Lucentizie. L'enigma del tempo. Nuova ediz. 9788898694501

Ha perfettamente ragione Vincenzo Vitiello, quando, nell'introduzione a questo volume afferma: "Pochi scrittor

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Italian Pages 116 Year 2017

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Table of contents :
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Introduzione
La voce, lo sguardo
Lucentizie L’enigma del tempo
Postfazione
Svanire è la ventura
l’inebrio del Suo canto
Nota biografica
Bibliografia essenziale
Indice
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Lucentizie. L'enigma del tempo. Nuova ediz.
 9788898694501

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Carlo Invernizzi

Lucentizie L’enigma del tempo

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 2 - Classici

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Carlo Invernizzi

Lucentizie L’enigma del tempo

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 2 - maggio 2017 ISBN: 9788898694501 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Carlo Ciussi, LIX, 1991, olio su tela, 121x130,5 cm (dettaglio) © 2017 Archivio Carlo Ciussi, Udine-Milano

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Introduzione di Vincenzo Vitiello La voce, lo sguardo

“[…] mi voltai per vedere la voce che parlava con me.” (Apocalisse, 1, 12)

1 Pochi scrittori – poeti, romanzieri, ma anche critici e storici, filosofi e scienziati – abitano il linguaggio al modo in cui accade a Carlo Invernizzi, poeta. V’è una perfetta identità tra lui e la sua dimora. Egli non vede, non tocca le cose, né gusta sapori e ode suoni attraverso le parole, né sente freddo e caldo. No, lui vede, sente, odora, assapora parole. Parole non ‘come’ cose; parole che ‘sono’ cose. Di qui il primo conflitto con se stesso. Con la sua dimora. Le parole che il comune linguaggio ‘parla’, che egli stesso parla, non sono cose, sono voci ‘vuote’, se non proprio rumori. Il suo impegno è allora ‘trovare’ la parola, la parola che è la cosa stessa: la parola dolore che è dolore, la parola gioia che è gioia. Impegno vitale. Non so quanto voluto. Abitare il linguaggio è per lui come respirare. E si vive del proprio respiro. La dimora in cui ‘vive’ – grazie a cui vive – non può abitarla da estraneo. Rendersi intimo a se stesso, al suo mondo, al suo sentire: alle parole, sarà anche una scelta, ma necessaria. Ma non è, questa, l’esperienza di ogni poeta? Per citare un classico, un classico ‘moderno’, che certo ha avuto un posto di rilievo nella formazione poetica di Invernizzi:

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[…] poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso1. C’è da dire di più: scegliere le parole è esperienza di ogni persona ‘colta’, che cerca il nome, l’aggettivo, il verbo che meglio esprima la cosa che, volta volta, incontra. Vero, verissimo. Ma qui la differenza: Carlo Invernizzi non ‘incontra’ la cosa prima della parola che la dice. Egli ‘trova’ la cosa, ogni volta che la parola gli si dà. Non costruisce la sua dimora, la scopre. Il linguaggio non è sua ‘creazione’, ma sua invenzione: da invenio, trovare. Anche a caso: dopo un lungo lavoro di ricerca, egli s’imbatte nella parola-cosa, che gli è andata incontro. Essa, la parola-cosa, misteriosamente. Parola-cosa – s’è detto. E subito occorre precisare: nessuna idealizzazione, nessuna astrazione; giusto il contrario: realismo assoluto. La parola è la cosa, la cosa concreta, quella che vediamo, tocchiamo, odoriamo…, quella e non altro. Non l’astrazione del linguaggio comune. La cosa – la determinatissima cosa che non si può dividere in sostanza e accidente, soggetto e attributo: quello sostegno di più predicati, questo 1. G. Ungaretti, Commiato, in Id., Vita d’un uomo, I, L’allegria 1914-1919, Mondadori, Milano 1954, p. 72.

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predicato di più sostrati – va detta in unica voce, come era unica la voce che definiva gli occhi della glaucopide dèa. Né si può dire la cosa, la determinatissima cosa, in ‘nomi’ separati, quando due e più cose, sostanze e/o verbi, che l’intelletto distingue ma di fatto son uno: Pratiroccia nudiarsiti qua e là sparsi smarriti nel gelo di marzo ghiacciti. Eppure un incanto nel terso ventare l’occhiutoluccico ardesiavibrante del vostro niente. Sarà oltre maggio tra irruentipiovaschi nel diquarcio d’oscuri nembi l’urgente fiorire d’erbesterpi pulsando bagliori di steniavita nel salebrosoniente d’irreprimibile divenire. E ancora: Nel ventoluna buionientespettrale nerastridirupi irtiarbustigelostremati prati d’altura disseccati

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arsitisanguecupi lividischeltridimuripietre diroccati in sgretolo roccetetre per precipizi ciechi d’infinitoniente senza luce. Ma, se l’irruere della breve pioggia “oltre maggio” rende questa pioggia unica – come nel verso del cantore di Napoli la pioggia di marzo con la sua unicità rende unico il mese: Marzo: nu poco chiove / e n’ato ppoco stracqua / torna a chiòvere, schiove; / ride ‘o sole cu ll’acqua2 – anche il verbo va nominato con voce ‘singolare’, e non perché appropriato ad una singola cosa e non comune a molte, quando non a tutte, ma perché propria soltanto a se stessa. Non il cadere del sasso, o il sasso che cade, nomina il poeta, bensì la ‘caduta’: quella, non altra, differente per sé, non in quanto riferita ad altro, al sasso o alla pioggia. Il verbo va reso cosa, sostantivo. La lotta col linguaggio si fa più difficile. Perché più difficile, comunque più raro, è invenire il ‘sostantivo’, il “per sé” del verbo. Il verbo è sempre “per altro”: per l’altro che nomina, che spiega, giudica, condanna anche, ma da cui sempre dipende: è il verbo che dice ciò che il sostantivo è, opera, realizza o fallisce. Pertanto sostantivare un verbo non significa sottrarre ad esso quello che lo rende verbo: l’“esser-per-altro”? Ed all’incontro: non è necessario – di una necessità non logica, ma vitale – rendere un sostantivo verbo, quando la ‘cosa’ va colta nel suo wesen, nel suo “essere verbale”, nel suo sorgere e nel suo ‘farsi’, nel suo fare non altro che sé, e finanche nell’altro se stessa? Necessario, ma non meno difficile, rendere verbo un sostantivo, perché allo sguardo comune, e al comune tocco, 2. S. di Giacomo, Marzo, in Id., Poesie e prose, a cura di Elena Croce, Lanfranco Orsini, Mondadori, Milano 2004, p. 236.

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udito, gusto, le cose ‘sono’ in quanto ‘stanno’, in quanto hanno stabilità, ancorché relativa. Non si misura la realtà delle cose sulla loro fissità? Più son salde in sé, più son reali le cose: più son cose, res. Reali e visibili. Lo stesso movimento è ‘reale’, e visibile se resta se stesso, se permane e non cambia, se non muta in non-movimento. Opposte esigenze, a cui la poesia di Invernizzi si trova a dover far fronte. Un impegno che non deriva da lui. Non una scelta, una costrizione.

2 L’opposizione rivela uno scarto tra il “trovarsi” e l’“invenire”. Non che le cose, le cose-parole, non vengano incontro al poeta; questo non può saperlo. Lo ‘scarto’ rivela altro: rivela l’ostacolo dell’incontro. Un impedimento peraltro non negativo per la sua poesia. Il poeta è costretto a piegarsi su di sé; e da questa ri-flessione nasce ‘nuova’ poesia – e poesia ‘nuova’. Di questo il poeta è consapevole. E lo dice al modo della poesia, invertendo i tempi. Parla dell’ostacolo, poi che l’ha superato. Del muro del linguaggio che lo divide dal linguaggio, poi che il muro stesso rivela le sue fessure: Sussulti di muraglia fenditure bilenche oblique frantumi di scaglie. Raccogliendo questi sciolti frammenti, vede il “muro” della “mente” che lo divide dal mondo:

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Sui muri della mente offuschi scuri scivolano riverberi oblique trasparenze ombre vacue che vacillano disperse parvenze. Questa vista esige e trova, invenit, nuove parole. Un primo accenno è già l’“offuschi”: il verbo tende al sostantivo, alla ‘singolarità’ del sostantivo. Nel contempo il sostantivo deve farsi verbo. Le due esigenze opposte sono la stessa esigenza. Soddisfarle entrambe, et simul, non dà pace. Il poeta resta al di qua del muro. Nell’ombra di un linguaggio che è dimora, ma estranea. Ne patisce il poeta, come testimonia già il titolo che dà a questa poesia – tra le molte che si potrebbero citare, la più rivelatrice – non a caso tra parentesi, come per lasciare in ombra l’ombra: (scurimpenetrabile) Immutabile cangevole s’invertica l’altura in rastremo nuda. La turbolenza che sovrasta scurimpenetrabile barbaglia corviluce che baluginano in stormo. È dentro il monte l’addenso che non schiara il vortico senza tempo in dissolvo buio. Cosa evidenziare in questa poesia che non si mostri già da sé? L’“inverticarsi dell’altura” che conferisce alla vetta il movimento

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dello sguardo? L’“addenso che non schiara” che dà all’impenetrabilità del buio la salda stabilità della montagna? Il “vortico del tempo” che fissa in sostantivo l’eterno dissolversi in ombre delle cose del mondo? C’è dell’altro in questa poesia che richiama su di sé attenzione: “La turbolenza che sovrasta / scurimpenetrabile / barbaglia corviluce / che baluginano in stormo”. Oh, reiner Widerspruch! Nell’oscurità, che impenetrabile sovrasta, splende di luce nera uno stormo di corvi che appaiono per subito scomparire. La parola dice disdicendosi. Fa fatica a star dietro allo sguardo.

