Qui, accanto. Movimenti del pensiero. Nuova ediz. 9788885716759, 9788855290197

"Con simili strategie, infatti, si pensa ancora che ci sia qualcosa da fare, che il pensiero debba aprirsi strenuam

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Morfologia
Verso la domanda – prima che accada
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Qui, accanto. Movimenti del pensiero. Nuova ediz.
 9788885716759, 9788855290197

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Massimo Adinolfi

Qui, accanto Movimenti del pensiero

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 20 - Proposte

Massimo Adinolfi

Qui, accanto Movimenti del pensiero

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 20 - agosto 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-75-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-019-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Anna Distante, Das Ende aller Dinge, 1993 (olio su tela, 50 × 40 cm)

A Davide, Ernesto, Giulio, Mico, filosofi di carne

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Il libro

C’è un momento in cui il corpo si raccoglie nel respiro e il pensiero si sospende ed esita. V. Magrelli Nello sguardo stanco il relativo si rivela assoluto, e la parte il tutto. P. Handke

Il libro è in due, come quando si scatta una nuova foto perché la prima è venuta mossa, e si cerca una migliore messa a fuoco, o come quando invece si aspetta pazientemente la realtà allo stesso angolo di strada, come il tabaccaio di Paul Auster1. Certo, c’è il rischio che si stiano solo producendo più copie

1.  La prima fotografia è M. Adinolfi, Essere in due. L’operazione del pensiero, Oèdipus, Salerno-Milano 2003. Il racconto di Natale di Auggie Wren è in P. Auster, Esperimento di verità, tr. it. di M. Viardo e M. Bocchiola, Einaudi, Torino 2001. Qui corre l’obbligo di segnalare al lettore che l’unica sezione, pur modificata e riveduta, che non ha subito interventi sostanziali è l’ultima, intitolata semplicemente Esercizio. La figura ripetuta dell’esercizio non si vuole affatto che acquisti però un significato esemplare, ma che riceva piuttosto, da questa ripetizione, l’aspetto, non risolto né compiuto, di un tentativo in sospensione, rimasto semplicemente accanto, o attorno, alla sua brillante riuscita – nello stesso senso, forse, in cui lo è il tentativo immortalato nella fotografia di Gino de Dominicis: Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua, riprodotta in fondo al volume.

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dello stesso giornale, per dirla con Wittgenstein, e che dunque la seconda copia non dia al lettore più notizie. Ma è un rischio che forse la filosofia deve provare a correre: disponendo in due il libro, offrendolo così alla sua ripetizione, si rasenta il caso che il significato perda il suo rilievo ortogonale, la forza di staccarsi imperioso dalla pagina per prendere il giusto spicco. Ma è come nei grandiosi esperimenti di Monet, le cui ninfee abbandonano poco a poco, pigramente, i riferimenti a uno spazio tridimensionale e si avvicinano sempre di più alla pura orizzontalità della superficie, dove l’impression non ha più bordi, né soggettivi né oggettivi. Le differenze tra un lavoro e l’altro sono preziose: storia e critica d’arte continueranno a esplorarle; ma ancor più lo è, forse, l’in-canto di ciò che la serie, stingendosi in soluzioni via via più informali, lascia appena affiorare, tra i fiori spampanati: l’acqua e la luce. Così è anche per questo libro, che si compone (perciò) di una serie limitata di operazioni, eseguite su filosofemi della tradizione del pensiero occidentale. È ben discutibile, ovviamente, che si diano cose come “filosofemi”, e sarebbe esercizio non facile provare a darne una definizione; quand’anche ciò fosse fatto, sarebbe ancora discutibile che filosofemi così e così definiti siano riconoscibili in quanto appartenenti a una certa tradizione, o che a sua volta una tradizione di pensiero si componga di qualcosa come dei filosofemi; discutibile è anche che si possa operare su di essi, e che cosa significhi poi operare. Infine, se pure tutto ciò non fosse posto in discussione, sarebbe ancora discutibile il senso stesso dell’intera operazione, e a chi o a cosa giovi. Di tutte le perplessità che la dichiarazione d’apertura può sollevare, quest’ultima è però la più interessante, per la ragione che può fungere, in certo modo, da criterio: la riuscita del libro dipende infatti dalla possibilità o meno che si elevino domande intorno al senso stesso di quanto si è venuti eseguendo. Nel caso simili domande dovessero

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affiorare, esse decreterebbero, per il solo fatto d’esser poste, il fallimento dell’intera operazione2. Si deve dunque mantenere fermo fin da subito quanto segue: − che questa ricerca può essere riconosciuta appartenere a un orizzonte classico del pensiero limitatamente a ciò, che non vi è nulla per cui questa ricerca sia condotta, nessun fine ulteriore per il quale essa venga svolta, nessun a-che verso cui si diriga. La sua tonalità etica, se ne ha una, non dipende da un orientamento secondo uno scopo, o da costellazioni di valori che ne indirizzino il cammino, ma solo dalla acquiescientia mentis raggiunta quam maxime presso ciò che rimane in se stesso; − che da questa ricerca valet ullam consequentiam. Da essa cioè non consegue nulla affatto. In certo modo vale per essa quel che Wittgenstein riteneva che dovesse valere in generale per la filosofia: essa lascia tutto com’è. Chiuso il libro non c’è insomma da far nulla. Non si tratta di un’esperienza dalla quale si debba uscire trasformati, e in conseguenza della quale muti necessariamente qualcosa nell’ordine dei propri pensieri o nell’ordine delle cose. Non che trasformarlo, o peggio impadronirsene, non si vuole neppure interpretare il mondo, e anche il solo contemplare al quale per un certo tempo la filosofia si sarebbe limitata sarebbe di troppo. Se qui ha davvero modo di esercitarsi ancora uno sguardo filosofico, esso si esercita non già di fronte a ciò su cui si esercita, ma di lato ad esso, non dirimpetto ma di fianco, non su un altro piano, ma sullo stesso

2.  È ovviamente sempre possibile che domande in generale siano poste. Si può giudicare allora che esse siano in ritardo rispetto a ciò che è in questione qui, o che siano mosse a partire da una certa incomprensione. Oppure si può lasciare che tali domande si depositino, senza sovvertirlo, sul piano stesso del discorso che esse vorrebbero mettere in questione: ed è questo luogo piano in cui le domande possono correre l’una di fianco all’altra il luogo che intendiamo almeno scorgere.

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piano, di modo che questo vedere (questo intendere, questo parlare e pensare) non vedrà nulla affatto, neppure se stesso, come oggetto del proprio sguardo, senza però che questa singolare cecità discenda da un cattivo o nullo funzionamento dell’organo della vista, e neppure da un celarsi o sottrarsi di ciò che la vista vede o dovrebbe vedere. E la cosa va detta proprio così: non si tratta infatti di quel limite trascendentale per cui l’occhio non può cadere entro il proprio campo visivo, non si tratta di non più vedersi vedere, ma di una distanziazione, sino all’in-differenza, del e dal senso stesso del vedere; − la verità, per questa ricerca, non è quindi qualcosa con cui si abbia da fare, qualcosa che si sia pronti a fare o in cui ne vada qualcosa, come nelle prospettive di carattere pragmatico o ermeneutico oggi largamente correnti: e questo ancora può riuscire come rivendicazione di una certa misura classica. Ma questa negazione discende da un accantonamento o da una deposizione più radicale, che investe anche l’idea classica di verità, e la cui semplicità è forse difficile da conseguire: dall’accantonamento, cioè, della verità come relazione – per esempio (e soprattutto) delle parole alle cose, ma anche dei pensieri alle idee di Dio, o di Dio stesso all’uomo. Come ogni generalizzazione, anche quella che indica nella correlazione il tratto decisivo della filosofia moderna può apparire discutibile. In ogni caso, se la si assume come l’idea che l’inaggirabile di ogni pensiero è la sua correlazione all’essere, allora, questa ricerca, questo esercizio, compie un giro diverso; − questo libro, infine, è un oggetto. Non si può infatti fingere che non sia una merce, o che, anche solo come oggetto, non implichi una serie di stipulazioni sociali e culturali. Sotto quest’aspetto può essere trattato in molti modi – tanto più oggi, che il suo statuto di libro è divenuto incerto –, modi che sfuggono naturalmente alla presa dell’autore: alle sue intenzioni e anche, per dir così, alle sue autorizzazioni. Ma non v’è nulla

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di male o di sbagliato, in ciò, e non c’è ragione per tentare di assicurarsi una presa più stretta. Né c’è motivo di scoraggiarsi, di fronte al fatto che non solo una tradizione ma anche un libro, in quanto libro, costringe il pensiero entro determinate strettoie, da cui è impossibile sfuggire, e che nessuna superiore consapevolezza può consentire di evitare. Una simile osservazione mostra tutta la forza di un pensiero critico, capace di tenere un certo ordine di pensieri in rapporto con condizioni materiali che ne inficiano la trasparenza e che non possono mai essere definitivamente trascese, verso un cielo di significati immutabili. Si può dunque convenire: non in ogni tempo è possibile pensare ogni pensiero; e variare in molti modi su questo motivo. Ad esempio così: non in ogni forma testuale, non in ogni trama letterale (o giuridica, sociale, culturale) è possibile annodare ogni genere di concetti. Il rapporto, anzi, i molti rapporti in cui il libro è ora coinvolto da molti lati possono moltiplicare i percorsi che è possibile compiere in esso e con esso, e tuttavia una moltiplicazione non equivale affatto a una cancellazione. Né comporta necessariamente una sbrigativa e ignominiosa relativizzazione, se, almeno, nel percorso teorico che viene seguito non si mantengono intatte le posizioni dell’assoluto e del relativo, e la logica che le governa. Ancor meno, dunque, si deve temere di scrivere un libro quando il tracciato che si prova a seguire, l’esercizio che si cerca di compiere, aspira a rimanere quasi muto, inerte: non uno o unico, ma neppure semplicemente fra infiniti possibili percorsi, bensì a fianco di una simile infinità. «Bruciare un libro, scriverne uno, sono i due atti fra i quali la cultura inscrive le proprie oscillazioni contrarie», notava un giovane Maurice Blanchot3. Ma un libro non lo si riesce mai 3.  M. Blanchot, Le livre, in «Journal des Débats», 20 janvier 1943, ripreso in Id., Chroniques littéraires du Journal des débats. Avril 1941-août 1944, a cura di Ch. Bident, Gallimard, Paris 2007, p. 307.

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veramente né a bruciare né a scrivere del tutto: né materiale né immateriale, quel che non può finire al rogo, e che d’altra parte non si raggiunge definitivamente in una scrittura, è, forse, ciò che davvero ci appartiene. *** Questo libro si compone, va detto, di una serie limitata di operazioni: che significa qui che la serie è limitata? Vi è una certa retorica della modestia alla quale sembra non ci si possa sottrarre, tanto meno in tempi come questi, nei quali imperversa, nonostante ogni richiamo all’ordine, una facile, troppo facile, koiné relativistica, bavardage intellettuale che obbliga chiunque prenda la parola a concedere anzitutto che quanto viene esponendo è soltanto un punto di vista, né più né meno che questo, e che le sue parole (e le parole in genere) non hanno né possono avere alcuna pretesa di definitività. Sembra che non vi sia nulla di più indecoroso (e vano al tempo stesso), nei costumi intellettuali e filosofici del nostro tempo, del pretendere alla definitività: tutte le parole che risultassero compromesse con una pretesa del genere sarebbero per ciò stesso tenute in gran sospetto, e ingenuo sarebbe ritenuto chi volesse ancora servirsene senza opportune precauzioni, di ordine storico-­ ermeneutico, oppure ironico-decostruttivo, oppure ancora empirico e analitico. Come se non fosse a sua volta ingenua, e in sospetto di definitività, questa stessa pretesa di circoscrivere preliminarmente le ambizioni di ogni e qualsiasi discorso, decretandone l’appartenenza a un orizzonte dato (ma dato poi da chi e da quando, e come?). Non è però in omaggio a questa retorica che diciamo limitata questa serie, benché ovviamente la limitatezza implichi che si possano dare operazioni e serie di operazioni diverse. “Limitata” significa, più banalmente, che questa serie ha un termine, e cioè finisce. Finisce senza escludere, ma neppure includere,

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ulteriori rilanci dialettici, senza, dunque, contraccolpi concettuali, senza trovare provvidenziali sponde in un infinito attuale o potenziale. Finisce a un certo punto, poco importa a qual punto. Non si interrompe, non rimane inconclusa, cifra di trascendenze inattingibili. Con ciò che finisce non si allude neppure alla rotonda perfezione del compimento, bensì piuttosto alla semplice in-differenza con la quale la cosa, in quanto finita, riposa come cosa accanto ad altre cose. Non si vuole dunque né confessare un’impotenza del concetto, né celebrare una certa potenza tautegorica dell’idea: a questo pensiero non manca qualcosa, senza che però questa non-mancanza si converta in riuscita perfezione. C’è modo di pensare il finito senza non, senza pensarlo cioè difettivamente, sullo sfondo dell’infinito, e senza per questo convertirlo idealmente in infinito. Ma anche senza l’enfasi con la quale si rivendica polemicamente, persino tragicamente, una arci-­finitezza originaria, bensì nella quieta in-differenza dal suo non. C’è modo di sottrarsi, insomma, all’alternativa tra totalità e infinito, oppure fra ontologia e teologia. Benché goda di cattiva stampa e sia esposto a qualche fraintendimento in senso morale, in-differenza è il nome per questo pensiero: nome che deve arrivare sino al punto in cui la differenza non scompare affatto, catturata dall’identità, ma viene posta in non cale e non ha più alcuna importanza. Indifferenza è anche la prima riva di Schelling oltre il trascendentalismo kant-fichtiano, là dove approda la filosofia dell’identità: una parola, impiegata fin lì, in senso speculativo, solo negli ardui percorsi della mistica, diviene il modo in cui la ragione si insedia nel cuore stesso dell’Assoluto. Ma l’indifferenza dell’idealismo schellinghiano è pur sempre un costrutto, in cui e grazie a cui la differenza è capovolta nell’indifferenza. L’indifferenza è ciò che struttura l’identità, non è affatto quella corriva notte in cui sprofonda e si annulla ogni differenza, secondo la nota critica hegeliana, ma non è neppure il puro e semplice adagiarsi accanto alla

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differenza, che è quanto abbiamo voluto invece qui pronunciare e che dobbiamo in verità ancora pensare. Perché però chiamiamo “serie” l’insieme di operazioni che si tenta di eseguire, questo può essere fin d’ora brevemente spiegato. Consideriamo serie una successione di termini fra loro connessi secondo una certa regola: 1, 2, 3, 4 sono termini del genere, disposti in serie. Ma qual è la regola che connette i termini in questione? Si dirà che questa regola è la più elementare regola di successione dei numeri naturali. Poiché però la serie 1, 2, 3, 4, 5 dipende – come già Leibniz ben sapeva – da una regola tanto quanto la serie 1, 2, 3, 4, 6, benché la dipendenza da una certa regola di successione riesca nel secondo caso assai meno evidente, qualunque sequenza di termini può essere considerata una serie, e per qualunque sequenza di termini si dà una regola della successione dei suoi termini. Serie è la forma di costruzione di un pensiero che non rinuncia a una certa meticolosità, persino appropriatezza, benché non pretenda di configurarsi in sistema, organicamente, secondo nessi di fondazione. Pone rapporti, ma considera quei rapporti saldi come la regola che governa la serie, nel modo che s’è detto. Non c’è bisogno di dar ulteriore fondo alla fantasia per intestarsi nuovi concetti, per affrancarsi da vecchie concatenazioni di pensiero: diciamo però “serie” la sequenza delle operazioni eseguite, perché la regola che le governa non serra i suoi termini grazie a un vincolo esclusivo, non vanta alcun primato singolare né pone determinatamente una differenza. Non è, insomma, più grande o più principiale degli elementi che mette in serie. Conseguentemente, la limitatezza della serie non funziona come una determinatezza qualitativa, comandata dal principio in virtù di cui si forma questa serie regolata piuttosto che quest’altra – contra la Wissenschaft der Logik hegeliana, ma anche contro la parola di Heidegger, secondo la quale il limite è ciò a partire da cui comincia l’essenza di una cosa. Ciò che dunque compiamo è soltanto una serie di passi, e, come in

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ogni passeggiata, quel che è essenziale non è dove con essi si vada, ma dove si è, mentre si fanno due passi. E l’essere è – come forse si vedrà – proprio il luogo in cui si fanno due passi. *** Questo libro si compone di una serie limitata di operazioni sui filosofemi della tradizione. Criteri di accettabilità scientifica richiederebbero che sia anzitutto ben definito l’oggetto della ricerca, e che dunque nel nostro caso sia preliminarmente definita la natura di un filosofema. Ma in filosofia le definizioni, lungi dal favorire l’avanzamento della ricerca, costituiscono spesso un impaccio. E ciò è tanto più vero quando a dover essere definita è la filosofia stessa (o un suo elemento o componente): come delimitare infatti l’area di ciò che è filosofico? A quale genere appartiene la specie filosofica? E se lo specifico della filosofia non risiedesse invece nell’operazione che presiede alla distribuzione dei generi e delle specie? Ma poi: lo specifico? Anche un preliminare accertamento della robustezza e della determinatezza della filosofia precipita subito – come si vede – in difficili paradossi. Il fatto è che la filosofia pretende (o ha a lungo preteso) di stare dal lato del definire e del tracciare, piuttosto che da quello del definito e del tracciato. Da questa sua eccedenza ha fatto poi provenire la sua potenza critica nei confronti di ogni altro ambito determinato, di ogni determinazione oggettuale: teorica o pratica che fosse. Orbene, l’operazione che si vorrebbe condurre non intende attingere a questa tradizionale risorsa critico-riflessiva, per investire, e magari ampliare, l’ambito delle determinatezze positive di cui intende ottenere la determinazione e posizione (nel senso attivo e transitivo del determinare e porre), poiché è anzi proprio la stessa risorsa riflessiva, e solo così l’intera compagine in cui viene fatta valere, a essere in quanto segue inquisita. Col che ovviamente s’affaccia il problema di come andrà condotta una

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simile inquisizione: non già però il problema, da sempre avvertito, di come condurre sotto una qualche determinazione ciò che pretende di sfuggirvi per principio (ma quale sarebbe poi, la natura di questo principio? E davvero la riflessione può sostenere questa pretesa a maggior titolo che la storia o l’essere o il linguaggio? E questo per principio non rischia di avere il carattere di una mera petizione di principio?), ma proprio al contrario il problema di come non ricondurvela: come cioè eseguirla, accostarla, senza farla oggetto di riflessione. Non si vuole riflettere sulla riflessione, o filosofare sulla filosofia – che lo si faccia per sancirne mestamente la fine o per rilanciarne con qualche furbizia le potenzialità –; non si vuole compiere cioè un nuovo giro, rivendicandone maggiore ampiezza e originarietà. Non è insomma inerpicandosi sui sentieri di una critica più aspra, più radicale, che si intende operare: non c’è critica della critica, anche se è vano illudersi, per questo, che non vi è altro atteggiamento possibile, in filosofia, che non sia la critica. Si consideri, infatti: se deve in qualche modo venire in questione la tradizione occidentale del pensiero, se – per dirla più modestamente – si vuol dire qualcosa a riguardo di questa tradizione, e se questa tradizione si definisce per la sua attitudine critico-riflessiva, si dovrà in qualche modo disinnescare la domanda che inquisisce riflessivamente questo dire, che per esempio si interroga sui suoi titoli di legittimità, che chiede dove esso si collochi, se dentro o fuori quella tradizione, e così via. Non basta, però: s’è detto infatti proprio ora che si dovrà fare tutto questo, ma da dove proviene questo dovere, questa cogenza, se non ancora da quella stessa riflessione circa il modo di condursi nel rapporto con la tradizione del pensiero, dalla quale si volevano prendere le distanze? A questo punto, tuttavia, non basterà neppure congedare questa necessità, poiché anche questa mossa finirà con l’apparire dettata dalla medesima logica, dai tours et détours della medesima riflessione. Come non vedere, a questo punto, che l’affacciarsi del proble-

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ma, di cui s’è detto sopra, il farsi cioè consapevoli del carattere intimamente problematico dell’operazione che si intende compiere, portando il dire fuori dal regime della riflessione, rischia di essere in realtà un modo di ricondurvelo, l’intima problematicità non essendo altro che l’ennesima ritorsione riflessiva, il suo frutto più squisito? Rifugiarsi nel problema – nella religione del problema, viene voglia di dire, per il modo e l’insistenza con cui la filosofia crede oggi di salvarsi l’anima proponendosi nella forma del dubbio, della domanda, dell’interrogazione – può essere una stazione provvisoria per questo pensiero, non certo il suo punto d’onore e la sua più alta rivendicazione. Operare, qui, non è dunque sinonimo di pensare, se il pensare è già a sua volta interpretato nei termini di una autoriflessione che non viene mai a capo di sé, del Sé, dell’autó in cui si imbriglia da sé, per avere a che fare solo con sé. Un’ultima considerazione riguarda poi i termini della tradizione su cui – s’è detto – s’intende operare. L’acribia di uno storico anche modesto non durerebbe molta fatica nel mostrare quale cosa grande e complessa sia codesta tradizione, quante formazioni diverse siano sorte e si siano rotte nel suo seno, quanti strati di materiali anche eterogenei la compongano e come sia quindi variegata la sua fisionomia: facile dunque che agli occhi di un simile censore riesca esercizio semplicistico tentare di ricondurre a pochi concetti una storia sì varia e sì complessa. Ma l’operazione che qui si intende comporre non ha in generale il carattere di una riduzione, e dunque nemmeno quello di una riduzione della verità dell’Occidente. La critica dello storico erudito non centra dunque il bersaglio, perché non si vuole affatto sostenere che la tradizione del pensiero occidentale non è che questo (qualunque cosa stia per il “questo” cui viene ridotta quella). Non vi è infatti definizione dell’Occidente essenziale che possa vantare titoli per valere come tale e non invece come approssimativa statuizione di ciò che l’Occidente (filosofico e non) è. Non c’è modo di stabilire alcun discrimine definitivo.

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Piuttosto, è possibile un certo modo di operare sui filosofemi della tradizione, eseguendo il quale questa tradizione può essere resa inoperante, o almeno tenuta da canto. Tale modo non solo non ha l’ambizione di essere unico, ma è tale per cui finalmente decade per esso – o almeno con esso – il comando dell’Uno. *** Tale modo è un operare per l’opera del quale qualcosa, la tradizione del pensiero, può esser resa, pur nella sua stessa vigenza, inoperante. Questo risultato non viene raggiunto, come sopra si è accennato, grazie a una riflessione critica, una virile presa di coscienza, una vigorosa rivisitazione che porti in luce i fondamenti e smuova tutte le positività acquisite. Ma è altrettanto importante osservare che neppure di un risultato in senso proprio si tratta: qualcosa che prima non c’era e poi è appunto risultato, qualcosa che s’incontra nel presente in ragione di un passato, che giunge così al suo compimento. È un risultato nullo, si potrebbe dire con il Kant delle grandezze negative, salvo che la nullità dell’opposizione reale delle forze può essere un tal risultato solo se le forze che si annullano producono altrove effetti per i quali esse si rendono visibili come queste forze. In caso contrario (ed è il nostro caso, perché un altrove rispetto a ciò che è non si dà), non v’è differenza fra l’opposizione reale delle forze e la loro perfetta assenza. Questo punto di in-differenza è il punto dal quale s’intende accostare la tradizione: non dunque come una forza che si oppone e contrasta un’altra forza, ma come ciò che all’avanzare di quella forza (ma si potrebbe e dovrebbe domandare: avanzare rispetto a che?) non risulta, e dunque è come se non fosse, oppure non è ma nondimeno potrebbe essere. Ineffettuale e incancellabile, non essendo ma potendo essere, e al contempo essendo ma come non essendo, questo punto di in-differenza sospende la tradi-

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zione senza toglierla, senza disattivarla o superarla. La rende dunque inoperante non perché l’ingranaggio della tradizione si inceppi o si fermi, ma perché pur continuando a girare non può agire sulla ruota che gira a vuoto insieme con esso. L’opera di quest’operare non è dunque nulla di positivo (così come il risultato non è nulla di risultante), neppure un che di negativo, se è vero che, e finché, il negativo non è altro che un positivo cambiato di segno. Se tale è la natura di quest’operare, è chiaro pure che esso non rientra nella classica configurazione del campo di ciò che è pratico in Aristotele: non è un práttein e neppure un poieîn, poiché non ha un télos e non attua alcunché. Non c’è in esso nulla che chieda di essere attuato o che venga propriamente realizzato, né si dispiega in e per esso la distanza prospettica entro la quale soltanto la relazione a un fine sarebbe possibile. Se si è comunque impiegato un verbum faciendi, è solo per evitare di scambiare questo operare inoperante per l’opera invisibile di un pensiero, equivocandone magari in senso psicologistico (o mentalistico) la sua natura. Non senza sorpresa, vi è in realtà un’intera costellazione di pensieri che si raccoglie e si riconosce sotto la sconfessione assoluta dell’opera (e del tempo storico, e della verità dialettica, per dirla con Maurice Blanchot). Chi, allora, eleggere a eroe, se non il modesto copista Bartleby? Bartleby, però, colto sotto lo sguardo con cui lo osserva, nel racconto di Melville, l’avvocato, quando gli si rivela per la prima volta la stranezza del suo comportamento: Bartleby che non va mai a pranzo, Bartleby che anzi non va mai da nessuna parte, Bartleby «eterna sentinella nel suo angolo». Eterna: era dunque già lì, Bartleby, all’inizio, prim’ancora di turbare il suo principale, prima ancora di trincerarsi dietro la fatidica frase, I would prefer not to, forse anche prima di presentarsi alla porta dello studio legale e anzi prima che uno studio fosse aperto a Wall Street. Era lì, addirittura, prima che New York fosse fondata e che i Pilgrim Fathers scendessero dalla Mayflower: era lì pri-

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ma che le fondamenta del mondo fossero poste4. L’inoperosità non marca infatti un prima o un poi, non decide e non è decisiva: ciò che (è) davvero in-opera è anzi l’assenza di una simile scansione in due tempi. E viceversa: entro la cadenza, logica o temporale, di questo ritmo elementare può aver principio soltanto un’azio­ne, e nulla che rimanga nell’in-differenza. Non c’è quindi da esibire, in luogo dell’opera, la sua deposizione o destituzione: la compitazione di queste operazioni conserva infatti lo stesso passo, la stessa metrica. Qualunque cosa si deponga per questa via, certo non viene deposto il doppio tempo in cui queste manovre si vuole che siano eseguite (o da cui comunque traggono il loro senso, eseguite o no che siano). Non è un caso, peraltro, se in filigrana, in questo genere di speculazioni, quel che si vuole delineare è il compito di una politica a venire, di una comunità o di una forma di vita: si presume cioè di dare in questo modo al politico la sua fondazione più radicale, nell’ontologia, quando invece non si fa che ridurre il formato dell’ontologia alla misura di un’antropologia politica, di un’azione e della sua cura. *** C’è un passo del Fedone a cui torniamo ogni volta che ci afferra la passione del filosofare. Eccolo: Per Zeus! Sono ben lungi dal credere di sapere la causa di una qualunque di queste cose: io che non sono capace di poter

4.  Delle due letture raccolte nel volume di G. Deleuze- G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 2011, è alla prima lettura che guardiamo. È infatti nelle pagine di Deleuze che la formula di Bartleby non è indirizzata a portare allo scoperto la natura puramente potenziale della volontà, bensì ad affrancarsi dall’intera grammatica della volontà e dell’azione: non un essere di pura potenza (Agamben) ma essere in quanto essere e nient’altro (Deleuze), questo è Bartleby.

25 capire neppure come, allorché si aggiunge uno a uno, l’uno al quale l’altro fu aggiunto diventi due e così diventi due l’uno che è stato aggiunto, ovvero come l’uno che è stato aggiunto e l’altro al quale venne aggiunto diventino due per la semplice aggiunzione dell’uno all’altro! Effettivamente, fa meraviglia [thaumázo] che, quando essi erano separati, ciascuno fosse uno e non due, e quando invece si accostarono l’uno all’altro, proprio questo fosse la causa per cui diventarono due, cioè di trovarsi insieme, vale a dire l’essere stati posti l’uno accanto all’altro [he sýnodos tou plesíon allélon tethênai].5

Questa ricerca non intende promuovere e nemmeno registrare il superamento di questo stato di meraviglia e di imbarazzo, benché intenda in certo modo sospenderlo. La meraviglia filosofica di Socrate nasceva infatti dall’insoddisfazione per la mera posizione dei due uno accanto all’altro: col che era posto da Platone il problema di reperire la loro connessione su un piano diverso dal mero trovarsi assieme. Ma meraviglia e insoddisfazione avevano ragione d’essere solo in quanto i due, posti l’uno accanto all’altro, erano appunti posti come due: solo dunque nello sguardo posizionale di Socrate e della filosofia. Questo sguardo doveva esser già all’opera, per permettere di denunciare l’insufficienza dell’essere accanto. Socrate poneva cioè un problema che era il suo problema, non il problema del mero trovarsi insieme dei due – che non sono due, l’unità di un due, più di quanto siano due uno. In quanto anzi si trovano semplicemente insieme, nell’accanto, essi stanno nell’in-differenza rispetto al loro stesso essere “un due” o “due uno”. Aver luogo in questo status indifferentiae è non il problema, ma la condizione di esercizio di questo pensiero. Nel Teeteto, a

5. Platone, Fedone, testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1997, 96e-97a, p. 225 (sott. mia).

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permettere di sentire come diversi o come identici, come simili o dissimili, due cose – ad esempio: il suono e il colore – e di prenderle appunto come due (185b) è l’anima: da sé, mediante se stessa (185e). Ma si può seguire l’ermeneutica di questi passi offerta da Heidegger nei suoi corsi degli anni Trenta per radicalizzare questa indicazione: «l’anima è in se stessa questo passaggio, […] essere anima significa essere-esteso, passaggio, estendersi verso qualcosa»6. Siamo ancora un’anima? È ancora mediante l’anima che ci volgiamo alle cose? È ancora la struttura platonica a reggere i nostri comportamenti? L’esercizio si rappresenta qui solo come la prima cellula di un lavoro ancora da fare. Non però nel senso di un approfondimento o di un completamento, bensì piuttosto in quello di una ripresa, di una ripetizione, di una continuazione. Cellula, dunque, non in senso organico, nucleare: cellula, o forse meglio cella, elemento di una costruzione ulteriormente componibile. Si può così scusare, mi auguro, quella che altrimenti apparirebbe una maniera troppo sbrigativa di trattare talune questioni, le quali vengono invece affrontate non già con la pretesa di risolverle o di esaurirle, ma con quella, di gran lunga più modesta, di svolgerne solo quanto è necessario all’esecuzione di un limitato percorso. Così questo libretto non è molto più di un palinsesto, la figura sghemba che risulta dall’incastro di alcune grucce. Queste potranno servire allo scopo, anche se non hanno affatto la forma del vestito che dovrebbe esservi appeso sopra. Se ci autorizziamo comunque a licenziarlo, è perché riteniamo che valga per esso (e forse per ogni libro di filosofia) quello che fu detto a proposito di una pur ambiziosa General Theory: che le idee esposte «sono estremamente semplici e dovrebbero essere ovvie». E se è vero che per raggiungerle

6.  M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 229.

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occorre «una lotta di evasione dai modi abituali di pensiero e di espressione»7, semplicità vuole peraltro che, a un certo punto, si depongano anche le ragioni per sostenere la lotta. Infine, quanto all’autore, ipotesi innecessaria, «aggiungerò che non può esserci, giacché la definizione dell’autore, essere umano che scrive parole al fine di raccontare una storia o incollare una poesia presuppone che ci sia un uomo fermo e che le parole, docili satelliti senza misteri, gli girino attorno, ed egli le catturi e disponga in un sistema verbostellare che chiama “la mia opera”. Risibile, risibile»8. *** Husserl ha scritto una volta che ogni pensatore autonomo dovrebbe, ogni dieci anni, cambiare di nome, poiché a quel punto è diventato un altro. Il fatto è che, a pensarci, a quel punto mancano, ogni volta, dieci anni, e sempre in realtà, in ogni punto, si pensa daccapo. Il che non vuol dire affatto che c’è un momento, o è da ricercare un momento, un istante fondatore, in cui si può finalmente riprendere da quel luogo originale nel quale si era (e si è già sempre stati); vuol dire solo che si può rivelare particolarmente istruttivo, persino illuminante, tornare a pensare ciò che si è già pensato. È certamente un’illusione quella di chi volesse affidare a questa ripresa il valore di una riflessione in grado di afferrare più radicalmente e più originariamente quanto era nei primi pensieri, che si tratti di una mossa della speculazione (Hegel) o di una risorsa della ripetizione (Heidegger). Quel che in realtà si fa ogni volta

7.  J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, tr. it. di A. Campolongo, a cura di T. Cozzi, pref. di G. Berta, UTET, Torino 2010, p. 173. 8.  G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2013, p. 39.

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non è che di continuare. La riflessione può illudersi di tornare nel medesimo luogo: non accade mai, non può accadere e non vi è motivo che accada. L’essere non aspetta il pensiero in un appuntamento fissato, segreto, a cui sistematicamente il pensiero manca, o arriva colpevolmente in ritardo. Per questo riprendere il libro, ripensarlo, non vuol dire affatto licenziare una seconda edizione, avvertendo magari delle intervenute modifiche, né occorre mettersi nei guai come, si parva licet, Pierre Menard, che voleva essere in pieno ventesimo secolo un romanziere del secolo XVII, pur essendo consapevole che fra i molti fatti intercorsi a dissestare, più che a congiungere, quell’epoca lontana e la sua propria vi era quel Chisciotte, che si riproponeva vanamente di riscrivere uguale. Lo stesso si deve dire di questa pubblicazione, che non può non tornare sui passi della prima edizione e proprio perciò divergerne – e del pensiero in generale, a cui non riesce affatto, nel suo secondo tempo, nella sua presunta riflessione, di farsi identico all’essere. Ma la prima e ultima ragione per cui questo libro è scritto sta proprio nel mostrare che rinunciando a ciò in cui non riesce, il pensiero può forse scoprire un diverso modo di accostarsi all’essere, di iniziare, che non gli significhi affatto lo smacco di un fallimento, e gli conservi ancora, in qualche senso, la serena calma della conoscenza semplicemente pensante.

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Capitolo I

Morfologia

1.  Delle condizioni di una morfologia Vi è una solidarietà sistematica tra: concezione strumentale del segno, concezione convenzionale del linguaggio, concezione logica della verità, concezione metafisica dell’essere, concezione intellettuale del conoscere. Gli elementi che sono stretti in questa solidarietà appartengono a ciò che vorrei chiamare, per brevità, il plesso logico-metafisico. Per la descrizione di questo plesso, si può fare ampio ricorso ai testi della tradizione filosofica: dalla Politéia di Platone alle Logische Untersuchungen di Husserl, dalle Meditationes cartesiane alla Wissenschaft der Logik di Hegel. I titoli di iscrizione di questi testi in un unico plesso sono, ovviamente, diversi. Non si sta dicendo infatti che la tradizione del pensiero forma un unico grande libro, in cui compaiono, come capitoli distinti che però si dispongono ordinatamente in un unico sommario, le opere citate (e le molte altre che potrebbero esserlo), bensì soltanto che essi sono compromessi con gli elementi del plesso, avendo contribuito alla sua definizione, al suo approfondimento o alla sua manutenzione. Non si sta dicendo nemmeno che il modo più proficuo per studiare quei testi sia di comprenderli a partire dal plesso: può

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darsi al contrario che essi diano migliori frutti quando si mostrassero piuttosto i punti di attrito, di resistenza, persino di irriducibilità. Non per questo, però, non si potrà dare descrizione del plesso logico-metafisico ricavando da essi i tratti salienti. Per condurre tale descrizione secondo il disegno proposto dobbiamo dunque compiere due necessarie (e non necessariamente dolorose) rinunce. La prima. Rinunciamo subito e consapevolmente a un inqua­ dramento storico di questo plesso: non è infatti decisivo mostrare in che modo (e in che tempi) esso si sia venuto formando, sviluppando, perfezionando (perfezionando rispetto a che, poi?). Con ciò non si vuole sostenere che una tale considerazione sia infruttuosa o abusiva (né, ovviamente, l’opposto): come Descartes, per sottrarsi a polemiche inutili, consigliava non di negare, ma semplicemente di lasciar perdere le forme sostanziali nella spiegazione dei fenomeni naturali, allo stesso modo qui non ci serviamo di ipotesi sulla formazione del plesso. Né vediamo in verità come potremmo servircene: in che misura cioè una cronologia, un’aitiologia o un’antologia, una storia di nessi temporali o causali o il fastigio dei nomi di opere e autori, arricchito del relativo contesto, potrebbero agevolare le operazioni che intendiamo compiere sui riguardi del plesso (e – si vedrà meglio poi – senza riguardo per esso). Le quali operazioni investono una figura, e non la sua più o meno complessa formazione, e mirano non già a sancire necessità ma, semmai, a dischiudere possibilità. Non s’intende quindi mostrare che in nessun altro modo gli elementi che compongono il plesso avrebbero potuto incontrarsi, né che per questo grappolo di idee sia ormai giunto il momento della vendemiatio, o, più solennemente, quello fatale del compiersi di un destino. Non dobbiamo neppure impegnarci a postulare una coerenza compatta e continua della tradizione filosofica occidentale: postulato hegeliano o simil-hegeliano duro a morire, per il quale i filosofi hanno una certa predilezione, dal momento che

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consente loro di ricapitolare ogni volta al momento e al posto giusto (che è il loro: che è adesso) l’intera storia della filosofia (della cultura, e dell’umanità tout court). Si può fare dell’ironia. A proposito di questi complessivi compendi della storia della filosofia e dell’Occidente, Richard Rorty ha avuto modo una volta di osservare quel che accade tra Derrida e Heidegger: il primo pensa del secondo che sia «il miglior esempio di chi ha tentato di fare senza riuscirci quello che egli intende fare: scrivere sulla filosofia non filosoficamente»1. Vale a dire: tiro le somme di una intera tradizione di pensiero per procurarmi un certo spazio, o un certo gioco. La dichiarazione di fine della filosofia serve a porsi su un piedistallo storico, e darsi magari una patente di originalità, non avendo più circolazione, in filosofia, altre patenti, scientifiche o metafisiche. Se però si trattasse, più modestamente, di dar conto non dell’essenza dell’Occidente, della storia dell’essere o di ciò che è proprio dell’umanità dell’uomo, ma solo dello spazio che si dischiude per un esercizio di pensiero che si compie a ridosso, ma, per dir così, a lato di questo prepotente agglomerato di concezioni, allora si darebbe forse qualche motivo in meno per ironizzare. Il lato di cui si tratta, infatti, non definisce una cima, un termine, un limite essenziale, qualcosa in cui ci si imbatte inevitabilmente, quando si affronti con la necessaria radicalità la cosa del pensiero. Il plesso non è il solo modo di riferire gli uni agli altri gli elementi di cui si tratta, né ciò che viene descritto dal plesso è catturato definitivamente entro i suoi termini. Vi sono più cose in cielo e in terra che nella filosofia, secondo il saggio avviso di Amleto. Che si può ben accogliere, salvo di mantenere in vista un paio di domande: se non sia solo nella filosofia dell’amico Orazio, e nella filosofia in genere, che vi sia meno, e se, soprattutto, non sia proprio questa struttura, questo squi1.  R. Rorty, Scritti filosofici II, tr. it. di B. Agnese, a cura di A.G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 119.

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librio del più e del meno fra le cose che vi sono e i sogni della filosofia, ciò che può avvantaggiarsi di qualche manovra a lato. Poiché, certo, il meno, l’essere da meno – l’essere del meno, l’essere meno dell’essere, l’essere dalla parte del meno, e infine l’essere che rinuncia alla posa virile del non essere da meno – bisogna ancora pensarlo, ma Amleto ha comunque più ragione del Kant che voleva spiegare i sogni della metafisica: che son sogni non perché sono troppo (troppo pretenziosi, troppo dogmatici, troppo idiosincratici), bensì perché non sono – ma in verità non possono essere e non hanno da essere – abbastanza. È certo facile intendere il proposito appena formulato come una mera professione di modestia, e fraintenderlo in senso relativistico, traducendolo così: non vi è solo il lógos dell’Occidente logico e metafisico, ma vi sono anche altre parole, altri lógoi irriducibili a quello e altrettanto legittimi, e lo stesso Occidente non parla una lingua soltanto, ma molteplici lingue, e molteplici e vari sono i modi di riferirsi a questa venerabile tradizione, e via così. Ma se davvero questa fosse l’intenzione soggiacente, allora mostrare la storicità determinata delle idee che compongono il plesso logico-metafisico, ben lungi dal non servire, tornerebbe invece grandemente utile. Così però non è, per l’esercizio che intendiamo compiere, benché l’esercizio stesso sia dichiaratamente esposto e ineluttabilmente indifeso contro questo (e, forse, ogni altro) genere di fraintendimento. Così non è, comunque, anzitutto per la buona ragione che non vi è un luogo privilegiato dal quale si possa imparzialmente registrare la varietà dei lógoi che si vogliono tutti legittimi, e in secondo luogo perché, se anche questo luogo vi fosse, allora, lungi dall’essere irriducibile, una tal pluralità sarebbe ipso facto ridotta entro un ordine, una misura e uno spazio comuni, questa misura e questo spazio rimanendo tuttavia semplicemente presupposti e non indagati. Ma prendiamo pure per buona questa presentazione democratica e pluralista della tradizione, che si organizza qui nella figu-

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ra del plesso come, altrove, in mille altre figure possibili: storie, narrazioni, schematizzazioni che possono avere ugualmente corso, con pari legittimità. Abbiamo rinunciato a dare maggior risalto, maggiore forza di pensiero, maggior valore di principio alla specifica figura che ci apprestiamo a disegnare, per non subire i facili strali dell’ironia (o l’altrettanto facile scrollata di spalle dello scetticismo): come evitare di concluderne però, banalizzando la situazione ermeneutica del nostro tempo, che l’una figura vale l’altra, anything goes, e insomma ognuno può dire la sua? Difatti: la conclusione sarebbe perfettamente lecita. Ma, in primo luogo, proprio la liceità di questa conclusione lascia evidentemente spazio ad altre possibili conclusioni, sicché non sarà nemmeno quella l’unica morale della favola, l’uni­ca maniera di licitare; in secondo luogo, e soprattutto, vi è ancora modo non semplicemente di registrare i molti lógoi, i molti discorsi in cui è possibile riferirsi alla tradizione del pensiero, ma anche di chiedersi: bene, ma che è, allora, lógos? Non occorre dare a questa domanda il posto privilegiato del prolegómenon, per dedicarvisi con filosofica serietà. Il privilegio in questione, infatti, è pur esso un’eredità della tradizione, un tassello della figura che si tratta qui di comporre e scomporre, in ogni caso di pensare. Ma la domanda è, invece, un modo sufficientemente avvertito per tenere ancora in vista il nostro a lato. (C’è una grazia del pensare, e una sua gratuità, che viene purtroppo dispersa quando si trae frettolosamente la conclusione che, non essendovi più alcuna cogenza per pensare questo piuttosto che quello, per comporre una figura invece di un’altra, non vi è più nulla da pensare affatto. Non è così, e non solo per una devozione amorosa verso il proprio oggetto di pensiero, che rimane anche quando non ha una ragione ultima per essere prestata, ma perché proprio ora, proprio così, si offre al pensiero e si fa degno di essere pensato non altro che il “piuttosto che”. Kant ha fondato in un assoluto disinteresse un’etica dell’agire pratico, ma il suo pensiero dell’etico è anzi-

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tutto un’etica del pensiero. Basti pensare al nostro caro io che, secondo la Fondazione della metafisica dei costumi, fa capolino ovunque: non è questo il primo problema, o il primo equivoco, in cui rischia di rovinare ogni filosofia?). Quanto ora alla seconda, non dolorosa, rinuncia, ebbene: rinunciamo a stabilire primati, a ordinare gerarchicamente le componenti del plesso, a stabilire rapporti di causalità, in modo da far dipendere per esempio da una certa concezione dell’essere una certa concezione del conoscere, oppure: da una certa metafisica una certa analisi concettuale, o viceversa. Se queste sono state a lungo le alternative intorno a cui la filosofia in età moderna ha ruotato (si è detto ad esempio: è perché l’essere è stato concepito così e così che il conoscere ha dovuto essere concepito in tal modo; oppure s’è detto il contrario: è perché si è imposta una tal concezione del conoscere che l’essere è stato conosciuto in quel talaltro modo), non molto diversamente stanno le cose per i tentativi compiuti in tempi più vicini: non han ragione né gli amici dell’essere né i partigiani del conoscere, s’è detto, perché gli uni e gli altri sono stati giocati dal segno, oppure dalla scrittura, o dal linguaggio. È dunque perché è prevalsa una certa concezione del segno (o della scrittura, o del linguaggio) che è maturata una certa forma del conoscere e una certa concezione dell’essere, e così via. In tutti questi casi, quel che ci interessa è solo capire che, e come, l’una e l’altra concezione stanno insieme, piuttosto che dissotterrare archaì, e derivarne dipendenze. Vi sarebbe una sola ragione per tentare di affermare primogeniture dell’uno o dell’altro elemento sugli altri, ed è il caso in cui di un tal elemento si possa riconoscere un’ampiezza maggiore di quella dispiegata nel plesso, un prolungamento o una precedenza, in ragione del quale o della quale l’elemento è chiamato, all’indietro, a fondare oppure, in avanti, a destinare gli altri elementi. Ma in questo caso (che si presenta spesso con la foggia della critica decostruttrice, ma che finisce presto per rivelarsi, volens nolens, il caso di una

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metafisica, di una variante, magari raffinata, di metafisica, riconoscibile come sempre dal primato di uno), in questo caso: come potrebbe l’elemento in questione essere riconosciuto come lo stesso, essendo dapprima in sé e per sé (ad es.: in una antichissima notte di cui neppure vediamo il fondo senza fondo) poi invece in relazione ad altro, congiunto e riferito agli altri elementi del plesso (nel pieno giorno metafisico-spirituale della presenza)? In che modo è, ad esempio, lettera ciò che nella storia della metafisica è – come vuole Platone – asservito al sole-padre dello spirito, ed è ancora lettera, scrittura, ciò che anarchicamente si rifiuta – come vuole Jacques Derrida – a questa subordinazione? Se l’una e l’altra scrittura sono lo stesso, la relazione ad altro (allo spirito) riesce per essa del tutto accidentale: lo spirito non sarà stato allora così centrale, così imperioso, nel subordinare a sé la lettera, da imporle il sigillo di questa sottomissione; se invece non sono lo stesso (come non sono), allora nella scrittura metafisica non vi può esser traccia significante di un’origine non metafisica e di una scrittura più originaria. In entrambi i casi, nessuna fondazione e, parimenti, nessun destino2. E la difficoltà non è affatto superata per il fatto che si nomina archiscrittura la scrittura prima dell’avvento appropriativo della metafisica (senza dire della enorme, aporetica difficoltà di pensare e scrivere quel prima, inscritto e circoscritto entro la metafisica che dovrebbe precedere). Non basta infatti dire che si tratta sì della scrittura, ma non così come oggi la conosciamo, oppure del segno, ma non come oggi lo adoperiamo, o del linguaggio, ma non come oggi lo parliamo. 2.  Né la cosa muta se invece dell’identità si affermassero relazioni meno forti, meno perentorie, di appartenenza, di convenienza o di comunanza, di analogia. Occorrerebbe infatti dare la ratio dell’analogia, dell’appartenenza o della comunanza, e questa ratio dovrebbe attraversare identica i due diversi regimi di scrittura (metafisico e non), rendendo del tutto accidentale, e dunque insensato e privo di fondamento, il rapporto con il plesso logicometafisico che si voleva invece spiegare.

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E come, allora? Come pensare il “non”? Una scrittura che non è la nostra scrittura al punto da non essere trasferibile nella nostra scrittura, in che modo è ancora scrittura? A queste domande ci si può sottrarre, in verità, con una mossa che merita di essere descritta nel suo profilo più generale: non si riuscirà mai a pensare la transitio da un regime all’altro di qualcosa in quanto tale, se e finché si manterrà fermo, per l’appunto, il qualcosa in quanto tale. Se invece si rinuncia a questa identità puramente presupposta, se quel che vi è non è qualcosa, che poi transita in qualcos’altro, ma il transito stesso, nient’altro che la transitio, allora questo blocco del pensiero, la sua fissazione, sarà superato. Il che è vero e si può concedere, a patto però che si conceda parimenti che con ciò è superata insieme anche la passione per l’originarietà di qualunque scrittura, traccia o architraccia: nel movimento della transitio, proprio come non c’è termine, così non c’è modo di lasciare indietro alcunché. La mossa che viene suggerita non libera quindi contenuti di pensiero, appartenuti a chissà quali primordi, ma interviene sulla forma di questi pensieri, cioè daccapo sulla fisionomia del plesso. Questi tentativi hanno senza dubbio il merito di elevare un’importante richiesta genealogica (che può ben essere raccolta, e su cui anzi avremo modo di esercitarci ancora), ma per non finire nelle secche di un pensiero meramente negativo, mantengono per lo più il proposito di scovare qualche pepita dal fondo che si propongono di raggiungere, finendo spesso, in realtà, col prelevare surrettiziamente qualcosa che appartiene al regime che intendono destituire, promuovendolo ad altra e più fondamentale, più originaria, e solo a mala pena dicibile, esistenza3. Anche quando l’origine è pensata problematicamen-

3.  Sotto questo giudizio possono quindi essere ricondotti tutti i tentativi decostruttivi (ai quali pure ci sentiamo per molti aspetti vicini) che appar-

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te come non-origine, è ancora e sempre l’originato a disegnarne retrospettivamente il profilo4.

tengono ormai alla tradizione della tarda modernità. Decostruire significa infatti non distruggere (Zerstörung), ma smontare (Abbau), in modo però che nello smontaggio sia scoperta una falda/faglia su cui la costruzione poggia, ma che al tempo stesso nasconde. Questo modello critico lascia però irrisolto – ci pare – il problema che abbiamo sollevato nel testo. E senza soluzione è anche la questione di come la falda attinta o la faglia rilevata rimangano formazioni del sottosuolo, senza che il loro rilievo e attingimento porti con sé i riflessi della superficie. 4.  Ancora due osservazioni. La prima. Che la figura del plesso divenga accidentale rispetto al distendersi di un elementale sempre identico che attraversa, rimanendo al fondo, gli opposti regimi dell’origine anarchica e della metafisica ben fondata, non sarebbe poi un gran male, se non si avanzasse, in questo genere di tentativi, l’esigenza di dare ragione, cioè appunto di fondare il plesso. Una volta deposta questa esigenza, l’accidentalità potrebbe segnalare il semplice venir meno di una relazione fondamento/fondato, e l’affiorare in superficie del fondamento a lato del fondato (che è altro anche dall’hegeliano andare a fondo del fondamento a vantaggio del fondato e risolvendosi in esso). La seconda osservazione. Qualunque proposta filosofica che pensi l’origine (o l’assenza d’origine) muovendo dal presente rimane comunque nell’orbita dell’hegelismo (anche se la inclina diversamente), orbita disegnata, prima ancora che dalla risoluzione circolare del passato del presente, anche solo dallo stato di riferimento, dall’assegnazione del passato (e del futuro) al presente. Né muta la sostanza delle cose la possibile apertura a un futuro totalmente altro, e dunque per definizione e per principio (cioè, secondo Hegel: del tutto astrattamente) non compreso e rivolto entro quest’orbita, perché anzi un tale pensamento non si allontana veramente dalla mossa fondamentale dell’hegelismo, che consiste nel pensare vuoto e nullo questo futuro a venire. Esso rimane infatti indeterminatamente tale – a quanto pare – nella forma di un messianesimo senza messia: probabilmente Hegel non avrebbe chiesto di meglio per liquidare come una fisima questo pensiero. Si può ancora fare di questa liquidazione dialettica un proprio punto d’onore, ma bisogna esitare a parlarne in termini di conferma: primo, perché anche la dialettica si vedrebbe pienamente confermata nelle sue ragioni, cioè nel suo Aufhebung, nella sua liquidazione; secondo, perché quanto più potrà trattarsi di conferma, tanto meno potrà trattarsi di avvenire, di messianicità del futuro a venire.

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Si prenda ora, quasi a titolo di esempio, il grande tema heideggeriano della differenza ontologica. In esso ciò che è da pensare è il “non”, il senso in cui va inteso il non essere ente da parte dell’essere. Il senso che viene subito escluso è però quello per cui l’essere che non è l’ente non è nulla affatto. Ma allora vi è modo di far emergere, grazie a questa esclusione, un significato in cui tanto l’ente quanto l’essere-che-non-è-l’ente convengono, appartenendo entrambi a quella dimensione che emerge e prende spicco grazie all’opposizione al nulla. Emanuele Severino, che ha più volte proposto questo ragionamento (replicandolo a proposito dei molti oggetti ai quali è possibile applicarlo), ha sostenuto che questo significato è necessariamente più fondamentale della differenza, che cade dentro la dimensione indicata, quale che sia la sua ampiezza, portata, profondità. Ebbene, perché una simile critica non chiude affatto la partita, e anzi sembra piuttosto sottrarsi a un confronto effettivo con il pensiero della differenza? Non già perché sia possibile portare il Seyn heideggeriano alle spalle dell’opposizione dell’essere e del nulla, ma nemmeno – si aggiunga – per l’impossibilità di eseguire un simile passo indietro. Piuttosto, la possibilità e l’impossibilità sono qui disputate e decise, o si ritiene che possano esserlo, su un fondamento logico che, esso, non viene mai in questione5. La questione dello Schritt-zurück, insomma, è la questione del movimento di pensiero (transitio) che in esso si impegna, si mette alla prova, non già del significato, non importa quale, che grazie ad esso si vuol retrocedere. Così compiute le necessarie rinunce, possiamo ritenere che la descrizione morfologica del plesso si muova nella prospettiva

5.  Severino potrebbe ancora aggiungere che il fondamento logico non viene in questione proprio perché è l’inquestionabile, l’incontrovertibile, l’incontrastabile. Ma questo “non poter non venire in questione”, che così si ribadisce, è solo la cifra del suo (del fondamento) straordinario autismo: non un’ulteriore riprova, ma una mera ribattitura.

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di una topologia6. Con essa intendiamo infatti il disegno di un luogo, la descrizione di una costellazione teorica, la fisionomia di un plesso di concezioni che si sono addossate l’una all’altra assumendo una linea precisa, senza considerazione delle mére chrónou, delle parti di tempo in cui la linea si è venuta precisando. È chiaro che questa linea è astratta e ideale, se concreto e reale è soltanto ciò che sta sotto un modo del tempo, e non lo è invece se il tempo non è l’indice primo o esclusivo di ciò che è reale, e soprattutto se gli stessi modi del tempo, la loro crono-logia, appartengono, come si potrebbe mostrare, al tracciato della linea. Questo plesso ha poi una forma perché ha una sua coerenza e pertinenza interna, ma non per questo è qualcosa più di una

6.  Per una determinazione teoretica della topologia filosofica, cfr. anzitutto V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992: a questo libro e al suo autore va anzitutto il riconoscimento di un debito, non solo di pensiero. In esso la topologia viene presentata come una «fenomenologia eidetica del pensiero, delle figure eterne del pensare» (p. 105) per ciò, che tali figure, tópoi, «formano la carta dei “luoghi” ideali dell’essere», non sono che «eventi o momenti, non sorgono né tramontano – sono forme, essenze, eide» (p. 104). L’accento cade sullo spazio in cui questi tópoi sono collocati: tolti dal movimento del tempo, disposti «nello spazio che ogni tempo raccoglie e contiene» (p. 105). Questo spazio, però, non è per nulla un «luogo stabile e sicuro» (p. 266), bensì l’evento sospeso di una contraddizione, e sospeso proprio per ciò, che è in realtà uno spazio in cui sostare, e oltre il quale non è possibile saltare. Perché, però, contraddizione, e contraddizione insuperabile? La prima pagina di Topologia si apre con una proposta che promuove il diverso in luogo del novum, cioè della divisa sotto la quale il moderno (e la filosofia segnata dal moderno, dalla storia, dalla dialettica) si è autocompreso. Questa promozione è la topologia stessa: «nello spazio della topologia, dove tutto già da sempre è, non c’è posto per il “nuovo”. Ciò che conta è il diverso» (p. 105). Da dove, allora, la contraddizione? Come mai conta di più? Come può, nella contraddizione, il diverso avere spazio? Davvero sopra questo grande mare di diversità non può non soffiare quel pensiero che lo insacca e precipita nel gorgo di una contraddizione? È la questione che ha guidato i primi passi di Essere in due.

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forma. Soprattutto, non è sigillato dalla necessità. È singolare quanto poco in genere si sia notato che dimostrare, ad esempio, che vi è un rapporto determinato fra una certa idea del linguaggio e una certa idea della verità e dell’essere non equivale affatto a dimostrare che vi è e vi può essere solo quel rapporto, e non consente quindi di escludere né che a quella stessa idea del linguaggio si leghino altre idee o concezioni della verità e dell’essere, né che a quelle altre idee e concezioni si possa pervenire per altra via che non sia quella7. Dinanzi a questa pretesa, continua ad avere ragione, ad esempio, la protesta dei Prolegomeni husserliani contro ogni deduzione empirica della logica pura, ragione persino sulle successive considerazioni dell’ultimo Husserl in ordine all’origine della geometria: se è vero infatti che idealizzazione e riattualizzazione sono essenzialmente legate, e se è vero pure che è la scrittura a consentire la riattualizzazione, non per questo è dimostrato che solo la scrittura consente di riattualizzare, né che è impossibile che vi possa mai essere (o essere stata) un’umanità che scriva senza con ciò essere pervenuta a operazioni logiche idealizzanti. A meno che la scrittura smetta di essere una pratica, o anche un fascio di pratiche da descrivere in termini empirici, e si decida d’imperio che sarà scrittura solo e sempre una qualunque pratica che svolga il compito assegnato dall’indagine husserliana. Proseguiamo allora, per un altro breve tratto, il ragionamento sull’origine della geometria. Cosa vuol dire, anzitutto, origine, in questa indagine? Poiché Husserl non rinuncia certo a collocare nel tempo (e nello spazio: in Grecia) questa origine, dobbiamo pensare che vi è stato effettivamente un tempo in cui gli

7.  In termini che un riferimento esemplare può rendere più espliciti: dimostrare con Derrida che un certo primato della voce è all’origine di una certa mentalità logica non equivale affatto a dimostrare che in nessun altro modo quella mentalità sarebbe potuta sorgere, né che il primato della voce non avrebbe potuto dar luogo ad altra mentalità.

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uomini non avevano alcuna cognizione geometrica, almeno nel senso della geometria che ci è familiare, e un tempo successivo in cui queste cognizioni furono acquisite. Questi due tempi non poterono essere separati da un istante unico, puntuale e decisivo: si può, e anzi si deve senz’altro rinunciare a un fiat soltanto ideale e lasciare invece che tutto si svolga in un lasso di tempo lungo, esteso, anche se a proposito di esso non si saprà dire se e quando certi elementi di un sapere propriamente geometrico si siano fatti o no presenti. Ma lo spazio di tempo ci aiuta a collocare, anche approssimativamente, il prima e il poi nella fertile bassura dell’esperienza, per dirla con Kant. In quello spazio di tempo, l’uomo deve avere tenuto, in una vita che conosciamo appena, certi usi e certe pratiche che hanno poi consentito la nascita della geometria. Una volta che abbiamo convenuto di aprire una finestra temporale per questa origine, abbiamo anche, necessariamente, una trama empirica, materiale, di usi e di pratiche, collocabili in questo intervallo. Il punto è ora se non se ne debba salvaguardare l’empiricità, invece di farla svanire insieme con l’impossibile determinazione dell’istante decisivo. Ma se ci limitiamo a legare concettualmente l’idealizzazione geometrica solo alla funzione che quegli usi e quelle pratiche dovettero svolgere per rendere possibile l’attualizzazione, occultiamo la loro concreta determinatezza e, con esso, tutto il tempo di mezzo. Abbiamo il nome, non la cosa. Li consideriamo infatti nell’ufficio che sono chiamati a occupare, ma proprio perciò ne esibiamo solo un profilo concettuale; li introduciamo a quest’unico titolo, di essere “quegli usi e quelle pratiche che consentono la riattualizzazione”, ma cos’altro siano non viene più cercato e non può esserlo, visto che ci accontentiamo dei doveri d’ufficio che li abbiamo chiamati a svolgere8.

8.  Si dovrà tornare sul punto, per fronteggiare ad esempio l’obiezione che, se ne va dell’origine della geometria, ne va anche della distinzione dell’empirico e del concettuale. Ma il ragionamento proposto fornisce perlomeno un’in-

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Infine, il disegno di questa forma sarà qui poco più che accennato. Se ne traccerà soltanto quella linea minima che consentirà di procedere poi alle successive operazioni. Nessuna pretesa di completezza, quindi, anche se la mancanza dei dettagli non dovrebbe impedire di cogliere la figura complessiva. La completezza, come l’esattezza, sono peraltro concetti relativi, come ha insegnato Wittgenstein: una misura non è mai assolutamente esatta, ma lo è se è di volta in volta sufficiente allo scopo. Allo stesso modo un’esposizione non è mai completa, nel senso di essere esauriente sotto tutti gli aspetti, ma lo è invece se offre i punti essenziali, e non ne compromette lo svolgimento.

2.  La parola e il segno della cosa Il gioco al quale partecipiamo, leggendo il Cratilo platonico, è di certo tra i più riusciti che siano mai stati giocati con i mezzi della filosofia9. Si tratta del linguaggio, e delle opposte opidicazione operativa, che va tenuta presente per non lasciarsi sfuggire, con questa obiezione, qualunque ancoraggio empirico, a causa dell’onnipresenza del concetto, del significato (“empirico” è, infatti, certamente un concetto, e ha posto in un sistema di concetti). L’indicazione può essere data in questo modo: è consegnato all’empirico tutto ciò che è appartenuto a un certo tempo, ed è “un certo tempo” un intervallo, anche definito approssimativamente (anzi: necessariamente approssimativo), rispetto al quale per qualcosa vale la distinzione di un “prima” e di un “poi”. 9.  Nella lettura del Cratilo, abbiamo tenuto presente in particolare le proposte interpretative di V. Vitiello, Elogio dello spazio. Itinerari topologici. Ermeneutica archeologia linguaggio, Bompiani, Milano 1994, e C. Sini, Idoli della conoscenza, Cortina, Milano 2000, cap. V. Tra i recenti lavori attenti a una presentazione storico-filosofica accurata della concezione platonica del linguaggio (su cui la bibliografia è ovviamente sterminata), ci limitiamo a segnalare l’utilità, in particolare, di F. Aronadio, I fondamenti della riflessione di Platone sul linguaggio. Il Cratilo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011.

