Figure della crisi. Nuova ediz. 9788855290999, 9788855290296

Crisi e critica sono termini che appartengono al vocabolario della ragione occidentale fin dalle sue origini. Da allora,

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Italian Pages 240 Year 2020

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Table of contents :
Indice
Gulliver
Premessa
Sezione I Sapere e critica
Il filosofo sulla soglia della caverna
Essere, universalità, temporalità.
Metodo, fenomenologia e dialettica.
Il metodo riflessivo come crisi del metodo.
Sezione II Politica e rappresentanza
Populismo e crisi democratica in Italia.
In che stato è la democrazia rappresentativa?
Sezione III Religione e rappresentazione
«La vérité est un cri».
Idolo e concetto.
Crisi e filosofia della storia.
Indice
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Figure della crisi. Nuova ediz.
 9788855290999, 9788855290296

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Giulio Goria Giacomo Petrarca a cura di

Figure della crisi

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G u l l i ve r

Collana diretta da: Francesco Valagussa

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Massimo Adinolfi, Marco Bruni, Carla Canullo, Massimo Donà, Rossella Fabbrichesi, Giulio Goria, Eugenio Mazzarella, Giacomo Petrarca, Giuseppe Pintus

Figure della crisi a cura di Giulio Goria e Giacomo Petrarca

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© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 9 - giugno 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-099-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-029-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Riss in einer Wand © Animaflora PicsStock – stock.adobe.com

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Premessa di Giulio Goria e Giacomo Petrarca

Tra filosofia ed Europa esiste una sorta di attrazione fatale irrinunciabile, un richiamo reciproco in qualche modo fondativo per entrambe queste idee. Se la filosofia si è perfettamente riconosciuta con la propria matrice europea, così l’Europa, ancora prima di diventare l’idea diffusasi dopo la battaglia di Poitiers e magistralmente descritta da Lucien Febvre, è stata una produzione di senso incomprensibile senza l’apparato teorico e pratico offerto innanzitutto dalla filosofia. In fondo Edmund Husserl evocava questo intreccio quando, nella sua Crisi delle scienze europee, osservava che «le vere battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie». Parole, queste, scritte nel pieno dei tragici anni Trenta del Novecento, che colorano con un tratto netto e deciso non soltanto un quadro di storia del pensiero, o secoli di idee e concetti in conflitto, ma il terreno autentico su cui il rimando tra Europa e filosofia è potuto avvenire. Questo terreno è l’esperienza della crisi. Se infatti la riflessione di Husserl sulla crisi delle scienze possiede un profilo politico, esso non riguarda un ambito specifico e limitato dell’esperienza umana; politico è piuttosto il modo con cui gli uomini si relazionano storicamente, conservando le ragioni che rendono possibile darsi fini, “valori” e “ideali”

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entro una stessa comunità. Politico, dunque, era il discorso husserliano sulla scienza europea perché metteva in questione l’uomo come tale. D’altra parte, qualche secolo prima, anche lo sguardo orientato all’Aufklärung, che sottopose al tribunale della critica ogni sapere e metodo, ogni autorità, ogni supposta sovranità, non aveva forse questo specifico carattere politico? Quello, cioè, che concerne l’essere umano come tale, im Ganzen, anziché volgersi a un contenuto piuttosto che a un altro, o prediligere una parziale presa di posizione su qualcosa come tramite per risvegliare il sonno dogmatico dell’uomo. Seguendo questo filo, allora, va riconosciuto che nella crisi è inciso il senso propriamente speculativo del giudizio e della decisione (krisis). Ogni figura della crisi è una figura speculativa, diretta all’universale o, potremmo anche dire, un’articolazione di senso che mira a sollevare il velo di oblio o indifferenza naturale che copre l’orizzonte nel quale noi con le nostre prassi – teoretiche, politiche e religiose – siamo immersi. A questo punto, anche solo chiedere come l’idea di crisi sia entrata in filosofia sembra insensato. Crisi, semplicemente, è filosofia, sin dal detto consapevole di Parmenide, che era appunto parola sua, umana, dimostrativa e dunque “critica”, per quanto confortata dalla Dea. E poi, anche se è persino superfluo ricordarlo, agli occhi dello stesso Kant il congedo dall’epoca in cui la metafisica poteva vestire ancora i panni della regina delle scienze, più che rimpianto per ciò che è stato, rappresenta la nuova possibilità, la più propria, a disposizione della ragione come determinazione dei limiti dell’intelletto. E se dai territori rarefatti della filosofia prima scendiamo sulla grande storia e politica, come non riconoscere che soltanto con il capitalismo moderno la modernità è diventata l’età delle crisi; quel capitalismo, scientificamente compreso, ha fornito infatti il formidabile terreno per storicizzare il punto di vista critico in potenza politica di lotta. Anzi, si può andare oltre: le ambizioni imperiali perdute e gli epocali declini che ogni grande

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nazione europea ha patito sono stati tutti l’occasione «di porsi a una distanza riflessiva da se stesse». Così scriveva Habermas in un articolo pubblicato nel 2003 sul quotidiano «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e firmato insieme a Jacques Derrida; voleva forse anche osservare che il modo in cui l’esperienza della crisi appartiene all’identità europea va al di là degli usi che può farne una certa “retorica della crisi”, così in voga quando si tratta di risollevare le sorti della costruzione comunitaria. Ma insomma, secondo Habermas, anche l’Europa politica è quello che è grazie soprattutto alla coscienza storica che si è data e al fatto che ha deciso di essere quello che è. Potenza della critica, dunque, o pathos della distanza, proprio ciò che del Socrate platonico più colpiva Nietzsche, il quale compì l’ultimo e coerente passo, esigendo che in nome della verità la stessa verità fosse sottoposta a critica, e così, di fatto, esaurendone anche l’ultima pretesa universalistica. A noi le domande sorgono proprio a questo punto. Che fine ha fatto, oggi, questa distanza critica? E se dopo il sigillo nietzschiano essa è stata in qualche modo consumata e abolita, a quali cause riportare questa cancellazione, quali conseguenze derivarne e in quale modo, se possibile, ricostruire un punto di vista critico che giudichi del mondo come un tutto? Alcune delle questioni qui appena abbozzate e molte altre di pari rilevanza sono state al centro di un convegno, dal titolo Figure della crisi, organizzato il 19 e 20 novembre 2019 dal centro di ricerca “Diaporein” presso la Facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. L’idea di questo volume è nata a ridosso dell’intensa e proficua discussione avvenuta in quei giorni, che ebbe il merito di aprire molte più questioni di quante ne chiuse. Un ringraziamento particolare, oltre che a tutti gli invitati e ai partecipanti che intervennero, va al prof. Francesco Valagussa, direttore del centro “Diaporein”, e al prof. Massimo Donà.

Sezione I Sapere e critica

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Il filosofo sulla soglia della caverna di Rossella Fabbrichesi

Fin dal titolo apparirà chiaro che, per parlare di filosofia, politica e sapere, intendo tornare al mito platonico della caverna e leggerlo in chiave prevalentemente politica. Come, per altro, viene indicato da Platone nei passi che dirò, e anzitutto in 521d1, dove ci si interroga su quale tipo di conoscenza appartenga a chi si è emancipato dalle oscurità e vuole affidarsi alla forza della filosofia. «Quale sapere possiede un tale potere?», chiede Socrate, dopo aver raccontato la storia dei prigionieri ed essersi riferito proprio al sapere nuovo (ai mathemata) che dovrà essere proposto da coloro che hanno compiuto l’ascesa verso la luce del bene. Perché tutti devono avere in chiaro che si dovrà trattare di un pensiero diverso, rinnovato, alternativo rispetto a quello tradizionale, da costruire e da impartire ai nuovi uomini che si fanno avanti. In questione è esattamente tale prospettiva nel mito, più ancora che la scala della conoscenza tante volte evocata. È dunque in questione il tema della paideia, dell’edu­ cazione. Si «impara» (e si insegna) ad alzarsi verso il cielo, e quella del filosofo è una askesis faticosa e da mettere sempre

1.  Cito da Platone, La Repubblica, testo greco a fronte, a cura di M. Vegetti, BUR, Milano 2006.

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alla prova; una conversione – psyches periagoghé –, addirittura, che conduce a veder giusto. Il filosofo appare come un atleta dell’anima in grado di compiere esercizi ginnici particolarissimi per attivare i «muscoli della mente» (sempre Platone). Per porre in opera (en-ergon) la dynamis che vuole mostrare di avere e che intende tradurre in conoscenze appropriate. Ma andiamo con ordine: nei passi iniziali del libro VII della Repubblica (514a) si chiede esplicitamente di paragonare la natura degli uomini, in rapporto all’educazione o alla mancanza di educazione, a una condizione quale quella di prigionieri in una caverna, che non possano vedere il cielo e che siano costretti a una postura immobile, con gli occhi volti a un muro («tali da poter guardare solo in avanti»), dove si avvicendano le ombre di oggetti d’ogni genere e di statuette che vengono esposte da altri uomini, alle loro spalle e alla luce di un fuoco acceso. Non entro nei dettagli: il mito è molto noto. Voglio solo sottolineare come, ancor prima di rilevare la natura politica di questo discorso, Platone esordisce evocando l’educazione, la paideia, strettissima alleata della filosofia nelle sue pratiche di elevazione degli esseri umani. Nessuna giustizia, nessun potere giusto, senza educazione degli uomini, senza un nuovo sapere. Mi soffermo solo su alcuni aspetti che ci interesseranno nel commento. Platone parla di descrizione atopica, strana, fuori luogo, eppure totalmente assimilabile alla vicenda che ognuno di noi vive frequentando la realtà, ridotta perlopiù al fioco bagliore di un’ombra su di uno sfondo scuro, quando non vi è sapere adeguato a comprenderla. Già qui è prefigurata una situazione politica: uomini che dominano su altri uomini, operando per far loro credere che sia reale ciò che in verità non lo è. Dispositivi di potere e dunque di sapere, direbbe Foucault. E si noti quel richiamo alla posizione china, posturalmente immobile e concentrata su ciò che sta dinanzi. Siamo noi quei prigionieri, con lo sguardo rivolto

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verso il basso e la vista accorciata, che non sa spaziare, tutti concentrati sui nostri dispositivi elettronici e renitenti a volgere la testa altrove. Socrate chiede al suo compagno: non credi che se un prigioniero fosse liberato e costretto ad alzarsi, a girare il collo, ad accorgersi della luce alle sue spalle, tutto questo all’inizio lo disturberebbe, anzi non potrebbe proprio sopportare la visione di ciò che è reale veramente, gli occhi abbacinati, i muscoli contratti, la paura di guardare fuori? Questi prigionieri, come dirà molti secoli dopo La Boétie, non riescono a emanciparsi dalla loro servitù, ne gioiscono invece. Non desiderano veramente liberarsi dai ceppi che li incatenano. Ecco, è proprio in questa immagine che bisogna rintracciare l’insorgenza della filosofia: il filosofo è l’uomo che rifiuta di essere schiavo. Il suo sapere deve servire principalmente alla liberazione dalla schiavitù, da ogni schiavitù: la schiavitù agli eventi esterni che irrompono nell’esistenza spesso travolgendola, la schiavitù alle passioni che ci dominano impedendoci di ragionare; la sottomissione agli altri, ma anche alle nostre stesse opinioni non esaminate, alle nostre illusioni. Anzitutto c’è questo, alle radici del gesto filosofico, e Platone lo dice con tutta la sua forza nella Repubblica. La filosofia è prima di ogni altra cosa un atto di liberazione etica e politica, di disubbidienza al potere, di distacco dalle forze che premono dall’esterno e da quelle che urgono dall’interno. Saper comprendere con la forza della ragione ciò che accade è così raggiungere la tranquillità dell’animo. Ma una volta che il prigioniero si è liberato – exaiphnes, con un atto improvviso, con una radicale conversione in cui d’un tratto ci si colloca in un’altra dimensione – non è naturale, chiede ancora Platone, che egli torni nella prigione e provi a convincere gli altri prigionieri ad andare con lui, liberandoli dai ceppi? Ma certo, nulla di più naturale. La comunità esige

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che ci si aiuti a vicenda, e chi ha trovato una via migliore per vivere felice deve aiutare – educare – gli altri a seguirlo. E se i compagni non volessero farlo? E se trovassero «ridicolo» che chi è asceso al piano del giorno tornasse con gli occhi offuscati, quasi accecato, raccontando di aver visto cose che non si possono credere, e purtuttavia insistesse per portare lassù anche loro? Non sarebbe comprensibile, dice Socrate, se lo volessero afferrare e uccidere? Il filosofo ha dunque visto – e sa (eidenai) – ma la sua visione è del tutto individuale e impartecipabile. Nessuno gli dà ascolto, nessuno vuole imitarlo. Non è un’immagine di serenità, quella che porta con sé, ma di inquietudine, di fatica, di pericolo. Chi gli crederà, e chi vorrà andare con lui o accettare il suo invito a una vita diversa? E si noti la contrapposizione tra l’uomo solo, a difficoltà liberatosi, e la massa indistinta di coloro che sopravvivono in cattività e non se ne dolgono per nulla. La filosofia torna spesso su questa antitesi: il desto e i dormienti, il disubbidiente e i servi, il saggio e la massa degli uomini insipienti. Non solo, Platone aggiunge una nota molto importante in 518d: l’educazione al sapere non è semplicemente un riempimento di conoscenze in un’anima che ne è priva, come se infondessimo la luce in un occhio privo di vista. Essa deve invece partire da un’esigenza etica, da un desiderio: quello di volgersi verso la visione del bene e del giusto (la periagoghé di cui abbiamo parlato all’inizio). Non è sufficiente accogliere gli insegnamenti, è necessario cercarli attivamente, essere pronti a una radicale trasformazione, agire su di sé – attuare la cura di sé. Nessuna conoscenza e nessun apprendimento senza la tensione etica verso un mondo altro, senza il desiderio di liberarsi dall’assoggettamento agli altri, alle ombre del vero, alle parti irascibili e concupiscibili dell’anima. Ri-orientare la visione, dunque, abituarla a vedere giusto. Procedere dall’insubordinazione alla trasformazione, fino al disassoggettamento e all’esercizio psicagogico.

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Veniamo allora alla parte dove l’etica si lega maggiormente alla politica. A partire da 519c Socrate cerca di convincere il suo interlocutore che essere filosofi significa saper educare, liberare e governare con giustizia gli altri. Amore per il sapere, paideia e dynamis politica sono strettamente uniti. Dunque, sarebbe insensato che chi compie il percorso di askesis non volesse partecipare agli altri ciò che ha visto e condurli con sé insegnando loro modi e posture atte a migliorare. Inoltre, Platone è attento a sottolineare come non sia adatto a governare la città chi è privo di educazione e conoscenza, ma neppure chi nella vita esercita solo il sapere, senza avere la capacità di trasformarlo in agire. Il nostro lavoro (ergon) di fondatori, scrive Platone, è quello di portare con noi i nostri compagni a vedere la luce del bene, e una volta vedutala, costringerli a tornare giù nell’antro per liberare tutti gli altri, spiegando loro la via meravigliosa che li aspetta. Nostro compito di uomini di sapere, dotati del coraggio della verità, è dunque quello di essere uomini di potere che usano tale dynamis al fine di migliorare l’armonia della comunità cui apparteniamo. Non per noi stessi compiamo l’ascesa, ma per salvare il corpo comune della kallipolis. Non per noi stessi godiamo delle conoscenze acquisite, ma per allargare il potere conquistato a tutta la polis. Platone insiste moltissimo su questo movimento essenziale di katabasis e anabasis: bisogna ridiscendere mille volte (520c) nella caverna, dedicarsi ai suoi abitanti senza stancarsi. Non è filosofo chi non è politico, e viceversa. «La città e la filosofia – scrive Vegetti – si salvano insieme o insieme periscono»2. Ed è esattamente questo oggi il nostro problema. L’assoluta assenza di conoscenza, di competenza, di consapevolezza dei nuovi saperi, dei nuovi problemi, delle nuove forze che emergono, comporta la devastazione della politica e la mancata progettazione di un futuro. Scriveva Deleuze che la filosofia è creazione 2.  M. Vegetti, Introduzione, in Platone, La Repubblica, cit., pp. 8-249: p. 187.

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dei concetti e i concetti devono sempre rispondere all’urgenza di un problema (di un problema vivente, avrebbe aggiunto Peirce), che si impone dal fuori e ci induce a pensare altrimenti3. Oggi la difficoltà nasce proprio dal fatto che abbiamo strumenti concettuali sfibrati, desueti, oramai inadatti a spiegare fenomeni che premono sulla nostra stessa esistenza quotidiana e che non riusciamo a governare. Ecco dunque la prima aporia (nel senso letterale dell’incapacità di decidere tra due strade diverse) che si manifesta al filosofo: da una parte, il suo intento è paidetico ed emancipatorio, egli è una guida, un avanguardista, un episcopo; dall’altra, proprio tale intento lo mette di fronte a un pericolo immane, quello di perdere il proprio ruolo eminente, di vedersi totalmente estromesso dalla comunità degli eguali, che ne ridicolizzano le visioni. Dire che il filosofo si è sempre dibattuto in questa aporia è forse un’ovvietà, eppure essa non è stata pensata fino in fondo. Perciò dico che il filosofo si trova dentro e fuori dalla caverna, sempre sulla soglia, indeciso se starsene accucciato al riparo delle proprie certezze o provare a elevarsi e invertire la direzione del proprio sguardo; indeciso se porsi a capo degli insipienti che lo attorniano e gli sono fratelli, o starsene da parte, limitandosi a coltivare il proprio particulare, i propri specifici mathemata disciplinari. Credo sia inutile soffermarsi, perché sono fin troppo note, sulle pagine della Repubblica che delineano il ruolo dei filosofigovernanti, partendo dall’assunto del quinto libro secondo il quale o i filosofi devono governare o i governatori devono imparare a essere filosofi. Politica e filosofia si devono riunificare (dynamis politiké e philo-sophia, la potenza della comunità e l’amore per la sophia, la saggezza). Bisogna dunque approdare

3.  Cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Introduzione, in Id., Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, pp. IX-XXI.

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al governo dei filosofi (473d), all’alleanza tra potere e sapere. La filosofia deve intrecciarsi al tessuto comunitario, farsi pienamente forza politica, virtù politica. Ma di che genere di sapienti stiamo parlando? Non degli antichi maestri di verità, non dei sofisti, ma di un nuovo tipo di amanti del sapere. Bisogna far uscire il socratismo dal suo spazio di minorità e far tornare i filosofi al centro della scena pubblica, senza rieditare l’antico conflitto tra filosofia e città, come accade nell’Apologia o nel Fedone; bisogna superare la “tragedia” del filosofo. Tutta la Repubblica, scrive Vegetti, è attraversata da un pessimismo antropologico (gli uomini sono animali da gregge), sostenuto da un inguaribile ottimismo pedagogico e politico (questi stessi uomini si possono allevare insegnando loro cosa è giusto)4. Dunque, la comunità degli amici (koina ta ton philon, come leggiamo anche nel Fedro) potrà diventare una comunità istituzionalmente pubblica, fondata sulla comunanza di donne, figli, beni, proprietà private, e dominata da un archicon genos (444b), «stirpe per natura piccolissima», rappresentata dai filosofi, da coloro che sanno e che amano il sapere. Eccoci di nuovo di fronte all’aporia: il filosofo appartiene a un genere superiore, atto al comando, dominatore e primo (archicon), eppure, se può governare gli insipienti, è perché si associa con essi e mette in comune tutto ciò che ha, a partire dal sapere, che è sempre dialogico e compartecipato. Come scriveva Eraclito, il logos è pubblico, o non è. C’è dunque una commistione di piani, fin dall’antichità, che domina la filosofia: essa non vegeta che in uno spazio comune, ma appartiene solo a menti «demoniche» (così Platone descrive Socrate nel Simposio), capaci di governare e che sanno valersi del potere in funzione armonica e regolativa. Il potere deve

4.  Cfr. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2000, cap. V, pp. 109-158.

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essere saldamente in mano ai migliori, agli aristoi, ma poi esso va redistribuito in una circolarità collettiva e pubblica che finisce per nasconderne l’arché e far emergere solo l’intonazione plurale (si dirà «i figli, i padri, le madri…», cambierà l’uso del linguaggio in riferimento ad ogni assetto singolare, e cambieranno di conseguenza le condotte, 463d-e). E in quest’intonazione plurale, inevitabilmente, il filosofo rischia di perdersi e di essere venduto al mercato degli schiavi. Perché il comune è anche l’ordinario, il banale, l’abituale, il medio… Gli stessi interrogativi potrebbero essere posti da prospettive diverse di lettura. Nel progetto platonico prevale la dynamis o la philia? La saggezza dei pochi o la forza che deve pacificare la città e le sue moltitudini dilaniate dalla stasis? Socrate come singolarità eccezionale o quel corpo comune di attori che Platone accalca intorno al suo personaggio principale, in questo dialogo più che in ogni altro della sua produzione? Vale di più, insomma, il carattere atopico e infine individuale del pensiero che procede per pure visioni, per intuizioni (cfr. Simposio, 175b), o il lavoro analitico dell’intelletto che scambia domande e risposte con l’altro «in amicizia» e produce un corpo di sapere che è un risultato comune e, come tale, viene incarnato abitualmente nel vivere di ogni giorno, e dunque molto spesso anche svilito e snaturato, omologato – ma l’omologhia non è poi l’aspirazione di ogni dialogo socratico? D’altronde, sono chiarissime le parole scolpite in pietra della Settima Lettera5. «In effetti, la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall’anima e da se stessa si alimenta»

5.  Platone, Lettera Settima, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 1806-1829.

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(341c-d). E questo apre a un altro tema sul “buon uso” della filosofia, che la settima lettera ci impone di pensare più di ogni altro scritto platonico. La nostra disciplina è qualcosa che si può comunicare ad altri, dottrinalmente, per contenuti? O nasce eminentemente nella compartecipazione di una vita vissuta in comune, nel corpo a corpo con un maestro, con amici che siano amici anzitutto del sapere – koina ta ton philon? La filosofia va vissuta ergo kai logo e anzitutto con le azioni, le forme di vita, l’esercizio pratico e l’askesis, come direbbe Foucault. Se il pensiero non si traduce in azione comune, se non produce una vita, un corpo, una costituzione (politeia) comune, semplicemente non è6. Su questo rifletteva probabilmente il grande pensatore in viaggio verso Siracusa, dove cercava di dar vita al progetto legislativo del quinto libro. Ma è stupefacente che il filosofo “idealista”, l’iniziatore della metafisica, il creatore di un oltre-mondo iperuranico abbia potuto scrivere in questa struggente lettera – forse non a caso ritenuta a lungo apocrifa – che andava verso la Sicilia «non per le ragioni che altri credettero, ma per un senso di vergogna che provav[a], soprattutto al pensiero di essere soltanto un facitore di parole [logos], incapace di intraprendere di [sua] volontà opera [ergou] alcuna» (328c). Come andò a finire lo sappiamo tutti, e il suo naufragio è di nuovo un segno preciso della solitudine del filosofo, della sua posizione di costante pericolo nell’agorà pubblica – forse anche dell’inefficacia delle sue arti comunicative o produttive. Come scrive Carlo Sini, però, il filosofo è sempre in viaggio verso Siracusa7. Sempre su una soglia: la soglia della caverna – con l’angoscia del decidere se stare fuori o dentro –, la soglia del salpare – sempre 6.  Su questi temi cfr. il mio In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario, Mimesis, Milano-Udine 2012. 7.  Cfr. C. Sini, Filosofia e scrittura, in Id., Opere, a cura di F. Cambria, vol. III, t. I, Jaca Book, Milano 2016, sez. II, cap. I, pp. 199-210.