3 I “muri della mente” sono più alti di quanto non s’era stimato, le fessure non bastano per vedere di là dal muro, al massimo si possono raccattare “di qua” frantumi, “frammenti di scaglie”. Il poeta ne soffre, e più s’ostina a scendere nell’“abisso della vita”, per trovare la parola che salva, più si scontra col limite: muri che succedono a muri, un cerchio di cerchi che non s’espande, come il magico Kreis von Kreisen del filosofo, ma lo chiude nel “folto avvortico” della sua dimora: del linguaggio. Sempre muri di confine ischiudenti interminabili nell’infondo chiusaperto del folto avvortico incatturabile Muri voltuli in cerchi d’accerchi vibranti inschiaribili d’inesauribili propaggini

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Muri turbolenze d’ioniluce effimeri nell’anelo invano sempre in sgretolo. Un nichilismo senza speranza e senza attesa s’impadronisce del poeta: Sempre abbramo del niente in questo infosco senza orizzonte di notti tetre senza stelle senza luna. Niente che non è niente eppure sempre vertigine del nulla. Protervo vento muto che stremi senza tregua l’implacata arsura della mente nuda. Sentimento del niente, di niente, che quanto più cerca e trova la parola-cosa, tanto più s’estende. Dalla mente raggiunge il mondo: Pruinalucenti spettrali nelle nottiluna pullulivoltuli d’effimeroniente in vortico precipitano dissipo in riluccico

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di prati d’altura nudi geloarsi. Nel ventodiaccio d’innevo imminente solo arbusti stremati in distorcico sui picchi sibilano riluttanti negli strangoli d’anniento. Titolo e verso iniziale sembrano aprire ad una speranza di luce, di bianco e di luce: neve che di notte s’illumina di luna. Ma i fiocchi bianchi “d’effimeroniente” precipitano, dissolvendosi su prati stremati dal gelo, tra miseri alberi cui il vento presta il suo sibilo “negli strangoli d’anniento” – fosca congiunzione di spazio e morte, racchiusa in un’unica parola. Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch3. La salvezza viene proprio dal pericolo, la libertà da quello stesso che limita, tutto chiudendo in sé. Al poeta il linguaggio fa ora un altro dono: gli dà la serenità dello sguardo. Non lo sguardo, la serenità, perché gli ha mostrato che pur scavata nell’abisso dell’anima, la parola-cosa resta distante dalla “cosa”. La parola che dice poeticamente la cosa non è tutta la cosa. V’è forse nel mondo più poesia che nelle parole del poeta.

4 Ma dove all’uomo è possibile l’esperienza della cosa – della “cosa stessa”, come dicono i filosofi? Dove? Facile rispondere nello “sguardo”; tanto facile quanto inutile. Ché tra sguardo e 3. «Ma dove è pericolo, cresce / anche ciò che salva»: F. Hölderlin, Patmos, in Id., Poesie, a cura di G. Vigolo, Mondadori, Milano 1971, pp. 216-217.

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parola v’è stretta intimità. Non vedo il rosso, vedo il rosso della rosa, diverso dal rosso del sangue. Per individuare il colore richiamo la “cosa”, il soggetto del predicato. I ruoli s’invertono: è il soggetto che determina il predicato: rosso di rosa, rosso di sangue… Resto comunque nel linguaggio, gli esempi stessi lo testimoniano. Il poeta scopre i limiti del linguaggio non attraverso ma nel linguaggio. Che non cessa di parlare del niente. Del niente come suo limite. Che però il linguaggio stesso ha potere di sopportare, rendendoselo in qualche modo amico. La distanza mitiga il distacco. La voce dice quel che vede, riportandolo a sé, a nome, ma nel nome è oltre il nome: dice, oltre quel che vede, lo sguardo che vede. Il ‘proprio’ sguardo, lo sguardo che la parola orienta, ma non ‘assorbe’ in sé. La parola s’apre alla vita, “temperie del niente / che incanta il pensiero in frastorno”, nominando il vivente che muta il mondo, “soggetto” di mondo, non “cosa”. Nomina il merlo, “stupore del niente” – ed è pura poesia, in cui voce e sguardo son uno: Stupore del niente lo schiocco secco del merlo che saltella in abbramo nel gelobruma e invano occhieggiando qua e là sull’innevo sbeccuzza frenetico il nulla. Eppure lucente giallo di stelle il suo becco risplende d’illumino come nei piovaschi di settembre (misterio inschiaribile) il fiore candido sbocciato sul perastro novello in strema inedia d’arsura.

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Da merlo a bruco. Vita chiama vita: (il bruco) Ignaro d’entropia e del suo niente ma esperto di tempovita s’attrappa il bruco rinsecchito in crisalide per schiudersi farfalla volando nel sole in scintillio di colori e morire tra barbagli di luce germine d’identico niente sapiente di tempovita. Da bruco a scriccioli: (gli scriccioli) Nel ventale del tramonto gelidolucente la siepe spoglia nudo il roveto svolicchiano gli scriccioli sulla ceppaia putrescente. Inconsapevoli dell’enigma del tempo saltellando arruffiati sbeccuzzano il niente ritmando con mesto pigolìo l’insondabile musica del vento.

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E la vita s’espande, anche oltre se stessa, nelle “stoppie”, ove si cela la sua ricca ‘potenza’: (le stoppie) Di piana in piana a distesa d’orizzonte dritteimpettite nel dissecco del loro niente già opimo d’ardente vita sfrigolano in dissipo le stoppie giallimolucenti in questo mattino di sole soffiate in abbrucio da brezza fumastra nel loro destino d’anniento. Si placa infine la sofferenza del nulla – “destino d’anniento” – nella debole presenza della betulla. Lo sguardo, placato, rende più ardita la parola. La musica nuova di Invernizzi, i suoi verbi sostantivati, i suoi sostantivi verbalizzati, ribaltano la sequela vita/morte. La morte è per la vita: (la betulla) Nell’infolto del faggeto che brusisce nella calura violacuposoffuso s’invertica ai fremiti di luce biancosplendente l’esile betulla in abbramo di vita.

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Ignara del destino del suo niente ebbra s’inarca nel sovrasto la cima invano protesa in incurvo verso pertugi d’illumino. L’ultima poesia – in un crescendo musicale che non si poteva non riportare – è un canto alla vita. Non un inno; un canto mesto, smorzato, della voce che vede l’eternità della vita nel suo indissolubile legame con la morte. Nei due versi finali sento come un’eco lontana di una voce che fu grido di dolore e di gioia insieme, infinito quello per l’abbandono, insaziata, mai saziabile, questa, per il dono d’un altro giorno concesso al mondo. “Enigma del tempo” – è il nome della lingua del mondo che, nel sottotitolo dell’opera, Invernizzi dà a questo “giorno”, che nel testo, con la lingua della poesia chiama “lucente muraglia senza orizzonte”, e il suo infrenabile decorso “vestigia del niente”.

5 Carlo Invernizzi ha accompagnato spesso le sue poesie ad opere pittoriche. Il suo interesse per l’arte visiva non è secondo rispetto a quello per la poesia. Egli vede il mondo in parole – s’è detto –, dipinge in parole il mondo; ma la parola-immagine sorge nei boschi di Morterone, salendo stretti sentieri, lo sguardo attratto dal monte kat’exochén letterario, il Resegone, ove “s’invertica l’altura / in rastremo nuda”. Questa origine è col tempo diventata mèta: quando la voce, avvertendo il proprio limite, s’è aperta allo sguardo. Se la parola poetica è maturata anche nel fuoco delle polemiche giuridiche – giovane, Invernizzi, ha frequentato le aule di

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giustizia – e nessuna disciplina più del diritto ha cura per la lingua: legge è parola d’origine, non constata un fatto che c’è, comanda quel che ha da essere; lo sguardo pittorico si nutre di scienza, dalla geometria alla fisica, disciplina quest’ultima che ha da sempre attratto Invernizzi, nella sua ricerca dell’immagine di ciò che non si dà in immagine, l’incatturabile “infondo”. Ho davanti a me un suo quadro, dono di amicizia non recente, né antica, ritrae, come in fotocopia, la pagina di un libro: in alto il titolo, che ripete quello di una sua raccolta di poesie, Secretizie, sulla sinistra del foglio la scrittura di suo pugno di una poesia, “Il cuculo”, presente in questa, Lucentizie – inchiostro bianco su fondo colorato di un’immagine che sembra proseguire nella pagina di destra. La voce ‘poggia’ sullo sguardo. Questo vede fuori – nello spazio – l’“interno” della parola, il tempo. Dividendosi, i due – spazio e tempo – restano uno. Questo suggerisce il quadro. Ma lo si legga bene: l’interno non è l’interno dell’anima, è l’interno dell’ente, della cosa, dello spazio del mondo, che ponendo gli enti in relazione reciproca, rende l’ente “fenomeno”: ciò che muta indefinitamente per le indefinite relazioni con tutti gli altri enti. Sì, il mondo si dà in parola, la voce che muta restando sempre se stessa. Guardando fuori, la parola vede se stessa. Il suo essere, nel tempo dello sguardo. Il suo essere, o non ancora solo “frammenti di scaglie”, frantumi tronchi e slogati, di sé? Anche lo sguardo è poesia. Trapassa, inquieto, di soglia in soglia:

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Soglie sempre soglie soglie catastrofi d’arsura del niente. Sull’orizzonte infolgori d’ioniluce in sbrendoli precipiti lacerti che tonfano da erti muri nell’infolto imprendibili. Soglie di soglie sempre catastrofi dell’insecco senza tempo senza perché mai trasgredibile.

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Carlo Invernizzi Lucentizie L’enigma del tempo

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I

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Sui muri della mente offuschi scuri scivolano riverberi oblique trasparenze ombre vacue che vacillano disperse parvenze. Morterone, 22 agosto 1978

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Sussulti di muraglia fenditure bilenche oblique frantumi di scaglie. Morterone, 19 luglio 1979

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T’arrivano alla mente confuse indecifrabili malcerte balugini riverberi labili gracili elitrano sullo scrimolo inconsistenti precipitano nel clinamen. Morterone, 8 novembre 1983

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Lucentizie sempre apparenti mai non recessive come sempre gl’innevi d’inverno sono altitanti e vallivi. Lucentizie elitranti eppure impercettibili che pulsano nel ventale diafano e dileguano invisibili. Lucentizie di fulgidi albori che di colle in colle rifrangono e nella chiarità vibrando lucciolano. Morterone, 27 aprile 1988

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“Ma ogni vedere è da ultimo l’apparire dell’essente”. Emanuele Severino

Innevi dolcissimi nei gran disquarci della lunaneve intramontabili risplendenti di gemmatizie lucciche e iridescenti accerchi di betulleneve. Innevi diroccati sbreccati da muri precipizi latenti in cumuli di tempineve nelle voragini tra le case serpentighiaccioneve. Innevi nell’ottenebro staffilati dal mugghiovento che soprassalta collività e pendivi e discalpa noccheneve che avvortica nella nientità in dilanio di sibili. Morterone, 22 novembre 1992

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(scurimpenetrabile) Immutabile cangevole s’invertica l’altura in rastremo nuda. La turbolenza che sovrasta scurimpenetrabile barbaglia corviluce che baluginano in stormo. È dentro il monte l’addenso che non schiara il vortico senza tempo in dissolvo buio. Morterone, 12 febbraio 1995

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Invertico strapiombo immoto vortice senza tempo d’imprendibile infoco. Morterone, 28 agosto 1995

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Senza fine traluce l’intenebro sul confine. Morterone, 8 ottobre 1995