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nioni di Ermogene e Cratilo, che a Socrate espongono l’uno la tesi a noi più familiare, che i nomi di cui si compone il linguaggio sono stabiliti per convenzione; l’altro la tesi paradossale e francamente incredibile che «la correttezza del nome [onómatos orthóteta] è per ciascuna delle cose già predisposta per natura»10. Che il dialogo porti il nome di Cratilo segnala forse che il vero obiettivo polemico di Platone non è lo sbrigativo Ermogene11, che crede di potere raccattare senza troppa fatica le evidenze di cui ha bisogno dalla pratica del linguaggio ordinario: non è forse vero, infatti, egli osserva con buon senso, che la stessa cosa si dice in molti modi diversi e con parole molto diverse, che una stessa cosa riceve un nome in una lingua e un altro nome in un’altra? Dunque è di tutta evidenza che i nomi siano convenzionali e, se a noi piacesse, potremmo mutar di nome alle cose senza danno per le cose stesse. Ermogene la può far facile perché ignora del tutto il problema più radicale che Socrate gli viene ponendo, come cioè possa un suono (un suono qualunque, il suono a piacere di Ermogene) dire la cosa, dirne o dirla, e insomma ad essa riferirsi: che cos’è che fa la felicità, la riuscita del riferimento. Ermogene non s’accorge che in tanto è possibile istituire arbitrariamente un nome come tale, e intendersi con esso, in quanto c’è già un previo accordo sulla cosa di cui il nome è nome, come pure su qual

10.  Platone, Cratilo, 383a (la traduzione che usiamo è: Platone, Cratilo, testo greco a fronte, a cura di F. Aronadio, Laterza, Roma-Bari 1996). 11.  Nel dialogo, la tesi di Cratilo è esposta in realtà da Ermogene: nella sapiente regia platonica, non è un particolare trascurabile. Cratilo acconsente a che Ermogene esponga a Socrate il lógos in cui sono impegnati, così come lascia a Socrate di dire in lungo e in largo in cosa consista la orthótes che difende (per poi vederla rovinare sotto i colpi della critica sferrata da Socrate, senza che una resistenza venga davvero imbastita): evidentemente, il dialogo non è l’ambiente naturale per una tesi come quella cratilea: con lo stabilirsi di quello spazio, quella dunque tramonta, eppure rimane solo come un residuo non completamente risolto e, forse, un sottile motivo di inquietudine.

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genere di tecnica sia il nominare. Ermogene non immagina, forse, quale cosmicomica avventura sia istituire anche solo un segno: un segno, un segno solo, un segno puro e semplice12. In realtà, non vi è modo di parlare un linguaggio à la Ermogene se prima non si parla un altro linguaggio dentro il quale e con il quale il linguaggio di Ermogene viene istituito. Non si può tener ferma la cosa il tempo necessario per appiccicargli sopra l’etichetta del nome, se prima non c’è già un accordo (e quindi un linguaggio, magari consistente soltanto in gesti) su ciò che dev’essere tenuto (per) fermo, e sullo scopo di un tale tenere per fermo. Ma proprio intorno al come di questo accordo da cui proviene e in cui consiste il linguaggio domanda Socrate, e non sul linguaggio sul quale e nel quale l’accordo c’è già. Ermogene non può che ammutolire, una volta che la domanda gli ha scavato un tale abisso di sotto alle empiriche e ordinarie certezze del suo linguaggio.

12.  Il riferimento è ovviamente a I. Calvino, Un segno nello spazio, in Id., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. II, Mondadori, Milano 1992, pp. 108-117. Qfwfq, l’impronunciabile (et pour cause) protagonista del racconto di Calvino, si rende meglio conto dell’improbabilità dell’impresa: «Un segno come? È difficile dire, perché se vi si dice segno voi pensate subito a qualcosa che si distingua da un qualcosa, e lì non c’era niente che si distinguesse da niente» (p. 108). Dove niente si distingue da niente, in realtà, un segno solitario non può assolutamente avvenire. Non c’è evento del segno, al singolare, perché un segno non basta a fare la differenza, a porre cioè “qualcosa distinto da qualcosa”: il primo solco lasciato da Qfwfq non è ancora qualcosa, se non c’è già ciò per cui è qualcosa (un segno) e dunque non significa, non può significare più della materia su cui è stato lasciato. Ma se il segno non è un solco (un canale di Marte), se non entro uno schema di ripetizione che lo pone come tale, allora da un lato non lo sarà nemmeno un secondo solco, che non potrà che giacere inerte sul medesimo piano, dall’altro lo è già, necessariamente, quello schema. Addio, allora, primo segno. Nell’economia del racconto a Qfwfq risulta di bel bello di aver lasciato effettivamente un segno in un punto, ma solo perché Calvino gli fa l’immotivato dono metafisico di un’intenzione, senza dire al lettore come e dove codesta intenzione di significare abbia potuto albergare là, dove niente si distingue da niente.

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No, il vero obiettivo polemico del dialogo, che porta infatti il suo nome, è Cratilo: è con Cratilo che Socrate intende fare i conti, Cratilo di poche parole e di molti silenzi, Cratilo epigono di un’antica sapienza che stima divini i nomi, Cratilo che si rifiuta pertanto di considerare veri nomi i suoni apposti ad arbitrio alle cose, e che tuttavia, giocato da Socrate – forse si dovrebbe dire persino turlupinato –, non sa impedire che i nomi si allontanino irreparabilmente e scivolino via dalla verità della cosa, che pure a suo parere possono e debbono esattamente riprodurre ed esprimere. Non lo sa impedire, a leggere bene il dialogo, perché non lo può impedire, essendo egli non già (o non più) uomo (o dio) che nel nome incontra originalmente la cosa, ma uomo che nei nomi incontra ancora nomi e soltanto nomi, altri nomi, che Socrate può quindi sezionare e sminuzzare e disinvoltamente riformare, come fa con le sue a volte profonde, a volte fantasiose, a volte urticanti, sempre ironiche etimologie. Cratilo incontra – come Socrate, come ogni uomo impegnato alla pari nel torneo del linguaggio – nomi e non cose, e non c’è alcuna naturalità del nome che possa saldare, a separazione avvenuta, i nomi alle cose. Avendo affrettatamente concesso, come prima Ermogene, che una distanza separa gli uni dalle altre13, Cratilo non può impedire che quella distanza si riveli, ai reiterati sondaggi di Socrate, un fossato incolmabile. Se infatti il nome è – come Cratilo concede senza parere – un miméma pragmáton, il prodotto di una prassi imitativa della cosa e insomma un’immagine, al pari di ogni altro grafema, esso è altro dalla cosa, sotto pena di essere altrimenti non propriamente un’immagine ma solo un’altra cosa tutt’affatto identica alla prima («altrimenti tutte le cose diverrebbero doppie e di nessuna di esse si saprebbe dire quale fosse la cosa stessa e

13.  «Non diresti forse che altro è il nome, altro ciò di cui il nome è nome? – Io sì» (430a). Da poco Cratilo ha preso la parola, ma con questa alterità del nome ha, in realtà, già pregiudicato tutto.

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quale il nome», 432d). Se dunque il nome è immagine della cosa, esso è altro dalla cosa, e se è altro dalla cosa, ha anche e non può non avere altra natura. La connaturalità del nome è immediatamente smentita da questa considerazione. La tesi di Cratilo è dunque compromessa già qui, cioè in principio. Cratilo ovviamente avrebbe potuto difendersi meglio, avrebbe potuto rifiutare ciò che in tutto il corso del dialogo si dà per assodato, e su cui invece avrebbe dovuto portarsi (o arenarsi) la discussione: che cioè le cose ci siano già, compiutamente, in attesa che il linguaggio dia di esse l’immagine nel nome. Concesso invece questo presupposto, diviene inevitabile attribuire al primo datore dei nomi, uomo o dio che fosse, una certa qual conoscenza previa (cioè prelinguistica) della cosa, in forza della quale gli sia stato possibile riprodurre correttamente la cosa nel nome. Ma così va irrimediabilmente in fumo l’intera sapienza di Cratilo, quell’arcaica sapienza con la quale Socrate-Platone, cioè la filosofia, combatté, evidentemente, con successo. Perché ormai è la conoscenza della cosa ciò in virtù di cui il nome viene assegnato, e non è più il nome il luogo originale e naturale in cui la cosa viene conosciuta. Così, retrospettivamente, il nome diviene il sogno che la filosofia ha per lungo tempo sognato: il suo mito, da Proclo a Walter Benjamin. Nelle lezioni di Proclo sul Cratilo, il nome ha la sua orthótes per natura, non per convenzione, ma in quanto è distinto dalla cosa come sua immagine, deve trovare il suo fondamento nella sfera del divino: i nomi divini, «per il tramite dei quali gli dèi vengono denominati e celebrati […] sono rivelati dagli dèi stessi»14. La complessa teologia neoplatonica 14.  Proclo, Commento al Cratilo di Platone, a cura di M. Abbate, Bompiani, Milano 2017, p. 343. Nella gerarchia dei nomi, il posto più alto è occupato in realtà dai nomi assolutamente ineffabili, «segretamente posti negli dèi stessi» (p. 337); più giù stanno i simboli degli dèi, segni «in certo modo intermedi tra quelli ineffabili e quelli effabili» (p. 341); per terzi vengono i nomi divini

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conosce, com’è noto, ordinamenti più elevati e ordinamenti meno elevati: «non tutto il genere degli dèi è nominabile»15: quel Dio che è al di là della totalità delle cose non ha nome ed è ineffabile, e bisogna quindi procedere verso i generi inferiori per incontrare «la prima realtà effabile e denominata con propri specifici nomi», ma è decisivo quanto Proclo aggiunge, che cioè negli dèi «il denominare e il pensare restano uniti»16. La loro divisione e separazione interviene solo più giù, là dove si incontra la loro logiké ousía, la loro natura propriamente logico-linguistica. La logica ha però una fondazione teologica, e teologico (teonimico) è il punto al quale risalire per vedere superata la divisione del nome e della cosa. Non troppo diversamente stanno le cose nel nominalismo speculativo del Benjamin dei saggi giovanili, in cui si denuncia la concezione borghese della lingua, per la quale «il mezzo della comunicazione è la parola, il suo oggetto la cosa, il suo destinatario l’uomo»17. Una simile concezione è macchiata dal «vero peccato originale dello spirito linguistico» che Benjamin presenta così: «La parola deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa)»18. In virtù di questo fuori, una simile parola è già spacciata, è già espulsa dal paradiso della lingua, dalla beatitudine del nome in cui la cosa è immediatamente e integralmente conosciuta. Vi è per Benjamin una differenza, forse dettata da uno scrupolo teologico, fra la lingua infinita di Dio e la lingua finita dell’uomo, fra il verbo divino e la lingua nominale, fra «attraverso i quali noi possiamo significare gli uni agli altri qualcosa sugli dèi e dialogare da noi con noi stessi» (p. 343). 15.  Ivi, p. 345. 16.  Ibidem. 17.  W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 57. 18.  Ivi, p. 66.

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la spontaneità creatrice di Dio e la lingua in parte ricettiva dell’uomo, per cui le cose sono tradotte nel nome. Ma «l’oggettività di questa traduzione è garantita in Dio»19, aggiunge il filosofo, stabilendo così una grande distanza dalla esperienza post-babelica del traduttore il cui compito, dopo la caduta, potrà essere solo quello di tendere a, e attendere, l’affiorare della pura lingua del nome dall’incontro fra le lingue20. Se mai vi fu, all’origine, un luogo paradisiaco in cui il nome era la cosa, da esso siamo stati tuttavia cacciati: una volta che la cosa si staglia nella verità dell’essere prima e indipendentemente dal nome, il linguaggio, non essendo più depositario del vero, né luogo di residenza della cosa, diviene al più uno strumento di conoscenza, un’attività dell’uomo o un lavoro dello spirito, la mera «espressione fonica di moti interiori dell’animo»21, qualunque altra cosa ma sempre e comunque (e soltanto) mezzo, luogo da attraversare e da lasciarsi alle spalle per giungere in verità al cospetto di ciò che è da dire. E ciò che è da dire in Platone, la cosa stessa – lo sappiamo –, è l’eidos. Sicché a leggere Platone alla rovescia – come è sempre necessario fare, con i dialoghi platonici e forse ovunque sia in gioco la filosofia – si capisce che è in vista del disegno logico dell’eidos che il linguaggio 19.  Ivi, p. 64. 20.  In M. Adinolfi, Lingua, nome e traduzione: sui passi di Benjamin, in «Il Pensiero», XXXIX, n. 2, 2000, pp. 35-56, ho insistito sulla differenza tra i due saggi benjaminiani in merito alla traduzione: nel primo, Sulla lingua, è traduzione anche il battesimo in cui la lingua delle cose trapassa nella lingua dell’uomo; nel secondo, Il compito del traduttore, traduzione e nominazione stanno invece in un rapporto inverso (e la prima tende messianicamente verso la seconda, in cui è destinata a estinguersi). Il ricorso a Dio come garante della traduzione pre-babelica della cosa nel nome mi è parso perciò la spia di una situazione in cui ai risultati conseguiti nell’indagine linguistica si è sovrapposto un preciso schema teologico (il fiat divino, la creazione e la conoscenza, Dio infinito e uomo finito, il verbo e il nome, ecc.). 21.  M. Heidegger, Il linguaggio, in Id., In cammino verso il Linguaggio (= CvL), a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p. 30.

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viene abbassato a mero strumento: in vista della forma ideale del kath’autó, di ciò che è per sé sempre identicamente e determinatamente uno, di ciò che Platone chiama l’óntos òn, il veramente essente. È perché questo è il fine, che quello, il linguaggio, riesce (riesce, non è) solo uno strumento, e uno strumento peraltro abbastanza singolare, se è vero che si rivolge sì al nostro udito, innanzitutto a quello, ma paradossalmente è tanto più efficace quanto più si fa silenzioso e inudibile. È vero infatti che noi sentiamo parlare, ma ciò che intendiamo non è propriamente quel che sentiamo quando sentiamo, bensì appunto l’eidos, ossia ciò che è nelle parole, tà en toîs lógois (e, dopo, con minor impegno ontologico, il significato). Si può dire lo stesso per quel passo del Perì hermeneías di Aristotele, che, volens nolens, ha offerto nei secoli l’impalcatura di questa concezione del linguaggio22? Sì, se ci atteniamo all’interpretazione tradizionale (mantenuta fino a Heidegger e Derrida): vi sono oggetti nel mondo (tà prágmata) che sono gli stessi per tutti. Di questi oggetti abbiamo, nell’anima, immagini (tà omoiómata) che, di nuovo, sono le stesse per tutti. Quel che varia sono i simboli (tà sýmbola), ossia i suoni (e, poi, le lettere) con cui l’anima segnala all’esterno ciò che l’affetta. No, invece, se seguiamo l’interpretazione offerta da Franco Lo Piparo nel suo libro su Aristotele e il linguaggio, per il quale la teoria aristotelica, sfrondata dalle interpretazioni che l’hanno nel tempo sfigurata, conduce a questa tesi (offerta in apertura del libro): «Gli uomini non usano il linguaggio, vivono il 22. Cfr. Aristotele, Perì hermeneías, I, 16a, 3-8: «Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche». (La traduzione che usiamo è: Aristotele, Dell’interpretazione, testo greco a fronte, a cura di M. Zanatta, BUR, Milano 2001).

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linguaggio. Il linguaggio non è strumento ma attività speciespecifica di organi naturali»23. Se il linguaggio non è un mero strumento è perché i sýmbola aristotelici non sono meri segni, «pezzetti inerti di materia […] che, dall’esterno e in seguito a una convenzione, ricevono un valore di reciproco richiamo»24. E cosa sono, dunque? Sono, nello stesso tempo, «articolazioni vocali e operazioni logico-cognitive»25. Il punto decisivo è la connaturalità dei due momenti, che consente di superare la linearità e unidirezionalità della lettura canonica – dalle cose alle affezioni, ai suoni, alle lettere –, responsabile della astratta convenzionalizzazione del segno linguistico. C’è di più, c’è quel passo del Perì hermeneías in cui Aristotele dice in termini perentori che il lógos semantikós, il discorso significativo, non è tale al modo di uno strumento, órganon, bensì, egli aggiunge, katà synthéken26. Se non è uno strumento, è un fine, ed è un fine posto da un movimento naturale, proprio di quell’animale che ha essenzialmente il linguaggio. È chiaro che tutte le ragioni di questa vigorosa e dotta interpretazione della concezione dello Stagirita, che riporta il locus del Perì hermeneías ben dentro il Corpus aristotelico, senza lasciarsi guidare da certe precomprensioni che ne banalizzano la lettura, riposano su un recupero di una nozione greca di phýsis 23.  F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 3. 24.  Ivi, p. 57. 25.  Ivi, p. 67. 26.  Cfr. Aristotele, Perì hermeneías, 16b 33-17a 2. Lo Piparo mostra in maniera convincente che katà synthéken non va tradotto con “convenzionalmente”. La significatività dipende dalla composizionalità della synthéke, ma questa va compresa come un «processo generativo naturale» (F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, cit., p. 106). È utile ricordare anche che per la maggior parte degli interpreti il passo qui citato contiene un implicito riferimento polemico al Cratilo platonico e alla tesi convenzionalista di Ermogene (cfr. ivi, p. 113).

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che non può semplicemente contrapporsi, dualisticamente, alla sfera del lógos, della regola o del nómos, naturale l’uno, artificiale l’altro. Si può dire infatti, venendo al sodo, che se per Aristotele il linguaggio è naturale all’uomo, è ben evidente che non può essere semplicemente uno strumento, un mezzo, una protesi, il frutto di una convenzione, insomma una relazione semplicemente estrinseca, à la Ermogene. Se tuttavia manteniamo una dominanza dell’impianto platonico è in ragione di una precedenza ontologica assegnata, anche da Aristotele, ai prágmata, che intendiamo formalmente come le cose che rimangono le stesse. La relazione che con esse stabilisce il linguaggio non è in grado di alterare questa dignità – la stessa che Aristotele tien ferma nelle Categorie, quando, riflettendo su ta pros tì, sulle cose che sono in relazione, osserva che la relazione dell’episteme all’epistetòn, della scienza allo scibile, è tale per cui se non vi è scienza non per questo non vi è scibile. Lo Piparo ha ottimi motivi – filologici e filosofici insieme – per respingere un’interpretazione banalmente riproduttiva della relazione di omoiósis fra i prágmata e i pathémata: né i prágmata sono semplici oggetti, né i pathémata sono semplici copie. Non resta meno essenziale osservare, però, prima ancora di domandarsi come vada interpretata l’omoiósis, l’evento di una distanza in cui la relazione si stabilisce, ma che non viene per questo colmata. L’articolazione dei pathémata in lógos semantikós è il modo (naturale) in cui l’animale linguistico abita la distanza – sul presupposto, però, della distanza stessa. L’impianto platonico, delineato nel Cratilo grazie alla distanza prodottasi tra la cosa e il nome, si mantiene dunque senza troppe difficoltà almeno sino a Husserl. Quando nella Prima ricerca il padre della fenomenologia procede alle distinzioni essenziali, riprende in realtà antiche distinzioni platoniche: trova infatti che ciò che è caratteristico della parola come tale è che essa, in quanto è essenzialmente espressione di un significato, non segnala, non funge da indice, non fornisce indicazioni e non ha

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un contenuto informativo: non è cioè intramata, intricata con la cosa, non ne è un prolungamento, un debito o un pegno, com’è dimostrato dal fatto (ovvio solo a istituzione del linguaggio avvenuta) che è immediatamente trapassata, da colui che l’intende, in direzione di ciò che è inteso. Husserl osserva allora con sicura perentorietà: «siamo ben lontani dall’identificare la parola con il pensiero»27. La lontananza della parola dal pensiero consente alla parola di fluttuare liberamente, in condizioni nelle quali il pensiero rimane invece ben fermo. E così si intende bene, retrospettivamente, che del banale convenzionalismo linguistico di Ermogene è da rifiutare (e Platone rifiuta) non già quanto concerne lo spessore fonico della lingua, ma le sue eventuali e indesiderate conseguenze semantiche, logiche e ontologiche. Varino pure le parole, insomma, purché non varii ciò che in esse e per esse è inteso; varii pure l’espressione sensibile, purché rimanga intatta l’idealità e la determinatezza una del significato, condizione di possibilità della sensatezza come tale. E come nel Platone della Settima lettera la scala delle parole (i “quattro”: il nome, l’immagine, il lógos e la definizione) viene infine buttata via, quando si è accesa la scintilla e l’anima è sola a cospetto del quinto, della cosa stessa, così in Husserl la parola diviene del tutto diafana quando i significati delle espressioni si fanno interamente presenti, anzitutto nel vivo del monologo interiore, nel quale sono vissuti direttamente nell’atto stesso in cui sono intesi, senza mediazione alcuna. Questa formula di chiusura è d’altronde indispensabile. Non è un cedimento di Platone al misticismo (misticismo che peraltro può apparire un cedimento solo dopo che il plesso si sia costituito e che ci si sia rinserrati dentro) il fatto che al culmine del dialogo, attraversati i lógoi, percorsa la scala dei “quattro”, sia necessario compiere un atto assolutamente singolare, intuitivo, 27.  E. Husserl, Prima ricerca, in Id., Ricerche logiche, 2 voll. (= RL I-II), a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 1988, vol. I, p. 333.

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di visione. Lo stesso dicasi dell’analisi husserliana, che non può prolungare la fuga dei significanti all’infinito, senza arrestarla nel punto in cui il significato si offre in piena evidenza, riempiendo la distanza che lo separa dall’intenzione di significare. Per entrambi vi è insomma un punto nel quale le parole non servono più. Non fa dunque meraviglia che oggi fioriscano invece le prospettive in cui le parole servono sempre, la fuga dei significanti non può essere arrestata e non vi sono culmini che possano essere raggiunti. In questo modo, però, non ci si porta affatto fuori dell’orbita del plesso. Si tiene infatti ferma la distanza del segno dalla cosa, la natura di cosa della cosa e la natura di segno del segno – fine l’una, mezzo l’altra –, salvo negarsi il modo di andare una buona volta dall’uno all’altra, toccando infine l’altra riva. Si suggerisce che occorre retrocedere dalla parola al più vasto dominio dei segni, ma, in quanto non se ne viene a capo, il segno rimane preso entro la distinzione – che rimane di provenienza platonica anche se viene proposta con moderna sobrietà scientifica – del significato e del significante, lasciando intatta la distanza del segno dalla cosa, di cui il segno è il segno. Il segno continua a significare, la cosa a fuggire via, situandosi a incolmabile distanza da esso, ma come il segno rimandi alla cosa, come si fondi questo rapporto, rimane del tutto problematico. Allora si retrocede ancora: dal segno al simbolo, dal simbolo al gesto. Non vi sono più cose, e segni che le indichino, ma un unico movimento: il divenir segno del simbolo, in uno con il differenziarsi della cosa come cosa. Il simbolo decade di qua a segno, mentre di là si rapprende in cosa. Il problema di come faccia la parola a raggiungere la cosa è così risolto, poiché parola e cosa provengono da un’unica origine simbolica, alla quale fanno segno. In questo modo, però, il problema della struttura di rinvio del segno è risolto con la semplice presupposizione ermeneutica di un’unità mitica originaria su cui essa si fonda.

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Poco importa che quest’unità sia barrata, e che si inviti a pensarla come un’origine mai stata origine. Il fatto è che di essa non si riesce a fare a meno, e che essa è presupposta con lo stesso movimento di retrocessione con il quale in regime di metafisica si risale a Dio (o al lume naturale) per giustificare la corrispondenza della parola alla cosa: muovendo cioè del tutto acriticamente dal fatto del rinvio, ed esigendo per esso condizioni che lo rendano possibile (ma di questo fatto, dell’essere noi già da sempre dentro l’impero dei segni, come potremmo dar segno? non è esso inassegnabile?). Una soluzione non vale però più dell’altra, per il solo fatto che viene barrata e tenuta a distanza. Tanto più che non dista tanto che noi non si benefici ancora della sua luce. Bisogna allora «pensare la traccia prima dell’ente»28. Meglio ancora: bisogna pensare il movimento della traccia prima dell’ente, e anzi la traccia solo come movimento. Solo così evitiamo che la traccia si consegni al sistema delle dicotomie metafisiche, che governano tradizionalmente la problematica del segno. La traccia della grammatologia non si lascia collocare né nel campo della natura né in quello della cultura. Non lascia dietro di sé nulla di cui sia traccia, e non fa segno se non entro un sistema di tracce e verso altre tracce. Se significa, dunque, non significa in virtù di qualche aggancio naturale a ciò che significa: non è immagine né figura, ma non per questo Derrida lascia che essa decada a puro segno, puro nel senso dell’appartenenza a un campo semiotico definitivamente separato e opposto al dominio degli enti. Se, in mezzo a lunghe analisi dedicate a Ferdinand de Saussure, a Rousseau, a Condillac, capita qui qualche citazione di Charles Sanders Peirce, è perché Peirce fa quel che Saussure non fa: non oppone simbolo (naturale nel senso della phýsis, oppure fisico in senso biologico) a segno (culturale, 28.  J. Derrida, Della grammatologia (= G), nuova ed. it. aggiornata a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2006, p. 73.

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arbitrario): «non ci sono simbolo e segno, ma un divenir-segno del simbolo» (G, p. 73)29. L’immotivazione del segno è un movimento incompiuto e incompibile, un divenire indefinitamente immotivato, un incessante immotivarsi del segno. Il punto più profondo del progetto grammatologico è proprio qui, nel commento a una citazione di Peirce, a cui il filosofo francese riconosce il merito di aver pensato l’irriducibilità di questo divenire, tenendo insieme due esigenze: da un lato, «il radicamento del simbolico (nel senso di Peirce: dell’“arbitrarietà del segno”) nel non simbolico, in un ordine di significazione anteriore e collegato»; dall’altro lato, la necessità di «non […] compromettere l’originalità strutturale del campo simbolico» (G, p. 74). Qual è invece l’esigenza che, soddisfatte queste due, viene abbandonata? Quella di mantenere in vista ciò che non si risolve nel rimando infinito da segno a segno da cui, per Peirce, si riconosce essenzialmente un sistema di segni. Per Derrida, la semiotica peirceana si svincola da qualunque «terreno di non significazione – che lo si intenda come insignificanza, o come intuizione di una verità presente» (ibidem), ed è francamente sorprendente che le due ipotesi di interruzione o arresto della significazione – l’insignificanza, l’intuizione – condividano qui lo stesso destino, e paiano ugualmente compromesse con una certa metafisica della presenza, quando invece è ben chiaro che la qualità metafisica dell’ipotesi dipende dal modo in cui si pretende di metter piede su quel terreno, se per esempio esso rimanga la riva a cui è orientata l’infinita traversata nel mare dei segni, o se invece esso costituisca una possibile de-riva, che non equivarrebbe a nessuna fondazione e sarebbe forse più radicale di qualunque disseminazione di segni.

29.  L’altro nome che forse qui Derrida avrebbe potuto fare è quello di Vico, che come Peirce ha purtroppo una presenza tutto sommato marginale nelle indagini di Derrida.

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La traccia prima dell’ente di Derrida non prevede arresti ontologici – la semiosi peirceana si amplia fino a svilupparsi come cosmologia –, ma proprio perciò non smette mai di significare, e di sollevarci dunque dalla responsabilità di pensare che in qualche modo, da qualche parte, in un certo senso, senza vantare primati o stabilire gerarchie, qualcosa sta senza rapporto con il rimando del segno, fuori o semplicemente accanto al plesso metafisico.

3.  La verità e l’intelligenza della cosa Cratilo interpreta la verità del nome in termini di giustezza e appropriatezza: corretto è il nome che riproduce esattamente la cosa. Anche in questo, Cratilo dimostra, senza troppo parere, di essere attestato sulla stessa posizione di Socrate-­ Platone, dal momento che ne condivide l’idea della verità come orthótes, come Richtigkeit, conformità30. Questa conformità è il conformarsi del dire che corrisponde alla cosa, ma è anche il conformarsi della cosa con ciò che s’intende e va inteso per essa. Anche quando sarà la cosa a portarsi all’altezza del concetto, essa non farà che conformarvisi: qui non guardiamo al movimento che rende possibile la relazione di conformità, ma alla relazione stessa. In molti modi si è potuto sostenerla: una filosofia dello spirito soggettivo può provvedere, ad esempio, alla formazione di una coscienza, oppure può essere la cosa stessa ad aver bisogno di portarsi nella forma conforme: la verità apparterrà comunque al plesso metafisico in cui la verità è una relazione di conformità.

30.  Cfr. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia (= S), Adelphi, Milano 1987, p. 136.

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Tale concezione non muta neppure se il conformarsi riguarderà una cosa data ostensivamente in maniera più o meno opaca, o piuttosto un contenuto intensionalmente determinato. Quel che in tutti i casi occorre è che, nel conformarsi, ciò che si conforma e ciò cui si conforma non si adagino quietamente entro la medesima regione, ma si fronteggino, per quindi riferirsi e conformarsi. Questo fronteggiarsi che appartiene ad ogni conformazione è ciò in virtù di cui diciamo logica questa concezione della verità. Logica è quella relazione frontale, in cui gli elementi che stanno di fronte possono confrontarsi (o essere confrontati). La negazione platonica dell’idea della conoscenza per impressione dell’anima e contatto con la cosa – negazione che espelle dalla filosofia il più ingenuo empirismo, ma anche il più sfrenato misticismo – dipende dalla necessità di una frattura, di una sospensione o meglio di una interruzione che renda possibile il confronto frontale, ortogonale, fra il conoscente e il conosciuto. Sarebbe questo il luogo per affrontare le non secondarie complicazioni psicologiche e teologiche della logica occidentale, dal momento che la psyché entra in filosofia grazie a questa interruzione – e il theós (lo abbiamo già lasciato intendere, vedendolo intervenire a presidio del nome) vi entra per sanarla. Né l’una né l’altro ne modificano però i termini, anche se né l’una né l’altro, in quanto si disegnano sui suoi bordi, possono esserne cancellati, almeno fin tanto che essa permane. Ma per il nostro disegno questo piccolo accenno può qui bastare. È altro che, piuttosto, va confessato, che cioè nel pensare la relazione di conformità in cui la verità può dispiegarsi non abbiamo realizzato alcun reale progresso nella comprensione dell’essenza del lógos, ossia della natura della relazione. La frontalità, infatti, non è che un’immagine, com’è d’altra parte fin troppo ovvio. Non va intesa in senso letterale, cioè – si dirà – fisico, ma dobbiamo pure aggiungere che anche la

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distinzione dei sensi, del letterale e del metaforico, è a sua volta resa possibile solo dallo spazio logico in cui si muovono queste considerazioni: il senso fisico è letterale solo perché si è potuto già staccare da esso un senso di altra natura. Di questo stacco o di questa interruzione logica abbiamo insomma una comprensione soltanto negativa, ed è in questo senso che confessiamo di non aver compiuto un progresso reale: non abbiamo presentato la cosa stessa. Una relazione logica non è una relazione fisica: questo solo s’è potuto dire, e per la verità tutti i termini di questa proposizione rischiano di essere trascinati nell’oscurità in cui rimangono i primi termini; anche gli ultimi rischiano di affondare nella stessa negatività che avvolge i primi. Che cos’è infatti una relazione fisica? In che senso è relazione, ad esempio, la contiguità, oppure la distanza? Con quali occhi la vediamo? È ben evidente, infine, ed è nella natura del plesso, che il significato di ciò che è fisico, naturale, materiale è riguardato dalla negazione tanto quanto il significato di ciò che è logico. Questo riguardo è ancora il riguardo stesso della logica, dell’elemento logico che non investe solo la distinzione, ma, a quanto pare, penetra nei distinti stessi. La via per pensare un distinto che non sia coinvolto dalla distinzione in cui è (come) distinto è ancora, per noi, molto lunga. La concezione della verità così sommariamente tratteggiata regge senza grandi urti almeno sino al Wittgenstein del Tractatus e alla sua teoria della raffigurazione31, che ne ripete due corollari fondamentali. Il primo: la determinatezza di ciò che è preso nel confronto, dell’oggetto nel senso di Wittgenstein 31.  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (= T), tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1984, ha sì scritto che l’immagine è un fatto al pari del fatto che rappresenta (cfr. § 2.141), ma ha poi mantenuta ferma la pretesa che «nell’immagine e nel raffigurato qualcosa dev’essere identico, affinché quella possa essere un’immagine di questo» (§ 2.161), ha mantenuto cioè ferma l’idea logica del confronto, senza del quale non vi è identità possibile fra i due.

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come già dell’idea platonica. Non v’è confronto possibile dove ciò che si confronta scivola da ogni parte senza mantenere una determinatezza identica, e però, al contempo, tale mantenere è fondato proprio nel e dal confronto. Anche in questo caso quel che appartiene al plesso viene posto anzitutto e fondamentalmente su un piano di parità, senza attribuzione di primati: diremo dunque che il confronto determina e insieme che la determinatezza è confrontata. Il secondo corollario riguarda la composizione, il cum, il syn, che è implicato dall’idea del con-fronto. A confrontarsi non sono infatti mai due “uno”, ma due “due”. Questa necessità è affermata già nella koinonía richiesta dal Sofista platonico e poi nella sýnthesis aristotelica, e ritorna nel concetto wittgensteiniano di Sachverhalt. Due “uno” che si confrontano non sono più uno, ma due. Sono due, l’uno con riguardo all’altro e però anche due entro loro stessi. Se tali non fossero, se non fossero internamente articolati ma semplici, lisci, puntiformi e uniformi, non sarebbero due neppure l’uno con riguardo all’altro, non potrebbero logicamente differenziarsi ma collasserebbero in un’unità indistinta. Se nel confronto non è posta alcuna restrizione all’identità dei termini del confronto, il confronto non regge. Ma l’introduzione di una restrizione (ad es.: identità quoad formam dei termini del confronto) comporta ipso facto articolazione e composizione. Questo ha cominciato a valere dal detto di Parmenide sino a noi: essere e pensare sono sì lo stesso, ma come due e non come uno. Ancora una volta, poi, non occorre stabilire primati o gerarchie: com’è vero che non c’è confronto se non fra due “due”, così è vero che l’istituzione stessa del confronto fa dei due termini del confronto due “due”. Pensare l’unità dei due diviene così il problema della filosofia. Infine: a tale concezione della verità è ovviamente legata la logica formale tutt’intera, perché il concetto stesso di forma logica

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ne dipende, dal momento che s’insedia solo dopo che la separazione fra forma e contenuto è resa possibile. E tale separazione non potrebbe prodursi se il contenuto non avesse (o prendesse) alcuna determinatezza: la forma è questa determinatezza del contenuto (e poco importa che sia essa a prestarglielo o viceversa). In termini appena aggiornati: non vi è funzione logica se le variabili che in essa compaiono non potessero avere valori determinati, separabili l’uno dall’altro e distinti. La concezione dell’essenza della verità come conformità (conformità che è duplice: del dire che corrisponde alla cosa e della cosa con ciò che s’intende per essa) non è però prima e iniziale, ha spiegato Heidegger in passi ormai fin troppo noti, poiché implica una più fondamentale apertura alla svelatezza dell’ente come tale (che la parola greca alétheia ancora nomina, sebbene in maniera non sufficientemente pensata), senza di cui mancherebbe l’a-che di ogni conformarsi. Ogni umano comportarsi si espone e anzi è esposto entro tale svelatezza. Esserci è questo essere es-posti32. Come già Hegel, così anche Heidegger sa che «la verità non ha la sua dimora originaria nella proposizione» (S, p. 141)33. Prima di arrivare alla proposizione, una fenomenologia occorre, che descriva l’apertura in cui la relazione logica della proposizione rispetto alla cosa può trovare attuazione. In questa impostazione, il lógos della relazione non è originario, ma presuppone una struttura ontologica, in cui altri elementi, per esempio patici, mobilitano la questione del fondamento. Tuttavia, per quanto ampio, e inedito, sia il passo indietro com32.  Cfr. M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, S, p. 88. Non diversamente in Dell’essenza della verità: «Ogni comportarsi è costantemente aperto rispetto all’ente. Ogni riferimento costantemente aperto è un comportarsi. […] Ogni opera e ogni realizzazione, ogni azione e ogni calcolo sta e si mantiene nell’apertura di un ambito al cui interno l’ente può porsi ed essere detto proprio per ciò che è e per come è» (S, p. 140). 33.  L’Aufhebung hegeliana muove ovviamente in un’altra direzione rispetto alla Bestimmung heideggeriana verso l’originario.

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piuto in direzione del fondamento che rende possibile la conformità del conformarsi, e in essa la logica della proposizione, per quanto radicale sia la sua esistenzializzazione, per quanto accentuata sia la torsione ermeneutica, il passo sarà sempre compiuto in un’indagine di natura fenomenologica, non già storico-genealogica, di modo che non siano materiali empirici, reperti antropologici, o paleobiologici, o di qualunque altra natura, a venire allo scoperto, ma fenomeni in senso proprio. E cos’è fenomeno, se non ciò che si offre in un’originale autodatità, e quindi l’intentum di un’indagine già orientata e costituita dalla potenza disvelante del lógos, secondo le indicazioni metodico-formali del settimo paragrafo di Sein und Zeit? L’ulteriore inclinazione ermeneutica che gli viene fornita mette, per dir così, in circolo le modalità del darsi; con ciò, però, tramonta solo il primato teoreticistico dell’intuizione – apparire primo, come ebbe a dire Levinas34, della verità e della ragione –, non anche le risorse di un’epoché fenomenologica che segmenta ancora, se si può dir così, la linea della conoscenza, come Platone nel libro VI della Repubblica, procurando solo così l’intelligenza, e la vista, delle cose stesse. Gli occhi me li ha aperti Husserl, dice Heidegger nel ’23, in premessa al corso sull’ontologia dell’effettività, riflettendo sul proprio Weg35. Che si svolse per intero «durch die Phänomenologie», come il pensatore della Foresta Nera riconobbe, tornando, dopo decenni, a riferirsi esplicitamente a Husserl nella celebre Vorwort autobiografica al libro di padre Richardson36. 34. Cfr. E. Levinas, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, Alcan, Paris 1930, p. 134. 35. Cfr. M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, tr. it. di G. Auletta, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1992, p. 13. 36.  Cfr. W.J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Thought, Nijhoff, The Hague 1963, p. XVII. Cfr. anche M. Heidegger, Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia (1963), in Id., Tempo ed essere, tr. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, pp. 189-190.

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Una nota di Dell’essenza del fondamento ci avverte poi che questa svelatezza «è già una determinata verità dell’essere [Seyn]»: una verità, dunque, e non la verità dell’essere; soltanto una sua figura epocale, e non l’unica possibile figura, l’essere dovendo invece essere pensato essenzialmente come evento, Ereignis. Una seconda nota precisa che la differenza fra il piano dell’ente (e della conformità a e di esso) e il piano dell’essere (e della sua eventuale svelatezza) non va affatto intesa come la struttura immobile entro la quale cade la verità dell’essere, dunque come il trascendentale dell’essere o la sua ratio, ma è (west: vige, viene a essere, si dispiega) l’essere stesso: il suo evento, appunto. L’essere si dispiega differendo. Solo così la verità dell’essere non è mero appannaggio dell’ente (se così fosse, l’essere sarebbe allora solo l’essere dell’ente), ma al contrario l’ente è appannaggio dell’essere (l’ente è perciò anche l’ente dell’essere)37. Quel che colpisce, in questa preziosa disamina heideggeriana, è che essa non sembra sfiorata dal sospetto di retrocedere e collocare sul piano più fondamentale dell’apertura originaria caratteri che sono mutuati da ciò che a suo giudizio su quel piano si stabilisce soltanto, cioè dalla concezione logica della verità. Nessun dubbio, ad esempio, che nell’apertura ad aprirsi è l’ente in totalità: ma come è possibile che l’ente sia (dato) in totalità? Cosa fornisce il senso di un tutto? Come è possibile che questa apertura abbia carattere pan-oramico? La totalità dell’ente è disvelata: dunque anche le stelle più lontane e non ancora osservate né osservabili? La domanda è tanto poco fuori luogo quanto lo era la domanda del vecchio Parmenide all’imbarazzato Socrate: se vi sia un’idea del fango, e dei peli. Lo si vede se non altro dal fatto che nella risposta siamo giocoforza spinti ad attivare una certa generalizzazione e idea37.  M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, S, p. 90. Sulla differenza ontologica, cfr. infra, cap. IV, § 1.

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lizzazione: certo che le stelle sono nell’aperto e poco importa quali e quante, e se osservate o meno, poiché a disvelarsi è il tutto del cielo, la misura senza misura del cielo. Ma è chiaro che, in questa apertura, l’addurre a titolo di esempio e il “non importa quante e quali” sono operazioni solidali (per quanto inavvertite) con una concezione logica della verità, che consente, in uno sguardo essenziale e nel lampo di un concetto, di abbracciare l’intera universalità degli enti38. È chiaro insomma

38.  Concezione con la quale rimane costitutivamente in debito anche la fenomenologia, per la quale è sempre il tutto a darsi (tutto l’essere è fenomeno). Non c’è nulla, infatti, che non si dia: quel che non si dà si dà nel suo non darsi. Sono ancora, come ognuno vede, l’òn e il lógos a correlarsi lungo la linea platonica che fa correre l’una di fronte all’altra la scienza e la verità. In questo modo la fenomenologia mostra quanto la logía, ossia una vista intellettuale sul fenomeno, sia, nella sua essenza, la sola via d’accesso al fenomeno come fenomeno. In Heidegger, tutto ciò si vede bene nelle distinzioni proposte in Che cos’è metafisica?, là dove si tratta di fondare il non, come «operazione dell’intelletto» (S, p. 64), sul niente, inteso come «negazione completa della totalità dell’ente» (S, p. 65). Ogni lettore di Heidegger sa, ovviamente, che questa negazione completa, questa negazione della totalità, si annuncia per il filosofo solo nell’angoscia. La descrizione della spaesatezza dell’angoscia, in cui dilegua l’ente nella sua totalità, in realtà si installa in una differenza preliminare, che il filosofo ha già fatto quando distingue «il cogliere la totalità dell’ente in sé e il sentirsi in mezzo all’ente nella sua totalità» (ibidem). Questo sentire è ciò che nasconde il niente che l’angoscia, invece, rivela. Ma, come si vede, non è l’angoscia a comporre la totalità dell’ente: se dunque la nostra domanda riguarda la possibilità dell’ente di rivelarsi in totalità, la risposta che le si può dare non può fare appello all’angoscia. Il niente, scrive Heidegger, «ci viene incontro “insieme” all’ente nella sua totalità che si dilegua» (p. 69); dunque, prima di dileguarsi l’ente è già sentito come totalità. Questo suo essere in totalità è già presentato come la modalità del suo essere, il suo come. In che modo, allora, è ottenuto? Bisogna dire proprio così: ottenuto, piuttosto che effettivamente esibito, perché esso è palesemente ragionato a partire dalla differenza preliminare fra il cogliere la totalità, che produce un concetto puramente formale, vuoto, e il sentire della situazione emotiva, che si accorda invece, secondo Heidegger, a un contenuto reale (reale nel senso fenomenologico della Realität). Come non accorgersi, infatti, che si tratta di una vecchia distinzione metafisica, mantenuta senza

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che nell’ente in totalità, senza confessarlo, è attivata una funzione che consente di portare l’essere al pensiero con caratteri che solo una considerazione logica può prestargli. Heidegger considera naturalmente un completo fraintendimento la traduzione di questo essere in un conceptus entis uniforme, liscio, generico; ma che il pensiero dell’essere sia ancora un pensiero intellettuale lo dimostra il fatto che si affretta a dire che in esso si dispiega il tutto dell’ente, senza domandarsi donde provenga il potere di sollevare archimedicamente il tutto con un punto di domanda, e senza vedere che tutto è già un’interpretazione logica evidentemente sovraimpressa alla cosa39. Un conto è infatti l’intenzione, un altro sono i mezzi con cui Heidegger poteva proporsi di realizzarla: volens nolens, è infatti ancora in termini logici – o per esser appena un po’ più rispettosi, fenomeno-logici –, con una qualificazione che può offrirsi solo in una visione intellettuale, già platonicamente segmentata, che Heidegger pensa l’aperto circondante. Lo si vede bene se si considera che non sempre l’uomo ha inteso come un tutto (o come un mondo) il luogo in cui viveva. Certo, è sempre possibile dire che non è uomo, nel senso dell’Esserci heideggeriano, l’ente nel cui essere l’essere-nel-mondo non entra come esistenziale, ma lo si può dire solo a prezzo di pesanti e aprioristiche esclusioni.

troppo riguardo al precetto della fenomenologia che impone di descrivere, invece di ragionare? Siccome nel mio pensiero della totalità la totalità non può presentarsi come tale, c’è bisogno di una sede che la offra. Ma la sede viene così trovata a partire da un pensiero che ne comanda l’esigenza: non si tratta in senso stretto del sentito, ma del sentito così come ci viene restituito grazie al lógos, nel resoconto logico-linguistico di esso. 39.  Anche nell’idea di lógos come raccoglimento, più vicina all’etimo della parola (légo = raccolgo), è stabilita una connessione con l’idea di totalità che, lungi dall’essere originaria, non appartiene affatto per essenza alla polymathía o al mŷthos.

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In realtà, benché il concetto ontologico di mondo non ne voglia giustamente sapere, in Heidegger, di enti da contare, esso ha in comune con il mondo che in Husserl costituisce il «fondo ontico dell’intero vivere naturale» il fatto che si profili in uno. In uno non vuol dire «nel suo insieme», come scrive semplicemente Husserl, ma in un caso e nell’altro c’è una realtà intrisa di empiricità che viene messa tra parentesi, per conquistare la forma del mondo40. E i lineamenti di questa messa tra parentesi sono, ancora una volta, intellettuali: non nel senso di una supposta facoltà, ma nel senso di un tratto portante del plesso logico-metafisico in cui ci aggiriamo. L’altra, e più rilevante, retrocessione surrettizia al fondamento di ciò che appartiene al fondato fa sì che anche la verità dell’essere, la verità dell’origine, sia posta comunque da Heidegger nella forma del rapporto. La verità si dispiega come un certo riferirsi – poco importa se questo sia pensato come più originario rispetto ai termini che unisce nel riferimento, o invece come posteriore ad essi (come accade nel semplice conformarsi all’ente). Non c’è verità senza relazione, e nulla cambia che questa relazione sia relazione alla verità o che la verità sia questa stessa relazione, il relare stesso41. Vien fatto di

40.  Il passo di Husserl che stiamo utilizzando è in E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, Seconda Meditazione, § 15, p. 83: «Il mondo nel suo insieme viene consaputo nella sua forma propria come spazio-temporalmente indefinito. […] permane come l’uno ed unico universo come fondo ontico dell’intero vivere naturale». 41.  Tra i molti testi heideggeriani che sarebbe possibile addurre, segnaliamo il seguente passo di Tempo ed essere: «Se l’uomo non fosse colui che costantemente riceve e accoglie la donazione recata dallo Es nel ‘si dà presenza’, se ciò che è recato e porto nella donazione non giungesse all’uomo, allora in mancanza di questa donazione l’essere rimarrebbe non solo nascosto e non solo chiuso, ma l’uomo stesso resterebbe escluso dalla portata dello Es gibt Sein. L’uomo non sarebbe uomo» (M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., pp. 115-116). Quest’ultima proposizione, forse dal sen fuggita, tradisce il dire

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domandare se la relatività del vero, che intristisce e stanca in senso relativistico larghi settori di un’esausta filosofia contemporanea, non provenga proprio da questa originaria, ma forse imprudente mossa teorica. E se invece si dovesse prendere in considerazione la possibilità di un sostare intransitivo della verità? Se la verità fosse una sosta piuttosto che un movimento e un riferire? Con ciò non intendiamo suggerire di ripristinare i tradizionali attributi metafisici della verità (permanenza, eternità, immobilità, ecc.), perché anzi ciò che è proprio della metafisica è il movimento verso la verità pensata sotto quegli attributi e il riferirsi ad essa: il movimento-verso, e dunque ancora la relazione. Possiamo ora compiere un ulteriore passo, nel delineare i contorni del plesso logico-metafisico. Se la verità è pensata come conformità, sulla base di un certo fronteggiamento e di un confronto, la conoscenza della verità viene pensata come conoscenza intellettuale. Il confronto è un confronto intellettuale, s’è detto. “Intellettuale” non indica qui l’intervento positivo di qualche facoltà presupposta, di cui per esempio si fosse naturalmente dotati, facoltà chiamata a operare il confronto, bensì soltanto, anzitutto, una negazione: si limita cioè a indicare che i termini del confronto e il confrontare stesso non possono appartenere alla medesima dimensione o giacere sullo stesso piano d’immanenza. Condizione ineliminabile del confronto è la distanza teorica. Una distanza

essenziale di Heidegger e lo rivela inaspettatamente esigenziale. Essa ha il suo pari in quest’altra: «Nessun cammino del pensiero, neanche del pensiero metafisico, parte dall’essenza umana per raggiungere l’essere o, inversamente, dall’essere per ritornare all’uomo. Piuttosto ogni cammino va già sempre entro l’intera relazione tra essenza umana ed essere, altrimenti non sarebbe un pensiero» (M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Id., Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1996, p. 137; ultima sott. mia).

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ineliminabile, tale cioè che muovendo da uno dei termini a distanza non è mai possibile giungere all’altro, benché debba pur essere possibile per altro verso abbracciarla tutt’intera, così che non vada smarrito uno dei termini del confronto. Tale distanza è dunque una distanza ideale, e percorrerla è ora una faccenda non materiale ma intellettuale. Già Eraclito, peraltro, diceva che i confini dell’anima non possono essere raggiunti. Ma è Platone (come sempre) il primo che ha operato con tutta chiarezza quel taglio senza del quale la verità logica non sarebbe stata pensata: è il taglio che attraversa la linea tracciata da Socrate nel settimo libro della Repubblica, tra il segmento sensibile e quello intellegibile. A taglio effettuato e in virtù di esso, ecco dunque profilarsi la topica delle facoltà. Da quel taglio si staccano da un lato eikasía e pístis, immaginazione e credenza, attestate sul piano delle immagini sensibili della cosa, dall’altro le facoltà propriamente intellettuali, diánoia e noûs, il pensiero discorsivo e il pensiero intuitivo, l’uno necessario a percorrere l’articolazione interna della cosa-del-con-fronto, l’altro a raccogliere l’articolazione in uno, nella cosa stessa. Abbiamo così tutti gli elementi per dare un giudizio. Questa è infatti la sede naturale, finalmente raggiunta, del dire apofantico, del léghein tì katà tinós. In quella sede si trova ancora la proposizione wittgensteiniana. Essa, assicura l’autore del Tractatus, come mero segno è un fatto (T, § 3.14) e sta nel mondo al pari di ogni altro fatto. E però esprime un pensiero e fornisce quindi un’immagine logica della realtà di cui è immagine. In virtù di questa relazione, dice Wittgenstein, l’immagine «è legata con la realtà; giunge ad essa» (§ 2.1511), anzi «tocca la realtà» (§ 2.1515). In questa sezione del suo capolavoro giovanile, la preoccupazione esclusiva sembra sia quella di spiegare in qual modo un’immagine possa raffigurare la realtà. Lo fa, spiega il filosofo, grazie all’identità della forma logica (§ 2.2). Quel che rimane inspiegato, in verità, è cosa abbia procurato all’immagine non già la sua aderenza

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alla realtà, ma il suo distacco. L’immagine, infatti, non è che un fatto (§ 2.141), come qualunque altra cosa al mondo, e il mondo, a sua volta, non è che la totalità dei fatti (§ 1.1), si divide in fatti (§ 1.2). Però l’immagine rappresenta von außerhalb, «dal di fuori» (§ 2.173): come abbia potuto porsi fuori, cosa le abbia procurato la distanza del fuori, Wittgenstein non lo spiega. E, si può aggiungere, non può spiegarlo in alcun modo, dal momento che subito dopo aver detto che l’immagine rappresenta «dal di fuori», aggiunge che non c’è fuori del fuori: «L’immagine non può tuttavia porsi fuori [außerhalb] della propria forma di rappresentazione» (§ 2.174). Non c’è maniera più efficace di mostrare in qual modo il plesso logico-metafisico si confermi nei propri stessi termini. Come l’ingegnere opera la messa a terra, onde assicurarsi che certe masse non acquistino un potenziale elettrico rispetto al terreno e siano, quindi, fuori tensione, così Wittgenstein, nel Tracatus, mette a terra il pensiero, dandogli espressione in un segno proposizionale, che è un fatto alla stregua di ogni altro fatto. Ma quest’unica dimensione non basta, perché il pensiero si confronta da fuori, e da fuori – cioè ancora una volta da una distanza puramente intellettuale, che non si traccia nel mondo, procura la qualità logica della forma di raffigurazione. «Il mondo è tutto ciò che accade» (§ 1), recita assertoria la prima proposizione del Tractatus, e subito dopo: «Il mondo è la totalità dei fatti» (§ 1.1), ma qualcosa deve pur aggiungersi, se bisogna dire che «i fatti nello spazio logico sono il mondo» (§ 1.13). Ci sono i fatti e c’è, in più, lo spazio logico, ossia il plesso logico-metafisico in cui i fatti valgono come fatti per immagini che li rappresentano come tali von außerhalb. È solo da fuori che i fatti possono articolarsi come fatti42. 42.  Diego Marconi ha descritto felicemente la parabola intellettuale di Wittgenstein, dal Tractatus alle Ricerche, nei termini di una progressiva rinuncia a demarcare, entro il linguaggio, quanto mantiene un rapporto con la realtà da quanto invece gira a vuoto. Alla fine, la filosofia di Wittgenstein riconoscerà «in ogni discorso un aspetto di una forma di vita; ciò che pre-

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Ma si diceva appunto dell’articolazione, di ciò che per Wittgenstein è, nel fatto, un nesso d’oggetti (§ 2.01) e, nel segno proposizionale, un complesso avente una struttura, e non semplicemente «un miscuglio di suoni» (§ 3.141). Aristotele, che ne è stato il primo grande ordinatore, ha mostrato come alla forma del giudizio appartenga necessariamente una sýnthesis, una composizione. Si suole dire che in Aristotele la composizione è fondata nella cosa stessa, mentre in Kant è la composizione a costituire la cosa: l’antico e il moderno. Posto in questi termini, non si tratta di uno spostamento significativo. Vale la messa a terra wittgensteiniana: v’è corrispondenza biunivoca; quel che conta, in sede logica, è l’isomorfismo. Allo stesso modo, rispetto a questa grammatica elementare, al taglio e alla trascendenza che istituisce, le successive partizioni delle facoltà dell’anima, benché non siano trascurabili, non offrono varianti decisive. Quel che è decisivo è infatti che sempre l’anima sia pensata come un luogo duale o plurale, esteso però almeno quanto l’ampiezza del confronto: l’anima è in certo modo tutte le cose, perché in questo certo modo (che è poi il modo intellettuale, non sensibile) può confrontar(si) (con) tutte le cose. Questa ampiezza, questa extensio l’anima possiede anche là dove più nettamente si è affermata l’unità dell’anima, in esplicita rottura con la tradizione: in Descartes, intendiamo. Perché suppone, ovviamente, il passaggio a un punto di vista antropologico, in cui conta, più di ogni altra cosa, che certe espressioni linguistiche siano effettivamente usate» (D. Marconi, Wittgenstein e le ruote che girano a vuoto, in G. Vattimo - P.A. Rovatti [a cura di], Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 180). Quanto ai presupposti, si può solo aggiungere che essi devono riguardare anche la natura di discorso del discorso, una volta che non sia più ancorata in una relazione raffigurativa con le cose, nonché le ragioni del privilegio accordato all’ánthropos nella comprensione di ciò che si dà ormai come una forma di vita, una volta che l’uomo ne è formato molto più di quanto non la formi.

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anche in Descartes, l’anima o mens, sostanza semplice e una, è tuttavia capace sia di immaginazione che di pensiero: non mai solo dell’una o dell’altro. L’ibridazione sensibile, l’intorbidamento della luce pura della mens per la compromissione col corpo, benché sia vissuta come un impedimento e un ostacolo, è tuttavia indispensabile perché il pensiero puro consumi il proprio distacco dalle vestigia sensibili: in e per questa differenza, essa può essere un puro intuitus, una acuminata acies mentis43. In e per questo distacco, è possibile all’anima essere luogo del vero come del falso, e così elevarsi o cadere. In e per esso, è possibile cogliere se stessa o la cosa, denotare o riflettere. E di ciò, della necessità di un’eccedenza, come dello stato di assegnazione dell’intelletto alla sensibilità, tra l’etereo cielo e la greve terra, la colomba di Kant si farà definitivamente consapevole. E a proposito di Kant: a lui si deve la variante forse più significativa, la negazione di un potere intellettuale puro della ragione umana. Forse è sorprendente che, dopo il divieto kantiano, l’intuizione intellettuale conobbe una straordinaria, fortuna44. La sorpresa dipende però molto più dall’attuale clima cultura-

43.  Anche il caso di Leibniz non rappresenta un’eccezione, nonostante l’applicazione del principio di continuità ad ogni regione del reale. Occorre infatti un passaggio al limite perché le linee di frattura cartesiane siano superate. Ma questo passaggio è per la conoscenza umana soltanto ideale, mentre il suo farsi reale comporterebbe non semplicemente la ricomposizione della frattura, ma il collasso di ogni distinzione fra il finito e l’infinito, l’umano e il divino. Sul collasso leibniziano cfr. V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 10-18. Diverso discorso meriterebbe la posizione metafisica, del tutto eccentrica, di Spinoza; abbiamo provato in certo modo a svolgerla in M. Adinolfi, Continuare Spinoza. Un’esercitazione filosofica, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, a cui ci permettiamo di rinviare. 44.  Cfr. X. Tilliette, L’intuition intellectuelle de Kant à Hegel, Vrin, Paris 1995.

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le, a cui danno il tono le filosofie della finitezza, che non dalla disinvoltura dei filosofi post-kantiani. Anche nella psicologia delle facoltà che sorregge la Critica kantiana, il noûs, infatti, non scompare del tutto: la discorsività dell’intelletto rimane comunque nell’orizzonte, sia pure trascendentalmente differito, dell’unità e della totalità. In prossimità della conclusione dell’ana­litica trascendentale, Kant lascia che l’intelletto sia indotto a considerare «il concetto totalmente indeterminato di un ente dell’intelletto – per tale ente deve intendersi un qualcosa in generale, al di là della nostra sensibilità»45, preoccupandosi solo che non venga scambiato per «un concetto determinato di un ente, che potremmo in qualche modo conoscere mediante l’intelletto» (CRP, p. 325). Di quest’ultimo – ovvero del noumeno in senso positivo – Kant dice che non possiamo nemmeno comprendere la possibilità, mentre del primo, del noumeno in senso negativo, che è ottenuto tramite astrazione dall’intuizione sensibile, non dice se non che si tratta di ciò che l’intelletto deve pensare come cosa in sé (als Dinge an sich selbst denken muß), «senza questo rapporto con il nostro modo di intuizione» (ibidem). L’intelletto deve nel senso del müssen,

45.  I. Kant, Critica della ragione pura (= CRP), 2 voll., a cura di G. Colli, Fabbri-Bompiani-Sonzogno-ETAS, Milano 1987, vol. I, p. 325. Si tratta, com’è noto, del capitolo III del libro II, profondamente rimaneggiato nella seconda edizione, dalla quale provengono le citazioni. Per quel che qui rileva, basti dire, a riguardo dei passi corrispondenti della prima edizione, che in essi tocca all’oggetto trascendentale, che la seconda edizione provvede a cancellare, indicare il qualcosa in generale (cfr. p. 328). L’orizzonte di comprensione dell’ente, dunque, rimane il medesimo. Ma nella II edizione non compare più la funzione di offrire un riferimento generale delle apparenze sensibili, che l’oggetto trascendentale svolgeva nella prima Critica. Questo per un verso comporta una chiarificazione e rigorizzazione sul piano fenomenico, dove tutta l’oggettività è ora portata senz’altro dalle categorie, ma dall’altro libera i concetti, benché privi di uso, oltre ogni possibile esperienza, cosa che l’oggetto trascendentale, inseparabile dai data sensibili come loro termine ultimo di riferimento, non consentiva.

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ma Kant sembra quasi farsene un dovere nel senso del sollen, volendo accreditare le categorie dell’intelletto come formatrici legittime dell’orizzonte del qualcosa in generale: un pensiero vuoto e indeterminato non può e non deve – egli avvisa – essere scambiato per l’intuizione di un ente determinato, ma a quel pensiero, pur essendo vuoto e indeterminato, si chiede ancora di approntare il profilo di una cosa. Non abbiamo la cosa, non possiamo destinare alcun oggetto ai concetti intellettuali, ma continuiamo ad avere non problematicamente i concetti stessi. Sono problematici nel loro uso, non però nel loro significato trascendentale, benché l’intera impresa deduzionale consistesse originalmente nel giustificarne l’uso inserendolo nello stato di riferimento dell’io ad ogni possibile esperienza46. E d’altra parte come potrebbe questo significato essere abbandonato, se la cosa del conoscere rimane, e rimane una? È in virtù di questo rimanere una della cosa del conoscere che la cosa in sé di Kant, presa nella triangolazione con i concetti di noumeno e oggetto trascendentale dai cui lacci non si libera mai del tutto, rimane vittima di una profonda ambiguità, se non proprio di un equivoco. La cosa in sé è infatti per un ver46.  L’io kantiano aveva un mondo – in un’esperienza possibile – proprio perché non aveva se stesso: la deduzione dei concetti puri dell’intelletto riusciva solo grazie all’estroversione dell’Io penso, essendo l’unità analitica della semplice rappresentazione: io resa possibile solo da un’unità originariamente sintetica. Il che vuol dire che l’io in tanto fonda la possibilità dell’esperienza, in quanto non ha fondamento in se stesso. La riflessione dell’io non dà un mondo, mentre il rapporto al mondo dà la riflessione (solo una lettura superficiale del criticismo può dunque affibbiargli sbrigativamente l’etichetta di filosofia della coscienza, declinata in senso soggettivistico). Proseguire ancora più a fondo lungo questa impostazione avrebbe condotto Kant verso la domanda. Assicurarsi una riserva di significato trascendentale lo ha condotto invece al primato della ragion pura pratica. Sulla centralità della deduzione per il senso complessivo del progetto kantiano, e delle strade che si dipartono da essa, mi permetto di rinviare a M. Adinolfi, La deduzione trascendentale e il problema della finitezza in Kant, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994.

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so la cosa intangibile e intatta, la cosa fuori da ogni rapporto conoscitivo, e fuori persino da questo fuori, la cosa in stato di non riferimento al soggetto della conoscenza e senza riguardo per esso; per altro verso, è un fine prodotto intellettuale, che essendo ottenuto per mera sottrazione della conoscenza discorsiva dell’intelletto finisce con l’acquisire gli attributi razionali della conoscenza noetica, sia pure volti al negativo. È ben chiaro però che le due cose possono collimare solo per un equivoco, per una sorta di indebito calco puramente intellettuale della cosa, di cui Hegel si sbarazzerà facilmente. Lasciando tuttavia intatto, accanto alla maschera intellettuale appena deposta, l’imperturbato volto della cosa in sé. Poiché, certo, Hegel ha ragione di mostrare che la cosa in sé è un mero nulla di conoscenza, visto che in essa la conoscenza si annulla per definizione, ma con ciò non può eliminare l’alternativa: se si tratti di togliere quel puro nulla che è in questo modo la cosa in sé, o se invece non si tratti di togliere la conoscenza per la quale essa è un vuoto nulla47. Avremo modo di ripresentare quest’alternativa, di riconsiderarne la figura. Intanto, però, può divenir chiaro che la natura intellettuale del confronto nel quale la verità viene pensata come conformità non si limita a registrare un’ovvietà, e che in essa risiedono tanto i misteri della denotazione, l’impossibilità

47.  Notiamo en passant che un analogo trattamento deve ricevere il non poter dubitare di pensare di Descartes. Il quale, anche a voler tutto concedere, non dimostra affatto positivamente, direttamente, che pensiamo, ma solo che non vi è modo di pensare che non pensiamo. Il che è però sin troppo ovvio, e non dovrebbe richiedere una dimostrazione: se non pensiamo, non possiamo neppure pensare di non pensare. Col che però quest’ultima possibilità rimane perfettamente intatta accanto al cogito cartesiano. Se il cogito deve di-mostrarsi nella performatività puntualissima di un atto che è mentre si fa, e si fa mentre è, la possibilità che gli si fa accanto ne circoscrive la riuscita, dal momento che mette da un canto ciò che non si può, in realtà, accantonare: l’ombra del suo fallimento.