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incerto se restare o andare. Via sulle navi, filosofi!, scriveva Nietzsche. Il tema diviene allora: cosa dobbiamo fare della filosofia? Di questa episteme platealmente improduttiva, eppure essenziale alla vigilanza del pensiero, all’attività di risveglio delle coscienze, all’audacia nella ricerca della verità? Che genere di “pratica” è la filosofia? Quali sono le opere che deve generare8? Fin dall’antichità i dilemmi dell’azione filosofica riguardavano, come abbiamo già notato, l’incertezza sul ruolo politico o puramente teorico del sapiente, e l’opportunità di prodursi in un’attività di tipo pubblico o meramente privato. Ma questa difficoltà, che il pensiero greco dominava in modo adeguato, anzi, dalla quale, si potrebbe dire, era germinata la sua stessa necessità, nella nostra epoca diviene un ostacolo assolutamente insuperabile, che spesso è impossibile oltrepassare con grazia. È questa, io credo, la ragione dell’insoddisfazione profonda di coloro che oggi si dedicano alla filosofia. Anzitutto, perché, come è evidente, si trovano privi di una agorà pubblica in cui si creino le condizioni di un vero ascolto, ma soprattutto perché oggi è scomparsa quella comunità ampia e intellettuale che c’è quasi sempre stata intorno ai filosofi, e che rappresentava un insieme di coscienze vigili cui fare riferimento per ogni diversa questione. La filosofia oggi non è più, in nessun senso, eco della prassi che l’ha generata, né è produttiva di effetti sociali e politici di alcun rilievo. Infatti – e mi si scusi il ragionare un po’ schematico – la filosofia nei tempi odierni non è quasi mai atto creativo, ma si presenta perlopiù come epistemologia o sguardo storico, asservimento alle scienze dure o ripetizione di temi rinvenibili in passati più o meno lontani.

8.  Su questi temi mi permetto ancora di rinviare al mio Cosa si fa quando si fa filosofia?, Cortina, Milano 2017.

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Ma la nostra disciplina – questo io credo, con Platone – è anzitutto impegnata in un lavoro, in un compito pratico, in un’opera. Qual è il “reale” della filosofia?, si chiede Michel Foucault, nel suo magistrale commento alla Settima Lettera9. Cosa la determina come amore per il sapere? Perché bisognerà pur affrontare il tema del tutto pragmatico relativo all’efficacia di questa nostra scienza, o saremo tutti rossi di vergogna quando ci si chiederà cosa ne facciamo dei nostri studi. La filosofia ha un’efficacia etopoietica, nei termini di Foucault10, un’efficacia pratica, non epistemica: essa mira a trasformare gli individui, cioè in definitiva a dotarli di maggiori poteri nei confronti della vita, e non a renderli più dotti, facendo accumulare loro più saperi. Nell’antica Grecia fare filosofia non era una professione, ma un modo di impegnare la propria esistenza nel mondo qualificandone ogni passo. Perdendo questi orizzonti, noi abbiamo scisso pratica e teoria, restando ammaliati dalla pienezza dei significati concettuali e convincendoci che dietro di essi ci siano realtà ugualmente piene, da sondare con puri strumenti razionali. Dobbiamo invece ritrovare la matrice pragmatica dell’atteggiamento filosofico, e tornare all’idea della filosofia come prassi, techne tou biou. «[Essa] è una pratica che affronta la propria prova di realtà attraverso il rapporto con la politica. È una pratica che trova nella critica dell’illusione, dell’inganno, dell’imbroglio e della lusinga la sua funzione di verità. È infine, una pratica che trova l’oggetto del proprio esercizio nella trasformazione del soggetto da parte di se stesso e del soggetto da

9.  Cfr. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), tr. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2009. 10.  Cfr. soprattutto, per l’uso e la spiegazione di questo termine, M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2011.

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parte dell’altro»11. Ma quali sono precisamente i pragmata della filosofia, qual è il suo reale? Il reale della filosofia è costituito interamente dalle sue pratiche, risponde Foucault12. Pratiche di lettura, ascolto, dialogo, interpellanza, vita in comune, mimesi formativa, ma anche, come abbiamo visto, pratiche di ascesi e anabasi, visioni luminose, coraggio nell’azione e nell’ideazione. Tutto ciò contribuisce a farci vedere un filosofo al lavoro, nelle sue operazioni fungenti. Ma, soprattutto, l’ergon della filosofia è il lavoro di sé su di sé, aggiunge Foucault. La filosofia mira alla trasformazione – enkrateia, governo di sé e degli altri. Se interpreta e crea concetti senza condurre a una trasformazione, senza produrre alcun effetto, ha dismesso il suo compito. Vorrei allora concludere dicendo che il fare filosofico è non solo politico, ma sempre, per sua stessa natura, paidetico. Filosofia e psicagogia sono una cosa sola. Ricordo ancora solo questo, molto brevemente: le iscrizioni al nostro Corso di Laurea, perlomeno all’Università degli Studi di Milano, sono in costante ascesa. Quest’anno abbiamo 850 matricole. C’è un intenso bisogno di comprendere, ragionare, ridestarsi, essere «vigilambuli»13. Non sembra? Eppure, testardamente, i giovani vogliono sapere, imparare, vogliono leggere di filosofia, stare tra di loro a parlarne, e fare di tutto ciò una pratica esistenziale, un modo diverso di abitare il mondo. E non solo i giovani, come si sa. Se siamo buoni maestri di filosofia, non scriviamo articoli accademici destinati a pochi colleghi, ma ci dedichiamo agli allievi. È questa la nostra destinazione eminentemente politica. Sempre e di nuovo, l’educazione della città: dynamis politiké.

11.  M. Foucault, Il governo di sé, cit., p. 336. 12.  Cfr. ivi, p. 231. 13.  Termine utilizzato da F. Zourabichvili nel suo commento a Spinoza: Spinoza. Una fisica del pensiero, tr. it. di F. Bassani, Negretto, Mantova 2012.

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Essere, universalità, temporalità. Dell’Essere, come figura della “crisi” di Massimo Donà

1 La filosofia inizia come domanda intorno al “senso” della cosa. La filosofia, cioè, non si limita a raccontare il “dato”; a render conto del suo volto fenomenico. A disegnarne la struttura evincendone i paradossi; a mostrare che l’ordine della manifestazione è intrinsecamente “problematico”; che le questioni da esso messe in forma appaiono in contraddizione con il metron in relazione a cui vorremmo poterle com-porre. La filosofia non si limita, dunque, ad accogliere l’essente e a misurarne l’esistenza; o meglio, a com-misurarsi al suo imperium. La filosofia, dall’essente, pretende un “senso”. Essa “non” lascia essere l’essente – neppure Heidegger, che tanto avrebbe insistito in questa direzione, poteva evitare di esercitare il proprio atto di violenza nei confronti di quel che è. E non tanto, per una svista, o qualcosa del genere. Non tanto per una qualche disattenzione, o qualche passo falso, sfuggito al suo controllo. Neppure Heidegger, cioè, avrebbe potuto evitare di accogliere l’essente all’interno di una disposizione interrogante, che è in quanto tale “violenta”. Non si tratta dunque di logomachia o di inavvertita ricaduta nel pensiero oggettivante; si tratta piuttosto di qualcosa che concer-

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ne il pensare nell’atto stesso del suo costituirsi, secondo il modo in cui la filosofia stessa l’ha costituito, sin dal suo primo vagito. D’altro canto, la filosofia si apre come filosofia solo là dove riconosce l’essere dell’essente. Ossia, solo là dove essa incontra l’inimmaginabile: appunto, l’essere dell’essente. Per questo, di là dalla forma del suo dire, di là dalla non argomentatività del suo scrivere, Parmenide è già “filosofo”. Perché riconosce che, nel mostrarsi del mondo, a mostrarsi è innanzitutto il semplice fatto del suo essere. E quindi che pensare l’essente significa pensare che lì, nel mondo che c’è, appunto, qualcosa viene all’essere. Che la questione che l’essente ogni volta ci pone, nel suo farsi innanzi come semplicemente “pensabile”, è la questione del suo “essere”. E per ciò stesso riconosce che, a darsi, come “questione” per il pensiero, è, in primis, il senso e il destino di quell’essere che, comunque – ecco il punto! –, non potrà che ripresentarsi come “dato”, a fronte ad ogni tentativo di spiegazione dell’ordine dell’essente. Come presupposto di ogni esplicitazione causalistica. Di ogni riconduzione all’arché; di ogni rinvenimento di quanto, del dato, dovrebbe mostrare appunto le ragioni, o anche, le vere e proprie condizioni di possibilità. L’essere, insomma, costituisce il punto di crisi per quel logon didonai di cui la filosofia è forse la più raffinata espressione. Questa, dunque, la situazione: da un lato la filosofia è pretesa di senso, ovvero domanda ri-volta alla perfetta de-terminazione di ciò che peraltro si offre sempre secondo un senso già dato, dall’altro la medesima è incontro con l’essere; ovvero, con quel “dato” irriducibile che non si lascia più interrogare, ché di ogni risposta costituisce appunto ciò che dalla medesima è comunque sempre presupposto, e di cui non è mai il conoscere a rendere ragione – e che per questo del conoscere pro-duce la più radicale krisis. O forse, il paradossale, ma destinale “compimento”.

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Ma cerchiamo di capire in che senso. Se il conoscere è necessariamente uno scire per causas – ed Aristotele l’avrebbe mostrato con la massima coerenza e il più lucido rigore –, ciò significa che il fenomeno, nella sua determinatezza, nel senso con cui sempre ci si offre (ciò che appare, appare sempre nel presentarsi di un certo significato), rinvia sempre a qualcosa, di là dal quale, quel senso e quel significato non sarebbero quel che sono. Fermo restando che tale qualcosa, nell’ente che lo reclama quale sua condizione di possibilità, appare appunto in forma de-terminata. Ossia, appare come un “distinto” che, in quanto tale, di ciò che lo determina, mostra solo l’esser altro da sé. Mostrando ciò che, nella sua determinatezza (nella determinatezza dell’ente che appare e di cui cerchiamo di conoscere il senso), non è inscritto se non come il circoscrivente. Come altro, come ciò che l’essente in questione esperisce sempre e solamente nella forma dell’estraneo, ossia come il diverso da sé, come l’escluso. Come “causa” altra, appunto, dall’effetto – ovvero, dall’essente che, nella sua determinatezza, appare appunto come “reso possibile” da una causa diversa da sé, e proprio per ciò appare come “ef-fetto”. Il che significa: fattoda quel che lo de-termina. Perciò conoscere l’essente significa saperlo ricondurre alle sue cause; alle sue condizioni. A ciò da cui esso è-fatto. Da cui esso è reso ef-fetto. Ma anche qualora si fosse rinvenuto tutto quel che determina l’ente di cui riconosciamo l’esser effetto (e che quindi, per quanto già dotato di un qualche significato, dice sic et simpliciter il suo non esser ancora veramente conosciuto, sin tanto che non siano conosciute tutte le sue cause), e innanzitutto qualora ciò fosse in qualche modo possibile, ci ritroveremmo al cospetto di qualcosa che è già presente nella determinatezza che, sin da subito, si dà a conoscere secondo la sua propria di-

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stinta determinatezza (sì che non si abbia bisogno di percorrere tutta la catena delle cause, per incontrarlo, quale condizione di irrisolvibile “meraviglia” e “attonito stupore”). Incontreremmo cioè l’essere. Ché, anche la causa prima, se è tale, “è”. È causa prima, anzitutto. Ossia appare come “data” al pensiero cui avrebbe comunque procurato la soddisfazione di un conoscere pieno e finalmente concreto (per dirla con Hegel). Noi cominciamo cercando di conoscere le ragioni dell’esserci di quel che è; e ci ritroviamo di fronte al medesimo essere il cui determinarsi aveva appunto mosso la nostra ricerca di senso. Ché, anche la causa prima, qualora potesse esserci, quale determinazione della totalità delle condizioni della cosa di fatto presente, sarebbe. Ma il suo ipotetico de-terminarsi come essente valevole al modo di “causa prima “comporterebbe la possibilità di un’ennesima interrogazione; e dunque la necessità di proseguire nella ricerca delle ragioni anche del suo de-terminarsi appunto come causa prima – da cui il manifestarsi del suo non esser affatto causa-prima. D’altro canto, l’abbiamo già visto, se la totalità fosse determinabile, non sarebbe totalità. Anch’essa potrebbe infatti “essere” solo in virtù di altro, di un “distinto” che la determinasse quale sua ineliminabile condizione di possibilità. Ci si potrebbe chiedere a questo punto: potrebbe forse darsi un essere non-determinato, capace di valere, esso sì, proprio in quanto indeterminato, quale vera e propria causa-prima? No, ché l’essere è sempre un esserci; ovvero, è sempre l’essere di un questo o di un quello. Eppure l’essere, l’essere che noi rinveniamo nell’esserci, non è mai risolvibile nel “ci” che lo rende per l’appunto esperibi-

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le. L’essere appare sempre, in ogni esistente, come negazione del proprio “ci”; perciò si può dire il suo non essere riducibile ad alcuna determinatezza. Per lo stesso motivo Aristotele non poteva considerare l’essere un “genere”. Ovvero assimilarlo a tutti quei predicati che dicono sempre e solamente il determinarsi di un “essente”. Il suo “ci”, per l’appunto; e non il suo essere. Anche l’essere che dovesse determinarsi come “essere”, infatti, non sarebbe il proprio “ci”; anche di esso dovremmo dire che è l’essere che-è. Se l’essere si determinasse come “essere”, anch’esso sarebbe – ma è appunto di quest’ultimo essere (ovvero del predicato di ogni “determinatezza”; anche dell’“essere”, qualora quest’ultimo potesse determinarsi) che la filosofia riconosce l’inquietante mistero. E non dell’essere che, per esso, ancora una volta, sarebbe ciò che è, ovvero sarebbe l’essere che-è. Che qualcosa sia, infatti, significa che esso è qualcosa, ovvero il qualcosa che in esso e per esso, per l’appunto, è. Riconoscere qualcosa significa infatti de-terminarlo (Kant docet); significa ri-conoscerne la determinatezza, ossia riconoscerlo come qualcosa che può muovermi all’interrogazione e alla volontà di senso solo nella misura in cui sappia apparire come già in qualche modo distinto, ossia come “un qualcosa”, come uno di molti (almeno due – anche se, là dove i due si determinassero, non potrebbero che determinarsi in relazione ad un terzo, e così all’infinito). Ecco, la possibilità di dire l’essere; di dire la sua indeterminatezza. Certo, per il fatto che qualcosa si determina, tale qualcosa “è”. Esiste appunto come distinto, come determinatamente identificato da una qualche differenza. Ma il conoscere ri-conosce l’esserci di qualcosa proprio in quanto qualcosa, ossia l’essere di ciò che c’è, dice la propria costitutiva in-determinatezza. Perciò anche l’eventuale causa prima, essendo causa prima, facendosi così riconoscibile, “sarebbe”. Ossia confer-

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merebbe il permanere, anche in essa, come indeterminato, da parte del suo essere. Ma se l’esserci di qualcosa evoca la domanda in quanto la determinatezza del suo esserci rinvia ad altro che tale determinatezza non-è, e dunque in quanto il senso che appare reclama un discorso che renda ragione di tale suo determinarsi, della sua differenza, del suo esserci così com’è, insomma, se l’esserci evoca la domanda, la reclama, la impone nel momento stesso in cui si espone come esserci di qualcosa, allora il domandare doveva finire per prender coscienza del fatto che, di là dalla possibilità di spingersi più o meno avanti, nella teoria delle cause e degli effetti che ogni determinato rende percorribile e più o meno chiaramente riconoscibile, di fronte ad esso rimane comunque aperto, sino alla fine (ammesso che una fine possa esserci), il problema della intrinseca indeterminatezza dell’essere (dell’esser-ci di qualsiasi possibile determinatezza – anche di quella dell’eventuale totalità). Che non precede, in nessun senso, il determinarsi del determinato, ma si costituisce in-uno nel costituirsi del suo esserci come quel determinato che esso è. Si costituisce, cioè, in quanto, proprio per tale suo determinarsi, e in esso, il determinato “è”. L’indeterminatezza dell’essere sembra insomma risultare dal determinarsi – quale effetto del medesimo. Ma in verità esso non è neppure un effetto del determinarsi; in quanto, effetto, in senso proprio, del determinarsi, è appunto solo la determinatezza. O meglio l’essere di una determinatezza. Il suo esserci. O anche: il determinarsi dell’essere. L’essere, cioè, come essere di qualcosa. Insomma, l’essere non è qualcosa; perché è sempre l’esserci di qualcosa. Non è qualcosa, perché non sta al di là di alcun qualcosa; non è un determinante, e dunque né rende possibile l’essere di ciò che è, né risulta dal determinarsi del qualcosa come un essente. Ma è tale determinarsi.

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L’essere accade nel determinarsi come quel certo determinato da parte del determinato; come il suo contra-distinguersi, come il distinguersi rispetto ad un altro che quel certo determinato, per l’appunto, non-è. Da cui il dover essere distinto da parte del non-essere che ogni determinatezza rende diversa dalle altre (dicendo appunto tale diversità) rispetto al “non” che ogni determinato fa essere, dicendo il suo stesso essere come tale. Facendo essere, cioè, non come determinante, ma come evento stesso del determinarsi del determinato – che, proprio in quanto così determinantesi, e in tale suo determinarsi, per l’appunto, “è”. Un “non”, quest’ultimo, che non dice non-essere, ma essere, per l’appunto. Che dice l’essere indeterminato, in quanto “essente”, da parte di ogni determinato. Senza per ciò stesso – per quanto appena rilevato – dire altro dalla determinatezza in questione. Ma dicendo proprio quella, nel suo esser altra da altre determinatezze. Dicendo cioè il suo esserci come “altra” da tutto ciò che è altro-da-essa. O meglio che essa non-è. Certo, l’essere è ni-ente, potremmo anche dirlo; ma non nel senso del suo esser “altro”, “differente” dalla determinatezza che è, dal suo essere essente sempre e solamente nella propria determinatezza – in ciò che, nell’altro-da-sé, può avere al massimo la propria causa; mai il proprio “essere”. Ma cosa significa dire che l’essere è niente in quanto indicante solo l’indeterminatezza del determinato? Significa innanzitutto metter fuori gioco la domanda filosofica per eccellenza; quella che suona così: perché l’essere e non il niente? Ché, in verità, ad essere è sempre e solamente il ni-ente – o meglio, la negazione della determinatezza, che significa: la determinatezza nel suo negarsi, ossia nel suo essere. Nel suo determinarsi. Non a caso l’essere è solo verbum; e mai sostantivo

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(come sostantivo l’essere può venire usato, sia pur impropriamente, solo come segno della totalità delle determinatezze, o al massimo, come sostituto – massimamente equivoco, comunque – di ente, come modo approssimativo ed improprio per indicare l’esserci di una determinatezza, e dunque, ancora una volta, come attestazione del semplice determinarsi da parte di un determinato). L’essere, insomma, in quanto indeterminato, dice quella indeterminatezza che va a costituirsi come semplice impossibilità di rinvenire la determinante ultima (la causa prima) del determinato. O meglio, come indicazione del non esser ultimo da parte di alcun suo (del determinato) determinante. Qualcosa è, insomma, perché la sua determinatezza non è determinabile! Perché la sua parzialità non è tale; mancando quel tutto che dice il semplice esser ultimo da parte di ciò che non può esserlo (ossia, che dice l’impossibile), infatti, neppure la parzialità può dirsi tale; o meglio deve negarsi (pur potendo esser considerata parte di un’altra parzialità, infatti, la parte non è parte neppure di quest’ultima, ma di ciò che la eccede, e che nessuna determinazione potrà però risolvere in qualcosa di cui la parzialità possa esser detta veramente parte). Ma di cosa è negazione, dunque, tale negazione? Di cosa parliamo quando parliamo di parzialità o di parte? Cosa appare quando un determinato appare come essente, ossia si determina? Di sicuro non una parzialità. Ma anche questo è problematico. Perché, anche per dire che non si tratta di una parzialità, dovremmo poter dire cosa essa di fatto non riuscirebbe ad essere. Se la parzialità non può apparire, come facciamo a rilevare tale impossibilità? Come, senza che appaia qualcosa di cui si possa rilevare appunto l’impossibilità? Il fatto è che qualcosa appare; appare dunque il suo distinguersi; appare il suo essere de-terminato, senza che possa in alcun

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modo apparire la verità della sua determinatezza (il noumeno, avrebbe detto Kant). O anche: ciò che davvero la determina. In quanto, tutto ciò che potremmo indicare quale suo determinante, è a sua volta de-terminato; e dunque v’è sempre altro che ancora la determina. Altro che il discorso può rilevare come il doventeci essere; ma che di fatto non appare. Perciò l’altro – il “vero” altro – è sempre quello che non appare; tutto ciò che appare come “altro” dalla cosa originariamente interrogata, infatti, in quanto appare come tale, ossia come suo (della cosa in questione) determinante, “non è altro” da essa; ma è suo (sempre della cosa in questione) momento costitutivo. È ciò che in essa e per essa si determina. Ma ciò che in essa si determina è comunque sempre anche il non-ancora-compreso nel determinato di fatto presente. Ovvero, ciò che non ha alcun’altra determinatezza se non quella che dice il suo essere “negazione” della determinatezza di fatto presente. E quindi, l’in-determinato. Ciò che in essa (nella determinatezza interrogata) si determina, cioè, non è altro che la sua stessa in-determinatezza. Il suo non esser quel che è: ossia un determinato. Quel che in essa appare è il non apparire della vera determinatezza di fatto presente. Da ciò la domanda filosofica. E la domanda di senso. Ché, il significato che appare rinvia ad un senso; ovvero, al non apparire di quel che appare; al non apparire di ciò che in verità appare. Ragione originaria dell’erroneità del manifesto. Erroneità di quel che appare; fermo restando che, ad apparire, è sempre quel che, veramente, nella determinatezza presente, appare e si determina nel modo in cui si determina – si determina cioè nell’erranza costituita dal determinarsi di quello che in verità non lo è (determinato). Dal suo “essere”, per l’appunto. Per questo, il non esser mai ultima, da parte di nessuna delle condizioni di fatto rinvenibili, è, per il determinatamente mani-

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festo, condizione di irresolubile indeterminatezza; ragione cioè del fatto che, di ogni sua ipotetica condizione, si dovrà rilevare il suo stesso determinarsi a partire da “altro” (dal non apparente – ovvero, dalla negazione della determinatezza manifesta), da un “altro”, però, che non appare e non è quindi determinato (o meglio, si dà solo come negazione della determinatezza di fatto sempre manifesta). Da un altro, insomma, che non è “un altro” – ogni determinatamente “altro” facendo infatti già parte della determinatezza manifesta. Ma riposa nella determinatezza manifesta come sua semplice negazione; mai riducibile all’eteron di platonica memoria. Ossia, come il suo “essere”. Come il suo esser “data” quale semplice negazione di ciò che l’umano intelletto può di fatto de-terminare; “data”, dunque, per il fatto che ogni volta l’intelletto deve riconoscerla come non istituita dal proprio atto determinante. E dunque come estranea al medesimo; ossia come “data” ad esso. Ché, se dipendesse dal proprio “porre” (dal proprio atto-determinante), tale datità sarebbe un “posto” e dunque un determinato. Ossia un momento del determinatamente manifesto. Ma essa – la negazione della determinatezza manifesta – nega il manifesto; o meglio, il porre che determina il determinatamente manifesto la trova (tale “negazione”) nel determinarsi (per l’azione determinante sua propria) di un non-determinato. Come il suo “esserc-ci”. Come il “ci” di un essere – come esserci di quel che c’è. O anche: come indeterminatissima positività; la stessa che finirebbe per darsi anche in relazione a quella che dovesse configurarsi come causa-prima – negando dunque il suo stesso (della supposta causa prima) esser “prima”. Ovvero, negando che questa o quella (ogni questo e ogni quello) possano dirsi cause-prime. Appunto perché “sono”. Ecco perché qualsivoglia determinato, per il suo stesso irragionevole determinarsi, “è”. Essendo, cioè, solo per un determinarsi che fa essere proprio nella misura in cui testimonia il