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Impervi non intrasgredibili i vipistrelliluce irrompono nei cunicoli sfrecciano imprevedibili nerionduli imprendibili. Olocausti del niente nell’infondo precipiti tra catastrofi d’incenero dell’infoco inesauribile. Morterone, 19 settembre 1998

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Sempre abbramo del niente in questo infosco senza orizzonte di notti tetre senza stelle senza luna. Niente che non è niente eppure sempre vertigine del nulla. Protervo vento muto che stremi senza tregua l’implacata arsura della mente nuda. Morterone, 9 febbraio 2002

39

Splendenti invano insistiti guizzano sull’altura nuda serpentiluce intrasgredibili. Nunzi del niente d’infinito niente sempre muti s’infugano nei cunicoli precipiti tra gl’interstizi nell’infolto senza tempo imperdibili. Morterone, 1 marzo 2003

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Tetro nell’infosco cieco inschiaribile irrompe senza tregua in rilucio il denso avvortico incatturabile. Essere e Tempo senza tempo ringhiotto di mortevita creodiscreo inestinguibile del rinfocolo in annichilo. Morterone, 1 novembre 2003

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Pruinalucenti spettrali nelle nottiluna pullulivoltuli d’effimeroniente in vortico precipitano dissipo in riluccico di prati d’altura nudi geloarsi. Nel ventodiaccio d’innevo imminente solo arbusti stremati in distorcico sui picchi sibilano riluttanti negli strangoli d’anniento. Morterone, 24 dicembre 2004

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Soglie sempre soglie soglie catastrofi d’arsura del niente. Sull’orizzonte infolgori d’ioniluce in sbrendoli precipiti lacerti che tonfano da erti muri nell’infolto imprendibili. Soglie di soglie sempre catastrofi dell’insecco senza tempo senza perché mai trasgredibile. Morterone, 4 agosto 2005

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Sempre muri di confine ischiudenti interminabili nell’infondo chiusaperto del folto avvortico incatturabile Muri voltuli in cerchi d’accerchi vibranti inschiaribili d’inesauribili propaggini Muri turbolenze d’ioniluce effimeri nell’anelo invano sempre in sgretolo. Morterone, 2 novembre 2005

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Arsura del niente questo rossinfoco di verde in trascoloro ventoluceniente sempre mortevita inquarcio disquarcio di picchi. Arsura del niente turbolenta impercepibile che mai s’intregua scavodiscavo di crepe che sgretolano questi muri diroccati di pietre. Morterone, 10 novembre 2006

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In lunari silenzi da albali chiarori franti s’inerpicano visibilinvisibili per erti dirupi prati d’altura cianoscurilucenti arsi tra impicchi di muri nudi lapidirocce precipiti in avvinghio per orridi crinali senza tempo fuocoincenero del niente. Morterone, 29 settembre 2007

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Addentro sempre invano più addentro senza fine il disintegro del vuotoinfolto del niente. Dove senza vita s’incende il misterio della vita e senza luce s’ingermina nell’oscurità il canto del ventoluce. Morterone, 22 dicembre 2008

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II

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49 “Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faciesi accesa”. Dante, Par. XXXIII, 97-99

È tutto orizzonte questo innevo altissimo imprendibile com’è l’ondulità dei colli questo gelido vento che trascorre e artiglia in sibili sulle protense del monte. Lo sguardo incontenibile si sgretola tra le case nei rotti vallivi lontanando invano s’acceca in lucciche specole. È tutto orizzonte inescruttabile questa fremente lucentità che barbaglia d’intorno intrasparibile. Morterone, 3 gennaio 1993

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“Quale estremità è più prossima a Dio? ... La bellezza e la speranza o le leggi fondamentali della fisica? ... dobbiamo tenere presente tutte le interconnessioni strutturali della cosa”. Richard Feynman

Altere non inalterabili queste roccedirupo senza tempo sempre uguali sempre in sgretolo. È il ghiaccioneve il disquilibrio che corrode il vento aspero che dilania le instabili crepole questi trabocchi di nuvole già ricordo d’immemori dilavi che avviluppano nei calanchi continue turbolenze di geloneve. Morterone, 19 marzo 1995

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Pietre livide pietre gettate a distesa in questi prati di marzo nude diacce tra cumulineve a perdimento simulando luccichiocchineve. Eppure da infinitudini emblemi d’infocate turbolenze incandescenti evapori urgenti catastrofi in entropia del niente. Morterone, 31 maggio 1998

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Trapassano uccelli nel nitido cielo. Qui è mortevita in questi prati induriti allo stremo. Tra questi accerchi di roccepietre nude e gelinottiluna perfusi in spettrivoragini. Qui tutto è riverbero di stenti tra muti perché irredimibile pena. Morterone, 18 novembre 1998

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Nudezza di prati inariditi nel gelo stremati non isteriliti. Celano vita gli sbocchi di terra in cumuli sfatti qua e là sparsi a graticola irrigiditi. Tra silicei massi già fuoco d’astri in affioro gettati dal vento nientifero. Morterone, 19 novembre 2000

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Collassata lucentità del verde discalpato si protende il bosco spoglio in diafanità turrito nel rugginoso voltulo in dissipo. Qua e là in recessi obliqui insazi d’inesausto niente si sfanno cespi d’erba arsiti spersi tra gli sterpeti filanchi di gramigna in avvinghio che s’interrano ghiacciti. Sul limitare oltre la casa avita pietra su pietra disadorna la nuda siepe che svetta nell’irto vento in mortevita. Morterone, 24 dicembre 2000

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Catastrofi del niente inesauribili questi pertugi tetri tra gl’incavi di muri diroccati precari rifugi di strigi. Il furiare del vento rapace invertica crepescheletri sulle pareti in sgretolo sbrecca gl’incastri malfermi delle gronde. Sotto orizzonti d’azzurro cielo franti da tetti stegolati in bilico sull’impicchio. Morterone, 6 aprile 2002

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Protetto nel vento aspro funesto t’arrischi in altura tra sterpi in rinsecco per precipizi. Assalto di memorie nudaghiaccita scorgi la piana insazia di vita. In ansimo t’abbranchi al crinale sospeso sul baratro in trepida arsura. Morterone, 10 gennaio 2004

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Nell’insecco del ventoniente il torrente disseccato. Annero d’arsi virgulti a riva d’arbusti sparsi pietre lucciche nel chiarore lunare. Forse un ristagno d’acqua dov’era il guado reliquia di vita che balugina in evaporo forse abbaglio di strema arsura. Morterone, 28 agosto 2005

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Foglie nel vento effimere senza morte senza vita in vortico per dirupi inghiotto del niente senza fine. Morterone, 15 ottobre 2007

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Nel ventosole tra massi scurilucenti sparsi rinsecco senza tempo d’olocausto del niente barbaglia nudasplendente sul pendìo ansimando vita la terra nera ingrumolita. Morterone, 16 dicembre 2007

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Nel ventoluna buionientespettrale nerastridirupi irtiarbustigelostremati prati d’altura disseccati arsitisanguecupi lividischeltridimuripietre diroccati in sgretolo roccetetre per precipizi ciechi d’infinitoniente senza luce. Morterone, 30 novembre 2008

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Pratiroccia nudiarsiti qua e là sparsi smarriti nel gelo di marzo ghiacciti. Eppure un incanto nel terso ventare l’occhiutoluccico ardesiavibrante del vostro niente. Sarà oltre maggio tra irruentipiovaschi nel diquarcio d’oscuri nembi l’urgente fiorire d’erbesterpi pulsando bagliori di steniavita nel salebrosoniente d’irreprimibile divenire. Morterone, 29 marzo 2010

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Splendenteniente senza tempo queste roccepietrenude in scintillamento nel sole tra intermittenti piovaschi degradanti in accerchi sparse lontanando di monte in monte uccellilucentineri stormi in volo immoti sull’orizzonte glomi invano luminescenti svanenti sul margine del giorno. Morterone, 13 agosto 2011

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Sull’invertico improvviso crudele m’incolse l’innevo folto insistito. D’intorno sull’incurvo dei collivi in perenne mortevita sbrecciati nel loro niente spettrali resti di muripietre. Morterone, 26 dicembre 2011

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III

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Stupore del niente lo schiocco secco del merlo che saltella in abbramo nel gelobruma e invano occhieggiando qua e là sull’innevo sbeccuzza frenetico il nulla. Eppure lucente giallo di stelle il suo becco risplende d’illumino come nei piovaschi di settembre (misterio inschiaribile) il fiore candido sbocciato sul perastro novello in strema inedia d’arsura. Morterone, 25 dicembre 2001

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Sempre già morendo s’incende la vita. Questo l’enigma del tempo l’incantamento dell’entropia del niente. L’arsura nella pioggia il dissecco nel gelo del vento il mutarsi sempre uguale nel diverso dell’invariante identico. Senza fine nel destino del sole nell’infoco l’incenero l’intenebro e la luce nella morte la vita nel vano perché del cominciamento. Morterone, 18 novembre 2005

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Il mistero è lassù dietro il monte che risplende scurimpenetrabile. La vita temperie del niente che incanta il pensiero in frastorno. Sei piccolo di cervici invano scruti l’infondo. Tra vortici di polvere il vento infuriatico sibila per precepizi. È tetra la notte ondulano bui i pendii. Incarbonito di stelle in impicchio che lucciola arsura l’inebrio del Tuo canto. Morterone, 10 agosto 2006

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Questo il rovello nell’arsura del destino l’insondabile perché dell’immutabile mutarsi del sempre uguale nel diverso per svanire senza ritorno nel continuo ritorno dell’interminabile divenire. Morterone, 9 agosto 2007

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Vestigia del niente il devasto del tempo lucente muraglia senza orizzonte. Morterone, 14 novembre 2007

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Non sul pianoro del torrente disseccato nel vento abbrustico che sfibra gli arbusti stremati tra le pietre riarse del greto s’arresta l’arsura del tempo. S’inoltra per abissi interminabile l’usto inesausto del niente tra catastrofi d’annichilo dell’oscura temperie senza tempo. Morterone, 9 dicembre 2007

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(il cuculo) Acquattato nell’infolto tra dirupi nel mattino irruente di luceverdevento che sconcerta monello ignaro irridente sorvegliatico canta festevole il cuculo monotono insistito prodigio insondabile del suo oscuro niente presago che un uovo deposto per l’altrui cova origine della sua vita è progenie d’altra simile strana vita. Morterone, 5 luglio 2008

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(la primavera) Evaporo di stelle lucente irrompe primavera nel dissecco di forre e dirupi. Tra striduli gracchi di corvi in vortico radenti s’incende ebbro sul pianoro il mortevita del niente. Negl’intrichi d’arsiccio riarso s’infulgono ioniluce verdesplendenti che occhieggiano baluccichi in nicchie intrasparibili. Morterone, 15 aprile 2009