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di toccare la cosa, quanto quelli della riflessione, la difficoltà di afferrare se stessi: l’una operazione rimanda all’altra. La riflessione è un effetto di rimbalzo della denotazione; la denotazione non è a sua volta possibile se non in un raddoppio di piani che innesca la spirale riflessiva. Mi do il sé come un oggetto, ma mi do un oggetto solo perché vi rifletto su. E l’una e l’altra manovra urtano contro ciò che le rende possibili, la distanza che le fonda. Sicché non è più ovvio che l’uomo abbia un intelletto, una volta che si sia mostrata l’appartenenza del suo profilo intellettuale a un plesso di idee in solidarietà con le quali soltanto esso emerge. L’uomo è l’animale che ha il lógos: ma questo avere non sta da solo, sta invece (e cade) con una certa idea dell’essere, della verità e del linguaggio. Non è quindi per mero gusto di filosofi che diviene necessario ancora e sempre domandarsi cos’è intelletto e cos’è pensiero, ma è per non cedere a una solo presunta ovvietà del dato. Il che suggerisce certo una qualche sospensione del dato (che è quanto vorremmo eseguire), ma non produce ancora una dimostrazione che il presunto dato naturale è in realtà un costrutto e un’invenzione, poiché per una tale dimostrazione avremmo avuto bisogno di un più veritiero terreno di provenienza a partire dal quale soltanto si potrebbe smascherare l’invenzione come tale. Ma a un tale terreno noi abbiamo rinunciato. Invece dunque di far segno a un’origine dell’umano più antica della sua maschera intellettuale, poiché una tale origine sarebbe comunque pensata non per sé ma retrospettivamente, in vista di ciò che da essa si origina, e perciò, in primo luogo, non compirebbe affatto l’ufficio critico per il quale sarebbe posta appunto all’origine, e in secondo luogo potrebbe non essere altro che una diversa maschera, la maschera dell’origine – invece di tutto ciò, la domanda suggerisce di tenere in sospeso ciò intorno a cui domanda, il suo pensum. Poiché però il suo pensum è proprio il pensiero, e poiché un siffatto sospendere non è altro – almeno così pare – che una certa modalità di esercizio del pensiero, per tale via sembra che non ci si possa non infilare in un’irresolubile apo-

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ria. La filosofia, che peraltro conosce bene quest’aporia contro cui si infrange ogni genere di domandare radicale, ha ritenuto di poter adottare le necessarie contromisure, e s’è data per essa il trattamento appropriato. Domandando cos’è pensiero, si frequenta già il pensiero: la domanda arriva troppo tardi, quando già il pensiero è in esercizio. Questa l’aporia. Ma ben lungi dal reputarla insuperabile, la filosofia volge ora l’aporia in eu-poría: se infatti non riesce alla domanda di arrivare in tempo – si osserva – è perché in tempo sarebbe quella domanda che sorprendesse, per dir così, il pensiero a riposo, inoperoso, nella quieta gora del non pensiero: un’assurdità e un non senso. Proprio il ritardo con cui giunge la domanda è allora il tempo del pensiero, è la temporalità specifica del pensiero e il suo attivo, attuale pensare (temporalità che, ontologizzata, si volta in Heidegger in temporalità autentica). Ma così si vede bene che quello che alla domanda non riesce di fare è quello che, ove mai riuscisse, ben lungi dal rispondere toglierebbe persino la domanda. Il fallimento della domanda è così, in realtà, il suo successo. Il suo ac-cadere è l’accadere del pensiero: è, appunto, pensare. Il pensiero è pensare, venire, anzi, essere venuti pensando. Rispondere alla domanda circa l’essenza del pensiero non è dare il tì estì, ma niente di meno, o di più, che pensare (senza esaurire la domanda). Osservarsi mentre si pensa (mentre si è pensati, o ancor meglio: mentre si è nel pensiero), con la clausola che il pensare non sta mai dal lato di ciò che è osservato, perché lì, e pour cause, non c’è nulla, ma dal lato dell’osservar-si stesso: lato riflessivo e impersonale insieme. Se dunque non si tiene fermo il pensiero nella mira della domanda, è perché la natura del pensiero sta tutta in questo suo non star fermo, non star mai sul posto, ma casomai esservi stato. Il pensiero non è, ma si viene esercitando. Il circolo in cui la domanda pare dunque impigliarsi è nient’altro che l’esercizio stesso del pensiero. Pensare è muoversi in questo circolo: nella maniera giusta, si capisce.

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Sorprendere il pensiero a riposo, inesausto, non più nel presente progressivo nel quale si viene pensando, non più nel suo moto-a, ma nel suo stato-in-luogo: forse questa non è proprio l’assurdità e il non senso di cui s’è detto e che la filosofia a lungo ha ritenuto che fosse, non concedendo neppure a Dio il privilegio di questa suprema inettitudine, ma costringendolo a pensarsi senza posa. Forse la sospensione del pensiero può essere, invece che il modo per il pensiero di esercitarsi ancora e nuovamente su se stesso, il modo per mandarlo in folle (in più di un senso dell’espressione), e tenerlo sul posto benché non in assenza di movimento. La domanda su che cosa significa pensare potrebbe allora mutarsi in un’allocazione del posto del pensiero, in cui il movimento del pensiero sia finalmente de-posto, in una incoscienza a cui non può che indirizzarsi il rimprovero di essere una philosophia pigrorum48. Ma cos’è questa pigrizia se non il sentimento che precede o accompagna lo sforzo con cui il pensiero si porta presso di sé? La forma dell’identità non può nascondere che di uno sforzo si tratta, di una sintesi, di un’impresa che richiede il più grande dispendio di energie morali, come si mostrerà nell’ultimo filosofo che farà su questo sforzo assoluto affidamento, Giovanni Gentile. Il pensiero in atto è una fede, una volontà, un imperativo, un lavoro su se stesso e, ogni volta, la creazione del mondo. Proprio per questo se ne può, a volte, sentire la fatica. Un tale sentire non è di facile collocazione, ma, se vi è motivo di registrarlo, sarà allora in quelle situazioni in cui «il soggetto è quasi spossessato della sua consistenza di soggetto»49. La pigrizia di cui parla Barthes 48.  Il riferimento è a G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, in Id., L’attualismo, intr. di E. Severino, Bompiani, Milano 2014, p. 632. 49.  Cfr. R. Barthes, Osiamo essere pigri. Si tratta dell’intervista pubblicata su «Le Monde Dimanche», 16 settembre 1979, a cura di Christine Eff (compresa anche nella raccolta La grana della voce. Interviste 1962-1980, Einaudi, Torino 1986), e disponibile all’indirizzo: http://www.doppiozero.com/ materiali/lettura/osiamo-essere-pigri, al quale si rimanda per la citazione.

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con queste parole ha qualcosa dell’inerzia che si nasconde nello slancio più sublime, o nell’atto più riuscito. Nonostante la riuscita e a causa della riuscita. Per sottrarci al verso che il pensiero continua incessantemente a percorrere, a onta dei continui contraccolpi, tra i quattro angoli del plesso logico-metafisico in cui viene tessendo il suo bozzolo, bisognerebbe forse concedersi qualcosa del genere, il ralenti in cui il pensare non si è ancora assunto il compito di cominciare a pensare50.

4.  Cos’è la cosa L’essere è il medesimo che il pensiero, sin dal fr. 3 di Parmenide: tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai. Questa medesimezza – identità, unità, equivalenza, reciprocità, coappartenenza, corrispondenza – la filosofia continua a rimeditare in molti modi, i quali sembrano tutti comportare però una certa riduzione51. Dell’essere al pensiero, del pensiero all’essere, di entrambi all’autó cui vengono riportati, benché in genere senza essere risolti in un’identità stretta, in cui non vi è più la relazione fra due. L’effetto di riduzione comportato dal detto di Parmenide consegue comunque dall’impegno a interpretare l’autó come il massimo possibile della relazione, in modo che del pensiero e dell’essere il meno possibile si sottragga all’autó. Tutto quello che è l’essere è il medesimo che è il pensiero. Essere e pensiero non sono però identici: se lo fossero, vi sarebbe solo l’essere o solo il pensiero. Sono dunque due, ma 50.  Abbiamo dato qualche riferimento, utile per chi volesse cimentarsi in una piccola fenomenologia della pigrizia, in M. Adinolfi, L’attualismo di Gentile e la pigrizia del mondo, in «Il Pensiero», LIII, n. 1-2, 2014, pp. 9-28. 51.  In realtà, la storia dell’interpretazione comincia con lo stesso Perì Phýseos: che altro è il v. 34 del fr. 8 – «lo stesso poi è pensare, e ciò a causa del quale è pensiero» – se non un’interpretazione del tò autó?

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la differenza che s’insinua nell’identità e si mantiene in essa è minima, mentre la medesimezza è massima52. Le diverse interpretazioni del detto di Parmenide condividono nel fondo questa impostazione. Vi sarebbe però il caso di esplorare un’altra possibilità, che sia massimo quanto cade nella differenza, e minimo invece ciò che appartiene alla medesimezza. E il caso, ancora, che i differenti siano sì differenti, ma anche indifferenti. In questa nuova parola, in-differenza, affiorerebbe la loro medesimezza: non già in virtù di una mera astrazione dalla differenza, non cioè per un’operazione astraente del tutto estrinseca (agita poi da dove, per conto di chi?), bensì come la natura propria e costitutiva della stessa tautótes. L’identità sarebbe allora una semplice comunanza, nella forma minima del giacere sullo stesso piano, dello stare uno-accanto-all’altro. Lo stesso, ovvero la stessa località: qui, accanto. Il medesimo direbbe allora proprio il più povero accanto, e il compito che la parola di Parmenide ci affiderebbe sarebbe quello di esperire l’in-canto di questo accanto, in cui essere e pensiero si troverebbero in due senza che si costituisse un due. La possibilità di questo pensiero non è ovviamente affidata a un’interpretazione in regola dei frammenti del poema parmenideo53. Per nulla affatto: la partita non è filologica. Essa si con-

52.  Il caso stesso della riduzione dell’un termine all’altro potrebbe peraltro essere trattato come il caso limite in cui la differenza viene semplicemente abolita. 53.  A questo riguardo basti dire che non condividiamo i tentativi di modernizzare Parmenide risolvendo l’eón parmenideo in una nozione logica, non essendovi nel Poema alcuno spazio per operazioni di carattere formale, astraente (da cosa infatti si dovrebbe astrarre?), e dunque nemmeno i tentativi di abbandonare la tradizionale interpretazione monistica dei frammenti parmenidei, che era già di Platone e Aristotele, nonostante non manchi chi oggi, anche autorevolmente, sostiene che Parmenide avrebbe affermato solo l’unità dell’essere di ogni ente, non anche l’unicità dell’essere in quanto tale. Per una rassegna delle principali interpretazioni dell’identità parmenidea

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tenta appunto di essere possibile, anche grazie all’inesauribilità del Poema parmenideo, ma non perché si è ormai autorizzati a dire che, quindi, ogni interpretazione essendo possibile, l’una vale quanto ogni altra, perché una simile autorizzazione avrebbe la pretesa di valere come conclusione, di mettere un punto, di imporsi in forza di un quindi, così sottraendosi a quanto invece afferma. Ciò che diciamo possibile non lo è nel senso della possibilità logica, meramente teorica, rilasciata per una questione di principio. Lo è invece, se lo è, al modo di un essere, di una cosa che c’è e che semplicemente si dispone o depone accanto a ciò che il detto parmenideo ha potuto significare nella storia del pensiero occidentale. Di modo che il plesso logico-metafisico che sin dalla composizione di quei frammenti è sorto riceva, dall’avere accanto a sé questa possibilità, l’aria di un pensiero parimenti possibile, e nient’affatto necessitato. Poiché non c’è dubbio che essere significhi in tutt’altro modo entro la tradizione metafisica. Senza alcuna pretesa di sgranare il rosario dei significati fondamentali dell’essere, o delle parole guida della sua storia, ci limitiamo allora a delineare anzitutto quanto, entro il plesso logico-metafisico, può consentirci di seguire in un unico movimento (senza peraltro ad esso ridurli) larghi tratti della tradizione del pensiero. Quel che segue non è dunque che un rapido dispositivo, con il quale certi pensieri possono essere ordinati, di modo che il loro ordinamento conduca a quel senso della cosa che corre lungo le linee del plesso. Diciamo dunque che essere è determinarsi: preferiamo risistemare così la complessa rete di significati che Heidegger, in particolare, imbastisce intorno al tema della presenza. L’essere è anzitutto l’essere dell’ente, e l’ente è l’essere con la determinazione. In che modo però all’essere può sopravvenire la determiè ancora fondamentale M. Untersteiner: cfr. l’introduzione a Parmenide, Testimonianze e frammenti, testo greco a fronte, intr., tr. e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958, pp. CIII ss.

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nazione? Se essa infatti sopravviene all’essere, non è essere, ma nulla. La prima e fondamentale determinazione dell’essere è perciò di essere appunto ciò che è, di contro al nulla. L’essere è così determinato, già da Parmenide, come la negazione del nulla. All’eón parmenideo non può infatti spettare nessun’altra determinazione se non l’essere: ma proprio così esso si determina come non nulla. Ma l’essere, che è il non-nulla, è già qualcosa: qualcosa e non nulla. L’essere è essere solo di contro al nulla: si profila e ritaglia, quindi, sullo sfondo del nulla. Come l’androgino platonico, l’essere si determina di profilo nel verso del taglio, orlato dal nulla. Quest’orlo inessente, l’assenza che consente all’essere di (s-)tagliarsi nella presenza, di venire alla presenza profilandosi in essa (poiché una presenza totale equivarrebbe a nessuna presenza), è il determinarsi stesso dell’essere. Un tal determinarsi, però, non prevede due stazioni: la prima, in cui vi sia soltanto l’essere, e la seconda, in cui esso si ritaglia per fluire nella determinazione: l’essere è già sempre transitato, per dir così, nella figura determinata dalla contrarietà al nulla. Così, in virtù di questo già sempre, il determinarsi è al contempo un essenziarsi: un darsi dell’ente determinato nella presenza, e un essere già sempre passato dell’essere nell’essenza54. Se riguardiamo ora il profilo dell’essere, e ci teniamo prudentemente entro lo spazio che di volta in volta esso delimita, abbiamo un’ontologia, regionale o generale, dell’ente: una positiva delimitazione categoriale delle sue parti. Se invece lo guardiamo avendo riguardo al movimento del determinarsi dell’essere, del prendere esso figura e profilo dal nulla, abbiamo un’ontolo-

54.  Poiché non è nostro compito percorrere qui l’intero territorio dell’ontologia, segnaliamo solo, molto in breve, che l’essenza ha potuto significare tanto il movimento dell’essere-stato dell’essere, quanto lo stato raggiunto dall’essere nell’ente: tanto dunque la verità dell’essere (la sua riflessione), quanto la verità dell’ente (il suo eidos, l’entità). Tanto Hegel, per dire, quanto Platone.

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gia di tipo dialettico-speculativo, o più debolmente ermeneutico. Se infine guardiamo anzitutto la problematica figura del nulla come custodia e provenienza dell’essere, del nulla inessente che donando all’essere il suo aspetto si tiene però sempre fuori di esso, se guardiamo all’orlo che li apparenta, abbiamo un’ontologia di segno negativo, apofatico. Ovviamente, nessuna filosofia storicamente determinata può essere incasellata così sbrigativamente in uno schema. Benché sia chiaro che è ad Aristotele che si sta pensando, nel confezionare la prima casella, e a Hegel per la seconda, e a Heidegger per la terza, non si tratta che di esemplificazioni. Solo per fare infatti qualche esempio: la próte hýle di Aristotele non sembra concetto inquadrabile nella casella assegnata, ma sembra piuttosto scivolarne via; in Hegel, il raddoppiamento riflessivo della negazione non ha sempre il significato di stabilire una quieta determinazione sostantiva per sé stante, ma a volte di rovinarla; e in Heidegger, nonostante ogni ritrarsi dell’essere, la verità continua a donarsi, ad aver bisogno dell’uomo55. Con ciò tuttavia lo schema non è inutile, perché in certa misura almeno convalida l’individuazione del fattore sotto il quale viene pensato l’essere, del “non” che l’accompagna. Diciamo che l’essere è pensato sotto il “non”, non solo perché l’essere viene pensato nella prospettiva del “non”, ma anche in ragione del dimensionamento che con ciò si produce. E il luogo nel quale esso è massimamente osservabile è ovviamente il Sofista platonico.

55.  A stornare definitivamente il sospetto che si abbia la pretesa di risolvere l’intera storia della filosofia in una combinatoria dei pochi elementi offerti, basti l’osservazione che Platone non è in tale schema compreso (e pour cause, direi tuttavia, dal momento che ne è in certo modo l’orchestratore). Si aggiunga poi che in una prospettiva topologica bisogna guardare dentro la scatola, in parte almeno artificiale, dei nomi e delle opere, per cavarne concetti e gruppi di concetti.

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Socrate: bisogna osar pronunciare il non-essere, e trovare l’ortologhía perì tò mè ón (239b), il giusto modo di dire l’essere. Ma perché bisogna? Cosa accadrebbe se non si trovasse una simile ortologhía? Ebbene, accadrebbe che nell’óntos òn, nel pantelôs òn, nell’essere pieno e perfetto, non sarebbero presenti né kínesis né zoé, né psyché né phrónesis: non movimento, non vita, non anima né pensiero. L’essere sarebbe semnòn kaì ághion, venerabile e santo, ma noûn ouk échon, senza intelligenza (248e-249a). L’intellezione (noûs) implica infatti movimento: senza kínesis, niente intellezione. Se non si vuole cadere in questa conseguenza, bisognerà dunque che tò kinoúmenon kaì kínesin siano. D’altra parte, anche nel caso in cui vi fosse soltanto moto e non quiete, non vi sarebbe noûs. Dunque quiete e movimento, i contrari, debbono essere. L’essere deve perciò fare spazio alla negazione. L’ortologhía perì tò mè ón è necessaria all’intellezione dell’essere: non già per pensare il non-essere, ma proprio per pensare l’essere. E il pensiero dell’essere è il seguente. La relazione di contrarietà, l’enantíosis, può essere ammessa, anzi deve esserlo, perché se così non fosse, se tutto partecipasse a tutto, se tutto si potesse dire di tutto, se ogni cosa avesse la dýnamis epikoinonías, la capacità di accomunarsi con ogni altra, e il moto fosse quiete e la quiete moto, non vi sarebbe pensiero di alcunché. Tale relazione vige dunque, e anzi deve vigere, all’interno dell’essere: se così non fosse, infatti, se i contrari, che fra loro si escludono, non partecipassero entrambi all’essere, neppure sarebbe pensabile la loro contrarietà. Solo dove c’è relazione di partecipazione, koinonía, sýmmixis, là solo vi può essere anche pensabilità. I contrari sono quindi diversi dall’essere e contrari tra di loro; quanto invece all’essere, esso è in primo luogo diverso da entrambi, e deve esserlo, perché se così non fosse, se non fosse diverso da essi, i contrari si identificherebbero e di nuovo tutto precipiterebbe nella confusione, e in secondo luogo non ha a sua volta contrario, e non può averlo, perché se

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lo avesse, se contrario dell’essere si desse, allora esso sarebbe, ed essendo non sarebbe più il contrario dell’essere. Non si può dare dunque enantíon ti tou óntos, il contrario dell’essente, ma éteron mónon, soltanto un diverso. La dimensione dell’essere è allora il “non”. Il dimensionamento produce un abbassamento sub specie entis dell’essere: la pensabilità dell’essere richiede il suo determinarsi come ente, qualcosa di contro a nulla. Quando Frege scrive che afferriamo il contenuto della verità (che è altro dal riconoscerlo come vero) se afferriamo insieme il suo opposto, mostra bene entro quale dimensione si muove ancora il suo pensiero. Per tradurlo con un esempio, se la domanda è: “l’albero è verde?”, ciò che pensiamo implicitamente (in termini logici, non meramente psicologici) è: “l’albero è verde o non è verde?”, e anche quando affermiamo che l’albero è verde, l’altro aspetto di questo pensiero, la possibilità che non lo sia, benché non espressa, vi è compresa, come dimostra la possibilità di porre la domanda: “non è così?”56. Il fondo logico-metafisico del pensiero fregeano si mostra bene nel proposito di dare precedenza al contenuto semantico-concettuale rispetto agli atti giudicativi dell’affermazione e della negazione (proposito condiviso dalla fenomenologia husserliana): ben lungi dal rifiutare l’originarietà della negazione (la negazione è sempre negazione di qualcosa), in realtà un tale proposito gliela assegna (qualcosa è qualcosa solo in quanto non è qualcos’altro). Questa, comunque, la soluzione platonica, lasciata in eredità alla metafisica. Soluzione ragionevole, poiché dell’essere si può ora dire, nonostante Parmenide, che non è, almeno in senso relativo: infatti è diverso (dalla quiete, dal moto, dall’identico, 56.  Cfr. F.L.G. Frege, La negazione. Una ricerca logica, in Id., Ricerche logiche, tr. it. di R. Casati, a cura di M. Di Francesco, intr. di M. Dummett, Guerini e Associati, Milano 1988, pp. 75-98.

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dal diverso); non si può dire invece (anche qui: del tutto ragionevolmente) che non è in senso assoluto, proprio perché esso è, e non è vero che assolutamente l’essere non sia. Soluzione che però rimane manchevole di un punto capitale: se quel che non si può dare, il non-essere, è infatti anche quello che non si può pensare, dal momento che viene escluso da ogni koinonía, in che modo allora si può pensare che non si può dare? Questa difficoltà investe di rimbalzo anche l’essere stesso, del quale si potrà pensare la diversità dagli altri generi supremi, i méghista ghéne, ma non la contrarietà al non essere, poiché neppure la relazione di contrarietà può più costituirsi, una volta che il contrario dell’essere si è dovuto eclissare del tutto, fuori da ogni koinonía. Ma se non si può pensare né dire che l’essere è il contrario del non essere (e neppure, ovviamente, che è diverso da esso), non vi è più nulla che lo distingua dal suo contrario: l’interdetto parmenideo non è soltanto violato limitatamente a to éteron, ma è ribaltato proprio riguardo all’essere stesso. L’essere parmenideo è così posto dinanzi all’alternativa: o precipitare nel punto d’indiscernibilità con ciò che non può essere pensato né detto, oppure distinguersi assolutamente dal nulla, ma potendo far valere questa distinzione solo sul piano dell’ente, come sua determinazione. Quel punto di indiscernibilità o di in-differenza non è però raggiungibile percorrendo le linee del plesso logico-metafisico tracciate da Platone. Il pensiero dell’essere prevede infatti una camera di compensazione per il non-essere, che ne smorza la paradossalità. Camera di decompressione, anzi, in cui la pressione dell’essere viene meno, e c’è spazio non perché il nonessere sia, ma perché almeno significhi. Non vi è essere che corrisponda al non-essere assoluto: benché priva di riferimento, l’espressione ha però significato. L’essere stesso prende a significare: e la copula è proprio il luogo in cui non ne va più dell’essere, ma del significare: così si può significare che il non essere è non essere e non è essere. C’è significato perché c’è un

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dire dell’essere che non fa immediatamente corpo con l’essere, ma si tiene a distanza ideale da esso. C’è significato perché ci sono l’essere e il suo apparire: che non è l’essere, ma il luogo in cui l’essere è inteso e significato, luogo abitato da immagini dell’essere, che sono veramente immagini senza per questo essere al modo dell’essere di cui sono immagini57, al modo cioè dell’óntos òn, luogo in cui il dio Giove può essere fatto oggetto di intenzione, e il non-essere di discorso. Il luogo ideale per pensare l’essere. Nel risolvimento dell’aporetica del nulla che sta al cuore del pensiero di Emanuele Severino, ne La struttura originaria, il tipo di toglimento dell’aporia che fa affidamento su questo luogo ideale è bruscamente respinto, perché per il filosofo bresciano non vi è che un modo di essere e significare. Il significato è, è un essente: confinarlo in uno spazio logico, o mentale, non lo vincolerebbe meno al gran principio di Parmenide per cui ciò che è non può non essere. Anche solo come significato, se è un significato, esso finisce in aporia. D’altra parte, aggiunge Severino, rimane necessario porre il nulla, per costruire l’opposizione fondamentale all’essere: «non porre il nulla significa essere nell’impossibilità di escludere che l’essere sia nulla»58, e cioè, di nuovo, violare l’interdetto del venerando e terribile Eleate. La soluzione dell’aporia poggia su una distinzione che c’è motivo di sospettare non faccia altro che riprendere quella, classica, fra essere formale ed essere obiettivo, rappresentativo, dell’idea. Severino spacca in due lati il significato di nulla: un lato è il positivo significare del nulla, ossia l’esse formale, l’altro lato è il significato incontraddittorio di nulla, ossia l’esse 57.  Questo impedisce ovviamente di porre sensatamente domanda intorno all’essere del pensiero. Col che la misteriosità del pensiero, se non dilegua, viene però circoscritta, perché essa risulta essere un effetto di una certa costituzione logico-ontologica del plesso. 58.  E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 211.

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objectivum. Proprio così si accende la contraddizione, e proprio grazie alla contraddizione fra questi due lati, o momenti, accade che «sussista il significato autocontraddittorio in cui consiste quell’essere del non essere»59. Tutta l’attenzione si sposta ora su questa singolare sussistenza. Severino avverte l’obiezione che potrebbe sollevarsi qui, che cioè nella risoluzione dell’apo­ ria, richiesta dall’incontrastabile ossequio al principio di non contraddizione, si è in realtà giunti al paradosso indifendibile di lasciar essere qualcosa di autocontraddittorio, visto che significare ed essere idem sunt. La risposta è in queste parole: «Questa auto­contraddittorietà è infatti posta come tale, e quindi non è lasciata sussistere come un che di incontraddittorio […]. [Il principio di non contraddizione] non esige che non esistano significati autocontraddittori, ma che l’autocontraddittorietà sia come tolta»60. Ora, però, sarebbe almeno necessario condurre a fondo il chiarimento circa questo essere come tolto. Essere come tolto è ancora essere, oppure no? E cosa è tolto? Questa domanda non richiede forse che il tolto sia, per il tempo necessario al suo toglimento? E d’altra parte, non deve esservi un significato comune sotto il quale possa ricondursi 1) tutto ciò di cui si dice semplicemente che è, e 2) ciò che invece è, sì, però come tolto? La domanda è il calco di quella che Severino ha sempre sollevato a proposito della differenza ontologica di Heidegger: l’essere che non è l’ente è pur sempre etwas Seiendes: c’è quindi un significato esteso di essere, che consiste nel non essere un nulla assoluto, che accomuna tanto l’essere quanto l’ente (e addio differenza ontologica). Allo stesso modo, si mostra qui un accomunamento del genere, quando si domanda se questo essere come tolto – e non solo un suo momento – non sia ancora qualcosa, se nel suo essere come tolto esso non sia, e se dunque non si consegni di nuovo all’aporia. 59.  Ivi, p. 216 (sott. mia). 60.  Ivi, pp. 216-217.

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In realtà, l’aporia del nulla e il suo risolvimento frequentano, senza ammetterlo esplicitamente, quella camera di decompressione (di significazione) che si è costruita con i materiali del Sofista platonico, dove l’essere, per potersi determinare come essere, prende a significare61. Per quanto non lo si possa dire con questa schiettezza, che comprometterebbe il compatto parmenidismo della struttura, anche l’essere come tolto di Severino non è, insomma, óntos òn. Anche la significazione di Severino fa uso della negazione; anche il significato di Severino si stabilisce a qualche distanza dall’essere in quanto tale, lo determina e lo pensa sub specie negationis, e per farlo ha bisogno di prendere le necessarie distanze. L’essere che si determina è dunque l’essere-pensato. Il tratto che unisce l’essere al pensiero apre la dimensione per cui c’è da una parte l’essere (qualcosa e non nulla), dall’altra il pensiero (il “non” dell’essere per cui l’essere è pensato). Nel tratto, 61.  Si consideri quest’altra formulazione: «Il costituirsi del principio di non contraddizione non esige pertanto che l’autocontraddittorietà del significato “nulla” non sia tolta, ma esige il campo semantico costituito da questo significato autocontraddittorio» (ibidem). Proviamo a spiegare: il principio di non contraddizione, che pensa l’opposizione fondamentale di essere e nulla, pone il nulla. Ma, aggiunge Severino, la posizione del nulla non è la posizione di un significato da cui sia tolta l’autocontraddittorietà, ossia: per essere posto, per stare dinanzi all’essere, non è richiesto dal principio che il nulla sussista intatto nella sua autocontraddittorietà, ma è richiesto però il campo semantico dell’autocontraddittorietà. E sotto l’espressione «campo semantico», si dà un nom de plume all’essere come tolto, e in realtà si introduce il nulla come significato logico, sgravato dal peso troppo compatto dell’essere parmenideo. In nota Severino fa osservare che l’autocontraddittorietà si accende fra due momenti che, in loro stessi, sono incontraddittori: il nulla infatti è nulla, e il positivo significare è il positivo significare. Il fatto è che però ciò che è detto sussistere non è semplicemente l’un momento accanto all’altro, ma la loro sintesi, alla quale Severino non può rinunciare. E però anche a questa sintesi, non solo ai suoi momenti, dovrà toccare l’essere. Sull’insuperabile aporeticità della struttura originaria è imperniata l’originale proposta teoretica di M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano 2008.

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essere e pensiero sono con-tratti insieme: col che intendiamo tanto l’essere (sotto-)dimensionato dell’essere, quanto il suo esservi tratto in uno col pensiero. È quindi del tutto insufficiente ritenere che la negazione sia soltanto l’opera con la quale il pensiero solca e divide il quieto mare dell’essere, come se bastasse, per dir così, detrarre il pensiero per ottenere, nella sua positività originaria, l’essere puro62: un simile modo di rappresentarsi la cosa merita l’obiezione di Hegel, che al metodologismo di Kant rimproverava di compiere la medesima mossa, di pretendere cioè di sottrarre alla cosa conosciuta per mezzo della conoscenza questo mezzo stesso. Che poi si stringa tra le mani il nulla della cosa in sé, o ci si imbatta reverentemente nel Tutto, o in non si sa quale Oggetto Immenso, l’errore è sempre il medesimo. In realtà, una semplice sottrazione non può essere eseguita poiché essere e pensiero non sono membri indipendenti della relazione, ma sono con-tratti in essa. E la negazione non è una proprietà del pensiero più di quanto lo sia dell’essere stesso che in essa si determina: è piuttosto il giunto che li costituisce come tali, che li unisce e separa. Separandoli li unisce e unendoli li separa. Essere è determinarsi, e la determinazione è ciò che dell’essere pensa il pensiero: l’essere questa o quella cosa di ciò che è. In questo modo, l’essere è pensato universalmente: non è quindi incontrato prima come una puntiforme e piatta distesa di qui e ora, solo in seguito determinata a rilievo, come cosa formata, ma è subito, in se stesso, questa cosa formata. Come 62.  Quando Emanuele Severino chiama errore e follia dell’Occidente la dóxa secondo la quale le cose divengono, provengono dal non-essere e al non-essere fanno ritorno, pone ancora il pensiero come luogo in cui è negata la pura positività originaria dell’essere, e pensa ancora l’essere per mera sottrazione della determinazione/negazione del pensiero. In tal modo, nonostante il mutamento di segno per cui è inteso come follia ciò che invece l’Occidente intende in generale come dimensione dell’essere e del vero, il complesso ontologico parmenideo-platonico non viene affatto mutato.

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d’altronde potrebbero essere detti o pensati un singolo “qui” o un singolo “ora” che non avessero altra proprietà che di essere questi “qui” e “ora”? Che la verità del singolare sia l’universale, secondo la lezione fenomenologica di Hegel, non significa che il questo singolo non c’è, ma che l’incontro con esso è sempre mediato dal concetto. Non dunque che l’individuale non c’è, ma che esso c’è previa individuazione. Sulla determinazione previa bisogna però intendersi. Perché essa indica, com’è ovvio, una precedenza logica, non genetica o cronologica, ma questa precedenza logica va intesa radicalmente a questo modo: l’empirico e il logico sorgono insieme, l’uno per l’altro, ma in modo tale che il logico preceda l’empirico. La precedenza è dunque una precedenza logica nel senso che il logico si costituisce come questa precedenza. In quanto poi l’empirico e il logico sono tali solo l’uno di fronte all’altro, non ha alcun senso giocare l’empirico contro il concettuale. L’empirismo non è affatto fuori del platonismo della filosofia. (Ma non ha neppure senso il compito di pensare quel tal sorgere insieme, il tratto della mutua con-trazione, se nell’esercizio di un tal compito il pensare che lo esegue non è modificato, persino trasformato, rispetto alla sua figura contratta). Il pensiero converte dunque l’essere in idea, perché lo pensa determinatamente: come questa o quella cosa. La cosa ha sempre l’aspetto di questa o quella cosa e ogni cosa ha più di un aspetto. L’universale è l’aspetto o la forma della determinazione. La forma non è una proprietà aggiunta alla determinazione, ma è la determinazione stessa in quanto pensata. In quanto concetto, anche “essere” è una determinazione universale di ciò che è. “L’essere è essere” non è dunque soltanto una tautologia, ma è il pensiero di quello che è nella forma dell’essere: pensiero dell’òn ê on, dell’essere preso come essere. In questa presa, è com-preso tutto ciò che è: ma è com-preso sempre nell’in-quanto. Non vi è universalità che non sia quindi solcata da un limite. Il tutto non è perciò una semplice somma, bensì

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una modalità. Ed è solo entro una determinata com-prensione di ciò che è che si possono sommare le cose che sono (in quanto sono o in quanto sono queste o quelle)63. Non c’è quindi, per questo pensiero, un unico mondo, ma ci sono infiniti mondi. Ogni mondo ha l’aspetto di un mondo. E ciascun mondo è quindi la figura di un mondo sullo sfondo di infiniti altri mondi. Altri mondi sono possibili. La possibilità non costituisce un’articolazione o un rapporto ulteriore rispetto al semplice essere della determinazione, come se questa ne potesse, almeno astrattamente, fare a meno. Piuttosto, ogni determinazione, proprio in quanto determinazione, è possibile o esistente o necessaria. Possibilità, esistenza e necessità, a loro volta, non si affiancano semplicemente l’una all’altra entro il plesso logicometafisico, ma si dispongono in maniera ordinata, e quest’ordine conosce due varianti. Ciascuna determinazione logica è infatti innanzitutto soltanto possibile: esposta alla possibilità del suo “non”, che ne fa peraltro la determinazione che è, e quindi in sé e per sé negabile. In tal caso, la necessità appartiene soltanto alla determinazione formalmente considerata, alla determinazione pensata, mentre l’esistenza di fatto viene preservata dall’assorbimento entro la necessità a condizione (dura condizione) di non essere pensata. Condizione cui, ad esempio, Kant intese attenersi, avanzando la tesi dell’essere come posizione assoluta, e che anche il primo Wittgenstein volle rispettare, consegnando l’inesplicabile esistenza del mondo al silenzio della mistica. Condizione che invece cade là dove 63.  Una totalità concreta e assoluta di ciò che è non si può dunque dare, poiché non si possono sommare tutti gli aspetti delle cose, né si possono separare le cose dai loro aspetti: «identificare la totalità del reale con la totalità dell’essere, e quindi assolutizzare il reale, è una assurdità. Una realtà assoluta vale quanto un quadrato rotondo» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica [= Idee I-III], 2 voll., nuova ed. a cura di V. Costa, intr. di E. Franzini, Einaudi, Torino 2002, § 55, vol. I, p. 140).

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l’esistenza della determinazione non viene separata dalla determinazione stessa, e dove – con maggiore conseguenzialità – la sua posizione nell’esistenza, essendo sempre relativa, non è mai indeducibile, e senza ragione64. Così accade per esempio in Leibniz, le cui verità di fatto sono lontane dalle verità di ragione solo quoad nos, ma non per Dio, o in Hegel, dove, come già prima in Aristotele, il possibile non può rimanere soltanto possibile, perché, non realizzandosi mai, non che essere reale, non sarebbe neppure possibile. Dunque è necessario che si realizzi: próteron enérgheia dynámeós (Aristotele, Metafisica, 1049b 5; 1072a 9)65. E con questa parola, il plesso logico-metafisico riceve la sua definitiva consacrazione, assorbe ciò che ad esso potrebbe sottrarsi e si conclude in se stesso.

64.  Diciamo con maggiore consequenzialità, perché è sì vero che al plesso logico-metafisico appartiene la distinzione tra forma e contenuto, ma non è però necessario che questa distinzione sia del tutto rigida e immobile: è ben possibile che quel che entro un determinato contesto vale come contenuto, valga come forma entro un altro. Non si vede allora perché soltanto l’esistenza debba essere sciolta assolutamente da ogni legame formale, da ogni relazione a un contesto che la determini come tale (e determinandola, la fondi come esistenza reale e non meramente effettiva, casuale). 65.  La traduzione che utilizzeremo è Aristotele, Metafisica, testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004.

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Capitolo II

Verso la domanda – prima che accada

1.  Il primo: l’immediato La questione filosofica che riguarda il plesso logico-metafisico e ne rende necessaria la critica può essere formulata nella maniera più astratta come segue: in esso due termini vengono distinti per essere poi uniti. Unità della distinzione, identità (dell’identità e) della differenza, correlazione universale1. Ciò vale da Platone almeno fino al Wittgenstein del Tractatus. E vale per il nostro comune buon senso, che frequenta con disinvoltura distinzioni metafisiche delle quali non è consapevole (né per la verità gli occorre di esserlo). Si possono dare varianti diverse della medesima questione (nessuna delle quali potrà essere studiata in questa sede per se stessa) secondo che i due termini distinti e riferiti siano presentati come lógos e on, soggetto e

1.  «Parmenide è la soluzione cercata: l’orizzonte dell’intero può realizzarsi solo in quanto si apra come orizzonte dell’essere; ossia l’essere è ciò per cui si costituisce l’intero, e quindi è ciò per cui il molteplice è unità» (E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 533). Questa citazione vale per noi come un segnaposto: l’essere è l’orizzonte, ed è ciò per cui il molteplice è unità, e in questo senso segna il posto dell’Occidente. Che in questo modo sia anche la soluzione, rimane invece come ricerca.

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oggetto, intenzione e riempimento, ecc.: si disegna sempre la medesima aporia. E nel disegno stesso di quest’aporia sono anche i modi con i quali essa è stata affrontata: se il problema è infatti come riferire i distinti, la sua soluzione sarà o che in realtà i distinti, benché distinti o proprio perché distinti, sono già da sempre in stato di riferimento l’uno all’altro, in un luogo terzo che li accomuna e in cui essi succedono; o che i distinti, ancor prima di essere distinti, sono, in un punto o per un lato almeno, non già distinti ma uniti, in una primità (non necessariamente cronologica, ma certo logica o ontologica), che precede ed è condizione di ogni successiva distinzione. L’apertura di una forbice fra due ordini di priorità, fra il quoad nos e l’in se, è anzi solitamente il segnale che in qualche punto dovrà pur compiersi una forma di nóesis noéseos, e incontrarsi e toccarsi l’unum atque idem dell’intuizione, poiché è necessario che gli ordini che corrono su piani diversi coincidano in un punto, senza di che non potrebbero essere gli ordini di uno stesso, i coappartenenti di tò autó. Nella prima invenzione metafisica, in Parmenide, l’unità prevale in maniera tale che la distinzione può introdursi nel Poema solo se non viene pensata. Ciò che viene pensato è infatti l’identità di pensiero ed essere. Se però pensiero fosse già, nel detto parmenideo, il lógos “logico” della filosofia2, allora noi potremmo in vario modo far vacillare l’autó che lo stringe in uno con l’essere. Potremmo domandare, ad esempio, da dove è osservata l’unità di pensiero ed essere, che ne è del pensiero che

2.  Il noeîn del fr. 3 non è infatti il lógos al cui giudizio critico (krînai dè lógoi), la dea chiede di tenere la giusta via, nel fr. 7, v. 5. Quanto alla collocazione dei versi di Parmenide sulla soglia inaugurale del pensiero occidentale, fra mŷthos e lógos, cfr. C. Sini, Metodo e filosofia, Unicopli, Milano 1986 (sulla crisi del pensiero, cfr. in particolare cap. III).

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la pensa, come possano essere aperte all’intelligenza non una ma due vie, benché il mŷthos sia uno, e come la dea possa dire e come il koreus possa intendere ciò che non può essere conosciuto, né afferrato, né espresso. Flagrante contraddizione, che la dea dia a intendere quel che dichiara non poter essere inteso e che pronunci l’impronunciabile, l’anóeton anónymon, l’incomprensibile senza nome. Contraddizione in cui è contenuto forse un certo destino sacrilego del lógos, ma che non può essere certo imputata qua talis al mŷthos di potere e di seduzione che la dea racconta, ancor prima che un certo regime logico venga istituito. Con questo non intendiamo affatto espellere la parola del Poe­ ma dal dominio della filosofia. A ragione è stato fatto rilevare che nel cruciale fr. 3, nel quale è in gioco l’autó di essere e pensiero, si tratta non della diánoia né del lógos, non certo di una ratio discorsiva o di un pensiero rappresentativo, ma del diverso orizzonte semantico del noeîn, il quale appartiene alla famiglia di concetti accomunata dall’idea di un afferramento intuitivo, piuttosto che alle mediatezze raziocinanti dell’intelletto. Com’è noto, però, questa opposizione è ancora tutta intera situabile ben dentro il complesso logico-metafisico dell’Occidente, e dunque non è giocando il noeîn contro il lógos che ci si potrà portare nel luogo mitico dell’incontro con la dea e la sua rotonda verità. A meno di non spostare il significato di noeîn così tanto da farne una forma fredda, intellettuale, di entusiasmo: essere ed essere in dio (en theou) sarebbero allora lo stesso. Il fatto è che la dea non detta soltanto la parola, ma chiede anche di giudicare, giudicare con il lógos (krînai dè lógoi) i sémata della verità: la non generazione, la non corruzione, il non moto, la non cessazione dell’essere. È difficile non riconoscere la forza logica con cui, nel fr. 8, l’essere viene progressivamente, ma anche negativamente, determinato dall’informulabile divieto di

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pensare o dire il non essere. Il che però non basta neppure per concludere che allora i frammenti sono senz’altro pezzi di un sistema rigorosamente filosofico e che il racconto del viaggio sul carro è solo una concessione al fantastico mondo del mito, o peggio ai gusti letterari dell’epoca. Il divieto e la persuasione, la giustizia e la colpa, e lo stesso dislivello fra il lógos pístos della dea e l’ascolto del koreus allestiscono ben altra scena che non un agonistico dialogo filosofico in stile socratico. Forse però l’istruzione più interessante che possiamo trarre da questa figura ancipite, in bilico fra il dettato mitico e la dimostrazione filosofica, almeno a guardarla ancora dalla parte di quest’ultima, è che il lógos dell’essere viene intessuto intorno a un punto – l’identità assoluta, tò autó – che quel lógos non riesce a contenere, benché non possa non girare intorno ad esso, come una falena intorno alla fonte luminosa che l’ucciderà. Noi abbiamo posto l’aporetica del plesso logico-metafisico nei termini di un’unità dei distinti, unità che i distinti reclamano e respingono a un tempo. O dunque la filosofia si attrezza per pensare questo rimbalzo dall’unità alla distinzione, ed è lo schema di soluzione terziario che vedremo adottato in un impianto di tipo dialettico o ermeneutico, oppure si fornisce di un organo primario con il quale portarsi prima della distinzione, nel calor bianco dell’unità cui i distinti si riferiscono e da cui provengono. Questo organo può anche essere indicato come intuizione, nulla in contrario, ma quel che è decisivo non è se il termine traduca il senso esatto del noeîn parmenideo, e neppure a chi sia assegnato, se ad esempio all’uomo o a Dio, bensì il suo tópos: il fatto che esso stia come su una cima, raggiunta la quale non è però più possibile (e pensabile) discesa che non sia caduta, frattura3. Vi possono essere gradini per salire, non 3.  «Nel punto in cui si giunge a dimostrare la necessità dell’Uno per il molteplice, si pone la questione del passaggio, della “discesa”, dall’Uno ai molti. E, nonché “facilis”, il “descensus Averno” è ancor più arduo che “revocare

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per discendere: una volta giunti in cima, non c’è più nulla che giustifichi l’odós (poi il metodo) che ha condotto sin lassù. Così anche nel Poema: c’è la via lungo la quale sono disseminati i sémata, che il giudizio deve percorrere, ma c’è anche la rotonda e intatta sfericità della verità priva di ogni accesso, di vestibula o gradi. Ponendosi nel punto d’origine del mŷthos della dea, non è inesplicabile soltanto come vi possa essere una verosimiglianza a fianco alla verità, un altro discorso accanto al discorso vero e persuasivo della dea, ma persino che vi possa essere una pluralità di segni che alla verità conduca: un’articolazione e determinazione plurale della verità. Ancora di più: il pensiero contenuto nella rivelazione della dea non è certo quello con il quale viene narrato il proemio, è in contraddizione con esso. Giunti dinanzi alla dea, non vi è più un esser-giunti e un esser-dinanzi; varcati i grandi battenti della porta e ammessi al cospetto della dea, non vi possono più essere (neppure come favola letteraria) carri e cavalle e fanciulle: non i battenti, non la porta, e neppure un essere-a-cospetto. Un esser due: la dea che parla e il mortale che ascolta. Ovviamente, la contraddizione segnalata non inficia affatto il mito, ciò non avrebbe senso, ma rivela la debolezza della complessione logica, che vi verrà elaborata sopra: confitta nella verità dell’identità, perde se stessa, la propria differenza, e se invece si mantiene in questa, perde quella. È la difficile partita giocata da Platone, la sua improba fatica (e, molto tempo dopo, il lavoro del concetto). La filosofia è dialettica, esercizio del pensiero con il quale i molti vengono raccolti in uno. Ma, a raccolta avvenuta, non vi è più ragione perché se ne stiano come molti fuori dall’unità. Perché l’abitante della pianura della verità dovrebbe calarsi nuovamente nel buio

gradum superasque evadere ad auras”. In filosofia – almeno» (V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, p. 146).

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antro dal quale proviene? Perché l’anima deve precipitare in un corpo, e dimenticare il vero? Perché dall’Uno-Uno l’Unoche-è-molti? I molti rinviano all’uno, il corpo non può essersi posto da sé, e le ombre nella caverna rimandano agli oggetti di cui sono l’ombra. Dall’ombra agli oggetti: ma perché dagli oggetti l’ombra? Perché il corpo, in generale? Perché i molti? L’aporia non concerne l’ontologia più che la gnoseologia o la psicologia, poiché tutte queste -logìe sono intimamente solidali tra di loro (e perché simili distinzioni non appartengono ancora alla compagine platonica, ma saranno istituite solo dopo, nell’enciclopedia aristotelica delle scienze). E di tale aporia Platone era peraltro perfettamente consapevole, se è vero che a denunciare l’asthéneia, la debolezza del lógos, è lui stesso, nella Settima lettera (341-342). La verità della cosa non può disperdersi nella molteplicità dei discorsi: è una, intima, sola, e cade in un punto in cui è tolta ogni distanza tra la cosa stessa e la sua rivelazione. Per questo la verità non può essere affidata ai discorsi scritti, ma solo alla comunicazione diretta, spirituale, da essa sola all’anima sola. Anzi neppure: qui vi è persino un mónos di troppo, poiché non vi possono essere due solitudini. Dunque una stessa e unica buona natura (euphyía), una strettissima affinità e un’impartecipabile amicizia; e come in ogni comunicazione personale e autentica, non vi sono regole in cui possa essere tradotta e resa esplicita la trasmissione di ciò che è da sapere a chi ha da sapere. Sono possibili preliminari, ma il limen non può essere superato se non con un salto. Essere superato o esserlo stato: in mancanza del lógos, non si può cogliere, per dir così, l’evento sul fatto. La scintilla scocca quando scocca, come lo spirito che soffia dove vuole – e come l’intuizione, che accade quando accade, non potendo essa essere, per dir così, causata dall’esterno o dedotta da un sapere, e dovendo essere vissuta necessariamente in prima persona, nel privilegio del solus ipse. In questa completa adesione dell’anima all’óntos òn, o all’ipsissima veritas, in questa assoluta con-generità,

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syn-ghéneia, che si rapprende sino alla più completa unione (sino al paradosso in cui il syn, la comunione, si perfeziona e consuma nell’unità), si ritrova l’identità parmenidea del noeîn con l’oúneken ésti nóema del fr. 8. E si ritroveranno ancora, in seguito, molte altre cose, perché è già qui il fondamento di una metafisica della persona che ne fa una posizione irriducibile, senza saper vedere in questa irriducibilità non un dato ontologico assoluto, ma il possibile effetto di una certa idea della verità, dell’essere e dell’anima. Il punto però che ci interessa non è ascoltare questa compunta preghiera dello spirito, o ficcanasare dentro l’invenzione dell’inviolabile intimità della persona. Quel che ci interessa è ciò che lo spirito è chiamato a riempire e in ragione di cui sta: in generale, i vuoti sopra i quali il lógos non può gettare i suoi ponti. È un vuoto, infatti, quello che separa l’idea di grandezza in sé dai molti che somigliano all’idea di grandezza, e che insieme con l’idea cui partecipano costituiscono una nuova molteplicità e una nuova grandezza per la quale occorrerà pure una nuova idea che accrescerà la prima molteplicità e grandezza, e così via all’infinito. È l’argomento che, nella formulazione che ne diede Aristotele con l’intenzione di criticare la separatezza delle idee platoniche, è conosciuto come argomento del terzo uomo, e che lo stesso Platone espose già nel Parmenide (132a-b). Argomento che non dimostra soltanto la debolezza del chorismós platonico, e la necessità di far discendere l’idea dalle altezze dell’iperuranio giù nelle viscere della materia, poiché la difficoltà investe in generale il lógos, e il modo con il quale esso pensa il rapporto fra la cosa e la sua verità, ovunque questa verità si collochi. Il tópos dell’intuizione proviene proprio da questa difficoltà. La difficoltà è peraltro del tutto analoga a quella già reperita nel Cratilo: cosa fa di un’immagine un’immagine? Certo occorre che l’immagine somigli alla realtà di cui è immagine, ma oc-

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corre anche che l’immagine non sia identica alla realtà, perché in tal caso «tutte le cose diventerebbero doppie» (432b-e). Se le immagini avessero «tutte le caratteristiche delle cose di cui sono immagini», non si potrebbero più distinguere le cose dalle loro immagini, e non si potrebbe più dire qual è Cratilo e qual è l’immagine di Cratilo4. Ma se è necessario che l’immagine di Cratilo non sia Cratilo, in che modo è però ancora l’immagine di Cratilo? Una volta insinuatasi una distanza fra Cratilo e la sua immagine, rimarrà sempre aperta – almeno in linea di principio – la possibilità che qualunque cosa sia l’immagine di Cratilo. Dove e come, infatti, fissare in maniera univoca la differenza fra il mero fungere da immagine e l’essere veramente immagine, fra l’immagine naturale e quella convenzionale? Dove e come distinguere con nettezza, nell’immagine, lo stile proprio della cosa immaginata, e lo stile proprio dell’immagine stessa? Questo problema è stato al centro del dibattito sull’iconismo, assai vivace nell’ambito degli studi semiologici: dove fissare la soglia inferiore, come la chiamava Umberto Eco, quel punto in cui non è più questione di segni, dunque di regole, mediazioni e convenzioni. Ma il problema è già ben visibile in Peirce, nella tricotomia dei segni, distinti in indici, icone e simboli. Fermiamoci sulla definizione di icona, per la quale non è disponibile un rapporto fisico, causale, fra il segno e l’oggetto, né una legge che li metta in rapporto. L’icona denota l’oggetto, scriveva il filosofo americano, in virtù dei caratteri suoi propri5. Su tali 4.  Una simile domanda è al centro del lavoro di molti artisti contemporanei. Per esempio di Marcel Duchamp, la cui opera è un costante esercizio sul luogo dell’immagine e sul suo statuto. Più in generale, il ready-made si propone di raggiungere l’in-differenza di oggetto e immagine tramite l’esibizione dell’oggetto stesso nel luogo dell’immagine. Su ciò, cfr. l’analisi di G. Franck in Esistenza e fantasma. Ontologia dell’oggetto estetico, Feltrinelli, Milano 1989. 5.  «Un’Icona è un segno che si riferisce all’Oggetto che essa denota semplicemente in virtù dei caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso

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caratteri poggia la somiglianza, senza che però i caratteri in questione siano in una relazione fisica, materiale o formale, astratta, con ciò a cui somigliano. I caratteri dell’icona per cui essa somiglia al suo oggetto non possono, evidentemente, essere segni nel senso di effetti, o indici, della somiglianza, o di elementi convenzionalmente posti a significare la somiglianza. Ma questo implica anche che della relazione non si può rendere conto nei termini di un sapere (di ordine causale o simbolico), che spieghi la relazione fra l’icona e l’oggetto. Peirce forse non si avvede di quanto dirompente sia questa idea di una relazione segnica che poggia su qualche carattere che il segno ha in se stesso, di cui però non si può dire nient’altro. Per il filosofo, infatti, una relazione segnica è sempre una relazione triadica, ed è sempre per un terzo, per l’interpretante, che il segno significa l’oggetto. Ma questa funzione ora collassa del tutto: in che senso l’interpretante interpreta, se non c’è un sapere, una legalità causale o simbolica, a cui ricondurre la relazione fra l’icona e il suo oggetto? L’interpretante interpreta A come icona, somigliante a (e in virtù di questa somiglianza significante) B. Ma se si domanda ulteriormente in virtù di che l’interpretante fa quel che fa, non c’è risposta che non sia puramente tautologica: in virtù di sé, dei caratteri che ha in se stesso, di che altro? Diversamente da quanto accade per gli altri tipi di segni, qui dunque l’interpretante non apporta nulla alla relazione fra l’icona e l’oggetto. Non c’è un pensiero dell’immagine: dell’immagine, nel senso dell’icona di Peirce, non si può dar conto.

identico modo, sia che un tale Oggetto esista effettivamente, sia che non esista […]. Una cosa qualsiasi, sia essa una qualità, o individuo esistente, o legge, è un’Icona di qualcosa, nella misura in cui è simile a quella cosa ed è usata come segno di essa» (Ch.S. Peirce, Opere, a cura di M.A. Bonfantini, con la collaborazione di G. Proni, Bompiani, Milano 2003, § 2.247, p. 153).

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Orbene, questo può condurre a due esiti diversi: a individuare nel cuore della semiosi quel punto in cui la relazione segnica cede e può al più assumere le vesti dell’ossimoro – fingendo cioè una relazione diretta che se è diretta non è relazione, e se è relazione non è diretta, im-mediata – per non confessare l’incontro intuitivo con la cosa; oppure a rinunciare, con la posizione dell’interpretante, a ri-conoscere nel segno l’oggetto, convertendo però ciò che è l’irriconoscibilità in sede logicosemiotica in una originaria condizione ontologica. Nel primo caso, soccorre certo l’intuizione, ma un’intuizione muta e senza parole, scappatoia a cui si può sempre ricorrere quando ci si vuole cacciare dai guai. Nel secondo caso – che anche più avanti proveremo a sondare –, si mantiene la situazione in tutta la sua aporeticità, confessando l’irriconoscibilità dell’oggetto nell’icona, ma dando ad essa il suo proprio senso ontologico: non c’è prima l’oggetto e poi l’immagine che ad esso si riferisca, riuscendovi o fallendo, ma ci sono co-originariamente l’immagine e l’oggetto in due, insieme e senza relazione. Oppure: in una relazione sregolata (che è però di nuovo un ossimoro) che disidentifica entrambi. Col che, ancora, non si intende mettere al posto della somiglianza iconica una più originaria dissomiglianza, ma una sfocatura, un punto di in-differenza fra la cosa e la sua immagine che rimane senza lógos, e che dunque nessuna regola successiva può cancellare6. Seguiamo però ancora un poco l’aporia dell’immagine, il modo come essa si insinua e come viene trattata, portandoci nel primo luogo in cui, a quanto pare, la cosa è in immagine: la percezione. Sia data dunque una certa distanza fra l’essere vero della 6.  Ho provato a indicare come sia dell’arte proprio la capacità di lasciar affiorare, nel vasto repertorio delle sue creazioni, questo punto di in-­differenza, questo fondo ultimo di indisponibilità della cosa e dell’immagine, in M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, Transeuropa, Massa 2012, pp. 392 ss., a cui dunque mi permetto di rinviare.

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cosa e il suo (mero) apparire. Immediatamente si pone il problema del loro rapporto (e della regola su cui esso è fondato), una volta che l’esser vero e l’apparire non fanno uno ma due, e non combaciando si distanziano l’uno dall’altro: in linea di principio, è infatti sempre possibile che le diverse apparizioni della stessa cosa siano considerate invece apparizioni di cose diverse. Certo la cosa non sarebbe la cosa che è, insegnava Husserl, se non si desse sempre per adombramenti, per apparizioni prospettiche sempre successive e parziali: non si va dunque dalle apparizioni prospettiche alla cosa, ma si coglie in uno la cosa nelle sue apparizioni. Che è quanto dire, però, che il rapporto della cosa alle sue apparizioni, o meglio, la distanza fra l’oggetto che si manifesta e la manifestazione dell’oggetto non è percorsa come tale, per tempo, passo passo, in tutta l’ampiezza della separazione, ma è intuita, afferrata in un unico, prepotente balzo: poiché appunto occorre avere già la cosa, essersela data uno actu, per riconoscerla nello stile delle sue apparizioni, e se non la si può inferire dalle sue apparizioni, occorrerà darsela in un qualche atto intuitivo immediato: poco importa poi se questo atto intenderà la cosa non altrove che nelle sue molteplici apparizioni o se invece lascerà cadere queste ultime come mere parvenze, per figgersi in una disincarnata ed essenziale idea della cosa. In entrambi i casi, si conferma che la scissura fra la cosa e la sua verità non può essere sanata, a meno di non disporre del magico potere dell’intuizione, il quale però è così forte che non si limita a suturare i labbri della ferita, ma li toglie, e dà la guarigione senza lasciare cicatrice alcuna, come se la ferita non vi fosse mai stata. Come faccio, però, a sapere che ho intuito la cosa stessa nelle sue molteplici apparizioni? In che modo posso rendere conto di questo intuire la cosa stessa (il dato)? Nell’analisi husserliana, l’oggetto intenzionale esplica la funzione di guida trascendentale per la scoperta e descrizione delle molteplici cogitationes che ad esso si riferiscono, né può essere diversamente, dal mo-

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mento che è principio costante della fenomenologia descrivere i modi in cui l’oggetto si dà muovendo dal darsi stesso dell’oggetto: si va dunque da questo darsi (che proprio perciò cade in un singolare oblio, proprio come consapevolmente accadrà all’essere di Heidegger) a quei modi, ed è perché ho intuito la cosa, è perché il cogitatum è portato nella coscienza con il carattere d’essere uno e lo stesso, d’essere l’“esso stesso”, è per questo che posso dare la descrizione dei suoi molteplici aspetti e adombramenti, e dell’altrettanto molteplice riferirsi ad esso degli atti della percezione (e di ogni altro genere di atti). La descrizione di ciò che è “uno e lo stesso” tutto dunque indaga ed esamina, meno che la stessità dello stesso: questa, non può che intuirla. Ed è ancora un filosofema di provenienza platonica, quello in cui ci si imbatte: se ho un due che devo cogliere in uno, il due è colto, mentre l’uno è ciò mediante cui lo colgo. Ora però mi occorrerà di cogliere anche l’uno: per non replicare ad infinitum la stessa figura dovrò dunque cogliere l’uno mediante l’uno. Forse dirò ancora che l’uno è colto mediante, ma solo per omonimia, perché in realtà non c’è più alcuna mediazione. E così c’è sicuramente un sapere dell’intuizione, nel senso della descrizione analitica dell’intuìto, ma non vi è modo di sapere l’intuizione stessa. Mediante cosa potremmo infatti saperla? Solo mediante se stessa, come la psyché del Teeteto platonico (185e). L’intuizione funge da presupposto di ogni descrizione fenomenologica. Diciamola tutta, allora, senza altri indugi: l’intuizione è, per l’appunto, una presupposizione, polla preziosa cui il copioso teleologismo husserliano saprà attingere per pre-disporre quel che l’analisi poi delineerà. Si vede bene, peraltro, da dove sgorga questa polla, qual è il punto di insorgenza. Asserire è dire qualcosa di una certa cosa: léghein tì katà tinós. Ora, cosa mai si può dire del tì, della cosa, se la cosa si ignora? Ma se per dire della cosa debbo dapprima conoscerla, non può essere quel dire il luogo della conoscenza della cosa. In quel luogo, il dire s’aggira soltanto:

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nei modi e paraggi del katà tinós. Come dunque conosco la cosa? «La singolare individualità della cosa stessa è un abisso in cui il logos non può ‘orizzontarsi’»7 – l’abisso in cui, si potrebbe aggiungere, si approfondisce la divaricazione fra l’idea platonica e l’ousía aristotelica, fra la cosa platonica e una cosa di Aristotele: l’universale pensato come singolare, e il singolare da elevare all’universale8. Cacciari, quanto a lui, non ha mai rinunziato a collocare la sua ricerca in questa differenza abissale: di là quid singulum, di qua i nomi comuni che, «essendo in comune a cose diverse, si applicheranno anche ad altro, non solo a quel ‘singolo’ che qui-e-ora intendono definire»9. Quel di là non indica ovviamente alcun mistero, nel senso triviale del termine, perché la cosa è qui, è concretamente essente, e ciò che si tratta di dire è manifesto: «nulla di misterioso, occulto, segreto, cui si acceda per qualche iniziatico cammino»10. La differenza ontologica non è una corda di cui stringiamo soltanto un capo, non sapendo cosa mai si celi all’altro capo: essa – spiega Cacciari – è tutta «immanente all’essente»11. Ma in realtà bisognerebbe dirla immanente a quel léghein tì katà tinós in cui fa la sua comparsa. È Cacciari stesso, in effetti, a mostrarlo: «l’essente ri-vela, apparendo, la via troppo profonda per il lógos determinante, apophantikós, della propria stessa phýsis»12. Non c’è modo tuttavia di tirar via la rivelazione dell’essente dal lógos determinante, per una ragione essenziale: perché la determinazione dell’essente come essente, nella sua concretezza determinata di quid singulum, è già tutta 7.  M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 58. 8.  Su questo punto, resta imprescindibile L. Lugarini, Aristotele e l’idea della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1961. 9.  M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 58. 10.  M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, p. 13. 11.  Ibidem. 12.  Ibidem.