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non potersi mai dire semplicemente determinato da parte del determinato. Per il suo negare la propria determinatezza, negandola nel semplice atto del suo “essere”. Nell’atto stesso, cioè, del suo determinarsi. Nell’atto in virtù del quale tale determinarsi si palesa come il determinarsi, non facendosi mai “determinato”, da parte del determinato che c’è. Che c’è, pur esprimendo l’irrisolvibile indeterminatezza propria di ogni atto determinante. E del suo risultato. Pur esprimendo, insomma, l’esistere di ciò il cui “esserci” dice sempre e solamente l’indeterminatezza sua propria (del determinato che c’è). D’altro canto, ogni volta, nell’esistere di quel che esiste, ad esistere è il non determinatesi che è sempre determinatamente manifesto. Il volto fenomenico del noumeno che sempre in verità c’è; l’erroneità costitutiva di un vero che da nulla potrà mai esser determinato – neppure dal nulla. Come l’essere, che proprio per questo non-è (cfr. il nostro L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano-Udine 2008). Dato che, se fosse, sarebbe un determinato, e non l’essere che anche di esso (se fosse) dovremmo appunto “predicare”. E dunque non può che vivere come “non” anche della propria ipotetica determinatezza. Insomma, se c’è una domanda filosofica, essa è resa possibile da fatto che il determinato, ovvero, il significato ogni volta manifesto, appare come indeterminato – ossia, come “essente”. O anche: come l’esserci dell’indeterminato; come il suo (dell’indeterminato) stesso determinarsi. Perciò ogni significato alimenta una domanda di senso – dove il “senso” allude appunto all’impossibilità del significato che c’è (o, che è lo stesso, all’indeterminatezza del suo esser sempre e comunque determinato – al suo non esser quel che è). Perciò il significato non può mai soddisfare. Perciò la domanda filosofica non è una domanda relativa al significato (che potrà sempre essere più articolato di quanto già non sia – ma mai

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potrà soddisfare il bisogno di senso, che nasce appunto dalla consapevolezza del fatto che, anche solamente “essendo”, il determinato che c’è, parla della propria intrinseca indeterminatezza, ovvero del suo non esser quel che, di sé, il medesimo riesce di fatto ogni volta a dire). Perciò la filosofia, come già abbiamo rilevato, nasce come domanda intorno all’essere; resa possibile dall’aprirsi dello sguardo sull’indeterminatezza da ogni significato necessariamente “pre-supposta”. Presupposta come evento del suo stesso determinarsi – ma non come “altro” significato, in qualche modo precedente il determinarsi dell’indeterminato. Già posto, cioè, prima del porsi di ciò che viene per l’appunto interrogato. È infatti solo nel darsi dell’interrogazione, o anche, in virtù dello sguardo di cui essa si mostra capace, che, in quel che riesco a determinare come verità del determinato, posso riconoscere il mistero del suo esserci. Riconoscendo, per l’appunto, che tale determinatezza – quella di fatto manifesta – non è ciò che di essa ogni volta riesco a dire. E che in essa, nella sua determinatezza, tale erroneità appare nell’apparire del suo semplicissimo “esserci” – nell’apparire del semplice determinarsi di ciò che può determinarsi progressivamente, solo perché non è mai ancora determinato. Che può determinarsi in modo sempre più articolato, perché ogni volta quel che potrò ancora produrre per un atto costitutivamente de-terminante (rinvenendo ogni volta nuove determinanti come in esso già da sempre operanti) mostrerà nuovamente di non essere quel che è. Che sempre “altro” sarà possibile rinvenire come già operante nella sua già effettuata determinatezza. Già valevole, cioè, come effetto delle cause che di volta in volta potrò rinvenire per l’atto determinante costituente il mio intelletto. Appunto perché, ogni volta, quel che de-termino sarà appunto un de-terminato. Qualcosa di necessariamente rinviante ad “altro” ancora. Ad un altro che sarà ancora e sempre esso medesimo de-terminato. Perciò, se

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un altro che già determina il determinato ha da esservi, di esso so già che non sarà la vera determinatezza che ora c’è; perché anch’esso, ogni volta, rinviante ad altro ancora. Dove, ogni volta, tale alterità va saputa come già realizzatasi nella determinatezza che c’è (se non fosse così, quel che c’è non sarebbe quel che è). Perciò l’apparire di quel che c’è è l’apparire dell’originaria erroneità del vero. Non solo; ma è anche il rendersi ogni volta manifesto – allo sguardo filosofico – del fatto che ad esserci è sempre l’impossibile. Ché quanto c’è non ha mai ragioni sufficienti per esserci. Anche per il fatto che il suo esserci è originariamente infondato. Senza ragioni. Perciò la determinatezza presente, che di fronte a tale presa di coscienza, appare come mancante di ragioni, esige che il conoscere proceda innanzi e riproponga il proprio sguardo interrogante volgendolo anzitutto all’essere di quel che c’è – ossia, alla sua infondatezza. Alla sua datità; a quel che, nella determinatezza presente, non dipende mai dal mio atto determinante. Ovvero, alla sua (della determinatezza presente) costitutiva indeterminatezza. A ciò che in essa dice il “non” della medesima; a quel che non sarà mai alcun “altro” determinato (altro dalla determinatezza in questione). Ciò che riconosciamo appunto nel semplice esserci della determinatezza; un atto, un verbum, un’azione – quella del determinarsi del determinato. Il quale, appunto, non è mai dato, ma sempre e comunque costituito (o posto come tale). Costituito da un’azione che è essa stessa, dunque, il non-determinato; ciò che è dato. Il cui svolgersi, il cui produrre significati, cioè, è dato. Pur non essendo mai dati i significati medesimi; che sono invece sempre costituiti. Ma anche questo non è del tutto vero; infatti, anche i significati sono costituiti a partire da una datità che, solo, avrebbe potuto avviare il processo interrogante… ossia la loro progressiva costituzione. Che, proprio per questo, sarebbe meglio definire ri-costituzione. O anche, risignificazione.

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Quando mi interrogo, infatti, ho sempre già a che fare con un certo significato. Con una più o meno complessa significatività. Che sta a simboleggiare, proprio essa, dunque, la datità del processo stesso di significazione; che, apparendo, non può che apparire esso medesimo come significato. Ossia come dato allo sguardo interrogante e risignificante. Come dato intorno a cui un’interrogazione sembra potersi in qualche modo produrre. Come datità del determinarsi medesimo; come datità originaria. Quella stessa che l’interrogazione, condotta al suo scopo, non potrà che tornare a ri-conoscere nella forma dell’essere dell’essente, o della sua determinatezza. Ecco perché l’idea dell’essere, secondo Rosmini, va concepita come idea originaria della mente; come presupposto che ogni significazione indica quale sua indeterminata condizione di possibilità. Come condizione di possibilità che nessun significato potrà mai esaurire e circoscrivere; e dunque come condizione di possibilità che dice propriamente una vera e propria condizione di impossibilità. Dicendo per ciò stesso l’indeterminatezza di tutto quel che mi vien dato come significato. Dicendo la sua irrisolvibile datità; ciò che, in esso, dice appunto il semplice “essere” suo proprio. Ovvero, lo stesso suo “determinarsi”. Il quale è sempre nei significati che ogni volta il dubbio filosofico riapre e rende ri-determinabili; rendendone evidente l’insufficienza o meglio la peraltro sempre intrascendibile erroneità. Una sacra erroneità, potremmo anche dire; sacra perché originaria, perché data in ogni atto determinante come non risultante dal medesimo. Come eccedente e insieme destituente qualsivoglia determinazione della medesima eccedenza. Come parola che incombe su ogni altra parola, supportandone l’irrisolvibile erroneità, ed aprendola ad un senso che del vero e del falso, nonché della loro vuota contrapposizione, saprà custodire la sostanziale e comunque irriducibile inaffidabilità.

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Da ciò il mistero dell’essere – cui anche molti grandi artisti avrebbero saputo o cercato di corrispondere (come nel caso di Magritte). D’altro canto, tale “parola” indica proprio per questo il raccogliersi di ogni significato nell’orizzonte della medesima indeterminatezza. Mai potrebbero darsi, infatti, più indeterminatezze, tra loro determinatamente distinte. Indica cioè l’indeterminabile identità che in ogni distinto si de-termina. Ossia, si distingue, anche se non da sé, ma dal proprio distinguersi, e dunque dal proprio esser essa medesima ab origine distinta. Nel distinguersi dell’indeterminabile identità, infatti, a distinguersi è l’identità in quanto distinta; in quanto non è quel che è – in quanto non è il distinto che, nel distinguersi, per l’appunto, si distingue. Perciò l’identità di ogni distinto non abita se non il distinguersi di ciò che, solo in quanto così distinguentesi, e solo in tale suo distinguersi, può istituire la propria determinatezza. Ovvero, il proprio chiamare in causa tutto ciò che, distinguendosi da essa, può de-terminarla, o meglio può dire e rendere possibile una determinatezza mai realizzata davvero come quella che pur tuttavia è anche sempre presente (sia pur come ciò che non è mai quel che è). Perché il distinguersi non dice mai l’alterità assoluta di quel che non è “un altro”, ma sempre e solamente l’alterità relativa in relazione a cui l’identità dice appunto il costituirsi di una scena intrascendibile – la cui intrascendibilità, solamente, chiama in causa l’altro impossibile che “nonè-un-altro”. L’alterità che non può esservi o determinarsi in alcun modo; e che proprio perciò dice l’altro nel medesimo – o meglio, nella sua stessa intrascendibilità. Come ciò che, nel medesimo, si manifesta appunto come impossibile. E dunque come la sua (del medesimo) stessa impossibilità. Come negazione di cui il medesimo indica il luogo dell’unico possibile manifestarsi; nella forma del non esser quel distinto che è, da

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parte di ogni distinto. Ossia del non esser quel che è, da parte di ogni determinatezza. A distinguersi, infatti, è sempre una qualche determinatezza. Ovvero, ciò che non è quel che è – che non è il distinto che è, appunto perché, a manifestarsi, in esso, è sempre lo stesso mondo: quello che appare in relazione ad ogni altra determinatezza. Quel mondo che mai si de-termina, peraltro, se non nel determinarsi di un diverso che non è il diverso che è. Un mondo che non si determina se non nel differire intrascendibile, che, proprio in quanto intrascendibile, è sempre tale nel suo esser diverso da un diverso, ossia nel non esser mai tutto il mondo che c’è (ossia nel suo esser sempre e comunque di fatto trascendibile); e che proprio per questo non è mai quel che è – non è mai, cioè, alcuna delle determinatezze in cui ogni volta si manifesta come tale (manifestandosi tale mondo sempre come diverso… ossia come uno tra i mondi che necessariamente esistono, di là da quel che appare nella determinatezza in cui esso si fa ogni volta presente). Ecco perché la determinatezza si individua. Ecco perché il distinto si presenta come identità; come identità delle molte determinatezze che esprimono, in quanto tali, la determinatezza presente, esprimendola peraltro nell’esibizione sempre della stessa identica esistenza. Quella che, di quel che è presente – e che è presente nella forma determinata che gli compete –, fa appunto un “esistente”. Sempre il medesimo, in ognuna delle sue determinatezze. Da cui il loro non essere quel che sono: ossia, delle diverse determinatezze… le diverse determinatezze che esse comunque non-sono. O meglio, che sono, negando di esserlo, e dicendo per ciò stesso la presenza di una esistenza – sempre la stessa. Ecco perché ognuna delle cose che possono muoverci all’interrogazione, evoca un senso che il suo significato, per l’appunto, “non-è”. Ecco perché il suo significato, per quanto in

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qualche modo determinato, non soddisfa; e la domanda filosofica la muove a ri-determinarsi. A dire cioè la sua vera determinatezza. Ecco perché di fronte all’enigma del senso, ossia dell’identità che tutte le distinte determinatezze finiscono per restituire, l’intelletto e dunque il conoscere non possono che trasfigurare tale individualità (la stessa da cui avrebbe tratto origine la domanda medesima); ossia, non possono trovare momenti di pace se non nelle universalità – ognuna delle quali, per l’appunto, non-è mai ciò che in essa e per essa verrà all’esistenza. Fermo restando che tutto quel che esiste, esiste solo nella determinatezza che rileviamo per l’appunto “esistere”. Il conoscere, insomma, mosso dall’enigma dell’individualità (ossia, dell’esistere – mosso, cioè, dal mistero dell’essere), non può che rispondere in modo strabico, rispetto alla cosa di cui ogni volta cerca appunto la ragione. Ossia, guarda all’individuo, ma rintraccia universalità eidetiche; guarda all’indivisibilità del molteplice sempre di fatto esistente, ovvero al suo esserci come esistenza di una sempre identica individualità, ma la spiega nell’atto stesso con cui ne dispiega le mai de-terminate determinatezze. Ossia, percorrendo la piana degli universali allo stesso modo in cui già l’amante della conoscenza di platonica memoria avrebbe cercato di attraversarla con la necessaria disposizione contemplativa. Ecco perché la risposta alla domanda di senso non può che produrre significati; ossia muoversi sul piano della loro perfetta de-terminatezza – quella che solo agli “universali” evocati da Platone, per l’appunto, compete. Non è un caso, forse, che i tasselli di cui è fatto il logos siano tutti rigorosamente “universali”. Così come non è sicuramente un caso che ogni esistenza sia riconducibile ad un genere e ad una specie. E che esprima una differenza specifica. Come avrebbe mostrato una volta per tutte Aristotele. Ma allo stesso

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modo non può essere un caso neppure il fatto che ad esistere siano sempre e solamente “individui”. Che l’essere si manifesti cioè sempre in forma rigorosamente individuale. L’essere, infatti, non distingue; ossia non determina alcunché, ma dice appunto “il semplice determinarsi” del determinato: dicendo per ciò stesso il suo “semplice esistere”. Quell’esistere che non distingue un questo da un quello; ma di ogni questo e di ogni quello dice appunto il non esser mai quei distinti che sono – dicendo la loro indeterminabile identità. Indeterminabile ma sempre evidente in ogni effetto determinato. Come l’esserci, in esso e per esso, appunto, di “una” perfettamente indivisibile esistenza. È infatti sempre il medesimo esserci a presentarsi in questa e in quella esistenza (in ogni esistenza) – quello che in ognuna dice appunto il darsi sempre del medesimo esistente: del mondo che c’è. E del suo esser comunque de-terminato, pur nella contemporanea intrascendibilità che di fatto gli compete. Questo, dunque, l’essere che muove il domandare filosofico. L’unità che la conoscenza non può far altro che de-terminare in vista di una impossibile totalità. Ovvero, dell’ultimo che non può esservi. E quindi in vista dell’impossibile. Perciò l’identità che muove la ricerca filosofica si ripresenta tale e quale alla fine della medesima (nella fine sempre contingente che determina questo o quello dei suoi mai esauriti sentieri). Perché le determinatezze che troveremo come risposte alla domanda di senso saranno sempre e comunque degli “esistenti”; ossia si offriranno all’esperienza che potremo farne sempre e solamente nella forma individuale che ad esse di fatto compete. Perciò tutti i concetti che potrò cercare di circoscrivere e in qualche modo definire saranno sempre e comunque presenti nella mia esperienza come esistenze individuali (da ciò, potremmo sospettare, la convinzione secondo cui gli universali dovrebbero essere risolti in puri “nomi”, in quanto tali, asso-

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lutamente privi di consistenza). Di ogni concettualità si dovrà cioè riconoscere, da ultimo, che esiste; ovvero, che essa è la determinatezza qui ed ora esistente, nella forma individuale che nessun’altra sua definizione potrà credere di poter semplicemente ripetere. Per questo l’universalità è sempre e solamente ricordata, in senso proprio. Aveva ragione Platone. Anamnesi è insomma il vero conoscere, là dove lo si intenda come atto del de-terminare. Ricordare ciò che ora già “esiste”, e dunque è individuo. Ciò che ogni presente non può che offrire come negazione della determinatezza sua propria. Come “passato” che già evoca il proprio futuro e lo invita a farsi esso medesimo ricordare; sì da determinare quel che ora non-è ancora il determinato che è – appunto perché la sua determinatezza non è più. Ed è insoddisfacente; perché altro deve già esserci come presentefuturo; e tramutarsi in speranza, o anche in fede nell’estraneità assoluta di quello che il presente è destinato a non rinvenire, se non nello spazio di un’individualità che sarebbe vera (ossia consapevole della propria falsità) solo là dove sapesse di potersi fare semplice “ricordo” di ciò che, ogni volta, non è ancora veramente quel che è. In questo senso il conoscere è un instancabile tentativo di sottrarre l’esistente alla propria destinale indeterminatezza. Di dire quel che è, ma soprattutto di dirlo in forza di un’identità che sia finalmente perfetta determinatezza, e dunque perfetta distinzione della propria positività; anzi, in una identità che potrebbe essere davvero tale solo in una determinatezza eidetica di cui non si potesse più dire neppure che è. In un’identità che potesse essere ritenuta immortale, appunto in quanto determinatamente e definitivamente “altra” dall’intrascendibile orizzonte del determinato. Quello in cui, appunto, ogni determinatezza “è”; e dunque “si nega”, negando per ciò stesso d’essere l’intrascendibile determinatezza impossibilitata a trasformare il proprio non-essere-quel-che-è nel definitivo es-

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serci di “un altro”. Di un “significato” de-finibile e finalmente libero da quel discorrimento che, nel farsi anelito propriamente filo-sofico, vuole il proprio impossibile compimento. Volendo, dalla determinatezza, ciò che per essa è assolutamente impossibile; ossia la risposta ad un logon didonai che non sa affidare l’impossibile alla sua già effettuata impossibilità – stante che proprio l’esistente funge da prova del fatto che l’impossibile è tale, e che è tale solo nella già da sempre realizzata (effettuata) determinatezza di quel che mai lo è (determinato). Per questo il conoscere è ri-volto all’impossibile. E destinato ad un vero e proprio delirio; destinato cioè alla paradossale ricerca della condizione di possibilità dell’esserci di quel che, se è (come accade ad ogni determinatezza), è proprio in quanto ad essersi già da sempre determinata è la sua stessa impossibile determinatezza. Dunque, il conoscere vuole ridurre l’impossibile ad una ragione possibilitante; che è per l’appunto il massimamente impossibile. D’altronde, come il conoscere avrebbe potuto seriamente corrispondere all’impossibile se non con una pretesa impossibile? Ossia, muovendosi verso un telos in grado di riflettere l’impossibilità che ogni volta gli si impone di saper adeguatamente ri-conoscere? E muovendosi verso di esso nella forma che, più di tutte, di tale paradosso, avrebbe potuto farsi specchio realmente fedele? Ossia nella forma della predicazione.

2 Ogni forma del dire “conoscitivo” si costituisce infatti in quella forma predicativa che di A, ad esempio, dice il suo essere B. Una forma che sembra stabilire un’immediata identità tra il soggetto (A) e il predicato (B). Che sembra sancire l’esser identico a qualcos’altro da parte del qualcosa.

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Ma che le cose non stiano così è facilmente riscontrabile a partire dal fatto che l’esser trasparente, ad esempio non conviene solo all’acqua, ma indica una qualità che ritroviamo in tantissime altre determinazioni (il vetro, l’aria…). Perciò l’esser trasparente (il B della formulazione puramente simbolica) non può esser considerato identico all’acqua (l’A della medesima formulazione). Se fosse identico a quest’ultima, dovunque ci fosse trasparenza, dovrebbe esserci dell’acqua; il che non è vero. In quanto viene normalmente smentito dall’esperienza. Potremmo infatti dire che anche il vetro è trasparente, che anche l’aria lo è… Ecco perché, dovremmo essere tutti in grado di riconoscere che, nella forma elementare della predicazione, a venire espressa è di norma una semplice “convenienza”, e non un’identità. E il convenire – ciò di cui qui si tratta – implica e concede tranquillamente che il conveniente sia “altro” dal soggetto della convenienza medesima. Ma di un’alterità specifica, e non indifferenziata; non si tratta cioè di un’alterità in senso general-­ generico. Ad esempio, potremmo cominciare a rilevare come il mostrarsi del predicato, nel suo farsi predicato di quel certo soggetto (come ciò che a quest’ultimo, per l’appunto, “conviene”), non si determini come il mostrarsi di un’altra “individualità” – altra, cioè, rispetto a quella del soggetto (di cui esso appare appunto come “predicato”). La sua alterità non comporta insomma l’apparire di “un altro”. O anche: di una “esistenza-altra”. Infatti, nell’apparire di un’esistenza individuale è sempre indicato l’apparire di un “soggetto”, e mai di un “predicato”. Di cui tutti i possibili predicati costituiscono appunto i semplici elementi di determinazione. Indicando di volta in volta ciò che il conoscere può dire, del significato originariamente “dato” come oggettivazione di quel certo determinarsi – ossia, nell’oggettualità determinata in cui, sempre, il determinarsi dell’indeterminatezza

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originaria si presenta (presentandosi, in essa, appunto come “esistente”… come presupposto di ogni percorso conoscitivo volto alla sua sempre incompiuta ri-determinazione). D’altro canto, anche là dove indicassimo come soggetto della nostra proposizione elementare un termine astratto – ossia quello che dal punto di vista logico definiremmo un “universale” –, ci ritroveremmo al cospetto di un significato che indica sempre e comunque un’esistenza “individuale”. E che potrebbe valere come “universale” solo in quanto fungente da “predicato” di un soggetto. Anche qualora pronunciassi la proposizione “l’uomo è un animale”, nella determinazione del soggetto cui conviene l’esseranimale, a venire indicato sarebbe appunto questa esistenza “data nel configurarsi qui ed ora di un significato”, ossia nel configurarsi del significato qui ed ora intenzionato di “uomo”. Questo significato è insomma un’esistenza individuale; quella di ciò che può certamente venire fatto valere esso medesimo come “predicato” (ad esempio di un altro soggetto quale potrebbe essere, ad esempio, l’esistenza individuale di quella persona che riconosciamo come Emanuele Severino); ma che, in quanto indicato quale “concetto di uomo” di cui qualcosa viene appunto predicato, e dunque in quanto indicato quale soggetto, è comunque un’esistenza individuale. Quella cui sto pensando, nel momento stesso in cui vi ci sto pensando. Quella concettualità che si staglia nell’orizzonte del determinatamente presente in un certo tempo e in un certo spazio. D’altro canto, tutto ciò che è nello spazio e nel tempo indica sempre un’esistenza individuale – l’aveva chiaramente mostrato già Immanuel Kant. Cosa distingue dunque l’esser soggetto dall’esser predicato? In che senso il soggetto è sempre individuale, mentre il predicato indica ogni volta una vera e propria “universalità”? Anzitutto, come già abbiamo rilevato, va ribadito che il “predicato” è tale solo nella misura in cui può convenire anche ad