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(il bruco) Ignaro d’entropia e del suo niente ma esperto di tempovita s’attrappa il bruco rinsecchito in crisalide per schiudersi farfalla volando nel sole in scintillìo di colori e morire tra barbagli di luce germine d’identico niente sapiente di tempovita. Morterone, 7 febbraio 2010

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(le stoppie) Di piana in piana a distesa d’orizzonte dritteimpettite nel dissecco del loro niente già opimo d’ardente vita sfrigolano in dissipo le stoppie giallimolucenti in questo mattino di sole soffiate in abbrucio da brezza fumastra nel loro destino d’anniento. Concordia Sagittaria, 5 giugno 2010

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Polilogia Sempre già morendo s’incende la vita il vento che nel gelo della pioggia infoca il nevischio. Ma non svanisce il loro niente che s’invola imperdibile negli atrigorghi del voltulo. È misterio inschiaribile il suo destino d’irrompere nel tempo in dileguo senza svanire né mai ritorna nel continuo ritorno del suo divenire. Morterone, 2 agosto 2010

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(i giunchigli) Placenta l’umidore dello stagno nel ventale diafano odoroso insistito i giunchigli svettano palpitando spasmilucori effimeri disfioro di giallimoverdeniente protesi discinti all’ondulovento nell’inebrio di rifiorire. Morterone, 9 settembre 2010

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D’ogni niente svanire è la ventura. Quest’erba rinsecchita rossastrocupa ciuffiriarsi sparsi per dirupi che il vento incenera vorticando in sibili. Queste roccepietre nudimmote nell’intenebro lividetetre immemore infoco d’astri senza tempo in latente annichilo senzavita. Morterone, 2 novembre 2010

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(la betulla) Nell’infolto del faggeto che brusisce nella calura violacuposoffuso s’invertica ai fremiti di luce biancosplendente l’esile betulla in abbramo di vita. Ignara del destino del suo niente ebbra s’inarca nel sovrasto la cima invano protesa in incurvo verso pertugi d’illumino. Morterone, 2 giugno 2011

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Di crollo in crollo vertiginediluce inarrestabile trapassa il tempo che scava cumulimacerie interminabile nei tuguri del vuotinfolto intrasparibile dove la morte non è enigmaccidente dello svanire dilucevitaniente irreversibile. Morterone, 24 agosto 2011

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(gli scriccioli) Nel ventale del tramonto gelidolucente la siepe spoglia nudo il roveto svolicchiano gli scriccioli sulla ceppaia putrescente. Inconsapevoli dell’enigma del tempo saltellando arruffiati sbeccuzzano il niente ritmando con mesto pigolìo l’insondabile musica del vento. Morterone, 30 ottobre 2011

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Di nessun niente è verità quel che sappiamo. D’ogni essente quel che appare vediamo. Forse lo spazio esclude il tempo? S’oscura forse il sole per il sovrasto dei nembi o la pioggia svapora fumastra perché s’innegra nel fuoco che spegne? Sempre il buio è nella luce il silenzio nei sibili del vento. Nel nascimento il morire della vita. Morterone, 2 novembre 2012

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Postfazione di Massimo Donà Svanire è la ventura Su Carlo Invernizzi: l’inebrio del Suo canto

La poesia è la creazione dell’inconoscibile con le parole; è la creazione della parola che è l’inconoscibile. Appunto perché creazione dell’inconoscibile la poesia è suprema conoscenza. Andrea Emo (1975)

Un ennesimo corpo a corpo con la lingua è quello che Carlo Invernizzi ci propone con questa nuova raccolta di poesie; nuova tappa di un percorso che il poeta milanese sviluppa ormai da anni, alimentando la propria vis visionaria di sempre nuovi e sempre più ‘azzardati’ lemmi, volti a bucare con sempre maggior precisione l’invisibile muro del reale. Sì, perché pur sempre al reale Carlo continua a guardare; per quanto senza mai soffermarsi sulla sua, fin troppo seducente, superficie. Questo, infatti, vorrei risultasse chiaro al lettore: che le parole scolpite da Carlo con lucida ‘ferocia’ sulla pagina bianca non vogliono fare eco al puramente percepibile. La visione retinica non lo interessa affatto; d’altronde, guardando al reale, il nostro ‘demiurgo’, non lo ‘vede’, in senso proprio. Perciò lo violenta; rompendo la sua scorza tridimensionale e volgendosi al buio che il suo ‘verso’ cerca in tutti i modi di farci incontrare,

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illuminando anzitutto quel che il reale – cioè ogni cosa – di fatto “non-è”. Carlo è in questo senso poeta e cultore dell’ontologia, in-uno. Dall’essere di tutto-quel-che-è egli viene comunque irresistibilmente catturato proprio in relazione alla possibilità di svuotarlo di tutte le sue infinite determinatezze; in quanto perfettamente consapevole del fatto che, delle medesime, diciamo sempre che “sono”, solo perché non siamo in grado di riconoscere quel silente negarsi in relazione a cui esse potrebbero finalmente non mentire, offrendosi alla luce di un vero e proprio “mondo-senza-oggetti” (per dirla con Malevič); quello con cui abbiamo invero continuamente a che fare – anche se per lo più nemmeno ce ne accorgiamo. Se non lo sapessimo dalla fisica delle particelle, infatti – ossia grazie ad uno sguardo che più distante non potrebbe essere da quello del senso comune –, non ce ne saremmo mai resi conto. E la vita continuerebbe a scorrere indefessa al cospetto delle cose, ossia, delle luci e dei colori che alimentano la fantasia perlomeno tanto quanto ci impediscono di incontrarle davvero, le cose. Anche perché, se ce lo consentissero, non vedremmo più il mondo abituale, e il cuore si spaventerebbe (per poco, il cor non si spaura). Ecco, Carlo, questo puro essere, privo di ogni determinazione – puro essere che è identico al nulla –, lo “comprende”… ma lo patisce e lo restituisce in virtù di un linguaggio necessariamente disegnato lungo l’impossibile confine che mai riuscirà a separare l’essere dal nulla. Perché li confonde, confondendo necessariamente anche noi; e facendoci capire e soprattutto riconoscere che quel che si determina – il puramente positivo –, si determina proprio perché non riesce a distinguersi dal negativo. Facendoci nello stesso tempo riconoscere che, nel determinarsi dell’essere che non-è, la positività di quel che sempre

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e solamente riconosciamo come esistente, altro non è che un’impossibile “positività”. E che, proprio per questo, di tutto quel che “è”, dovremmo nello stesso tempo affermare che, in verità, anche ‘non-è’. Ché esso è tavolo, appunto, proprio perché dice un essere che non-è, così come è nuvola sempre per lo stesso motivo. Invernizzi vede scricchiolare anche le cose più solide, vede svanire tutti i sogni di stabilità; ma non per l’illusorietà di ciò che troppo a lungo si sarebbe continuato a ritenere immutabile e divino; no…. egli riconosce l’universale scricchiolìo dell’esistente, perché sono le cose stesse a rivelarglisi per quel che esse non-sono mai state. E dunque per il fatto che, di queste ultime, riconosce appunto l’originaria auto-destituzione; ossia una verità che, pur frantumandole, non potrà mai venir meno. Insomma, Carlo vede l’assoluta stabilità dell’originariamente instabile; riconoscendo in esso l’aporia che risuona in ogni cosa dal profondo della sua inconfutabile inconsistenza. Riconoscendo le cose tutte come semplici contorni. Non si fa quindi distrarre dalla loro variegata consistenza, e neppure si attarda a disegnarne i contorni, guardando al loro semplice esistere empirico; ossia, ponendosi in relazione a ciò che, delle medesime, si costituisce, appunto, come meramente visibile. Egli vede le cose tutte, in sostanza, come semplici e confusi contorni di una vorticosa indeterminatezza in sé costitutivamente imprendibile. Che non possediamo né possiederemo mai, perché è essa, piuttosto, a possederci, e a sorprenderci; rendendoci inquieti anche di fronte all’ovvio e alla più consunta quotidianità. Altrimenti non si spiegherebbe neppure l’afflato quintessenzialmente filosofico che permea di sé il poetare di Invernizzi in ogni suo singolo verso. Come ogni vero filosofo, infatti, anche il nostro si sente vacillare non davanti allo straordinario, o al cospetto dell’inusitato,

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cioè non perché sorpreso da qualcosa che potrebbe sembrare impossibile… ma piuttosto davanti al comune, al quotidiano, ossia, all’assolutamente prevedibile. Perché, è davanti a questo scenario, che la sua mente s’intorcola e il respiro gli si palesa in virtù di un insostenibile fremito. Riuscendo a vedere che, proprio quello di cui ognuno di noi sarebbe disposto senza titubanza alcuna a predicare l’essere, non dovrebbe essere; perché proprio esso dice quel che più propriamente “non è”. Il nostro poeta, infatti, vede che, ad essere è sempre e solamente quel che non è. Perciò lo stupore si fa inizio di un’avventura senza fine che è quintessenzialmente filosofica; ma vi corrisponde da poeta che non argomenta. Piuttosto ne traduce la sintassi in armonia e la grammatica in pura, vibrante, nonché assoluta melodia. Come a volerci restituire il vero e proprio mistero dell’esistere; senza rischiare di normalizzarlo o tradurlo in una qualche articolazione logica… che, al massimo, potrebbe servire al filosofo per rendere ragione del fatto che qualcosa sia, piuttosto che non essere. Egli vede lo straordinario che ribolle in ogni ordinaria significazione, in ogni consueta designazione; e si guarda bene dal cercare di tradurla o in qualche modo spiegarla. Preferendo giustamente “cantarla”; consapevole del fatto che il divenire in cui la medesima disegna la propria esistenza non ha né inizio e né fine, e dunque non ci autorizza ad inscriverla nell’ordine tonale e nelle sue regole, e neppure in qualsiasi altra assiologia. La canta, piuttosto, nell’urlo continuo e privo di qualsivoglia destinazione, che solo al poeta è dato intonare e farci impudicamente ascoltare. E si accasa nella domanda che ogni verso sembra ripetere instancabile fino allo sfinimento; perché l’impossibile è possibile? D’altronde, per farsi riconoscere come impossibile, il possibile deve pur lasciarsi decifrare, anche se impedendoci di spiegare