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intrisa di lógos, della forza determinatrice della forma logica, come ben sapeva Hegel. Il concreto è là in opposizione all’astratto, e il determinato in opposizione all’indeterminato, e il lógos governa queste opposizioni. Presumere di avere un contenuto libero, e poi pensarlo sotto la forma del qualcosa, significa ignorare quale «efficacia determinatrice del contenuto»13 abbiano le categorie del pensiero. La cosa, come qualcosa, è anzi la prima mediazione, «la prima negazione della negazione» (SdL I, p. 110)14 poiché si costituisce e afferma, nel suo essere quella tal cosa, solo riferendosi a sé in opposizione alla negazione, e mediante questa opposizione. Che se poi invece si volesse indicare un modo in cui la cosa si rivela prima che il lógos si metta per via, bisognerebbe trovare un altro terreno, sgombro di presupposizioni logiche, sul quale poter reperire le cose stesse. Questo è appunto il compito affidato all’intuizione, con la complicazione che lo sgombero è esso stesso un’operazione logica, un movimento della riflessione. Il soccorso dell’intuizione è insomma previsto dalla struttura stessa del lógos apofantico: rinunciarvi, senza rinunciare al profilo logico con cui è posto il tì non si può, senza cadere in una grave incongruenza. Non posso insomma dire il tì, posso solo dir-ne15, ma la negazione che in questo modo riguarda il tì

13.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll. (= SdL I-II), tr. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1988, vol. I, Prefazione alla seconda edizione, p. 14. 14.  Qualcosa non si limita a opporsi al nulla, ma vi si oppone per quella cosa che è, quindi determinatamente. Per questo motivo, anche la sua negazione non è più l’indeterminato nulla, ma l’altro del qualcosa: qualcos’altro. Hegel pensa anche che la prima negazione della negazione, proprio perché prima, è anche la più superficiale, e ben altra concretezza dovrà guadagnarsi nell’espo­sizione logica. 15.  Si ricorderà qui T, § 3.221: «Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire

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non da altrove proviene se non dal dire stesso, dal léghein16. Il tì può essere forse toccato, o intuito, ma non detto, e però non si può fare che ciò che non può esser detto sia ancora ragionato muovendo dal posto determinato che la forma del lógos gli assegna. E, per converso, non si può fare neppure che l’intuizione che infine vi arriva trovi la cosa proprio nelle determinatissime fattezze che il lógos vuole che essa abbia. Proviamo ancora. Intuisco la cosa, e ne dico. Ma come può il dire della cosa tradurre, rendere esplicito l’intuire singolare? Per quanto profondo sia quel dire – s’è visto –, per quanto comprensivo sia il lotto dei concetti predicati, non potrà che tenersi nei dintorni della cosa, e mai potrà giungere alla cosa stessa, al tì. Per dirla con qualche spirito: per quanto lungo sia il catalogo delle donne, la verità dell’amore non sarà mai compresa in quel catalogo, e Don Giovanni dovrà mettersi nuovamente in cerca. Se ora proviamo a rovesciare le cose, e muoviamo dal léghein stesso, facendone il ponte gettato tra il tì e il katà tinós, ciò che li collega originariamente, abbiamo comunque da capire come avvenga questo collegamento, questa traduzione dell’intuìto nel detto. A fondarla dovrebbe essere l’intuizione, ma essa non può farlo, perché, proprio in quanto è intuizione, non può contenere le regole della propria esplicazione: se le contenesse, già non sarebbe più intuizione ma concetto, e starebbe non già dal lato del tì ma dal lato del katà tinós. D’altra parte, se queste regole accompagnassero fra le righe il detto, a

solo come una cosa è, non che cosa essa è». In 2.15121 e in 2.1515, la coordinazione oggetto/nome mostra il punto in cui immagine e realtà si toccano. 16.  E non cambia le cose nessuna riflessione ulteriore portata sulla lama di questo “non”. Tutto ciò che non posso ritrovare nell’essente, nell’Inizio, sotto pena di determinarlo logicamente, proprio perciò lo determina negativamente. E accanirsi a negare anche questa negazione non modifica la situazione, ma si limita semplicemente a ribadirla, se e finché si gioca sempre la stessa partita, ed è ancora la speculazione logica a suggerire le mosse.

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titolo di sua giustificazione, si porrebbe la questione ulteriore del rapporto che si stabilisce fra codeste righe, e il problema sarebbe solo rimandato17. Né ce la si può cavare dando per implicite le relative istruzioni: per ogni implicito c’è la necessità della sua esplicitazione, e se non vi è questa necessità è perché siamo ancora nella penombra di ciò che è direttamente intuito. Vale a dire: la traduzione non è stata effettuata, e il lógos è in realtà rimasto escluso dal vero. Sia, però, un intuire. Come possiamo sapere di possedere un’intuizione? Non altrimenti che intuitivamente. Se infatti sapessimo di intuire per il mezzo di un’inferenza, allora l’immediatezza dell’intuizione sarebbe ipso facto compromessa18. Nel

17.  L. Carrol (What the Tortoise Said to Achilles, cit. in D.R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, tr. it. di B. Garofalo et al., a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 1994, pp. 47-49) ha scritto un saporito dialogo che mostra bene, nella rincorsa di proposizioni tra Achille e la Tartaruga, i limiti della logica, l’impossibilità di tirar fuori un sapere e una regola dalla più palmare evidenza della verità. «Se A è B, e B è Z, allora A è Z», ragiona Achille, e per la Tartaruga, che proprio non riesce a vedere coi suoi occhi una simile evidenza, il campione della velocità (qui: del pensiero) si perita di aggiungere a quel semplice ragionamento la buona regola C: «Se A è B, e B è Z, allora A è Z». Ovviamente, ciò che adesso la Tartaruga non vede è come le due premesse, più questa nuova proposizione (la regola C), producano la conclusione: è infatti implicata in ciò una nuova proposizione ipotetica che andrebbe aggiunta al ragionamento, e che lo prolungherebbe nuovamente, così differendo all’infinito l’inseguimento di Achille. 18.  È la questione posta da Peirce a Descartes, nel saggio Questioni concernenti certe pretese facoltà umane, sul quale ha più volte richiamato l’attenzione Carlo Sini (cfr. ad es. C. Sini, Semiotica e filosofia, il Mulino, Bologna 1990, p. 27; Id., I segni dell’anima, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 26-27): «Noi non conosciamo intuitivamente l’esistenza di questa facoltà. Essa è infatti una facoltà intuitiva, e noi non possiamo conoscere intuitivamente che una cognizione è intuitiva» (Ch.S. Peirce, Scritti di filosofia, tr. it. di L.M. Leone, intr. di W.J. Callaghan, Cappelli, Bologna 1978, pp. 96 ss., qui p. 100). L’eventuale supposizione dovrebbe essere sostenuta dall’esame di fatti che non trovassero altra spiegazione se non nel possesso di una simile facoltà.

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luogo dell’evidenza intuitiva non potrà dunque darsi neppure la più piccola diastole fra l’intuizione e la coscienza dell’intui­ zione. È in quel luogo che può stare, contratto in un punto privo di dimensioni, il cogito ergo sum di Descartes. Proviamo allora a vedere come il filosofo ci arriva. Il problema di Descartes è accertarsi della verità. Ma non c’è assoluta certezza finché permane una sia pur minima ragione di dubbio. Là dove però la verità si offre in maniera evidente, le ragioni di dubitare vengono meno e può dunque essere acquisita una certezza assoluta. Si può esprimere la cosa così: l’evidenza è la ratio essendi dell’indubitabilità, ma l’indubitabilità è la ratio cognoscendi dell’evidenza. Il metodo cartesiano sarà dunque un metodo di selezione delle evidenze (di ciò che non può non essere) attraverso l’eliminazione di ogni possibile dubbio19. Ma cosa vuol dire qui possibilità di dubitare? Se si trattasse soltanto della possibilità logica, l’evidenza cartesiana altro non sarebbe che l’evidenza delle proposizioni della logica, e a non poter non essere non sarebbe che l’essere. Ma l’evidenza stessa della logica, nel senso oggettivo del genitivo, non è affatto esente dal dubbio, benché questo dubbio debba essere portato ad extra, e investire la logica in quanto tale: l’ipotesi del genio maligno, riprenda o meno in sede epistemologica la clandestina dottrina cartesiana della libera creazione divina delle verità eterne, assolve proprio al compito di investire la stessa evidenza logico-matematica di un dubbio radicale. Si tratterà dunque di trovare quell’essere che non può non essere20. L’indubitabilità

Ma fatti del genere non ve ne sono, e in base alle prove di fatto Peirce non ha difficoltà a trarre la conclusione opposta. 19.  L’indubitabilità funge dunque da contrassegno dell’evidenza. Ma se l’evi­denza dev’essere contrassegnata, che evidenza è? 20.  Cfr. la lettera di Descartes a Clerselier del giugno o luglio 1646, in R. Descartes, Epistolario filosofico, a cura di M. Adinolfi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, pp. 400-401.

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dell’evidenza non ha perciò carattere meramente logico: non però per difetto, ma per eccesso. Per una trasgressione in alto della logica, e non per una sorta di regressione psicologica. La critica di Leibniz non era dunque giustificata: l’indubitabilità (che è poi la prestazione del pensiero secondo Descartes) non ha un’ampiezza meramente psicologica, così da essere guadagnata con l’esclusione di ogni dubbio reale possa mai venire in mente, e neppure soltanto un’ampiezza logica, con l’esclusione di principio che le cose possano stare altrimenti, poiché deve essere accompagnata pure dalla clausola (che la logica per sé sola non può fornire) che nulla di ciò che eventualmente trascende lo spazio logico può mettere in dubbio l’evidenza. Il cogito contiene questa clausola. L’(ego) sum è quell’essere di cui l’(ego) cogito non può dubitare che sia. Si badi però: non “ciò che pensa esiste” è il fondamento cartesiano, ma un “io, che penso, esisto”. L’ego è essenziale perché sia sottratta al dubbio un’esistenza e non una proposizione21.

21.  Nelle Meditationes, che svolgono la part métaphysique del Discours, il cogito ergo sum non compare affatto, e in sua vece incontriamo una prova dell’esistenza (ego sum, ego existo) nel senso dell’épreuve, di un’esperienza e di un mettersi alla prova. Il sum è un essere (messo) alla prova, e tutto, in questa prova, av-viene al sum. Il pensiero stesso è l’avvenuto. Nell’avvenimento fondamentale del pensiero, l’essere si prova, non ancora provvisto di ego. Essere è ciò che si prova, quando si pensa: non però ciò che viene raggiunto e provato dall’opera attiva del pensiero, e neppure ciò che uno (il soggetto-ego) prova, quando pensa. Perché un soggetto ancora non c’è. Nel provarsi dell’essere, il senso impersonale e anonimo del “si” – in ciò che si prova nel pensiero – prevale dunque necessariamente sul senso riflessivo. L’errore decisivo di Descartes – se ce lo si può consentire – consiste peraltro non in un’interpretazione riflessiva del cogito, poiché questa non è attestata, ma nella sua esecuzione sul modo di una meditazione personale. Descartes vi fu probabilmente indotto dalla necessità performativa di pensare il cogito in prima persona, dal legittimo rifiuto cioè dell’equivalenza del cogito ergo sum con una proposizione del tipo is, qui cogitat, est. In questo modo, il Sé – che sarebbe dovuto soltanto risultare – si trova però del tutto indebitamente retroposto nella posizione preliminare di attore del pensiero. A Descartes è

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Di cosa però l’ego cogito non può veramente dubitare? Certamente l’ego può dubitare di essere un ego, benché non possa dubitare di essere. Può dubitare di essere un ego, perché, nelle acque buie in cui s’è profondato, che è mai un ego? Cosa vuol dire essere un ego, in assenza di ogni tu, di ogni altra persona22? In verità non è neppure necessario proporre ulteriori ragioni di dubbio: non appena l’ego è in posizione di mero oggetto del sapere, diviene un dubitabile. Di tutto quanto il mio ego possa mai essere posso dunque dubitare. Ma se l’ego non può dubitare di essere, benché possa dubitare di essere un ego, essere ed essere un ego si scindono, e l’evidenza intuitiva è rovinata. Oppure no, non lo è: priva però d’oggetto, priva di ciò di cui è evidenza, è caduta, per dir così, dal lato dell’essere, in un nulla di sapere. Il suo spessore si è assottigliato tanto da non avere più la forza di rappresentarsi alcunché, neppure se stessa, e il

parso cioè necessario – per scongiurare il fraintendimento – che vi sia una prima persona a eseguire il cogito ergo sum. Ma questa necessità, a ben vedere, appartiene all’appropriazione successiva del cogito da parte di un ego: di Descartes stesso, del filosofo che pensa, di colui che è già certo di sé come Sé. Ora, una certezza del genere non è stata ancora fornita e non è disponibile: l’essere si prova ancor prima che l’ego se ne accerti come ego. La struttura della prova deve necessariamente prevedere l’anonimato: perché dunque il nome, il Sé, la persona? In questa direzione, criticando la posizione riflessiva del cogito, riprenderà il tema il giovane Sartre, che ne La trascendenza dell’Ego esordiva così: «Noi vorremmo mostrare qui che l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere del mondo come l’Ego dell’altro» (J.-P. Sartre, La trascendenza dell’Ego [= Ego], tr. it. di R. Ronchi, Marinotti, Milano 2011, p. 26). 22.  Qui ci pare essere il limite dell’interpretazione responsoriale di J.-L. Marion, Questions cartésiennes II. Sur l’ego et sur Dieu, Puf, Paris 1996: nel dubbio radicale, la voce dell’altro non è per principio distinguibile dalla propria voce. Più in generale, a una filosofia del “tu” occorrerebbe non che io mi scopra a partire dall’altro, ma puramente e semplicemente che l’altro mi scopra. Si consideri inoltre che la radicalità della formula kantiana nei paralogismi della ragione pura, «io, o egli, o esso (la cosa) che pensa» (CRP, p. 399), giace in latenza dentro lo stesso testo cartesiano.

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proprio stesso esercitarsi. Indeterminata e intransitiva, collassata ormai su se stessa, non può più assolvere alla funzione di fundamentum inconcussum che le era stata assegnata perché non può acquistare la consistenza di un sapere. Se pure non è spento, il lumen naturale manda luce, ma non illumina nulla. Il maximum di sapere si rivela in realtà un minimum, anzi un nihil. Il tema sarà ripreso dal giovane Sartre, che così esordisce alla filosofia, nel ’36: «Noi vorremmo mostrare qui che l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere del mondo come l’Ego dell’altro» (Ego, p. 26). Criticando la postura riflessiva del cogito, Sartre guadagnava un campo trascendentale impersonale, nelle cui retrovie non si installava alcun io. Contra Husserl, che aveva mantenuto nelle Ideen la forma personale, egoica, della coscienza trascendentale, Sartre sosteneva la superfluità dell’unificazione del campo grazie al potere di sintesi di un ego. Gli restava forse da domandarsi ancora a qual titolo questa coscienza irriflessa e senza ego mantenesse ancora il nome di coscienza, e perché questo nome non riuscisse profondamente equivoco, come, all’altezza della Krisis, lo stesso io husserliano e come in fondo tutti gli altri nomi che l’épreuve dell’essere ha potuto ricevere. Vale la pena allora fare qualche passo sul cammino della fenomenologia, rimbalzando non troppo disordinatamente da Husserl a Sartre, da Sartre a Husserl, per verificare i termini in cui la problematica cartesiana fu ripresa, mantenuta e, anzi, radicalizzata. Si deve infatti anzitutto alla vigorosa indagine fenomenologica la riproposizione novecentesca del tema cartesiano dell’evidenza; vennero poi le più radicali formulazioni degli ultimi testi husserliani circa il senso dell’ego. «Senza evidenza non c’è sapere»23, comincia Husserl. Anche Husserl ha, come Descartes, nell’evidenza il punto archime23.  H. Husserl, Prolegomeni a una logica pura, RL I, p. 162.

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dico «per svellere il mondo della non ragione e del dubbio» (RL I, p. 154)24. E anche in Husserl, la comprensione evidente è eseguita sul modo dell’io: «io comprendo con evidenza che questi princìpi fondamentali determinati sono veri […]. Non posso costringere nessuno a vedere (einsehen) ciò che io vedo; d’altra parte, io stesso non posso dubitare di vedere che ogni dubbio è assurdo quando ho una comprensione evidente (Einsicht) della verità» (RL I, pp. 153-154)25. L’io stesso, il vedere, il visto non sono tuttavia per la fenomenologia oggetti semplici e ingenui, appartenenti al mondo dell’esistenza reale, psico-fisiologica e fisica, così come invece sono assunti di regola nell’atteggiamento naturale (o anche scientifico), ma devono essere opportunamente modificati in modo che divengano tematici i modi, le operazioni e le formazioni in virtù dei quali quegli oggetti sono quel che sono. Una descrizione del campo dei fenomeni puri che in questo modo si schiude è ciò che ancora manca in filosofia: Husserl, che apprezza la radicalità delle prime mosse cartesiane, sulle cui battute scandisce la sua epoché (sospensione della validità dell’essere mondano, esclusione di principio dalla sospensione dell’ego che la attua), non può apprezzare invece, del cammino delle meditationes, la rinuncia a uno stile filosofico puramente descrittivo, compiuta in favore dei passi argomentativi con i quali dedurre, muovendo

24.  Il passo prosegue con un «se rinuncio ad esso [= al punto archimedico dell’evidenza], rinuncio anche ad ogni ragione e ad ogni conoscenza», che è, in Husserl, traccia costante del suo teleologismo. 25.  L’evidenza fenomenologica si riconosce dunque da sé, e non mediante l’indubitabilità. Husserl può compiere questa mossa perché persino la dubitabilità deve offrirsi per lui in un’evidenza indubitabile. Cfr. peraltro questo passo esplicitamente anticartesiano della Postilla alle Idee, in Idee, § 5, vol. I, p. 428: «Che il mondo esista, che si dia come un universo esistente all’interno dell’esperienza che di continuo converge verso la concordanza, è perfettamente indubbio. Una cosa completamente diversa è cercare di capire questa indubitabilità».

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dall’ego determinato frettolosamente come mens, l’esistenza reale di Dio e, quindi, del mondo. Meno che mai si tratta, per Husserl, di costruire alcunché: la riduzione deve consentire invece di guadagnare il terreno della costituzione del senso di ciò che è entro gli atti intenzionali della coscienza, entro cioè la «sfera d’essere assolutamente apodittica, inclusa nel titolo ego»26. Questa sfera d’essere si presenta subito in tutta la sua vastità: ad essa appartiene infatti l’intera vita dei miei atti e ogni determinazione del mondo, e il mondo stesso, sotto il titolo di cogitata delle mie cogitationes. Ovviamente, la sfera d’essere egologica venuta in luce nell’epoché non coincide affatto con l’io empirico, costituito come tale tra altri io a lui esterni, il che fa indubbiamente di quest’ego «un paradosso, il maggiore di tutti gli enigmi» (Crisi, § 18, pp. 108-109). Ora, senza volere pigiare a fondo il pedale di questo paradosso, rimane tuttavia il fatto che il compito descrittivo che Husserl assegna alla filosofia può essere eseguito solo se la coscienza fenomenologica è interamente purificata, sgombrata da ogni residuo empirico, in modo che nulla ingorghi l’accesso alle operazioni tipiche attraverso le quali funge la vita intenzionale della coscienza. Per questo, l’attuazione dell’epoché deve condurre fino all’Ur-ich, che è denominato io «soltanto per un equivoco, anche se si tratta di un equivoco essenziale» (Crisi, § 54b, p. 210)27. Ebbene, ogni qual volta ci si imbatte in questo hápax legómenon si misura l’audacia dello sforzo teoretico dal coraggio con il quale è impiegata la parola “equivoco”. Lo sottolineavamo 26.  E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (= Crisi), tr. it. di E. Filippini, pref. di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1997, § 17, p. 106. 27.  Che l’equivoco sia essenziale, è, già in Husserl, l’indice di un problema e non di una soluzione. Poiché è chiaro che la vita fungente, nonostante l’anonimato in cui opera, conserva per il filosofo viennese quel carattere di soggetto mancando il quale la psicologia obiettivistica ne potrebbe offrire la tematizzazione adeguata.

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prima, seguendo il percorso che Sartre viene compiendo più o meno negli stessi anni: già Husserl è andato così in profondità da rompere con la declinazione soggettivistica della fenomenologia e con la prima persona, e attardarsi sulle accuse che Heidegger su questo punto non ha mai risparmiato al mae­ stro significa ignorare la radicalità di questi luoghi. Il fatto è che però non siamo di fronte a un semplice equivoco, ma a un equivoco, lo si è letto, essenziale. Un banale equivoco si risolve semplicemente scegliendo altre parole, e liberando il testo da ogni possibile fraintendimento. Ma, per Husserl, l’equivoco è essenziale, e cioè: non può essere dissipato, non può essere fugato chiamando l’ego in altro modo. Alla luce di questa osservazione vanno forse considerate anche le pagine sartriane prima richiamate. Si fa infatti chiaro che la questione non è tanto se si possa fare a meno dell’ego, quanto piuttosto se si possa fare a meno di equivocare, sul punto. Sartre ha buon gioco nel dire che la coscienza trascendentale non è un ego: che fine fa, però, l’equivoco? Scompare per davvero, nel saggio del filosofo francese? Forse no, forse non del tutto, se, come già rilevavamo, il campo trascendentale ha ancora la figura, o almeno il nome, di coscienza. Per Sartre può avere ancora un tal nome, perché «una coscienza non ha per nulla bisogno di una coscienza riflettente per esser cosciente di se stessa» (Ego, p. 38). Sarà perciò in seguito, quando per esempio verrà ripresa nel ricordo, che si riconoscerà come coscienza. A illustrazione di questa tesi, Sartre porta esempi come l’essere intenti alla lettura, o il correre improvvisamente per non perdere un tram: siamo in grado di ricordare quelle esperienze, benché le abbiamo compiute senza che un io vi facesse capolino; quel che vi era «era soltanto coscienza dell’oggetto e coscienza non posizionale di sé» (Ego, p. 39). Qual è però il motivo per cui, avendo attualmente il ricordo di aver preso il tram o letto il libro, devo sistemarlo sul tappeto di una coscienza, di cui, in realtà, non mi ricordo affatto? Sartre ha cominciato il suo saggio misurando la distanza fra l’approccio critico di Kant e quello descrittivo del-

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la fenomenologia: dove Kant pone questioni di diritto, per cui un Io penso deve poter accompagnare ogni rappresentazione, il fenomenologo pone una questione di fatto: ma l’accompagna per davvero? Come mai, allora, qui egli abbandona il fatto e rilascia invece un’affermazione di principio? Una coscienza deve potervi essere stata, perché io me ne ricordi, sembra dire Sartre, ma non si tratta di un autentico referto fenomenico, bensì di una presupposizione a partire dalla coscienza fenomenologica attuale. Se è uno scambio indebito quello che nell’esperienza descritta trasferisce l’ego, che in realtà appartiene all’esercizio fenomenologico in cui ha luogo la descrizione, allo stesso modo non pare proprio che possa esser giustificato il trasferimento retrospettivo dell’elemento della coscienza. La coscienza sartriana non ha bisogno di essere coscienza riflessiva per essere coscienza di sé, autocoscienza; ma come può la fenomenologia, finché è tale, rinunciare a reperire in qualche esperienza originariamente offerente la datità fenomenica di questo autó, ossia dell’intera estensione di questa trasparente spontaneità che precede anche la sua posizione riflessiva? Certo, posso ben dire che ero io a correre verso il tram; ma, proprio come ciò non significa che quell’esperienza sia stata compiuta sul modo dell’io, così non significa neppure che vi sia, nelle cose stesse, qualcosa che parli a favore di un compiersi di detta esperienza in un luogo chiamato coscienza. Questo luogo che non può esser posto in un atto posizionale, tetico, sul modo dell’io, viene dunque, con una certa spigliatezza, da Sartre audacemente presupposto: si ovvia a una difficoltà generandone un’altra. Cosa però vuole ottenere Sartre? Quello stesso che si proponeva di raggiungere Husserl, per il quale pure la coscienza trascendentale non poteva essere un pezzo di mondo. Sotto i colpi della critica sartriana cade dunque l’ego husserliano per via del suo spessore ingombrante, di un rilievo trascendente, di una residua consistenza mondana, che non può appartenere al viversi

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assoluto della vita spontanea, in cui «“essere” e “apparire” sono lo stesso» (Ego, p. 35). Ma, lo si attesti o no in un’esperienza fenomenologicamente pura, l’assoluto è coscienza proprio per questo: perché solo così essere e apparire possono combaciare perfettamente. La coscienza deve stare già là dove qualcuno, che scoprirò in seguito essere io, leggeva o correva a prendere il tram, perché non può (e non può perché non deve) esserci nulla prima di essa. Nessuna passività, nessuna materia, nessun essere inapparente, bensì una coincidenza assoluta, in cui tutto è leggerezza, tutto è traslucidità. L’esigenza è dunque la stessa che voleva soddisfare Husserl quando pretendeva che la descrizione fenomenologica della vita fungente (anonima già per lo Husserl della Krisis) avvenisse in una comprensione diretta e assolutamente immanente, nella «più radicale e profonda auto-considerazione della soggettività operante» (Crisi, § 55, p. 215), in una dimensione assolutamente diafana in cui il filosofo lasciava che scorresse imperturbato l’ego assolutamente unico e fungente. Si può a questo punto anche togliere la paroletta Ich, come esige Sartre, ma non si può togliere quella perfetta trasparenza senza la quale non c’è la ricercata immanenza assoluta. La radicalità con la quale già Husserl pretendeva di attuare l’epoché (l’epoché totale, compiuta «d’un colpo solo», Crisi, § 40, p. 178)28 è richiesta

28.  Anche su questo punto interviene suggestivamente Sartre: per condurre l’epoché con la radicalità richiesta non può bastare un «lungo studio» (Ego, p. 94), non si tratta di indovinare le motivazioni psichiche né di condurre «un’operazione dotta» (p. 95). Piuttosto, «la coscienza, rendendosi conto di ciò che si potrebbe chiamare la fatalità della sua spontaneità, ad un tratto si angoscia» (p. 94). È evidentemente la lettura di Heidegger che interferisce qui. Tuttavia il testo è particolarmente notevole, perché mostra quanto poco lo stesso Sartre possa tenersi all’altezza delle esigenze esorbitanti che persegue con la sua ricerca. Qui l’angoscia, che non potrebbe essere preceduta da nulla, è chiamata anzitutto a rendersi conto della sua esistenza assoluta, dopo di che si angoscia. Ma Sartre non chiarisce come avvenga questa presa di

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dalla necessità che nessuna obiettivazione sia incontrata come già costituita, ma tutto venga sistematicamente esplicitato nella sua relazione all’ego costitutivamente fungente. Questo ego è piuttosto un campo trascendentale senza soggetto, in Sartre, senza che però venga in questione quanto esso deve comunque assicurare, in un modo o nell’altro, e cioè una regione d’essere assolutamente immanente, qual è quella implicata nella messa in esercizio del metodo fenomenologico29. coscienza, per la quale tenta addirittura la formula – ossimorica, nel contesto del saggio – di «piano riflessivo puro» (p. 93). A complicare ulteriormente le cose, Sartre scrive che «c’è qualcosa di angosciante per ciascuno di noi nel cogliere così sul fatto questa infaticabile creazione di cui noi non siamo i creatori» (p. 90), non avvedendosi, forse, di riferire l’angoscia non già al viversi della coscienza assoluta, alla sua spontaneità, ma a noi. E il noi sta in corsivo perché – come sappiamo – Sartre ha chiarito in lungo e in largo che il noi, cioè l’ego, appare dopo, non prima. Solo che qui è proprio questo ego che si rende conto della fatale spontaneità, per cui si angoscia, mentre nel testo citato prima è la coscienza irriflessa che si rivela a se stessa. Basta poi accostare Che cos’è metafisica? di Heidegger – «in fondo non “tu” o “io” ci sentiamo spaesati, ma “uno” si sente spaesato» (in S, p. 68; sott. mie) – per denunciare la cosa. 29.  Rocco Ronchi, a cui si deve il merito di aver riproposto le pagine giovanili di Sartre, ne ha offerto una lettura in due passi. Nel primo passo sta la critica al maestro, attraverso la quale il trascendentale husserliano viene liberato dall’appropriazione da parte di un ego e desoggettivizzato. Sartre pensa la coscienza irriflessa e spontanea come «campo trascendentale, purificato da ogni struttura egologica» (Ego, p. 85). Il secondo passo è quello che poteva compiersi a partire da qui, se Sartre avesse con coraggio percorso la strada di rinunciare anche alla struttura intenzionale della coscienza, da cui dipende l’aporia del raddoppiamento in una vita spontanea e in una vita riflessa. Questa rinuncia sarebbe stata inoltre coerente con la più speculativa delle ambizioni, di portare a immediata e assoluta unità e identità l’essere e l’apparire. Per Ronchi, a trattenere il Sartre fenomenologo dal compiere questo passo fu l’incapacità di affrancarsi da un pezzo essenziale dell’antropologia filosofica moderna, per la quale il mondo, il tutto, è sempre solo il correlato di un soggetto (di un io o di una coscienza non cambia gran che: su ciò si veda, in termini più sistematici, R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017). In M. Adinolfi, Di un

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L’operazione può allora essere descritta così: la coscienza fenomenologica deve assottigliarsi fino a essere un nulla, in modo da poter essere riempita in un’intuizione apodittica da ciò che quella coscienza deve poter descrivere: se stessa, e l’intero mondo dei fenomeni. L’ampiezza, e il volume, di questa «vita inafferrabile e fluente» è (o meglio: deve essere) perfettamente pari al contenuto d’esperienza dell’ego, e il «“fiume eracliteo” della vita costitutiva» (Crisi, § 52, p. 204) non deve essere così impetuoso da superare e travolgere gli argini della coscienza trascendentale, che quindi funziona come una sorta di otturatore di cui è semmai possibile regolare l’apertura (le diverse vie della riduzione), buco che l’essere, costituendosi a fenomeno, riempie perfettamente: nulla riversandosi nel quale tutto può offrirsi senza presupposizioni di sorta a un puro guardare e afferrare, ma non perfettamente nulla, non proprio nihil absolutum, bensì coscienza, perché altrimenti non si avrebbe la filosofale trasmutazione dell’essere in apparire. Nulla che può anzi persino mostrarsi esso stesso, in Husserl, in stili di apparizioni e modi di datità, in motivi costituivi e in sintesi passive – ma può mostrarsi solo a patto (patto tacito, beninteso) che un altro nulla si costituisca nelle retrovie, dal quale descrivere questa regione anonima e persino tenebrosa, sole nero da cui dovrebbe promanare la luce. Husserl dice in verità che non di un nulla si tratta, ma di ciò stesso che è descritto nella descrizione, poiché per principio i due devono poter essere uno e lo stesso, se in generale deve espossibile equivoco, nella medesima direzione, in «Etica e Politica / Ethics & Politics», XXII, n. 1, 2020, pp. 333-343 (disponibile al seguente indirizzo: http://www2.units.it/etica/2020_1/ADINOLFI.pdf), ho provato a suggerire piuttosto che questa tenerezza verso il soggetto è la ragione del carattere essenziale dell’equivoco fenomenologico: nell’equivoco si cade infatti perché si ha bisogno di un termine o di un’istanza che, pur muovendo da qui (cioè, per i moderni, dall’ego, soggetto, coscienza o Esserci che sia), autentifichi l’accesso all’esistenza assoluta, in cui essere e apparire coincidono.

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sere possibile che qualcosa si mostri come qualcosa. Ma appunto per principio, col che Husserl è costretto a contravvenire, e a contravvenire nel punto decisivo, alla regola fondamentale della fenomenologia, per la quale nulla deve essere ragionato, ma tutto deve essere mostrato direttamente. Ma come si potrebbe mostrare il principio di ogni mostrazione? Quel che qui lo scavo fenomenologico casomai mostra, ma solo sul rovescio della sua stessa intenzione, è piuttosto, detto in termini che devono tuttavia ancora essere esplicitati e che perciò non possono non riuscire criptici, che il luogo del nulla è tenuto dallo stesso. Che lo stesso è il luogotenente del nulla: che lo stesso è (in vece del) nulla, e nulla è lo stesso. E ancora: che il nulla fa dunque lo stesso, non la differenza. Lo stesso è fatto di e dal nulla, e la differenza che incrina lo stesso non fa (il) nulla. È indifferente30.

2.  Il terzo: la mediazione In una filosofia che confida nell’intuizione, il movimento che il pensiero esegue è descritto in genere come una risalita, un regresso verso quella condizione, quello stato, quell’acme nel quale i distinti non sono due, ma uno. Può essere necessaria

30.  L’indifferenza in cui cede la differenza è all’origine del progetto hegeliano di una scienza dialettica pura come articolazione del sapere in cui culmina la scienza fenomenologica. In tal culmine, «il sapere puro ha tolto via ogni relazione a un altro e a una mediazione. È quello che non ha in sé alcuna differenza. Questo indifferente cessa così appunto di esser sapere». Con quanto Hegel però subito aggiunge, divien chiaro che la cessazione del sapere è solo apparente, è solo una risorsa del sapere: «La semplice immediatezza è essa stessa una espressione di riflessione, e si riferisce alla differenza del mediato» (SdL I, pp. 54-55). Per Hegel dunque non si tratta di pensare il cedere della differenza, ma il suo perpetuo rilancio.

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una conversione spirituale, o più modestamente un certo rigore metodico, può darsi anche, in verità, che si tratti di un soprassalto emotivo piuttosto che di una lunga preparazione (la quale rimane comunque a distanza infinita dal baleno improvviso dell’intuizione), e infine è possibile che l’intuizione sia appannaggio di un dio piuttosto che dell’uomo: sempre però essa vanta una primità, un privilegio conoscitivo o ontologico, in forza del quale si costituisce come la verità una della distinzione. Il troppo forte dell’unità assicurata dalla prestazione intuitiva, ovunque questa prestazione si effettui, nell’essere o nell’Uno, nel cogito o in Dio, toglie però così bene la distinzione dei due termini da rendere inintellegibile il loro stesso distinguersi. Il maximum di intellegibilità raggiunto nel fuoco dell’intuizione si converte così due volte in un minimum: poiché è sottratto all’intelligenza tanto il descensus ad inferos, dall’unità alla dualità, quanto l’unità (o l’intuizione) in se stessa. La prima ipotesi del Parmenide platonico contiene tutt’intera l’aporia di un’unità perfecta, ma perciò condannata all’inintellegibilità: sua propria e di ciò che da quell’unità si separa. Quel che si è mostrato finora può essere dunque rappresentato nella forma di una proportio directa: quanto più cresce l’investimento sull’intuizione, tanto più cresce anche la richiesta di deduzione di tutto ciò che non si consuma e perfeziona nell’illocalizzabile exaíphnes. Cresce, e rimane inevasa, a meno di non provare per altra via. Se la forma logica ruotava sin qui intorno a un punto che non riusciva a pensare, e perciò, rimandando oltre di sé, confessava di non bastare a se stessa, ora è l’impartecipabile nóesis intuitiva che domanda di essere pensata, mediata, ed è da vedere se questa diversa maniera di comporre il problema platonico, che è poi il problema della filosofia, potrà sottrarsi a un esito aporetico. La dialettica è, in certo modo, la più ingente risorsa a disposizione della filosofia contro lo scacco dell’intuizione. Se l’Uno non può essere intuito, non è perché manchi all’uomo (o a

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Dio) la facoltà richiesta; se l’Uno si rivela, ad ogni tentativo di sondarlo, un pozzo senza luce, non è per la povertà dei nostri mezzi. Se insomma rimane bloccato ogni tentativo di rispondere alla domanda (che è poi la domanda della filosofia): perché dall’Uno i molti, non è perché il passaggio, o il salto, sia avvolto in un mistero impenetrabile, ma perché sono errati i termini stessi della domanda. Domandare perché dall’Uno i molti significa infatti presupporre che Uno e molti possano trovarsi in stato di separazione: che l’Uno possa essere ed essere pensato senza i molti, e i molti senza l’Uno: non è affatto necessario porre la questione: In che modo da questa essenza pura viene fuori la differenza, l’essere-altro? Né tantomeno abbiamo bisogno di credere che tormentarsi intorno a tale questione significhi fare filosofia, né, infine, serve a qualcosa considerarla irrisolvibile. Lo sdoppiamento, infatti, è già sempre avvenuto, la differenza è già sempre stata esclusa dall’autouguaglianza e le è stata messa a lato. Quello che doveva essere l’uguale-a-se-stesso, dunque, è già una delle parti sdoppiate e non invece l’essenza assoluta.31

A questo passo riesce del tutto analogo il celebre luogo della Scienza della logica, in cui a essere riferiti l’una all’altra sono le determinazioni dell’immediatezza e della mediazione: «non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione» (SdL I, p. 52). In verità, non vi sono qui soltanto l’immediatezza, die Unmittelbarkeit, e la mediazione, die Vermittlung, in stato di necessario riferimento dell’una 31.  G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, testo tedesco a fronte, a cura di V. Cicero, Milano, Rusconi 1995, p. 253. Sulla stessa linea procede la critica al metodologismo kantiano: domandare come possa la ragione umana finita conoscere l’Assoluto equivale a presupporre che vi sia da un lato il conoscere e dall’altro l’Assoluto stesso. Se dunque l’Assoluto risulterà inconoscibile dipenderà non da chissà quale inconoscibilità in sé, ma dal presupposto dal quale muove la conoscenza in Kant.

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all’altra, ma anche l’ulteriore determinazione, meno osservata, del contenere. Cos’è però che non può non contenere immediatezza e mediazione? Domanda ineludibile, se si ha memoria del Sofista: v’è qualcosa di più del reciproco rinvio dell’immediatezza e della mediazione, che le contiene entrambe, come già nella koinonía platonica, dove l’identico e il diverso, la quiete e il movimento, inseparati e inseparabili, come dice la Scienza della logica, sono contenuti da tò òn, dall’essere, il quale è invece assolutamente separato dal non essere. L’enthalten non vale forse quanto il periéchein che nel Sofista circonda la quiete e il movimento, e non annuncia proprio per questo una determinazione che non è in stato di riferimento, come invece le altre, e che quindi non transita per le vie della mediazione? Questo è il problema col quale occorre ora misurarsi. L’intera scienza hegeliana è organizzata sulla «necessità della contraddizione appartenente alla natura delle determinazioni del pensiero» (SdL I, pp. 38-39), quando queste siano prese separatamente, e cioè astrattamente32. «L’essenziale per la scien-

32.  Per M. Donà, Sull’Assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, pref. di E. Severino, Einaudi, Torino 1992, la concretezza non consiste semplicemente nel pensare la determinazione in rapporto al proprio altro, ma nel pensarla nella sua contraddizione intrinseca, originaria, contraddizione che viene esposta a questo modo: ciascuna determinazione, in quanto è un momento dell’Assoluto, va pensata assolutamente. Ciò vuol dire che A deve essere assolta anche dalla negazione di non-A, che costituisce l’identità astratta di A. Si badi, perciò: astratta non è solo A, separata dalla relazione all’altro, a non-A; astratta è A in quanto mantiene ancora il profilo della mera uguaglianza con non non-A. Pensata assolutamente, A implica invece «la negazione della propria originaria e non contraddittoria negatività (quella rivolta ‘contro’ l’altro; il suo non essere il proprio NON)» (p. 37). Ma allora A, il positivo, l’essente in generale, non negando più non-A nega sé, ed è così in se stesso e immediatamente il negativo. Sulla base di questa struttura aporetica Donà può (meritoriamente) respingere l’interpretazione della dialettica come unità e conciliazione degli opposti, dal momento che non può esservi determinazione – unità, identità – che non sia già sempre opposta a

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za non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il Primo» (SdL I, p. 57). L’essenziale non è dunque pensare come dall’Uno i molti, ma che vi sia circolazione (Kreislauf) fra le opposte determinazioni dell’Uno e dei molti. Quanto alla natura di questa circolazione, è però da rilevare quanto segue. In primo luogo, questa circolazione è già sempre in corso, e non se ne può sorprendere il cominciamento assoluto, avulso dalla circolazione che in e con esso ha inizio. Non si può osservare cioè l’inizio prima che abbia dato (o avuto) inizio: se così fosse, l’inizio non sarebbe tale. L’inizio assoluto appartiene insomma a quel genere di astrazioni intellettualistiche che motiva la dialettica hegeliana. Proportio directa: quanto più esso si ritira al di qua di ogni rapporto con ciò che da esso inizia, tanto più vi si deve riferire e anzi gli è già riferito. se stessa e in se stessa. Vi sono però due passaggi che Donà compie senza rilevare che, in realtà, si disegnano all’incrocio con altre vie del pensiero. Il primo. La determinazione viene presa dal filosofo veneziano in quanto momento dell’Assoluto, non anche, al tempo stesso, in quanto momento. Questo doppio tempo, croce e delizia dell’hegelismo, ci pare però indispensabile, per esser davvero fedeli alla natura dialettica della determinazione, che si svolge, per dir così, lungo entrambe le direzioni: come contraddizione, certo, che consegue all’assolutizzazione, ma anche nel risolvimento, grazie al quale il momento è ricompreso nell’intero. Il secondo passaggio riesce invece quasi inosservato: la determinazione è infatti studiata nel passaggio dall’identità formale all’identità speculativa, che contiene e toglie la differenza, e inquisisce il senso (conciliativo o contraddittorio) del contenere o del togliere. Il primo momento è però senz’altro l’identità con sé di ogni determinazione: è da lì che muove il pensiero, è la forma logica dell’identità che innesca la dialettica in cui ogni determinazione è coinvolta, sicché non pare vi sia nulla da pensare, e nulla in ogni senso, prima di essa, prima dell’identità della determinazione con sé. Nell’esercizio che conclude, forse goffamente, questo saggio, abbiamo provato invece a osservare la posizione di questa identità, e quindi a liberare uno spazio accanto ad essa, che riesce indifferente alla dialettica della determinazione.

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In secondo luogo, non si può neppure seguire il circolare stesso, come se se ne potessero scandire esteriormente i momenti; è invece a partire dal circolo, ossia da ciò in cui si raccoglie la circolazione, che la circolazione può essere pensata. Dal risultato e come risultato il risultare, mai viceversa. Nella dialettica in cui si fronteggiano il puro essere e il puro nulla si mostra infatti che «il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere» (SdL I, p. 71): a essere già sempre passato è dunque anzitutto e in generale il passare stesso. L’automovimento logico non può in effetti non riguardare anche il passare, nel senso che non può non inverarne la forma33 e accrescerne, per dir così, il volume, tanto da comprendere, nell’idea assoluta, la «totalità delle sue determinazioni» (SdL II, p. 956). Ma la mediazione dialettica, che è il metodo del pensiero, si svolge, in generale, in modo da non prendere più i termini tra i quali si muove per ciò che semplicemente sono, ossia staticamente, nel fermo immagine di una rappresentazione priva di concetto, in cui andrebbe perduta la loro identità concreta, il loro più proprio Sé. In terzo e ultimo luogo, la circolazione non può osservarsi come tale neppure nell’ultimo, il quale è, preso per sé, altrettanto astratto del primo, poiché in esso, se è soltanto l’ultimo, la circolazione ha già, per dir così, circolato34. 33.  Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 2009, § 240, p. 214: «La forma astratta del prosieguo, nell’essere, è un altro, e un trapassare in altro; nell’essenza, l’apparire nell’opposto; nel concetto, la distinzione del singolo dall’universalità, la quale come tale continua in ciò che è distinto da lei, ed è, col distinto, in relazione d’identità». 34.  Com’è noto, al suo culmine l’idea assoluta, che si è già posta come l’unità del concetto e della realtà, decide di «determinarsi quale idea esteriore» (SdL II, p. 957) e tale decisione, Entschluss, non ha più la forma logica del passare, bensì quella, sostanzialmente inedita, della liberazione, Befreiung, nel senso della libera uscita (cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., § 244).

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Come dev’essere però intesa questa impossibilità di fissare i termini della circolazione (o, fuor di metafora, lo speculativo) senza eliminare la circolazione, impossibilità che è al contempo impossibilità di osservare identica mente la circolazione nel circolare stesso? Certo, dell’impossibilità di rilevare e, per dir così, indicare a dito il circolare della circolazione, Hegel si era già occupato nella Prefazione alla Fenomenologia, opponendo al räsonierende o vorstellende Denken il begreifende Denken, al pensiero raziocinante o rappresentativo il pensiero autenticamente concettuale. Il pensiero raziocinante tiene ferma la determinazione e, onde preservarla, prende su di sé il lato per cui essa è contraddetta; il pensiero concettuale sa invece riconoscere nella contraddizione l’automovimento della stessa determinazione35. Che il pensiero sia dunque sospinto oltre ciascun termine non è affatto la dimostrazione dell’inadeguatezza dei termini in questione, come sarebbe se si trattasse solo del comportamento negativo del pensiero nei confronti del contenuto appreso, poiché invece questo sospingere appartiene in proprio ed essenzialmente a quei termini, ne è la loro intima necessità logica. Ciò comporta che lo speculativo incontra, nella forma della proposizione in cui viene espresso, un impedimento, poiché in essa il soggetto sta immobile, nella posizione di ciò che è semplicemente dato, per essere solo poi determinato dal

Che certo viene subito racchiusa e conclusa entro la forma logica del «puro concetto che comprende se stesso» (SdL II, p. 957: sono le ultime parole del libro), senza che però quest’ultima torsione e chiusura cancelli ciò che si è lasciato vedere come libertà e decisione. Ciò significa che anche la forma di unità più intensa che sia raggiunta dalla Scienza della logica può dare, per dir così, solo sulla parola lo stesso tempo in cui quest’ultimo passaggio/non passaggio rimane. 35.  «Nel pensiero concettuale, […] il negativo appartiene al contenuto stesso, ed è a un tempo il positivo, sia come movimento e determinazione immanente del contenuto, sia come totalità di entrambi» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., Prefazione, p. 123).

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predicato, non già in quella di ciò che si determina, determina sé nel predicato e come predicato. Rilevare l’ostacolo non equivale però a eliminarlo: «non è possibile oltrepassare la forma della proposizione in maniera immediata»36; né tanto meno impone di ritrarsi da esso in un’ineffabile intuizione interna. Quel che invece occorre è appunto esprimere questo rilievo, svolgere ed esporre il conflitto fra la forma della proposizione e il concetto, che attraverso questo conflitto ritorna entro sé. Non c’è altro, però: il ritorno entro sé non può essere esperito come tale. Più in generale, non c’è alcun come tale che possa tenersi al riparo dal rapporto all’altro, e la pura auto-eguaglianza non è altro che il suo assoluto differenziarsi. Più enfaticamente: il mantener se stesso nell’assoluta devastazione. Ma appunto nell’assoluta devastazione, non dopo e oltre di essa. Le cose non stanno diversamente nell’esposizione compiuta dello speculativo che è, all’altezza del sistema, il sillogismo disgiuntivo, il massimo sviluppo dell’elemento logico, l’«universalità oggettiva sviluppata» (SdL II, p. 797). Nella sfera razionale del sillogismo, oltre l’astrazione meramente formale dell’intelletto, viene raggiunta l’universalità piena del concetto, «il quale è determinato ed ha in lui la sua determinatezza in questa vera guisa, che cioè esso si distingue in sé ed è come unità di queste sue differenze intellettuali e determinate» (SdL II, p. 754). Se ci si attiene semplicemente alla forma del sillogismo, «è certo che nel sillogismo la razionalità, benché vi sia e sia posta, non apparisce. L’essenziale del sillogismo – continua Hegel – è l’unità degli estremi, il medio che li unisce e il fondamento che li regge» (SdL II, p. 755). Lo svolgimento consisterà dunque nel pensamento di questa unità come fondamento e come mediazione, universale con36. Ivi, p. 131.

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creto che si dispiega totalmente nelle sue parti, parti che sono quel che sono nell’universalità del tutto, totalità disgiuntiva in cui ciascun membro ricapitola l’intero pur restando membro. L’imperfezione del sillogismo meramente formale si riconosce proprio dall’incapacità di pensare la verità del medius terminus, il quale viene tenuto fermo «non come unità degli estremi, ma come una determinazione formale, astratta, qualitativamente diversa da quelli» (SdL II, p. 776). Hegel però precisa: «Il difetto del sillogismo formale non sta […] nella forma di sillogismo – anzi è questa la forma della razionalità – ma sta in ciò, che cotesta è solo come forma astratta ed è quindi priva di concetto» (SdL II, p. 777). Il sillogismo autenticamente razionale ha quindi la stessa impalcatura del sillogismo formale: consta di proposizioni e termini come quello, né potrebbe essere diversamente, e tuttavia in esso v’è di più che uno schema formale, più che non proposizioni e termini. Lo speculativo è ciò che piuttosto circola in essi: «allorché pertanto si riguarda semplicemente il sillogismo come costituito da tre giudizii, è questa una veduta formale che non tien conto del rapporto delle determinazioni, da cui tutto nel sillogismo dipende» (SdL II, p. 759). Beninteso, la veduta formale è pienamente nel suo diritto: il sillogismo continua a consistere di tre giudizi, ma il rapporto da cui tutto dipende, il pensiero razionale che circola in quelle proposizioni e in quei termini, benché non stia oltre di essi, non sta neppure in ciascuno di essi preso a sé (o nella loro aconcettuale somma). Come si vede, nonostante l’incremento logico rispetto alla proposizione speculativa della Fenomenologia, si produce una situazione in tutto analoga: la verità di ciò che è determinatamente pensato e posto, la verità del finito, l’infinito, non è oltre il determinato e il finito: è in essi, ma non come questi stessi, bensì come il loro “non”. Pensare è tenere in uno la determinazione e il suo “non”, senza cedere alla tentazione di moltiplicare gli enti, di fare della negazione dell’ente in cui l’ente si risolve un altro

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ente (o magari l’ente sommo). Pensare è tenere i molti in uno, e vedere l’uno nei molti. In questa risoluzione dialettica c’è però una difficoltà, che solo ora sembra affiorare. Senza forse avvedersene, e nonostante l’insistenza e quasi l’ostinazione con la quale Hegel ha richiesto lo svolgimento e l’esposizione dello speculativo, esso (lo speculativo, ovvero: l’unità razionale, la mediazione assoluta) gli è tuttavia rimasto solo come un certo riguardare, un certo modo di vedere la forma, il finito, le determinazioni dell’intelletto, le proposizioni del sillogismo, un certo aver di mira la cosa, un’intenzione dello sguardo (una theoría, la quale, fin dal giorno della sua prima invenzione platonica, vuole installarsi sempre in una distanza che in verità non è tale): non per caso, l’Aufhebung prende a volte la forma di un Erhebung, di un’elevazione spirituale, di un innalzamento puro, senza tracce o resti sensibili. In realtà, nella filosofia della completa, della perfetta Offenbarung, qualcosa rimane e non può non rimanere sempre fuori dall’orizzonte definito della rivelazione: senza poter mai essere integralmente esplicitato, poiché – come s’è visto – la soluzione non può essere quella di aggiungere proposizione a proposizione, determinazione a determinazione. C’è qui un’impotenza che è simmetrica e opposta a quella con la quale la coscienza inizia (ha già sempre iniziato), sotto la regia del puro stare a vedere della scienza fenomenologica: opinando il singolare questo-qui, essa porta al linguaggio e dice piuttosto l’universale. All’altro capo del corso fenomenologico, si verifica una situazione analoga: il dire proposizionale (il giudizio, e il sillogismo, in quanto consta di giudizi), assunto nella sua determinatezza esteriore e cioè astratta, non può valere senz’altro, cioè alla lettera, come la forma della verità. Se non può valere alla lettera, è perché lo spirito è nella lettera il “non” della lettera, ma ciò che si afferma in e come questa negazione non può essere integralmente e direttamente affermato.

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Si potrebbe certo osservare che, proprio come il fallimento e lo scacco dell’opinione ne rappresentano la verità, poiché non esiste alcun luogo interiore, privato, esclusivo, in cui l’opinare si conservi puro e incorrotto, senza cedere alla potenza del linguaggio, così non vi sono forme superiori e più perfette, dirette e positive, in cui la verità possa riversarsi, oltre quelle determinate in cui si articola il nostro dire. Sicché, da un capo all’altro del linguaggio, non vi sarebbe nulla che rimanga non-detto, o meglio: nulla di ciò che può esser detto rimane non detto37. Il “non” dello speculativo è detto perfettamente nell’unico modo in cui può esser detto: non essendo detto. Nel non-detto, però, non rimane in questo modo soltanto l’opinare, che tramonta all’alba del nostro linguaggio, e la cui verità è appunto il suo essere negato dalla magia della parola, ma anche rimane, nell’oscu­rità della notte, sotto la linea d’orizzonte del linguaggio, il concetto, nella cui luce si vuole che sia detto tutto ciò che è detto: rimane nella notte l’unità, in cui i distinti stanno come distinti; l’infinito, in cui il finito sta come finito. Come possiamo allora sapere il concetto, se esso è solo la notte che fascia l’orizzonte sempre determinato, finito, del nostro mondo e del nostro linguaggio? Poiché questo è il punto: si tratta qui di sapere. Ma quale forma può avere il sapere del “non” del detto, nel detto? Se infatti fosse vero sapere, dovrebbe essere detto pur esso; e tuttavia – s’è visto – non può esserlo. Esso è allora soltanto la coscienza che accompagna il detto, la coscienza che il detto vale due volte in uno: come ciò che è detto e al tempo stesso come ciò che nel detto è disdetto: come il “non” che, in ciò che è detto, è detto (ma questo “detto” è necessariamente da corsivizzare), proprio non essendo detto. Ma in questo modo

37.  L’ambiguità di questo “può” non può non essere avvertita: copre esso tutto il dicibile o tutto l’essere? E si badi che Hegel può ritenere perfettamente di avere una tale intellettualistica distinzione ormai alle spalle, ma appunto: egli pure non può che ritenerlo, cioè opinarlo.

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Hegel riabilita senza avvedersene quella semplice e immediata coscienza restia a farsi sapere che, nella sua decisiva partita con Kant, aveva invece inteso portare appunto al sapere38. Per Kant, all’uomo, essere razionale finito, è preclusa l’intui­ zione intellettuale, il che significa: in nessun punto forma e materia, pensiero ed essere coincidono e fanno uno. In nessun punto: neppure nella coscienza di sé dell’Io penso, che Kant si è sempre rifiutato di considerare una sorta di autointuizione, e dunque vera conoscenza. L’accusa di Husserl a Kant di avere rifiutato ogni esibizione del motivo trascendentale, impiantandolo così su una coscienza costruita miticamente, è perfettamente motivata39. Husserl era nel giusto, Kant non riteneva infatti che una simile exhibitio fosse possibile, e sospettava che forme, funzioni e facoltà dovessero essere assunte semplicemente come fatti – sia pure sui generis. È questa convinzione che orienta la direzione dell’argomentazione: non vi è niente che si mostri in se stesso dal lato della coscienza trascendentale, la cui prestazione può dunque essere desunta solo dai suoi prodotti, cioè nella filigrana dell’esperienza. Il motivo costituente può essere sì conosciuto, ma solo in ciò che è costituito. La prova 38.  Nello studio di J. van der Meulen, Hegel. Il medio infranto, tr. it. di R. Bonito Oliva, pref. di A. Masullo, Morano, Napoli 1987, la cui parte migliore è senz’altro quella dedicata alla mediazione sillogistica, si presenta questo esito come l’infrangersi del medio che si perde e passa necessariamente in una nuova immediatezza. Quando Hegel scrive che l’idea logica è infine raggiunta «in semplice identità» (WdL, p. 936), commenta van der Meulen, «cade vittima egli stesso della riflessione, che considera dall’esterno una totalità sempre come una tale semplice identità» (p. 253), mentre probabilmente, se cade vittima di qualcosa, è di quella legge dell’identità che iscrive anche la dialettica razionale dentro l’architettura del plesso logico-metafisico. 39.  Crisi, § 28, pp. 133-134: «Nella “Deduzione trascendentale” della prima edizione della Critica della ragion pura, Kant sembra accedere a una fondazione diretta, puntata sulle fonti originarie, ma subito s’interrompe senza esser riuscito a penetrare, da questo lato che egli presumeva psicologico, fino ai problemi di una vera e propria fondazione».

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di ciò è nell’argomento che è incastonato al centro della critica, la deduzione trascendentale. Essa mostra, nella sua pointe argomentativa, un già sempre: essere coscienti di sé è esser già sempre rinviati a un mondo: «La coscienza originaria e necessaria dell’identità di sé è dunque al tempo stesso [zugleich] una coscienza dell’unità altrettanto necessaria della sintesi di tutte le apparenze in base a regole» (CRP, p. 175). Non c’è oggetto senza coscienza dell’oggetto, ma questa coscienza a sua volta non si costituisce se non come coscienza dell’oggetto. Quest’ultimo tratto della dimostrazione ha però il senso di un congedo, di un distacco da un’origine mai stata origine: in una nota della prima edizione della deduzione trascendentale, Kant afferma che la realtà della coscienza trascendentale non ha alcuna importanza in sede deduzionale. Avrebbe potuto affermare, con ancora maggiore nettezza, che importa al contrario proprio l’inaccessibilità della realtà in sé della coscienza, l’essenziale essere via da essa della coscienza, in modo che all’iden­tità di sé sia costituzionalmente necessario l’atto sintetico di unificazione del molteplice. Al costituente è necessario il costituito, perché solo così «questo io, o egli, o esso (la cosa) che pensa» (CRP, p. 399) riesce a pensarsi. Questa necessità, con la quale Kant sigilla l’esito deduzionale, si fonda dunque sulla cesura fra il cogito e il suo sum, sulla distanza che si scava all’interno dell’io, e in virtù della quale la coscienza di sé è soltanto coscienza. Essa sta ora in e nel luogo di un’unità reale e sostanziale, per la cui mancanza è però possibile la formazione di un mondo, la substantia phaenomenon. Qualcosa si è dunque già da sempre sottratto e tenuto a distanza; ed essendosi già da sempre rivolta al mondo, la coscienza trascendentale rimane così pensosa di un fondamento incondizionato, nella cui vacanza soltanto un pensiero è peraltro possibile40. 40.  Vi è una ragione profonda nel fatto (così poco osservato quando si preferisce la prima versione della CRP) che, rifacendo la deduzione trascenden-

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L’obiezione di Hegel a Kant è dunque assolutamente fondata: è vero che le forme e le categorie dell’intelletto non sono state da Kant considerate in sé e per sé, è vero che l’intera compagine trascendentale non è stata dedotta, meno che mai svolta e risolta dialetticamente. La pomposa deduzione metafisica, proposta da Kant in sede analitica, non è certo all’altezza del compito. Di dette categorie si dà coscienza, non conoscenza. Il fatto è però che neppure Hegel è riuscito nell’impresa di trasformare questa coscienza in conoscenza; neppure a Hegel è riuscita la mediazione assoluta. Lo svolgimento dialettico delle forme dell’intelletto è la circolazione in cui consiste la scienza. Ma dove si tiene il circolo della circolazione? Se si dà conoscenza di una tale circolazione, conoscenza e non semplice coscienza, questa conoscenza non può non essere coinvolta e trascinata nella circolazione medesima. Hegel avrebbe bisogno di un elemento che fosse al contempo momento della circolazione e luogo in cui la circolazione tutta si raccoglie; soprattutto, avrebbe bisogno di sapere questo zugleich, questo al tempo stesso, il tempo/non-tempo di questa immediata duplicità: di sapere e non semplicemente di essere cosciente di essa. Una coscienza che non si sappia non è – proprio dal punto di vista di Hegel – niente più che un’esigenza. Ma sapere significa svolgere, esporre, dimostrare, dunque mediare, dunque rovinare quell’immediatezza. Né vale qui rilanciare ancora, secondo un motivo che conosciamo: la rovina di quell’immediatezza, cioè la sua mediazione, è proprio la sua verità. Tale rilancio non potrebbe non avere una duplice valenza: dovrebbe significare tale, Kant ha ritenuto di rendere esplicito il nesso fra analitica e dialettica trascendentale, poiché solo la consecuzione della pagina può far credere erroneamente che si tratti di due momenti separati, successivi, e non invece di un unico movimento, con il quale per un verso la condizione trascendentale è presupposta, per altro verso l’incondizionato è differito. Su questo tema, sia consentito rinviare a M. Adinolfi, La deduzione trascendentale e il problema della finitezza in Kant, cit.

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anzitutto che la scienza della circolazione, la scienza del concetto, decade ogni volta, definendo il luogo in cui perviene a se stessa, a mera figura del sapere, e rilancia così la circolazione oltre se stessa; in secondo luogo, dovrebbe dimostrare con ciò stesso che il movimento del concetto, nel decadimento e nel rilancio, non fa che ripetersi uguale, e dunque l’oltre del rilancio sarebbe immediatamente ripreso entro il luogo della circolazione. La conoscenza di questo luogo rilancia dunque la circolazione, ma la circolazione rimane entro quel luogo. Il circolo di circoli in cui si presenta la scienza (WdL, p. 955) è pur sempre un circolo41. Forse si riconosceranno in queste due chiavi le linee di un’interpretazione cosiddetta aperta e di un’interpretazione cosiddetta chiusa del sistema hegeliano. Ad esse ha sempre corrisposto un diverso trattamento della regula veri della dialettica, ossia della contraddizione. Per Hegel, «il pensamento della contraddizione è il momento essenziale del concetto», ma proprio perché è un momento, si muove e non può non muoversi verso la sua risoluzione. Esso è senz’altro «l’anima dialettica che ogni vero possiede in se stesso», e proprio perché lo possiede in sé lo assoggetta anche a sé. Se non che il senso di questo possesso non può essere a sua volta semplice e aconcettuale. La contraddizione è risolta, ma la risoluzione è contraddittoria. E l’una e l’altra cosa vanno, ancora una volta, pensati insieme, nello stesso tempo. Il punto decisivo è dunque che non è possibile separare quelle due letture: la prima interpretazione, per sé sola, fa precipitare il sistema lungo la scivolosa china (storicistica) della cattiva infinità, e la seconda, per sé sola, assottiglia il sapere assoluto a mera coscienza formale, riproducendo quei dualismi di forma e contenuto, coscienza e oggetto, che invece si dovevano superare. Le due leve 41.  Cfr. anche G.W.F. Hegel, Enciclopedia, cit., § 15, p. 23. Non è senza significato che l’immagine che nella Scienza della logica conclude l’esposizione dell’Idea sia ripresa nell’introduzione dell’Enciclopedia.