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altro. Esso indica sempre l’appartenenza del soggetto o ad un genere o ad una specie; che, come tali, raccolgono nel loro orizzonte d’appartenenza una molteplicità di individui. Insomma, se questo esser-uomo è ciò cui conviene l’essere animale, in quanto è compreso da quest’ultima universalità nel suo ambito d’appartenenza, se cioè l’esser animale indica qualcosa che conviene sì a questo “esser-uomo”, ma allo stesso modo conviene pure ad altre individualità (quali potrebbero esser questo esser-cavallo, questo esser-cane…), tutte raccolte, per l’appunto, all’interno di un genere quale quello dell’animalità, allora si potrà ricavarne che, nel convenire a questo o quell’individuo, ossia nel dire la propria esistenza ineluttabilmente individuale, l’universale esiste dicendo in uno l’originario distinguersi in se stesso da parte di quel distinto che, in quanto tale, dovrebbe essere solo distinto da altro. Ossia da altre universalità. Quell’universale (il predicato in quanto conveniente ad un soggetto), in quanto “esistente”, non è il distinto che è – già dicevamo. E non lo è anzitutto, stiamo ancora vedendo, in quanto si configura esso medesimo come identità di molti; e quindi come distinguentesi dal proprio esser “distinto”. Dal proprio esser un distinto; dal proprio esistere così come esiste in quella certa e specifica individualità, facendo così anche di quest’ultima un distinto, un determinato (laddove essa nega la propria determinatezza, dicendo di sé che non è quel che è), facendo di essa quel distinto che, solo, può apparire come il negantesi. Insomma, esistendo nell’individuo di cui si fa predicato, la determinatezza si fa universalità, facendosi appunto predicato di quell’esistente-soggetto. Distinguendosi, in quanto identità, dai molti individui di cui si può predicare, essi sì ognuno diverso dagli altri. Dicendo la loro semplice identità, il genere, la specie o la differenza specifica. E rendendo distinta la stessa esistenza di cui si fa appunto “predicato”; distinta da sé (dalla propria determinata universalità, che anch’essa finisce per esistere come quella determinata universalità, distinta sia dagli individui di

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cui può farsi predicato, che da altre universalità) e da altre esistenze individuali. Facendo di tale esistenza il proprio esistere come indivisibile; distinto appunto dal proprio esistere invece come divisibile (divisibile nei molti individui in cui l’universale può di fatto esistere – nei molti che mai potranno dirsi “tutti”). Ogni soggetto esistente (ogni determinatezza universale individualmente esistente) è infatti indivisibile. Innanzitutto esso è altro da altri soggetti; è diverso da ogni altro esistente di cui potremmo predicare quella stessa determinatezza (l’universale). E, in quanto tale, dimostra appunto la strutturale divisibilità del proprio predicato; che si fa appunto dividere nei molti soggetti di cui andrà a costituire il predicato... anzi, si farà predicato, potremmo anche dire, in quanto conviene all’esistente come quel che “cade” su di esso, in ogni caso senza risolvervisi. Senza impedirsi cioè di cadere anche su altre esistenze. Rimanendo cioè distinto dal proprio soggetto. Senza impedirsi, così, di dividere la propria esistenza nelle molte esistenze di cui il medesimo può farsi ogni volta predicato. Facendosi cioè con-dividere da tali diverse esistenze; nessuna delle quali, peraltro, in quanto esistenza per l’appunto “individuale”, si farà a sua volta dividere. Se non trasfigurandosi in predicato (ciò che può accadere anche all’esser-uomo che prima avevamo considerato come soggetto – là dove si rilevasse che “Emanuele Severino è uomo”). Il soggetto, insomma, non conviene a nulla se non a se stesso; da cui un’aporetica autopredicazione – che trasfigura l’universalità, caratterizzante il sé valevole come predicato, nell’individualmente esistente di cui si fa esso stesso predicato, determinando in questo modo il proprio originario negarsi in una esistenza cui converrà il proprio stesso esser esistente nel modo in cui sarà esistente, ossia come in-divisibile. Come non partecipabile da alcun altro; come predicato paradossale in cui, ad esser negata, sarà la stessa universalità che in

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ogni predicazione determinata si costituisce, appunto, come “altra” dal soggetto. Ovvero, come universalità che, nell’indivisibilità costituente il soggetto su cui la stessa viene di fatto a cadere, si fa immediatamente indivisibile. Se non altro nel soggetto di cui si fa qui ed ora predicato; fermo restando, appunto, il suo potersi dividere, in quanto distinto da tale esistenza, in altre infinite esistenze. Ché, l’esser-animale, in questo esser uomo, esiste sempre come assolutamente in-divisibile. Come potremmo infatti dire che il suo essere animale esista in un modo nella bocca dell’uomo in questione e in un altro nelle gambe del medesimo; distinguendo cioè il suo esser animale qui dal suo esser animale lì? Ogni volta sarà tutto quel certo esser-uomo a presentarsi come animale – nel presentarsi di quella bocca, a presentarsi sarà cioè lo stesso esser-animale che si presenta in quelle gambe. E non una parte di animalità qui e un’altra parte della medesima animalità lì. Insomma, il predicato conviene allo stesso modo, tutto intero, per dir così, a tutto quel che esiste, nell’esistere di quel certo soggetto (nel nostro caso, nell’esistere dell’esser-uomo). Conviene cioè ad ogni suo elemento costitutivo, convenendogli allo stesso modo. Ossia, tutto intero, senza dividersi nelle parti in cui quel soggetto sembra poter essere comunque diviso. Ammesso che sia una divisione in parti quella operata distinguendo la bocca dalle gambe di quel certo individuo; ammesso e non concesso, precisiamo, in quanto, così facendo, ossia distinguendo la bocca dalle gambe di quell’individuo che indichiamo con il concetto di “esser-uomo”, non stiamo affatto dividendo quell’individuo, ma più semplicemente indichiamo altre esistenze individuali in cui l’esser-uomo vive appunto come “predicato”. Come predicato che sarebbe esso, piuttosto, a farsi dividere in tali esistenze; là dove tali esisten-

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ze indicassero davvero l’esistere di individui ognuno altro dal proprio altro. Come esistenza soggettiva, invece, l’esser-uomo è ciò che si presenta nel modo specifico in cui si presenta, ovvero in modo esclusivo e non indifferentemente predicabile d’altro, e quindi nel presentarsi di una individualità non distintamente predicabile di più individui. Infatti, l’individualità appare come individualità solo là dove appaia qualcosa che sarà sempre se medesimo, qualsiasi sia il suo predicato. Che non distingue sé da altre individualità identicamente determinate dal medesimo predicato. Ecco perché, là dove quella bocca appaia come bocca di questo esser-uomo, o meglio come bocca del medesimo esser uomo che appare là dove ad apparire sono invece quelle gambe, quella bocca e quelle gambe appariranno come la medesima individualità. In esse apparirà cioè il medesimo esser uomo; la stessa individualità. Così come nelle gambe e nella bocca di Emanuele Severino non appaiono due distinte individualità, là dove le une e le altre appaiano appunto come bocca e gambe di Emanuele Severino. Là dove, cioè, nel loro apparire, ad apparire sia appunto l’individualità di Emanuele Severino. Come predicato che conviene solo a quelle gambe e a quella bocca. Connettendosi, cioè, in modo esclusivo, a quelle esistenze così determinate. L’individualità Emanuele Severino diventerebbe invece predicato distinto dalla sua esistenza individuale se a quelle gambe e a quella bocca convenisse l’essere manifestazione di un Severino che potesse convenire anche ad altre gambe e ad altre bocche. Ché il predicato in quanto distinto dal soggetto può sempre convenire anche ad altre individualità. E dunque sarà tale nella misura in cui si farà dividere tra individualità ognuna delle quali non sarà le altre. Così si potrebbe dire appunto dell’esser uomo in quanto predicato che non cade solo su Severino ma anche su altre individualità: su Carlo Sini, su Massimo Cacciari, ecc.

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Ma quale predicato cade solo su un’esistenza individuale? Quello che non è predicato, per l’appunto; ma che indica appunto l’esistere di quel che lì si fa propriamente esistente. Un predicato che, nell’esistenza individuale di cui vale appunto come predicato, non vive come distinto da quella stessa esistenza, ma si fa indistinguibile, appunto, da tutto ciò che in essa sembrerebbe distinguerlo (trasformandolo da uno a molteplice). Il fatto è che, ad esempio, l’esser manifestazione di Severino da parte di quelle gambe e quella bocca, indica l’apparire ogni volta, nel loro specifico presentarsi, sempre della medesima individualità, ossia sempre dello stesso Emanuele Severino. Là dove invece il predicato si facesse dividere dal suo esistere come tale in quella individualità – sì da poter cadere anche su altre individualità, lasciando distinguere l’esser uomo in questa individualità dall’esser uomo in un’altra individualità, sì che ad aver luogo sia l’esistenza di due diversi individui –, avremmo a che fare con un predicato distinto dall’individualità su cui quest’ultimo comunque cade. Ma il fatto è che, per l’appunto, ogni predicato, nell’esistere come quello specifico soggetto di cui vale appunto come predicato, non è distinto da tale soggetto. Insomma, quello stesso che, in quanto predicato, è distinto dal soggetto, in quanto semplicemente esistente (ossia in quanto ponente il proprio non esser quel che è), non lo è. Ossia, nega il proprio esser distinto dal soggetto in cui di fatto “esiste”. Esso è distinto dal soggetto su cui cade come “predicato” – e perciò, in quanto così distinto, può cadere anche su altre individualità –, ma nello stesso tempo, nell’esistere soggettivo in cui vive come predicato, dice il proprio non distinguersi da tale individualità soggettiva. Dice cioè che, in ogni elemento costituente tale individualità, esso si presenterà come esistenza sempre della medesima individualità – e non di individui l’u-

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no diverso dall’altro. Certo, ogni individualità è in sé distinta, appunto nei molti predicati che di fatto qui ed ora le convengono, ma, in quanto “esistente” – in ogni elemento prodottosi per tale distinzione – come una sempre identica individualità (in quanto, cioè, a distinguersi in tal modo, è quella che rimane sempre la medesima individualità, in ognuno dei suoi momenti costitutivi), essa non è affatto divisa in modo tale che ogni elemento prodottosi per tale opera divisoria dia luogo ad una distinta esistenza. Chi esiste, infatti, nell’esistere di questa bocca, e nell’esistere di quelle gambe, di cui si predica allo stesso modo l’esser di Emanuele Severino? Sempre il medesimo individuo. Che diciamo predicando e di quelle gambe e di quella bocca l’esser da parte loro “Emanuele Severino”; ossia il loro manifestare entrambe la medesima individuale esistenza. Quella di Emanuele Severino. Eppure tale predicazione, i molti modi del cui esistere dicono il non esser distinto da parte di ciò che in essi ogni volta esiste, è anche distinta da tale indivisibile sua esistenza; e lo è in quanto essa medesima considerata come un esistente. O meglio, come esistenza distinta di un predicato la cui universalità non è mai confondibile con le diverse esistenze di cui la medesima si fa comunque predicato. Ed è proprio di tale distinta esistenza che l’esistere individuale, quello stesso che ha in essa il proprio predicato, dice appunto l’esser negata. Dicendo che essa non è quel distinto che è. Dicendo che essa è se stessa solo in quel non distinguersi di cui ci fa fare esperienza la sua esistenza sempre individuale. Dicendo che essa – l’universalità che determina ogni esistenza, e dunque anche quella di cui vale come predicato – determina l’esistenza che vale come suo soggetto, senza dividerla se non da ciò che quest’ultima esclude in quanto altra esistenza (o esistenza di un “altro individuo” – ossia, di un’altra esistenza

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indivisibile). Che la determina, cioè, senza sancire la krisis della sua individualità; senza produrre, nell’esistente, quella divisione di cui lo stesso essere dell’esistente è appunto originaria negazione (in quanto in-determinatezza); ma anzi inverando tale indeterminatezza in un esistere sempre e comunque indeterminabile – o meglio determinabile solo nel de-terminarsi l’una rispetto all’altra da parte di esistenze comunque indivisibili e per ciò stesso indeterminabili. Che dunque si distinguono l’una dall’altra, ma non per questo debbono rinunciare alla propria indivisibilità, ossia, alla propria indeterminatezza – ma la confermano proprio avendo oltre di sé un altro determinato che comunque non le determina (per quanto abbiamo già visto nella prima parte di questo lavoro). E dunque non è altro da esse. O meglio è un altro di cui si dovrà riconoscere il non esser altro; anche perché, ad esistere, in ogni esistenza individuale è da ultimo sempre il medesimo indeterminabile, eppur sempre determinato, “esistente”. Aveva dunque ragione Porfirio a sostenere che «l’essere della cosa, che è uno e identico, non ammette né aumento né diminuzione» (Isagoge, 9, 20-22). Fermo restando che – come riconosceva sempre Porfirio – «gli individui e le cose particolari dividono sempre l’uno in molteplicità» (Isagoge, 6, 16-20). Certo, gli individui dicono quella molteplicità per cui ad esistere è sempre un distinto, un de-terminato – il quale, però, esistendo, dice in quanto tale l’indivisibilità della divisione di fatto esistente (esistente cioè, o come divisione degli individui l’uno dall’altro, o come divisione del medesimo individuo nei suoi molti predicati o elementi costitutivi). Ossia, dice l’unità che non ammette né aumento né diminuzione – dice cioè l’essere. Dice il determinarsi; dice ciò che non è quel che è. E dunque non è neppure quella distinta determinatezza che sempre si mostra, nel farsi molteplice da parte di un uno che è sempre e solamente nel “non” in cui e per cui ogni determinatezza di fatto si manifesta.

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D’altro canto, anche il dividersi dell’uno nei molti, sempre secondo Porfirio, conduce l’unità al proprio vero (al vero essere) nella misura in cui, nell’atto stesso in cui l’uno si divide e si distingue, la sua unità viene sì divisa e per ciò stesso moltiplicata, ma senza allontanare mai la cosa dalla verità dell’uni­ versale sommo e intrascendibile. Dall’essere che in ogni individuo si presenta appunto come predicazione originaria da cui la determinatezza di volta in volta esistente viene sempre e comunque “negata”. Ossia, fatta indivisibile; cioè, “una”. E per ciò stesso ricondotta al genere che è principio (cfr. Isagoge, 1, 12-15). Anche questo Porfirio lo dice con la massima chiarezza: «la differenza non è qualcosa che distingue casualmente le realtà comprese in uno stesso genere, ma è qualcosa che porta all’essere, e che è parte integrante dell’essenza della cosa» (Isagoge, 12, 1-5). Ecco perché, sempre secondo Porfirio, l’universalità somma, quella che saremmo tentati di far coincidere con il “tutto” – o meglio, con l’intrascendibile (l’essere), quello stesso che dice l’impossibilità di trascendere l’originaria trascendibilità del determinato –, nel farsi parte, nel farsi de-terminatezza, o meglio nel farsi negazione di una determinatezza (ossia, nel mostrarsi come intrascendibilità della determinatezza che pur possiamo ogni volta trascendere), non perde nulla di sé. E quindi non diminuisce. Infatti, non v’è un tutto quantificabile, rispetto a cui possa venire stabilito un minus. Ecco perché i molti soggetti che partecipano del “genere” «ne partecipano in egual misura» (Isagoge, 17, 5-10). Perciò il genere, il predicato, non si divide facendosi parziale in ogni parte; perdendo cioè ogni volta qualcosa della propria determinatezza. Ma a questo punto va detto con la massima chiarezza: neppure in quanto distinto dall’individuo in cui sempre e solamente esiste, l’universale de-terminato (genere o specie che sia) si

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divide nelle molte esistenze su cui, in quanto predicato, ogni volta cade. Ché, neppure esistendo come Severino, come Cacciari, come Sini, come Vitiello, l’universale “uomo” in verità si divide – in senso proprio. O meglio, si divide nella misura in cui l’esser uomo presente nell’esser presente di Severino è altro dall’esser uomo che si manifesta nell’esser presente di Cacciari – in quanto ogni volta, a farsi presente come uomo, è appunto una distinta individualità, ossia un diverso esistente (mentre nella mano di Severino e nella bocca di Severino, noi riconosciamo il presentarsi di un medesimo individuo, quello che chiamiamo appunto Severino) –, eppure nello stesso tempo esso non si divide in quanto, in tali individui, ad apparire è in verità sempre il medesimo mondo (quello in cui Cacciari può distinguersi da Severino in quanto è sempre uno stesso mondo a manifestarli e a consentire il loro distinguersi). Lo stesso mondo che per l’appunto, se lì si dice come Severino, qui si dice come Cacciari, ossia come qualcosa di distinto da Severino, ovvero come un distinto – cioè come “determinato”. E nello stesso tempo come negante d’essere quel che di esso si mostra in tale sempre trascendibile determinatezza; che appare trascendibile appunto in quanto manifestante il proprio non essere il mondo che c’è. Ecco perché l’esser-uomo che qui appare come Cacciari e lì appare come Severino, deve apparire anche come determinatamente identico. Come lo stesso, in tali pur diverse manifestazioni. Come l’identico in esse. Come determinatamente distinto dal suo essere qui come Cacciari e lì come Severino. E non solo come indeterminatamente identico. Ché, l’orizzonte del distinguersi è appunto intrascendibile! E dunque tutto quel che appare, deve distinguersi. Anche l’identico. Che non a caso apparirà sempre come de-terminato; anche là dove venga a mostrarsi come quell’indeterminatissimo essere che di tutto dovrà venire appunto predicato.

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Ché l’identico è negazione di ogni determinatezza; anche della propria. Ossia, di quella determinatezza che lo fa essere appunto come “identico”. Come distinto dal distinto. Ma, se esso è autentica negazione della determinatezza, esso dovrà costituirsi come negazione anche del proprio esser identico; del proprio determinarsi come identico. Perciò si determinerà come diverso: o meglio come negazione del proprio esser quel determinatamente identico che unisce i diversi. Perciò nei diversi si presenterà come un diverso; ossia come individuazione del genere. O della specie. Perciò, ogni volta, negherà di essere l’identico che di fatto si determina come tale, e si mostra sia qui che lì come negazione dell’esser uomo, ovvero come negazione di quello stesso che nei diversi dice il loro esser sempre anche identici – cioè, come esistente. Perciò esso esiste. E si fa individuo. Facendosi meramente esistente; indeterminatamente esistente o come Severino o come Cacciari. Come esistenza individuale e per ciò stesso in-divisibile. Come esistenza distinta da altre esistenze individuali, che non per questo, però, sarà costretta ad esperire il venir meno del proprio costituirsi come “un” esistente. O anche, un indivisibile. Un essente. Come qualcosa che “è”; o meglio come l’esserci di un qualcosa – di una determinatezza. Ad esempio, quella consistente nell’esser uomo, che qui esiste appunto come Cacciari e lì come Severino. Ossia che qui e lì esiste nella presente negazione della sua stessa determinatezza, generica o specifica che sia. Ecco perché Porfirio aveva proprio ragione: se «il genere è un tutto, mentre l’individuo è una parte» (Isagoge, 8, 1-5), è anche vero che «il tutto è nelle parti» (ibidem). E vi è senza spezzettarsi, senza dividersi astrattamente. Senza cioè dover rinunciare a veder determinata la propria identità, quasi che essa potesse davvero dirsi estranea all’orizzonte della determinatezza – e

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dunque non determinarsi, neppure in tale estremizzata forma d’alterità. Perciò «le caratteristiche dell’uomo in generale possono essere le medesime in più individui, o meglio sono le stesse in tutti gli uomini individuali, in quanto uomini» (Isagoge, 7, 25). Così in Porfirio; che vede bene, per l’appunto, come, stando così le cose per quanto riguarda il determinatamente identico (ossia, l’universale), si dovrà comunque riconoscere come il suo esistere individuale sia anche negazione del suo costituirsi come identico nei diversi individui, ossia del suo essere, in quanto determinatamente identico, distinto dagli individui cui non è per ciò stesso, in quanto tale, mai legato in modo esclusivo. Perciò, in quanto individualmente esistente, in quanto soggetto, l’universale non può certo ripresentarsi, e soprattutto allo stesso modo, in altre esistenze individuali. La negazione della sua distinzione è infatti tale da rendere impossibile il suo presentarsi, in quanto negante questa stessa distinzione, in altre esistenze – e ciò va detto anche perché, se dovesse presentarsi in altre esistenze secondo tale indistinzione o individualità, si ritroverebbe in-distinto dall’individualità da cui avesse dovuto comunque distinguersi. Ossia sarebbe sempre il medesimo individuo. E dunque non vivrebbe in un altro esistente. Ma ripeterebbe l’esistenza da cui, solo in quanto universale, in quanto universale astrattamente distinto dall’individualità in cui comunque sempre esiste, può per l’appunto distinguersi. Ancora una volta, dunque, ha ragione Porfirio: «si dicono infatti individui i soggetti che presentano un insieme di caratteristiche che non si potrebbero ripresentare allo stesso modo in un altro soggetto» (Isagoge, 7, 20-25). Ecco perché «l’individuo si può predicare solo dell’unico soggetto particolare» (Isagoge, 7, 15-20). Insomma, l’universalità, in cui sempre si determina il “predicato” dell’esistente, non divide in senso proprio né l’individuo

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né il mondo di cui mostra il volto sempre necessariamente determinato. O meglio nega la divisione che sempre si produce per il suo cadere-su questo o su quello, nella misura in cui da un lato, dell’esistente su cui cade, dice appunto una distinta caratteristica (di cui l’individuo in cui essa esiste, appunto, nega l’esser come “un distinto”, come un individuo) – dice cioè solo una delle molte caratteristiche in cui quella individualità può di fatto presentarsi come sempre identica a sé, appunto nelle sue distinte caratteristiche –, e dall’altro, del mondo di cui mostra appunto una delle mai definitive determinazioni, dice quel distinguersi senza di cui neppure si darebbe ciò che abbiamo definito la sua (del distinguersi) intrascendibilità. Ogni esistenza, insomma, è divisa non dall’universale in se stesso – che per l’appunto si dice di tutte le determinazioni della sua individualità (se di quest’ultima esso è effettivamente predicato) – ma sempre e solamente in quanto dal suo cadere su di essa consegue 1) il farsi possibili di altre predicazioni di quella medesima individualità (che per essa l’individuo in questione manifesta un suo “distinto” modo d’essere, ossia uno tra i mai esauribili modi d’essere che potremmo definire “suoi”), e 2) il suo (dell’esistenza in questione – di cui esso si fa appunto predicato) determinarsi, proprio in virtù di tale predicazione, in relazione ad altre esistenze che quel medesimo predicato accolgono appunto nella forma di una diversa esistenza, oppure in relazione ad altre esistenze che quel medesimo predicato per l’appunto escludono da sé. Ma tutte tali divisioni – conseguenti il cadere del predicato (universale) sull’esistenza comunque individuale che sempre e solamente si “determina” – danno appunto vita ad un esistente che sarà uno in quanto in-divisibile, ossia in quanto in esso ogni divisione verrà accolta nel suo stesso originario “negarsi”. O anche, in un esserci sempre indeterminato – ovvero, in quell’es-

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serci indeterminato che si esprime di fatto nell’intrascendibile determinarsi dell’esistente, nel suo determinarsi come sempre “uno”. Come sempre il medesimo. Come il mondo che c’è.