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la sua sempre miracolosa insorgenza; costringendoci cioè a negare la sua pur inconfutabile determinatezza. Sì, perché nel territorio esplorato dal poeta milanese, l’inconfutabile non si costituisce mai come “innegabile” – stante che qui è proprio l’inconfutabile “possibilità”, a negarsi. Vero e proprio scandalo della ragione, dunque! D’altro canto, il reale cantato da Carlo Invernizzi è quello che ha fatto suo l’enigma del tempo; che il poeta non si azzarda a voler addomesticare con l’aiuto dell’ortogonalità, inscrivendolo cioè in uno spazio che lo renderebbe comunque privo di vita. Egli ha già da sempre consegnato il reale a quell’originaria temporalità che non consente previsioni, ma neppure alcuna ponderata progettazione; stante che il tempo dell’origine non inizia e non si conclude. Ossia, non guadagna spazio. E dunque non occupa spazio alcuno nell’ordine del fenomenico – che non a caso, invece, ai nostri occhi appare in forma sempre anche spazializzata. Insomma, lavora su un reale impossibile a riconoscersi. Perciò gli è necessario lo sguardo rapace del poeta; che va diritto al fondamento infondato di tutto, e travalica senza pietà le suggestioni dell’esistente. E le evita, quando non le ignora. Come già dicevamo, infatti, il nostro non le vede neppure. Perciò è come se Carlo si lanciasse dalle vette di un monte inaccessibile perché di fatto costitutivamente immateriale. Evanescente, eppure realissimo. Scendendo in picchiata tra le fenditure bilenche dell’esistere; come aquila reale che non teme gli invertichi strapiombi oltre cui nulla potrà mai fungere da limite insormontabile. La parola irrompe, così, nel rutilante rombo del niente; e fa luce inseguendo le sue (del ‘ni-ente’) impazzite, perché evidentemente improbabili, geometrie; torcendone l’assialità,

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le proporzioni, evocando finanche urgenti catastrofi prive di paternità… nonché smisurate e per ciò stesso prive di orizzonte. Il suo è dunque un vero azzardo, di quelli che solo i grandi poeti, ossia le grandi icone del passato, hanno saputo arrischiare; per avere o tutto o niente, comunque. O meglio per avere quel niente in cui il tutto s’è con ogni probabilità già da sempre risolto. Un azzardo che si rinnova ad ogni volume, ad ogni frammento che Carlo riesce a salvare dall’oblio, prima che precipiti tra gl’interstizi nell’infolto senza tempo, imperdibile. Un azzardo che ce lo fa amare e leggere con straordinaria levità; per quanto non sia affatto leggero o in qualche modo superficiale quel che, solo, merita ai suoi occhi d’essere detto. Perché il suo niente è un “niente che non è niente”; condizione, cioè, di una infinita nonché inconsumabile vertigine quale può essere determinata solo dal “nulla”. Il primo nucleo di poesie raccolte in questo volume ci presenta un poeta intento a inseguire “oblique trasparenze” che, come ombre, “vacillano disperse parvenze”. I muri della mente che circoscrivono l’orizzonte dell’esperibile lasciano scivolare riverberi che, come “balugini malcerte”, precipitano nel clinamen di un mai stanco divenire. E possono anche farsi “lucentizie elitranti”; ma…, ogni volta, immediatamente, “dileguano invisibili”. Lo scenario è spettrale, si è fondamentalmente avvolti dal buio; ma nell’oscurità riescono a farsi comunque percepire pulsanti chiarità che vibrano; ma non seguono un percorso in qualche misura percorribile, dal suo inizio sino alla fine. Il poeta ha immediatamente lacerato il luminoso schermo del reale; e s’è posto sulla ‘soglia’; anzi, in una delle infinite

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soglie che sembrano separare ogni cosa dal suo niente. Soglie non percorribili, dunque, e neppure attraversabili. Soglie che insistono in ogni cosa, facendo di ogni cosa sempre la medesima e impossibile soglia – una soglia impossibile perché sostanzialmente “intrasgredibile”. A venir meno, dunque, in questo scenario post-umano, è anzitutto la possibilità di “render ragione” – perché si è ormai nella culla di una verità in relazione a cui nulla sembra potersi dire veramente diverso dal proprio altro. E dunque nulla sembra poter avere, in qualcosa di effettivamente altro-da-sé, la propria causa determinante. Il poeta avverte di essere sulla terra del “senza perché”; muta distesa temporale su cui “s’invertica l’altura” e la turbolenza di “propaggini inesauribili”. Che niente intendono suggerire; o per lo meno, niente che possa assomigliare ad un piano di viaggio. Perché a muoversi, sempre in questo stesso scenario, sono solo “turbolenze d’ioniluce effimeri”. Niente, cioè, che possa essere ragionevolmente raggiunto e tanto meno superato – anche perché i “muri di confine” sono di per sé “ischiudenti interminabili”. Ci si può dunque proporre solo un infinito avvicinamento alla meta – già per il semplice fatto che tale avvicinamento non ha alcun vero terminus ad quem. Non essendoci meta alcuna, in questa prospettiva, se non “pulluli voltuli d’effimero niente” che “sibilano riluttanti negli strangoli d’anniento”. Non c’è carta geografica o mappa che tenga davvero, qui; che possa cioè restituire le dinamiche e le complesse articolazioni che sembrano caratterizzare qualsivoglia dinamica disegnantesi “nell’arsura del niente”. Non a caso, si tratta di una mappatura che viene comunque costantemente e molto facilmente travolta dal “ventoluceniente” che mai s’intregua; e, nello stesso tempo, ci rende capaci di riconoscere quei “visibilinvisibili” che, senza dubbio alcuno, precipitando “per orridi crinali

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senza tempo”, al tempo medesimo sembrano destinati a restituire la possibilità di vagare senza meta, custodito in arsi e “lunari silenzi”. Il poeta, qui, ha ormai raggiunto i limiti del visibile; e vede il fenomenico proiettandolo in un ‘oltre’ che non indica nulla di diverso dal medesimo, pur trasfigurando la durezza di una materia sempre incombente, nella fantasmatica e rutilante turbolenza di un “imprendibile infoco”. Che stordisce, e violenta l’orizzonte della significazione, sorreggendolo per un invano anelito “sempre in sgretolo”. E svolgendo la sua imprendibile vanità attraverso “visionimmaginipensiero” che, del divenire originario (quello dell’universovuototuttoniente che mai potrà palesarsi nella forma di un essente), potranno farsi, per ben che vada, flebile eco, riattivando un suo sempre nuovo cominciamento. Nella seconda parte del volume è invece Morterone a farla da padrone. Un paese di montagna abitato da pochissime anime, luogo di radici che Carlo frequenta da sempre, continuando a perlustrarlo nell’immutata convinzione che, proprio nei suoi anfratti, sia custodita la memoria dell’umanità, i suoi miti, le sue più recondite fantasie, nonché i segreti di una misteriosa e profondissima intimità. Qui Carlo riconosce le tracce del tutto e del niente che da sempre lo ossessionano; nei suoi “innevi dolcissimi” vede i volti di tutto quello che dovremmo imparare a rinominare. Le verità più semplici, ma nello stesso tempo meno padroneggiabili; magari nascoste lungo il disegno prodotto dalla semplice “ondulità dei colli” che circondano Morterone e le sue memorie. D’altro canto, proprio dalle sue case, così come dal gelido vento che tanto spesso sibila minaccioso, dalla “fremente lucentità che barbaglia d’intorno intrasparibile”, proviene la “morta vita” che tanto gli sta a cuore – così come, proprio in

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quest’ultima, il nostro sembra riuscire a riconoscere gli stenti di una “irredimibile pena” e a decifrare i lemmi di un alfabeto ignoto scolpito sui “silicei massi già fuoco d’astri in affioro gettati dal vento nientifero”. Qui, in ogni caso, la parola si fa pathos; e riluce sui prati inariditi dal gelo, ma soprattutto si moltiplica “sul limitare, oltre la casa avita”, soglia di una soglia, che a nessuno sarà mai più dato reinventare. A nessuno, ad eccezione del poeta, che, proprio ripetendo il medesimo, si fa capace e riesce ad accettare la sfida; giungendo a “furiare” anche lui come “il vento rapace”. Vagando sotto “orizzonti d’azzurro cielo”, come a voler in qualche modo corrispondere al “salebroso niente del vostro divenire”. Morterone lo asseconda, ma insieme continua a sorprenderlo, presentandogli sempre nuove analogie e vie di fuga che non gli consentono però di fuggire – ma solo di rientrare alla base. Di ripetere l’irripetibile; di ripetere tutto ciò che, pur non ripetendosi mai, dice l’esser immancabilmente nuovo, sempre nuovo, da parte del medesimo. Insistendo sull’intrascendibile origine da cui tutti proveniamo e che tutti nello stesso tempo ci costringe, facendoci nemici gli uni agli altri, a riguadagnare con fatica il suo stesso incipit, senza nessuna assicurazione per il futuro. Anche perché l’unico futuro possibile è quello offerto a Carlo da un antico paese che di tutto parla fuorché di quel che potrebbe o dovrebbe accadere – da cui l’insistenza, ribadita ogni volta, e senza alcun pudore, nonché l’inesausta volontà di rinvenire sulle sue rocce, sui suoi declivi, sui suoi picchi, così come al cospetto di semplici “reliquie di vita”, la forma propria dell’impossibile. E dunque di un’origine che, pur non potendo ancora essere riconosciuta secondo la sua propria determinatezza… continua tuttavia a risuonare al riparo di ogni nota sensibilmente udibile, come un cuore insondabile e

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assolutamente privo di corpo. Quasi si trattasse di fare, di noi stessi, semplici “foglie nel vento effimere senza morte senza vita”, in grado di arrischiarsi in altura “tra sterpi in rinsecco per precipizi”. Se, dunque, è senz’altro vero che le montagne gli raccontano tutte le storie del mondo, non meno vero è che Carlo sembra comunque preferire rimanere sospeso sul baratro “in trepida arsura”. Carlo preferisce contemplare, rimuginare, guardando Morterone, intento a riconoscere, riflessi sulle sue cime, l’Olimpo e la sua affollatissima corte. Preferisce trasporre tutto ciò che vive in quella vallata – come storia o come natura –, su un piano esplicitamente metafisico; quello che solo una parola colta, rielaborata, e nuovamente cristallina, potrebbe forse un giorno tornare a farci immaginare. Ma, solo nella terza parte del presente volume, Carlo Invernizzi ci fa toccare con mano il nocciolo più squisitamente metafisico della sua poesia; perché, qui, è davvero l’ontologia a farla da padrona. La questione, peraltro, è ormai giunta a piena maturazione: si tratta di scoprire il vero senso del “trapassare”. Sì, perché tutto diviene; e dunque trapassa, anche. Insomma, nulla sta; neppure questo infinito ed incessante trapassare, sta. Ché, se anche solo questo trapassare stesse, allora il divenire del tutto si ridurrebbe a mera parvenza. Infatti, qualcosa, almeno, non diverrebbe: ovvero, il divenire del tutto. Vale a dire… quel “devasto del tempo” senza orizzonte che, solo, ci riguarda, nella prossimità di un mondo finalmente risolto in “vertiginediluce inarrestabile”. D’altronde, nel farsi mondo del mondo, è sempre e solamente il tempo a “scavare cumulimacerie” che costringono ogni volta