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devono dunque essere azionate insieme, nello stesso tempo: e così siamo di nuovo di fronte a un’esigenza, che non si riesce a raccogliere senza tradire. Con un po’ di cattiveria si potrebbe forse dir così: che qui vi sia uno stesso, e che questo stesso non sia lo stesso, è continua e costante asseverazione dialettica, ma per l’appunto è soltanto un’asseverazione. Un’opinione ostinata: la Meinung dialettica, la dialettica come Meinung. Non si tratta però di dare semplicemente ragione a Kant contro Hegel. In questa sede è importante riconoscere che, nonostante ogni rivendicazione di purezza, il trascendentale kantiano è già sempre compromesso con l’empirico, pena il suo irrigidimento in un profilo meramente analitico, logico-formale; questa compromissione, in secondo luogo, ha però la forma di un legame a distanza. Che permanga una distanza fra il concettuale e l’empirico, fra l’Uno e i molti, è attestato dalla ineliminabilità di un più ampio orizzonte di pensabilità entro cui cadono le condizioni trascendentali dell’esperienza. Quest’orizzonte non è altro dalla coscienza trascendentale, ma è questa stessa coscienza riguardata dal lato della sua irriducibilità a ciò che in e da essa è definito. Hegel lo ha peraltro ben riconosciuto, quando ha osservato che le contraddizioni in cui s’ingolfa il pensiero quando si applica a oggetti trascendenti, all’anima, al mondo, a Dio, non dipendono dalla «natura particolare della materia e dell’oggetto, cui coteste determinazioni verrebbero applicate […], perché l’oggetto ha in sé la contraddizione solo per quelle determinazioni e secondo esse» (SdL I, p. 28). Questo rilievo suona come una critica definitiva alla pretesa kantiana di staccare da quelle determinazioni il loro oggetto, e poi, contraddittoriamente, di riferirvele. Il rimprovero mosso a Kant, di pensare la cosa in sé sotto categorie la cui validità è già stata ristretta all’ambito fenomenico, è, in molti casi, perfettamente giustificato. Ma il passo successivo compiuto da Hegel: togliere assolutamente l’oggetto trascendente esterno, e risolvere tutto nell’automediazione di quelle determinazioni

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con loro stesse, non era obbligato, né – come s’è visto – poteva riuscire senza far risorgere il fantasma della coscienza e la sua sottile problematica, quella di un’immediatezza della mediazione che ne rappresenta in realtà la definitiva smentita, tanto quanto la necessità di una mediazione dell’immediatezza rovinava, prima, l’intuizione. Kant, quanto a lui, si era risolto a pensare la cosa in sé in termini che potessero almeno assicurarle – anche solo analogicamente – una qualche relazione col fenomeno, temendo forse che altrimenti sarebbe riuscita del tutto indistinguibile da un mero caput mortuum del pensiero. Ma era giustificato un simile timore? Oppure esso non faceva che riprodurre quell’esigenza di distinguere che per intero appartiene al regno fenomenico dell’intelletto? E non bisognava allora deporre piuttosto la cosa in sé in stato di in-differenza rispetto al fenomeno: pensare la cosa in sé senza riguardo al fenomeno? E questo non avrebbe posto nuovi e ulteriori problemi, poiché anche il rispetto-a avrebbe dovuto esser deposto, per confondere ogni possibile distinzione? Dalla difficoltà kantiana Hegel ha tratto la conclusione più drastica: ha lasciato andare a fondo la cosa in sé, risolvendola totalmente nel fenomeno, non però per concludere che c’è solo il fenomeno, ma in modo che il fenomeno ritrovasse il suo senso e la sua verità di fenomeno in e come questo movimento di risoluzione. La verità del finito è l’infinito, ma l’infinito non è un altro astratto dal finito, bensì la verità del finito nel finito e come finito. Una simile soluzione impone ovviamente che sia tolto quel rispetto-a meramente estrinseco che il fenomeno kantiano conserva nei riguardi della cosa in sé. E infatti Hegel ha proceduto al suo toglimento. Nel pensare però l’infinito come la verità del finito nel finito e come finito, nel come del finito, non osando confonderli, ha dovuto comporre in uno due sensi distinti del finito, e non potendo restaurare alcun semplice rispetto-a, ha dovuto inventare il luogo di una coscienza assoluta in cui questi due sensi stanno, pur distinti,

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in uno: perfettamente distinti e perfettamente uniti. Inventare questo luogo, senza poterlo dire e senza poterlo sapere, l’un senso assentandosi sempre come il perfetto “non” dell’altro42. Come dall’Uno i molti? L’Uno è già sempre presso i molti, i molti già sempre in uno. Ma l’unità in cui si pensa questo scambio puro rimane necessariamente assente, sottratta allo scambio, sottratta alla sapiente circolazione del concetto.

3.  La domanda Una volta circoscritto il plesso logico-metafisico, diviene possibile porre la domanda intorno all’origine di esso e ai modi della sua costituzione. I tentativi di pensiero che abbiamo fin qui seguiti si mantenevano all’interno del plesso: non intendevano incrinarne la costituzione, bensì pensarne le condizioni. In particolare, ne reinterpretavano la parola fondamentale, la differenza nell’identità, l’identità nella differenza di pensiero ed essere contenuta nel detto che la dea affidò a Parmenide. Nella nostra pur frettolosa disamina, c’è parso tuttavia di poter mostrare che questo singolare impatto di pensiero ed essere non poteva essere fondato nell’attingimento di una più alta identità, pura e aliena da ogni compromissione con la differenza, ma neppure poteva essere realizzato rinunciando del 42.  Né l’aporia è superata adottando, invece di questo impossibile sapere, la misura debole di un abitare, almeno fin tanto che questo abitare ripete la forma di un’unità, l’essere (Hegel: la ragione), in cui gli enti (Hegel: le determinazioni dell’intelletto astratto) si conservano come tali: l’essere a casa del linguaggio, il linguaggio essendo la casa dell’essere. Anche se infatti l’essere retrocede così alle spalle del pensiero e si vuole in questo modo che non sia catturato e padroneggiato dal sapere, tuttavia l’esigenza logica viene inavvertitamente fatta valere nella struttura prestata alla forma unitaria di questo abitare.

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tutto a una simile altezza, pensando cioè senz’altro l’identità come differenza. Il fatto è che non si riesce a pensare l’identità senza ritrovarsi inspiegabilmente al suo fianco la differenza, né si riesce a portare allora l’identità nella differenza senza che si profili, volens (Kant) nolens (Hegel), una nuova insolubile e adialettica identità accanto all’identità come differenza. Primità dell’intuizione e terzietà del rapporto sono i modi, in verità complementari, con i quali si è inteso assoggettare la differenza nell’identità: ogni volta vedendosi spuntare l’affronto di un accanto sottratto al pensiero. È qui contenuto implicitamente l’abbozzo di una filosofia del tempo, di cui andrebbe indicata almeno la Urzelle, la cellula fondamentale. L’accanto delinea anzitutto una relazione spaziale: è nello spazio infatti che le cose si dispongono l’una accanto all’altra, nella quiete imperturbata di una superficie. Ma che succede se invece è nel tempo che le cose stanno accanto? Vi è qualcosa, nel tempo, che ha la forma dell’accanto? Accanto, in questo caso, dovrebbe suggerire il pensiero di un tempo senza concetto, un presente che passa e si distende senza per questo conservarsi, cancellarsi o raccogliersi, e che tuttavia non si svuota per questo in un subitaneo, puntiforme passare solo perché non è più riguardato da (e subordinato a) grandezze e misure logico-metafisiche. Presente che non ricapitola il passato e non è gravido di futuro, che non contrae l’uno né si dispiega nell’altro, presente più stretto di quanto sia necessario alla riflessione per riprendersi in esso, all’anima per numerarlo, ma largo abbastanza perché in esso si cada ogni volta non in sé e nella forma del Sé, ma, per l’appunto, accanto. Presente senza primazia sul passato o sul futuro, orizzontale ma non senza pendenza, privo di spessore o profondità, povero di idee, sprovvisto di direzioni ma non inesteso, impotente ma non inefficace. Per questo tempo è disponibile un’esperienza reale, di modo che esso non sia solo la Befreiung del concetto, ma un fenomeno positivo?

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Prendiamo qui una deviazione rispetto al filo della domanda che si tratta di istruire, poiché la domanda ha essa stessa bisogno del suo tempo. Diciamo pure: poiché la domanda investe la forma logica del plesso, abbiamo bisogno di tempo, per sistemarci accanto ad essa, in una forma provvisoria, proprio come il Descartes delle Meditationes si dotava di una morale par provision mentre conduceva il suo esercizio filosofico radicale. Ebbene, il luogo al quale torna ogni filosofia del tempo è il perì chrónou del quarto libro della Fisica di Aristotele, che contiene, secondo il giudizio di Heidegger, «l’essenziale di ciò che, all’interno della comprensione ordinaria, si può affermare su questo fenomeno»43. Tale comprensione è essenzialmente orientata, secondo Heidegger, sui seguenti tratti: la connessione al movimento, che il tempo numera, ordina, secondo il prima e il poi44, e la continuità e coesione, la synécheia assicurata dall’ora, tò nŷn, sempre identico e sempre diverso45, che è limite del tempo e lo determina, senza essere parte di esso. Nei capitoli della Fisica aristotelica fanno però capolino anche altri caratteri: quando lo Stagirita ricorda il detto «il tempo consuma», o che «tutte le cose invecchiano con il tempo» (12, 221a 31), presenta un’altra maniera di essere non già nel tempo, ma soggetti al tempo: tutto infatti, scrive Aristotele, «subisce qualcosa da parte del tempo» (páschei dé ti hypò toû chrónou: 12, 221a 30); e quando, riflettendo sulla natura dell’ora, di tò nŷn, non si limita a dire che in ogni ora un certo tempo finisce, mentre un’altra porzione di tempo comincia, ma aggiunge che 43.  M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, tr. it. di A. Fabris, Il melangolo, Genova 1988, § 19a, p. 223. 44.  È la celebre definizione di Fisica, IV, 11, 219b 1 (la traduzione che usiamo è: Aristotele, Fisica, testo greco a fronte, a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1995). 45.  «L’“ora” divide invece in potenza, e, in quanto tale, è sempre diverso, mentre, in quanto unisce, è sempre identico» (ivi, 13, 222a 14-15).

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il tempo non si estinguerà giacché «sarà sempre nel principio» (aieì en archê: 113, 222b 7). Questi due caratteri del tempo, il páthos e l’arché – in termini moderni: l’irreversibilità e l’inizio, tanto poco numerica la prima, quanto discontinuo l’altro –, offrono una base fenomenica irriducibile tanto alla comprensione ordinaria, così come Heidegger la ripropone, quanto all’analisi ontologico-esistenziale con cui il filosofo di Messkirch guadagna una comprensione a suo dire più originaria46. Il tempo sta nell’inizio, en archê, e può essere pensato solo nell’inizio e a partire dall’inizio, solo grazie all’asimmetria irreversibile che in questo modo è procurata al tempo. Solo perché c’è inizio, c’è tempo e irreversibilità. Questa affermazione deve certo comporsi con la natura intermedia dell’ora, per cui l’ora è mesótes tis, ma è proprio la relazione all’arché che procura all’ora la sua stoffa temporale. Il tempo, che è en archê, non è nell’ora, bensì al contrario: l’ora è nel tempo. Il tempo eccede, in virtù dell’inizio, la mesótes dell’ora, dandogli tempo. L’inizio accade, il tempo succede. La successione degli ora non è ancora tempo. Quando Aristotele afferma che ogni ora è, insieme, identico e diverso, ci lascia pensare comodamente che l’identità 46.  È importante qui precisare che, in ciò che segue, l’indagine è orientata al fenomeno stesso: non dunque sul testo aristotelico, ma su quegli elementi che si trovano inseriti nel testo, senza riuscire a orientarne l’interpretazione complessiva. In breve: per quanto Aristotele abbia l’idea che il tempo esiste, che nel tempo e col tempo ogni cosa subisca qualcosa, e che il tempo sia «causa per sé di corruzione» (phtorâs aítios kath’eautòn: ivi, 12, 221b 2), mantiene fermo che il tempo è numero, che la sua misura è il giro regolare e uniforme del cielo, e che tale misura non pare essere nulla di diverso dal misurato, sicché non solo gli affari umani, tà anthrópina prágmata, ma anche il tempo stesso sembra essere, come egli dice in conclusione, «un certo cerchio» (14, 223b 29). E per quanto poi Aristotele pensi che il tempo non semplicemente finisce e ricomincia in ogni ora, ma può finire e ricominciare in quanto si mantiene sempre en archê, rinuncia a pensare l’ora in senso autenticamente temporale, a partire da questa arché, e lo consegna senz’altro alla continuità della mesótes.

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è la forma dell’ora, mentre la diversità è del contenuto. Ma l’ora che si succede sempre uguale non è l’ora temporale, l’ora che sta nel tempo. La diversità deve qualificare l’ora stessa, e può farlo solo se l’essere nel tempo è pensato a partire dall’inizio, in quanto l’ora è sfocato rispetto all’inizio. Ora però bisogna considerare più da vicino la natura dell’inizio, senza collocarlo fuori dal tempo, per scansare con risorse teologiche ogni difficoltà, ma senza neppure lasciare che la mesótes dell’ora lo travolga. Ciò di cui disponiamo è soltanto l’ora, però nella sua natura temporale, e non semplicemente numerata. Ma una determinazione, data nel fenomeno stesso, che restituisce la temporalità dell’ora ponendola nell’inizio c’è: non bisogna inventarla. Dell’ora si deve dire infatti che, nel suo accadere, quando succede, viene sempre prima di venire prima. L’ora infatti non si fa mai presente come quel che viene prima: questa considerazione è in fondo una ricostruzione ex post dell’evento dell’ora. L’ora viene prima di venir prima, ma non per un mero ritardo del sapere, per cui è solo dopo che vengo a sapere del carattere di prima dell’ora; si tratta invece dell’anticipo che costituisce l’accadere dell’ora, per quanto esso è temporale: l’accadere prima (di venire prima) appartiene al succedere dell’ora, vi è, per dir così, impresso ed è appunto quel che, accadendo, resta accanto a quel che succede. Non c’è infatti alcun accadimento che preceda quel che succede, ma quel che succede reca in sé lo stigma di questa precedenza, l’accadimento stesso dell’inizio, nella sfasatura fra il venire dopo e il venire prima. Non c’è coincidenza, nell’ora, per quanto pure lo si voglia concepire numericamente uno, come limite del tempo. L’ora che succede, che viene dopo, viene prima di venire prima: perciò è nel tempo. L’ora dell’inizio non è così un istante speciale e fatidico, diverso da ogni ora, come ad esempio l’ora agostiniana della creazione, ma è quel tratto dell’ora che non fa a tempo ad accadere, che già succede. L’ora è così in due: osservato sulla linea di successione, ridotto ad essa, è un limite intemporale che

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ha, nello stesso tempo, dietro di sé tutto il tempo che precede, e davanti a sé tutto il tempo che segue. Ma, in quanto accade, l’ora non si trova nel tempo stesso tra ciò che precede e ciò che segue. A dividere il prima e il poi non è uno stesso ora, perché l’ora stesso è sfasato, accadendo accanto (nell’inizio) a ciò che succede. Col che non si indicano evidentemente due ora diversi, ma che l’essere stesso dell’ora è in due: proprio perciò gli riesce di accadere, ed è presente come quel che succede. La trattazione dell’ora nel libro quarto della Fisica è a volte considerata un approfondimento dell’exaíphnes di Platone47. Il cambiamento di stato non può avvenire in uno stato, così ragiona Parmenide, nella grande gymnasía platonica: non potendovi essere un tempo in cui qualcosa sia contemporaneamente in quiete e in movimento, occorre giocoforza che il passaggio dalla quiete al movimento, dal movimento alla quiete, avvenga in un istante atopico, illocalizzabile, che non si trova in nessun tempo ed è perciò istantaneo. La metabolé che si compie nell’istante è presentata come un movimento da… a, ek… eis, in una maniera tanto rigorosa quanto, forse, imprevista48. La contrazione in un punto della metabolé è logicamente necessaria; ciò però non elimina il dislivello interno alla stupefacente natura dell’exaíphnes, lo ek e lo eis del metaxù. Pensare l’exaíphnes ha significato in genere, per gli interpreti del Parmenide, prendere, per dir così, la via logica, negativa, della contraddizione in 47.  Cfr. ad es. M. Cacciari, Chronos e Aion, in «Il Centauro», n. 17-18, 1986, pp. 3-17. 48.  «È in direzione di questa natura [= della natura atopica dell’exaíphnes] e a partire da essa che ciò che è in movimento muta verso lo stato di quiete, e ciò che è immobile muta in direzione della condizione di movimento» (Platone, Parmenide, 156 d5-e1; tr. it. di F. Ferrari, BUR, Milano 2004). Platone non dice che il movimento muta in direzione della quiete, o la quiete in direzione del movimento. Il verso cui e il da cui del movimento appartengono all’istante stesso: non indicano i due stati del moto e della quiete, come si è soliti intendere in modo piuttosto sbrigativo, ma la natura dell’exaíphnes.

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cui consiste l’istante. Può darsi che sia la lettura più pertinente e più giustificata dal testo stesso. Ma un’altra via è possibile, quella che prova a descrivere positivamente i fenomeni stessi, la stoffa temporale della metabolé, la scalinatura che interviene nell’istante in cui accade – che altro non è se non la forma platonica in cui si incide, nella materia stessa del tempo, l’inizio di ogni mutamento. L’inizio non è assegnabile quando succede: non ha quando. È per questo che s’è detto non che non v’è alcun inizio, ma che l’ora viene prima di venir prima, e cioè: il prima si costituisce come prima solo poi. Nei termini del Parmenide questo deve ora significare che il mutamento non è mutamento se non a distanza da sé, quando è passato nella quiete. Non basta allora pensare il movimento come movimento, la quiete come quiete, per poi rimanere stupefatti e interdetti di fronte alla metabolé dell’uno nell’altro, e chiamare pura contraddizione quel che ne risulta. Proprio questo, anzi, non è possibile, nel tempo: che il movimento sia movimento, che la quiete sia quiete. Tanto l’uno quanto l’altra, e in genere ogni determinazione si costituisce, nel tempo, secondo la scansione interna dello ek e dello eis. L’istante è cioè il venire prima di sé del movimento stesso, così come della quiete e di ogni altra determinazione: stupefacente non è che il movimento si muti in quiete, ma che si dislochi nell’istan­ te; stupefacente non è quel che succede, ed è sempre sotto i nostri occhi, ma quel che accade, e che invece non osserviamo abbastanza in ciò che succede, portandoci istantaneamente dallo ek allo eis, senza sostare e restarvi accanto. Dov’è d’altronde tutta questa subitaneità dell’istante, senza lasso di tempo? Non certo nell’esperienza, bensì soltanto nel concetto, e nel solo concetto. Così, quanto più consegniamo la metabolé al concetto e all’identità come sua legge – il movimento come movimento, la quiete come quiete –, tanto più si assottiglia, fino a scomparire, il tempo nel lampo dell’istante. Ma allora è vero anche l’inverso: che solo quando il concetto rallenta così tanto da non essere più

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in presa diretta sulle cose, ma rimanendovi accanto, esposto alla loro in-differenza, il tempo accade, e qualcosa inizia49. L’in-differenza della cosa rispetto al concetto rimane però ancora, per noi, coperta dal raggrumarsi ostinato dell’identità, a fianco della differenza, o dalla resistenza inspiegabile della differenza, a fianco dell’identità. Sono i termini con i quali ci si è imposta la natura problematica del plesso logico-metafisico, per la quale si è fatto necessario elevare una domanda genealogica intorno alla sua origine. Abbiamo tempo, per essa, ma non abbiamo ancora la concreta esibizione di come essa accada e di cosa comporti. Ora, la genealogia domanda come abbia potuto costituirsi il plesso logico-metafisico; invece di riprodurne la struttura, chiede di indagarne la genesi. Ovviamente non vi è un unico modo in cui la ricerca genealogica possa svolgersi: genealogia può dirsi in molti modi, e secondo intenzioni diverse, benché poi tutte queste diverse modalità e intenzioni condividano l’obiettivo di portare allo scoperto qualcosa, che 49.  Ciò che inizia è, nella tradizione del pensiero, il fondamento. Ma il fondamento non inizia, cioè non fonda davvero, se è richiesto come presupposto dell’ente: grazie, dunque, all’ente. Nel prendere le distanze da una filosofia ormai esausta, che ha rinunciato, lungo l’eredità kantiana, a «inscrivere nel discorso il fondamento dell’ente» (R. Ronchi, Atto. Teologia dell’immanenza. Parmenide Descartes Hegel, in R. Panattoni - R. Ronchi [a cura di], Immanenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 157), Ronchi ha indicato nel trattino, nel suo uso e abuso, il marcatore grafico di questa rinuncia. Nel modo in cui ce ne serviamo ancora, è sì da riconoscere una rinuncia, ma essa riguarda, in primo luogo, la logica della presupposizione, con cui si crede di poter risalire al fondamento, muovendo dall’ente, e, in secondo luogo, la mossa con cui la causalità fondatrice, effettuandosi a velocità infinita, si porterebbe nell’ente senza residuo alcuno, serrandosi in una identità assoluta. In-differenza è in realtà il nome di una decelerazione: la presa del concetto si allenta, la corsa del fondamento rallenta, l’inizio inizia, accade, ha tempo. I materiali di questo abbozzo di filosofia del tempo sono già in Del tempo. Una passione senza misura, in M. Adinolfi, Una passione senza misura. L’esercizio della filosofia attraverso la sua storia, Transeuropa, Massa 2007, pp. 183-204, cui sia consentito qui rinviare.

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senza il lavoro della genealogia rimarrebbe nascosto e obliato. In un primo senso, lo scavo genealogico può avere l’intenzione di mostrare come l’origine sia non soltanto coperta, ma addirittura violentata e falsificata dalla costituzione del plesso logico-metafisico. In un secondo senso, l’alterità dell’origine viene conservata, ma è in altro modo che si interpreta il suo coprimento: come un destino necessario, piuttosto che come una cieca sopraffazione. Mentre nel primo senso la compagine metafisica impiantatasi sul suolo originario dell’esperienza è semplicemente abusiva, e il suo rapporto con l’origine è strettamente conflittuale, agonistico, nel secondo senso vi è una certa compromissione dell’origine con l’originato, e dunque un tradimento, sì, ma necessario. Un destino, appunto. Nel primo caso, tuttavia, è possibile che al pensiero si assegni il compito di rovesciare l’edificio della metafisica e riguadagnare così il luogo dell’origine, o che invece si consideri tale compito ineseguibile, e la violenza già sempre perpetrata senza rimedio. Nel secondo caso, invece, la possibilità riservata al pensiero può essere quella di un à rebours, a destino della metafisica ormai compiuto, in vista di un altro inizio (ma non necessariamente per liberare un accesso pieno e senza frammezzi all’origine, bensì anche solo per disporsi a un nuovo compromesso, a una forma nuova di ascolto e di appartenenza all’origine); o può trattarsi invece di compiere un certo lavoro sui due margini di quel compromesso, non solo sull’uno né solo sull’altro, senza poterlo perfezionare e rinnovare, ma senza neppure poterlo revocare. Ma la genealogia può dirsi in un altro modo ancora: può essere condotta non già come un assalto che dall’esterno aggredisce il plesso, e neppure come un discorso ibrido e senza chiare paternità ai suoi confini, senza collocazioni assegnabili, ma come una sua mossa interna, come una riflessione sul posto, un’autogenea­logia, e come una genealogia di sé più che del Sé, in cui cioè il plesso può condurre a esiti diversi: può trattarsi di mettere nuovamente a giorno (mettere a giorno, questa volta,

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e non ribaltare) il senso delle strutture logico-metafisiche del pensiero riscoprendone i motivi genetici, in modo che l’originato trovi nell’origine l’evidenza delle sue ragioni, piuttosto che l’arbitrio dei suoi torti, oppure di produrre il contro-effetto di uno spostamento di sé dal proprio luogo, di uno slittamento del punto d’arrivo rispetto al punto di partenza, e dunque la smentita in corso d’opera – tragica, etica, o persino ludica – della perfetta flessione su di sé della riflessione50. Il quadro così tracciato non è certo completo, ma prima ancora che la completezza del quadro importa che ci si soffermi anzitutto sulla natura della domanda che in modi così diversi viene declinata. A prima vista, infatti, la semplice posizione della domanda determina lo stato di crisi della metafisica e ne impone – come già Kant chiedeva, in via preliminare e tuttavia con altre ragioni – la sospensione. Se vi è infatti spazio per domandare intorno all’origine del plesso, se vi è modo di interrogare un’origine del plesso che al plesso tuttavia non appartiene, se del plesso si possono quindi tracciare i limiti e circoscrivere le ragioni a partire da una provenienza o un’anteriorità più ampia di esso, allora il credito finora rilasciato all’universalità e necessità della verità metafisica non può non essere ritirato, 50.  Anche in questo caso ci permettiamo solo con molta prudenza di dare un nome ai diversi percorsi indicati, non avendo qui da soddisfare interessi di carattere storiografico. Solo dunque a titolo di indicazione, e con tutte le approssimazioni del caso, diremo che le due possibilità raccolte sotto una prima accezione del concetto di genealogia sono associabili ai nomi di Nietzsche e di Foucault; sotto la seconda accezione del concetto, è possibile intravedere i nomi di Heidegger e di Derrida (ma sarebbe più corretto dire di un certo Heidegger e di un certo Derrida). Il terzo senso, infine, distingue un modo di condurre l’operazione genealogica nel quale può riconoscersi il lavoro di Husserl, che alla critica della ragione logica ha dedicato il suo impegno maggiore, ma anche – nell’ultimo esito suggerito – l’impegno di pensatori come Vincenzo Vitiello, in cui lo smacco della riflessione ha il páthos della contraddizione e sospende il pensiero al puro possibile, o Carlo Sini, che lo declina invece nel senso di un diverso abito del pensiero.

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qualunque sia la natura di questo più vasto e originario terreno di provenienza e comunque esso venga poi determinato. Per questa ragione, la questione genealogica non può non essere anzitutto la questione del titolo (a priori) di questa domanda: a quale titolo e con quale diritto domanda la domanda genealogica? Non presuppone essa quel che invece deve essere dimostrato? Non si dà essa indebitamente lo spazio che poi crede di ritrovare dal lato della risposta? E poi: da dove proviene la domanda stessa? Non sarà necessario domandare sulla domanda, interrogarsi intorno all’origine di questa stessa domanda, fare la genealogia della domanda genealogica? Non tutte le versioni della domanda genealogica sono accompagnate da una simile riflessione, e questo spiega come talora l’indirizzo genealogico possa venir confuso con un genere di indagine di carattere storico-empirico, oppure antropologico, volto all’accertamento delle condizioni culturali, sociali, materiali e ideali, che hanno potuto favorire – come ad esempio si suol dire – il miracolo greco. In tali casi si pretende che la domanda non sia minimamente invischiata in ciò su cui domanda, che non debba nulla ad esso, che non abbia nel plesso il suo stesso terreno d’origine: casi, questi, non troppo dissimili da quelli nei quali si vuole che sia il terreno sterrato dalla genea­ logia a vantare quella purezza incontaminata che la domanda tiene invece in sospetto finché si presenta come attributo logico-metafisico. Questa non è poi l’unica né la principale difficoltà di una genealogia senza riflessione. Se infatti il terreno portato allo scoperto è senza rapporto con ciò che ne nasconde o preclude l’accesso, allora la genealogia si priva di qualunque potenza esplicativa e critica nei confronti del fenomeno del nascondimento. Non importa che la regione finalmente perlustrata dalla genealogia sia chiamata fisica, sulla scia (crediamo malintesa) di Nietzsche, oppure etica, secondo l’indicazione di Levinas, o in altro modo: finché essa viene assegnata, senza complicazione alcuna, a un

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prima o a un altrove assoluto, rimane impensato il rapporto che questo terreno intrattiene con la metafisica, come anche rimane impensato, sottratto e come non avvenuto, l’assegnare stesso, il gesto forse non innocente col quale si dispongono i luoghi. L’eterologia pura, l’esteriorità semplice, è soltanto un sogno, ha detto Derrida a proposito di Levinas51. È vero pure, tuttavia, che una simile strategia muove da un’esigenza, forse da un’insoddisfazione che non può essere semplicemente accantonata, per il fatto che così facilmente pretende di sottrarsi alle soffocanti spire della riflessione. Forse si tratta proprio dell’insoddisfazione per la maniera con la quale la riflessione vuole averla vinta: quasi senza giocare davvero la partita. Per smettere di filosofare bisogna ancora filosofare: se ne può essere senz’altro convinti? È necessario, ad esempio, che la fine della filosofia sia pensata filosoficamente, oppure questa necessità è ancora soltanto la necessità della filosofia, nel senso soggettivo e non oggettivo del genitivo: la necessità che la filosofia stessa coltiva, e ribadendo la quale conferma soltanto se stessa, la propria ostinazione, e non la necessità che la filosofia stessa vi sia? È singolare che la filosofia si accorga così poco della gigantesca prova ontologica dentro la quale continua a ripetere se stessa. Proprio come Dio è quell’ente di cui non si può pensare la non esistenza, così non si potrebbe pensare la non esistenza della filosofia52. Ma c’è il caso che il massimo argomento della filosofia, la cui ombra – come si vede – si prolunga ben oltre il suo 51.  Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, intr. di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1982, pp. 99-198. 52.  Il rilievo può apparire banale: nulla e nessuno può pensare di non esistere senza essere inconseguente. Il nostro rilievo, però, non riguarda l’impossibilità per la filosofia di negare se stessa, ma l’appropriazione da parte della filosofia della sua negazione (né è inutile, peraltro, ai fini di una comprensione dell’essenza della metafisica, rammentare che l’argomento ontologico mima la performance del cogito e ne costituisce una macro-variante).

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declino, lungi dal segnare l’apogeo della sua potenza, manifesti invece più profondamente la sua impotenza. La strategia metafisica è quella della volpe e l’uva: dove non arrivi, lì provi a dire che non vale la pena di arrivare. Ma in realtà l’onnipotenza di Dio s’infrangeva contro l’impossibilità di rinunciare agli attributi divini, e fra questi allo stesso attributo dell’onnipotenza, la quale dunque non era potente abbastanza per liberarsi di sé, non era in tutto e per tutto potente. Allo stesso modo, la potenza riflessiva della filosofia si rivela ora impotente a dis-pensarsi da sé. (Un’intera tradizione entra in aporia, qui, nella difficoltà di pensare non semplicemente l’aspetto negativo della potenza, il potere di non, ma il depotenziarsi della potenza stessa, il suo disfarsi, che pur deve essere pensato non solo perché la potenza sia davvero potenza assoluta – in teologia –, ma perché la potenza sia davvero e assolutamente potenza – in ontologia). In che modo una genealogia che si mantiene dentro siffatti rapporti può allora compiere davvero la propria opera? La metafisica non può essere semplicemente oltrepassata, ci ha spiegato Heidegger, perché il gesto dell’oltrepassamento le appartiene; nell’oltrepassamento, la metafisica non fa che riprodurre se stessa: ma ecco che si ripropone in questo modo un altro bell’esem­pio delle inesauribili risorse della riflessione. Ora, non è proprio questo movimento della riflessione a dover venire in questione nel progetto genealogico? Ma come? L’intero profilo della questione sembra così confondersi, e la domanda genealogica perdere il suo mordente, non appena è posta attenzione alla relazione fra la domanda stessa e il plesso logico-metafisico che ne è investito, poiché sia che si neghi che una tale relazione si dia, sia che invece la si affermi, in entrambi i casi la domanda cade, per dir così, ai piedi del suo stesso domandare: vuoi perché ha perso qualunque pertinenza, come nel primo caso, vuoi perché ha invece perso qualunque impertinenza, come nel secondo caso. Nel primo caso, è come quel soldato che non sa più perché continua a combattere; nel secondo, come

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quell’altro che scopre, avendo a lungo scavato, di non essersi mai allontanato dalla fortezza dalla quale voleva fuggire. In un caso parla una lingua sconosciuta e incomprensibile, ammesso pure che dica ancora qualcosa; nell’altro, scopre di essere solo un dialetto della lingua che voleva contestare. Oggettivazione e riflessione sono insomma i due poli tra i quali oscilla la domanda genealogica, trattenuta da un invisibile elastico, che ogni volta richiama la domanda dal punto nel quale essa è posta ai suoi sotterranei presupposti. Si osservi infatti il movimento con il quale procede lo scavo genealogico condotto per lo più nell’ambito della filosofia contemporanea. La prima mossa consiste nella rigorosa circoscrizione dell’oggetto che deve essere genealogizzato; la seconda, nel riconoscere al pensiero una potenza di rivolgimento o di riflessione rispetto a tale oggetto, la potenza di sollevarsi da esso, di retrocedere rispetto ad esso o di dominarlo dall’alto. Orbene, come non riconoscere la solidarietà stretta, strategica, fra il prima e il poi, fra la prima mossa e la seconda, fra la circoscrizione dell’oggetto e il rivolgimento operato rispetto ad esso? Come non accorgersi che si tratta dei due tempi di un’unica strategia, di un unico plesso? In effetti, non è possibile considerare neutrale l’operazione con la quale l’oggetto viene offerto all’indagine genealogica, né è possibile considerare che l’indagine non sia toccata, nei suoi presupposti, dal rispetto-a l’oggetto in cui essa si mantiene. L’oggetto è l’oggetto della genealogia, e la genealogia è la genea­logia dell’oggetto: l’uno appartiene all’altra, l’altra appartiene all’uno53. E non c’è modo: da questa appartenenza non si

53.  Si danno molti esempi di una simile dialettica, benché non è necessario che tutto, in questi esempi, si riduca ad essa. Si pensi al rapporto che Nietzsche instaura con il platonismo, oppure a quello che impegna Husserl con l’obiettivismo della scienza moderna (e potremmo continuare con Heidegger e la storia della metafisica; con Rorty e il rappresentazionalismo; con Derrida e il fono-logocentrismo, e così via). È importante notare che, in

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esce riflettendo ancora, riflettendo meglio, poiché la riflessione è innescata dall’oggettivazione, tanto quanto l’oggettivazione è presupposta dalla riflessione. C’è una traduzione linguistica per questo rimbalzo reciproco. I suoi termini sono: denominazione e autoriferimento. Il discorso sul discorso, la fuga nei lógoi, la riflessione, è conseguenza della concezione denotativa della parola, che nel dare nome al qualcosa, lo riconduce alla sua identità logica determinata: «la lievitazione metalinguistica non rappresenta altro che il tentativo sempre reiterato di afferrare l’essere non-linguistico sotto la coltre denotativa del “qualcosa come qualcosa”»54. È chiaro che però qui si assume che sia possibile, in altro modo che non sia il linguaggio, avere accesso all’essere non linguistico che il linguaggio ricopre con la sua coltre. Quale essere, però, e quale altro modo? Che significa avere accesso? Cosa si articola qui? E che cosa viene via, insieme col nome? Possiamo presentare il problema che così si profila al modo in cui lo affronta Jacques Derrida nella sua grammatologia. Discutendo del rapporto tra linguistica e semiologia, e del tentativo di ricondurre la prima nel più ampio campo della seconda, Derrida denuncia il rovesciamento operato da Barthes: la linguistica fa parte della semiologia al modo in cui una disciplina che si occupa del segno linguistico cade dentro una scienza dei segni in generale, ma la semiologia deve sottomettersi a sua volta alla linguistica (a una trans-linguistica, a questo punto) se rimane vero che al senso che i segni in generale avranno, per

questi casi, si lascia sì ben vedere la figura che, definita e circoscritta, sarà investita dalla domanda, ma non allo stesso modo si dà a vedere il gesto stesso del circoscrivere: come se esso fosse innocente. 54.  P. Virno, Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio, Donzelli, Roma 1995, p. 94. E poco più avanti, con pari efficacia: «il misticismo del nome proprio si converte necessariamente nel tecnicismo della gerarchia di linguaggi» (p. 96).

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quanto potrà mostrare la ricerca semiologica, bisognerà ancora dare un nome: «non c’è e non ci dovrebbe essere “un senso se non nominato”» (G, p. 79), scrive Derrida citando Barthes, denunciando quindi, ancora una volta, la chiusura di ciò che il filosofo francese chiama il logocentrismo. Chiusura che non viene davvero forzata se l’esigenza di un senso innominabile, o di un essere non linguistico, si presenta, per l’appunto, solo come esigenza, ricavata dalle difficoltà interne al plesso logicometafisico. Come dovremmo infatti significare il portarsi fuori dalle distinzioni stabilite dal plesso, e come dissipare il dubbio che questo stesso dentro/fuori appartiene in realtà anch’esso al gioco di opposizioni su cui si fonda il plesso, il logocentrismo, la concezione logico-metafisica del linguaggio55? Sin qui, infatti, il plesso sembra in grado di dotarsi di insuperabili difese immunitarie, che domesticano la domanda per il tramite di una riflessione che ridisegna continuamente i confini del plesso, determinando il fuori e ridimensionandolo come il 55.  Anche G. Chiurazzi, Dynamis. Ontologia dell’incommensurabile, Guerini e Associati, Milano 2017, frequenta, sulle tracce del problema antico, e quasi leggendario, dell’incommensurabilità della diagonale con il lato del quadrato, un senso álogon, irrazionale, e árreton, indicibile, della relazione, che impone di pensare l’essere come dýnamis («l’incommensurabile non è una cosa, ma una possibilità», p. 102) e di annodare i fili di una tradizione che passa per il parricidio del Sofista platonico e i molti sensi dell’essere aristotelico, e arriva ad alcuni luoghi decisivi della modernità, come il trascendentale kantiano, l’infinito in Hegel, la differenza in Heidegger. In termini formali, l’essere è allora pensato come l’indeterminato rispetto al determinato, come ciò che, rispetto a un sistema dato, non è riducibile né enumerabile in esso, non si lascia nominare né contare, e che tuttavia non può non esser posto. La domanda è se questa dýnamis non sia però raggiunta così solo come il risvolto negativo, il verso di quel recto che si trova presentato nel plesso, e in definitiva la condizione di possibilità che sottraendosi fa essere. Quel che resta indeciso è se la difficoltà di pensare la relazione, il rapporto, nell’ambito di un’ontologia tradizionale, sostanzialistica, debba spingere verso un’altra ontologia o non piuttosto spingere a esplorare la possibilità di un essere irrelativo, di un essere senza relazione.

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fuori che è tale solo rispetto a ciò che è dentro. Non vi è più (ma non vi è mai stato) un fuori, che non fosse già sempre il fuori del dentro, né vi è più (o vi è mai stato) un dentro, che non sia tale in virtù del suo fuori. Tra il dentro e il fuori vi è legame, comunicazione, koinonía. Col che però la partita con la domanda genealogica è tutta meno che conclusa. Si sarà riconosciuto nel dimensionamento inflitto alla domanda una delle strutture portanti su cui poggia la grande arcata del plesso: la curvatura dell’esperienza, per dirla con Kant, il cui raggio è tracciato dalla potenza metafisica della determinazione. Ma se la dialettica dentro/fuori appartiene tutt’intera al plesso logico-metafisico, allora c’è luogo perché la domanda venga rilanciata su questo più alto livello, sul quale viene in questione ora il modo con il quale il plesso pretende di appropriarsi riflessivamente della domanda. Se la domanda è resa inoffensiva dalla riflessione, è questo rendere inoffensiva la domanda per il tramite della riflessione a essere ora oggetto di domanda. Solo ora sembra delinearsi il profilo autenticamente problematico della questione genealogica. Neppure in questa postazione, tuttavia, la genealogia può attestarsi e mettersi senz’altro al lavoro. Si vede subito il paradosso nel quale ci siamo infatti cacciati: se a essere investito dalla domanda è proprio il modo con il quale la si vuole rendere inoffensiva, e se però una domanda risorge pur sempre a fianco di un tal modo proprio per inquisirlo, allora la domanda non è stata affatto resa inoffensiva e non è dunque l’inoffensione ciò su cui verte la domanda. Questo significa che la domanda non sa veramente quel che domanda – questo almeno è il modo con il quale la riflessione interpreta, per averne ragione, il paradosso che è risultato: come uno scacco della domanda, la quale vuol esser domanda e non riesce ad esser tale, e se riesce a esser tale è perché a non esser più lo stesso è ciò su cui la domanda vuol domandare.

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Proprio questo esito dimostra però che lo scacco della domanda si ripercuote anche sul plesso e sulla sua autoassoluzione riflessiva. Si consideri infatti: la domanda non può domandare sull’assoluzione dalla domanda, poiché, se c’è domanda, non c’è assoluzione; ma se non c’è domanda, da cosa c’è assoluzione? Se non c’è domanda sull’assoluzione dalla domanda, non c’è neppure l’assoluzione. Se non c’è domanda, non c’è neppure il domandato. Si può dire la cosa anche nei termini noti della dialettica hegeliana, dalla quale ci accorgiamo così di non esserci ancora veramente allontanati: se la mediazione toglie l’immediatezza, toglie anche se stessa. Il togliersi dell’uno con l’altro è ciò cui Hegel ha tuttavia dato nome di riflessione assoluta – come se potesse osservarla, codesta riflessione (codesta quale?), mettersela innanzi e tenerla ferma almeno per il tempo necessario a darle un nome. Ma un simile tempo della non-riflessione in cui osservare il movimento della riflessione non c’è, e così la riflessione assoluta ricade sempre sul rovescio e alle spalle dell’osservazione ad essa mirata, della sua impossibile oggettivazione. Ricade sempre: dobbiamo immediatamente esporre quest’ultima proposizione alla sua contestazione, per proibirci le facilità della teologia negativa. Se infatti ricadesse sempre da un lato, sarebbe appunto ciò che sta da quel lato, l’altra faccia dell’oggettivazione (e magari quella faccia nascosta che ritraendosi rende possibile: come poi lo faccia, trascendentalmente o ontologicamente, non ha molta importanza). La riflessione non ricade sempre sul rovescio del mondo, benché non si possa neppure dire che qualche volta ricada davanti ad essa e si faccia osservare. La riflessione assoluta non è riflessione assoluta: non è identificabile come riflessione assoluta. Questo esito è importante. Noi non abbiamo inteso dimostrare che, soverchiata dalla potenza della riflessione, la domanda ha carattere meramente incoativo e non riesce a chiamarsi fuori da ciò su cui domanda. Si vede solo questo lato del problema,

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quando si osserva che la questione non è «quella di uscire o di rientrarvi, la questione è di sapere in che modo si abita questa filosofia»56. Uscire o rientrare sono certo, ancor più di altre, figure della filosofia. Si potrebbe persino sospettare – se ne avrebbe ragione – che l’impossibilità di uscire dalla filosofia è la sua scena originaria. Il punto è però che a tale scena appartiene anche codesta interpretazione filosofica dell’uscita. E se è così, far propria l’obiezione che la pretesa di uscire dalla filosofia è ingenua significa semplicemente consegnare ancora una volta (del tutto ingenuamente!) la chiave di ogni possibile uscita alla riflessione filosofica, perché la butti via. Pensare l’uscita dalla filosofia è certo ingenuo, ma è altrettanto ingenuo non accorgersi che la denuncia dell’ingenuità non dimostra affatto l’impossibilità di uscire dalla filosofia, ma, tutt’al più, che si sta ancora pensando filosoficamente l’uscita. (La filosofia resiste, spostandosi dal nome all’avverbio). Questo è l’altro lato, che spesso ci si dimentica di considerare. Ogni dimostrazione dell’intrascendibilità del plesso logicometafisico dimostra en logicien et en métaphysicien, e dunque conferma quel che già si sa, ovvero l’impossibilità per la filosofia di uscire da sé, ma non dimostra né può dimostrare che una tale impossibilità valga assolutamente, equivalga cioè a un’impossibilità tout court57. Una simile equivalenza potrebbe valere solo in una prospettiva radicalmente fenomenologica, per la quale non ha alcun senso supporre alcunché oltre l’esibito (Husserl) o il pensato (Hegel), oltre l’auto-offerenza o l’autoriflessione. Il fatto è però che la domanda chiedeva conto proprio del diritto di tale prospettiva, della legittimità dell’autó dentro cui la filo56.  J. Derrida, in Colloquio con J. Derrida, a cura di M. Telmon, in «Paradosso», n. 2, 1992, p. 194. 57.  Né si può dimostrare, in verità, che si ha motivo di contestare l’equivalenza, e cioè che la contestazione non abbia ancora una provenienza logico-metafisica.

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sofia si costituisce, e dunque la domanda risorge, sia pure – si direbbe – allo stadio larvale. Non è solo la domanda, però, a rimanere allo stadio di tentativo: anche la riflessione non riesce a costituirsi come tale. La riflessione non è riflessione. La riflessione, al pari della domanda, non può essere detta. Dirla è disdirla. Né l’impossibilità della domanda né l’impossibilità della riflessione possono dunque acquietarsi in un risultato, poiché non possono esser dette. E in verità non si potrebbe neppure dire che non le si può dire, e così via in un disperante ad infinitum. L’ad infinitum è procurato dalla contraddizione in cui precipita il pensiero tanto dal lato della domanda, poiché la domanda non è domanda, quanto dal lato della riflessione, perché la riflessione non è riflessione. L’ad infinitum non è che lo schermo su cui si proietta, per nasconderla, la destituzione della rigida determinazione, precipitata ormai nell’autocontraddizione, il prolasso del muscolo intellettuale, l’inutile e impotente affannarsi del pensiero che gira su se stesso, rimbalzato tra determinazioni non più opposte ma confuse e perciò intenibili, pensiero che non può riflettere sulla domanda né domandare sulla riflessione senza smentirsi nell’atto stesso di riflettere o di domandare, e senza neppure poter infine pensare se stesso nei termini di una necessaria smentita.

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Capitolo III

La posizione della domanda

1.  L’essere previo Riprendiamo i termini della questione, in modo da portarci poi a ridosso del tentativo fenomenologico di sottrarsi ai contraccolpi della riflessione. L’aporia che impedisce al plesso logico-metafisico di mantenersi nella sicurezza del proprio dominio ha suggerito un’indagine genealogica che ne accerti i titoli. Quest’accertamento deve condurre in direzione delle fonti ultime di senso cui attinge ogni formazione conoscitiva: «radicalmente svolto, è il motivo di una filosofia universale fondata puramente su queste sorgenti e quindi definitivamente fondata» (Crisi, § 26, p. 125). È il motivo trascendentale, che viene attuato nel rivolgimento grazie al quale divengono tematiche le ovvietà della Welthabe, di quel passivo avere il mondo che costantemente funge come presupposto di qualunque interrogazione, quindi anche dell’interrogazione più ampia e profonda, dell’interrogazione filosofica dell’essere. Il rivolgimento però non può non essere a sua volta indagato quanto alle operazioni che ne consentono l’esecuzione e prestazione: nuove ovvietà, nuove impurità – la scrittura, ad esempio – si scoprono allora a fondamento della trascendentalità fenomenologica. Non resta che mettere in

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questione, con il rivolgimento stesso, le operazioni costitutive del senso del rivolgimento come tale. Non basterebbe però mostrare come, ad esempio, l’ego fenomenologico sia costituito a partire dal gesto autofonico della voce e dalla linearizzazione alfabetica – lungo la linea esplorata da Jacques Derrida e Carlo Sini –, se questa indagine si limitasse a ripetere nei riguardi dell’idealità fenomenologica il suo stesso gesto, il gesto del rivolgimento. Queste domande non possono cioè chiedere, in maniera semplice, di rivolgere il rivolgimento. O meglio: esse lo chiedono e non lo chiedono allo stesso tempo, in un double bind paradossale, dal momento che chiedono di rivolgere il rivolgimento, nel senso di non rimanere semplicemente soggetti ad esso, ma pure non lo chiedono, dal momento che rivolgere il rivolgimento e così sottrarsi alla sua soggezione è invece ancora rimanervi soggetti1. La stessa presentazione di questo laccio paradossale è però presa essa stessa nel laccio da cui vuole divincolarsi: vi è qui un paradosso e un doppio legame sol perché si è già preliminarmente accettato il privilegio dell’autoriflessione, perché cioè si è già deciso di interpretare lo smascheramento critico della finzione fenomenologico-trascendentale nei termini di un’ulteriore prestazione della riflessione. Ma questa interpretazione non è inevitabile, e la fenomenologia stessa pare possedere il modo

1.  La figura (maschera, postura) del soggetto, nel bilico tra l’esser soggetti-a e l’esser soggetti-di, è cruciale nel progetto enciclopedico di Carlo Sini, al cui intero corso bisognerebbe qui rimandare. Basti però, a titolo di mera indicazione, il rinvio all’avvertenza che inaugura la prima tappa, in cui si presenta «la situazione paradossale di ogni inizio, là dove il soggetto dell’ini­ zio si scopre soggetto all’inizio» (C. Sini, L’analogia della parola. Filosofia della metafisica, in Id., Figure dell’enciclopedia filosofica, vol. I, Jaca Book, Milano 2004, pp. 11-12), situazione – va aggiunto – tanto paradossale quanto insuperabile, che può dunque essere soltanto frequentata, agita, se e fin tanto che, almeno, l’inizio non si potrà tenere discosto e disposto, per un suo lato almeno, accanto al soggetto e al suo sapere.

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per disinnescare le mine con le quali la riflessione fa franare il terreno della domanda genealogica. Poiché al fondo il nodo vero è proprio questo: vi è, da un punto di vista fenomenologico, una sorta di geocentrismo del pensiero, in virtù del quale è accordata per ragioni essenziali una precedenza di principio all’unico mondo reale rispetto ad ogni mondo possibile2: «Il mondo non è essente nel senso in cui lo è un oggetto qualsiasi, è essente, bensì, in una singolarità per la quale qualsiasi plurale sarebbe senza senso» (Crisi, § 37, p. 171)3. Il mondo come essente singolare: come pensare che-è, senza che nel pensiero esso rimpicciolisca nella forma di un essente? Questo come è il tema vero e ultimo che la fenomenologia trova già sempre dato nel vivere della coscienza, che è sempre un unitario «vivere-la-certezza-del-mondo» (Crisi, § 37, p. 170). Certo, Husserl ritiene che la tematizzazione dell’orizzonte indeclinabile e senza plurale del mondo, che (mi) è già sempre dato4, richieda un «mutamento totale» (Crisi, § 39, p. 176), un «rivolgimento totale» (Crisi, § 40, p. 176), una «astensione 2.  Questa affermazione non è affatto contraddetta dalla scoperta, grazie all’epoché, «di una sfera assoluta dell’essere, di una sfera assolutamente autonoma che è, in sé, quella che è, senza che si ponga alcuna domanda intorno all’essere o al non-essere del mondo e degli uomini che vivono in esso» (Idee I, § 33, vol. I, p. 76, nota 5). L’essere individuale di questa sfera è infatti una cosa sola con il mondo: è, più precisamente, il luogo della sua attuale manifestazione, ed è in essa soltanto che il mondo può trovare il suo senso d’essere. 3.  La proposizione suona come quella che chiude la celebre Appendice III al § 9a: «Il mondo circostante umano è per essenza sempre lo stesso, oggi e sempre» (Crisi, p. 405). È dunque escluso per principio che le sustruzioni tecnicoscientifiche, sovrapponendosi al mondo-della-vita, lo alterino o cancellino. 4.  Abbiamo posto il “mi” tra parentesi, in quanto non solo all’esser dato appartiene anche il suo esser-mi dato, ma, poiché l’io cui è dato il mondo non può non sdoppiarsi in modo che esso stia sì dal lato del tema, ma stia anche dal lato del porre a tema, occorre pure che lo sdoppiamento stesso, l’Ichverdoppelung, appartenga all’avere-il-mondo dell’io.

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complessiva» (Crisi, § 40, p. 178), un’epoché universale che liberi veramente il filosofo «dai vincoli più forti e più universali, e perciò più occulti» (Crisi, § 41, p. 179), ma il terreno che tale rivolgimento porta allo scoperto non è e non può essere, per principio, in debito nei confronti del rivolgimento. Per principio: perché contrarre debiti deve essere possibile solo su quel terreno originario che è principio di ogni risorsa del pensiero, di ogni strategia dialettica, di ogni astuzia della ragione, di ogni economia della riflessione. Il principio in questione si trova esposto formalmente anche così: i caratteri propri del noema, ovvero del senso di qualunque Erlebnis, non devono essere considerati mere determinazioni di riflessione, come se fossero cioè dati solo grazie al riflettere sopra di essi: «Noi afferriamo ciò che appartiene al correlato guardando direttamente al correlato» (Idee I, § 108, vol. I, p. 268)5. Lo zu den Sachen selbst, il ritorno alle cose stesse, non sarebbe mai davvero tale se i caratteri portati a tema in e grazie a un simile ritorno appartenessero non alle cose stesse, ma alle cose in quanto veicolate dallo zu: la pura dedizione alla cosa non innesca dunque quel circolo della riflessione, in virtù del quale il fenomeno è il posto presupposto del vedere fenomenologico, ma immette invece immediatamente in esso. Si comprende bene perché dunque la fenomenologia non abbia potuto non orientarsi sempre più in senso genetico: per sostenere un’affermazione di principio altrimenti fondata soltanto su di un’argomentazione in stile elenctico, cioè non (di-)mo­­strativo.

5.  Nel paragrafo in oggetto, Husserl fa di questa tesi una decisiva questione morale, che mette conto di riportare: «Qui come sempre in fenomenologia, bisogna avere il coraggio di assumere ciò che veramente si vede nel fenomeno proprio come si offre, e di descriverlo onestamente, anziché alterarlo con delle interpretazioni. Tutte le teorie devono orientarsi in questo senso» (Idee I, § 108, vol. I, p. 269). Con questo criterio, larga parte della filosofia contemporanea andrebbe considerata disonesta.

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Il principio in questione poggia infatti anzitutto su un’argomentazione la cui forma non è diversa da quella che assume l’argomento tradizionale impiegato da Husserl nei confronti di ogni relativismo e scetticismo: come infatti la posizione scettica è in generale affetta – per Husserl, non diversamente che per Aristotele – da un’intrinseca assurdità, per cui si auto-sopprime, così in particolare chi volesse negare la possibilità di principio che la cosa stessa si offra in carne e ossa non avrebbe dove fondare questo suo stesso negare e precipiterebbe a sua volta in un controsenso, dal momento che pretenderebbe sì di negare l’auto-offerenza della cosa, ma senza poter evitare di pretendere al tempo stesso di avere in schietta auto-datità la sua propria cosa. Anche ciò che è negato dal negare deve infatti avere il suo senso obiettivo, se il negare vuole negare effettivamente, e non può risolversi in una sorta di oggetto interno al negare stesso; proprio perciò, però, questo “negato” ha quella oggettività che si voleva invece negare, che si voleva cioè negare che si potesse mai costituire per sé, senza alcun debito nei confronti degli atti che la pongono. L’élenchos ha dunque questa forma: la negazione si esercita su ciò che non può essere negato senza essere stato previamente affermato, proprio come in generale lo scettico frequenta già quel mondo che pure intende pervicacemente negare. Compito della fenomenologia diviene dunque, nel senso più ampio, la tematizzazione diretta e immediata di questa previa frequentazione del mondo, ossia di ciò per la cui messa in questione si giunge sempre troppo tardi. L’essere previo è così il titolo per il contenuto dell’indagine fenomenologica considerato in tutta la sua ampiezza. O, ancor più nettamente: «il senso che questo mondo ha per noi prima di ogni considerazione filosofica»6. A questo livello di consapevolezza della natura radicale dell’interrogazione fenomenologica,

6. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., V, § 62, p. 203.

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non costituisce più per Husserl una reale difficoltà l’eventuale, tenace ripresentarsi della domanda riflessiva: perché la messa a tema fenomenologica non dovrebbe giungere anch’essa troppo tardi? La domanda non dovrebbe più far difficoltà per due ordini di motivi: in primo luogo, perché ormai proprio il venir-dopo della domanda (e l’essere previo del suo tema) si è imposto come Leit-faden fenomenologico; in secondo luogo, perché ben lungi dall’essere davvero radicale, la domanda appartiene proprio a quella non originaria teoresi riflessiva di cui si intende semmai investigare la genesi, le condizioni e le forme della sua costituzione di senso, sicché le difficoltà che essa continua a gettare tra i piedi non sono più insormontabili difficoltà di principio, bensì solo più difficoltà prodotte teoreticamente. Il risultato conseguito, senza ricorso a dubbi iperbolici e metafisici geni maligni, è però altrettanto importante e radicale: la dimensione trascendentale di principio si è ormai compiutamente sganciata dalla dimensione di una teoresi meramente logico-riflessiva7. 7.  La questione degli atti di riflessione (in cui si compie il metodo fenomenologico) è posta espressamente da Husserl già in Idee I, § 79, dove si discute la supposizione scettica di una modificazione degli Erlebnisse causata dalla retrospezione riflessiva su di essi. Husserl obietta: che nel dubitare della portata conoscitiva della riflessione si esercita e mette a profitto del dubbio proprio la riflessione della quale si dubita; che se fosse legittimo supporre che la riflessione sopra gli Erlebnisse irriflessi modifichi questi ultimi, «non rimarrebbe il minimo fondamento capace di giustificare la certezza che ci sono e ci possono essere un vissuto irriflesso e una riflessione» (vol. I, p. 196: argomentazione – è il caso di rilevarlo – puramente esigenziale); che l’obie­zione cade da sé «quando le argomentazioni verbali vengono ricondotte all’intuizione eidetica» (vol. I, p. 197). Qui è sufficiente rilevare che l’ultima osservazione non ha (né può avere) altro valore logico di quello di una petizione di principio (tant’è vero che Husserl si preoccupa di aggiungere che il ricorso alla visione intuitiva evidente non è una mera frase, ma è qualcosa che deve concretamente esser eseguito; ibidem), e che il venir meno di ogni certezza o gli eventuali controsensi comportati dal parlare ingenuamente di Erlebnisse irriflessi non saputi non possono preoccupare chi avanzi simili

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2.  La percezione A beneficiare di questo sganciamento è anzitutto la percezione sensibile, «che tra gli atti d’esperienza ha in un certo giustificato senso la funzione di una esperienza originaria» (Idee I, § 39, vol. I, pp. 93-94)8. Il senso di questa funzione si chiarisce se si bada a ciò, che la percezione non fonda in senso meramente logico-giudicativo né tanto meno in un senso empiricocausale, ma esercita la sua precedenza apriorica in un senso autenticamente ontologico-intenzionale, il che significa che qualunque determinazione del senso d’essere di ciò che è non può non procedere da una simile Ur-erfahrung. L’essere previo è là, insomma, e non resta che percepirlo. Cade a questo proposito il «chiarimento di un errore di principio» che Husserl fa intervenire col § 43 di Idee I, l’errore consistente nel porre la cosa stessa, il suo essere in sé, dietro (o sotto) le sue molteplici apparizioni percettive, come se queste si limitassero a rinviare o a far segno alla cosa, senza essere capaci di offrirla in carne e ossa. La tesi che «tra la percezione da una parte e la rappresentazione simbolico-immaginativa o simbolico-signitiva dall’altra c’è una insormontabile differenza di essenza» (Idee I, § 43, vol. I, p. 104)9 si sostiene anzitutto su ciò, che nei fenomeni stessi non vi è confusione possibile fra la presentazione

obiezioni per mettere radicalmente in questione la dimensione stessa del senso, proprio come chi nega il principio di non contraddizione non ha motivo di preoccuparsi, checché ne dica Aristotele, del rilevamento elenctico dell’autocontraddittorietà di questa sua stessa negazione. Il confutatore la considererà una confutazione, per l’appunto, ma la sua considerazione avrà, agli occhi del negatore, il significato di un autistico compiacimento. 8.  Più in generale, di questo sganciamento che assicura l’accesso ad un’espe­ rienza originaria beneficia l’intera tematica ontologica, che conosce un rinnovato interesse nel ’900 proprio grazie all’impostazione fenomenologica husserliana. 9.  Cfr. altresì E. Husserl, Prima ricerca, RL I, § 23.

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della cosa nella percezione e gli altri modi di rappresentazione, ma la fondazione di questa tesi in termini di costituzione trascendentale dell’esperienza si deve più profondamente al fatto che qualunque modalità di riferimento alla cosa, ben lungi dal conferirlo, non può non prelevare dalla fonte primaria della percezione lo stesso, genuino senso dell’esser cosa. Non vi è insomma immagine né segno della cosa, se non si è previamente costituito sul terreno della percezione il senso di cosa della cosa, sicché è un vero e proprio controsenso, una sorta di hýsteron próteron, avanzare per esempio il sospetto che la cosa della percezione sia solo un’immagine, una mera apparenza10. Più in generale, si può certo dubitare, in circostanze particolari, che la cosa stia così com’è percepita, ma il dubbio stesso (come anche l’eventuale correzione di una percezione erronea) non può non alimentarsi a sua volta alla fonte della percezione. L’analisi fenomenologica della percezione (tema che va assunto in tutta l’ampiezza che proprio le analisi husserliane rivelano) porta dunque allo scoperto il terreno originario, e l’ontologia riceve un affidabile fondamento estetico-sensibile: siamo finalmente alle spalle (così pare) del plesso logico-metafisico. Da questa postazione, non si tratta soltanto di rivendicare la priorità della modalità percettiva di rapportamento all’ente, ma di riconoscerne l’inaggirabilità: non vi è modo di procurare l’essere, che non sia il percepirlo. Anche Kant avrebbe peraltro potuto sottoscrivere questa proposizione, poiché anche per lui solo per il tramite dell’intuizione sensibile l’essere è dato. Ma avrebbe problematicamente aggiunto: almeno per noi, quaod 10.  Analogamente in E. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Guerini e Associati, Milano 1993, p. 17: «È rischioso parlare a questo proposito di rappresentanti di un rappresentato, o di una interpretazione dei dati sensoriali, di una funzione interpretativa che li oltrepassi, e che si esplichi proprio attraverso questo interpretare. L’adombrarsi, il presentarsi in dati sensoriali, è qualcosa di completamente diverso dall’interpretare segnico».

