468 n. 22 Tzetz. – Proleg. de com. XXIIb, 39, p. 113 Koster: 646 n. 43 – Vit. Hes.: 217 Varr. fr. 220, p. 259 F.: 24 n. 21, 106 Verg. – Aeneis: 125, 164, 179, 192, 681 – Aen. 1. 1ss.: 681 n. 32 – Aen. 1–6: 682 – Aen. 1. 446– 493: 196
Index locorum | 859
– Aen. 1. 464– 493: 195 – Aen. 2. 1: 193 – Aen. 5. 244– 267: 196 – Aen. 5. 838–871: 8 – Aen. 6. 20– 30: 196 – Aen. 6. 337–383: 8 – Aen. 7–12: 682 – Aen. 7. 37ss.: 682 – Aen. 8. 625– 733: 196 – Aen. 8. 642– 645: 195 – Aen. 8. 655– 658: 195 – Aen. 8. 663– 666: 195 – Aen. 8. 671– 674: 195 – ecl. 3: 686, 690 n. 23 – ecl. 3. 1–59: 695 – ecl. 3. 28–31: 693 n. 26 – ecl. 3. 36– 39: 196 – ecl. 3. 58: 693 n. 26 – ecl. 3. 108: 686, 695 n. 32 – ecl. 4: 196 – ecl. 5: 686 – ecl. 7: 686, 688, 690 n. 23, 694–695 – ecl. 7. 7: 710 – ecl. 7. 69: 686 – ecl. 8: 686 – ecl. 9. 32–34: 757 – georg. 1. 92: 257 – georg. 3. 12: 196 – georg. 3. 145: 257
Vet. Test. – Da 2. 39:231 – Giuda13:231 n. 57 – genesis: 231 – 2re 14. 9– 10: 231 – 2Sam 12. 1– 4: 231 – Sap 6. 1: 232 – Sir 6. 23: 232 Vita Aeschyli 9: 509 Vitruv. 5. 6. 9: 499 Xanth. 699-700, p. 363 s. PMG: 352 Xenophan. – fr. 1 W.2: 355 – fr. 1. 13 ss. W.2: 365 – fr. 1. 21–24 W.2: 366 Xenophon. – Ath. 2. 18: 642 n. 25 – Lac. 15. 5: 103 – mem. 3.11.10: 542, 543 – symp.: 340 – symp. 592: 565 Zenob. – 216 p. 35. 10 ss. Leutsch–Schneid.: 485 n. 85 – 5. 40, p. 137. 16–8 Leutsch–Schneid.: 504