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sempre il medesimo “niente” a svanire. Carlo lo sa bene, infatti, che “d’ogni niente svanire è la ventura”; e lo riconosce in ogni alito di vita, in ogni per quanto flebile sussulto di vita – anche in quello della pietra; riconoscendovi sempre il medesimo “enigma del tempo”. In ogni cosa. E lo canta; lo asseconda, ripetendone il ritmo; armonizzando il proprio verso, “con mesto pigolìo”, all’insondabile “musica del vento”. Solo il tempo, d’altro canto, avrebbe potuto fargli provare quel medesimo “stupore del niente” di cui sarebbe riuscita a conservare intatta la memoria ogni grande pagina della filosofia occidentale, a partire da Parmenide. Alla cui sfida Eraclito avrebbe risposto come “lo schiocco secco del merlo” che saltella… sbeccuzzando “frenetico il nulla”. Mescolando le carte, riconsegnando cioè l’immaginifica quiete dell’essere parmenideo alla vita del tutto; a quella “temperie del niente” che, sola, “incanta il pensiero in frastorno”. Accogliendo senza timore, né tremore, i vortici di polvere trascinati dal “vento infuriatico che sibila per precipizi”. E ci impedisce di fissare lo sguardo su un questo che sia stabilmente e univocamente distinto da un quello. Pur ricordandoci un mistero che non è lontano; e dunque non dovremmo cercare di raggiungere elaborando sistemi in grado di restituircene la complessa tessitura. Un mistero che, pur continuando a risplendere “lassù dietro il monte” dove “risplende impenetrabile”, ci costringe altresì a guardare fissi quaggiù, scrutando “invano” l’infondo. Accarezzando con le nostre misere parole “queste roccepietre nudeimmote”, solo apparentemente senza vita. Le stesse che, finanche la luce che risplende all’ombra di quel monte, riescono a riflettere con identica potenza, nella loro solo apparente fissità. Perché disposte comunque a farsi accarezzare dal sibilo prodotto da un vorticoso “destino” in

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virtù del quale, ogni volta, a mutarsi è appunto l’immutabile che dice “il sempre uguale nel diverso”. Perciò, proprio guardando alle ‘roccepietre’ che insistono sulle sue montagne, Carlo Invernizzi riesce a tenere insieme, nel verso impossibile di cui è fatta tutta la sua inquieta poesia, l’interminabile divenire e il “continuo del senza ritorno”…. ossia, di ciò che – come avrebbe detto Hegel –, non passa, ma è sempre già passato nel nulla (quello che, solo, alimenta l’essere di un mondo che continua a ripresentarcisi come quello stesso che, ogni volta, immancabilmente, già non è più quel che era). Come la vita, che “s’incende” sempre “già morendo”; provocando quindi quel sentimento di nostalgia che ci accompagna inspiegabilmente sin da quando siamo nati, e che ci impone comunque di ritrovare un futuro che, evidentemente, sarà sempre altro da quel che tutti saremo comunque riusciti ad essere. E Carlo lo sa bene: che è solo l’origine a farci procedere, indefessi, in un vero e proprio “dileguo senza svanire”, e in virtù di un “misterio inschiaribile”, sempre volti alla ricerca di un inizio che potremo solo ripetere diversamente. Perché “diviene” esso stesso, instancabile, illuminando il fondo abissale di ogni movimento e quindi di ogni esperienza dell’inafferrabile; e dicendoci, da ultimo, che, se anch’esso – come deve essere – ‘diviene’… insomma, se anche il divenire diviene, a tornare sarà sempre e solamente quel che non se ne sarà mai andato. E, a inoltrarsi, per gli abissi scavati dal “vento abbrustico”, “tra catastrofi d’annichilo”, sarà comunque l’oscura, ma irrinunciabile, per quanto davvero insostenibile, temperie del “senza tempo”.

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Nota biografica

Carlo Invernizzi nasce nel 1932, vive e lavora a Milano e Morterone. Studia presso il Liceo Classico Giosuè Carducci e successivamente al Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano e, dopo la laurea, intraprende la professione di avvocato1. Frequenta gli incontri del Gruppo ποίησις, fondato da Maria Vailati a Milano nel 1956, quando lo stesso, con l’approvazione dell’Assessore all’Educazione On. Luigi Meda, viene ufficialmente costituito come Centro di attività e documentazione di poesia contemporanea presso la Biblioteca di Palazzo Sormani. Nella pubblicazione di Quaderni di ποίησις del 1963 la poetessa Maria Garelli Ferraroni scrive: “Carlo Invernizzi. Ventinove anni, legale a Milano. Una certa complessità di motivi ne fa una delle voci più modulate di questa rassegna. È una poesia interiore, che si fonde all’ambiente, al paesaggio. Profondamente insistentemente ‘umana’(...)” e nel 1970 Edizioni ποίησις pubblica il suo primo libro di poesie Nell’esistere del magma.

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L’esperienza poetica di Carlo Invernizzi è imprescindibile dal legame con la natura e con il luogo di radici, Morterone, “silente conca di incontaminatezza sita ai piedi del versante orientale del monte Resegone a mille metri di altitudine” dove “senti l’evaporo incomprimibile dell’universo e ti colpisce la luce tutta mentale di fulgidissimi logoisbrendoli di spaziotempo che s’infugano sull’orizzonte impercettibili”. Interessato all’espressività poetica e alle problematiche teoriche delle arti figurative, è in rapporto di amicizia con i maggiori esponenti internazionali dell’arte visiva dell’ultimo cinquantennio. Dal 1986 promuove l’attività dell’Associazione Culturale Amici di Morterone, fondata dai figli Sostene ed Epicarmo e da alcuni amici con l’intento di fare concretamente rivivere Morterone, dopo lo spopolamento verificatosi negli anni 1960-1980, anche abbellendone il territorio con opere d’arte della più pura creatività all’insegna delle visioni scientificofilosofiche della poetica della Natura Naturans, di cui è autore, per farne un autentico segnale poetico. Nel 1985 il Centro ποίησις organizza presso la Sala del Grechetto di Palazzo Sormani a Milano con l’intervento di Silvio Ceccato, il libro di poesie Carlo Invernizzi. Di là dal muro (Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1984) con un’ampia introduzionestudio di Maria Vailati, docente di semiotica presso l’Università degli Studi di Bologna. Nel 1988 presenta alla Biblioteca Civica di Lecco il libro Natura Naturans. 7 poesie di Carlo Invernizzi, 6 litografie e un disegno a colori di Dadamaino, con introduzione di Simona Morini, edito da Vanni Scheiwiller e nello stesso anno il Centro ποίησις organizza alla Sala del Grechetto di Palazzo Sormani il libro Carlo Invernizzi. Leggere poesia oggi a cura di Susanna Tamplenizza, pubblicato nella collana Serie “Scandagli” diretta da Maria Vailati.

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Nel 1995 insieme allo scultore vignatese Sergio Milani fonda l’Associazione Culturale Nuova Vignate con il visionario intento di fare rivivere la cittadina anche culturalmente promuovendo, con la partecipazione delle amministrazioni comunali, numerose mostre d’arte e incontri con gli insegnanti e gli studenti. Nel 1996 invita a Vignate lo scrittore Gavino Ledda, già chiamato a Morterone nel 1991 per Tre serate a Morterone con lo scrittore Gavino Ledda, che presenta il libro Aurum Tellus. Nel 1996 firma a Morterone il Manifesto Tromboloide e disquarciata con i pittori Gianni Asdrubali, Bruno Querci e Nelio Sonego e nel 1997 espone dodici poesie nell’omonima mostra presso il Centro Espositivo della Rocca Paolina di Perugia, la Galerie Nothburga di Innsbruck e il Museum Rabalderhaus di Schwaz. Nel 1999 partecipa al Convegno Corpo e Natura: Trame del pensiero organizzato da Franco Rella presso il Teatro della Società di Lecco e alla mostra Tromboloide e disquarciata. Natura Naturans presso i Musei Civici di Villa Manzoni a Lecco, promossi dall’Assessore alla Cultura del Comune di Lecco Silvia Galbiati con la partecipazione del Comune di Morterone. Nel 2002 gli viene conferita la Croce di Cavaliere di Prima Classe dell’Ordine al Merito della Repubblica d’Austria e la Città di Melzo gli dedica, nel cinquecentesco Palazzo Trivulzio, una mostra che documenta il suo mondo poetico anche in relazione alle opere dei più significativi protagonisti dell’arte visiva contemporanea italiana e internazionale. Nell’occasione viene pubblicato il libro Carlo Invernizzi. Natura Naturans, edito da Libri Scheiwiller, contenente numerosi saggi critici riguardanti il suo mondo poetico nonchè suoi scritti interpretativi dei mondi creativi degli artisti Rodolfo Aricò, Gianni Asdrubali, Alan Charlton, Carlo Ciussi, Luigi Erba, Pietro Gentili,

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Sergio Milani, Mario Nigro, Pino Pinelli, Bruno Querci, Nelio Sonego, Günter Umberg e Rudi Wach. Il Comune di Pordenone, Biblioteca Civica, in occasione degli Incontri con la poesia e l’arte 2003, presenta, a cura di Chiara Tavella, il volume Carlo Invernizzi. Natura Naturans esponendo anche libri d’artista e sue poesie. L’anno successivo è invitato insieme ai poeti Flavio Ermini, Stefano Guglielmin, Tiziano Salari, Ranieri Teti e Ida Travi a tenere un incontro intitolato “Poesia e senso dell’essere” presso il Teatro San Lorenzo di Mandello Del Lario, mentre nel 2005 è invitato a leggere sue poesie durante l’incontro “Il tempo dell’ascolto” a cura di Gabriela Fantato insieme ai poeti Milo De Angelis e Giancarlo Majorino presso A arte Studio Invernizzi (Milano). Nel 2009 è invitato dal filosofo Massimo Donà al Festival della Filosofia di Cervia con Marcello Gombos per una performance poetico-musicale intitolata Il tempo della poesia con la partecipazione del filosofo Vincenzo Vitiello e del Massimo Donà Quartet. Nello stesso anno, con introduzione di Francesca Pola e l’intervento di Massimo Donà, presenta il libro di poesie Secretizie, edito da Mimesis Letteratura e Filosofia con postfazione di Vincenzo Vitiello, alla Galleria d’Arte Moderna Villa Reale di Milano e, su invito del Comune di Limbiate con l’Associazione AlboVersorio, a Limbiate, Villa Mella, con la partecipazione di Vincenzo Vitiello. Nel 2009 risulta finalista al Premio Nazionale di Poesia “Lorenzo Montano” con l’opera Secretizie e nel 2010, con la mostra Arte, Natura, Poesia. Interventi a Morterone, prende sempre più concretezza la visione poetica degli anni Ottanta con l’installazione all’aperto sul territorio morteronese di varie opere di artisti partecipi dell’iniziativa. Nel 2011 prende parte alla mostra Germineluce con Bruno Querci esponendo presso il Palazzo Municipale di Morterone sue poesie e libri con lui creati.