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nos, esseri razionali finiti. Ora, il punto decisivo è proprio che questa limitazione logica viene ormai a cadere, poiché si può e si deve mostrare come la vuota, astratta possibilità di pensare ad altre modalità di esperienza dell’essere non possa non appartenere essenzialmente e per principio al senso stesso (perciò finito, e parziale) della modalità percettiva, in quanto modalità prima e originaria, e come sia perciò in essa fondata. Con la percezione, a quanto pare, non è dato solo un essere sensibile, come voleva Kant, ma è dato anche il senso dell’essere dato. Il che non vuol dire, peraltro, che tutto ciò che è dato sarà dato secondo le modalità della percezione, ma che qualunque altra modalità sarà compresa, nel suo senso, a partire da questa. L’essere, insomma, non è un mero significato11, vi è un rigoroso rapporto di fondazione, una Geltungsfundierung tra realtà e idealità, in ragione della quale l’ideale, l’astratto, il formale riposano su procedure di idealizzazione che attingono il loro senso ultimo dall’esperienza sensibile. In secondo luogo, e pertanto, è la percezione, ed essa soltanto, a offrire i sostrati ultimi su cui possono trovar fondamento gli atti logici superiori e ogni altra forma di rapportamento all’oggetto. Più in generale, le formazioni logico-categoriali debbono essere presentate come l’esplicitazione manifesta di una pre-strutturazione che appartiene già al dato percettivo. In questo modo, l’esplorazione dell’ambito dell’esperienza antepredicativa ha il senso del reperimento, nelle prime formazioni dell’espe­rienza, della sintassi logico-categoriale del pensiero12. 11.  I significati, a loro volta, non sono semplicemente meri, ma possono essere pieni e interi, riempiti dall’intuizione corrispondente. Quel che sarà così esperito sarà allora dato in questa esperienza, in un senso di datità aperto anzitutto dall’esser dato di ciò che si fa presente nell’intuizione sensibile. 12.  Già nella Sesta ricerca, nel corso della distinzione fra semplice percezione sensibile e percezione categoriale, Husserl affermava: «È nella natura stessa della cosa che qualsiasi elemento categoriale poggi, in ultima analisi, sull’intuizione sensibile, anzi che un’intuizione categoriale, quindi un atto di

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Con ciò non è minimamente compromessa l’estensione dei concetti di intuizione e percezione al piano categoriale, sul quale si danno e sono colti in atti schiettamente intuitivi oggetti puramente ideali. Il fatto è che però lo stesso concetto puramente formale di oggetto, in grazia del quale possono essere compresi sotto il medesimo titolo tanto gli oggetti dell’intuizione sensibile quanto le oggettualità categoriali, non cade dal cielo, ma presuppone e s’appoggia, per la sua propria formazione, sul Boden der Erfahrung. Pur senza cedimenti empiristici, è chiaro che la fenomenologia della genesi della forma logica dall’esperienza conferisce ad essa (e dunque anche al concetto di oggetto) un contenuto materialmente determinato: non però di soppiatto, surrettiziamente, bensì essenzialmente e costitutivamente. Ben oltre la tesi formulata già nelle Ricerche logiche, secondo la quale non è possibile portare qualsiasi sostanza sotto qualsiasi forma – tesi che comunica essenzialmente con la scoperta dell’a priori materiale –, la logica trascendentale condotta in stile fenomenologico scopre che i termini stessi della tesi suddetta sono radicati sul terreno della percezione, di cui colgono ed esplicitano l’articolazione originaria, la quale è peraltro data anzitutto – del tutto aristotelicamente – dalla distinzione fra contenuti indipendenti, detti sostrati, e contenuti non-indipendenti, o determinazioni. Soggetto e predicato: le linee secondo le quali si disegna l’esperienza sono le medesime lungo le quali procederà poi il giudizio13.

comprensione intellettuale evidente […] sia un controsenso senza una sensibilità fondante» (RL II, p. 485). Oltre che essere nella natura stessa della cosa, un tal poggiare è fondato sull’esigenza che la cosa sussista come la medesima, anche dopo la sua inclusione in un contesto categoriale. La messa in forma categoriale, insomma, per Husserl «non implica alcuna trasformazione reale dell’oggetto» (p. 487). Questo punto decisivo della genealogia fenomenologica è ciò che deve essere messo decisamente in forse. 13.  Cfr. in particolare le indagini raccolte in E. Husserl, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica, pubblicate e redatte da L. Land-

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Con tutto ciò, però, non è detto affatto che si possa ottenere facilmente la descrizione di una percezione pura e semplice. L’analisi del decorso percettivo, condotta cineticamente o geneticamente, dimostra infatti, in primo luogo, che la percezione ha carattere originariamente sintetico, non atomico, e in secondo luogo che essa si estende sempre oltre il puro momento impressionale: indietro verso ciò che è ritenuto, in avanti verso ciò che è anticipato. Solo in ragione di questa ampiezza, la percezione – che coglie sempre soltanto un aspetto o un lato della cosa – può essere comunque percezione di una stessa cosa (e della cosa come la stessa nel decorso dei suoi molteplici aspetti) e non soltanto una mera successione di apparizioni. Ma non basta. La costituzione sintetica della cosa materiale della percezione (la cosa normale) deve essere a sua volta fondata fenomenologicamente non già su atti spontanei dell’io, non dunque su un investimento meramente soggettivo di senso nell’apprensione di un materiale in sé amorfo e non strutturato, bensì in maniera puramente passiva, sopra relazioni di contenuto pre-date entro la cosa stessa, e comprese entro un ambiente circostante, un dominio di pre-datità passive «che esiste già sempre senza alcun intervento dello sguardo cogliente che vi si diriga»14. Una soluzione, quella della sintesi passiva, che suonerebbe come uno stridente ossimoro a orecchie kantiane – s’intende: a orecchie kantiana standard, per le quali la cosa della percezione è identificata in quanto tale grazie a una funzione intellettuale di unificazione del molteplice15. Grazie

grebe, tr. it. di F. Costa, Silva, Milano 1960, che non a caso comincia con il giustificare la posizione privilegiata del giudizio predicativo, prima di volgersi ai suoi fondamenti antepredicativi, ricettivi. 14.  Ivi, § 7, p. 24. 15.  Si veda, a titolo di esempio, il modo in cui Merleau-Ponty illustra la differenza fra l’intenzionalità della coscienza fenomenologica e l’io trascendentale kantiano, nella premessa a M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della

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però a una simile sintesi, è escluso che quanto è soltanto predelineato nella percezione attuale sia il termine di un rinvio puramente signitivo, che impegni cioè un’attività di tipo logicointellettuale o, più debolmente, ermeneutico, e dunque abbia il carattere d’atto dell’io. Ecco perché, «per quanto ignota possa rimanere la cosa, per quanto poco possiamo intravedere di ciò che l’esperienza futura ci insegnerà, una cosa è chiara a priori: che allo sviluppo dell’esperienza futura è prescritta preliminarmente una cornice assolutamente determinata, e ciò dal senso della percezione iniziale» (Idee III, § 7, vol. II, p. 407). È il senso della percezione attuale a guidare il decorso percettivo, è una regione estetica a circoscrivere lo spazio della cosa con la forza di una Bestimmung assoluta. Più in generale, l’esperienza è sempre motivata, e non è possibile reperire gli stili di motivazione che innervano l’esperienza in un luogo diverso dall’esperienza medesima, bensì soltanto nei suoi pur molteplici strati. Orbene, è comprensibile che l’analisi genetica così condotta sia spinta sino al recupero del principio empiristico di associazione e anzi sino alla sua elevazione al rango di «principio universale della genesi passiva per la costituzione di tutte le oggettività»16. I fenomeni associativi di somiglianza (e viceversa, di contrasto), di prossimità o contiguità (e viceversa, di lontananza) prendono un’ampiezza tale da intervenire in ogni problematica di carattere costitutivo. Nella versione trascendentale, il principio di associazione pretende di sottrarsi anche alle obiezioni di circolarità che investono la sua formulazione humeana, la quale suonava press’a poco così: l’abitudine si fonda su un meccanismo associativo, il quale è a sua volta effetto dell’abitudine. È

percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. pp. 26 ss.: c’è, per il fenomenologo francese, una natura del soggetto, che fonda e orienta l’attività categoriale, che il soggetto può scoprire e gustare prima di ogni spontaneità intellettuale, di cui l’io kantiano sarebbe privo. 16. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., IV, § 39, p. 129.

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un vecchio problema: se la legittimità del principio di induzione fosse stabilita induttivamente, sarebbe palese la circolarità. In chiave fenomenologica, la soluzione del problema non può consistere in altro che non sia la presentazione di una classe di fenomeni primitivi, in cui le relazioni primarie in forza delle quali si stabiliscono i nessi associativi si presentino esse stesse con il titolo irrefragabile dell’originarietà. Non deve trattarsi, ad esempio, di mera somiglianza o affinità qual è riscontrabile empiricamente in termini sempre logicamente revocabili, ma di una sorta di Urphänomenon della somiglianza tale da costituire la matrice sensibile di ogni somiglianza o dissomiglianza logicamente possibile. Per portare tale fenomeno sotto la lente della descrizione, nelle lezioni sulla sintesi passiva Husserl non teme di retrocedere alle spalle di quell’intenzionalità, che aveva invece guidato come una stella polare l’intero sviluppo della fenomenologia fin dalle Ricerche, per volgersi in direzione di un’affezione primaria più profonda della stessa ricettività, che sancisce la definitiva precedenza della pre-datità di unità iletiche affettive rispetto all’attività intenzionale dell’io17. Non teme neppure di concedere che quegli stessi principi che presiedono alla costituzione della cosa nella passività originaria operino nella stessa costituzione dell’io, nel complesso tessuto della sua Stiftung, sicché questo io emerge, nel suo profilo intellettuale, sopra strati e livelli e operazioni non conferiti né diretti dall’io, strati e livelli e operazioni i quali, benché polarizzati verso l’io, sono ad esso in certo modo estranei. L’intera (e alquanto involuta) proble17.  Cfr. Idee II, § 54, vol. II, p. 218. Nell’Appendice XII alla sez. III di Idee II, §§ 2-3, Husserl introduce al proposito il concetto di intenzionalità impropria e trova per la fatticità dei momenti di vita dell’io (Lebendigkeiten) la bella immagine della cometa la cui coda affonda nella natura (vol. II, p. 330). Ciononostante, è difficile liberarsi dall’impressione che nel cuore di questa passività originaria la fenomenologia ceda a un ingiustificato naturalismo obiettivistico.

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matica della temporalità originaria non si discosta da questo modello, ma lo presenta in tutte le sue complicatissime pieghe.

3.  Sul limite della percezione Giunta così al suo limite inferiore, la fenomenologia va però incontro anche al suo scacco. Poiché delle due l’una: o il reperto avvistato in fondo all’analisi genetica si presenta in essa come un monolite, sorta di grumo nero e sordo che nessuna luce intenzionale rischiara, e allora – suo malgrado – esso fuoriesce semplicemente dalla correlazione intenzionale, non meno misteriosamente, peraltro, della tanto deprecata cosa in sé; oppure esso vi entra, sì, ma allora perde l’estraneità che doveva introdurre nella regione della coscienza. L’estraneità, dopo tutto, è un senso, che va anch’esso riempito con ciò che è appunto estraneo, ma che in questo modo non lo è abbastanza da non offrirsi nella correlazione a ciò che lo intenziona come tale. Il senso dell’estraneità non può cioè spingersi, dentro l’impianto fenomenologico, sino all’ossimoro dell’estraneità al senso. Anche in queste estreme contrade, intuizione e riempimento devono insomma combaciare. Si consideri il capitolo che, in Esperienza e giudizio, apre l’indagine sui fondamenti della passività. Husserl osserva che, con ciò che è dato, è dato anche «l’orizzonte di conosciutezza tipico in cui ogni oggetto è già-dato»18. Naturalmente, l’oggetto in questione potrebbe anche essere sconosciuto: non sarebbe meno necessario che esso si desse insieme al senso della sconosciutezza, cioè su uno sfondo già dato di pregresse esperienze nel cui orizzonte soltanto qualcosa potrebbe non esser conosciuto o riconosciuto. Vi è dunque un tessuto di 18.  E. Husserl, Esperienza e giudizio, cit., § 33, p. 162.

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determinazioni relazionali che «opera sempre come orizzonte esterno e, anche se non è compresente, tuttavia coopera sempre alla determinazione esperiente dell’oggetto»19. Come però la fenomenologia può riferirsi a ciò che non è presente? Nell’unica modalità a sua disposizione: sfidando l’ossimoro, presentificando la non presenza. Questo infatti scrive Husserl, che quelle relazioni che nell’esperienza rimangono nascoste, oppure oscure, possono essere riprese, tematizzate e intuitivizzate, il che vuol dire che qualunque determinazione avrà innanzitutto, nella tematizzazione, il senso del correlato alla coscienza che la intenziona. Poco male, si potrebbe dire, se solo si osserva la distinzione che Husserl ha chiara fin dalla Sesta ricerca, in merito alle intuizioni categoriali, quando distingue l’unità di identificazione dall’unità dell’atto di identificazione: se nel decorso percettivo identifico qualcosa come qualcosa, non tematizzo certo, insieme con la cosa identificata, l’identità stessa. Questa identità sta su un altro piano, e può successivamente essere a sua volta intesa, in un’intenzione ad essa diretta, ma senza che ciò significhi che, intendendo la cosa, si intenda anche la sua identità (RL II, p. 452). Armati di questa distinzione si potrebbe intendere, in atti specificamente diretti ad esso, il senso della non presenza di ciò che non è presente, senza che questa presentificazione investa e ricopra anche i modi con cui quel contenuto si presentava nella prima esperienza dell’oggetto, in cui ciò che attualmente è presentato non è compresente. Così, però, il problema rimane uguale, o forse anche si acuisce, dal momento che si riesce ora a portare a tema quel contenuto, ossia la non presenza, solo avendo definitivamente escluso che esso potrà illuminare il significato del presentare e porre, in cui si attua la coscienza intenzionale. In realtà, l’indagine genealogi-

19.  Ibidem.

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ca riuscirebbe nel suo più radicale intento solo se il materiale reperito fosse trovato fuori e oltre il raggio intenzionale della coscienza, o se, venendo a tema entro la circonferenza che essa traccia, ne modificasse il perimetro, lo alterasse, lo infrangesse, o addirittura lo sfigurasse. Qui invece ragioniamo di come quel raggio e la sua circonferenza possano presentare il materiale, senza che nulla accada alla presentazione e al presentare stesso, senza che ne risulti alcuna alterazione della donazione di senso. I termini fondamentali della fenomenologia, quelli che, per dirla classicamente, non possono essere assimilati ai sensibili propri, perché offrono l’orizzonte di ogni possibile offerenza, continuano a dipendere solo dalla correlazione intenzionale, senza alcuna effrazione del suo senso. La forma del dato – il senso di datità di ciò che è dato, nonostante ogni sforzo e ogni promessa di segno diverso – non è ancora fondata sopra alcun contenuto che eventualmente la riempia, ma solo nel principio fenomenologico della correlazione universale. Ciò a cui questa impostazione critica prelude non è dunque la denuncia, già innumerevoli volte presentata (anzitutto dal più spregiudicato degli allievi di Husserl, ossia da Heidegger), dell’impostazione ancora nel fondo cartesiana, teoreticistica, della fenomenologia, nella quale cioè l’apparire del fenomeno è ancora pensato a partire da una relazione tetica, posizionale, conoscitivamente atteggiata (e quindi – si aggiunge – nient’affatto originaria) di soggetto e oggetto. Tale impostazione produrrebbe peraltro i suoi guasti fin dentro la lunga storia della sua ricezione, continuamente (e vanamente, si direbbe) impegnata a ridiscutere la questione dell’idealismo o del realismo fenomenologico. La fenomenologia sarebbe allora incapace di venire a capo del suo unico tema, la correlazione universale, per una sorta di incomprensione dello statuto ontologico dei poli della correlazione: invece di pensarli come costituiti a partire dalla relazione, e intessuti di mondo, li penserebbe ancora come costituiti prima e indipendentemente da essa: la

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coscienza come «residuo dell’annientamento del mondo» nel celebre § 49 di Idee I discenderebbe allora in linea diretta da questa impostazione20. È invece ormai facile riconoscere, sulla base dello Husserl postumo, oggi ampiamente accessibile, che la coscienza fenomenologica non è affatto pensata senza mondo. Certe scelte terminologiche discutibili rendono forse meno evidenti quei tratti della coscienza husserliana sui quali, con decisivi aggiustamenti, è ricalcato l’In-der-Welt-sein di Heidegger; con ciò, però, non diviene meno stringente tra i due il rapporto di filiazione21. Il punto rilevante a questo riguardo è invece un altro, e cioè se non sia il caso di interrogarsi sul modo in cui è stretto, in sede fenomenologica, il nesso che lega la coscienza al mondo. Il mondo è infatti mondo della coscienza, tanto quanto la coscienza è coscienza del mondo. Tanto saldamente, peraltro, è stretto tale nesso, si vorrebbe dire, che proprio non rimane da pensare nient’altro che il mondo stesso (ed è perciò che il problema del residuo, del monolite, va inteso – e si ripresenterà, come si dovrà vedere – come il problema dell’origine, o della faccia non fenomenica della fenomenalità del mondo). Alludiamo al fatto, ben attestato, che riesce fenomenologicamente assurdo, per quanto formalmente possibile e logicamente non contraddittorio, pensare un altro mondo 20.  La sua spia principale potrebbe essere peraltro rappresentata dal costante riproporsi, nei testi husserliani, della discussione dell’ipotesi di un dissolvimento del mondo nella kantiana baraonda delle apparenze. 21.  Si badi però che la coscienza, sia pure pensata quale puro luogo di apparizione dell’ente, come mondo-essente-(per-me) (e non come sottostante fondamento ontologico-esplicativo di ciò che appare), rimane comunque separata, benché solo da un’intercapedine invisibile, solo da una «sfumatura» (Postilla alle Idee, in Idee, vol. I, p. 424), dalla coscienza fenomenologica cui ne è affidata la descrizione: è il problema su cui ci siamo soffermati supra, pp. 114 ss., e che condanna all’infondatezza l’esecuzione dello spartito fenomenologico – con mondo o senza mondo che sia.

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fuori del nostro (Idee I, § 48). Non ci si lasci abbagliare dalle virtù del metodo eidetico, che mette gli Erlebnisse fattuali alla pari con le possibilità pure liberamente modificate. L’atto precede la potenza22, e il reale precede il possibile, che non può non mantenerne la stoffa: non vi è libera variazione che possa smuovere l’Ur-arche del mondo, vero e ultimo a priori materiale che motiva ogni pensiero (la questione heideggeriana circa lo status ontologico dell’a priori nasce filosoficamente da qui). Non si tratta soltanto del fatto che nell’ambito delle leggi eidetiche rientrano a evidenza anche verità fondate sull’essenza delle sostanze sensibili e che, in generale, l’accertamento di nessi eidetici non può non procedere sulla base di contenuti fattuali che fungono sempre da filo conduttore (l’ultimo dei quali si scoprirà essere il mondo assolutamente soggettivo-­relativo della vita), ma più profondamente del fatto che la stessa forma logica della pura pensabilità a priori proviene, per dir così, dal mondo: «l’a-priori universale del grado logico-obiettivo […] è fondato su un a-priori universale che in sé è precedente, appunto sull’a-priori del puro mondo-dellavita» (Crisi, § 36, p. 169). Quel che tuttavia è ora da notare è che così la vuota possibilità logica di una «realtà fuori di questo mondo» (Idee I, § 48, vol. I, p. 118) è mantenuta, anche se la maggiore ampiezza che essa vanta rispetto al mondo qual è di fatto è tale solo in

22.  Sull’esigenza (necessità logica?) di scalfire la persistenza del principio aristotelico: próteron enérgheia dynámeós s’incentra la proposta teorica di V. Vitiello, già da Topologia del moderno, cit., e fino ai suoi ultimi lavori. La nota proposizione di Heidegger: «più in alto della realtà si trova la possibilità» (M. Heidegger, Essere e tempo [= ET], tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 7, p. 59) andrebbe in direzione di una sospensione (se non proprio di una revoca) del primato metafisico dell’atto. Se e dove siano le risorse per una simile messa in questione, e in che modo vada essa condotta, è pure il problema (si parva licet) della nostra riflessione. Ma su ciò cfr. brevemente infra, pp. 230 ss.

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apparenza e somiglia a quel genere di illusioni naturali e inevitabili contro le quali anche Kant intendeva mettere giustamente in guardia. Cionondimeno, la prima cosa che il § 49 di Idee I tiene a precisare è che «questa analisi non implica che ci debba essere un mondo, una qualunque cosa» (vol. I, p. 119). Qualcosa riguardo a questa implicazione non necessaria bisogna ora dirla. Se infatti essa non può essere tratta, nonostante sia un’assurdità che vi siano altre realtà, altri mondi che non fanno parte di quest’unico mondo della vita a cui appartengo e che mi appartiene, è per questa ragione, spiega Husserl, che quel che mi si dà, nella concretezza della mia esperienza, non mi si dà con il senso della necessità: si può pensare infatti che quel che mi è dato si dia altrimenti, si può pensare che l’esperienza deluda la nostra aspettativa di ordine di concordanza fra i suoi elementi, si può persino pensare che il mondo intero non sia. Quel che rimane nell’ipotesi dell’annientamento del mondo, lo ricordavamo prima, è solo l’essere della coscienza: solo questo essere è assoluto, e necessario. Se guardiamo più da presso queste considerazioni troviamo però che quel che si può pensare, come dice Husserl, è proprio ciò che si intendeva poc’anzi con la vuota possibilità logica, sopravanzata dalla concretezza del mondo e tuttavia non evaporata. Così Husserl non chiarisce l’unica cosa che doveva esserlo, per rendere il si può pensare che scandisce il passaggio convincente e fondato: donde l’esperienza dia a vedere in se stessa, e nel suo senso, la sua contingenza, ovvero che quel che si dà mi si dà come contingente, sotto la pesante ipoteca della clausola logica della non contraddittorietà della sua non esistenza. L’ipotesi di altri mondi, formalmente non contraddittoria, concretamente – lo ripetiamo – è assurda. Ma benché parli qui il filosofo che ha fatto del ritorno alle cose stesse il suo motto, l’appello alla concretezza non è in grado di scalzare davvero quella ipotesi, che continua così a proiettare la sua ombra sul corso della nostra esperienza: come mai Husserl lascia aleggiare intorno al nostro mondo il senso logico-metafisico della contingenza? In real-

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tà, questi rapporti logici vengono mantenuti perché il mondo di cui si tratta è il mondo-della-coscienza, ed è il senso della contingenza che angoscia quest’ultima a gettare il mondo intero nella contingenza. Perché, certo, Husserl afferma che solo l’essere della coscienza è assoluto, ma non senza precisare che si tratta dell’esistenza attuale, non di una «coscienza concepita logicamente» (Idee I, § 49, vol. I, p. 121). Anche a riguardo di questa coscienza non si può non notare come la sua contingenza sia ottenuta dalla figurazione logica sovrascritta su di essa, nonostante – si deve dire – la concreta assurdità della cosa. E tale figurazione è apposta perché, si può supporre, l’attualità della coscienza appare cosa troppo povera, troppo esile, da sfidare il senso logico della necessità. Quindi: concreta assolutezza e possibilità logica si danno insieme, e il fatto che questa coppia ripeta in fondo quella kantiana dell’idealismo trascendentale e del realismo empirico è la più chiara dimostrazione del fallimento husserliano, in deficit di esibizione diretta, fenomenica, di quella vuota possibilità logica quanto lo era il soggetto trascendentale kantiano agli occhi di Husserl. Non solo, ma la riforma in senso esistenziale condotta da Heidegger, per cui a rivelare la contingenza non sarà il non della logica ma il niente dell’angoscia, non cambierà lo schema. Si torni allora al caso paradigmatico della percezione sensibile, e si vada sino in fondo alla sua insuperabile concretezza. Il fatto che essa offra la cosa sempre in prospettive e adombramenti parziali non rientra per nulla nelle conseguenze della «casuale “costituzione umana”» (Idee I, § 42, vol. I, p. 101), qual è di fatto data – mentre per Kant è proprio un fatto ultimo di cui non si può addurre ragione che «tempo e spazio siano le uniche forme di un’intuizione possibile per noi», e lo è altrettanto «la natura e il numero delle categorie» (CRP, § 21, pp. 175-176) –: esso può essere ascritto invece a una necessità essenziale. L’ina­ deguatezza della percezione, la sua unilateralità e indeterminatezza (che prescrive tuttavia motivatamente lo stile della sua

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ulteriore determinabilità) non lascia pensare che la cosa della percezione potrebbe darsi altrimenti (per esempio onnilateralmente, in uno, come oggetto totale), magari a un intelletto archetipo – idea kantiana che Husserl respingeva come un vero e proprio controsenso. La cosa è tale quale la percezione la coglie. Non c’è altro. A sigillare definitivamente l’equazione (che specifica il principio secondo il quale ogni tipo di oggetto ha un suo proprio stile di manifestatività ed è accolto secondo un suo proprio tipo di evidenza), sta il riferimento iperbolico al divino: «Nessun Iddio può minimamente modificare ciò» (Idee I, § 44, vol. I, p. 106). Husserl non esclude l’ipotesi peregrina che altri esseri possano incontrare la cosa secondo modalità diverse dalla nostra: questa è anzi un’ipotesi che – a titolo di mera ipotesi – entra nel senso stesso della percezione attuale, per quanto essa è inadeguata e imperfetta. Quel che però Husserl senz’altro esclude (e questa esclusione restituisce all’imperfetta percezione la sua concreta perfezione, oltre la quale non c’è che l’assurdo) è l’eventualità che possa non darsi una qualche koinonía tra tali ipotetiche modalità e la nostra, sola reale, nessun modo cioè di transitare da quelle a questa, e di tradurre quindi l’altrui esperienza nella nostra. Ben al contrario, Ma se le cose [che Dio per ipotesi vedesse] devono essere le stesse di quelle che ci si manifestano, dovrebbe essere possibile un’unità d’intesa fra Dio e noi, così come esiste tra diversi uomini, semplicemente attraverso l’intesa, la possibilità di conoscere, la possibilità che le cose viste da uno e le cose viste da un altro siano le stesse. Ma come è pensabile l’identificazione se non in questo senso: che il supposto spirito assoluto veda le cose appunto attraverso le manifestazioni sensibili? […] Lo spirito assoluto dovrebbe avere, in vista dell’intesa reciproca, anche un corpo vivo. (Idee II, § 18g, vol. II, p. 87)23

23.  Si noti quella pensabilità (da noi posta in corsivo) che già dimostra quanto poco in realtà ci si stia sottraendo a un’ispezione meramente logica.

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Torneremo tra poco su questo passo decisivo per il senso fenomenologico della cosa e sotto ogni altro aspetto rivelativo, ma intanto crediamo che il trattamento riservato alla percezione (trattamento che equivale a un’elevazione del fatto in diritto simmetrica e opposta al tragico urto kantiano contro il carattere fattuale – benché sui generis – delle condizioni trascendentali di diritto dell’esperienza) può ben essere esteso all’intera compagine del mondo. Non vi è strato di senso della cosa, in quanto res temporalis, res extensa, res materialis, res psichica, ecc., che non le appartenga essenzialmente: «la generale struttura di fatto del mondo oggettivo dato, la sua costituzione di natura pura e semplice, come animalità, umanità, socialità in gradi diversi e come cultura, costituiscono una necessità essenziale, e ciò in misura molto maggiore di quanto avremmo potuto immaginare»24. Non si tratta, in verità, di un risultato indesiderato, ma del senso ultimo della domanda fenomenologica, non a caso interamente ripreso, tra gli altri, da Merleau-­Ponty: «il solo Logos che preesista è il mondo stesso, e la filosofia che lo fa passare all’esistenza manifesta non comincia con l’essere possibile: essa è attuale o reale, come il mondo di cui fa parte»25. E non si tratta neppure di un risultato inatteso, ma dell’ovvia conseguenza di una genealogia che assume ciò che è costituito (il senso dell’oggetto) a titolo di filo-conduttore dell’indagine intorno alle fonti costitutive.

24.  E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., V, § 59, p. 189. 25.  M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 30. Gli esegeti del cammino merleau-pontiano si sono di solito esercitati sulle discontinuità tra il primo e l’ultimo Merleau-Ponty. Vale la pena ricordare allora che su questo punto fondamentale vi è invece una completa continuità e identità di vedute. Anche ne Il visibile e l’invisibile il «punto di partenza […] sarà: c’è essere, c’è mondo, c’è qualcosa; nel senso forte in cui il greco parla di τὸ λέγειν, c’è coesione, c’è senso» (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tr. it. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 2003, p. 109).

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Cosa allora accade? Ben lungi dall’occuparsi del che-cosa del­ l’ente, la fenomenologia si occupa – com’è noto – del suo come, cioè di una tipica dei modi essenziali in cui appare ciò che appare. Ma a causa di quest’unico interesse, il fatto che l’ente appaia, l’evento originario e unico del suo stesso manifestarsi, questo fatto rimane del tutto fuori delle possibilità d’indagine della fenomenologia e sprofonda, senza parere, nella contingenza. Quel che nel criticismo kantiano dà nell’occhio, dal momento che la domanda deduzionale, investendo il che e il come della possibilità dell’esperienza, si imbatte nella fatticità della ragione e già ci si avventa contro (per dirla come poi la dirà Wittgenstein), in Husserl rimane relegato ai margini del vedere fenomenologico, ma fascia ugualmente di finitezza il mondo. Dopo tutto, Kant ha ancora una robusta dialettica della ragione da regolare, e oggetti intellegibili, collocati in speciali regioni metafisiche, frutto dello scambio di certe condizioni logiche per requisiti ontologici. Husserl non ha più oggetti del genere, ma un profilo logico liminare rimane, non questionato, a inficiare questo nostro mondo nel senso della contingenza. La fenomenologia si propone di capire l’ovvietà del mondo, trasmutandola anzi nell’essenzialità del modo d’essere mondo del mondo: senza far ingenuamente ricorso a sottofondi esplicativi e terreni più originari che potrebbero al più soltanto spostare, non eliminare, il luogo ultimo della descrizione fenomenologica, e senza neppure sovvertire la logica che lo barda. Si potrebbe obiettare sbrigativamente che una fenomenologia dell’ovvio si priva da sé di ogni chance di successo, poiché potrebbe al massimo riuscire a mostrare che l’ovvio si dà solo là dove non vi è nulla da capire, e con una tale obiezione (sempre rifiutata per principio da Husserl) si alluderebbe se non altro all’alterazione del fenomeno dell’ovvietà del mondo comportata dall’intervento sapiente dello sguardo fenomenologico. Ma anche a non voler considerare la dialettica di questa aporia, rimane l’inesplicabilità dell’inesplicabilità del fatto (dell’evento)

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che il mondo si dia (così come si dà). Quel grumo che abbiamo incontrato a titolo di ultimo residuo dell’analisi fenomenologica, la resistenza che esso oppone al senso eccola ora qui: non già dietro o sotto, ma proprio nel fenomeno stesso. Resistenza come desistenza che insiste nel luogo stesso del senso. E dunque grumo non nascosto o occultato, ma assolutamente palese. Non a caso abbiamo scelto di indicarlo come residuo, perché si comprenda che non si tratta d’altro che della stessa regione husserliana della coscienza (nel senso amplissimo del termine, che gli abbiamo potuto riconoscere), considerata però nel suo mero che, nel suo stesso, minimale ma resistente esserci. E non è che Husserl ci abbia coraggiosamente portati dinanzi ad esso: per quello, in fondo c’era già Kant; è piuttosto che ha continuato a restituircelo quasi di soppiatto, senza dar ragione dell’interpretazione logico-metafisica da cui dipende, quanto al suo senso ultimo. Ricominciamo allora daccapo, dall’analisi della percezione. Io percepisco, ad esempio, una rosa: il mio sguardo è a tal punto assorbito dal fiore percepito che il percepire stesso, le molteplici operazioni che intervengono nella percezione rimangono del tutto inavvertite: la fenomenologia tematizza allora ciò che è implicito e non tematizzato nell’atteggiamento naturale. Un vistoso teleologismo guida però tutta l’analisi: la tematizzazione dell’implicito è infatti fin dall’inizio orientata da ciò che è (assunto come) esplicito, in modo da poterlo infine ritrovare. In questo modo, e a causa di questo pre-orientamento che necessariamente sottrae alla vista ciò che assume come guida, che io abbia percepito un fiore (l’intero percepire il fiore, si badi, non solo il fiore né solo il percepire) rimane del tutto fuori dalla portata dell’analisi. Non si tratta del dubbio scettico: ma è veramente una rosa quella che io percepisco? – di tale dubbio è facile per Husserl sbarazzarsi –, bensì proprio dell’accadere del fenomeno come fenomeno (cui certo appartiene anche, e non incidentalmente, ma essenzialmente, il senso di

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esistere che ha per me la rosa in quanto rosa percepita). Si tratta cioè dell’effetto di oscuramento procurato dal come, dal tanto celebrato als, dall’in-quanto che converte la percezione della rosa nel fenomeno corrispondente, in applicazione del principio (per definizione fuori della portata di ciò che da esso principia, e così infondato e infondabile in quanto in se stesso inapparente) in base al quale il fenomeno dell’essere è l’essere stesso del fenomeno: l’essere come fenomeno26. Quanto poco l’effetto in questione sia visto (e visibile) lo dimostra la facilità con la quale viene ad esso sovra-impressa (immediatamente e inavvertitamente: e l’una e l’altra cosa necessariamente!) la forma fenomeno-logica, in virtù della quale la percezione si presenta sempre nella figura sintetica dell’“iopercepisco-qualcosa” (un’unità di molteplici apparizioni: le molteplici apparizioni come apparizioni di una stessa cosa). Husserl si è certo impegnato a mostrare che la percezione del fiore è sempre la percezione di un fiore, e che dunque l’eidos universale fiore è percepito direttamente, e non indotto a partire da un certo numero di esperienze. Sia pure. Ma come può mostrare il medesimo quanto al fatto che nella percezione il fiore è percepito come qualcosa? Il fatto che io possa dire di aver percepito qualcosa: un fiore (e non petali, o colori-­ di-petali, o anche una pura x) dimostra forse che la struttura dell’“io-percepisco-qualcosa” appartiene alla percezione del fiore, o non piuttosto che essa appartiene al resoconto relativo alla percezione del fiore? Perché percepire un fiore come 26.  S’intenda bene: non si tratta neppure di denunciare soltanto il carattere necessariamente incompleto (Merleau-Ponty) o spurio (Derrida) della conversione, la non perfetta corrispondenza fra il prima e il dopo della conversione e il necessario ritrarsi di ciò che pure si dà in tale conversione; si tratta invece del convertire in quanto tale, del dischiudersi stesso della fenomenalità del fenomeno. (Si sarà notato pure l’impiego di “conversione” in luogo di “riduzione”, onde evitare che si fraintenda il tutto nel senso di una mera critica al teoreticismo idealistico husserliano).

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qualcosa (come una cosa) non potrebbe costituire un altro modo di percepire il fiore, accanto al modo in cui lo incontro ordinariamente, invece che lo strato logico implicito e soggiacente al mio percepire quotidiano? Il fatto che la percezione di un fiore possa essere presentata (in realtà: ri-­presentata) nella forma del percepire qualcosa dà notizia della struttura reale della percezione, o ne dà semplicemente la descrizione valida in sede logica (valida: cioè non solo convalidata, ma in generale validabile)? E perché mai tale descrizione deve per principio collimare con la percezione, se non perché si è cominciato di lì, da una tal forma logica della percezione, per poi farla riemergere dagli strati più profondi della sensibilità? Si può mostrare come a simili domande si possa giungere anche da un confronto con un tema centrale delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, il cosiddetto paradosso della regola, di cui qui diamo una presentazione estremamente abbreviata, quasi semplicemente allusiva, secondo i nostri fini. Non v’è regolarità – si potrebbe riassumere – che non sia per principio revocabile in dubbio, ivi compresa la regolarità con la quale si succedono le apparizioni di una cosa (secondo un motivo ancora kantiano per cui il concetto è una regola di unificazione del molteplice). Per principio, dunque, dev’essere possibile che tali apparizioni si presentino sì come le apparizioni di una stessa cosa, ma anche come apparizioni di cose diverse. Per principio significa però: da un punto di vista astrattamente logico. Se dunque la percezione vanta, per dir così, una motivazione sua propria, in forza della quale le apparizioni successive di una cosa sono apparizioni di una stessa cosa (della cosa come qualcosa: questa), questa motivazione non è e non può essere una motivazione di ordine logico, a meno di non accettare che il paradosso valga su, e perciò travolga, il piano sensibile dell’unità della cosa. E allora non vi può essere ragione alcuna di spostare nella sensibilità il luogo della sintesi in cui si fa la cosa, se poi la sintesi sensibile vien fatta valere alla stessa stregua di una sintesi logica

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(o in funzione di questa e in questa traducibile). Il luogo della sensibilità non può né deve avere – nemmeno virtualmente – la stessa forma del luogo (logico) del giudizio27 o, detto altrimenti, la sintesi costituente originaria non può esercitarsi solo per essere raccolta e ordinata nella sintesi del costituito. Tra l’una e l’altra non si può dare equivalenza logica, senza commettere una metábasis eis állo ghénos: ed è tanto poco giustificabile la possibilità di comunicare intorno alla stessa cosa con chi avesse altre modalità percettive della cosa (si ricordi il passo husserliano citato sopra, in cui l’altro finiva con l’avere lo stesso corpo nostro, e dunque coll’essere tutto, meno che un altro!) – tanto poco giustificabile, che una simile comunicazione non si può stabilire senza resti neppure tra sensibilità e intelletto. Ma se vi è più di un luogo della cosa, allora la cosa non è una e la stessa e non rimane indenne nel transito da un luogo all’altro. Non vi è semplice continuità fra le diverse dimensioni della costituzione di una cosa e l’aisthetón non può essere semplicemente un logikón dimentico di sé28: da qualche parte, nel tragitto che conduce dalla sinossi meramente passiva all’atto sintetico della percezione, poi al giudizio (la storia trascendentale dell’oggetto), questa continuità si spezza, conosce un punto d’interruzione (mai visibile come tale), benché poi da quel lato della linea che giunge sino a noi (e per una singolare retroazione) il tragitto possa anche apparirci continuo, e la percezione della cosa come cosa motivata nella cosa stessa. Ma il punto di cui diciamo non appartiene né all’essere né al pensiero che lo pensa (all’essere come fenomeno). In quel punto, la dicibilità 27.  Ancora una volta l’analisi kantiana rivela profondità insospettate, e quelle che a tutta prima potevano apparire semplici ingenuità, come ad esempio il carattere non sintetico della forma pura della sensibilità, distinta dalla funzione sintetica dell’intelletto, si rivelano invece intuizione di grande momento. 28.  È la critica a Merleau-Ponty di J.-F. Lyotard, Discorso, figura, a cura di E. Franzini e F. Mariani Zini, UNICOPLI, Milano 1980.

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dell’esperienza è messa del tutto fuori causa. La fenomenologia lo manca per principio, poiché la sua domanda investe solo il come della cosa, e il suo precostituito importo di senso funge comunque da guida per la problematica della costituzione: la domanda ritrova quindi tutto ciò di cui ha bisogno la cosa per avere il senso di cosa, sul presupposto però (inavvertito) che il senso debba comunque ritrovarsi, che il suo raggio intenzionale non sia né curvato né respinto da alcunché. Sul presupposto che in principio sia il senso, che tra essere e senso vi sia reversibilità, che l’essere del senso si scambi di posto col senso dell’essere, senza perdite e senza resti. Ma: e se il senso non fosse – non fosse mai stato29? Riprendiamo un’ultima volta il caso della percezione di qualcosa. Quel che abbiamo trovato di indebitamente sovrapposto al fenomeno è il titolo logico (nel senso amplissimo del termine) sotto il quale esso viene rubricato. Da una parte, esso interviene formalmente a definire ciò che il terreno concreto dell’esperienza è chiamato retroattivamente a fondare; dall’altra, ne perimetra assurdamente i contorni. È importante ora che si osservi che a tale surrettizia sovrapposizione non si pone rimedio semplicemente denunciando la forma oggettivante dell’inizio husserliano, per rimpiazzarla con un’altra forma dell’aletheúein, con un più originario avere-a-che-fare, che per esempio incontri gli enti alla mano come utilizzabili 29.  Si può sempre obiettare, peraltro, che è senza senso domandare radicalmente sul senso, così come lo sarebbe dire della cosa della percezione che non rimane la stessa nel transito da un luogo all’altro, poiché così domandando si tiene in una mano quel senso che si revoca con l’altra (o si ritira con una mano quella comparazione logica che si istituisce con l’altra). E si avrebbe ragione di obiettare ciò. Ma si dovrà pur riconoscere che se è privo di senso un tal domandare, è solo perché è privo di senso logico: il che, lungi dal costringerci a ritirare la domanda, ne conferma la natura e ne indica il luogo. La domanda sarà forse in qualche senso del termine incomprensibile: ciò che è incomprensibile, tuttavia, non cessa per questo di esistere.

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e non come mere cose (e la rosa dell’esempio incontri – poniamo – nel gesto che la porge). In Husserl, è vero, resiste un primato della pura datità sensibile, da cogliersi in un atto meramente posizionale, anche là dove si riconosce che l’ente viene incontrato sempre all’interno di un determinato orizzonte di significatività. Tale primato si fonda su ciò, che i caratteri affettivi, spirituali, culturali, ecc., che le cose presentano sempre nell’esperienza normale, non possono tuttavia che appartenere a cose date anzitutto sensibilmente. Si tratta di una presupposizione squisitamente logica: in quale altro senso, se non in quello logico (che invece andrebbe messo in epoché, se davvero il mondo deve valere come terreno ultimo di conferimento di senso), le cose potrebbero infatti essere date anzitutto come mere cose materiali-sensibili, visto che nel normale decorso dell’esperienza non le incontriamo mai come mere cose dei sensi? E perché una tale determinazione logica non dovrebbe essere trattata come una determinata sustruzione, al modo in cui la Krisis affronta il problema della determinazione scientifico-obiettiva della cosa? Quel che però rimane da osservare è che l’avere-a-che-fare che si vuole più originario del percepire finisce col mantenere anch’esso indebiti valori logici, introdotti abusivamente nella descrizione del fenomeno, o forse meglio: introdotti dalla descrizione del fenomeno come fenomeno. Svolgiamo in termini puramente indicativi il nostro esempio: all’averea-che-fare con la rosa apparterrebbe, poniamo, il fatto che è una rosa a essere pórta, e non un crisantemo. Altro è (il senso del) porgere una rosa, altro (il senso del) porgere un crisantemo. Avere-a-che-fare con l’una o con l’altro non è la stessa cosa, non si disegna dentro la medesima pratica, e al senso dell’avere-a-che-fare tutto ciò deve necessariamente appartenere, molto più che la generalizzazione procurata dal genere “fiore”. Si osservi, però: nessuno ha bisogno di dire, a se stesso o agli altri, mentre porge la rosa, che di una rosa si tratta e non

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di un crisantemo (se un tal bisogno logico ci fosse, il gesto non sarebbe mai compiuto, poiché bisognerebbe dire o mostrare parimenti tutte le cose che la rosa, o il porgere la rosa, non è: compito infinito e ineseguibile). Si vuole però che questo sia ovviamente implicito: è vero infatti che quando si porge una rosa, la si porge senza sapere che la si porge, né tantomeno la si porge sapendo che una rosa si porge e non un crisantemo, ma nel porgere la rosa è almeno implicito e non ha bisogno di divenire tema di un’attenzione specifica che si tratta proprio di una rosa e non di un crisantemo. Il punto è però: da dove proviene questa implicitezza, che circoscriverebbe la rosa (e il gesto che la porge) con un “proprio (la rosa)” ed un “e non (un crisantemo)”, da dove se non dall’esigenza logica di determinare la rosa come rosa (e non come un crisantemo, o un girasole, o un chiodo)? Questa esigenza passa dalla cosa alla pratica in cui è incontrata senza che in questo transito da una sede all’altra (da una considerazione teoreticistica a una considerazione pragmatico-esistenzialistica) cambi qualcosa a riguardo di quel “proprio… e non”. La (logica) soluzione che consiste nel convertire quest’assenza di un sapere esplicito nella presenza di un sapere implicito pone indebitamente la rosa (e il gesto di porgerla) in ciò che Wittgenstein chiamava nel Tractatus il suo intero spazio logico: a beneficio non del gesto stesso, che nulla sa dello sfondo di “e non” da cui si ritaglierebbe e di cui invero esso non ha bisogno, ma della descrizione e del sapere che lo concerne (e che lo fissa come tale). Un nulla di sapere viene così indebitamente convertito in un sapere di nulla: nel sapere cioè la negazione che assegnerebbe alla determinazione i suoi precisi lineamenti. La linea del gesto diviene in questo modo, per il tramite di questa ingiustificata conversione, una linea logica, in quanto è descritta nel luogo del sapere e come oggetto di sapere: come oggetto già sempre ben appropriato al luogo logico del sapere. Non diremo che la linea originaria della cosa viene così alterata, ma semplicemente che essa rimane intatta accanto alla sua descrizione:

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là dove, peraltro, è sempre stata30. A ben vedere, quel che vi è di indebito e ingiustificato in tutto ciò sta nel presentare il circolo fenomenologico di genealogia e teleologia che ancora una volta si produce (poco importa se l’avere-a-che-fare possa davvero vantare titoli di originarietà maggiori del mero percepire, visto che viene parimenti condotto sotto l’impero della determinazione logica), nel presentare tale circolo come una infrangibile struttura priva di vie d’uscita possibili, presupponendo però che i nostri gesti (e parole e pensieri) siano già sempre catturati dentro il circolo, ri(n)-tracciabili solo dentro di esso, e senza poter per conseguenza mostrare come mai, quando e dove vi siano entrati. È singolare lo scambio che si è così prodotto: l’analisi si indirizzava verso una concretezza che avrebbe potuto delimitare il senso della determinazione logica; denunciando come assurdo il suo intervento, essa avrebbe potuto, forse dovuto, rendere contingente il corredo logico del plesso che circonda e contiene il mondo; e invece è il mondo ad accusare, nel rimbalzo, la contingenza del suo essere, senza che la sua forma ne sia minimamente scalfita.

4.  Il tradimento Ci accorgiamo così che la fenomenologia non riesce mai davvero a divincolarsi dal laccio della riflessione: il suolo che la domanda genealogica doveva portare allo scoperto ha rivelato

30.  Piuttosto enigmaticamente, possiamo qui dire soltanto che vi rimane allo stato di potenza. Non v’è ovviamente alcun bisogno di affermare che vi rimane, ma l’assenza di quest’affermazione è un fenomeno positivo che rilascia una irrisolta potenza accanto alla rosa presa nel gesto determinato che la porge.

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manifestamente il carattere della non-originarietà; se ancora lo si vuol presentare come il suolo d’origine del lógos, ciò può valere soltanto nel senso soggettivo del genitivo. La genealogia della logica rivela cioè di essere soltanto, al più, un’autogenealogia: invece di essere davvero investito dalla genealogia, il Sé, l’autó della riflessione, costituisce infatti l’infrangibile dimensione che, mai scossa, abbraccia e comprende la storia che la genealogia racconta. Qualunque domanda sulla dimensione stessa è ancora una volta inibita, neutralizzata o annullata. Si potrebbe dire che il circolo nel quale rimane presa sempre di nuovo la domanda non è altro che la forma che il plesso logicometafisico assume, quando sviluppa le sue difese immunitarie: quando, come struttura, affronta il problema della sua stessa genesi. A questa difesa appartiene peraltro anche la mossa (pure questa indebita) con la quale, ritirate determinatezza e unità alla cosa dell’esperienza, si immagina che l’essere vero debba allora essere pensato, all’opposto, come indeterminato, caotico, ecc. In realtà, sottolineare la non-originarietà della determinatezza non punta affatto a ottenere, per via negativa, l’originarietà dell’ápeiron. Equivalenze del genere dovremmo lasciarcele definitivamente alle spalle, insieme alle ingenuità sul precategoriale, che qualunque scienza umana sarebbe in grado di raccattare, essendosi scrollata di dosso la tutela della filosofia31. Dire della cosa dell’esperienza che non ha determinatezza non è affatto lo stesso che dire positivamente che 31.  In effetti, a queste scienze umane è da chiedere anzitutto perché mai si dovrebbe accordare un privilegio alla costituzione dell’umanità dell’uomo, quando la domanda vuol avere un senso schiettamente ontologico. Accusare di ingenuità la pretesa ontologica significa rimanere dentro la piega antropologica che si vuole decostruire. Questa posta, su cui ha insistito R. Ronchi, Il canone minore, cit., viene prima di ogni domanda sulla natura buona o cattiva delle pulsioni e formazioni occluse, rimosse o tradite dall’insediarsi del plesso logico-metafisico. Non è insomma l’inumanità dell’uomo che si tratta di scoprire, e neppure, invero, l’inumanità o disumanità della natura –

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è indeterminata. Quel che s’intende, piuttosto, è sottrarre la cosa all’assegnazione di entrambi i valori, al modo in cui del mondo (della cosa in sé) Kant non dice né che è finito né che è infinito, ma che è senza finitezza e infinità32. Se s’incorre invece in un simile fraintendimento, se l’originario appare come un oscuro fondo indistinto (alla maniera, ad esempio, di un certo Nietzsche: come l’orgia babilonese prima dell’Olimpo greco), ciò dipende solo dal fatto che lo si guarda ancora da questo lato, dal lato del sapere (o dell’Olimpo), ancora dunque con le lenti della logica. Quel che in fin dei conti si vuole è ancora una volta determinare l’origine: benché negativamente, come l’indeterminato. Ben lungi dal valere come schema dell’origine, volens nolens, la figura contraddittoria che così si disegna appartiene per intero alla logica che la governa33.

a meno di non voler fare ancora, sia pure in negativo, dell’uomo la misura di tutte le cose. 32.  Né v’è luogo per l’ennesima ritorsione della riflessione: il mondo, infatti, non va neppure determinato come ciò che non è né determinato né indeterminato, se è vero (come vuole Kant) che il giudizio infinito si limita a sospendere l’assegnazione dei due predicati contrapposti. Che si possa qui proseguire all’infinito con le negazioni dice forse qualcosa circa lo statuto della negazione (e l’asthéneia del lógos), ma non certo riguardo alla struttura del mondo. 33.  Nei termini del nostro esempio: non è meno la rosa a essere pórta (o mostrata, o nominata), per il fatto che non è determinata come rosa. L’irresolubilità logica del paradosso wittgensteiniano della regola non consegna il gesto del porgere la rosa all’indeterminatezza, per il fatto che esso non può essere raddoppiato da un sapere che lo determini come tale: altrimenti, si farebbe valere il profilo logico della questione in una sede, la Lebensform, che invece vi si sottrae. Dal fatto che non si può determinare come stanno le cose (che è una rosa e non un crisantemo a essere pórta), non consegue che le cose non stiano così come stanno (né che stiano tutt’altrimenti da come stanno). Non consegue proprio nulla, poiché è proprio il conseguire che è qui fuori gioco (mentre invece, lo si ricorderà, Husserl ragionava ancora sul limitare del mondo e della sua Vernichtung in termini di implicazione logica). Cfr. la fulminante domanda posta nel § 139: «Debbo sapere se comprendo

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Nell’attraversamento sin qui condotto siamo però rimasti istrui­ ti almeno su un punto, che dovremo ritrovare: che tali difese scattano solo innanzi all’aggressione di un agente identificato come esterno. Le difese vanno a vuoto e rimangono invece del tutto inoperanti dinanzi a ciò che giace, per dir così, semplicemente accanto al plesso, sottratto ad esso senza per questo essere ad esso contrapposto. Non, dunque, dentro il plesso, ma neppure fuori, se il fuori s’intende in opposizione al dentro. (E non è la difficoltà di pensare questo spazio a renderlo impossibile: questo, semmai, è solo, positivamente inteso, il modo del suo poter essere). Prima però di accantonare la domanda, occorre fare esperienza di un ultimo tentativo di assolvere, nei riguardi del plesso logico-metafisico, se non il dovere ultimo della fondazione, almeno quello succedaneo e però simpatetico della comprensione. Non infatti a una fondazione si potrà più assistere, ma casomai a uno s-fondamento, il quale, mentre indebolisce la struttura metafisica del plesso, ne amplia pure gli orizzonti, rimettendosi senza troppe riserve alle risorse dell’elemento logico depositato nell’universalità del linguaggio. Possiamo vedere in che modo questo tentativo prende piede recuperando i fili di una trama che s’era inavvertitamente sfilacciata e sciolta. I sondaggi fenomenologici intorno allo statuto della percezione, a come si ha l’essere della cosa percepita nel percepirla, avevano infatti potuto avere corso solo dopo che la dimensione trascendentale delle ricerche orientate ai nessi costitutivi si era affrancata dalla sua stretta forma logico-teoretica. Si trattava – come s’è visto – di una mossa essenziale. Tale affrancamento era però segnalato dalle more nelle quali giungeva la domanda della riflessione intorno alle condizioni di possibilità

una parola?» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, p. 74).

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di tali ricerche, nonché dalla precedenza che in questo modo l’essere si vedeva accordata dall’effetto di ritardo della domanda. Cosa è invece accaduto? Che la precedenza dell’essere e il ritardo della domanda si sono potuti ordinatamente disporre l’una di seguito all’altro: in quale tempo, però, secondo quale crono-logia? È accaduto cioè che s’è persa traccia della controversia essenziale in cui si tenevano l’essere e la domanda che lo concerne, e che la distorsione o la sfasatura comportati da precedenza e ritardo non sono riusciti a entrare fin dentro la tematizzazione fenomenologica. Non la precedenza, nel senso verbale del termine, ma l’essere che precede è stato posto a tema dalla fenomenologia della percezione, e non il venir-­ dopo della domanda (del lógos), ma semplicemente la domanda dopo ciò su cui essa domanda è stata fatta oggetto di una genealogia fenomenologica. Questo tradimento perpetrato dalla fenomenologia, dettato peraltro non da un’inconseguenza, ma dalle esigenze stesse dell’ideale scientifico regolativo di una completa determinazione e posizione dell’immenso continente delle presupposizioni che costantemente fungono all’orizzonte della nostra vita – questo tradimento contiene già tutte le buone ragioni dell’ermeneutica contemporanea, di una comprensione della domanda che fa propria la sua debolezza e si mantiene in essa, e che invece di nascondere il tradimento che viene perpetrando, lo confessa e fa proprio. Si fa paradossalmente fedele al tradimento. Pensiero della finitezza, l’ermeneutica conosce la contraddizione del finito e invece di risolverla si assegna il compito di custodirla. Può forse essere utile, prima di portarci a ridosso di questo momento del pensiero, disporre di un rapido schema. Se il dato non fosse un collegato, se il dato non si presentasse in profili sintetici, se la sintesi non appartenesse al dato stesso, non vi sarebbe modo di collegare o di sintetizzare alcunché, e dunque in generale di conoscere. Il linguaggio empiristico non può nascondere il platonismo di fondo cui questa tesi nascosta-

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mente si ispira. Riattivare questo fondo platonico può servire anzi a evidenziare con maggiore forza il circolo in cui la tesi s’avvolge. Perché infatti vi sia un lógos dell’essere, nel senso oggettivo del genitivo, occorre che vi sia un lógos dell’essere nel senso questa volta soggettivo del genitivo; ma è vero pure il contrario, che cioè è per il fatto che noi pensiamo l’essere (che l’essere è oggetto di un lógos), è per questo che possiamo e anzi dobbiamo presupporre un lógos dell’essere nel senso soggettivo del genitivo. Nei termini appena posti, questo significa che siamo già sempre ben attestati dentro il collegato stesso, dentro la connessione, il Bezug che tiene legato il pensiero all’essere. Se è così, perché allora sorge la domanda circa il collegamento stesso (che è la domanda trascendentale di Kant, ma poi la domanda stessa della filosofia)? Si può rispondere che la domanda sorge non per altro che per essere tolta, in quanto è senza senso: è in questo modo che Hegel regola i conti con Kant (non si può conoscere la conoscenza: come se la domanda domandasse appunto per conoscere!). La domanda è senza senso anche per Husserl, in quanto è preceduta dal senso e sorge solo sul suo terreno; tuttavia questo senza-senso, invece di essere dialetticamente risolto e scomparire dentro la commessura logico-sintetica dell’essere come sua mera articolazione interna, viene salvaguardato come fenomeno positivo esso stesso: come il modo stesso di darsi del senso, mai totale, mai del tutto pieno ed esauriente, e perciò mai realmente posto, ma solo idealmente significato nella sua definitiva sensatezza. Ci si può però inclinare ancor più nel verso della domanda, e riconoscere che essa ha invece senso, poiché il mondo su cui domanda, e che è la scaturigine primaria di ogni senso, non è altro che il mondo della domanda: il mondo che si prolunga nella domanda, che si fa mondo in essa, il mondo che «esiste nel modo interrogativo»34. Il mondo che sta dietro alla domanda vi 34.  M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 123.

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sta dietro come ciò che si continua e accade come mondo non prima, ma nella domanda stessa. Vi è un legame natale/naturale della domanda col mondo su cui essa domanda, che dona peraltro alla domanda la sua pertinenza. L’errore delle filosofie riflessive consiste nel recidere questo legame, pretendendo poi l’impossibile, di rifarlo cioè daccapo in sede trascendentale: L’analisi riflessiva crede di seguire a ritroso il cammino di una costituzione preliminare e di raggiungere nell’«uomo interiore», come dice Sant’Agostino, un potere costituente sempre identico a se stesso. Così la riflessione rimuove se stessa e si ricolloca in una soggettività invulnerabile, al di qua dell’essere e del tempo. Ma questa è un’ingenuità o, se si preferisce, una riflessione incompleta che perde coscienza del proprio cominciamento.35

La fenomenologia deve sempre di nuovo riprendersi al cominciamento. In quanto però il cominciamento è immediatamente pensato non come l’accadere eterno di un inizio che squilibra ciò che succede senza risolversi in esso, bensì senz’altro come un aver già sempre cominciato, la fenomenologia, che non può per ciò stesso procedere a una riduzione completa, si declina volentieri come fenomenologia ermeneutica36. Fenomenologia ed ermeneutica si toccano così come l’allegria di una nascita e la melanconia di una fine, come natalità e mortalità, l’in avanti e l’a ritroso, come l’alba e il tramonto di un medesimo giorno: l’una vede il mondo nella sua prima luce, l’altra nella sua ultima ora, entrambe in realtà altrove, cioè nella mezza luce che consente di vedere. Per l’una il pensiero è una cosa naturale, in cui il mondo si prosegue ed espone, senza mai esprimersi del

35.  M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., Premessa, p. 18. 36.  Questa declinazione si può cogliere in maniera esemplare nell’analisi del vernehmen (che traduce il noeîn parmenideo) come «evento che possiede l’uomo», in M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, pres. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1986, pp. 146 ss., qui p. 149.

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tutto; per l’altra invece è il mondo cosa pensata, in cui il pensiero tenta di ritrovarsi senza mai riuscire del tutto. Vox media del mondo, prima luce dell’apparire o parola seconda del linguaggio, il pensiero non è mai troppo lontano dall’origine o troppo accosto alla fine da non mantenersi sempre sui sentieri dell’essere, che sempre nuovamente li tracci o che invece debba ogni volta ri(n)-tracciarli. Mai così aderente da non costituirne un prolungamento, mai così discosto da non serbarne comunque la voce, il pensiero si mantiene in un’approssimazione abbastanza amichevole per essere ora avvicinamento possibile ora invece erranza necessaria, ma in ogni caso reciproco dimensionamento dell’essere al pensiero, o del pensiero all’essere. E se non c’è parentesi tanto ampia che possa contenere il mondo, come nel progetto più impegnativo ma mai definitivo della fenomenologia, sarà il mondo stesso a contenersi nella parentesi, dimensionandosi nella prospettiva del linguaggio, come accade negli esercizi sempre finiti dell’ermeneutica.

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Capitolo IV

La negazione della domanda

1.  Verso il nulla L’ermeneutica si presenta anzitutto come il modo della comprensione della domanda. Intendiamo con ciò un pensiero per il quale è già sempre aperto il luogo della domanda, in modo però che proprio questo luogo, l’apertura stessa, non possa mai portarsi davanti alla domanda, ma stia sempre dietro ad essa – come ciò che la sorregge e la rende possibile. La possibilità della domanda, peraltro, non sopravviene all’apertura come un semplice accidente, ma come il modo stesso in cui la comprensione si apre. È un evento1. Ai nostri fini, la struttura di questo rapporto ha rilievo maggiore che non la sua recitazione nella prassi del linguaggio: purtroppo accade invece che l’ermeneutica contemporanea sia maggiormente coinvolta nell’esercizio di questa pratica che non invece in un’interrogazione radicale intorno all’apertura in cui essa si effettua. Come congedo dalle problematiche metafisiche, questa forma di ermeneutica a buon mercato rinuncia a pensare la forma stessa del congedo, peccando se non altro di incoerenza, poiché dovrebbe supporre

1.  Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 17.

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che non vi è determinazione di pensiero che non sia ancora e sempre nuovamente da pensare – da pensare, in un senso che non sia dato per definitivamente acquisito. Prima di qualificarsi in senso storico-epocale, il nome che la filosofia ha dato all’apertura dentro cui accade l’incontro con l’ente, e che ogni posizione dell’ente deve presupporre, è stato: essere. Essere e tempo muove dalla dimenticanza e vuotezza in cui è caduto questo nome e, con esso, ciò che l’ente non è, ma che pur è necessario si dia perché l’ente stesso sia. L’essere che non essendo l’ente lo dischiude si dà però soltanto nella (e come) comprensione dell’essere. La comprensione è il dischiudimento stesso. Ciò non comporta che noi si abbia sempre un concetto esplicito e ben formato dell’essere (il noi e il concetto vengono ben dopo), ma che non v’è ente che non sia incontrato a partire da una certa comprensione dell’essere, così come non v’è nulla di effettivo che non sia incontrato a partire da una certa comprensione dell’effettività, e nulla di reale è incontrato senza una previa comprensione della realtà del reale, e ancora nessuna esistenza, quindi neppure la nostra stessa esistenza, senza una previa comprensione di ciò che vuol dire esistenza ed esistenzialità2. A voler tagliar corto, si direbbe che in questo modo ci muoviamo ancora ben dentro il platonismo, se ovviamente per platonismo intendiamo non già quanto risulterebbe a un accertamento di tipo meramente storiografico, bensì piuttosto quella compagine teorica che riconosce come dimensione fondamentale del modo umano di esperienza dell’ente (e quindi di ogni pensabile esperienza dell’ente) quella dell’apriorità, e se conseguentemente ab-

2.  Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 2, p. 9. È chiaro altresì che effettività, realtà ed esistenzialità non vanno pensate come astratte cornici formali, mere generalizzazioni, ma come la stessa densità ontologica dei fenomeni in questione: «La comprensione dell’essere è anche una determinazione d’essere dell’Esserci» (ET, § 4, p. 28).

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bassiamo a sue varianti i modi diversi con i quali tale apriorità è stata pensata: come un altro ente (la metafisica volgare), o come il non dell’ente (il più autentico pensiero)3. In entrambi i casi, è l’ente determinato che paga per la sua determinazione (cioè per la sua pensabilità) il prezzo di un rinvio a ciò che lo precede non per altro che per consegnarlo alla sua entità presente. È indubbio, però, che Heidegger abbia compiuto un possente tentativo di pensare quel che accade su – o meglio: come accade – la linea di un tale orizzonte, che è poi quell’oriz­ zonte tradizionale della filosofia, la cui struttura abbiamo descritto nei termini del plesso logico-metafisico. Tale tentativo über die Linie ha indotto Heidegger ad approfondire sempre più, in particolare negli scritti successivi a Essere e tempo, le ragioni essenziali dell’oblio in cui cade l’essere, ossia l’apertura stessa, in favore della semplice presenza dell’ente4.