3 Se è vero che per Platone la verità dell’esistente, dell’individualmente esistente, riluce solo nell’universalità dell’eidos, allora è evidente che conoscere la verità significherà per lui conoscere ciò che, di là dalla maschera temporale ed individuale con cui di fatto ci si presenta, “esiste” indipendentemente da quest’ultima. Per Platone, cioè, l’esistere non indica affatto il farsi “individuale” da parte dell’universalità determinata; ché il determinarsi di quest’ultima non implica affatto, per lui, il “negarsi” della medesima – ossia, il negarsi della sua distinzione, il suo farsi perfettamente in-divisibile. Il costituirsi, quindi, da parte di quella che abbiamo visto costituirsi come intrascendibilità della distinzione – la quale implica appunto il non essere mai determinato da parte del determinato che c’è (in quanto vi sarà sempre “altro” da evocare quale suo altro determinante – un “altro” impossibile, peraltro, in quanto, se tale “altro” vi fosse, dovremmo immediatamente riconoscere il suo non esser l’altro che cercavamo, ossia il suo non determinarsi al di là dell’orizzonte sempre determinato del distinguibile, appunto perché perfettamente cor-rispondente al principio di alterità che domina nell’ordine della determinatezza). Per Platone, insomma, il determinarsi dell’universalità eidetica è un vero determinarsi – e solo esso lo è – proprio perché non condannato ad esistere in forma individuale; ossia, proprio perché già da sempre “determinato” nella forma compiuta che dal punto di vista dell’esperienza individuale che tutti ci accomuna si configura appunto come “impossibile”. Come ciò che nessuno di noi potrà mai esimersi dall’esperire nella forma dell’originariamente “negato”. Stante che il mondo che c’è, per

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l’appunto, disegna il non esser mai compiuta da parte della determinatezza; e dunque il non esser mai determinato da parte di quel che comunque lo è. Di ciò che comunque “lo è” – e proprio in quanto appare come determinato. In conformità ad una determinatezza che, per l’impossibilità appena evocata, deve comunque venire concepita e vissuta come essa medesima “impossibile”. O anche: come l’impossibile esistente. Impossibile essendo infatti che il determinato sia determinato (essendo esso di fatto sempre indeterminato); ma, per l’appunto, in questo modo si sta anche dicendo l’impossibilità di quel che peraltro esiste – e che non potrebbe non esistere (pena il non potersi neppure dare da parte della sua indeterminatezza – ovvero, dell’esser negato di una qualche determinatezza). Di ciò che è veramente impossibile proprio in quanto, non potendo essere tale (determinato), lo è. Proprio in quanto dice l’esser negato di qualcosa che “è”. Proprio in quanto riesce a determinare ciò di cui ha da costituirsi in-uno come negazione; ciò di cui può, proprio per questo, significare il non esserci. Perciò Platone vede la verità del determinato in ciò che dal punto di vista della doxa si profila come impossibile; ovvero nel suo essere veramente determinato. Nel suo palesarsi in quella perfetta determinatezza che in questo mondo è sempre e comunque “negata”. Perciò, per il fondatore dell’Accademia, come sarebbe stato ribadito anche da Leopardi, questo è quel mondo. Perché l’affermazione di ciò che questo mondo riesce solo a “negare”, deve comunque potersi costituire. Stante che, di fatto, si costituisce – appunto come oggetto di un’intrascendibile “negazione”. Perciò deve anche costituirsi in uno spazio solo “affermativo”; e, come tale, concretamente distinto da “questo” – ossia, da quello costituente il mondo in cui ci è dato vivere e che, quella pura affermazione deve appunto ricevere come già da sempre data al suo determinare imperfetto. Come necessariamente ricordata, dunque, dall’uomo della conoscenza; ché mai potrà presentemente incontrarla,

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se non nella forma del suo esser-negata. Nella forma del suo esser-passata. Nella forma di ciò che nel presente parla solo al passato. Quale oggetto di una inappagabile “nostalgia”. Perciò il filosofo vuole tornare nello spazio immoto da cui per il tramite del conoscere sa d’esser stato chiamato. Quello di cui la sua esperienza dice appunto l’irrisolvibile “negazione”. Perciò la sua voce non è credibile – credervi significherebbe infatti credere all’esistenza di quel che “non-è”. O meglio, significherebbe credere che l’esserci possa configurarsi come “pura affermazione” – o anche, come verità definitivamente distinta dall’errore. Ossia, che vi sia un “esserci” sottratto all’intrascendibile abbraccio della “negazione”. Credervi significa credere che l’impossibile possa essere solamente “impossibile”. E che viva in un “altro” presente che non può certo essere quello responsabile di ogni alterità. Il filosofo platonico crede insomma in un “è” puramente determinato come tale. Immoto e insostenibile. Crede oltre ogni elpis. Nessuno può infatti sperare con lui. Il filosofo platonico è letteralmente in-credibile. Nessuno avrebbe infatti potuto credere alle sue parole, al rientro nell’oscurità della caverna, dopo il “salutare” viaggio nell’atmosfera bagnata dalla luce della perfetta distinzione. Certo, egli ha sperimentato l’immobile e già da sempre risolta determinatezza di un essere che agli uomini incatenati nell’oscurità dell’insalubre antro non è dato neppure ri-conoscere. Non ne avrebbero gli strumenti – dato che davanti ai loro occhi continuano a passare ombre ingannevoli che, del “determinato”, offrono solo il mobile volto che deve sempre ancora diventare quel che è. Eppure il filosofo insiste nel suo itinerario; ri-cor-da e dà voce a quell’impossibile. E cioè, distingue l’indistinguibile. De-­ termina quel che nessuna doxa avrebbe mai potuto “imitare”,

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se non reinscrivendolo nel gioco “sofistico” giustamente preso di mira da Platone nel Sofista. Ma la differenza tra buona imitazione e cattiva imitazione (ovvero, la distinzione tra mimesi icastica e mimesi fantastica) appare totalmente aleatoria. Perciò il sofista non poteva che farsene beffe. D’altro canto, essa appare aleatoria anche agli occhi di chi – come il filosofo platonico – “vuole” il suo esser già da sempre risolta… e dunque distingue questo scenario aporetico (nel cui orizzonte anche il filosofo si muove guardingo) e il tempo infinito della sua soluzione da una meta che mai potrà venire raggiunta. Il fatto è che, per il filosofo (per il “vero” filosofo), tale impossibilità va riconosciuta non tanto in virtù dell’eccessiva e da ultimo incolmabile distanza dalla meta medesima, quanto per il suo semplice venire vissuta e desiderata come “meta”. Per il fatto che essa si trova già da sempre al riparo nella quiete di un eterno perfettamente “libero” dalle aporetiche articolazioni cui appare destinata qualsivoglia diairesis. Infatti, se quest’ultima è sempre necessariamente rivolta alla determinazione di un punto di accordo «sulla cosa in sé, attraverso una definizione» (Sofista, 218c), è anche vero che quest’ultimo diventa raggiungibile, anche agli occhi di Platone, solo là dove si sia disposti a liquidare come irrisolvibile il problema del “non-essere assoluto”. Il medamos on, solo facendosi pronunciare, produce contraddizione; anche là dove si voglia dire la sua impronunciabilità, infatti, lo si nomina, e lo si nomina addirittura al singolare, ossia secondo il numero. Perciò il fondatore dell’Accademia procede alla definizione dell’essere, per scoprire in tal modo che la possibilità di distinguere verità e falsità non implica affatto la chiamata in causa del “non essere assoluto”; ma solo di quel non-essere “relativo” che indica sempre un “altro essere”. Insomma, Platone può convincersi di esser riuscito a legittimare il costituirsi del discorso falso e a fondare, conseguentemente, la possibilità di distinguerlo da quello vero, sì da poter distin-

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guere (a ciò è volto il testo platonico in questione) il filosofo dal sofista –, solo perché presupposizionalmente convinto di aver ritrovato (di là dall’irrisolvibile aporia costituita dal non essere assoluto) un senso dell’essere dettatogli da una regione cui il me non assoluto non ha in alcun modo accesso. Platone è convinto che in quella regione accade sì che «la natura del diverso, rendendo ciascun genere diverso dall’essere, lo faccia non essere» (Sofista, 256d), ma in modo tale che «il segno della negazione, premesso ad uno o più termini, indichi soltanto qualcosa di diverso dai termini che lo seguono, o meglio, qualcosa di diverso dalle cose cui si riferiscono i termini pronunciati dopo di esso» (Sofista, 257b). In quella regione, insomma, «il non essere ha una sua stabile natura» (Sofista, 258b); anzi, esso costituisce addirittura «un genere determinato nel novero dei molti altri che sono» (Sofista, 258c). E Platone è convinto che tutto ciò sia reso possibile proprio dall’essersi lasciati alle spalle «la storia del contrario assoluto» (Sofista, 258e). Eppure quell’assoluto non essere non s’è affatto defilato e respira a pieni polmoni in una regione quasi inaccessibile (regione pervasa da una luce assolutamente particolare, in cui ci si muove sempre guidati dall’idea dell’essere… da cui la sua difficoltà – non a caso per Platone «è naturale che gli occhi della moltitudine, rivolti a questa divina regione, non riescano a reggere» (Sofista, 254b). D’altro canto, è solo per l’esserci da parte di un altro – di là da ogni “diverso”, di là da ogni determinazione dell’essere –, e dunque per il dover essere sempre concepito relativamente, da parte del diverso, ossia per il suo dover venire in ogni caso concepito «in rapporto con un diverso» (Sofista, 255d), che la regione difficilmente riconoscibile dell’essere non è mai propriamente quel che è. Stante che «qualunque cosa sia un diverso, necessariamente è quello che è in relazione ad un diverso» (Sofista, 255d), come non riconoscere che – dovendo qualsivoglia determinazione essere diversa da un altro (da un altro diverso da essa) –, mai l’eterna regione

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dell’essere potrà dirsi pervenuta al proprio fine? Come non riconoscere, cioè, che, nella prospettiva del ragionamento dialettico, mai potrà darsi il rinvenimento della perfetta divisione o distinzione dell’essere? E che proprio in tale irrisolutezza vive ed alita – tutt’altro che messa a tacere, dunque – la potenza del nihil absolutum? Ecco in che senso nell’intrascendibilità del non-essere relativo a dirsi è sempre e solamente l’originaria nullità dell’essere medesimo. O anche: il suo non riuscire a distinguersi dal medamos on. Ecco in che senso, nell’intrascendibile relatività del non-essere che ogni essente in verità è (in quanto diverso), ad esprimersi sarà sempre e comunque l’aporia originaria che Platone avrebbe voluto lasciarsi alle spalle. Questo, dice dunque la regione che i più non riuscirebbero a ri-conoscere quale eterno “passato”’ del distinguersi sempre temporale caratterizzante l’esistenza fenomenica. Questo, il territorio con i cui declivi dovrà familiarizzare chiunque intenda salpare verso l’infinito mare dell’essere, lasciandosi per ciò stesso alle spalle i solo apparentemente sicuri ormeggi cui è normalmente ancorata l’esistenza comunque individuale di questa terra; di fatto consegnata a tutti coloro che ritengono l’essere originariamente affidato alle mobili ombre cui, imperterrite, continuano a fare riferimento le infinite doxae dei mortali (alla cui luce il “tempo” viene vissuto come luogo di una estenuante e da ultimo vana speranza). Ecco da dove il paradosso di un “eterno” sostanzialmente identico alla imperfetta determinatezza che, solo, l’esistenza individuale sembra consentire. Non meno paradossalmente (ossia originariamente) risolventesi, esso medesimo (l’eterno), cioè, nella forma temporale che, sola, rende di fatto ragione dell’impossibile già in tale orizzonte di fatto consumantesi. Ecco perché, di lì a poco, ci si sarebbe appassionatamente impegnati a sostenere l’esistenza dell’eidos, ovvero della sua pa-

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radossale “universalità”. Quasi a voler precisare che l’eidos non può ridursi a puro flatus vocis; ma, al contrario, è ciò che “propriamente” esiste, anche se, per l’appunto, sempre e comunque in un’esistenza rigorosamente individuale. Mai, d’altro canto, potrebbe esistere un individuo se non come declinazione “temporale” della determinatezza pensata appunto nella sua verità. “Esistere” significa infatti svolgere la propria determinatezza eidetica secondo l’ordine del tempo – anche là dove tale determinatezza venga pensata come “sempre presente”. Ossia, come il “permanente” (la sostanza) che renderebbe possibile l’avvicendarsi degli accidenti che di volta in volta caratterizzano la cosa medesima in questo o quel modo. In ogni caso, cioè, se “esiste”, l’eidos ha per ciò stesso una “storia”. La storia dei suoi accidenti, se si vuole; ma, in ogni caso, sarà solo nel succedersi di questi ultimi che la sua medesimezza, ovvero la sua immutabilità, potranno venire sperimentate nella forma dell’eterno esistere di qualcosa che mai potrà venire meno. Ma che può farsi tale solo nel mai risolto attraversamento di una mutevolezza che lo rende “pensabile” appunto come l’altro dalla medesima – come quell’altro di cui è essa medesima custode, e testimone, per l’appunto, come “ciò che” in essa e per essa più propriamente esisterebbe. Come la sua “verità”. Altro dall’imperfetta determinatezza del diveniente può essere infatti solo la perfetta determinatezza di quel che sta. Che esiste, dunque, solo in quanto necessariamente presupposto dall’esistenza temporale caratterizzante il mondo degli individui; in quanto implicato dal semplice fatto che il diveniente (ciò-che diviene) deve essere sempre anche non-diveniente – altrimenti non potremmo neppure riconoscere che qualcosa è divenuto, è cambiato, ossia è diventato altro da quel che era (perché, se, a mutamento avvenuto, il mutato viene comunque riconosciuto come l’esser diverso di quello stesso che, prima del mutamento, era per l’appunto diversamente determinato, allora, nel mutamento, qualcosa dovrà necessariamente anche non

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esser mutato… ossia, quello stesso che è mutato dovrà anche non esser mutato, se non altro perché, ad esser mutato, sarà ai miei occhi quello stesso che prima era appunto diversamente determinato… sì, ancora quello). Perciò l’eterno e il permanente devono esistere come “altri” dall’intrascendibile orizzonte dell’esser diverso (che – come abbiamo già visto – reclama un mai soddisfatto dispiegamento della determinatezza che esso comunque già è); ma non come semplicemente “altri” da quest’ultimo. Ché, se si trattasse di semplice “alterità”, non si tratterebbe di un altro rispetto alla temporalità del sempre imperfettamente de-terminato. Altro da un altro essendo, più propriamente, solo l’individuo; la cui peraltro indiscutibile determinatezza non è mai tale, mancando sempre di quello stesso che essa di fatto già è: ossia, di una reale determinatezza – ovvero, dell’esibizione di un essente che coincida con la totalità del determinante suo proprio. E poi l’altro che dice la permanenza nel divenire del diveniente, pur distinguendosi da ciò che in tale divenire, per l’appunto, diviene, anche non vi si distingue – appunto perché, a permanere, in tale divenire, è quello stesso che diviene. Perciò riferirsi all’essere che sempre è, ovvero all’universalità che attraversa lo svolgimento di una sempre diversa individualità (lo svolgimento degli accidenti che si avvicendano e determinano appunto l’unicità e l’irripetibilità dell’individualmente esistente), non significa riferirsi a un’altra individualità. Ma a quel che rimane identico nelle individualità che sempre lo ricordano nel loro irripetibile presente; ossia ad un universale che in quelle medesime individualità può costituirsi come loro “negazione”, senza per ciò stesso evocare una regione astrattamente altra dalla loro (altra, cioè, così come sono altre l’una rispetto all’altra le individualità determinate – le stesse che mai riusciranno a restituire la condizione della loro comunque reale determinatezza, e che proprio per questo finiscono per

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esprimerla in virtù di una “negazione” che solo l’universalità eidetica può riuscire a sottrarre all’imperium dell’eteron). Ecco perché, solo nel rapporto con l’universalità, l’esistenza individuale può rinvenire la prova del fatto che in ogni negazione determinata (di quelle che regolano i rapporti e le relazioni tra gli individui – ognuno semplicemente altro dall’altro) a determinarsi è un non-essere impossibilitato a distinguersi dall’essere; e per ciò stesso destinato a dipanarsi lungo le infinite distinzioni in cui esso medesimo da sempre si nega (negando in uno finanche la sua sempre paradossale “positività”). Un “non-essere” che è da ultimo tutto l’essere che c’è. E che di questo stesso essere annuncia appunto l’originaria ed assoluta impossibilità – e mai una qualche astratta impensabilità o una ancor più improbabile inattingibilità (come ancora in troppi continuano a credere).

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Metodo, fenomenologia e dialettica. A partire dai Problemi fondamentali della fenomenologia di Heidegger di Giulio Goria

1. Introduzione Nelle pagine seguenti cercheremo di affrontare una questione che mette in gioco lo statuto della filosofia, la definizione del suo modo di essere e, di fatto, anche del suo senso. Lo faremo attraverso le lezioni tenute da Heidegger a Friburgo nel 1919 e dedicate ai Problemi fondamentali della fenomenologia1. Nel corso di esse si incontra infatti un problema specifico: se e come la filosofia, nella sua pretesa scientifica, possa darsi un metodo che sia, da un lato, emanazione della vita e, dall’altro, via di accesso in essa come in quella dimensione che rappresenta l’ambito tematico a cui il sapere filosofico si rivolge in maniera prioritaria. Come è noto, questo corso fa parte di quelle prime lezioni friburghesi che nel tempo sono diventate uno tra i più ricchi terreni di verifica per la comprensione del pensiero di Heidegger nel suo complesso. Forse anche per questo, intorno ad esse si è infine riproposta la questione della continuità, più o meno definita, con il cammino successivo del 1.  Si tratta del corso Grundprobleme der Phänomenologie (1919/20) contenuto nel volume 58 della Gesamtausgabe a cura di H.-H. Gander (Klostermann, Frankfurt a.M. 1993); il corso presenta anche una Nachschrift di Oskar Becker, che sostituisce l’ultima parte del corso, solo frammentariamente offerta dal manoscritto di Heidegger.

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filosofo tedesco, che tra l’altro da parte sua aveva contribuito non poco a mantenere in secondo piano le indagini successive alle prime ricerche sulla logica2. D’altra parte, il fatto che Heidegger, molti anni dopo, nel famoso intervento Mein Weg in die Phänomenologie, a proposito dell’itinerario che lo aveva condotto alla Seinsfrage, abbia riconosciuto che esso aveva richiesto «molte fermate, deviazioni, sviamenti» non deve ridurre l’importanza delle parole che proprio in quello scritto egli dedicava alla fenomenologia. «L’epoca della fenomenologia – scrive nel 1963 – sembra essere finita […]. Ma la fenomenologia nel suo carattere più proprio non è affatto una corrente filosofica. Essa è la possibilità del pensiero – possibilità che si modifica a tempo debito e solo così può rimanere una possibilità – di corrispondere all’appello di ciò che è da pensare»3. Questo giudizio retrospettivo, molto successivo anche a Essere e tempo (1927), contiene una non nascosta vena polemica verso la storicizzazione della fenomenologia, da cui la sua riduzione a fatto culturale, e all’inverso un forte richiamo verso la natura della fenomenologia come ciò che incarna, né più né meno, la questione intramontabile del pensiero. Per questo, tra l’altro, quelle parole possono forse rafforzare le buone ragioni di chi ha ritenuto di leggere le prime lezioni friburghesi in maniera autonoma, a partire dunque dai problemi che in esse sorgono e non semplicemente all’interno di un interesse genetico, misurandole cioè sull’esito raggiunto nella grande opera del 19274. Ciò che quest’ottica consente,

2.  Ha sottolineato questo punto in particolare John van Buren nel suo The Young Heidegger. Rumour of the Hidden King, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1994, pp. 3-27. 3.  M. Heidegger, Il mio cammino nella fenomenologia, in Id., Tempo e essere, a cura di C. Badocco, Longanesi, Milano 2007, pp. 95-105: p. 105 (tr. mod.). 4.  Questa impostazione è presente innanzitutto in A. Fabris, L’«er­meneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in F. Volpi (a cura di),

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infatti, è di individuare anche quanto nel corso dell’indagine heideggeriana successiva risulterà secondario, non del tutto svolto o sacrificato. Una possibilità interpretativa di questo genere può forse giustificare anche il titolo scelto per queste nostre pagine, che hanno un obiettivo per la verità piuttosto circoscritto e dove compare il termine “dialettica”: nella Nachschrift di Becker con cui si chiude il corso del 1919, infatti, è presente un elogio della dialettica in funzione di una filosofia genuinamente espressiva, come secondo Heidegger la fenomenologia deve essere, accompagnato dalla definizione di dia-ermeneutica per questo genere di prospettiva. Al di là di questi riscontri, pur non casuali, l’intero svolgimento dell’idea di filosofia come scienza originaria, che Heidegger propone in questo come in altri corsi di quegli anni, sviluppa una diretta tematizzazione del problema del metodo; questo è il contesto in cui sorge il riferimento alla dialettica. Naturalmente, l’origine del problema relativo a un metodo che determini la portata e lo statuto dei saperi dell’uomo ha in quegli anni la genesi più diretta e foriera di sviluppi nella fenomenologia di Husserl. A partire dal 1911, anno di uscita dello scritto husserliano Filosofia come scienza rigorosa, ogni idea di una possibilità metodica per la filosofia non avrebbe potuto evitare di porsi il problema di una fondazione razionale assoluta dei saperi, tanta era stata Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 58-106, in part. pp. 61 ss. Mentre per quanto riguarda la questione della continuità o meno delle prime lezioni friburghesi rispetto al seguito dell’opera di Heidegger, essa è stata aperta da C.F. Gethmann, Philosophie als Vollzug und als Begriff, apparso prima in «Dilthey-Jahrbuch», n. 4, 1986-1987, pp. 27-53, e ora contenuto in Id., Dasein: Erkennen und Handeln. Heidegger im phänomenologischen Kontext, de Gruyter, Berlin-New York 1993, pp. 247-280, dove si distingue una lettura evoluzionistica da una pluralistica, quest’ultima sostenuta da O. Pöggeler nell’Appendice alla seconda edizione del suo Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullingen, Neske 1983.

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l’eco dell’operazione di Husserl per smarcare la filosofia sia dallo scientismo naturalistico sia dallo storicismo. È tanto vero questo che, senza neanche entrare nelle dispute tra i due maestri della fenomenologia, per limitarsi a indicare il modo con cui Heidegger in quegli anni definì la sua distanza da Husserl basterebbe menzionare, da un lato, il terreno di indagine che appartiene alla filosofia intesa come ricerca sulla questione dell’essere o scienza della coscienza pura, e dall’altro lato il problema del suo metodo, relativo in particolare allo statuto della riduzione fenomenologica5. Il punto però è ancora un altro, almeno a stare alle lezioni heideggeriane che si intitolano L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo, incluse in Zur Bestimmung der Philosophie. E riguarda il modo con cui definire il procedimento che la filosofia adotta per giungere all’assetto formale del suo oggetto. Così si presenta il problema del metodo e l’inciampo ad esso conseguente – se così si può dire – di non poterne presupporre uno già pienamente costituito, prima che sia portato a evidenza il suo ambito di indagine. Da qui sorge, per la fenomenologia, l’esigenza di un’idea della filosofia come scienza. È infatti proprio l’idea della filosofia che dovrebbe rendere visibile il dischiudersi del suo ambito; eppure, questa idea, proprio in virtù del suo compito, per essere tale deve potersi

5.  È quanto fa, concentrandosi soprattutto sul periodo di Marburgo, S.G. Crowell, Heidegger and Husserl. The Matter and Method of Philosophy, in H.L. Dreyfus - M.A. Wrathall, A Companion to Heidegger, Blackwell, Malden-Oxford-Carlton 2005, pp. 49-64. Su questo tema, in particolare sul corso Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, si veda però anche V. Vitiello, Alla radice dell’intenzionalità: Husserl e Heidegger, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo (1923-1928), Il melangolo, Genova 2006, pp. 127-154. Su questo, per i temi che ci interessano, cfr. J.-F. Courtine, Le «Recherches logiques» de Martin Heidegger, de la théorie du jugement à la vérité de l’être, in Id. (a cura di), Heidegger 1919-1929. De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, Vrin, Paris 1996, pp. 7-31.