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Nei mesi di marzo e aprile 2012 il Comune di Milano, Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani, organizza la mostra Carlo Invernizzi: Secretizie a cura di Claudio Cerritelli e Luigi Sansone. Nei mesi di settembre e ottobre, il Comune di Portogruaro ripropone, a cura di Chiara Tavella, la medesima mostra presso la Galleria Comunale d’Arte Contemporanea Ai Molini. Nello stesso anno Francesca Pola e Paolo Bolpagni lo invitano a presentare la poesia Focalizzataluce... nella mostra Immagine della luce. Artisti della contemporaneità internazionale per Villa Clerici a Milano e il Neuer Kunstverein Aschaffenburg di Aschaffenburg, in occasione della mostra dei pittori Bruno Querci e Nelio Sonego, con i quali collabora da anni interagendo con il loro linguaggio con le sue poesie. Nel 2013 viene invitato da Elisabeth Claus a prender parte alla mostra Am Anfang war das Wort….??? presso il Museo QuadrART di Dornbirn in Austria. Nel 2013 in occasione della mostra Bild und Lyrik im Dialog. Gedichte von Carlo Invernizzi und Radierungen von Rudi Wach presenta il libro d’artista Diciotto poesie di Carlo Invernizzi nove falchi di Rudi Wach realizzato con l’artista austriaco; il volume viene esposto anche successivamente all’interno della mostra Rudi Wach. Kunst ist Leben al Tiroler Landes-museen Ferdinandeum di Innsbruck nel 2014 e Rudi Wach. Un falco tra le mani tenutasi presso il Museo Diocesano di Milano nel 2015. Nello stesso anno partecipa al Premio Lorenzo Montano risultando finalista nella sezione “opera inedita”. Il Comune di Lecco e il Comune di Morterone organizzano la mostra Morterone una soglia poetica. Natura Arte Poesia presso Palazzo delle Paure di Lecco durante la quale vengono esposte sue poesie e libri creati con gli artisti partecipi della ideazione del Museo di Arte Contemporanea all’Aperto di Morterone.

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Nel 2015 è stato invitato a tenere un incontro di filosofia e poesia intitolato Carlo Invernizzi. Natura naturans - Natura Naturata, in occasione della mostra Formae. Bonum, pulchrum, verum a cura di Massimo Donà presso il Monastero di Astino. Nel 2016 espone presso il Palazzo Municipale di Morterone sue poesie in dialogo con opere fotografiche di Raffaella Toffolo in occasione della mostra Partitura d’Ombra organizzata dal Comune di Morterone e dall’Associazione Culturale Amici di Morterone.

1. Intrapresa la professione di avvocato difende nella seconda metà degli anni Sessanta la libertà dei beats di Milano sia presentando un’esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano che nei processi a loro carico. In tre scritti pubblicati nel 1969-1970-1972 elabora l’innovativa teoria, che viene recepita dalla Giurisprudenza, secondo cui, oltre alle persone che riportano gravi lesioni a seguito di reato, hanno diritto di essere risarciti per il danno morale anche i loro famigliari per le sofferenze che patiscono in proprio a causa delle lesioni subite dai congiunti. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che introduce il diritto al risarcimento del ‘danno biologico’ partecipa ai pubblici Convegni organizzati per chiarire i principi in essa affermati, contestando, solitario, l’arbitraria interpretazione e applicazione che ne fanno la dottrina e la giurisprudenza a discapito dei danneggiati fino a che viene ufficialmente riconosciuta dall’ordinamento giuridico la validità della sua tesi.

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Bibliografia essenziale

C. Invernizzi, (Maria Vailati, Maria Garelli Ferraroni, a cura di), Nell’esistere del magma, Edizioni ποίησις, Milano 1970. C. Invernizzi, E. Bonfanti, Negli Acquivento. Sette poesie inedite di Carlo Invernizzi, sette litografie a colori di Emiliano Bonfanti, Il Cervo, Cassano d’Adda 1974. C. Invernizzi, C. Ciussi, Simmetrie. 6 poesie di Carlo Invernizzi, 6 acquetinte di Carlo Ciussi, Scheiwiller, Milano 1979. C. Invernizzi, I. Legnaghi, Ci si sposta. Una poesia di Carlo Invernizzi, un pastello di Igino Legnaghi, Edizioni 2 G, Verona 1981. C. Invernizzi, P. Pinelli, Di là dal muro. Una poesia manoscritta di Carlo Invernizzi, un disegno a collage di Pino Pinelli, Scheiwiller, Milano 1982. C. Invernizzi, Di là dal muro, introduzione di Maria Vailati, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1984. C. Invernizzi, R. Wach, Se qualcosa ti manca. Una poesia di Carlo Invernizzi. La ragazza con un fiore, una incisione di Rudi Wach, Scheiwiller, Milano 1984.

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C. Invernizzi, R. Aricò, Rosso blu rosso. Una poesia autografa di Carlo Invernizzi, un collage di Rodolfo Aricò, Scheiwiller, Milano 1985. C. Invernizzi, R. Guarneri, Chi sa d’entropia. Una poesia di Carlo Invernizzi, un acquarello di Riccardo Guarneri, Scheiwiller, Milano 1986. C. Invernizzi, (Tamplenizza, Susanna, a cura di), Carlo Invernizzi. Leggere poesia oggi, Serie “Scandagli”, diretta da Maria Vailati, Spazio Editrice, Milano 1988. C. Invernizzi, Frammentità, Galleria Nuova 2000, Bologna 1988. C. Invernizzi, Dadamaino, Natura Naturans. Sette poesie di Carlo Invernizzi, sei litografie e un disegno a colori di Dadamaino, introduzione di Simona Morini, Scheiwiller, Milano 1988. C. Invernizzi, A. Kalczyńska, Vortici inarrestabili. Una poesia di Carlo Invernizzi, un collage di Alina Kalczyńska, Scheiwiller, Milano 1988. C. Invernizzi, La pittura di Pino Pinelli e la sua apertura all’universo del senso, Associazione Culturale Amici di Morterone, Morterone 1989. C. Invernizzi, R. Guarneri, Schidie luce. Acquerelli di Riccardo Guarneri, una poesia di Carlo Invernizzi, “Collana del disegno - 6”, Edizioni Meta, Bolzano 1991. C. Invernizzi, N. Sonego, Logoisbrendoli, Artein Orolontano, Treviso 1996. Tromboloide e disquarciata. Poesie di Carlo Invernizzi, opere di Gianni Asdrubali, Bruno Querci, Nelio Sonego (Centro Espositivo della Rocca Paolina, Perugia, 11 gennaio - 2 febbraio, Galerie Nothburga, Innsbruck, 28 giugno - 25 luglio, Museum Rabalderhaus, Schwaz, 28 giugno - 23 agosto),

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catalogo della mostra, testi di Giorgio Bonomi e Elmar Zorn, interventi di Giovanna Bonasegale e Maria Vailati, Centro Espositivo della Rocca Paolina, Perugia; Provincia di Perugia, Perugia 1997. C. Invernizzi, N. Sonego, I colchici, Artein Orolontano, Treviso 1997. C. Invernizzi, N. Sonego, Scricciluce, Artein Orolontano, Treviso 1997. C. Invernizzi, R. Wach, Rudi Wach. La Casa dell’Acqua. La Fontana dei Fontanili. Carlo Invernizzi. La poetica della Natura Naturans, pubblicato in occasione della mostra Rudi Wach. La Casa dell’Acqua. La Fontana dei Fontanili (Palazzo Municipale, Vignate, 21 dicembre 1997 - 7 gennaio 1998), con un’intervista di Sergio Griffini, Gino Gervasoni e Simone Nava a Carlo Invernizzi, Associazione Culturale Nuova Vignate, Vignate 1997. Tromboloide e disquarciata. Poesie di Carlo Invernizzi, opere di Gianni Asdrubali, Bruno Querci, Nelio Sonego (Musei Civici Villa Manzoni, Lecco, 12 settembre - 3 ottobre), catalogo della mostra, testi di Giorgio Bonomi, Claudio Cerritelli, Lorenzo Mango, Enrico Mascelloni, Elmar Zorn, Comune di Lecco - Assessorato alla Cultura, Lecco; Musei Civici, Lecco; Associazione Culturale Amici di Morterone, Morterone 1999. C. Invernizzi, “La pittura di Pino Pinelli e la sua apertura all’universo del senso”, in Booklet 1 (Art Cologne, Köln), A arte Studio Invernizzi, Milano 1999. C. Invernizzi, “Alan Charlton plasma lo spazio ritmandone concretamente il respiro”, in Booklet 2 (Arte Fiera Bologna, Bologna), A arte Studio Invernizzi, Milano 2000. C. Invernizzi, “Le opere di Günter Umberg sono corpi di concreto colore”, in Booklet 3 (Art 31 Basel, Basel), A arte Studio Invernizzi, Milano 2000.

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C. Invernizzi, “The Tetrazoid Concreteness of Gianni Asdrubali’s painting / La concretezza tetrazoide della pittura di Gianni Asdrubali”, in Booklet 4 (Art Cologne, Köln), A arte Studio Invernizzi, Milano 2000. C. Invernizzi, N. Sonego, Talpemneme, Artein Orolontano, Treviso 2001. C. Invernizzi, “Il ‘mentale’ nella pittura di Mario Nigro”, in Booklet 5 (Art 32 Basel, Basel), A arte Studio Invernizzi, Milano 2001. C. Invernizzi, “Il creare pittura di Nelio Sonego e l’accadere in concrete immagini del suo mentale spaziotempo”, in Booklet 6 (ArteFiera Bologna, Bologna), A arte Studio Invernizzi, Milano 2002. C. Invernizzi, Natura Naturans (Palazzo Trivulzio, Melzo, 15 dicembre 2002 - 20 gennaio 2003, a cura di Claudio Cerritelli), monografia pubblicata in occasione della mostra, Libri Scheiwiller, Milano 2002. C. Invernizzi, N. Sonego, Canto silente, testi di Massimo Donà, Edizioni ποίησις, Morterone 2006. Morterone Natura e Arte. Interventi all’aperto (Morterone, 25 giugno - 25 ottobre 2006), catalogo della mostra, scritti di Carlo Invernizzi, testi di Claudio Cerritelli, Massimo Donà, Silvia Galbiati, Francesca Pola, Associazione Culturale Amici di Morterone, Morterone 2006. C. Invernizzi, Ingrumolita, Artein Orolontano, Roma 2008. M. Donà, Pura eco di niente, poesie di Flavio Ermini, Carlo Invernizzi, Ranieri Teti, Ida Travi, opere di Carlo Ciussi, Bruno Querci, Pino Pinelli, Nelio Sonego, Edizioni ποίησις, Morterone 2008. C. Invernizzi, Vipistrelliluce, Edizioni ποίησις, Morterone 2008.