3.  Possiamo qui disimpegnarci quanto alla validità della lettura heideggeriana di Platone, del Sofista e della Repubblica in particolare. Si potrebbe osservare che l’oscuramento platonico dell’essenza della verità e dell’essere si produce proprio nell’interpretazione positiva del “non” dell’essere rispetto all’ente, e nella sua conseguente dislocazione in idea: con ciò però Heidegger non resterebbe meno erede della mossa ancor più fondamentale del platonismo, con la quale l’ente è collocato (e solo perciò incontrato) in una dimensione che, rivolta a priori all’ente, sempre lo precede e lo trascende – positivamente o negativamente non ha qui importanza, così come non ha importanza, nel senso che costituirebbe solo una variante interna, che il dischiudersi dell’essere sia pensato nei termini di un’auto-imposizione dell’essere (è il modo in cui Heidegger reinterpreta il concetto aristotelico di phýsis), o invece come mero prodotto dell’anima-soggetto. Perde quindi anche rilievo (e può ben essere contestata) la stessa distinzione fra l’impostazione cosiddetta trascendentalista di Sein und Zeit e quella più schiettamente ontologica successiva alla svolta. 4.  V. Vitiello, Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalìa, Urbino 1976, porta avanti un’interpretazione della parabola filosofica di Heidegger che ne rovescia la direzione: la posizione più avanzata in ordine alla Seinsfrage è raggiunta in Essere e tempo, non già nella successiva Destruktion della storia della metafisica: tutto

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A questo tentativo prestiamo in ultimo l’attenzione, non già alle rivisitazioni dell’apertura heideggeriana nel senso di una mai troppo scomoda dimora. Se la verità come apertura, pur rinunciando a conformità e conciliazione, può essere frequentata nel modo giusto, e abitata, assumendola creativamente (Vattimo), dialogando (Gadamer) e conversando (Rorty), cioè tessendone il filo all’unica condizione di non fare di essa problema, allora sarà quasi soltanto una faccenda di buona educazione. Letteralmente: di quel che si potrà tirar fuori da questa costitutiva relazione all’aperto, che qualunque distorsione, reinterpretazione, o trasformazione non farà che ribadire. Dove però si è aperta l’apertura? Conosciamo già l’insufficienza di una domanda, che non sarebbe affatto superata se scegliessimo un’altra modalità di congiunzione. Ma abbiamo ragionato sulla domanda proprio per non accettare pacificamente il suo deficit di posizione5. Per non fare le vittime, si potrebbe aggiungere polemicamente, considerando il rischio che forse è ravvisabile in ogni filosofia della finitezza, per cui c’è sempre un assoluto, o anche solo un incalcolabile fuori portata, da cui consegue, per noi, un giusti-

il pensiero della Kehre andrebbe perciò riconsiderato in questa luce. Ora, non può essere questa la sede per discutere questa tesi, che non richiede conferme o smentite di ordine storico o filologico, ma un confronto teorico. Si consideri allora solo il punto intorno a cui ruotano le considerazioni qui avanti, che è relativo allo spazio di gioco in cui si tengono essere e nulla: se lo frequentiamo grazie alle formule tentate nei saggi scritti da Heidegger dopo Essere e tempo, non escludiamo affatto che si apra con altrettanta radicalità già nel capolavoro del ’27. In ogni caso, consideriamo ampiamente assodate, ormai, un paio di cose: non è alla metafisica come storia dell’essere che va chiesta l’ultima parola; la lettura antropologistica di Essere e tempo è respinta da Heidegger stesso come una cattiva lettura. 5.  È notevole, peraltro, e ha significato non solo nel pungente confronto con il pensiero scientifico, che Heidegger abbia abbandonato una certa retorica della domanda, cercando di determinare l’essenza del pensiero a partire dall’accostamento Denken/Danken, pensare/ringraziare: cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit.

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ficabilissimo ridimensionamento delle ambizioni della filosofia, e una tenerezza melanconica che si spande su tutte le cose6. Nell’esplorazione heideggeriana, le cose non sono però affatto semplici. Il carattere pre-positivo dell’essere impone che il suo oblio non cada fuori da ogni considerazione, risolvendo il problema della sua inapparenza in termini semplicemente privativi7. Nel deficit che accusiamo, ne va anzitutto del modo diagonale, indiretto, di darsi ritraendosi dell’essere (che Heidegger chiama anche, con enfasi ambigua, destino). In questo modo, che vi sia solo più l’ente non equivale affatto alla registrazione di una perdita e neppure consente recuperi, risalimenti, epistrofi, o pone sottofondi e retro-mondi dietro il mondo. L’apertura, come è memoria e precedenza, così è oblio e cedimento: non prima l’una e poi l’altro, ma l’una come l’altro, la memoria come l’oblio: aver posto l’oblio dopo la memoria (così come negazione segue a posizione) è invece, a dirla sbrigativamente, la falsificazione platonica di questa Wesung originaria (e il punto probabilmente più significativo della vicinanza di Heidegger a Nietzsche). Nello sguardo rivolto alla differenza ontologica, il tentativo di Heidegger perviene alla sua formulazione più densa e complessa, perché in essa non si trova solo il profilo trascendentale dell’essere come orizzonte di comprensione dell’ente (il versante lato sensu platonico), ma viene al contempo anche scorta l’intima, intrinseca nullità dell’essere stesso (il congedo dalla metafisica e l’altro inizio del pensiero). Nella differenza fra 6.  Sul piano morale, sociale e storico, D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma 2004, ha parlato di «colmatura vittimaria del proprio difetto di soggettività» (p. 49): se ne possono rintracciare i fondamenti teoretici in larga parte della filosofia del ’900. 7.  Di una fenomenologia dell’inapparente, ai limiti estremi dell’eredità heideggeriana, ragiona E. Forcellino, Dire due volte la stessa cosa. Fenomenologia e tautologia, in «Quaderni di Inschibboleth», n. 10, 2/2018, pp. 34-74.

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Sein e Seiendes, gioca infatti – ma solo in primo luogo, come subito vedremo – la relazione fra essere ed ente. L’essere viene all’essere (west) nella misura di un passaggio verso l’ente che lo disvela; l’ente, a sua volta, appare «come custodito perdurare» nella non-ascosità della presenza grazie al passaggio dell’essere8. Il wesen di entrambi, il sopravvenire dell’uno e l’avvento dell’altro, il loro reciproco rapportarsi, è tuttavia solo in virtù della differenza (Unterschied) che fornisce lo spazio del loro incontro, il tra (das Zwischen). Ora, non è che la metafisica non veda che essere ed ente differiscono l’uno dall’altro. Tanto bene vede ciò, che la sua stessa costituzione onto-teo-logica «deriva dal prevalere della differenza, che porta l’essere come fondamento e l’essente come fondato-fondante-giustificante a differire l’uno dall’altro» (ID, p. 35). Quel che la metafisica non vede è invece la differenza come differenza, il differire stesso, ciò da cui proviene la differenza di essere ed ente, il luogo che precede (Vorort) l’essenza della differenza e che Heidegger pensa – con termine di difficile traduzione – come Austrag, divergenza, come il luogo del controverso comportarsi e trattenersi reciproco di essere ed ente9. A questo luogo la metafisica s’impronta, attenendosi a una determinata inter8.  Cfr. M. Heidegger, Identità e differenza (= ID), tr. it. di U.M. Ugazio, in «aut aut», n. 187-188, 1982, p. 31. Nella lettura di queste pagine, ci siamo lasciati guidare essenzialmente da V. Vitiello, La Differenza in Hegel e Heidegger, in Id., Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979, pp. 45-110. 9.  Sia detto en passant: la tesi, di stampo derridiano, che l’intera tematica della differenza ontologica si formuli in concetti compromessi con una metafisica della voce – tesi che rifiuta ogni originarietà al Dire heideggeriano e, più in generale, compromette il concetto stesso di origine – ci pare non renda completa giustizia ai tentativi di pensiero che Heidegger, meditando negli anni Trenta e Quaranta sull’evento, conduce per pensare la differenza «senza un riferimento all’essere già stabilito» (cfr., su ciò, M. Heidegger, L’evento, ed. it. a cura di G. Strummiello, Mimesis, Milano-Udine 2017, in particolare § 259, p. 239. La vera questione, riguardo però a questi testi postumi, sta

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pretazione dell’essere che in essa si illumina come lógos, con ciò però occupando e per ciò stesso velando lo spazio di gioco (Spiel) in cui è lasciata l’impronta (Prägung), e che costituisce probabilmente l’essenza stessa dell’essere (ID, pp. 32-33). Il passo indietro che il pensiero compie rispetto all’interpretazione metafisica del Vorort della differenza in termini di rapporti di fondazione, l’arretramento dalla metafisica verso la sua provenienza essenziale, non ci immette in altro e diverso luogo da quello in cui insiste l’impronta, la costituzione onto-teologica della metafisica. In un tal provenire si perviene invece al luogo stesso cui la metafisica s’impronta, portandolo come tale al pensiero. La divergenza (Austrag) è il modo secondo il quale la differenza si porta/viene portata al pensiero. Heidegger però pone anche questo pensiero sotto il principio (d’ispirazione fenomenologica, è bene ricordarlo), secondo il quale «il modo in cui l’essere si dà è determinato ogni volta dal modo in cui esso si illumina». Ciò significa che pensare/collocare la differenza da cui provengono essere ed ente in e come Austrag non è solo il modo in cui viene portata al pensiero l’impronta storico-­destinale della metafisica, ma è (o può essere) esso stesso un’impronta. Il che non equivale certo a disporla in bell’ordine di fianco alle altre impronte («come lo sono mele, pere, pesche, [esposte] sul banco di vendita»), ma non può neppure significare che si tratta di fame «una legge che assicura la necessità di un processo nel senso della dialettica» (ibidem). In che modo, allora, va salvaguardata la precedenza del luogo in cui collocare la differenza, visto che «le paroleguida della metafisica essere ed essente, fondamento-fondato, non bastano più» (ID, p. 35)?

forse nel significato filosofico delle predilezioni esoteriche di Heidegger, che in questa sede dobbiamo tralasciare).

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Alla luce di tale domanda, proprio questo deve ora venire in chiaro, che l’interpretazione della differenza in termini di distinzione dell’essere e dell’ente, proposta in primo luogo, non è più sufficiente. Cosa è infatti Seiendes? Si tratta semplicemente dell’ente, o non piuttosto dell’ente in totalità, dell’ente come tale, cioè poi dell’essere stesso? È infatti solo da un punto di vista astratto e unilaterale che è possibile separare gli enti dall’orizzonte in cui cadono, come se si potesse dare un orizzonte del tutto sgombro dagli enti, o enti al di fuori di ogni orizzonte. Come orizzonte di manifestatività di ogni ente in quanto tale, l’essere è il Lógos dell’ente, il suo come, tò periéchon, ciò che circonda e sopravanza l’ente: non altro dunque che il modo stesso d’essere dell’ente. Perciò Heidegger introduce i termini del passaggio dell’essere all’ente con le semplici parole: «L’essere dell’essente significa: l’essere che è l’essente». Ed è in osservanza di questo senso che si dovrebbe tradurre Seiendes con essente, piuttosto che con ente, perché nella parola risuoni la reciproca appartenenza di essere ed ente: dell’ente all’essere, dell’essere all’ente10. Se però tutto questo è già detto in Seiendes, in che modo si deve intendere Sein? Poiché è chiaro che in Heidegger non si tratta affatto di cancellare la differenza (o di pensare la differenza stessa come effetto e traccia di una cancellazione), ma anzi di salvaguardarla nella sua stessa precedenza rispetto al gioco metafisico di essere ed ente. Ora, ciò che differisce dal sopravvenire dell’essere come manifestatività, così come dall’avvenire dell’ente che in tale manifestatività si mantiene e perdura, non è che il nulla, l’essere come nulla, come nulla originario,

10.  Se può essere utile un breve riferimento testuale, si ricorderà che in M. Heidegger, Moira (Parmenide, VIII, 34-41), in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1980, l’essente, l’eon, designa quel «dis-piego (Zwiefalt)», cui ci si approssima con le espressioni «essere dell’essente» e «essente nell’essere» (pp. 163-164).

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come quella velatezza che rimane nascosta dalla e nella nonvelatezza dell’essere, come la léthe dell’alétheia. Se Seiendes dice lo spazio di gioco degli enti, Sein è l’origine-non-origine di questo gioco, «il “non” dell’iniziale non-essenza della verità come non-verità»11, il fondo senza fondo (Abgrund) della provenienza di ogni presenza. La differenza gioca allora fra la svelatezza dell’essere e il velamento del nulla originario; e il gioco della differenza si riconosce poi da ciò, che non di due determinazioni distinte si tratta, o di due stazioni che si dispongano linearmente l’una dopo l’altra, ma della medesimezza dell’essere stesso, del mantenersi del nulla nell’essere e come essere. L’essere stesso è il voltarsi in se stessa della svelatezza (di sé in quanto essere) come velamento (di sé in quanto nulla)12. Solo ora si riconosce il profilo di ciò che è da pensare nell’oblio della differenza: se infatti Sein e Seiendes devono essere pensati «a partire dalla differenza» (ID, p. 30), e se questo pensiero muove un passo indietro per procurarsi l’ambito in cui e da cui la differenza di Sein e Seiendes proviene, da pensare è non semplicemente l’apertura dell’essere, il suo sopravvenire e quindi la chiara manifestatività dell’ente, bensì più essenzialmente l’intimo contrastarsi di nulla ed essere, e tale contrasto non altrove che nell’apertura dell’essere e come essere, nel mondo e come mondo. 11.  M. Heidegger, Dell’essenza della verità, S, p. 150. La nota manoscritta che precede il § 6 (da cui abbiamo citato) segnala che la svolta del pensiero nell’Ereignis si situa proprio a questa altezza e concerne la velatezza che è contemporanea alla disvelatezza dell’essere, essendo da essa velata: che non è cioè lasciata indietro a questa, ma che questa, la disvelatezza, ha in sé. L’evenire dell’evento ha, nel destinarsi e raccogliersi, la medesima doppiezza. 12.  Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, libro II, p. 825 (tr. mod.): «L’essere stesso […] rimane assente, e come tale rimanere assente l’essere stesso viene essenzialmente all’essere (west)»; ma il tema percorre tutte queste pagine.

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La meditazione di Heidegger sul linguaggio conserva rigorosamente questa duplice valenza. Nella conferenza su Il linguaggio, Heidegger determina anzitutto il linguaggio come nominare che «sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose» (CvL, p. 37). Qui è nuovamente a tema la differenza di essere ed ente, mondo e cosa: è essa che «chiama» e «fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, e che il mondo emerga come quello che consente le cose» (CvL, pp. 37-38). Ma questo è solo il primo lato. L’altro lato si annuncia nella formula che raccoglie un’esperienza autenticamente pensante del linguaggio: «portare il linguaggio come Linguaggio [Sage] al linguaggio (alla parola che si realizza nel suono)» (In cammino verso il linguaggio, in CvL, p. 206). Il senso di questo compito riposa interamente sulla natura di quel “portare”, che Heidegger determina, nelle conferenze su L’essenza del linguaggio, come un movimento singolare, una Bewegung, un cammino per il quale non c’è via prima dell’incamminarsi stesso, un cammino che fa essere la via del cammino: la fa essere però all’indietro, e non in avanti; non come ciò che si apre ex novo sotto i nostri piedi (volta a volta nelle nostre parole), ma come ciò che è già sempre stato, benché non si sia mai camminato per i suoi passi (e dunque non sia mai stato parlato). In tale Bewegung è pensato in modo originario il movimento stesso dell’essenza: non ciò che qualcosa è, il che cosa, l’essentia, ma il perdurante concedere che ci reclama (e reclama il nostro esserci), «quello che in tutto fa presente una strada come l’elemento più fondamentalmente costitutivo» (CvL, p. 159). Se la ricerca sull’essenza del linguaggio si volta in un’esperienza del linguaggio dell’essenza, è allora perché, ben lungi dal poter noi portare al concetto, a rappresentazione, ciò che il linguaggio è, siamo da esso costantemente preceduti. L’essenza (ciò che concede) è il movimento di questa precedenza. Portare il linguaggio al linguaggio significa fare espe-

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rienza, e anzi essere questa precedenza13. Ma ciò significa che nelle nostre parole essa viene come ciò che nelle parole stesse si tace e si tiene in serbo, come il silenzio cui la parola s’intona: «Per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza, a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro: che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi – proprio esso parla» (CvL, p. 147). Della localizzazione della parola nel rifiuto e come rifiuto, quasi nulla rimane nella vasta area del pensiero contemporaneo, che pure si riconosce nell’eredità di Heidegger. La nota tesi di Gadamer, in cui si esprime il Leitwort dell’ermeneutica: «L’essere che può venir compreso è linguaggio»14, riprende la Bewegung del linguaggio, l’essere già sempre preceduti dal linguaggio, solo superficialmente. Con essa si rivendica una sorta di congenerità fra essere e linguaggio, la coappartenenza di parola e cosa: si fanno parlare le cose stesse e si mette in questo modo l’essere già sempre in cammino nelle parole, ma proprio così si lascia impensata l’essenza di ciò che come parola 13.  La natura di questo portare è dunque molto meno attiva di quanto non sembri. Si tratta di un portare che è a sua volta portato, e dunque di un portarsi del linguaggio. Il fatto che sia qui in campo un movimento di riflessione consente anche di dire una parola sull’Auseinandersetzung Heidegger/Hegel. Senza pretendere di esaurire in una nota una questione teorica di grande complessità, si può suggerire che la resistenza heideggeriana a un’interpretazione dialettica della Bewegung riflessiva dipende da ciò, che in Heidegger il luogo del movimento di riflessione non è mai mobilitato dal movimento stesso e risolto in esso, benché non sia che questo stesso movimento e da esso non possa essere che astrattamente distinto. Questa situazione è però, aggiungiamo, pensata ancora negativamente – nei termini cioè di un ritrarsi, oppure di un contro-movimento. Hegel potrebbe ancora rivalersi su di essa, allora (mentre Heidegger ricondurrebbe ogni rivalsa dialettica alla mediazione della soggettività cartesiana nella comprensione del senso dell’essere). 14.  H.-G. Gadamer, Verità e metodo (= VeM), tr. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1986, p. 542.

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fa essere e che come silenzio in essa si ritrae, il rifiuto, il lato notturno dell’essenza del linguaggio, ciò in cui la parola si raccoglie e che proprio per questo non è parola, il Wesen dell’essere che come manifestatività e mondo avviene nel linguaggio, ma che per ciò stesso si determina come nulla. Il linguaggio ci precede sempre, ma invece di fare della precedenza l’onere del pensiero, l’ermeneutica pensa semplicemente il linguaggio come ciò che precede (come tradizione: VeM, p. 529), dà in questo modo al movimento il suo soggetto (e il suo senso), e si limita a far precedere le nostre parole da altre parole. Ne viene la determinazione orizzontale dell’enérgheia del linguaggio come dialogo15, e il suo ordinato modellarsi secondo la «logica di domanda e risposta» (VeM, p. 427). In quanto poi la domanda costituisce l’orizzonte preliminare che ci interpella dandoci la parola, siamo già sempre collocati in una direzione e in un senso possibili (VeM, p. 421), mai esposti alla possibilità dell’insensatezza radicale, dell’insignificanza, del nulla o dell’assenza di senso. Mai, soprattutto, siamo chiamati a interrogarci sull’antico autó parmenideo, sulla sua soglia, sull’inizio della sua instaurazione: il gesto platonico di renderlo più ospitale si approfondisce e prolifica; precludendo ogni altro sguardo, rivela ancora una volta tutta la sua infinita fertilità, infinito che si sposa volentieri con la nostra finitezza. Con ciò non viene meno solo una generica passione per l’interrogazione radicale, ma cade del tutto il problema del cominciamento (VeM, p. 539): non però in favore di una (forse impossibile a pensarsi, ma non per questo necessariamente inessente) assenza di principio, ma in favore di un aver già sempre cominciato sottratto per principio ad ogni domanda. Non c’è domanda sul domandare stesso. Da questa contraddi15. Cfr. VeM, p. 510: «ciò che si tratta di accentuare è invece che il linguaggio ha il suo vero essere solo nel dialogo […]. Il linguaggio, infatti, è essenzialmente il linguaggio del dialogo».

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zione ci si può certo difendere contestando il formalismo della riflessione che la procura (VeM, p. 399), ma in questo modo non ci si avvede che la contestazione medesima decade ad argomentazione meramente formale e occulta il fenomeno positivo del “non-esserci-domanda”, l’essenza di questo “non”, il luogo in cui esso stesso accade e per cui invece abbiamo tentato la parola: accanto16. L’occultamento, si dirà ancora con Heidegger, vela la s-velatezza dell’essere, il “non” che pure immette nel “già-sempre” dell’esperienza linguistica dell’essere. Ora, però, la località in cui la velatezza è come non-velatezza, è l’esser-ci. L’esserci è la «località celata» della svelatezza dell’essere17. Non fa dunque meraviglia che Gadamer, ricollegandosi «al significato trascendentale dell’impostazione heideggeriana» (VeM, p. 311) non riprenda quelle determinazioni ontologiche della Daseinsanalyse che non possono essere comprese e risolte entro il circolo ermeneutico di domanda e risposta, in quanto cadono al di là di ogni possibile aspettativa di senso e non giungono in grazia di alcun tramandamento storico: l’essere-per-la-morte e l’angoscia, che approntano il luogo in cui è compreso ogni effettivo progettare e in cui è insediata l’intima gettatezza dell’esserci, sono infatti ritrascritti da Gadamer nei termini di una più morbida e permeabile finitezza del linguaggio, che ha sempre 16.  Analogo rilievo merita la decostruzione delle categorie metafisiche condotta da Derrida sul filo della dimostrazione della loro occultata provenienza dalla differenza di significante e significato incisa nel segno. Nonostante ogni diffidenza per l’idea stessa di segno e i suoi avatar metafisico-teologici, la decostruzione rimane nella sua inaggirabile ombra, e non sembra darsi troppo pensiero di cosa significhi che non v’è nulla che a tale ombra si sottragga. La domanda verticale sul senso di questo non-(esserci)-nulla che qui si affaccia scompare, e la grammatologia, che lo voglia o no, raggiunge l’ermeneutica nella frequentazione (non importa se aporetiea o fruttuosa, letterale o spirituale) dell’unico orizzonte del linguaggio. 17. Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 828.

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come generosa contropartita «un’infinità di senso da sviluppare e da interpretare» (VeM, p. 524). Ma una simile ritrascrizione copre proprio l’essenziale, vale a dire la sospensione del senso che è minacciata così dall’insuperabilità della morte, come dall’insignificanza del mondo18. Copre cioè il fatto che insieme con l’apertura del mondo sempre viene a essere anche la pura e non determinabile possibilità della sua revoca19. Se in Gadamer non vi sono domande per le quali non sia pensabile l’orizzonte di una possibile risposta, e non vi è modo di rispondere se non alle domande che provengono dalla nostra eredità storica, in Heidegger i lineamenti fondamentali dell’apertura al mondo portano ultimamente l’esserci nell’in-vista-di-nulla della morte o nel davanti-al-nulla dell’angoscia, in cui si fa piuttosto esperienza di domande senza risposta, o di risposte senza domande.

18.  Cfr. ET, § 53, p. 323: «L’Essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia». 19.  I caratteri della Stimmung dell’angoscia sono esposti nel § 40. L’apertura: «L’angoscia apre quindi originariamente e direttamente il mondo come mondo» (ET, p. 235); la possibilità: «l’angoscia apre l’Esserci come esserpossibile» (pp. 235-236); l’indeterminatezza: «Il “davanti-a-che” dell’angoscia è completamente indeterminato» (p. 234). Nel § 50 l’angoscia viene poi interpretata come la situazione emotiva in cui si rivela l’«esser-gettato nella morte» dell’esserci (p. 306). Nel § 53, infine, l’esser-gettato nella morte viene appropriato all’esserci nel progetto esistenziale di un esser-per-la-morte autentico. La legittimità di una simile appropriazione rimane ai nostri occhi profondamente problematica (benché richiesta dall’esigenza metodica che sia «offerto allo sguardo tematico-fenomenologico l’Esserci intero», § 45, p. 285), almeno nella misura in cui pare mettere a disposizione dell’Esserci il nulla che è avvicinato nel Sein zum Tode. In ogni caso, l’esser-per-la-morte conserva il carattere di possibilità indeterminata cui l’esserci è esistenzialmente aperto (cfr. § 53, p. 322).

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2.  Verso l’in-differenza Tenendosi all’altezza della problematica heideggeriana, la versione corrente dell’ermeneutica non può dunque non apparire come un suo impoverimento e una banalizzazione. Che peraltro ha pure le sue ragioni essenziali, se è vero che «l’essenza più intima del nichilismo e la potenza del suo dominio» paiono consistere proprio «nel ritenere il Niente qualcosa di nullo […]. Forse l’essenza del nichilismo consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente»20. L’ermeneutica contemporanea evita infatti di porre la domanda sull’essenza del Niente; quando non ignora del tutto il fenomeno, per non lasciarsene troppo inquietare lo tratta non già come l’originaria possibilità del non-essere del senso (dell’essere), bensì come la buona ventura di un intervallo, o di una differenza che, all’interno della sfera del senso, ne consente l’articolazione. Nulla è pensabile fuori di quella sfera (benché sia perduta la possibilità di tracciarne a priori i limiti per il venir meno di una misura trascendentale dell’esperienza), e dunque il nulla si sottrae al pensiero. Non si tratta solo della fiducia che l’ermeneutica nutre nel linguaggio, nel verbum: anche le versioni pragmatistiche e semio­ tiche che, con minore nutrimento spirituale, confidano piuttosto nell’anonimato del segno, si appoggiano alla medesima struttura: c’è segno, e intelligenza del segno, solo fra una sterminata antichità e un avvenire altrettanto sterminato, e l’una e l’altra ci sono per via della natura stessa del segno, che non può non prolungarsi in avanti e all’indietro, in una catena ininterrotta di segni (la semiosi infinita di Peirce). Ma proprio perciò i limiti di questo smisurato campo semiotico non possono essere mai raggiunti e inquisiti, né v’è modo di far questione dell’appartenenza a questo campo (senza essere, per ciò stesso, preceduti e catturati dal segno): in questo modo, non solo 20.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 581.

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si compie una rinuncia a investigare il nulla che lo fascia, ma non è presa in seria considerazione neppure l’ipotesi, molto più temibile, che non si sia affatto dentro qualcosa, che non si abiti affatto la parola, che non si sia affatto confinati nell’impero nei segni: l’ipotesi, in altre parole, che in una simile dimensione già sempre compromessa con le risorse del segno e della lingua non siamo mai veramente, irrevocabilmente entrati21. Orbene, come pensa invece Heidegger questo abissale sottrarsi del nulla? S’è visto che esso s’è annunciato, nel corso dell’analitica esistenziale, come pura possibilità, e anzi come pura possibilità indeterminata. In quanto appartiene essenzialmente alla natura stessa della possibilità, l’indeterminatezza esclude per principio la sua realizzazione/determinazione. L’esser-possibile rimane dunque possibile: differente da ciò che è reale ed effettivo. Il che non vuol dire che si presenta per sé, su un piano diverso da quello su cui si tiene ciò che è reale ed effettivo, ma che si mantiene con esso in rapporto (è, anzi, questo rapporto) senza tuttavia essere incluso nel rapporto stesso. Non incluso senza essere escluso, non escluso senza essere incluso: la differenza dell’esser-possibile dall’essere-reale è per intero consegnata al “senza” che, nel concedere, pur si ritrae. Di questo tenore è la relazione dell’essere all’ente, così come viene presentata nella decisiva chiusura della conferenza Tempo ed essere: «Era necessario, nello sguardo che traversa il tempo autentico, pensare l’essere nel suo proprio – a partire dall’Ereignis – senza riguardo alla relazione dell’essere all’ente»22. Poiché la relazione dell’essere all’ente è essere, il sopravvenire dell’essere stesso, il “senza riguardo”, chiede di pensare l’essere senza riguardo per l’essere stesso. Questo

21.  A questa ipotesi è votata l’esercitazione che conclude il libro: infra, pp. 237-262. 22.  M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 130.

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compito può apparire vuotamente contraddittorio solo se il “senza riguardo” viene interpretato come una mera negazione, con la conseguenza che l’essere viene banalmente appiattito su se stesso, e il “senza” espulso dal suo movimento. Nell’“essere senza riguardo per l’essere” primo è invece il “senza”, e l’essere stesso deve essere pensato a partire da esso. Il “senza” è il luogo in cui l’essere sopravviene, senza per questo in esso raccogliersi, senza per questo farsi identico a sé, il suo luogo autentico essendo proprio l’essere senza di sé. Nel luogo in cui è e si essenzia, senza coerire con se stesso, l’essere è senza di sé. Lungi dal suonare come una formula astrusa, l’espressione non fa che ripetere e approfondire la costituzione d’essere dell’esserci: l’essere “né più né meno” quanto effettivamente è dell’esserci (ET, § 31, p. 185)23, in modo però che la possibilità e il movimento del più e del meno appartengano in linea essenziale al suo effettivo esserci24. Porre questo movimento sotto la custodia del “senza riguardo” ha il senso di serbare la possibilità oltre la sua appartenenza al piano meramente effettivo in cui essa c’è. Solo se in questo modo essa è tenuta in serbo, la possibilità non è inclusa nel piano, senza per questo essere esclusa, e non è esclusa senza essere con ciò inclusa. L’attestazione di questa possibilità è affidata in Essere e tempo all’analisi della voce della coscienza e della colpevolezza cui 23.  Nel passo cui ci riferiamo, la traduzione di P. Chiodi lascia incomprensibilmente cadere il dislivello fra il Seinkönnen, il poter essere, e il Möglichsein, l’esser possibile. Su questa differenza (che è poi la differenza stessa) si fonda l’intera lettura di V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità, cit. Il rilievo sulla traduzione di Chiodi è più brevemente evidenziato in V. Vitiello, Heidegger, Nietzsche e la possibilità pura, in «Il Pensiero», XXXIX, n. 1, 2000, p. 39. La nuova edizione di Essere e tempo, a cura di F. Volpi (Longanesi, Milano 2005, p. 180), rileva il punto e corregge la traduzione di Chiodi. 24.  Parafrasando un altro celebre luogo di ET (§ 5, p. 33), si può dire che l’essere va pensato come ontologicamente vicinissimo a se stesso, me-ontologicamente lontanissimo, e tuttavia pre- e a-ontologicamente non estraneo.

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essa richiama, e la sua interpretazione ontologico-esistenziale è interamente posta sotto il segno di una negatività originaria: esser-colpevole è esser fondamento di una nullità, «la Cura, cioè l’essere dell’Esserci in quanto progetto gettato, significa: il (nullo) esser-fondamento di una nullità» (ET, § 58, p. 346). La nullità che permea l’esserci non ha ovviamente a che vedere con insufficienze o manchevolezze di sorta: essa precede tutto ciò che l’esserci possa mai essere, per investire l’essere stesso di questo esserci, la sua origine ontologica. Heidegger ha perciò buon gioco a escludere che logica ed empiria possano essere convocate per l’interpretazione del «senso ontologico della nullezza di questa nullità esistenziale» (ibidem): la questione, però, a ben vedere, non può risolversi nella caccia a una negatività più originaria, ma deve investire invece la presunzione circa l’originarietà del negativo stesso. Si intravede qui un movimento che lo stesso Heidegger in altre circostanze ha eseguito (e che qui invece, sorprendentemente, non effettua): come l’essenza della macchina non è nulla di macchinico, l’essenza della tecnica nulla di tecnico, e l’essenza della metafisica nulla di metafisico, così «l’essenza ontologica del “non” in generale» (ibidem) non può essere nulla di negativo. Gli approfondimenti condotti in Che cos’è metafisica? rischiano perciò di essere fuorvianti, e la quantità di interventi cui il testo è stato sottoposto possono essere considerati come una spia della radicale insufficienza della sua impostazione, incentrata sulla polemica nei confronti dell’interpretazione logica e metafisica della negazione, e compendiata nella tesi: «il niente è l’origine della negazione» (S, p. 72). Lo stesso, controverso passo del Poscritto, su cui l’attenzione degli esegeti si è spesso portata25, non si pone al di fuori di questa interpretazione, 25.  Cfr. M. Heidegger, Poscritto a «Che cos’è metafisica?», S, p. 260: «appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza (west) senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere». Heidegger interviene però

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poiché fa valere comunque l’esigenza di esperire l’essere e la sua verità nel niente, ossia negativamente, quale che sia il lato della relazione dell’essere all’essente che viene in primo piano. L’insufficienza di questa interpretazione deve ora essere mostrata, ed è il caso di farlo qui, visto che in questo punto tornano tutti i termini che hanno già disegnato la complessa figura della differenza ontologica. Cominciamo col dire che la versione del ’43 ha con ogni evidenza il pregio di raccogliere ciò che vi è di più fondamentale nella relazione dell’essere all’essente. Lo precisa la stessa nota con cui viene accompagnata la correzione apportata nel ’49: il testo del ’43 non è affatto errato, ma si limita ad anticipare una prospettiva non pienamente comprensibile nel contesto in cui è proposta. Tale prospettiva veniva così presentata in nota: «nella verità dell’essere (Sein) dispiega la sua essenza [west] l’essere (Seyn) in quanto essenza della differenza; questo essere in quanto essere (Seyn) è l’evento che precede la differenza, e perciò è senza ente» (S, pp. 260-261). L’ultima parola sembra dunque essere: l’essere come evento della precedenza della differenza è senza essente. Ora, è chiaro che (essere bene) senza (l’essente) non dice solo che l’essere non è l’ente, e perciò è ni-ente. Né si limita a pensare il niente come l’originaria apertura dell’essente come tale che precede ogni comportamento dell’esserci in relazione all’ente: così il niente, l’appartenenza del niente all’essenza dell’essere, al suo dispiegarsi nell’essente, e il tenersi immerso dell’esserci nel niente sarebbero ancora pensati in favore dell’essente, nel verso con il quale l’essere si rivolge all’essente: nel senso e nella direzione di questo rivolgimento. Lo spazio della negazione sarebbe insul testo e in edizione successiva corregge: invece di “mai” – mai l’essere dispiega la sua essenza senza l’ente – mette un “sì”, ja. Sulla questione, esiste un’ampia letteratura, ma rimane fondamentale la messa a punto di V. Vitiello, La Differenza in Hegel e Heidegger, cit., pp. 47 ss.

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teramente coperto dalla concessione: l’essere è senza l’essente pur essendo l’essente. Dunque la negatività dev’essere approfondita; dev’essere portata oltre il concedersi dell’essere nell’essente, oltre il suo donarsi e destinarsi. Oltre e fuori l’essere essente. La negatività del niente originario non dirà allora solamente il sopravvenire espansivo dell’essere per l’essente, l’essere in favore dell’essente, ma il suo disfavore, l’ostinato ritrarsi in sé nel e del nulla, la possibilità implosiva che accompagna e sospende l’essente, appendendolo alla più radicale possibilità: quella della sua stessa impossibilità. In entrambe le versioni del citato passo del Poscritto, quel che rimane tuttavia sempre fermo è che mai un ente è senza l’essere. Ma che è l’ente, questo, ben lungi dal rimanere fermo, è anzi proprio ciò che vacilla e viene in forse. Né si capirebbe «la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è» (S, p. 261), né l’angosciarsi essenziale che la prepara, se quell’esperienza non fosse investita dalla nullità del “che è”, e se questa nullità non insidiasse dall’interno l’essere, non ne costituisse l’intima incrinatura. Se l’essere non fosse proprio questo nullo incrinarsi in se stesso, senza riguardo per l’essente: così da esserne la condizione essendo al contempo (non prima, né dopo) la minaccia, e la salvezza essendo anche il pericolo. Sin qui Heidegger. Ma diremo allora che per questa impegnativa via negationis viene davvero pensata l’essenza e la natura dell’essere senza26? In cosa è consistita, in realtà, questa méthodos heideggeriana, se non in una sorta di raddoppiamen26.  In verità, il segnale che la riflessività della negazione non è a ciò sufficiente lo abbiamo già registrato: in CvL, p. 147, l’essenza del linguaggio come linguaggio dell’essenza rifiuta di dirsi (cfr. supra, p. 205). Questo rifiuto, tuttavia, parla, ha una sua eloquenza. Ma soprattutto, qui sopra, l’esposizione dell’essente alla più radicale delle possibilità, quella della sua stessa impossibilità, è appunto un’esposizione dell’essente, che ha dunque riguardo per

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to riflessivo in cui il rapporto dell’essere (nulla) verso l’essente viene rivolto su e contro se stesso, la possibilità voltandosi così nella possibilità della propria impossibilità? Pubblicata insieme agli studi hegeliani di Gadamer, la lettera di Heidegger all’ormai settantenne allievo torna un’ultima volta sulla questione della riflessione, centro della dialettica hegeliana che Heidegger riconduce però a una mossa della coscienza: la proposizione hegeliana “la verità dell’essere è l’essenza” traduce il risolversi dell’essere, in quanto esser stato, gewesen, nella verità intesa come certezza. La riflessione è l’appropriazione di questa verità; l’essere è ciò che è stato per essa, che così se ne appropria27. La critica di Heidegger non riguarda però la natura del movimento, ma soltanto la sua titolarità: l’essere la riflessione un atto della coscienza invece che «la rilucenza [Rückschein] nella alétheia, senza che questa stessa giunga all’essenza presentificante [Wesen]»28. Il punto è che però questo senza, l’ohne che impedisce di risolvere il Wesen dell’essere nella Reflexion del concetto, è preservato ancora da un movimento della riflessione, innescato dal non, dal negarsi o dal ritrarsi stesso: è grazie alla riflessione, infatti, che il rimanere indietro (rück-) del Wesen rispetto a ciò che appare (Schein) può essere pensato nella verità, ma negativamente: come ciò che ad essa si sottrae. Pensare il senza riguardo chiede invece di lasciar cadere tanto il lato, per dir così, transitivo quanto quello intransitivo del riguardo, tanto quello che muove verso l’essente e la sua preesso. In entrambi i casi, il “senza riguardo” per l’essente non viene evidentemente mantenuto. 27.  «L’intenzione del seminario era mostrare come per Hegel si giunge alla così strana e sorprendente determinazione della riflessione come Wesen, l’Essere essenziale. Per vedere ciò è necessario pensare anticipatamente la verità come certezza e “Essere” come Gegenständlichkeit» (dalla lettera di M. Heidegger a H.-G. Gadamer del 2 dicembre 1971, in H.-G. Gadamer, La dialettica di Hegel, tr. it. di R. Dottori, Marietti, Torino 1973, p. 148). 28.  Ivi, p. 123.

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senza, quanto quello che rimbalza su di sé nel ritrarsi. Si tratta insomma non di pensare nei termini di una relazione che è anche, uno actu, non-relazione, ma di deporre il relare stesso. (Si tratta di pensare l’exaíphnes non come l’istante velocissimo della contraddizione pura, ma come il calmo luogo e senza fretta del posarsi accanto). Quanto all’essenza ontologica del “non”, viene forse davvero avvicinata per il fatto che il “non” viene pensato non già come orizzonte dell’essere (dell’essente), ma come la sua possibile negazione? Può darsi che in questo modo il “non” arretri, per dir così, e sprofondi in se stesso, ma non c’è arretramento che sia del tutto assolto da ciò rispetto a cui esso si commisura. Se poi questa negazione è minaccia, pericolo, possibilità dell’impossibilità dell’essere, in che modo in queste figure segnate dalla negatività sarebbe mantenuto il “senza riguardo” dell’essere per l’essente? In che modo la negatività del riguardo, la sua minaccia, è assenza di riguardo? Tale assenza di riguardo si è presentata come l’essere senza di sé dell’essere. Ebbene, non è forse il più grave fraintendimento interpretare ciò in termini di non-identità e differenza, invece che come località e in-differenza? L’essere senza di sé dell’essere dice che l’essere, destinandosi, non è se stesso, che nell’essere stesso l’essere deflette e manca a se stesso e che questa mancanza è originaria – o dice piuttosto che essere è in-differente a essere, che l’essere non è in stato di differenza col non essere? E questo non comporta forse, da ultimo, che la stessa domanda metafisica fondamentale – perché l’essere e non piuttosto il nulla? – va giudicata fuorviante, sia che si tratti di rispondervi trovando una ragione perché l’essere sia, sia che invece si tratti di rovesciarne il senso di modo che la risposta dica piuttosto che l’essere, la sua kínesis, è senza ragione, come nella lettura heideggeriana del principio leibniziano di ragion sufficiente? Nell’uno e nell’altro caso, infatti, la richiesta della ratio, pertinente o impertinente che sia, muove pur sempre dal profilo che l’essere manifesta spiccando sul nulla. Certo, l’or-

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latura viene disegnata in modo diverso: non un’opposizione, ma un’oscillazione, un tremito o una vibrazione (Erzitterung), come scrive Heidegger nei Beiträge29, ma non fino al punto di rinunciare alla contesa e accogliere la differenza fra l’essere e il nulla, comportata dall’esserci stesso, dal -ci in cui l’essere è nell’in-differenza. Ciò che c’è non è forse indifferente30? Vi è, infine, un altro modo di riprendere la meditazione heideggeriana sulla negazione (sul ni-ente): invece di deporla e lasciarla andare, smussarne la radicalità, acclimatandola nelle parole critiche della filosofia, a cui in fondo essa consegna un inesauribile da pensare. Porre la negazione all’origine equivale infatti a negare che vi sia origine della negazione: ma che ne è ora di quest’ultima negazione? Non è forse questo il modo con il quale viene praticata l’interrogazione dell’origine: consentendo alla negazione di slittare sempre nelle retrovie dell’interrogazione, in modo da rilanciare sempre di nuovo domanda e inibizione della domanda, pratica della negazione e negazione di questa stessa pratica? Ma in questo modo l’assenza di origine viene sempre di nuovo ripresa come relazione negativa: come

29.  «Il nulla non è negativo né è una “meta”, bensì l’essenziale vibrare del­ l’Essere stesso ed è perciò più essente di qualsiasi ente» (M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), tr. it. di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, § 145, p. 262). 30.  È davvero un segnavia: dove la fondamentalità di questa domanda non viene riconosciuta, e anzi la domanda stessa viene francamente respinta, lì la differenza ontologica perde i caratteri tragici che l’accento di quella domanda, invece, le conferisce. Un esempio è certo nel pensiero di Henri Bergson, ma più ancora nel pensiero che più di ogni altro ha dato sistematicamente la caccia alla negazione, al nulla e ai suoi fantasmi, dico il pensiero di Spinoza. La cui dottrina, non a caso, ruota intorno all’interpretazione più debole della differenza che pur insinua tra essere e pensiero, al sive del Deus sive natura. Sul modo in cui questo sive può guidare la lettura dell’idem esse degli attributi della sostanza, nell’Ethica, mi sia consentito di rinviare a M. Adinolfi, Continuare Spinoza, cit.

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allora nel sempre di nuovo ci si darebbe ancora pensiero del senza dell’essere? Ancora: l’origine è come non origine; il nulla è nel rapporto all’essere senza riguardo con esso. Se tuttavia il “senza riguardo” non è un riguardo semplicemente negativo, come può ancora essere pensato in termini di differenza? Sotto il nome di differenza viene pensata l’irriducibilità del nulla all’essere. Ora, a meno di non voler intendere ancora una volta questa irriducibilità come una riserva interminabile cui l’essere sempre di nuovo attinge per essere (negando il nulla), non dice questa irriducibilità piuttosto la differenza come in-­differenza31? E questo “come” non assegna forse un primato senza revoca all’in-differenza? Non è nell’in-differenza del nulla per l’essere (nell’in-differenza dell’essere a venire all’essere) che risiede la possibilità, la potenza della sua differenza? Non è l’in-­ differenza a fare la differenza? Si tratterà allora di pensare la differenza, o non invece che nulla è differente dall’essere, e che il nulla stesso non è differente dall’essere? Non è in questo modo che va pensato l’essere senza di sé dell’essere? Se l’essere è senza di sé, esso è nulla. Formalmente contraddittorio, questo pensiero non propone solo di intendere l’è nella forma del “senza”, cioè come assenza di differenza, ma apre la

31.  Nel seminario di Le Thor, Heidegger spiega molto brevemente di aver preferito la locuzione “verità dell’essere” a “senso dell’essere”, impiegata in Essere e tempo, per tema dei fraintendimenti soggettivistici à la Sartre. L’espressione “verità dell’essere”, a sua volta, «fu chiarita con “località [Ortschaft] dell’essere”, – verità come esser luogo (Örtlichkeit) dell’essere». Poi subito aggiunge: «Questo tuttavia presuppone già una comprensione dell’esser luogo del luogo» (M. Heidegger, Seminari, tr. it. di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1992, p. 100). In realtà, non lo presuppone affatto, se non si vuol dar luogo al luogo, riprenderlo daccapo nel suo senso, collocare non l’essere nel luogo, ma il luogo nell’essere, farne un fenomeno, e anteporre la manifestazione del luogo al luogo della manifestazione, il pensiero del luogo al luogo del pensiero.

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dimensione, non governata dal principio di non contraddizione, in cui l’assenza di differenza non equivale semplicemente all’identità32. L’in-differenza per la differenza non equivale all’identità con sé, così come l’identità con sé non è differente dalla differenza. Tenendo alto il con-fronto di identità e differenza, prendendo partito per l’uno o per l’altro fronte, la logica filosofica non si è attenuta al piano in cui avviene (cioè: non avviene come confronto) il confronto.

32.  È altrettanto evidente che l’in-differenza non differisce neppure dalla differenza stessa. È chiaro allora che la stessa non equivalenza non va intesa negativamente, bensì come in-differenza per l’equivalenza stessa. Il “non” ha di qui in avanti il solo vantaggio dell’economia d’espressione. Così è chiaro che dire come non va intesa la non-equivalenza indica semplicemente l’indifferenza dell’in-differenza per la sua stessa interpretazione in termini di negazione.

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Capitolo V

Essere accanto

In regime d’in-differenza, la domanda con la quale abbiamo accostato il plesso logico-metafisico sospettandone i limiti e le interne aporie perde qualunque legittimità. La serie di passi compiuti potrebbe essere descritta nel modo seguente: dapprima si è trattato di dare una descrizione del plesso e di indicarne la struttura; poi di circoscriverlo in modo che si desse lo spazio per porre la domanda intorno ai titoli della sua costituzione; quindi di esplorare le possibilità della stessa domanda. Ma l’esito di quest’ultima operazione, condotta principalmente su quei versanti del pensiero contemporaneo sui quali è sempre presente la natura intimamente problematica di una simile interrogazione – che è poi la problematicità della filosofia tout court, visto che le sue domande non si distinguono in altro modo dalle domande che orientano invece i saperi positivi –, l’esito di quest’ultima operazione, lungi dal condurre a un rinvigorimento della domanda, sembra averla infiacchita, esaurendone le risorse. Col paradossale risultato – se ne potrebbe concludere – di rendere il plesso logico-metafisico più inespugnabile che mai. Nessuna Überwindung: non è forse questo il punto al quale giunge, in una meditazione pensante, l’Auseinandersetzung con la tradizione metafisica?

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In effetti, le risorse della domanda risiedevano anzitutto nella possibilità di tenere una certa distanza critica rispetto all’oggetto della domanda, e l’indirizzo genealogico del domandare discende – in linea diretta o più alla lontana – da un’impostazione del genere. Quel che questa ricerca ha potuto però almeno portare in luce è un rapporto di precedenza nel quale la domanda stessa è coinvolta: non in modo che essa si veda da ciò assicurata nei suoi diritti, ma in modo da vederseli invece revocati. Ciò non è dipeso in alcun modo dall’impossibilità di portare innanzi alla domanda il pre- che la precede – e in fondo, se ha un senso (non biografico) il motivo heideggeriano della Kehre, è perché l’essere stesso è lo svoltato, la piega che non si spiega, o che nel dispiego rimane in se stessa piegata, e l’esserci rimane come ciò che è im-piegato dall’essere –; ciò è dipeso invece da una radicalizzazione della natura pre-positiva del pre-, che ha preso congedo dalla sua interpretazione negativa, e dalla sua stessa complicazione riflessiva, per tenersi invece semplicemente nei pressi dell’ente. La precedenza non è ciò di cui il pensiero fa esperienza come di una Terra promessa dalla quale è incomprensibilmente escluso, o di una resistenza che non riesce a piegare, e contro la quale, dunque, si infrangono inutilmente i suoi sforzi, ma ciò che non si oppone se non nella forma indefinitamente passiva di una desistenza che rimane indifferente alla presa del pensiero. Se questa è un’impasse, lo è in virtù dell’impassibilità della cosa stessa. Se il nostro filo conduttore è stato la posizione di una domanda trascendentale non molto diversa da quella posta da Kant (in una generale inavvertenza del motivo, soprattutto nelle letture gnoseologiche del criticismo): «com’è possibile la facoltà di pensare in quanto tale?» (CRP, p. 13), lungi dal venirne a capo, siamo giunti così a dis-pensare il pensiero, a pensarne la deposizione. Nei tre sensi in cui può essere accolta la parola: come collocazione, come destituzione e come testimonianza. Come collocazione: il pensiero ha luogo, e il luogo, il suo spazio-di-

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tempo, è l’accanto, lo stato in luogo del pensiero, non l’evento in cui ogni luogo sarebbe trascinato. Come destituzione: il pensiero è senza di sé, esonerato dalla sua identità, o meglio: dalla interessata combine che la riflessione intesse con le sue categorie. Come testimonianza: il pensiero è esercizio. Non ha la forza di dimostrare, ma qualcosa attesta, e anzi: ha la stessa attestazione anonima del semplice qualcosa, prima che venga ripreso per ciò che vuole dire. Qual è infatti il compito del pensiero, una volta che il terreno al quale retrocedere rimane in stato di in-differenza rispetto a quel compito? Il punto è ora se la conseguenza che dobbiamo trarne, puramente e semplicemente, è la rinuncia a un simile compito. E certo, se questo significa che non c’è da contare su una numinosa pensosità dell’essere che sempre di nuovo dia da pensare al pensiero, allora sì: questa polizza di assicurazione, per l’uomo e i suoi pensieri, può ben essere ritirata. In effetti, anche nelle prospettive critiche che si vogliono più agguerrite, sembra proprio che a tutto si possa rinunciare e tutto debba essere posto in discussione, meno che il carattere inesauribile di ciò che, in quanto è considerevole, si dona alla pensosità nel pensiero, così assicurandone l’autentica dignità. La nostra tesi è invece che un pensiero finito deve poter finire e anzi: essere finito (senza neppure, però, i compiacimenti sin troppo ragionevoli e sensati con cui si vuole a volte godere della liberazione da un senso assoluto). Al riguardo, non c’è più molto da aspettare o da attendersi. Tuttavia l’essere finito del pensiero non consegue dalla deposizione della domanda. Da essa non consegue nulla affatto. Nessun risultato si è prodotto. In effetti, è questo, forse, il più banale, ma anche il più grave fraintendimento al quale un simile pensiero è esposto. Forse non basta dire neppure che esso vi è esposto, come se una simile esposizione potesse essere evitata o fosse da evitare; e forse non si tratta neppure di un fraintendimento, a meno che non si sia disposti a considerare

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fraintendimento l’equivalenza logica in forza del cui valere (e della cui logica) sarebbe infine conseguito un risultato. Il fatto è che la deposizione della domanda non ha conseguenze, è fuori dal regime del conseguire, e indifferente e non è toccata da ciò che da essa consegue. Si può ben ragionare a questo modo: se cade la domanda che mette in questione il plesso logicometafisico, allora il plesso conserva salde tutte le sue ragioni e i suoi diritti (come se poi due torti formassero un diritto)1: conseguenza sin troppo logica, forse, ma appunto solo logica. Ciò che si tiene in regime d’in-differenza è stato raggiunto nella forma di un “senza”. A parer nostro, l’essenza e natura di questo “senza” è presentata in maniera insoddisfacente quando viene pensata in termini negativi: la negazione non può non mantenersi in stato di riferimento rispetto a ciò che nega, né la negazione di questo stato di riferimento negativo è in grado di modificarlo; piuttosto lo ribadisce: lo prolunga all’infinito o lo contraddice, in ogni caso non può toglierlo. L’unico pensiero che si tiene entro quel regime pensa la posizione (e il pre- che l’accompagna segnala proprio la posizione della posizione fuori di sé, cioè fuori della sua stessa identità logica) come non equivalente alla negazione della negazione e indifferente ad essa: si vede bene allora, per converso, come il cammino a ritroso, che muove da quest’ultima, non può giungere a quella. Non è dunque compiendo passi indietro (né tanto meno promuo-

1.  In termini logico-metafisici, cfr. L.V. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001, la cui impostazione è interamente fondata sulla tesi: il negativo del negativo è negativo, la quale comporta la liberazione dalla logica negativa, ossia dalla logica in quanto è governata dall’identità fra l’identità e la negazione della negazione. Questa liberazione, in quanto è differente da una negazione, impone di interpretare la differenza come differente dalla negazione. L’innesco di una progressione infinita è qui il prezzo da pagare alla volontà (ancora, al fondo, platonica) di determinare la differenza come differenza, invece di deporla nell’in-­differenza con sé.

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vendo superamenti in avanti, imbastiti sul canovaccio riflessivo della negazione) che ci si libererà di quel che rimane davanti. Né in realtà si tratta di liberarsene, come se la verità di ciò che è stesse sempre da un’altra parte: sotto o oltre o indietro, ma mai proprio là dove è ciò che è, nel luogo e nel modo in cui è ciò che è. Sostare presso le cose, tenersi nella loro quiete, accanto ad esse, custodire l’in-canto di questo accanto, senza pretendere di violarlo ma senza neppure trasfigurarlo nel mistero di una distanza e di un’intimità impenetrabile (che è solo il rovescio della volontà di penetrazione), questo è forse il modo d’essere finito del pensiero, nell’in-differenza rispetto alla propria stessa differenza. «I capolavori sono stupidi – ha detto Flaubert –; hanno l’aria tranquilla delle cose stesse della natura, come i grandi animali e le montagne»2. Forse occorre che quest’aria tranquilla respiri una volta anche il pensiero3. Vi è una parola, tuttavia, appartenente alla tradizione del pensiero, che può essere qui utilmente impiegata, sia pure con una decisiva correzione. Questa parola è immanenza. Immanente è tradizionalmente la risoluzione di ogni realtà in un unico principio, non importa che questo principio sia la coscienza oppure Dio. L’unico principio è indispensabile, perché sia definito ciò 2.  Si tratta di una citazione dalla Correspondance di Flaubert (lettera a Louise Colet del 27 giugno 1852), su cui richiama l’attenzione J. Derrida, Un’idea di Flaubert: «La lettera di Platone», in Id., Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. I, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2008, p. 355, nota 27. 3.  C’è una montagna anche nel seminario heideggeriano di Le Thor (M. Heidegger, Seminari, cit., p. 90). Heidegger la usa per introdurre, col termine hypokeímenon, l’esperienza greca dell’ente, ma poi la consegna immediatamente all’opposizione, tutta linguistica, fra l’asserire e il nominare. Così lo hypokeímenon non è più il semplice ente che c’è, «l’ente nella sua posizione (Lage)», ma il soggetto di un léghein tì katà tinós, compromesso dunque con la forma del giudizio e ben distante dall’ente come fenomeno, colto in un puro nominare. In questo modo l’essere della montagna, che Heidegger ha dovuto pur darsi prima di interrogarne il senso, viene interamente riversato nella fenomenicità del suo apparire.

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in cui rimane tutta la realtà. È poi in forza di quest’unico principio che si può procedere alle necessarie esclusioni – con le quali però, senza avvedersene, l’unico principio viene determinato da ciò che è fuori di lui. L’immanenza è con ciò stesso rovinata: non basta infatti considerare il “fuori” come un fantasma, un’illusione e un errore (che come tale appartiene esso stesso al piano d’immanenza), se a tale fantasma si affida comunque la determinazione del principio. E allo stesso modo: non basta che l’immanenza sia tutto quello che resta una volta negata la trascendenza: sarebbe da insipienti. E non perché, in luogo di negare, questa negazione non farebbe che affermare, come nella contesa teologica fra Anselmo e Gaunilone, ma perché la negazione recupererebbe integralmente la funzione logica di determinare l’immanenza. Non resta che rinunciare al principio, al capo di gomitolo da cui si srotolerebbe, dispiegandosi, tutta la realtà4. Ma come è possibile pensare un’immanenza senza principio? In realtà, è 4.  È l’indicazione chiaramente formulata nell’ultimo scritto di Gilles Deleuze: «L’immanenza assoluta è in sé: non è in qualche cosa, a qualcosa, non dipende da un oggetto e non appartiene a un soggetto. In Spinoza l’immanenza non è alla sostanza, ma la sostanza e i modi sono nell’immanenza. Quando il soggetto e l’oggetto, che sono esterni al piano di immanenza, vengono considerati come soggetto universale o oggetto qualsiasi ai quali l’immanenza viene attribuita, siamo di fronte a un completo snaturamento del trascendentale, ridotto soltanto a duplicare l’empirico (così in Kant), e a una deformazione dell’immanenza che si ritrova in tal modo contenuta nel trascendente. […] Diciamo che la pura immanenza è UNA VITA, e nient’altro» (G. Deleuze, Immanenza, Mimesis, Milano-Udine 2010; consultato in formato digitale). Quel che ce ne tiene discosti è la pretesa che questo piano assoluto d’immanenza sia comunque coestensivo a una coscienza. Una coscienza che non è soggetto, ma che tuttavia gode, non è chiaro per quale ragione, del privilegio della coestensività: è, forse, da un lato, l’effetto di un’interpretazione parallelistica dell’idem esse degli attributi spinoziani dell’estensione e del pensiero in termini di identità (su cui cfr., contra, M. Adinolfi, Continuare Spinoza, cit.) e, dall’altro, della preoccupazione di dare comunque a questa immanenza un nome, quello di vita, con la conseguenza, forse, che ciò che

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proprio il principio ciò che impedisce di pensare rigorosamente un piano assoluto d’immanenza. Ma che l’assoluzione debba essere pensata come assoluzione dall’unico principio non lo si vede finché non viene scosso il pregiudizio secondo il quale la dualità può essere intesa come originaria solo a condizione di introdurre in essa l’asprezza inconciliabile di una differenza, la quale se per un verso giustificherebbe la posizione della dualità, per l’altro comprometterebbe irrimediabilmente l’immanenza. Ora, tale pregiudizio è solo il rovescio della tesi per la quale è un non-senso dire di due cose che sono identiche. Se sono due, non sono identiche; di due cose è sensato dire solo che sono, in quanto due, differenti. Questo però significa che di una stessa cosa non si può dire né pensare che è una e identica con sé. Che ogni cosa sia in posizione d’identità con sé deve perciò rimanere implicito: in uno stato di implicitezza tale, tuttavia, da non potersi mai fare esplicito. In questo punto, si consuma però un singolare ma inevitabile hýsteron próteron, che inficia l’intero ragionamento, poiché l’implicitezza dell’identità viene fatta valere come condizione logica implicata in ogni dire, benché sia solo con essa che un regime logico possa essere istituito. Ma come non vi è alcuna ragione perché ogni cosa debba essere posta, in realtà presupposta, in posizione di identità con sé (o supposta tale), così nulla impedisce di pensare due cose in stato di in-differenza l’una rispetto all’altra. Due non in quanto differenti, ma due per quanto senza riguardo per la loro differenza. E in effetti, si rende necessario far valere la differenza tra i due, solo se se ne vuole pensare la dualità: ma non v’è alcuna necessità perché i due siano pensati a partire dalla loro dualità, come due. Non è anzi a partire dalla dualità che essi sono due, potendo i due tenersi l’uno accanto all’altro come “(due) uno”, non più e non meno che come “un (due)”. Rigonon ha vita non riuscirà a collocarsi alla sua altezza e, se deve appartenere a una vita, sarà perciò ripristinato l’essere-a che tradisce l’immanenza assoluta.

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rosamente pensata, la condizione-di-due è la condizione in cui il due stesso, per dir così, si mantiene: doppio riguardo a se stesso, e senza riguardo per se stesso, per l’identità supposta tale del due. Sono così scoraggiate anche frettolose e indebite risoluzioni speculative nell’uni-identità, che richiedono l’intervento di vuote ipotesi logiche intorno alla natura del tutto. In due non c’è (il) tutto, benché quel che c’è non sia per questo segnato da una mancanza. Fra l’esser tutto di una totalità collettiva immaginata in sede meramente logica e il non mancare di nulla della cosa indifferente si dis-pensa l’essere senza di sé dell’essere. Ad essere senza di sé, in stato di in-differenza, è dunque il due, e in due, in stato di in-differenza, è l’essere stesso. È solo l’istituzione di una dimensione logico-categoriale che, volens nolens, si costituisce a una qualche distanza trascendente rispetto al piano su cui i due si tengono l’uno accanto all’altro, è solo la violenza con la quale si intende togliere l’in-differenza dell’essere in condizione di due, l’uno accanto all’altro, a chiedere di determinarli come due, di istituire la differenza, di determinare logicamente il protótypon della realtà (Kant). Ma essere-(in)due non richiede affatto la differenziazione dei due: non più, almeno, di quanto ne richieda l’identificazione. Essere-(in)-due è l’essere immanente, in cui i due rimangono senza essere però, come tali, due. La clausola: “senza essere come tali” sospende la determinazione dell’esser-due lasciando emergere l’in- in cui i due si mantengono: l’immanenza assoluta di ciò che è nell’accanto5, senza identità né coestensività. Se non sfidassimo troppo i limiti della comprensibilità, potremmo dire anche: il due non è il due, ma è in due. 5.  Stare accanto significa tanto stare relegati in un canto, stare da canto, quanto stare vicino, nella premura e nella solidarietà dell’a fianco. Ma in questo modo diamo una chiave di interpretazione etica di questa figura, che in questa sede non è indispensabile.

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Quel che però in ultimo importa scongiurare è l’interpretazione semplicemente negativa, apofatica, di quest’assenza di determinazione logico-ontologica. Invece di pensare la cosa in stato di in-differenza rispetto alla sua stessa determinazione come cosa, gliela si lascia, mentre si ritira al principio ogni determinazione. Quest’ultimo è allora pensato come non-cosa, Un-ding, o come l’arcaico ápeiron anassimandreo da cui provengono, non si sa come, tutte le cose. Di qua le cose, il finito, le differenze; di là l’Uno, l’infinito, l’indifferenza. Certo, questa divisione è artificiale e astratta, poiché ciò che è al di là, se ha da essere veramente altro dalle cose, dal finito, dalle differenze, non può non essere altro da questa sua stessa alterità. L’Uno che è dunque nient’altro che Uno, al di là dell’essere, è però anche tutte le cose senza essere nessuna di esse. È uno in tutto, di modo che il tutto non si aggiunge all’uno, ma il tutto non è come tutto nell’uno. Proprio questa indispensabile avversativa, però, segna una distanza e reca una marca di separatezza che preserva ancora una trascendenza dell’Uno rispetto alle cose, o una deiscenza delle cose dal seno dell’Uno. Una differenza, la quale procede dall’ostinazione con cui si tiene ferma l’identità come differente dalla differenza, piuttosto che come indifferente ad essa. Così però la differenza riesce oltremodo problematica, come ogni distinzione di respectus logici che voglia portarsi comunque fuori e oltre il regime della determinazione: se infatti l’Uno è tutte le cose, e tutte le cose in quanto però sono negate nella loro determinatezza di cose, fuori dall’uno rimane pur sempre il lato del loro esser queste cose determinate: se l’ente è nell’Uno come non-ente, fuori dall’Uno rimane l’ente come ente. Questa esteriorità rimane irriducibile e misteriosa, finché ci si ostina a pensare l’ente sub specie logicae. Ma se l’ente non è identico a sé come ente, se esser ente non equivale a non esser non ente, non vi è alcun bisogno di retrocedere, dislocare o comunque differenziare l’ápeiron, l’Uno, dalla cosa. Il che non restituisce affatto unità alla cosa, ma mette piuttosto la cosa stessa in condizione di in-differenza.