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offrire fin dall’inizio in maniera scientificamente determinata. Come potrebbe infatti risultare scientificamente certificato il metodo, se ciò da cui esso sorge non avesse a sua volta forma di scienza? Per essere un metodo dotato di verità, e quindi idoneo a condurci dove e come pretende di fare, esso dovrebbe già appartenere in qualche modo al sapere vero e fondato che però è il suo obiettivo. La maniera, non sempre lineare, con cui si esprime il giovane Heidegger fa capire però che ci troviamo davanti a una difficoltà reale e in verità non così nuova per la filosofia. Almeno dal punto di vista formale – egli sostiene – quella dell’idea è una «determinatezza determinabile» a fronte di un oggetto inteso come «indeterminatezza determinata»6. Il senso kantiano con cui è qui utilizzato il termine “idea” è chiaro: l’oggetto ideale resta indeterminato, ma questa indeterminatezza è essa stessa determinata in base alle possibilità determinate dell’idea. Ma, appunto, si fraintenderebbe il senso di questi passi, considerandoli la soluzione al problema, anziché una semplice, e iniziale, posizione di esso. Pochi mesi dopo, nel corso dedicato ai Grundprobleme der Phänomenologie, Heidegger riprenderà proprio dalla domanda di sapore tipicamente hegeliano: come deve iniziare la scienza? E non avrà dubbi nel rispondere: anziché procedere come chi affila di continuo il coltello, senza però mai cominciare a tagliare, meglio riconoscere che un primo punto da cui cominciare semplicemente non c’è, dato che non ci è mai data la possibilità di balzare sopra questa linea immaginaria da un qualche punto esterno ad essa. Noi su quella linea, che è la nostra vita, già sempre ci troviamo, per cui al posto di almanaccare senza fine sul cominciamento, va riconosciuto che, per farlo, abbiamo di fatto già cominciato.

6.  M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli 1993, p. 26.

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2. Scienza, metodo, vita: una triade Heidegger introduce le lezioni del semestre invernale tra il 1919 e il 1920 con una considerazione preliminare di notevole spessore, che ha l’obiettivo di aprire direttamente sulla questione del pensiero e della filosofia. Sono tre i termini che subito compaiono: fenomenologia, scienza originaria e «vita in sé e per sé», come Heidegger la definisce. La fenomenologia è scienza originaria e, in questa veste, il problema fondamentale che si trova di fronte è «essa stessa per se stessa»7. Si rende così subito chiaro che la fenomenologia va interrogata a partire dalla sua possibilità. Non c’è, dunque, la fenomenologia come dato acquisito, magari sul piano storico o storiografico; la fenomenologia non è innanzitutto una corrente di pensiero tra le altre. Se essa intende svolgere il suo compito non ha altro modo per iniziare che dalla possibilità come scienza originaria, e cioè come «scienza dell’origine [Ursprung] assoluta dello spirito in sé e per sé – “vita in sé e per sé”»8. Davanti ai tre concetti richiamati, l’attenzione è attirata da questa doppia dimensione che appartiene alla vita. Da un lato, infatti, abbiamo davanti, circondata da qualche opacità, l’apparizione del pensiero, del pensiero filosofico, che di fatto è avvenuta e, dall’altro, il problema di dare seguito futuro a questo pensiero. Il mistero e il problema, se possiamo dire così, non sono però due fattori separati. Tenere insieme quelli che sono due aspetti dello stesso fenomeno è ciò che consente alla fenomenologia di essere scienza originaria. L’idea della scienza dell’origine dà a se stessa il senso in base a cui giunge alla comprensione originaria di sé soltanto attraverso la produzione del proprio compito e tramite l’effetto

7.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, tr. it. di A. Spinelli e J. Pfefferkorn, a cura di F. Menga, Quodlibet, Macerata 2017, p. 1. 8.  Ibidem.

77 autentico che i suoi motivi più propri dispiegano nel rischiaramento indagante e nello svolgimento del “compito”.9

Non c’è altro modo di essere per la fenomenologia che non sia quello di esprimersi come manifestazione della vita e, così facendo, di rivolgersi a sé per auto-comprendersi. Non esiste – sostiene cioè Heidegger – nessuno strumento, un concetto o una forma, in grado di descrivere il fenomeno della vita interpretandola come una “cosa” viva o, all’opposto, riducendola alla quiete. È bene fermarsi davanti a questa osservazione. Heidegger sta dicendo che le prospettive sorte fino ad allora hanno due strade davanti a sé: o interpretare la vita vivificandola, sostenendo così che la vita è talmente vitale da sottrarsi alla presa della ragione, oppure qualificarla attraverso concetti formali di ordine. Facile riconoscere in questi tratti le tendenze contemporanee contro le quali la sua polemica fu sempre molto critica. Razionalismo e irrazionalismo, poco più che semplici disposizioni culturali in voga, sono secondo Heidegger schermi con cui alla vita si sottrae la sua dimensione propria. Entrambe queste vie, infatti, separano la vita dall’orizzonte entro cui essa acquista il suo senso, come se le ragioni della vita dovessero attingere a un’origine ulteriore e trascendente la vita stessa. Questa impostazione è ciò che la fenomenologia respinge in maniera perentoria e decisa, poiché «equivarrebbe a porsi al di fuori del ritorno [Rückgang] vivente nell’origine e del vivente venire alla luce [Hervorgang] a partire da essa»10. Il senso, in altre parole, non va conferito alla vita da una dimensione esteriore ad essa; il senso è il prolungamento della vita, le sue ragioni si costruiscono vivendo. Per questo, i modi con cui la vita è descritta non sono quelli di un approccio biologistico o naturalistico, né tanto meno

9.  Ivi, p. 4. 10.  Ibidem.

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sono i termini di un’oscura forza che tutto ingoia dentro di sé. Dovendo circoscrivere il carattere specifico della vitalità, Heidegger la individua come una «compagine» di domande e di «modalità di risoluzione» che presenta uno specifico carattere retroflesso su di sé11. La vita, dunque, non è l’immediato in attesa di un indirizzo, semmai qualcosa che ci è vicino, così vicino che da esso manca la distanza per vederla «nel suo esserci in genere»12. Egli evidenzia una sorta di inevitabile schiacciamento sulla vita, sulla vita che «noi siamo e che è noi (accusativo)»13. E questo schiacciamento può avvenire perché solo a partire dalla vita noi vediamo noi stessi nelle direzioni che ad essa appartengono. Si chiarisce così anche lo statuto della fenomenologia. Essa è comprensione della vita perché è un ritorno ad essa; ed è questo ritorno come qualcosa che ritorna presso di sé, essendo alla vita inerente. In questo senso la fenomenologia è agli occhi di Heidegger scienza originaria, dal momento che si orienta all’origine. Soltanto che l’origine non è un’ultima e semplice proposizione, un assioma da cui tutto si può derivare, né alcunché di mistico o inaccessibile, a cui aderire mutilando le facoltà della nostra esistenza. Scienza, metodo e vita costituiscono così una triade. Descrivendo la vita, Heidegger scrive: «solo l’autentica realizzazione concreta e l’attuazione [Vollzug] (il seguire) delle “tendenze” che agiscono in essa stessa [scil. la vita] conducono ad essa stessa e al suo campo problematico più proprio, che interpella soltanto qualora sia assunto esso stesso nella tendenza fondamentale della fenomenologia»14.

11.  Cfr. ivi, p. 1. 12.  Ivi, p. 25. 13.  Ibidem. 14.  Ivi, p. 4.

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3. Il circolo della domanda filosofica Nelle analisi che Heidegger propone la vita si contraddistingue per una caratteristica chiara: l’auto-sufficienza (Selbstgenügsamkeit). Essa è impegnata costantemente in una serie di attività e non ha bisogno di altro per trovare il senso che le è proprio. La vita, cioè, «non ha bisogno di uscire da se stessa (di torcersi uscendo fuori da se stessa) per portare ad adempimento le sue tendenze genuine»15. Ad essa appartiene un mondo. Quale? Il nostro, che non è soltanto quello privato e individuale, ma il pezzo di mondo che appartiene a ciascuno di noi, come individuo, membro di una comunità, abitante di un’epoca. Heidegger ne dà una triplice declinazione: «mondoambiente [Umwelt]», «mondo del-con [Mitwelt]» e «mondo del-sé [Selbstwelt]»16. Non tre mondi diversi, né tre ambiti separati che si sommano, ma sfere che si compenetrano e si riferiscono l’una all’altra traducendosi in tendenze verso gli altri o verso l’ambiente circostante. Questo plesso però ha un centro, almeno nelle analisi che qui stiamo seguendo. Heidegger lo definisce una «labile situatività» non teoretica, ma emotiva. Questa vita trova dentro di sé le proprie ragioni; e non importa se essa si riveli insoddisfacente, noiosa, se non raggiunga mai compiutamente gli obiettivi che si dà. Non importa perché la vita è sempre centrata su di sé, sulle proprie possibilità di espandersi rimanendo se stessa. Ricordiamo la questione che sta a cuore a Heidegger: la filosofia come scienza dell’origine è scienza della vita e da essa, dunque, scaturisce. Alla luce di quanto detto sorge una domanda: è sufficiente l’autosufficienza della vita, come appena descritta, per delineare una volta per tutte l’oggetto della filosofia? Heidegger non ha dubbi: no. Il campo d’indagine della fenomenologia, 15.  Ivi, p. 26. 16.  Ivi, p. 27.

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che qui equivale alla filosofia come tale, non è infatti immediatamente dato o stabilito in anticipo, ma deve essere mediato. L’oggetto della filosofia, cioè, va portato alla datità e perciò esso deve essere ricercato all’interno di un processo che è in qualche modo originato a partire dalla vita stessa. Il paradosso davanti a cui il sapere filosofico si trova è evidente. La vita è in una sorta di autodatità entro cui la sua esistenza, come presupposto della filosofia, deve essere portata a espressione come una presupposizione posta e saputa. Non c’è una identità immediata tra vita fattizia e la sua origine. L’uso da parte di Heidegger di un vocabolario tipicamente dialettico per distinguere una vita in sé (Leben an sich) e il suo ambito originario (Leben an sich und für sich) sottolinea il fatto che la dimensione dell’originarietà non è un semplice dato presente nel corso della vita immediata, ma piuttosto un’auto-datità a cui si perviene attraverso un metodo fenomenologico originario17. Di questa condizione sono testimonianza le parole usate durante le lezioni di poco anteriori. Per evitare di fondarsi in qualcosa d’altro da sé, risultando così semplicemente derivata e non più originaria, la filosofia deve poter determinare a partire da se stessa il proprio carattere di scienza dell’origine. La circolarità implicita nell’idea di una scienza originaria, vale a dire la circolarità del presupporre se stesso, del fondare se stesso, del tirarsi fuori con le proprie forze dalle paludi (della vita naturale) – una sorta di problema di Münchhausen per lo spirito – non è una difficoltà voluta a forza o costruita con finezza, ma è già il segno di un che di essenzialmente caratteristico della filosofia e della natura del suo metodo: questo, cioè, deve metterci in grado di superare la circolarità apparentemente invincibile, e di superarla in quanto esso permette

17.  Rileva quest’utilizzo R. Lazzari, Fenomenologia come scienza dell’origine. Osservazioni sulle prime lezioni friburghesi di Heidegger, in «Discipline filosofiche», IX, n. 2, 1999, pp. 15-38: p. 25.

81 di comprenderla come necessaria e come una legge della sua essenza.18

Questo brano esprime l’esigenza che la scienza originaria si mostri come scienza senza presupporre in nessun modo l’idea di scienza a cui essa attinge. Questa peculiare, e se si vuole ambigua, natura rappresenta il punto di partenza da cui secondo Heidegger è possibile salvaguardare la filosofia da tutte le false rappresentazioni prodotte o attraverso la pretesa di plasmare la filosofia sui criteri scientifici di rigore ed esattezza, oppure attraverso la pretesa opposta di ridurre la filosofia, in quanto scienza dello spirito non omologabile alle discipline scientifiche, all’annuncio di una visione del mondo. Entrambe queste prospettive sono accomunate da una medesima incapacità di cogliere l’autentico modo di essere della filosofia. La sua circolarità, che Heidegger definisce una necessaria legge essenziale, non può però a questo punto rimanere un carattere semplicemente formale. Il pensiero filosofico, se colto radicalmente, è pensiero del fondamento, mette cioè in questione l’origine nel suo provenire da sé. Allo stesso tempo, però, la filosofia è immersa nel movimento da e verso se stessa che caratterizza la vita. Per questo essa è legata costitutivamente al suo oggetto, l’origine, rispetto a cui le manca una distanza assoluta. Lo spazio di questa relazione è la vita, dentro cui la filosofia è immersa; ne è una sua direzione, inseparabile dal “noi” che filosofa. La riflessione sull’origine arriva sempre troppo in avanti rispetto al suo cominciamento, alla sua prassi di vita: «dal momento che ci troviamo noi stessi nella linea, non riusciremo mai a porci sul suo primo punto partendo da un luogo esterno ad essa»19. Perciò, anziché riflettere sul cominciamento, non resta che cominciare «di fatto».

18.  M. Heidegger, Per la determinazione della filosofia, cit., p. 28. 19.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 5.

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4. La struttura espressiva della vita Dando seguito a questa interpretazione della vita, Heidegger ne osserva una prima e fondamentale caratteristica: nella vita vivente tutto si esprime «in qualche modo». Tutto ciò che si è incontrato nel mondo – persone, oggetti, ricordi – possiede sempre una qualche configurazione significativa. Più che sull’analisi dei modi, però, Heidegger si sofferma su un aspetto strutturale: mondo-ambiente, mondo del-con e mondo del-sé non sono sullo stesso piano. Quest’ultimo presenta la possibilità di fungere da gradazione massima, da centro, in quanto indice delle tendenze e dei caratteri mondani che la vita assume. Essa può essere vissuta e compresa come specifica espressione del Sé. La vita, cioè, tende al mondo del-sé come a un suo apice; ciò accade perché non è articolata soltanto in base a un “checosa”, ma essenzialmente anche in base a un “come”. Il mondo, a partire dal mondo-ambiente e poi come mondo degli-altri e mondo-proprio, si delinea come emotivamente situato. La vita vive se stessa e i modi con cui lo fa – la ritmica emotiva e i nessi tra le sfere mondane – costituiscono il culmine della vita vivente nella vita del Sé. Così, i due caratteri principali della vita, autosufficienza e espressività, si mostrano profondamente legati20. La vita basta a se stessa perché essa vivendo produce nel mondo il suo senso, trascendendosi dispiega il suo Sé. Questo Sé non è un contenuto che si presenta alla coscienza nella trasparenza della riflessione; il Sé non è un “io”, ma una certa configurazione di espressione (Ausdrucksgestalt). Esso è il ritmo dell’esperire, ritmo nel senso che la mia esperienza è concreta nella misura in cui possiede un’accentuazione fatta di passioni, motivazioni e tutto ciò che partecipa a situarmi nella vita vivente.

20.  Su questo insiste Th. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1993, pp. 120 ss.

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A detta di Heidegger siamo qui di fronte a una novità; il problema della situazione è il fenomeno che la filosofia non ha fino a quel momento posto in evidenza. Se un’eccezione c’è stata, essa è venuta con il cristianesimo, o meglio con il paradigma di vita cristiana, che ha spostato il baricentro della vita sul mondo del-sé. Cade qui un punto teoretico fondamentale. Infatti, la partecipazione del Sé nelle direzioni della vita vivente si presenta come un contro-movimento rispetto alla naturale tendenza della vita a dispiegarsi nei nessi mondani. Questa è la sua “storicità” essenziale. La tendenza del Sé a spiegarsi nel mondo-ambiente e con-altri, la sua tendenza a storicizzarsi, fino al punto da essere «pilotata» dalla significatività mondana, rivela insieme un contro-movimento in direzione opposta. Si prefigurano così quelle obiezioni che Heidegger avrebbe in seguito rivolto a Husserl al tempo della mancata collaborazione per la voce «Fenomenologia» dell’Encyclopaedia Britannica, dubitando della possibilità di una soggettività pura de-­mondificata che stesse in rapporto con l’io nella «totale concrezione della mia vita»21. Il paradosso fenomenologico di un soggetto che opera la riduzione e un soggetto risultato della riduzione è da Heidegger assorbito e trasposto nella paradossalità della vita fattica già nei primi anni friburghesi, dove la pretesa di un soggetto spettatore puro dei propri atti è messa fuori gioco dall’impossibilità della vita di prendere distanza da sé. Non c’è dubbio che questa strada non elimini di per sé il problema

21.  Cfr. E. Husserl, Der Encyclopaedia Britannica Artikel, in Id., Phänomenologische Psychologie, Husserliana, vol. IX, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag, pp. 237-301: pp. 274 ss. Su questo si vedano R. Cristin, La voce «Fenomenologia» e gli anni del dissidio, premessa a E. Husserl - M. Heidegger, «Fenomenologia». Storia di un dissidio (1927), tr. it. di R. Cristin, UNICOPLI, Milano 1986, pp. 13-58, in part. pp. 35 ss., e J. Taminiaux, The Husserlian Heritage in Heidegger’s Notion of the Self, in Th. Kisiel - J. van Buren (a cura di), Reading Heidegger from the Start. Essays in his Earliest Thought, State University of New York Press, Albany 1994, pp. 269-292.

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dell’accesso alla dimensione originaria del mondo-della-vita, ma, anziché far affidamento su un salto auto-riflessivo, entra qui in gioco la circolarità metodica propria della filosofia, che possiede una connotazione ermeneutica già sufficientemente chiara. Heidegger infatti compie un passo ulteriore per tracciare un legame diretto tra il fenomeno della vita culminante nel mondo del-sé e il comportamento conoscitivo. Ora, il problema è come un mondo della vita, o un suo scorcio, entri nel processo di espressione “scienza”. Tra mondo della vita e comportamento “scientifico” resta identica la direzione della vita, il suo corso; la vita cioè mantiene il carattere espansivo e relazionale tra mondo-ambiente, mondo degli-altri e mondo del-sé. Quello che interviene è un processo di trasfigurazione. L’atteggiamento scientifico modifica la tendenza della vita vissuta, stabilizzando le connessioni e sottoponendo le esperienze a una totalità di volta in volta determinata22. Qui è la differenza tra l’atteggiamento teoretico delle scienze e l’esperire fattico, che invece è immerso nelle connessioni mondane senza mai farne l’oggetto del proprio orientamento determinato. La vita in sé è immersa nel trascorrere di ogni fase nella successiva, senza che mai nessuna assuma un risalto tematico. La scienza invece emerge dallo spettro dei mondi della vita e conferisce loro un orizzonte “tematico” oggettivo. Su queste basi Heidegger espone «la struttura originaria della situazione»23 che si esprime attraverso un senso di contenuto, uno di rife22.  Cfr. L. Samonà, Interrogazione radicale della filosofia e vita nelle lezioni heideggeriane del 1919-1920, in «FIERI», Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi dell’Università di Palermo, n. 3, 2005 (Il giovane Heidegger tra neokantismo, fenomenologia e storicismo, a cura di P. Palumbo), pp. 29-42: p. 35. 23.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 207. Su questo si veda in particolare S. Galanti Grollo, Esistenza e mondo. L’ermeneutica della fatticità in Heidegger, Il Poligrafo, Padova 2002, pp. 105 ss.

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rimento e un senso di compimento. Abbiamo già visto in che modo – nel senso di contenuto – la vita è il suo mondo, vale a dire la triplice connotazione del mondo come “ambiente”, come “con-altri” e “mondo del-sé”. Questo intreccio mondano risulta però già sempre preso entro un riferimento a sé, il quale senso (Bezugsinn) fa sì che la vita sia «un determinato provenire da determinati motivi e un procedere ed essere inclini a determinate tendenze»24. Tra motivo e tendenza si dipana il riferimento che dà propriamente senso alla vita; non un senso cosciente, o non necessariamente cosciente, dato che in esso la vita non sempre possiede se stessa. Così Heidegger lo descrive: «Nella stessa situazione ciò che è motivo può essere al tempo stesso vivo come tendenza. Il senso di riferimento non è una relazione tra due oggetti, ma è invece esso stesso già senso di un compimento [Vollzug], di un essere partecipe del sé»25. Si comprende così che senso di contenuto, di riferimento e di compimento non sono componenti trascendenti l’una rispetto all’altra, ma tre movimenti che esprimono l’unica e immanente motilità della vita: «l’avere-se-stesso […] è un processo di acquisizione e perdita di familiarità con la vita»26. Non l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro insieme: il compimento della vita propria è un contro-movimento rispetto alla dispersione delle motivazioni nelle attività mondane; si può vivere senza avere se stessi, in maniera non propria o inautentica – come Heidegger dirà più avanti –, ma il compimento è il grado con cui ogni volta è riacceso nel mondo il senso di riferimento. L’essere del mondo è il senso con cui si comunica ed esso è una concentrazione di senso da rinnovare ogni volta.

24.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 206. 25.  Ivi, p. 207. Su una lettura del Vollzug tesa a valorizzarne l’elemento performativo si veda A. Cimino, Phänomenologie und Vollzug. Heidegger performative Philosophie des faktischen Lebens, Klostermann, Frankfurt a.M. 2013. 26.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 206.

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All’interno di questa struttura della vita si dà a vedere l’atteggiamento della scienza. Da un lato ciò che in essa si prospetta è una tematizzazione del senso di riferimento; ci si focalizza su di un determinato “in qualche modo” con cui un fenomeno si manifesta, ad esempio i quadri di Rembrandt all’interno di una esperienza estetica; immediatamente però questa espressione diventa “ciò su cui” si delinea un atteggiamento scientifico; nell’esempio di Heidegger, un’indagine storico-artistica sul pittore olandese. E così la riflessione del mondo della vita come mondo del-sé si trasforma in una trasposizione di quello specifico nesso vitale in «un’assoluta oggettività [Sachlichkeit]»27, dove viene oscurata e persa la storicità situata di quello stesso atteggiamento obbiettivante. L’ambito tematico diventa una cosalità priva del riferimento vitale al Sé; «i mondi della vita vengono assunti dalla scienza in una tendenza di sottrazionedella-vita [Entlebung] e con ciò la vita di fatto viene derubata della propria effettiva possibilità del suo compimento vitale di fatto»28.

5. Potenza creativa del negativo Giunti a questo punto, torna a porsi la questione da cui le lezioni heideggeriane partivano, e cioè quale sia lo statuto scientifico specifico della filosofia in quanto fenomenologia. Cosa distingue l’atteggiamento conoscitivo delle scienze da quello della filosofia? La filosofia, se è scienza dell’origine, conserva infatti una peculiarità tematica. Un conto infatti sono le esperienze del mondo del-sé prodotte dalla scienza, la quale si rivolge ai contenuti mondani dell’esperienza, al loro che-cosa (Wasbestimmtheiten) e ai relativi nessi, conferendo loro statuto

27.  Ivi, p. 62. 28.  Ibidem.

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di oggettività29; altra e diversa cosa sono questi mondi nel loro stesso Sé. Altra cosa, cioè, è l’esperienza del Sé in quanto essa implica la partecipazione e l’essere del Sé presso la corrente della vita vivente. Il problema allora cambia forma e diventa l’accesso verso l’ambito originario a partire dalla vita fattica. Heidegger osserva: di fatto il corso della vita potrebbe proseguire senza mai praticare una scienza dell’origine. Eppure è possibile rintracciarvi un carattere tale che essa si comprima su una dimensione originaria («in den Ursprung zurückgenommen wird»30). In questo modo sarà indicata la via attraverso cui la vita, scaturendo da essa, verrà saputa. Possiede la filosofia, in quanto tendenza orientata verso la teoresi, gli strumenti in grado di compiere questo accesso? Qui sorge per Heidegger il problema della fenomenologia come metodo, che lo accompagnerà lungo tutti gli anni di gestazione di Essere e tempo, fino al famoso paragrafo settimo di quell’opera. Ogni esperienza – tanto come esperire (lato noetico) quanto come esperito (lato noematico) – si può cioè cogliere come fenomeno seguendo le tre direzioni di senso già indicate. Un “che cosa”, che indica ciò che nel fenomeno è esperito, un “come” in cui esso è esperito e un secondo “come”, potremmo dire riflesso, in cui il senso del riferimento è attuato. La vita, che specifica il suo tratto fondamentale nel compimento, si determina come comprensione rinnovata, e non soltanto recepita, dei rapporti mondani. Questa è la via di accesso alla vita da parte della filosofia, che Heidegger definisce in chiusura del corso come «dia-ermeneutica». Dialettica poiché se la vita di fatto si dà secondo una determinata deformazione, questa sua articolazione in formazioni oggettuali deve essere revocata, negata. La centralità della 29.  Cfr. ivi, p. 65. 30.  Ivi, p. 69.