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C. Invernizzi, S. Milani, Intrasgredibili... Una poesia manoscritta di Carlo Invernizzi, una scultura in legno di Sergio Milani, Edizioni ποίησις, Morterone 2008. C. Invernizzi, Secretizie, postfazione di Vincenzo Vitiello, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2008. C. Invernizzi, N. Sonego, Le stagioni della mente. Tre poesie di Carlo Invernizzi, tre disegni di Nelio Sonego, Edizioni ποίησις, Morterone 2009. Secretizie, operalibro di Carlo Invernizzi e Pino Pinelli, Edizioni ποίησις, Morterone 2009 C. Invernizzi, N. Sonego, Vipistrelliluce. Una poesia di Carlo Invernizzi, tre disegni di Nelio Sonego, testi di Claudio Cerritelli, Chiara Tavella, Edizioni ποίησις, Morterone 2009. Le stagioni della mente. Negli acquivento. Secretizie, operelibro di Carlo Invernizzi e Bruno Querci, Edizioni ποίησις, Morterone 2009. C. Invernizzi, R. Aricò, Oltre e Altrove. I segni dell’infinito, testi di Claudio Cerritelli e Massimo Donà, sette poesie di Carlo Invernizzi e due collage di Rodolfo Aricò, Edizioni ποίησις, Morterone 2010. Secretizie, operelibro di Carlo Invernizzi e Carlo Ciussi, Edizioni ποίησις, Morterone 2010. Nell’esistere nel magma, operalibro di Carlo Invernizzi e Nicola Carrino, Edizioni ποίησις, Morterone 1970-2011. C. Invernizzi, R. Wach, Secretizie - Falchi. Diciotto poesie di Carlo Invernizzi, nove acqueforti di Rudi Wach, un saggio di Massimo Donà, Edizioni duemilaundici, Milano 2011. C. Invernizzi, N. Toroni, Le vocali di Carlo Invernizzi ricordando Rimbaud. Cinque poesie manoscritte di Carlo Invernizzi, 6 impronte di pennello n. 50 di Niele Toroni, Edizioni ποίησις, Morterone 2011-2012.

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Lucentizie. Tre poesie manoscritte di Carlo Invernizzi, tre disegni di Nicola Carrino, operalibro di Carlo Invernizzi e Nicola Carrino, Edizioni ποίησις, Morterone 2011-2012. Bruno Querci, pubblicato in occasione della mostra Compresenze. Opere di Bruno Querci e Nelio Sonego. Poesie di Carlo Invernizzi (Neuer Kunstverein Aschaffenburg, Aschaffenburg 19 maggio - 8 luglio 2012), catalogo della mostra, a cura di Francesca Pola, Neuer Kunstverein Aschaffenburg, Aschaffenburg 2012. Nelio Sonego, pubblicato in occasione della mostra Compresenze. Opere di Bruno Querci e Nelio Sonego. Poesie di Carlo Invernizzi (Neuer Kunstverein Aschaffenburg, Aschaffenburg 19 maggio - 8 luglio 2012), catalogo della mostra, a cura di Francesca Pola, Neuer Kunstverein Aschaffenburg, Aschaffenburg 2012. Secretizie, operelibro di Carlo Invernizzi e Rudi Wach, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. C. Invernizzi, F. Morellet, Carlo Invernizzi, François Morellet. Sei poesie di Carlo Invernizzi, sei disegni di François Morellet, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. Secretizie, operelibro di Carlo Invernizzi e Francesco Candeloro, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. Lucentizie, operalibro di Carlo Invernizzi e Riccardo De Marchi, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. Secretizie. Cinque poesie manoscritte di Carlo Invernizzi, due collage di Grazia Varisco, operalibro di Carlo Invernizzi e Grazia Varisco, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. L. Foxcroft, C. Invernizzi, Carlo Invernizzi, Lesley Foxcroft. Sei poesie di Carlo Invernizzi, sei disegni di Lesley Foxcroft, Edizioni ποίησις, Morterone 2012.

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A. Charlton, C. Invernizzi, Carlo Invernizzi, Alan Charlton. Sei poesie di Carlo Invernizzi, sei collages di Alan Charlton, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. C. Invernizzi, M. Verjux, Carlo Invernizzi, Michel Verjux. Sei poesie di Carlo Invernizzi, sei disegni di Michel Verjux, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. C. Invernizzi, N. Sonego, Stoppiescricciolibruco. Tre poesie di Carlo Invernizzi, tre disegni originali di Nelio Sonego, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. C. Invernizzi, Secretizie (Biblioteca Comunale Centrale Palazzo Sormani, Milano, 13 marzo - 12 aprile, Galleria Comunale d’Arte Contemporanea Ai Molini, Portogruaro, 30 settembre 17 ottobre), catalogo della mostra, a cura di Claudio Cerritelli e Luigi Sansone, Edizioni ποίησις, Morterone 2012. Morterone: una soglia poetica. Natura Arte Poesia (Palazzo delle Paure, Lecco), catalogo della mostra, a cura di Epicarmo Invernizzi e Francesca Pola, poesie di Carlo Invernizzi, Comune di Lecco, Lecco; Comune di Morterone, Associazione Culturale Amici di Morterone, Morterone 2014. Partiture d’ombra. Fotografie di Raffaella Toffolo, poesie di Carlo Invernizzi (Palazzo Municipale, Morterone, 13 agosto - 11 settembre 2016), catalogo della mostra, a cura di Angela Faravelli, Associazione Culturale Amici di Morterone, Morterone 2016. Da vicino. “In ascolto dell’inudibile risuono dell’opera”, catalogo della mostra, a cura di Francesca Pola, poesie di Carlo Invernizzi, A arte Invernizzi, Milano 2016. N. Carrino, M. Donà, C. Invernizzi, Lucentizie. Carlo Invernizzi. Sub Specie Temporis. Massimo Donà. Ricostruttivi. Nicola Carrino, Edizioni ποίησις, Morterone 2016.

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C. Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo, Inschibboleth edizioni, Roma 2017.

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Indice

Vincenzo Vitiello Introduzione La voce, lo sguardo

p. 9

I Sui muri della mente... Sussulti di muraglia... T’arrivano alla mente confuse... Lucentizie sempre apparenti... Innevi dolcissimi... (scurimpenetrabile) Invertico strapiombo... Senza fine... Impervi... Sempre abbramo del niente... Splendenti... Tetro... Pruinalucenti... Soglie... Sempre muri di confine... Arsura del niente... In lunari silenzi... Addentro...

p. 29 p. 30 p. 31 p. 32 p. 33 p. 34 p. 35 p. 36 p. 37 p. 38 p. 39 p. 40 p. 41 p. 42 p. 43 p. 44 p. 45 p. 46

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II È tutto orizzonte... Altere non inalterabili... Pietre... Trapassano uccelli... Nudezza di prati... Collassata lucentità del verde... Catastrofi del niente... Protetto... Nell’insecco del ventoniente... Foglie nel vento... Nel ventosole... Nel ventoluna... Pratiroccia... Splendenteniente... Sull’invertico...

p. 49 p. 50 p. 51 p. 52 p. 53 p. 54 p. 55 p. 56 p. 57 p. 58 p. 59 p. 60 p. 61 p. 62 p. 63

III Stupore del niente... Sempre già morendo... Il mistero è lassù... Questo il rovello... Vestigia del niente... Non sul pianoro... (il cuculo) (la primavera) (il bruco) (le stoppie) Polilogia (i giunchigli) D’ogni niente...

p. 67 p. 68 p. 69 p. 70 p. 71 p. 72 p. 73 p. 74 p. 75 p. 76 p. 77 p. 78 p. 79

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(la betulla) Di crollo in crollo... (gli scriccioli) Di nessun niente...

p. 80 p. 81 p. 82 p. 83

Massimo Donà Postfazione Svanire è la ventura Su Carlo Invernizzi: l’inebrio del Suo canto

p. 85

Nota biografica

p. 99

Bibliografia essenziale

p. 105

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 2 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716131

Ha perfettamente ragione Vincenzo Vitiello, quando, nell’Introduzione a questo volume afferma: “Pochi scrittori – poeti, romanzieri, ma anche critici e storici, filosofi e scienziati – abitano il linguaggio al modo in cui accade a Carlo Invernizzi, poeta”. Le cui parole vogliono davvero essere “cose”. E, proprio per questo, prendono drasticamente le distanze da quelle che tutti pronunciamo ogni giorno… parole vuote, magari efficaci, ma sempre fraintese, impotenti o quanto meno fragili. Carlo Invernizzi cerca, infatti, una parola che sia in grado di essere la cosa stessa. La roccia, l’altura, la luce, il colore, il confine, il dolore, la gioia… devono dunque lasciarsi contorcere, dire, ma anche disdire, dalle parole in cui “dovranno” a tutti i costi trovare casa. Per questo, nessuno dei lemmi “intuiti” dal nostro poeta avrebbe potuto risolversi nella mera conformità a una sintassi e a una concettualità che, del mondo, non sarebbero mai riuscite neppure a lambire il cuore imprendibile. Lo stesso in relazione a cui, invece, Invernizzi osa; azzardando il disegno di uno sguardo che, trapassando inquieto, di soglia in soglia, sappia farsi davvero poesia. Carlo Invernizzi vive e lavora a Milano e Morterone. Fa parte del gruppo ποίησις fondato da Maria Vailati. Nel 2002 gli viene conferita la Croce di Cavaliere di Prima Classe dell’Ordine al Merito della Repubblica d’Austria. Tra le sue pubblicazioni: Nell’esistere del magma, Edizioni ποίησις, Milano 1970; Di là dal muro, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1984; Leggere poesia oggi, Serie “Scandagli”, Spazio Editrice, Milano 1988; Natura Naturans, Libri Scheiwiller, Milano 2002; Secretizie, Mimesis Edizioni, MilanoUdine 2008; Secretizie, Edizioni ποίησις, Morterone 2012.

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