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In questo modo interpretiamo anche la parola di Parmenide, in cui è in gioco la coappartenenza di essere e pensiero. Ossia: dell’ente con la sua propria identità, che è il solo punto in cui un noeîn può toccarlo. Se essere e pensiero sono lo stesso, lo stesso è indifferente alla loro equivalenza, è il punto di non equivalenza in cui essere e pensiero rimangono l’uno accanto all’altro. Punto minimale, minimo comune denominatore non appartenente né all’essere né al pensiero, diade che rende massima la differenza. Che fa, come si può dire, la differenza, ma la fa indifferente. Infine, se esser ente non equivale a non esser non ente, il punto di non equivalenza dell’ente rispetto alla sua propria posizione d’identità (punto che non si lascia segnare se non come diade) indica lo stato d’in-differenza in cui rimane l’ente. A ciò che così rimane va allora riconosciuto il modo della potenza. Che è, però, potenza? Un concetto in debito con l’intera tradizione del pensiero, anzitutto. A cominciare dalla definizione dell’essere come dýnamis, nel Sofista, che Platone adotta per indicare come essenza dell’essere la capacità di produrre effetti: non, dunque, questi effetti stessi, ma ciò che li manda a effetto, ed è quindi differente da essi per quel tanto che consente di pensare l’effettuarsi dell’effetto. Ora, non vi è qui modo di ricapitolare, se non a prezzo di clamorose distorsioni ed esclusioni, l’intera corsa del concetto lungo tutto il cammino del pensiero occidentale. Non è questo, però, lo scopo per cui lo introduciamo e, d’altronde, abbiamo già presentato il plesso logico-­ metafisico come l’occasione per un certo esercizio di pensiero, da non avere qui alcuna necessità di condurre una simile ricapitolazione. Valga però una sola considerazione intorno a un punto senz’altro decisivo: la differenza in cui la potenza, in quanto è – secondo la definizione aristotelica – principio di mutamento, si tiene rispetto a ciò che nell’attuazione della potenza infine è raggiunto. Pensare l’essere sul modo della potenza richiede di dare luogo a una simile differenza. Aristo-

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tele raddoppia però questo luogo metafisicamente, mentre lo iscrive nelle cose stesse. I principi della potenza, ai archaì, «si trovano» (enhypárchousin: Metafisica, 1046a 37) infatti in ciò che è: la potenza di agire o di patire è in ciò che muove e sotto ciò che muove, e di lì raggiunge, quando è attuata, ciò che è mosso. Questa localizzazione, nel senso dell’esser dentro e dell’esser sotto, ha un primato sulla potenza stessa. Dov’è la potenza, lì ciò che muove ha la struttura di un ente che ha in pugno, dentro e sotto di sé, la potenza di muovere: la priorità dell’atto sulla potenza è così decisa ancor prima che se ne snocciolino i diversi sensi. E il suo pugno si sente in ciò, che prima ancora di possedere il principio del mutamento in altro, o di se stesso in quanto altro – secondo la definizione aristotelica del significato principale di dýnamis –, ciò che l’ente primariamente possiede è la determinazione con cui determina anzitutto la potenza di muovere o di esser mosso. È per questo che «ciò che è in potenza, è in potenza qualcosa di determinato, in un tempo determinato e in una maniera determinata» (1048a 1-3), e ciò vale anche per le potenze razionali, katà lógon, le quali sono, sì, potenze dei contrari, ma non per questo potenze libere, indeterminate. Dei due contrari, anzi, uno sarà attuato in maniera determinante, predominante: kyríos (1048a 12). La potenza razionale non si tiene affatto miracolosamente in bilico tra i due contrari, poiché uno solo di essi è per sé, kath’autò, uno solo è chiamato a realizzare la natura determinata di ciò che lo ha in pugno, dentro e sotto di sé. Il potere-di-non, con cui l’ente trattiene la potenza, è, piuttosto, un’impotenza, che ha per giunta i tratti dell’accidentalità: è solo per accidente, katà symbebekós (1046b 13), infatti, che può accadere e attuarsi il contrario di ciò che è per sé, secondo natura. Non vi è dunque alcuna in-differenza, in questa potenza, poiché non è prevista alcuna distanza nell’unico luogo in cui ha da essere introdotta, per preservare la differenza in cui l’ente si mantiene: fra l’ente stesso e la sua identità determinata.

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Per i moderni le cose vanno diversamente. Quello spazio che l’ontologia aristotelica della determinazione non è in grado di preservare dentro la struttura dell’ente stesso è affidato piuttosto alla sua comprensione logico-trascendentale (l’accidentalizzazione del mondo – che si compirà infine nel Tractatus di Wittgenstein – ne sarà l’esito più radicale). Per essa, c’è un soggetto che si accolla il compito di pensare le cose come possibili, reali o necessarie. L’articolazione di questo sistema richiede infatti un parametro o una condizione rispetto alla quale far valere queste distinzioni. In questo modo, però, la potenza è compromessa per il fatto stesso che la si vuole parametrata, condizionata. Il quadro modale stabilito da Kant si può così riassumere, nel suo principio: possibilità, realtà (nel senso dell’esistenza effettiva, dell’esserci) e necessità non significano nulla se non in relazione alle condizioni trascendentali di ogni possibile esperienza. Ne viene, per conseguenza, la rinuncia a pensare in termini metafisici la contingenza del mondo (così come d’altra parte la critica ai tentativi di dimostrare l’esistenza di un ente necessario, nel mondo o fuori del mondo)6: la celebre pagina in cui Kant, completando la distruzione della cosmologia razionale, fa domandare all’Ente che esiste dall’eternità e per l’eternità: «donde io sono sorto allora?» (CRP, p. 635) non comporta in realtà alcun reale sprofondamento di tutte le cose, ma piuttosto copre di ridicolo una ragione speculativa che crede di potere, con il semplice pensiero, causare un simile sprofondamento. Certo, in senso assoluto, contingente è la cosa il cui non essere è possibile (CRP, p. 317), ma in questo senso non vi è modo di indicare da quali condizioni reali dipenderebbe un simile non essere della cosa, il che significa che «dire che il non essere di una cosa non è in se stesso contraddittorio, è un fiacco richiamo 6. Cfr. CRP, p. 637: «Necessità e contingenza non debbono riguardare né toccare le cose stesse».

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a una condizione logica» (ibidem). Kant bolla addirittura come mero inganno la pretesa di scambiare la possibilità meramente logica del concetto con la possibilità trascendentale delle cose – e qui “trascendentale” vuol dire in realtà “metafisico”, relativo alle cose in se stesse e alla loro posizione assoluta. Dopo aver così ristretto la presunzione trascendentale delle categorie a un più modesto uso empirico, Kant deve però riconoscere ad esse un’ampiezza almeno problematica: perché altrimenti parleremmo di una restrizione? Uno e lo stesso è in effetti il gesto con il quale, mentre sono rivolte al mondo dell’esperienza, le categorie rinunciano ad altri mondi meramente possibili. Questa possibilità più ampia della realtà non significa nulla, se non che appunto siamo al mondo nella luce malinconica di una rinuncia, avendo già sempre preso congedo dalla possibilità di altri mondi. Il senso della finitezza umana in Kant è restituito molto meno dallo stato di assegnazione della ragione alla sensibilità, come invece si legge nel Kantbuch heideggeriano, e molto di più da questa inappellabile proposizione: «L’intelletto limita la sensibilità» (CRP, p. 355). Possiamo perciò concludere così: in Kant, la cosa non possiede alcuna potenza, ne è semmai del tutto problematicamente investita da fuori. D’altra parte, là dove la possedeva, in Aristotele, la stritolava anche, grazie alla sua identità di cosa. Si possono tirare le somme così: o la potenza aleggia spettralmente all’esterno della cosa, senza toccarla in se stessa, o, se vi è interna, ne viene anche inghiottita – che è poi quanto Hegel si incaricherà di dimostrare, liquidando l’esteriorità kantiana e risolvendo il gioco modale nel più consapevole primato della necessità. In un caso e nell’altro, nonostante il nesso aristotelico tra potenza e movimento – e, nell’altro caso, i moti ondosi che agitano il mare del possibile ben oltre l’isola dell’esperienza –, la cosa non viene mai smossa dalla sua identità di cosa. Si comprende però, in questo modo, che alla potenza della cosa non è da chiedere la conquista di altri mondi, o il divenire di

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questo mondo fuori dai cardini assegnatigli da qualche supremo Ente metafisico, né, a questo punto, avrebbe senso ripiegare sulla più modesta misura della libertà umana: senza una revisione del quadro concettuale entro cui pensarla, sarebbe consegnata ai dilemmi che sono già tutti sottintesi nell’una o nell’altra logica: una libertà necessitata dalla natura della cosa (Aristotele), una libertà postulata oltre il regno della natura (Kant). Quel che è da chiedere, se mai, è di liberare la realtà di questo mondo dalla sua soggezione al possibile, come se fosse sempre meno di quel che è, o avesse da essere più di quanto non sia. Con ciò non si renderebbe affatto questo mondo necessario, nel senso metafisico a cui lo costringerebbero condizioni trascendentali, o determinazioni ontologiche. Il reale del mondo è, invece, possibile poiché è in regime d’in-differenza rispetto a sé: possibilità qui non dice nient’altro che l’affrancamento del reale dalla necessità, compresa quella dell’identità con sé. Esso è potenza di contrari in quanto è senza contrari, ed è senza contrari in quanto contrarietà suppone determinatezza. Ma ciò che è senza contrari è anche ciò il cui contrario è impossibile: il necessario. Ora però questo significa semplicemente che le modalità collassano: possibile, reale e necessario hanno così la stessa, indifferente estensione. Il collasso non si produce per la riduzione del possibile al reale, e per il conseguente sigillo di necessità che la realtà ne trarrebbe. Si produce invece per la locazione del reale nel punto in cui è possibile. In questo punto, le modalità si confondono. Il reale rende indifferente la differenza del possibile e del necessario; è lo spazio della loro in-differenza. In questo spazio non si entra provenendo dal possibile, né ne è impossibile l’uscita in quanto è necessario. In esso siamo senza “non”: senza perimetri assegnati, senza vuoti da colmare. In esso non siamo inclusi; da esso non siamo esclusi.

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Con simili strategie, infatti, si pensa ancora che ci sia qualcosa da fare, che il pensiero debba aprirsi strenuamente un cammino, che vi sia magari qualcosa contro cui esso urta e che perciò dia a pensare. Si dà forza al pensiero rendendo ardua la sua meta, perché – si dice – «come potrebbe accadere che la salvezza fosse trascurata quasi da tutti se fosse a portata di mano e la si potesse trovare senza grande fatica»7? Se ciò non può accadere, tuttavia, è forse perché questo è veramente il più difficile da dire e pensare: che la salvezza stia qui, semplicemente accanto: a portata di mano.

Non hanno più meta, le nostre pigre passeggiate, se non la realtà.

7.  B. Spinoza, Etica, parte V, scolio alla prop. XLII, in Id., Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, TEA, Torino 1991, p. 376.

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Esercizio

Quello che segue, è un piccolo esercizio in tre tempi, con il quale ci si propone di lasciar cadere nel vuoto l’ingiunzione che ci viene rivolta dall’alba del pensiero occidentale: l’essere l’uomo l’animale che ha il lógos, la parola, si è infatti storicamente tradotto nell’ingiunzione a parlare, se si vuol essere uomini. E a parlare in un certo modo. L’esercizio si conduce, in parte grazie ai materiali fin qui raccolti, sul filo di obiezioni, in cui si sentirà ancora la ragionevole voce della ragione. Le ragioni stanno infatti dalla parte delle brevi obiezioni (introdotte da un: versus), che saranno formulate, appunto, con ogni ragione. Poiché però è la ragione ciò su cui ci si esercita, sarà difficile che le ragioni potranno decidere la partita. E, prima ancora, che la partita andrà decisa.

Primo tempo. Posizione 1. Un ente non nega un altro ente. (Una rosa non nega, in quanto è una rosa, la terra dalla quale sorge, o il vento che ne accarezza i petali. Non nega neppure la non-rosa).

238 [Questo modo dogmatico di cominciare, col quale si salta a piè pari la difficoltà di circoscrivere il tema della negazione, verrà considerato più avanti. Ma intanto è bene essere consapevoli di quale sia la posta in gioco: dal momento che la tesi in questione apochorízei, separa tutto da tutto, essa sarà segno di un uomo (e di un discorso) aphilósophos (Sofista, 259e); sarà segno di afasia, aphánisis pánton lógon, per dirla ancora col Sofista platonico]. [La questione intreccia tanto il problema dell’identificazione quanto quello dell’individuazione dell’ente, in quanto non è possibile individuazione senza identificazione (sia pure minimale). La questione coinvolge cioè in maniera indivisa tanto il senso quanto la denotazione]. [La tesi si pone peraltro in contrasto con l’approccio logico à la Frege, per il quale se la questione è ad esempio: “l’albero è verde?” è già implicito quel che noi pensiamo (logicamente, non psicologicamente): “l’albero è verde o non è verde?”. Tale approccio si trasmette peraltro all’impostazione dell’analisi della proposizione in termini di vero-falsità. È chiaro altresì che quel che qui s’intende fare è attestarsi in un luogo nel quale non è ancora autorizzata, perché non è stata ancora fatta, la distinzione tra il logico e lo psicologico. Che il pensiero appartenga a una psyché non è la neutrale registrazione di un dato d’esperienza (fatta da chi, poi?) ma il tentativo opinabile di risolvere un certo numero di problemi].

1.1. Un ente sta semplicemente accanto a un altro ente, come ad ogni altra cosa. In posizione assoluta. [(Ossimoro, quest’ultimo, che Kant non ha forse governato sino in fondo). Si sarebbe tentati di dire che questo è il dato fenomenologico primario, ma poiché in certa misura lo si può invece guadagnare, e poiché soprattutto la fenomenologia lo porgerebbe con ben altra intenzione, anzi in generale con intenzione, secondo il filo conduttore di un’intenzione, occorre rinunciare a questa strada]. [In sede di analisi fenomenologica, non può non risultare come l’intenzione sia costitutiva non solo del discorso, ma anche della perce-

239 zione: anche la più semplice percezione di una qualche estensione suppone così che il percepire sia già configurato intensionalmente. Rimane aperta la domanda se però in tal modo non si consideri piuttosto solo ciò che noi possiamo dire di percepire]. [Si badi che la proposizione formulata non vuol dire affatto che l’ente sia un che di positivo: come la negatività, la positività non è un assoluto ma un relativo, mentre il nostro problema è quello di (de-)porre il pensiero accanto a questa relatività. In Kant, nella dialettica cosmologica, il pensare il carattere relativo di ogni cosa conduce di filato alla totalità (in senso qualitativo) del mondo. Mondo è il come dell’ente mondano, il suo modo d’essere, il modo cioè in cui l’ente è ricompreso nel tutto proprio a misura del suo costituirsi in unità disgiuntiva con il suo opposto. È chiaro dunque che dovremo essere condotti sino a rinunciare alla totalità del mondo, al mondo come totalità].

1.2. Allo stesso modo, l’ente-adesso non nega l’ente-dopo. (Ciò costringe a sospendere la possibilità di procedere alla sua identificazione). [Sulla questione dell’identificazione va osservato che essa dovrebbe essere affidata a un giudizio riflettente, per via dell’inassegnabilità delle parti reciproche dell’individuale e dell’universale, cioè del carattere mediale, già sempre compromesso con la cosa, della sua comprensione: non, dunque, a un giudizio determinante, perché un tal giudizio si potrebbe risolvere in un mero procedimento algoritmico, il quale lascia del tutto inspiegato il modo in cui si è potuto costituire il concetto determinante, e neppure a una mera comparazione estrinseca tra cose, che non può neppure essere avviata senza la precedente coappartenenza delle cose entro un dominio comune. Questo significa che il giudizio è già sempre pre-delineato, benché non completamente delineato (l’identificazione è un lavoro in corso in un di volta in volta, in una cristallizzazione già fatta eppure mai terminata). La costituzione di un concetto avverrà allora sempre nelle differenze e con esse, e mai prima e a parte; l’in e il con saranno inassegnabili, le differenze sfumeranno cioè l’una nell’altra: ma che si tratti di un

240 concetto dell’oggetto, questo non sarà mai né potrà essere oggetto di costituzione: è analitico di “concetto” che esso sia uno. Il fatto è però che non è analitico di “cosa” che essa ricada sotto un concetto, Quale ipotesi allora sorregge tutto ciò? L’ipotesi che identificare sia possibile e anzi necessario, che ciò sia già-sempre stato fatto: se non del tutto almeno approssimativamente, regolativamente, sicché non vi è modo di avere a che fare con qualcosa, con la cosa, senza che essa sia in via di determinazione sotto un concetto (per via cioè di talune esclusioni, anche quando non siano state compiute tutte le – sempre logicamente possibili – esclusioni). L’ipotesi, ancora, di un’individualità della cosa singola, rispetto alla quale la nostra comprensione è sempre un po’ sfocata. Ma queste ipotesi platoniche da dove a loro volta provengono? Perché l’uni-identità dell’ente dovrebbe essere originaria, piuttosto che la sua pre-tematica non-differenza con sé?].

Versus. No: in tanto l’ente è tale, in quanto è questo e non quello. La rosa è ad esempio rosa in quanto non è viola, ecc. All’essere della rosa appartiene il non-esser-viola. (E ancora gli appartiene il suo essere ora-così, dopo-colì, ecc.). [L’obiezione proviene dalla difficoltà appena segnalata circa l’identificazione: in qual senso l’albero può mai essere lo stesso albero, se non è mai lo stesso, se non si lascia pensare come lo stesso?].

Versus. Si dirà piuttosto: in tanto posso pensarlo come (= dire che è un) ente in quanto posso pensarlo come non-non-ente. (La rosa come non-terra e come non-non-rosa, come rossa e non come nera, e rossa in quanto non nera, ecc.). [Il principio secondo il quale la determinatezza della cosa esclude che la cosa possegga tutti i possibili predicati riguarda solo il profilo logico della cosa, la sua identità formale, cioè non “la cosa stessa”, come si comprende subito, non appena si nota la vuotaggine di questo principio, che non consente di attribuire o escludere alcuna concreta determinazione].

241 [Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile: la significazione univoca è solo una parte della significazione della parola. Dietro la logica quale «serbatoio dei significati fissati e acquisiti», la filosofia deve portare alla luce il potere di «anticipazione» e di «prepossesso» della parola. Il senso si trova nelle parole in modo obliquo, laterale, interstiziale, non binario, secondo un’opacità di principio. L’avvento del senso non è una costituzione dell’io trascendentale, ma una institution de la nature. Cionondimeno, la parte della significazione della parola che comunque si conserva, provenga o no dalla natura, presta all’ente sufficiente se non assoluta determinatezza: si mantiene cioè, si direbbe, entro un orizzonte logicamente accettabile]. [L’equivalenza ente = non-non-ente non va affatto da sé, contrariamente a quanto per solito si pensa, perché presuppone la costituzione di uno spazio logico, in cui è possibile ad esempio che due determinazioni si equivalgano, presuppone cioè (e non fonda certo) la sostituibilità salva veritate. Qui vi sono due punti da rilevare. Il primo: la verità messa preventivamente in salvo è per ciò stesso anche presupposta al gioco logico della sostituibilità; il secondo: da dove proviene il diritto (contestato per esempio da Nietzsche e non fondabile in termini logici, visto che la logica stessa è in questione), il diritto di confezionare abiti logici per vestire le cose? (La logica non ha modo di pensarsi come originaria, se non a patto di pre-costituire la propria origine: interviene qui la discussione sulla tenuta della fondazione elenctica del principio di non contraddizione, che riesce solo in quanto premette che l’interlocutore voglia dire e dica effettivamente qualcosa di determinato. L’unico modo di dire qualcosa di sensato è di non contraddirsi: ma questo è l’unico modo in cui è logica mente possibile che si dica qualcosa di sensato, è cioè solo l’unico modo in cui funziona una mente logica)].

2. Ma non è affatto essenziale a un ente che lo si possa pensare come tale. L’ente è deposto dal suo senso. [Qui “essenziale” fa cenno al terreno non-ontologico sul quale l’ente stesso si attesta. Se essenza, Wesen, è esser-passato, l’essenziale è un passato precedente la sua figurazione logica. E se questo Wesen

242 è verbale, è un essenziare – come vuole Heidegger –, allora questa precedenza non indica uno stato che precede, ma l’attuale modo d’essere dell’ente. È chiaro dunque che non-ontologico non significa una determinata regione del mondo distinta dalla regione governata dal lógos (né tantomeno ontologicamente oppure logicamente precedente). Tali distinzioni appartengono tutte al regime logico della verità (ivi compreso il “non” che articola la distinzione), e vi è un rapporto saldissimo, che un semplice “non” lungi dal compromettere conferma invece e ribadisce, fra l’enunciato cosiddetto “ontologico” del principio di non contraddizione e la definizione della filosofia prima, in apertura del libro Gamma («c’è una scienza che considera l’ente in quanto ente», 1003a 21, ossia: la filosofia è scienza dell’oggetto esente da contraddizione). Si tratta invece di ritirare completa fiducia alla posizione aristotelica del lógos come orizzonte di comprensione esclusivo dell’ente in quanto tale, orizzonte di manifestatività dell’òn ê on, ovvero la fiducia che, ancor prima che il mondo sia strutturato come un linguaggio, è l’ente stesso che è costituito come un senso].

2.1. Se il senso d’essere dell’ente non assomma al suo esserepensato-come-tale, non è allora altrove, nell’esperienza, che si tireranno le somme. (Uno potrebbe dire anche, invero con sospetta facilità: dopotutto, altro è la rosa pensata, altro è la rosa percepita. Ma non ci si può rivolgere all’esperienza per quello che non si riesce ad avere sul versante del lógos. Né è disponibile alcuna procedura di identificazione per dire che è la stessa la rosa che percepisco e la rosa che penso. O meglio: è revocata in dubbio l’idea che quel che è da cercare nell’esperienza sia lo stesso e abbia la forma dello stesso). [Questa esistenza non ha lo stesso posto dell’esistenza kantiana, la quale infatti se lo vede assegnato dall’identità del concetto e della cosa. La critica kantiana dell’argomento ontologico si basa infatti su ciò, che oggetto e concetto debbono avere lo stesso contenuto (I. Kant, Critica della ragione pura), senza di che il concetto non potrebbe mai essere concetto dell’oggetto. Per questo, cioè per ga-

243 rantire la possibilità della piena adeguazione del concetto alla cosa, l’esistenza kantiana non può essere contenuta nel concetto ed è in posizione assoluta. Ma assoluto qui vuol solo dire: fuori dal concetto, non anche: fuori dalla verità del concetto]. [«Tutta la storia della logica è nel contempo la storia dell’oblio di una decisiva trasformazione del senso dell’esperienza e del senso dell’uomo e del mondo […]. Ogni sintattica e semantica (di qua le forme del giudizio e del linguaggio “umani”, di là la struttura in sé delle cose del “mondo”) è un placido e ingegnoso gioco sopra l’abisso. Abisso immemore che nasconde al pensiero la sua stessa origine» (C. Sini, La strategia dell’anima)]. [«Il problema del senso d’essere del mondo è così poco risolvibile per mezzo di una definizione delle parole […] che viceversa esso riappare nello studio del linguaggio, il quale ne è semplicemente una forma particolare» (Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile). Il maxime pericolosum è però quel “viceversa”, poiché c’è sempre il pericolo che si chieda ad altre istanze – ontologicamente più originarie, preposte al linguaggio – che assolvano a quella finizione di coerenza, di coesione, di senso, che le parole non possono di per sé soddisfare, ma che purtuttavia han fatto esse nascere, retrocedendo poi surrettiziamente l’origine del senso: è quanto accade proprio a Merleau-Ponty].

Versus. Tuttavia, si può obiettare, l’ente che si depone/è deposto dal luogo in cui lo si pensa come tale, e che è lasciato libero da un simile come tale, è ancora pensato proprio così: come l’ente-che-è-deposto, ecc. [Qui viene riecheggiata l’obiezione platonica, che nel Sofista rimprovera, a quanti escludono ogni sýmmixis, di continuare comunque ad attribuire, synáptein, cioè a valersi di espressioni quali “per sé”, “separatamente”, ecc., che dovrebbero anch’esse essere evitate]. [Si potrebbe peraltro ritenere che l’intera impostazione del discorso sia qui sviata dall’esempio stesso: come se con “rosa” ci fosse data una cosa-già-là, indipendentemente dal fatto di parlarne e di comprendere. Ma quest’argomento è tutto meno che decisivo, perché anzi si

244 ritorce contro se stesso: parla infatti come se il parlare fosse già là, come se comprendessimo cosa dire voglia dire, cosa sia parlare e cosa comporti il fatto che (ne) stiamo parlando].

3. Al modo in cui l’ente si depone/è deposto, non è affatto necessario che sia pensato (e quindi determinato) come l’ente-­ che-è-deposto, o come l’ente-che-è-libero-dall’-essere-pensato: questa necessità apparterrà forse al pensiero/dire, ma non è necessario che appartenga all’ente stesso. Non si è fatto qui alcun passo avanti. Versus. Il punto in questione è dunque l’ente stesso. Ora però non si obietta più semplicemente che proprio così l’ente stesso viene pensato, come l’ente stesso, e che in quanto esso viene pensato, viene pure ipso facto determinato come non-nonente: non si obietterà questo, perché l’ipso facto appartiene di nuovo al dire e al pensare, all’ente-in-quanto-oggetto-di-­ discorso e non affatto all’ente stesso. All’in quanto, non all’in sé. Si domanderà allora: che è mai l’ente stesso, avendo già rinunciato al perno dell’identità? Che è l’ente, visto che si pretende qui di distinguerlo dall’ente-oggetto-di-discorso: non si è forse costretti a dire l’assurdo, che “l’ente stesso” non è l’ente stesso? [Si vede bene che la posta in gioco è la cosa in sé di Kant (non l’in sé della cosa). Ma – come si capirà di qui a poco – la cosa in sé, che dev’essere difesa, non dev’essere difesa di contro al pensiero, perché così Hegel avrebbe tutte le ragioni di toglierla, in quanto è chiaro che così pensato codesto in sé sarebbe tale solo quoad nos. Invece di organizzare una difesa, occorrerà piuttosto mostrare come non vi sia alcun bisogno di difenderla. Il che non dovrà neppure tradursi nella forma apofatica di un silenzio sempre troppo eloquente. Anche l’apò- appartiene infatti al campo delle relazioni in cui fa il suo gioco il pensiero].

245 [Si noti en passant che qui l’ente stesso sta nella medesima posizione del nulla, nell’aporetica del Sofista platonico, nulla che, in quanto è detto/pensato, non è nulla. Questa omologia significa qualcosa? Non deve forse autorizzarci a osservare che qui non è in questione né l’ente stesso né il nulla, ma proprio il pensare/dire, la sua asthéneia, anzi la sua costitutiva impossibilità? Così però anticipiamo]. [L’obiettivo di Platone nel Sofista è quello di trovare una ortologhía perì tò mé ón (239b), è quello di mettere a punto una tecnica del syn, della connessione, della symploké. Tale obiettivo, che metterà capo alla symphonía tôn ghenôn, alla koinonía, si rende necessario per pensare l’essenza dello eídolon, dell’immagine la quale, in quanto è immagine, non è veramente – e dunque appartiene alla sfera del tò mé ón –, ma che d’altra parte, ancora in quanto immagine, è veramente immagine – e dunque appartiene alla sfera dell’òn. La distinzione di Sinn e Bedeutung – con la quale si suole trattare il problema del nulla – non può giocare un ruolo fondativo nei riguardi di questo lógos, perché è semplicemente richiesta dal suo stesso funzionamento: è cioè una sua condizione interna, la predisposizione di quel semi-luogo, il luogo non nullo del senso (dell’immagine), in cui deve prendere posto il lógos che dice l’òn]. [Com’è noto, la soluzione platonica consiste nel rilevare che quando diciamo tò mé ón, non diciamo enantíon ti toû óntos, ma éteron mónon (257). Il problema però rimane: cosa diciamo infatti quando diciamo proprio enantíon ti toû óntos? Non c’è, dice Platone, un enantíon dell’essere: non c’è cosa? Il problema permane perché Platone tiene fermo che il léghein è sempre un léghein tì (katà tinós). Questo presupposto viene conservato almeno sino a Husserl e alla fenomenologia. In Husserl l’atto della negazione è sempre secondario, è cioè sempre preceduto dalla posizione originaria di qualcosa. Da questo punto di vista, l’approccio fenomenologico alla negazione aggrava il problema, non lo risolve, perché radica nell’intenzionalità antepredicativa la precedenza del pieno – positivo, essere – sul vuoto – negativo, nulla].

246

4. L’ultima domanda costringe a escludere che si possa dire alcunché di determinato riguardo all’ente stesso, in quanto è distinto dall’ente-oggetto-di-discorso. “L’ente stesso” non è – si è già osservato – l’ente stesso. [Proposizione-limite, in cui il pensiero non riesce a negare ciò che ad esso si sottrae (cioè, di nuovo: cosa?) se non a prezzo di contraddirsi, infrangendosi così contro il proprio stesso limite. Contradictio contradictionis (V. Vitiello, Topologia del moderno), contraccolpo assoluto in cui la stabilità e determinatezza incontraddittoria del dire è interamente revocata in questione. Se però in luogo di mantenersi in tale revoca se ne trae qualche conclusione, non si può che concludere così: dell’ente stesso non si può dire nulla; esso è dunque una mera astrazione, un caput mortuum del pensiero, un flatus vocis. Il punto è però indecidibile, poiché una tal conclusione è certo legittima in punto di logica, ma non c’è ancora la logica che possa autorizzarci a concludere – oppure: c’è soltanto la logica ad autorizzarci in tal senso].

4.1. È chiaro però che la distinzione proposta dalla domanda dev’essere essa stessa posta fuori gioco. Infatti, essa non distingue affatto l’ente-oggetto-di-discorso dall’ente stesso, ma distingue l’ente oggetto di discorso in quanto è distinto dall’ente stesso, dall’ente stesso in quanto è appunto distinto dall’enteoggetto-di-discorso. In altre parole: anche la domanda non dice (e in verità non può dire) la cosa come andrebbe detta (se “l’ente stesso” fosse pensabile). Quest’ultima formulazione non aggiunge a ben vedere nulla di nuovo, ma si limita a rendere esplicito ciò in cui s’impiglia la domanda, l’in quanto, l’aspetto sotto il quale ogni volta si considera l’ente, aspetto che non appartiene all’ente stesso, ma appunto e soltanto al modo di considerarlo. 5. A questo punto diviene inutile provare ancora, e reiterare la difficoltà. Ma cosa dimostra questo esercizio: forse che l’ente

247

stesso non può essere pensato? Se così fosse, non potrebbe neppure essere detto impensabile (che è ancora una determinazione dell’ente, un modo di pensarlo). E se così fosse, il demonstratum sarebbe la contraddizione pura, perché dichiarerebbe intrattabile col pensiero ciò che, appunto così, viene trattato. Quale parricidio dobbiamo allora compiere, a questo punto? Quale scena vogliamo ripetere, ancora una volta? In realtà, non c’è alcun bisogno di dimostrare l’indimostrabile (e di dimostrare alcunché). Perché non vedere infatti che a non poter essere pensato è non l’ente stesso, oppure: l’ente non più di quanto lo sia il pensiero dell’ente stesso? Perché qui l’impossibilità dovrebbe, per dir così, colpire l’ente stesso e non invece il pensiero, la pensabilità logica come tale, in quanto appunto si lascia ogni volta scappare la quieta impassibilità dell’ente, la sua pace e la sua letizia? [Occorre intendersi bene su quel “vedere”. Non può trattarsi ovviamente di una semplice conclusione cui si debba necessariamente pervenire, la necessità essendo stata posta in iscacco, ma neppure può trattarsi di un ingenuo appello all’intuizione, cui si farebbe con un salto ricorso là, dove il lógos non è potuto giungere con le sue sole forze. L’alternativa stessa viene deposta e lasciata cadere. “Vedere” dice allora e soltanto che nulla può soccorrere in questo punto: non c’è modo di decidere, non c’è modo di distinguere l’ente stesso da un mero caput mortuum del pensiero, poiché al pensiero e non all’ente apparterebbe la necessità di salvaguardare in questo modo l’ente. Quel che si tratta di vedere è proprio che se manca il modo (e il metodo) per decidere, è perché non ci si trova nel luogo di una decisione. Non c’è alcuna via da prendere, per andare all’ente. Il luogo del vedere cade così nel luogo stesso dell’ente: non si vede l’ente (né è l’ente stesso a veder-si), poiché vedere non è attributo che esprima, esponga o dica l’ente. Non si va all’ente perché l’ente è già presso se stesso. Nulla in questo modo soccorre l’ente (né lo esprime o lo espone), ma l’ente stesso è senza soccorso].

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6. Detto altrimenti (detto vera mente): non l’ente è affetto da una qualche impossibilità, ma casomai il pensiero, il luogo trascendentale dell’apparire dell’ente, ne è colpito. Lungi dall’esserne affetto, l’ente rimane indifferente. [Nella Scienza della logica, il divenire dell’essenza, il suo movimento riflessivo, viene definito «il movimento dal nulla al nulla, e così il movimento di ritorno in se stesso», e si aggiunge: «l’altro, che sorge in questo passare, non è il non essere di un essere – com’era invece ancora nella logica dell’essere –, ma è il nulla di un nulla, e questo, di essere la negazione di un nulla, è ciò che costituisce l’essere». Quel che si deve notare è questo: ciò che viene pensato come nulla di un nulla, e rilasciato dal movimento dell’essenza, è qui non più l’ente abbandonato all’in-differenza assoluta con cui conclude la dottrina dell’essere, ma l’altro. Il ghénos per il quale si procede alla divisione tra la negazione che s’accompagna all’essere e la negazione che s’accompagna solo a sé, la negazione che va colla negazione, è appunto l’altro: una volta come relazione ad altro, un’altra volta come ripiegata, riflessa, come relazione a sé. Hegel pensa qui l’ente a partire dall’altro, il pensiero come pensiero dell’altro, e perciò lo determina come negazione: di altro o di sé. Ciò è tanto vero che si può ben dire che si tratta – nei due casi appena distinti – una volta dell’altro di un altro e un’altra volta dell’altro di sé].

6.1. Si può forse dire: nell’apparire la cosa non appare (né, peraltro, si cela); l’apparire stesso, se mai appare, appare in senso radicalmente intransitivo, nello stesso senso in cui la rosa è rosa, e senza dunque che nell’apparire l’essere transiti per le vie del pensiero, o viceversa. [Ma se l’apparire non è questo (in) quo cognoscitur, questo trascendentale, diviene per il resto perfettamente inutile e può essere lasciato cadere]. [Apparire e apparire dell’apparire non si dicono sub eodem: se l’apparire dell’apparire avesse lo stesso senso fenomenico dell’apparire, si aprirebbe la via per un regresso all’infinito. Rocco Ronchi, Il canone

249 minore, prende da qui l’abbrivio per andar oltre i limiti della fenomenologia. Ora, però, non è forse abbastanza che il disallineamento della cosa e dell’apparire venga da un ragionamento condotto in punta di logica, se sono la logica stessa e il suo diritto di sorvegliare l’incontraddittorietà della cosa a venir in questione. Non sono tanto i problemi che derivano dalla fondazione di questa figura del regressus o dalla necessità di derivare poi la scena fenomenica inferior da quel primo, inapparente apparire a impensierire, quanto piuttosto l’obliterazione di quel punto di in-differenza, o di (non) equivalenza, tra la cosa e il suo apparire, grazie a cui, invece, non occorrono primati, gerarchie o subordinazioni, ma basta lasciar essere l’una cosa accanto all’altra].

Secondo tempo. Ritorsione 7. L’impossibilità di pensare l’ente non equivale affatto all’impossibilità di esser-lo. Questo punto di non equivalenza rimane indecidibile (col che questo “punto” non è affatto determinato come indecidibile, perché anch’esso differisce dall’esserepensato-­come indecidibile: la possibilità di proseguire ad infinitum può forse irretire il pensiero, ma non trattiene, anzi non raggiunge minimamente l’essere). [Cfr. Platone, Sofista, 248e-249a. Conoscere è un poieîn, essere conosciuto un páschein. Ma allora l’ousía patisce una kínesis. Se gliela togliamo, l’essere sarebbe sì «venerabile e santo», ma senza zoé, senza psyché, senza phrónesis, noûn ouk échon. Ecco dunque quel che Platone vuole]. [Forse si vede qui un fondamentale punto di differenza con Luigi Tarca, Differenza e negazione, il quale chiama questo movimento un movimento di autodistinzione. Ciò dipende dal fatto che Tarca vuole tenere insieme ciò che non può essere con-tenuto insieme: l’essere assolutamente positivo e il pensiero che lo determina. Vuole cioè ancora pensare logica-mente, là dove si tratta invece di pensare in-differente-mente].

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7.1. L’ente non è toccato dall’essere pensato o meno: giace accanto al pensiero, non al di là di esso. (Accanto, cioè: non dirimpetto, di fronte). [L’accanto non mantiene quella distanza (principio di ogni trascendenza) dalla quale si pone per esempio il problema della corrispondenza di parola e cosa, lógos e òn. Ma non è neppure alterità, poiché l’alterità è una determinazione della riflessione, catturata nella rete platonica dei generi, rimbalzata nel gioco dell’identità e della differenza. Il problema non sarà mai, dunque, quello di svelare il mistero dello Stesso, che convoca l’altro, la più assoluta alterità a sé non essendo altro da sé, come accade invece nella vertigine del pensiero speculativo. L’accanto non è una vetta, ma una pianura]. [Si potrebbe parlare a questo riguardo di molteplicità, se non fosse che il molteplice viene tradizionalmente assunto come la contropartita dell’unità del pensiero: come una sua polarità]. [Si potrebbe allora convocare nuovamente la cosa in sé di Kant. Ovvio che tale cosa in sé non va pensata come l’essenza di contro alla parvenza, e dunque mediata con essa, così come invece la presenta Hegel in apertura della dottrina dell’essenza, perché così la cosa in sé è un pensiero da cima a fondo].

7.2. Viene meno la possibilità di riferirsi ad esempio alla rosa diversamente da come vi si riferisce la pioggia che cade su di essa. Il che non vuol dire che non ne possiamo più parlare, che ammutoliamo, o che le parole piovono come la pioggia, ma che non vi è modo di pensare la differenza fra il dire la rosa e il cadere della pioggia su di essa, né di farsene signori. 7.3. Viene meno, allora, anche la possibilità di pensare l’essere come il positivo pieno, che si stabilisce in questa posizione per l’estenuazione del negativo del pensiero. Questo sarebbe infatti ancora un volersi rappresentare l’essere in sé in quanto il pensiero però vi ha rapporto (sia pure negativamente). Questa

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è insomma l’ultima resistenza prima di rinunciare all’idea che il pensiero abbia qualche rapporto determinato con l’essere, invece di starvi semplicemente accanto. [La critica di Merleau-Ponty a Sartre, ne Il visibile e l’invisibile, torna qui opportuna per produrre un ulteriore chiarimento: Merleau-Ponty rifiuta la concezione sartriana di un essere positivo e pieno, piatto, privo di gradi e di una «organizzazione in profondità», e liquida tutto ciò come «un pensiero di sorvolo, che opera […] su termini il cui significato è stato fissato e che esso tiene in suo possesso […]. È tacitamente inteso che, dall’inizio alla fine del libro, si parla del medesimo nulla e del medesimo essere […]. In realtà, le definizioni dell’essere come ciò che è sotto ogni riguardo e senza restrizioni, e del nulla come ciò che non è sotto nessun riguardo […] sono il ritratto astratto di una esperienza». Orbene, è certo che quel che s’intende fare è togliere all’essere il rapporto con il pensiero che Merleau-Ponty chiama astratto, pensiero frontale, di sorvolo, oggettivante, ecc.: col che però non s’intende né attribuirgli un altro pensiero, più originario e autentico, vitale, né prestargli per contro un profilo marmoreo, rigido, immobile. Non bisogna, per dir così, prendere l’intangibilità dell’essere, la sua impassibile in-differenza per durezza (che è ancora un modo col quale l’essere risulterebbe alla sensibilità che lo tocca). Bisogna piuttosto, ancora una volta, deporre l’alternativa. In termini platonici, rifiutare l’idea che la quiete non è movimento: che i due contrari non possano abitare l’essere insieme, che l’essere non sia in due (contrari). Si capirà allora che lo spazio in cui giacciono l’uno accanto all’altro, per dir così, l’essere e il pensiero, la quiete e il movimento, non è uno spazio panoramico, aperto, logico, lo spazio quale noi lo idealizziamo standogli davanti, e sorvolandolo col pensiero, ma è uno spazio iniziale, d’immanenza cieca, senza centro o circonferenza, spazio onniaccogliente perché non può essere contornato, irrilevante ma non per questo privo di rilievi, impassibile ma in quanto sopravanza ogni azione e passione. L’accanto va quindi pensato piuttosto come un in-canto: come una sospensione del rapporto, non come una piatta, rigida assenza di rapporto, opposta e simmetrica rispetto al rapporto che nega].

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Versus. Occorre però che si venga ora assaliti dal dubbio che non ci si possa fermare qui, perché, se ci si fermasse, si finirebbe col ritenere (con l’intera tradizione, del resto) che almeno questo, cioè il pensiero stesso, questo almeno lo si stia, veramente e appunto, così, pensando. [Qui l’argomento di Peirce è decisivo (lo ricalchiamo affiancandovi in fine il nostro problema): che io stia pensando adesso, è oggetto di intuizione oppure è arguito da segni? È oggetto di intuizione. Ma come facciamo a sapere che si tratta di un’intuizione (come si fa a sapere che si sta pensando)? Questo, adesso, che il pensar-si sia un’intuizione, è a sua volta intuito o in altro modo saputo? Se diciamo che è in altro modo saputo, compromettiamo il potere dell’intuizione; ma se diciamo che è invece intuito, ci appelliamo a un’intuizione per fondarne un’altra, «mentre la questione sollevata è se, in generale, esistano conoscenze intuitive, e come facciamo a sapere che siano tali» (Ch.S. Peirce, Questioni concernenti certe pretese facoltà umane). Tutto ciò però comporta che aut ci si è già sempre installati nel pensiero aut non ci si installa mai. Più a fondo ancora, comporta l’irriducibilità di questo aut-aut]. [Si ricorderà pure che Aristotele nota che il significato determinato al quale l’interlocutore deve attenersi sempre, a pena di inintellegibilità, è richiesto perché sia possibile non solo il discorso con gli altri, ma anche con sé. Il se stesso, la sua stessa identità si costituisce in termini logici. È un sé chi è capace di tenere un discorso con se stesso].

7.4. Ma non è la conclusione che allora si profila, circa l’impossibilità di pensare il pensiero, qualcosa che in verità doveva essere fin dall’inizio a portata di mano, visto che l’ente stava lì a titolo di esempio, come la rosa: al pari di ogni altra cosa, dunque anche del pensiero? Versus. Se l’essere non ha rapporto col pensiero, non lo si mette proprio così in rapporto? Oppure, in altro modo ma analoga-

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mente, se (contro Parmenide!) l’essere e il pensiero non sono qui il medesimo, essi non si toccano almeno in questo punto (di nuovo il punto di non equivalenza!), in cui si dice proprio che l’essere e il pensiero non sono il medesimo? In questo punto la tesi fin qui svolta non si contraddice? O basterà cavarsela semplicemente gettando via ogni preoccupazione riguardo alla coerenza e alla non contraddizione?

Terzo tempo. Deposizione 8. La tesi si contraddirebbe se traducesse ciò che è senza rapporto in un rapporto negativo – l’essere senza come un “non” –, e pretendesse poi di poter valere per sé e riferirsi a se stessa, al modo in cui si è appena negato che il pensiero in generale lo possa fare. Non si può pensare il pensiero. Dunque la tesi deve essere essa stessa deposta come tesi. [Ovviamente, qui il “dunque” è improprio, nella misura in cui, almeno, sembra comportare la necessità di un passaggio. Tale passaggio sarebbe però necessario solo se per giungere sin qui, al punto 8, si dovesse necessariamente muovere da lì, dal punto 1. Ma proprio questo non è necessario. Non è necessario, in altri termini, che la tesi sia prima posta, per essere poi deposta. (Tanto poco deve preoccupare la contraddizione quanto poco, inizialmente, il dogmatismo della semplice asserzione)].

8.1. La tesi non ha come proprio oggetto il dire stesso (che vale ovviamente quanto il pensare: abbiamo usato indifferentemente i due termini, perché il punto era piuttosto la loro comune e ormai impotente intenzionalità). [Questo non significa minimamente che il discorso sin qui condotto non doveva (logicamente?) esser fatto, che dunque bisognava tacere: non c’è modo di trarre questa conclusione (come in generale qualun-

254 que altra conclusione). Il fatto poi che questo discorso non dica nulla quanto al dire, al dire suo proprio e al dire in generale (per la buona ragione che non vi si riferisce, non più di quanto qualunque altro discorso possa mai riferirsi a se stesso e ad ogni altra cosa), depone, per dir così, al tempo stesso e in unità indecidibile, tanto contro quanto a favore: contro, perché appunto non dice né può dire nulla contro la possibilità che un dire qualunque gli si costituisca contro (e cioè, sive: accanto); a favore, perché proprio non dir nulla, esonerandosi dal gioco logico del vero/falso, esonera il gioco stesso. Si può immaginare la cosa come un movimento di deposizione, il quale non abbassa il piano sul quale esso stesso si situa (piano del movimento, non movimento del piano, poiché non vi sono due piani, ma uno solo!), senza abbassare al tempo stesso ciò accanto a cui si lascia giacere, proprio perché vi giace accanto]. [“Accanto” indica non il profilarsi di una relazione, ma la più semplice delle (de)-posizioni. È chiaro che deporsi secondo l’essere accanto (o secondo l’anche hegeliano) esclude – ma questo “escludere” è a sua volta un essere accanto, sta pur esso semplicemente accanto a – un pensiero dell’essere come tríton ti (Sofista, 250c 1): terzo non come frammezzo, vertiginoso e inafferrabile, ma come luogo in cui l’essere inizia accanto al pensiero].

8.2. La riflessione procura l’impressione che questo discorso giunga a togliersi da sé: che si disdica cioè nell’atto stesso di dirsi. Ma se non è possibile riferirsi a sé, non è possibile farlo neppure per togliersi. Non vi è un primo atto, il dire, e poi un secondo tempo (comunque lo si voglia pensare): la sua disdetta. Tutto questo non c’è, perché non c’è la logica con i suoi paradossi riflessivi: i due tempi sono confusi insieme. [Questa confusione somiglia molto alla ibrida ma accogliente chôra platonica, valorizzata da Derrida. Se ne differenzia però – credo – in un punto: nel non-essere determinata negativamente, per sottrazione, in maniera residuale].

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Versus. Si era però preso le mosse da una tesi: che l’ente non è non-non-ente. Visto l’assurdo (o almeno, si dirà, l’a-logico) cui siamo giunti, che cioè il pensiero stesso, come qualunque altra cosa, in verità, non può essere pensato, perché non rimuovere il presupposto iniziale, perché non trovare semplicemente auto­confutatorio tutto questo discorso, e sostenere che dunque all’ente appartiene essenzialmente il fatto di essere pensato, insieme con il tratto negativo comportato dalla sua determinatezza di ente? 9. Vi è una ragione per cui affrontiamo solo ora questa domanda, essendoci scandalosamente consentiti (scandalosamente rispetto almeno alle caratteristiche preoccupazioni critiche della filosofia moderna) di cominciare dogmaticamente. Il dogmatismo appare in effetti indesiderabile, in quanto afferma una tesi che pretende poi di sottrarre alla discussione, o peggio: con la quale pretende di regolare e decidere la discussione. Indubbiamente qui si pretende che la tesi sia indiscutibile, ma non perché si impone da sé (con la forza dell’evidenza, o con l’evidenza della forza), bensì perché non appartiene allo spazio della discussione: non lo apre né lo chiude. È inespugnabile perché non costituisce una fortezza, qualcosa cioè di cui farsi forte nel discorso, o che renda forte il discorso. Col che evidentemente – ma ormai sarà apparso chiaro – non si può non rinunciare del tutto alla pretesa di confutare alcunché, ma ciò per la buona ragione che la tesi si situa al di qua del gioco nel quale è possibile una qualunque confutazione (almeno quanto è al di fuori di esso l’essere della rosa). [Giunti a tal punto, si suole proporre un argomento ad hominem, del genere: peggio per te, come la pianta del libro Gamma di Aristotele (la sua ingiunzione: parla – léghei ti, semaínei ti –, se sei un uomo!), ti condanni da solo a non dir nulla; questa replica tuttavia (dietro cui si vede bene che rimane – proprio in chi la propone – il sospetto che

256 in quel dir nulla vi sia tutto quello che v’è da dire, cioè appunto nulla) è piuttosto il segno dell’inquietudine e del fastidio provocato da chi pretende, con una mossa semplice e fuori dalle regole, di sfuggire al gioco entro il quale lo si vorrebbe comunque costringere]. [L’élenchos è un ingrediente fondamentale della tecnica confutatoria della nobile sofistica, secondo Platone, e viene legittimamente impiegato contro chi crede di sapere e non sa. Ma appunto contro chi crede di sapere, chi vanta un sapere, chi pretende cioè di disporsi sullo stesso piano sul quale opera il filosofo platonico]. [In Platone, e per tutta la discussione del Sofista, è all’opera, sempre presupposta, la suprema anánche di escludere la contraddizione. Platone guarda al dire logico – come nella prima parte del dialogo guarda all’idea che deve dirigere e orientare la diaíresis – e si domanda a quali condizioni sia possibile]. [Si ricorderà che Aristotele convoca nel libro Gamma l’intera sapienza presocratica a discutere con lui. Oltre all’equivalenza di primo livello fra significare e dire, Aristotele deve ulteriormente distinguere, su un secondo livello (1005b 23-26), il dire dal sostenere (hypolambánein) quel che si dice, per rimproverare ai suoi avversari (proprio come farà Hegel nella Fenomenologia!) di non sapere quel che dicono, o anche semplicemente quel che fanno. Deve cioè raddoppiare il dire con un rendersi conto di quel che si dice (o si fa). A questo raddoppiamento, dunque, a questo “rendersi conto” appartiene di necessità il divieto di non contraddirsi, non a quell’originario dire e fare. Questo raddoppiamento (1009a 20: dietro il lógos vi dev’essere una diánoia. B. Cassin e M. Narcy, La décision du sens, citano opportunamente la Poetica, dove sono compresi «modi di parlare», schémata tês léxeos, che rinviano alla léxis, al modo di dire, piuttosto che alla diánoia, al detto-significato) non è dunque innocente, e solo a raddoppiamento effettuato, e solo allora, Aristotele può dire che non è dire quello di chi si contraddica]. [L’ingiunzione aristotelica si ritrova anche nella pragmatica trascendentale di Apel e Habermas, che ripropone su un piano comunicativo il problema della fondazione ultima della ragione. Per loro, lo scettico conseguente che si rifiuta di parlare si esclude dalla comunità linguistica del noi, di coloro che argomentano, pagando questa esclusione

257 «con la perdita dell’identità di sé come agente sensato, con il suicidio, la disperazione esistenziale, la paranoia autistica» (Apel), confinandosi «nel suicidio o nella demenza» (Habermas). Si sarà notata la violenza di questi testi!].

9.1. Il gioco al quale questo discorso non partecipa (e questo “non” è piuttosto un “né… né”, poiché non vi partecipa più di quanto vi partecipi, essendo indifeso contro la volontà di considerarlo partecipe) è infatti il gioco (già sopra denunciato) della sostituibilità salva veritate, senza del quale l’ente mai potrebbe determinarsi come tale. Non vi è più alcuna ragione di ritenere che la posizione in generale equivalga alla non-negazione: che ente equivalga a non-non-ente (non più, peraltro, di quanta ve n’è di ritenere che albero equivalga a non-terra, non-cielo, non-erba, ecc., o anche solo a non-non-albero). [Non è necessario insomma che pensare “ciò che è” richiede che lo si pensi come negazione di altro (meno che mai del proprio altro). Oppure, se è necessario, questa necessità appartiene al pensiero, non già a “ciò che è”. E a sua volta questa appartenenza non è necessaria]. [Wittgenstein critica la relazione di identità: «dire di due cose che sono identiche è un non senso» (Tractatus logico-philosophicus). O le cose sono identiche, e allora non sono due, oppure sono due e allora non sono identiche. In entrambi i casi, sarebbe implicito che ciascuna cosa è identica con se stessa. Questa autoidentità potrebbe essere interpretata solo negativamente, come non-identità-con-altro, e dovrebbe al contempo, immediatamente, essere pensata in uno con (essere coestensiva con, essere la stessa cosa che dire) ciò che la cosa è. Ma così questa non-identità-con-altro di un ente non potrebbe mai essere detta e pensata per sé sola, senza trasformarla in una nuova proprietà aggiuntiva di quell’ente (sicché l’identità dell’ente non sarebbe più coestensiva con la negazione dell’altro ente). Perché non trarre allora da ciò la conseguenza non che la tesi di Wittgenstein vada respinta, ma che vada respinto ciò che si vuol dire, che cioè una cosa è identica con se stessa – che la cosa possa essere pensata in termini di identità con sé?].

258 [Quel che Wittgenstein dice dell’identità è singolarmente consonante con quanto Hegel osserva a proposito del carattere sintetico del principio d’identità: «questo principio contiene più di quel che con esso s’intende». Per Wittgenstein, è un buon motivo di esclusione del principio, per Hegel invece è l’avvio del suo stesso inveramento dialettico].

9.2. Non vi è quindi neppure alcuna ragione di tradurre/trasporre la posizione qui espressa in termini logicamente equivalenti. Non vi è modo di farla transitare per le vie del pensiero. Ente e non-non-ente possono essere equivalenti solo sotto un certo aspetto, per esempio e proprio dal punto di vista della sostituibilità salva veritate: col che però rimane assolutamente presupposto che e come questo punto di vista possa mai essersi costituito, e perché l’ente debba indossare questo strano abito logico, in modo da poter essere (formalmente) pensato. Ma allo stesso modo rimane presupposto che alla posizione stessa di questo discorso debba calzare un abito logico: che esso stesso si formuli quindi in forma di tesi. [Il gioco è altrimenti presentabile come il gioco del léghein tì (katà tinós). Il dire che si esercita qui si dispone invece semplicemente accanto al léghein tì]. [Questo gioco appare insensato solo una volta che il semaínein sia stato rigorizzato, in virtù di una stretta continuità fra il semaínein e il léghein. È quel che avviene nel libro Gamma, mentre prima di esso (in Eraclito, per esempio, ma ancora nel Perì hermeneías) la sfera del significare non è ristretta all’impiego delle parole, ed è così ampia che anche gli animali vi partecipano. Da questo punto di vista, è fondamentale che Aristotele chiami, a rincalzo degli argomenti refutativi cosiddetti logico-ontologici, gli argomenti pragmatici (perfettamente inutili se il dominio della logica fosse già ben saldo e universalmente esteso): «perché, al momento buono, quando capiti, non va difilato in un pozzo o in un precipizio, ma se ne guarda bene, come se fosse convinto che il cadervi dentro non sia affatto cosa egualmente non

259 buona e buona? È chiaro che egli ritiene la prima cosa migliore e l’altra peggiore» (1008b 15-19). Qui Aristotele domanda perché chi nega il principio di non contraddizione fa quel che fa piuttosto che qualche altra cosa. Ma il fatto è che chi fa quel che fa non lo fa sotto la clausola del “piuttosto che”, non lo fa affatto in alternativa a qualcos’altro. Si direbbe anzi che chi nega il principio di non contraddizione neghi proprio questo “piuttosto che”, neghi che il senso pragmatico – per dirla con una formula – sia in tutto e per tutto un senso logico, che vada esplicitato con esso e grazie ad esso]. [A Nietzsche vengono fatti calzare abiti che egli non intendeva affatto indossare, quando si dà forma di tesi al suo pensiero].

Versus. Almeno qui, però, non si è fatto a meno di dedurre da un “ogni posizione”, cioè da una tesi generale, un “dunque, questa posizione, come ogni altra”? Almeno qui cioè si è proceduto logica mente. La rosa, infatti, non era forse addotta a titolo di esempio, che (equi)-valeva quanto ogni altra cosa? Chi ha mai pensato che si parlasse, qui, di rose? 10. Anche in questo caso è opportuno sgombrare il campo da un possibile equivoco, che cioè il compito che ci siamo assegnati sia quello di impedire (come se avessimo confezionata una tesi!) l’equivalere della logica, come se in tale equivalere vi fosse qualcosa di scorretto. Ciò che ci proponiamo è piuttosto – continuando con la rosa e per dirla poeticamente – che la rosa inizi – inizi soltanto – a profilarsi nell’in-differenza rispetto al suo abito logico, all’abito logico della negazione, e dunque nell’in-differenza rispetto al suo essere cosa di contro al mondo, ente di contro al nulla, e di portare anche il discorso, anche il pensiero, in questa sorta di status indifferentiae. Nell’in-­differenza, o nel bilico indecidibile e inassegnabile fra cosa e mondo, essere e nulla. Questa in-differenza è peraltro il solo modo di rispettare la sua differenza, di suggerire cioè che

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la differenza non può venire totalizzata dalla negazione: non si può arrivare sino alla fine del mondo. La rosa non è terra, non è foglia, ecc. – si dice infatti. Ma l’“eccetera” funziona solo logica mente, ed è peraltro il modo con il quale la negazione prevarica sulla differenza, cancella il “di volta in volta”, il “non anticipabile”, della differenza. Il modo in cui la forma logica la sussume, invece di lasciarla essere indifferente. (Non l’indifferenza, ma la negazione toglie e fa violenza alla differenza). [Nella formulazione del principio di non contraddizione, in Gamma, 4, 1005b 19 ss., si legge: «è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto», con l’aggiunta parentetica «(e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica)» – aggiunta ripetuta anche più avanti. Anche in questo caso, si deve osservare che l’aggiunta non è affatto innocente, poiché solo, per dir così, ad astrazione logica eseguita si possono trascurare d’un sol colpo «tutte le altre determinazioni», o presupporre che si possa arrivare sino in fondo a queste determinazioni, e che l’ente stesso sia tò ón a parte da tutte queste determinazioni, a parte cioè dall’ápeiron che lo insidia, dalla Offenheit che qua e là Aristotele fa balenare nella confutazione]. [Hegel, Scienza della logica: «La differenza è la negatività che la riflessione ha in sé: è quel nulla che viene detto col parlare identico». L’affermazione va forse letta così: se la differenza non è nulla per il parlare identico, ciò mette in questione e accusa non la nullità della differenza, ma l’insufficienza del parlare identico]. [L’identità in Hegel trapassa in differenza assoluta: questa precipita in mera diversità, cioè nella differenza reciprocamente indifferente. Qui, scrive Hegel, la riflessione si è fatta aliena a se stessa. Ma per mostrare come questo riguardo indifferente venga tolto esso stesso, e come la riflessione si riprenda da questa alienazione, tale riguardo viene tradotto nella forma di una differenza estrinseca (uguaglianza/diseguaglianza). La differenza indifferente viene quindi intesa come un astratto riferirsi dei diversi, nei termini cioè di un “porre” e della conseguente riflessione sopra questo “porre”, non invece

261 come la deposizione di questo “riferirsi”. L’indifferente è in Hegel tout court il non-differente, non già l’indifferente alla differenza e alla non-­differenza. I lati indifferenti non sono tanto indifferenti da non riferirsi reciprocamente l’uno all’altro proprio per via di questa in-differenza. In questo modo, l’in-differenza è solo più un’altra differenza].

10.1. Obiettare allora che la rosa funge in questo discorso a titolo di esempio è certo corretto, ma non basta: si limita a trattare questo discorso alla pari con ogni altro discorso, come se esso volesse dire qualcosa, se non intorno alla rosa, all’ente – o intorno al discorso stesso. Il punto vero è invece quest’ultimo, che cioè questo discorso stesso non può (proprio perché invece può esserlo salva veritate, cioè logica mente) essere ricondotto sotto la voce comune “ogni discorso” (o, come anche si può dire, transitare per le vie del pensiero): rimane così, senza ulteriormente determinarsi, un esercizio singolare. [M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia: «Forse non si coglie affatto l’essenza del vero, ossia la verità, quando ci si limita alla rappresentazione generale di quel che spetta senza eccezioni alla cosa di volta in volta vera in quanto cosa vera. Forse l’essenza del vero, ossia la verità, non è l’universalmente valido rispetto alla cosa vera, ma il momento in essa più essenziale». Forse. E forse deporre la cosa al di fuori dell’universale luogo della verità congeda da più essenziali, e abissali, profondità, e immette invece in un piano di pura superficie].

10.2. Tutto ciò procura nuovamente l’impressione che questo discorso sfugga a se stesso, perché non si dice, perché è detto senza dire di sé. Impressione che forse ancora ci inquieta – benché in verità, sfuggendo a se stesso, esso, senza che abbia bisogno di allontanarsi da sé non più di quanto in tal modo si avvicini a se stesso, sfugga solo al regime dello “stesso”, cioè

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all’abito logico della sua identità riflessa. E sfugga, paradossalmente, senza sottrarsi: sfugga solo rispetto alla volontà di afferrarlo, di pensarlo. Ma non sfugge affatto, se si tratta di esser-lo. Se si tratta non di essere il pensiero, o di pensare l’essere, ma di essere in pensiero e nell’inizio del pensiero: senza mettere con ciò l’essere a casa propria, senza perciò essere sé. In pensiero, l’essere (in senso verbale) si dis-pensa da sé. Rimane qui, accanto. In due.

Gino de Dominicis, Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua, 1969. Courtesy Italo Tomassoni © Archivio Gino de Dominicis, Foligno.

Indice

Il libro

p. 11

Capitolo I Morfologia 1.  Delle condizioni di una morfologia 2.  La parola e il segno della cosa 3.  La verità e l’intelligenza della cosa 4.  Che cos’è la cosa

p. 29 p. 42 p. 56 p. 77

Capitolo II Verso la domanda – prima che accada 1.  Il primo: l’immediato 2.  Il terzo: la mediazione 3.  La domanda

p. 93 p. 120 p. 137

Capitolo III La posizione della domanda 1.  L’essere previo 2.  La percezione 3.  Sul limite della percezione 4.  Il tradimento

p. 157 p. 163 p. 170 p. 187

Capitolo IV La negazione della domanda 1.  Verso il nulla 2.  Verso l’in-differenza

p. 195 p. 209

Capitolo V Essere accanto

p. 221

Esercizio

p. 237

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 20 - Proposte

“Con simili strategie, infatti, si pensa ancora che ci sia qualcosa da fare, che il pensiero debba aprirsi strenuamente un cammino, che vi sia magari qualcosa contro cui esso urta e che perciò dia a pensare. Si dà forza al pensiero rendendo ardua la sua meta, perché – si dice – «come potrebbe accadere che la salvezza fosse trascurata quasi da tutti se fosse a portata di mano e la si potesse trovare senza grande fatica»? Se ciò non può accadere, tuttavia, è forse perché questo è veramente il più difficile da dire e pensare: che la salvezza stia qui, semplicemente accanto: a portata di mano.”

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Massimo Adinolfi (Salerno, 1967) insegna Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Dirige con V. Vitiello la rivista di filosofia Il Pensiero ed è coordinatore scientifico della Fondazione Meridies. Tra le sue pubblicazioni recenti: Ermeneutica della comunicazione (Massa 2012), Continuare Spinoza (Roma 2012), Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, Big Data e democrazia (Roma 2019). È editorialista dei quotidiani Il Mattino di Napoli e Il Messaggero. Per Inschibboleth dirige, con M. Donà, la collana Zeugma.

ISBN ebook 9788855290197 € 11,00