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dialettica risiede dunque proprio nello sviluppo che essa ha conferito al concetto di negazione. «Per questo motivo – scrive Heidegger –, nelle descrizioni fenomenologiche si dice in continuazione “non”. – Questo è il senso fondamentale del metodo hegeliano della dialettica (tesi, antitesi, sintesi)»31. L’intuizione fenomenologica non è mai riproduttiva nel senso di una descrizione di oggetti, proprietà, vissuti; essa è espressione del fenomeno, dove con fenomeno si intende la totalità delle direzioni di senso rintracciabili nell’esperienza. Distruggendo le oggettivazioni, la filosofia non propone semplicemente nuovi contenuti, né orienta la tendenza della vita verso diverse connessioni; quello che fa è depurare il modo di accesso al fenomeno, cogliendolo così come esso si mostra e nella misura in cui si mostra, per usare un’espressione dal timbro tipicamente husserliano che Heidegger riprenderà32. In questo modo si dà a vedere che la negazione esprime una carica produttiva, una «potenza motrice dei concetti di espressione»33. Si dà cioè a vedere come l’atteggiamento decostruttivo nei confronti della datità sia funzionale all’accesso verso le cose in conformità alla motilità concreta della vita34. Entrambi questi momenti, critico-negativo l’uno e affermativo l’altro, entrano a fare parte in maniera decisiva della fenomenologia come scienza dell’origine, costruendo così il modo attraverso cui la filosofia diventa evidente a sé, consapevole del proprio sapere e del modo con cui esso è conquistato. 31.  Ivi, p. 192. 32.  L’espressione compare in M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica della effettività, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 2008, p. 74. 33.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 192. 34.  Sul tema della valenza costitutiva del negativo si veda A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale (1919-1927), Guerini, Milano 1998, e anche Id., Dal vivere all’essere. Heidegger e il problema della fatticità tra λόγος τῆς ζωῆς e λόγος τοῦ ὄντος, in «FIERI», n. 3, 2005, pp. 85-111, in part. p. 108.

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Per questo il riferimento di Heidegger alla dialettica hegeliana e alla funzione della mediazione non solo non è scontato, ma configura una precisa posizione sul problema del metodo. Si può concludere allora che filosofia e metodo si co-­appartengono? Sembrerebbe di sì: se la filosofia intende essere un sapere, essa ha bisogno di un modo specifico di acquisto di quel sapere. In mancanza di esso, cosa conferisce al sapere filosofico identità, determinatezza e destinazione? Eppure, in questo modo di porre la questione Heidegger vede un rischio enorme; rischio che diventerà sempre più consapevole, ma che è possibile individuare già in questo contesto giovanile. Il rischio è quello contenuto in ogni metodo come tale, o meglio, in ogni sapere, giacché non c’è sapere (e di conseguenza metodo) che non sia compromesso con – e pertanto connotato da – una comprensione preliminare dell’oggetto. Se il sapere (e il metodo) non è qualsiasi cosa, ma è una via attraverso cui la vita si offre alla comprensione di sé e dunque al senso, quale significato assume allora la storicità del senso? La domanda accompagnerà Heidegger fino all’ultimo. Ancora nel saggio già citato del 1963, Mein Weg in die Phänomenologie, il problema della fenomenologia sarà l’enigma del senso e della sua storicità situata. Il “mistero” è quello del movimento della verità che, per un verso, come radura, mostra l’ente, e dall’altro, originariamente, è velamento, ritiro nel nascondimento (Verbergung)35. Come è possibile fare di questo stesso “doppio movimento” un fenomeno da portare a manifestazione? Come può infatti il pensiero filosofico porre una domanda di senso 35.  Geheimnis è l’espressione usata da Heidegger e si riferisce alla possibilità di rendere fenomeno (Offenbarkeit) la struttura della verità; è utile sottolineare che lo sguardo retrospettivo del 1969 riconosceva che la fenomenologia aveva già pienamente assunto la sua veste fondamentale durante Essere e tempo, e in particolare nella famosa espressione più in alto della realtà si trova la possibilità, che infatti viene ricordata (cfr. M. Heidegger, Il mio cammino nella fenomenologia, cit., p. 105).

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sulla verità (Ἀλήϑεια), che è radura e velamento insieme, se esso come tale è rivolto a ciò che si dà nella presenza ed è come presenza? Heidegger si trovò a fronteggiare queste domande non privo di assilli e imbarazzi, dovendosi peraltro anche riparare dalle accuse fin troppo scontate di irrazionalismo. La sua risposta però non rinuncerà a pretendere per il pensiero un rigore certamente diverso da quello logico e tecnico, eppure non meno ferreo. Un rigore necessario per adeguarsi all’apertura e alla domanda che lo riguarda, in modo da ricevere dall’apertura stessa la misura e la disciplina del proprio atteggiamento. Bastano questi termini, che compaiono nella conferenza La fine della filosofia e il compito del pensiero, per comprendere che, come per il metodo e la filosofia, così anche quando si tratta di fare questione del pensiero e del suo compito si rimane avvolti in un circolo inestricabile. In primo luogo, infatti, sembra problematico definire quello che in un nuovo inizio ci si dovrebbe lasciare alle spalle; come si è domandato Carlo Sini, «siamo però in chiaro (è lo stesso Heidegger in chiaro) sul “pensiero che si è avuto fino ad ora”? in che esso propriamente consiste? Nell’oblio dell’ale­theia o non piuttosto nella inconsapevolezza del contenuto della forma della verità?»36. Il compito del pensiero richiede un orientamento e una trasformazione a cui però bisogna in qualche modo disporsi, allo stesso modo in cui ogni decisione, per essere veramente tale, richiede di essere già decisi a decidere. E però, delle due l’una: o la trasformazione è veramente tale e allora il problema è come sapere di che trasformazione si tratti, verso dove porti e quale pensiero coinvolga; oppure il pensiero si trova già deciso alla decisione verso la verità, ma in questo caso non c’è bisogno di nessuna trasformazione, né di abbandonare il modo logico con cui la metafisica ha pensato

36.  C. Sini, Etica della scrittura, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 123.

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la verità, semplicemente perché si è già dentro la verità37. Le stesse difficoltà che si palesavano nel rapporto tra filosofia e metodo tornano dunque una volta giunti davanti all’esigenza di retrocedere al terreno originario e non compromesso del pensiero. L’esercizio del pensiero, come ha ripetuto più volte Heidegger, è uno stare nel circolo. Il modo, però, in cui abitare questo circolo è molto meno scontato di quanto sembri; e allora, per riprendere il percorso, vale la pena chiedersi ancora se la questione del metodo non sia un modo proprio per gettare qualche luce sul problema.

6. Il metodo e la vita vivente Ci viene in aiuto di nuovo la lezione friburghese di Heidegger. Il punto in quelle lezioni era come l’interrogazione filosofica poteva sorgere a partire dalla tensione che l’esistenza ha verso se stessa, laddove cioè emerge – potremmo dire con l’espressione che Hegel usò nella Differenzschrift – il bisogno della filosofia. Così definita la questione, la filosofia, volendo essere scienza nel senso più radicale, ovvero scienza dell’origine, non può presupporre né il suo ambito oggettuale né il suo metodo. Lo si può anche considerare un inciampo che la filosofia patisce nei propri confronti, ma non c’è dubbio che si tratti di molto più di una semplice posizione scomoda. Per capirlo è sufficiente stare a sentire il modo con cui Heidegger definisce il radicalismo che la fenomenologia richiede sul proprio metodo, in quanto essa deve potersi rivolgere «contro se stessa e contro tutto ciò che si esprime come conoscenza fenomenologica»38. È qui presente un elemento genuinamente critico e dialettico insieme della fenomenologia. Inoltre, così facendo, egli, lungi 37.  Cfr. M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e essere, cit., pp. 73-94: pp. 93 s. 38.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 7.

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dal recidere i rapporti con la grande filosofia precedente, interloquisce direttamente sia con la filosofia critica kantiana sia con la dialettica hegeliana39. E dunque stupisce davvero poco che proprio Kant da un lato e Hegel dall’altro, oltre a Platone, siano i due filosofi più volte richiamati nelle lezioni dell’inverno del 1919. D’altra parte, ancora prima che nella Critica della ragion pura la filosofia diventasse una volta per tutte lo studio dei limiti della ragione pura speculativa, delle sue leggi e dei suoi fini, in una riflessione risalente agli anni dell’Enciclopedia filosofica, proprio Kant scriveva che avere a che fare con massime e fini – «un unico fine supremo ed interno»40 dirà nell’Architettonica della ragion pura – definisce ciò che è la filosofia: una prassi, la forma razionale più elevata di vita41. Ciò che ha nome di scienza, cioè, non può costituirsi tecnicamente, ma saperi tecnici come logica, matematica e scienza della natura rappresentano quei metodi particolari che la filosofia deve poter avere a disposizione per dirigerli verso l’idea sistematica di scienza. I saperi che rispondono alla legislazione della filosofia sono dunque come strumenti in vista di un fine, dal momento che ciascuna oggettivazione implica che il punto di vista interno del sapere

39.  Sul problema del compito della filosofia attraverso un percorso che attraversa Heidegger, Hegel e Kant, si veda L. Illetterati, Sul concetto di filosofia. Le aporie della scientificità, in «Giornale di Metafisica», XL, n. 2, 2018, pp. 448-471. 40.  I. Kant, Critica della ragion pura, testo ted, a fronte, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, A 833 B 861. 41.  Il testo originale si esprime così: «Alle philosophie hat zum obiect die Vernunft: die Maximen, die Grenzen und den Zweck. Das übrige ist Vernunftkunst» (I. Kant, Refl. 4987, in Kant’s gesammelte Schriften, vol. XVIII, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1928, p. 52). Più in generale, sul profilo della filosofia kantiana si veda A. Ferrarin, The Powers of Pure Reason. Kant and the Idea of Cosmic Philosophy, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 2015.

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sia uno sguardo tecnico, assorbito dal suo oggetto. Così, pur in assenza ormai della pretesa superiorità della filosofia sulla scienza, basata su una forma di visione (theoria) veritativa, secondo Kant resta pienamente valida l’idea che la produttività sintetica della ragione conferisca un senso architettonico all’impianto del sapere. O, in altre parole, che è necessario il genere di sapere proprio della filosofia per decidere che cosa effettivamente si sappia ogni volta che, entro un determinato sapere, si conosce qualcosa. La riflessione critica sul metodo e la conseguente rivendicazione dell’autonomia da parte della filosofia rispetto alle scienze particolari, e soprattutto alla matematica, valsero a Kant un riconoscimento non da poco nella introduzione alla hegeliana Scienza della logica. Proprio considerando chi si fosse limitato a recepire il metodo matematico, applicando così al concetto l’andamento estrinseco di un sapere quantitativo, Hegel menziona Spinoza e Wolff, ma non fa alcun riferimento a Kant: «Fino a qui la filosofia non aveva ancor trovato il suo metodo»42. Effettivamente, c’erano buone ragioni per fare le dovute differenze con l’idea di metodo che la filosofia trascendentale aveva conquistato. A partire proprio dalla convinzione che alla filosofia, prima di poter tenere saldo in mano il suo sapere, tocchi in sorte una faticosa conquista, ben diversa da una semplice trasposizione tecnica di un metodo da un oggetto a un altro. Per Kant qui si tratta della funzione propedeutica riservata alla critica, in modo da arginare l’anarchia speculativa a cui la metafisica può andare incontro; per Hegel, invece, ne va del privilegio di cui proprio la filosofia non può godere, a differenza di tutte le altre scienze, vale a dire di «presupporre tanto i suoi oggetti, come dati immediatamente dalla rappresentazione, quanto il metodo del conoscere, per iniziare e 42.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1981, vol. I, p. 35.

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procedere»43. In ogni caso, per entrambi, la filosofia non può ammettere che il suo contenuto le arrivi, già costituito, da altra fonte; sia Kant parlando di sistema della ragione44, sia Hegel, riferendosi al «sistema dei concetti»45, intendono la ragione come un’attività che impone a sé la propria direzione senza poterla assorbire dai suoi oggetti. Se il sistema del sapere deve costruire se stesso senza accogliere nulla dal di fuori, ciò è possibile poiché «un tal metodo non è nulla di diverso dal suo oggetto e contenuto»46. Come noto, la strada imboccata da Hegel in queste pagine introduttive alla Scienza della logica sarà poi consolidata nell’Idea assoluta, dove una teoria del metodo della filosofia diventa compiutamente uno dei due pilastri, insieme alla conoscenza speculativa, della hegeliana metafisica dello spirito, peraltro evidenziando, qui senza possibilità di smentita, anche la consistente distanza dalla filosofia trascendentale. Bastano i pochi riferimenti prodotti per comprendere che quando Heidegger definisce la fenomenologia come una questione di metodo, ciò non ha nulla a che fare con il metodologismo delle scienze, ma con il fatto che senza metodo anche quel sapere che la filosofia pretende di essere non potrebbe sapere di essere quello che è. Per questo la questione del metodo ha a che fare con la questione del pensiero. E allora, una volta che si è intesa la vita come vita vivente, Heidegger può dire che la comprensione fenomenologica ha il compito di «camminare lungo il senso», e cioè di seguire effettivamente l’essere, anziché sorvolarlo mantenendosi a distanza da esso47. Risulta così 43.  G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. III, La scienza della logica, a cura di V. Verra, UTET, Torino 2004, § 1, p. 123. 44.  Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., A 860 B 832. 45.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 36. 46.  Ivi, p. 37. 47.  Cfr. M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 208.

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inservibile un metodo prestabilito, che definisca a priori il proprio ambito di applicazione indipendentemente da ciò a cui si applica. Al contrario, per un pensiero genuinamente fenomenologico non c’è infatti un essere dispiegato e a disposizione; non c’è una vita vissuta, ma un movimento vivente in atto. Esso ritrova se stesso procedendo e produce la legittimazione della strada che intraprende soltanto percorrendola. Non è forse qui che sorge – e si può scorgere senza nessuna retorica – la centralità della domanda per la filosofia, e del suo carattere formale su cui Heidegger ha frequentemente attirato l’attenzione? Essa ha la caratteristica di essere coinvolta in ciò intorno a cui muove la stessa interrogazione; questo, però, più che il retrocedere riflessivo del circolo, testimonia ancora una volta l’immanenza del senso nel fenomeno della vita vivente; la domanda sull’essere, infatti, non è indirizzata sull’oggetto più che sul soggetto che interroga, e perciò in essa ne va, oltre che del significato “essere”, anche del posto che il significato occupa nel mondo. In questo modo, però, a cambiare è la stessa direzione entro cui accade la domanda48. Non più dal soggetto verso l’essere, ma, proprio per il suo essere di domanda, che deve averlo in qualche modo già frequentato, nella domanda non fa che prolungarsi il mondo stesso. Quello che rileva qui, infine, è allora chiedersi se la questione del senso debba porsi come mera riflessione su condizioni e presupposti della comprensione, per sancirne la condizione costitutivamente pregiudicata, oppure se il punto stia nel presentarsi sempre nuovo e rinnovato da parte dell’evento storico del senso ogni qualvolta accada l’incontro con le cose e con il mondo.

48.  Chi ha promosso un’inversione di questo genere rispetto alla logica con cui porre il tema della verità è stato M. Adinolfi, La verità come compito della filosofia, in «Nóema. Rivista online di filosofia», n. 2, 2011, pp. 11 ss.

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7. Camminare lungo il senso Il tema della domanda – e la relativa circolarità tra interrogato e interrogante – se per Heidegger è un cantiere aperto nei corsi dei primi anni Venti, giunge a piena consapevolezza con Essere e tempo, dove diventa la spina dorsale per chiarire la struttura formale del problema del senso dell’essere. Qui, attraverso l’analisi del domandare (Fragen) e del cercare (Suchen) compiuta nel secondo paragrafo dell’opera, si chiarisce il cammino che seguirà: non la diretta esposizione dell’essere nei suoi modi e neppure l’indagine dell’ente interrogato, ma l’analisi di quell’ente specifico – il richiedente – in cui l’essere si dà in una comprensione preliminare. Di nuovo, quindi, come era per la vita in sé e per sé, nel celeberrimo punto di avvio di Sein und Zeit la circolarità ora propria dell’esserci, in quanto ente che ha la possibilità d’essere che «consiste nel porre il problema», designa l’autentica struttura del fenomeno. Essa è funzionale all’ostensione che fa vedere il fondamento, il quale non è semplicemente un qualcosa dispiegato davanti al pensiero che lo cerca, ma è nel modo di un retro o pre-riferimento (Rück- oder Vorbezoghenheit) al cercare stesso49. Attraverso questa impalcatura ontologica, esso risulta un presupposto sempre posto, a cui cioè si retrocede a partire dal condizionato su cui quel fondamento è chiamato a promuovere la sua impresa fondativa. Chiaro allora il motivo per cui lo statuto del metodo (l’interrogare) non possa che andare di pari passo con il peso ontologico dell’oggetto (l’esserci), che di lì a breve Heidegger circoscriverà più precisamente. Lasciando da parte gli sviluppi di Essere e tempo, a noi interessa qui in conclusione riprendere brevemente le fila di una questione più limitata, che è messa sul tavolo dalle lezioni fri-

49.  Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, nuova ed. a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, p. 24.

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burghesi del 1919, e riguarda la ragione per cui, agli occhi di Heidegger, la fenomenologia debba sentirsi profondamente interrogata da parte della dialettica. Al di là dell’invenzione di termini originali, e “dia-ermeneutica” lo è senz’altro, è il carattere specifico della struttura della vita che conduce Heidegger a un giudizio pieno di considerazione per la dialettica. Infatti, il fenomeno della vita ha una motilità specifica; anzi, per dire meglio, la vita è movimento in quanto tale, eppure un genere di kinesis del tutto particolare. Il suo essere presso di sé è l’esito di un approdo, che però inizia dalla vita stessa; esso non è, cioè, un semplice venire da altro, ma un ritorno a sé da parte della vita. La vita non ha bisogno di uscire da se stessa per portare a termine le sue tendenza e, attraverso di esse, le possibilità che essa è; eppure, questo adempimento non è semplicemente un corso lineare. L’essere-presso-sé della vita è un modo specifico di vivere tale che esso sia un ritorno vivente nell’origine. Non abbiamo fatto altro che riprendere concetti già ampiamente analizzati. E in particolare, l’attenzione va ora diretta sul fatto che la vita «in sé e per sé» implichi una negazione di sé come rifiuto del proprio «fuggire via» (Nicht-weglaufen); essa così assume un carattere negativo grazie a cui l’esserepresso-sé, in quanto soffermarsi (Verweilen), è un ritorno e insieme un portare alla luce nuovo. Questo è il movimento circolare che definisce la vita: a partire da sé si torna a sé, per diventare altro da «come» si era se stessi. Non stupisce dunque che, ripercorrendo questo plesso concettuale, Heidegger osservi che è grazie all’«utilizzo della negazione» che i fenomeni giungono a espressione. Detto in altre parole: non esiste comprensione né intuizione in cui ciò che si comprende o si intuisce possa fare a meno di un certo movimento per essere quello che è. Movimento che è il passare in altro o divenire sé. E allora non è difficile cogliere il motivo per cui Heidegger sentisse provenire proprio dalla dialettica la sfida principale

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per la fenomenologia50. Non c’è dubbio infatti che ogni dialettica è tale poiché trova nella mediazione l’orizzonte entro cui fissare la dimensione originariamente unificante del principio. Soltanto per considerare l’approdo più avanzato, l’idea hegeliana dell’essere e del nulla, esposta attraverso la prima triade della Scienza della logica, si fa carico esattamente di questa esigenza: nessuna determinazione è pensabile in sé e per sé, né è possibile afferrarla in sé e fissarla isolatamente senza il riferimento ad altro, senza cioè il suo divenire. Vale per tutte le cose, comprese le categorie più astratte, identità e differenza. In quest’ultimo caso, anzi, la mediazione esprime un intreccio ancora più stretto. Infatti, la pretesa di tenere isolate la posizione dell’identità e la posizione della differenza è proprio quello che determina l’impossibilità di tenere distinti questi due atti. La mediazione dunque è l’orizzonte primo, originario di ogni possibile comunicazione; compresa, naturalmente, quella tra pensiero ed essere, il quale non potrà più starsene da solo «privo di intelletto, immobile e fermo» alla maniera dell’essere parmenideo descritto da Platone nel Sofista (248e-249). Ora, Heidegger scrive che l’autentica dialettica non è «dialettica nel senso della giustapposizione sintetica dei concetti»51; espressione che potrebbe sembrare persino una presa di distanza dalla presunta tautologia impressa nella circolarità della Reflexion hegeliana. Si può insomma anche accogliere l’idea che non fossero le capriole dialettiche hegeliane, per cui gli opposti, proprio perché si oppongono, risultano del tutto identici, a incontrare il favore del giovane Heidegger. Il vero atteggiamento 50.  Ha sottolineato questo rapporto in maniera convincente L. Samonà, Interrogazione radicale della filosofia e vita nelle lezioni heideggeriane del 19191920, cit., p. 38. Non sembra invece individuare una prospettiva di questo genere J. Grondin, The Ethical and Young Hegelian Motives in Heidegger’s Hermeneutics of Facticity, in Th. Kisiel - J. van Buren (a cura di), Reading Heidegger from the Start. Essays in his Earliest Thought, cit., pp. 345-360. 51.  M. Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 208.

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filosofico infatti non può mai essere «quello di un tiranno logico, che intimorisce la vita», ma semmai una disposizione erotica, comunicativa, che «esige un lasciarsi andare nelle ultime tendenze della vita e un fare ritorno ai suoi ultimi motivi»52. Se queste sono le parole usate da Heidegger per definire la sua idea di dia-ermeneutica, è altrettanto vero però che il metodo dialettico hegeliano – come si è visto – rifiuta decisamente il ruolo di sovrano assoluto per dare veste logica alla realtà; essa non è, insomma, una dottrina costruita a prescindere dall’essere di cui è mediazione. E qui è sufficiente leggere le pagine della Scienza della logica che articolano il passaggio dalla vita al conoscere, dove l’oggetto non è più semplicemente la datità immediata di fronte al conoscere, ma l’oggettività intessuta di rapporti meccanici e chimici la cui unità è espressa nella relazione teleologica. In essa quei rapporti «che appartengono alla sfera della riflessione o dell’immediato essere, hanno perduto le lor differenze, e […] quello che vien enunciato quale un altro, […] nella relazione dello scopo non ha più la determinazione di un altro, ma è anzi posto come identico col semplice concetto»53. Non c’è dubbio che l’obiettivo di Hegel in questo frangente sia quello di portare a fondo (zu Grunde gehen) il fondamento a tal punto da far diventare il concetto la base (Grundlage) di pensiero e realtà. Ne derivano due conseguenze: da un lato, che questa base precede i termini di cui è apertura, e dall’altro che la relazione vive e si esprime perfettamente nei termini; essa è l’orizzonte entro cui essere e pensiero possono intrecciarsi e, infine, comunicare. Con buona pace, secondo Hegel, di ogni atteggiamento soggettivistico nei confronti del pensiero, teso a descriverlo invece come il prodotto di un io isolato, di un soggetto e dunque, da ultimo, come uno spazio privato proveniente da un foro interno e in52.  Ivi, p. 209. 53.  G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. II, p. 850.

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dividuale54. Oggettività del pensiero, agli occhi di Hegel, indica questo orizzonte dentro cui la comprensione è intelligenza aperta a una realtà non semplicemente altra, ma, pur secondo modi diversi, essa stessa possibilità di comunicazione e intelligenza. L’impostazione hegeliana propone un equilibrio perfetto tra pensiero ed essere, al punto da escludere di poter spingere lo sguardo verso l’apertura in quanto tale, verso il ci dell’apertura, prima che la piega riflessiva e comprensiva si avanzi nei confronti dell’essere. Nella lezione di Heidegger sembra invece che il compito del pensiero sia quello di attingere la motilità della vita come origine, di lasciar-essere la vita in quanto situazione, e dunque anzitutto di descrivere il mondo in quanto apertura. Non significa questo che il ci del mondo resti escluso come se fosse l’impensabile; piuttosto esso è ciò che resta estromesso dal pensiero descritto semplicemente come presa sintetica dei concetti. Dove si misura la differenza? Ad esempio, per rimanere sul terreno preferito della Scienza della logica, nella possibilità (hegeliana) o meno di definire, una volta per tutte, la teleologia come la verità, pura e semplice, della relazione meccanica. Teleologia come sintesi perfetta di ogni relazionalità naturale. Per Heidegger invece, oltre ai motivi di ispirazione provenienti dalla dialettica, emerge qui soprattutto l’esigenza di mantenersi a distanza da una contaminazione eccessiva con essa; lo strumento utilizzato allo scopo è senza dubbio il riferimento a una tensione in qualche modo non mediabile presente nella vita. Questa insistenza sembra il 54.  Sulla caratteristica del concetto hegeliano come monismo logico-relazionale della soggettività è tornato recentemente Brady Bowman, che scrive: «The unique character of the Concept lies in its being constituted wholly by relations which themselves are metaphysically prior to any relata that might appear to realize those relations» (B. Bowman, Hegel and the Metaphysics of Absolute Negativity, Cambridge University Press, Cambridge 2013, p. 37).

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tentativo di preservare l’apertura della vita fattica da un’unità costruita soltanto a partire dal pensiero. Che significa? Innanzitutto, che quella hegeliana non è la sola possibilità ermeneutica in campo, come bene scriverà Merleau-Ponty ne Il visibile l’invisibile, facendo leva proprio su una diversa connotazione dialettica del pensiero: «La filosofia non scompone la nostra relazione con il mondo in elementi reali, o anche in riferimenti ideali che farebbero di esso un oggetto ideale [le opposte alternative del meccanicismo e del finalismo], ma vi discerne delle articolazioni, vi risveglia dei rapporti regolati da pre­posesso, da ricapitolazione, da sconfinamento, che sono come sopiti nel nostro paesaggio ontologico»55. Tra meccanicismo e teleologia si dovrebbe piuttosto trovare un terreno di indifferente diversità. Né semplice meccanicismo, che vorrebbe dire interminabile casualità dell’adeguatezza tra realtà e fine, della comunicazione tra parola e cosa; e neppure puro teleologismo, dove invece a prevalere sarebbe la fattura soggettiva di questa comunione. Nel mantenere l’ambiguità tra le due vie risiede il compito della filosofia, che non sta principalmente nel fornire riferimenti ideali scomponendo il mondo, ma nel camminare lungo il senso del mondo, rivelando rapporti ancora coperti eppure già regolati da una preliminare comprensione. Questa bella espressione di Heidegger offre un prezioso suggerimento su come interpretare il circolo ermeneutico. Non cioè come un modo per distanziarsi dalle cose e dal mondo per via della moltitudine di condizioni e pregiudizi che affettano ogni nostra comprensione intrinsecamente storica. Ma un cammino per avanzare nel mondo insieme alle cose a cui apparteniamo. In una lettera del 1966 per Eugen Fink, commentando un breve passo di Nietzsche, della Volontà di potenza, Heidegger scrive: «il metodo costituisce l’oggettività stessa degli oggetti,

55.  M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tr. it. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 2003, p. 121.

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posto che qui si possa ancora parlare di oggetti, posto che lo stabilire determinazioni dell’oggettività abbia, in generale, ancora una “valenza” ontologica»56. La questione del metodo qui non indica forse un diverso portamento nei confronti dell’oggettività? Nietzsche sosteneva che «esiste soltanto un vedere prospettico»; sembra l’impero incontrastato del relativismo più assoluto, ma forse si tratta soltanto della fedeltà fenomenologica al fenomeno dell’esperienza sempre ricominciante e mai concluso. Il passo della Genealogia della morale continua così: «e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”»57. Impegnare infiniti occhi per una stessa cosa, è questo il compito che resta nelle mani della filosofia?

56.  M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1990, p. 473. 57.  F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Id., Opere, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI, t. II, Adelphi, Milano 1972, p. 323.

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Il metodo riflessivo come crisi del metodo. Appunti di lettura sul Tractatus de intellectus emendatione di Giacomo Petrarca

Veritas nullo egeat signo. TIE, § 36

1 Il metodo, ci dice un giovanissimo Spinoza mentre compone uno dei testi più straordinari e controversi della sua intera produzione filosofica, non è altro che conoscenza riflessiva o idea di idea. Quanto potente e insieme problematica sia questa definizione è ciò che cercheremo di indicare in queste brevi note e appunti di lettura che proveranno ad assumere il Tractatus de intellectus emendatione isolandolo dalle opere successive, senza pertanto ricorrere ai riferimenti e agli sviluppi che molte delle tematiche presentate in esso troveranno, in maniera particolare, anzitutto nell’Ethica. Si tratterà pertanto di spiegare il Tractatus de intellectus emendatione senza ricorrere ad altro che non sia il TIE stesso. L’operazione, le cui assunzioni metodologiche possono essere ampiamente opinabili, è mossa dall’esigenza di indicare come il TIE costituisca un testo per nulla secondario o preliminare per la riflessione spinoziana, ma indichi piuttosto il terreno in cui, nel tentativo di costruire un metodo, venga essenzialmente messa in questione l’idea stessa di un metodo come “strumento” di accesso al sapere. Spinoza si rende da subito conto che l’accezione di methodus, assun-

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ta secondo una certa tendenza baconiana e cartesiana1, non è solo inadeguata ma conduce a un’impossibilità stessa riguardo proprio al suo impiego come strumento del conoscere, ché lo strumento (ammesso che possa darsi) non consentirebbe alcuna conoscenza, incapace com’è di “superare” la propria natura di mezzo del conoscere – senza pervenire appunto ad alcuna conoscenza. Ora, il TIE mostra come a dover essere messa in discussione non sia solo la nozione di metodo come strumento del conoscere, ma anche, e in misura particolare, l’idea stessa di conoscenza che quel metodo implica. Tanto Jean-Luc Marion2 quanto Alexandre Matheron3 hanno mostrato, con sviluppi profondamente divergenti, quanto radicale sia questa istanza nel TIE e quali conseguenze implichi all’interno del pensiero spinoziano quello che Matheron definisce «le principe de l’intelligibilité intégrale du réel»4. Questo, a fronte delle innumerevoli considerazioni che sono state fatte sull’opera, indica come il TIE abbia una propria “compiutezza” speculativa (che non significa, certo, assenza di problematicità e di questioni irrisolte), rappresentando uno spazio completamente “presidiato” dalla riflessione spinoziana e non un avamposto abbandonato, come

1.  Usiamo cautelativamente il termine “tendenza” nel senso che, almeno in Descartes, il problema del metodo inteso come organon del sapere è qualcosa di molto più complesso di quanto non abbia voluto riconoscere la tradizione filosofica successiva (in primis l’idealismo), soprattutto perché il problema del metodo cartesiano non si risolve con il Discours de la méthode (1637), ma resta un tema costante nella sua riflessione (basti pensare al Regulae IV, in cui Cartesio scrive che «per methodum autem intelligo regulas certas et faciles»). 2.  J.-L. Marion, Le fondement de la cogitatio selon le De Intellectus Emendatione. Essai d’une lecture des §§ 104-105, in «Les Études philosophiques», n. 3, 1972, pp. 357-368. 3.  A. Matheron, Pourquoi le Tractatus de intellelctus emendatione est-il resté inachevé?, in «Revue des Sciences philosophiques et théologiques», vol. 71, n. 1, 1987, pp. 45-53. 4.  Ivi, pp. 52, 53.

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si è a lungo ritenuto dal momento che, com’è noto, Spinoza lasciò l’opera incompiuta5. Pertanto, proprio l’incompiutezza del testo – rimarcata dalla laconica nota delle Opera posthuma «reliqua desiderantur» – dev’essere assunta come momento della stessa operazione filosofica che in esso si consuma.

2 Da capo, dunque. Al § 38 del Tractatus de intellectus emendatione leggiamo la seguente espressione: «methodum nihil aliud esse nisi cognitionem reflexivam, aut ideam ideae»6. Va notata, anzitutto, la modalità con cui Spinoza presenta tale definizione in cui non deve passare inosservato l’uso, affatto disinteressato, di quel nihil aliud nisi – non altro (tranne) che – poiché, di primo acchito, esso sembrerebbe indicare l’esclusione di tutti gli altri possibili significati del metodo (come dire: all’interno di una serie di possibili accezioni, il metodo ne assume una specifica e una soltanto). Sembrerebbe una prima spiegazione convincente se, come è facile notare dal testo, vari sono i significati di metodo che vengono “preliminarmente” sondati, per poi venire criticati ed esclusi. Ma v’è dell’altro: il nisi caratterizzante il metodo indica anzitutto una torsione all’interno

5.  Sulla ricostruzione e datazione del testo, Mignini ha definitivamente dimostrato come si tratti della prima opera di Spinoza (precedente al Breve trattato). Sul tema cfr. F. Mignini, Per la datazione e l’interpretazione del Tractatus de intellectus emendatione di B. Spinoza, in «La Cultura», XVII, n. 1-2, 1979, pp. 87-160. 6.  Il testo latino verrà citato secondo l’edizione francese: B. Spinoza, Traité de la réforme de l’entendement, in Id., Œuvres. I. Premiers écrits, testo lat. a fronte, stabilito da F. Mignini, tr. fr. di M. Beyssade e J. Ganault, Puf, Paris 2009, pp. 20-155; la traduzione italiana verrà citata secondo l’edizione di F. Mignini: B. Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in Id., Opere, tr. it. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007, pp. 5-69 [d’ora in poi, TIE, § e pagina dell’edizione italiana].

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del metodo stesso. Il metodo non è altro (tranne) che questo metodo, ossia: conoscenza riflessiva. Ma intanto – e almeno questo va concesso dell’ambiguità del testo – per dirsi esso necessita della definizione di tutte le modalità inadeguate che intenderebbero caratterizzarlo, e lo fa nella modalità del non altro (tranne) che dove, per il momento, non è chiaro quale significato compiuto la locuzione debba assumere. Del resto, Spinoza avrebbe potuto esprimersi diversamente, indicando come la sua nuova “concezione” implicasse una trasformazione della stessa nozione di metodo da strumento del conoscere a quella di conoscenza riflessiva. Ma è proprio questa accezione meramente “sostitutiva” a essere interdetta e bisogna tenere conto di ciò. Il methodus è essenzialmente conoscenza riflessiva, ma quella stessa conoscenza è costitutivamente metodo. La torsione è, perciò, tutta interna al metodo stesso e non semplice esclusione di tutte le altre sue possibili accezioni. Il metodo è, propriamente, questa stessa torsione. Preferisco “torsione” a “riflessività”, per sottrarre Spinoza – almeno in prima battuta – a qualsiasi tentazione di identificare questa riflessività del metodo a posizioni proto-idealistiche7, ben consapevole tuttavia dell’uso terminologico spinoziano. Il nihil aliud nisi indica proprio la forma di questa torsione: il metodo resta hodós, resta l’organon, la via del conoscere. Ma è un conoscere che perde la propria natura meramente strumentale, o meglio, che mostra prima di tutto l’impossibilità del carattere meramente strumentale di ogni metodo: diventa riflessivo (e si tratterà di capire cosa ciò significhi). Il senso di questa torsione – che è anzitutto indicazione di una crisi all’interno del metodo stesso – è affidato ai diversi livelli sui quali si articola il TIE, piani talvolta in contrasto tra loro, la cui problematicità è tutta contenuta nei

7.  Sul tema, tutto da discutere, si veda: E. Förster - Y.Y. Melamed (a cura di), Spinoza and German Idealism, Cambridge University Press, Cambridge 2012.

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due termini che emergono nel titolo dell’opera – intel­lectus ed emendatio – la cui inseparabilità non è solo costitutiva, ma diventa la chiave di accesso per la stessa comprensione del nesso che li lega. Come si cercherà di mostrare, intellectus, emendatio, cognitio reflexiva hanno tutti a che vedere con il senso di quella torsione che diventa la cifra stessa dell’operazione filosofica di Spinoza.

3 Così l’incipit del TIE: Dopo [Postquam] che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili, e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, decisi [constitui] infine [tamen] di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi, se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.8

Che si tratti di un rimando esplicito o meno poco importa, ma innegabile è l’eco qoheletica9 che riecheggia in questo incipit, con quel suo «omnia vana et futilia» a richiamare la vanitas del tutto come prima apertura, primo “gesto” di pensiero del filosofo. Una condizione, per così dire, esistenziale quella del giovane Baruch, che assume però un valore da subito filosofico: indica la “circostanza”, o meglio, l’accertamento della mancanza di valore delle cose di fronte alla quale il filosofo è posto e da cui inizia la propria riflessione sulle cose (riflessione che è anzitut8.  TIE, § 1, p. 25. 9.  Il richiamo all’Ecclesiaste è riconosciuto anche da L. Vinciguerra, Spinoza, Carocci, Roma 2015, p. 31.

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to ricerca di un nuovo regime di vita). E qui si mostra subito la differenza, profondissima, tra Spinoza e l’enigmatica figura di Qohelet: poiché ciò che in Qohelet è alla fine e a conclusione di un percorso esistenziale (tutto ha visto, tutto ha conosciuto, tutto ha esperito Qohelet e in forza del proprio doloroso e disincantato sapere sancisce la sua dichiarazione della vanità del tutto), in Spinoza diventa, almeno all’apparenza, inizio: il gesto filosofico sorge come reazione a questa presa di coscienza sulle cose della vita e del mondo. Reazione, nella misura in cui quella vanitas non consente una conoscenza certa, ovvero: non consente conoscenza stabile. Le cose – spiega Spinoza – sono vane e futili poiché non sussistono per se stesse: ciò che caratterizza i beni e i mali è solo la desiderabilità degli uni e la speranza di esserne dispensati per gli altri. L’insecuritas delle cose del mondo è tutta esperita da colui il quale le riceve, se persino il bene si dà nell’angoscia di una perdita, ossia come un’esperienza costitutivamente irrequieta, mai certa di sé. Ma qual è il senso di questo incipit del gesto filosofico, se, a ben vedere, esso giunge solo dopo quell’attestazione di vanità delle cose: chi o cosa attesta quella vanità? L’accertamento è già del filosofo o non è piuttosto condizione a partire dalla quale solo può darsi la domanda filosofica? Il testo non fa certo mistero del fatto che il gesto filosofico giunga in “seconda battuta”, se si apre proprio con un postquam e continua, poi, con un tamen: gli avverbi in Spinoza sono elementi molto preziosi, da maneggiare con estrema cura. Il “gesto” filosofico – che per Spinoza si costituisce anzitutto come una decisione – si pone dopo l’indicazione dell’esperienza (quale esperienza?) e giunge infine: «constitui tamen» (§ 1), «Dico, me tamen constituisse» (§ 2); «modo possim penitus deliberare» (§ 7), «modo possim serio deliberare» (§ 10). Curiosa l’esigenza di ribadire questo carattere ultimativo della decisione se tale decidersi rompe proprio l’andamento di quel postquam. Di fronte al carattere “ultimo”, risolutorio dell’esperienza, il gesto filosofico diventa quella decisione, quella metanoia, quella ricerca di un regime di vita ra-

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dicalmente nuovo che, anzitutto, si fa carico di quella stessa decisione, ossia: “riflette” (si torce) sulla decisione presa e su ciò che la precede. Lo stesso stile marcatamente autobiografico con le sue pesate e incalzanti ripetizioni, lungi dall’avere un valore semplicemente pleonastico, mostra il senso più proprio di questa torsione: la decisione del § 1 è “ripresa” (in corsivo) nel § 2, come quella del § 7 (sempre in corsivo) è “ripresa” nel § 10, come dire: decidersi significa ritornare sulla decisione. In quella decisione si presenta già tutta la portata pratico-teoretica della filosofia spinoziana, il suo essere sempre gesto di pensiero e prassi insieme, indicazione di un ethos in cui il gesto filosofico si significa; del resto, quella decisione è decisione per un nuovo regime di vita. E tuttavia, non è del tutto chiaro quale sia il senso di questa riflessione, né in quale rapporto stia con ciò che l’esperienza precedente le offre. Al § 7, tornando sul senso della decisione, Spinoza spiega: «Grazie a un’assidua meditazione, giunsi a vedere che avrei lasciato dei mali certi per un bene certo, purché avessi potuto decidermi completamente». È significativo notare come questa meditatio implichi la decisione pur restando entrambe essenzialmente distinte. L’assidua meditazione è, anzitutto, meditazione sul postquam dell’esperienza: la decisione filosofica è rottura poiché intanto si fa carico di quell’esperienza dal momento che “riconosce” la meditatio già in azione in essa. Detto in altri termini, certo “diventa” non solo ciò che si dovrebbe ottenere ma anche ciò che si abbandona. La trasformazione è essenziale poiché è ciò che rende possibile la decisione (e quanto lontano sia il senso di questo decidersi da riprese novecentesche del tema è chiarissimo): questa decisione filosofica non è salto, non è rifiuto di mediazione, al contrario, ne è l’avvenuto riconoscimento: «mala certa pro bono certo omitterem» (§ 7). Solo questa “certezza” rende possibile l’abbandono di quei mali ora certi. Una volta indicato pertanto l’incipit del percorso, Spinoza passa a esporre quello che sarà l’obiettivo dell’intero TIE (ma che costituirà anche una sorta di manifesto programmatico della sua stessa filosofia):

110 Qui dirò soltanto, in breve, che cosa intenda per vero bene [verum bonum] e, insieme, che cosa sia il sommo bene [summum bonum]. Per comprenderlo rettamente, si deve notare che bene e male non si dicono se non in senso relativo, sicché una sola e identica cosa può esser detta buona e cattiva secondo diversi punti di vista, allo stesso modo che perfetto e imperfetto. Nulla, infatti, considerato nella sua natura, si dirà perfetto o imperfetto, soprattutto dopo che avremo conosciuto che tutte le cose che avvengono sono prodotte secondo un ordine eterno e secondo leggi determinate della natura.10

L’assunzione iniziale del § 1, in cui l’esperienza aveva indicato che bene e male non avessero nulla in sé di oggettivo, viene qui ripresa da Spinoza e viene indicata la distinzione tra verum e summum bonum, distinzione – per il momento – non particolarmente foriera di ulteriori chiarimenti sulla “natura” del sommo bene. Ciò su cui diventa essenziale porre l’accento è invece la conoscenza di questo “nuovo” ordine a cui la ricerca filosofica – fin dalle prime battute del TIE – dovrebbe condurre, ovvero la conoscenza del fatto che «omnia, quae fiunt, secundum aeternum ordinem et secundum certas Naturae leges fieri» (§ 12). Passaggio essenziale poiché il problema della conoscenza si presenta proprio di fronte all’indicazione di un simile ordine: come posso io conoscere questo ordine? – si chiede implicitamente Spinoza –; domanda che introduce il problema del metodo e le difficoltà che esso comporta: Ma poiché [Cum autem] l’umana debolezza [humana imbecillitas] non giunge a comprendere [non assequatur] quell’ordine [illum ordinem] con il proprio pensiero [cogitatione sua] e, intanto [et interim], l’uomo concepisce [homo concipiat] una qualche natura umana [naturam aliquam humanam] molto più stabile della propria [sua multo firmiorem] senza veder nulla che impedisca di conseguirla, egli è stimolato [incitatur]

10.  TIE, § 12, pp. 28 s.

111 a cercare i mezzi [ad media quaerendum] che lo conducano a tale perfezione: tutto ciò che può costituire un mezzo per conseguirla si chiama vero bene; invece il sommo bene consiste nel pervenire, se è possibile insieme ad altri individui, al godimento di tale natura. Quale sia questa natura mostreremo a suo luogo: senza dubbio [nimirum] essa consiste [esse] nella conoscenza dell’unione [cognitionem unionis] che la mente ha con l’intera natura [quam mens cum tota Natura habet].11

Il passaggio ci restituisce la seguente configurazione problematica: da un lato, l’humana imbecillitas non si dimostra capace di comprendere quell’ordine con la propria cogitatio, non può afferrarlo per costitutiva mancanza (e da cosa dipenda questa mancanza, non è affatto chiaro, a meno che non si consideri tale imbecillitas come un vero e proprio attributo della natura umana e la cosa è chiaramente foriera di conseguenze); dall’altro lato, l’uomo – dice Spinoza – concipiat una qualche natura umana che gli appare più “ferma” di quella che possiede; non solo: non vede alcuna impossibilità nel perseguirla, al punto da avvertire come una spinta interiore (in forza, cioè di quella stessa – e non dissimile – natura di cui è parte l’imbecillitas) a ricercare i mezzi per perseguire tale perfezione. Va tenuto ben presente come l’intero periodo sia retto dalla locuzione et interim: non vi è un rapporto di subordinazione tra i due momenti, come se l’uno fosse preliminare o scalzato dall’insorgere dell’altro. Nella stessa natura umana – ovvero: quella natura alla quale appartiene l’imbecillitas – si dà quella possibilità di conoscere e, soprattutto, di “trovare” gli strumenti per quel conoscere stesso. Del resto, che l’uomo possa concepire una natura più ferma implica proprio la consapevolezza della sua attuale condizione manchevole ovvero dell’instabilità della sua natura. Peraltro, l’assoluta equipollenza dei due piani prodotta dalla locuzione et interim sconfessa anche il bieco tentativo di correzione del

11.  TIE, § 13, p. 29.

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testo (che significa, anzitutto, rimozione della difficoltà) proposto da Wenzel e Cassirer, i quali, come nota Cristofolini, «hanno fatto carte false con il De intellectus emendatione, par. 13 […], proponendo di leggere: homo concipiat naturam aliquam humana sua multo firmiorem, contro la lezione inequivocabile delle Opera posthuma, che dà l’accusativo: humanam»12. Non vi è una natura “altra” disincarnata dalla storicità dell’essere umano alla quale la ricerca spinoziana tende, ma quella natura (umana) più stabile a cui tende l’uomo non va cercata in altro luogo che nella stessa natura umana affetta dall’imbecillitas13. È un rilievo essenziale questo che ribadisce l’estraneità da ogni forma solipsistica o deriva mistica del pensiero di Spinoza, ma la sua vocazione eminentemente politica e comunitaria (fin dal TIE): quella perfezione va cercata e condivisa «cum aliis individuis si fieri potest» (§ 13). Certo, per quanto possibile: è un che da fare, da costruire, ma che non può prescindere da quella stessa dimensione comunitaria; come lo stesso Spinoza ribadisce poco dopo: Questo è dunque il fine al quale tendo: acquisire tale natura e sforzarmi affinché molti l’acquisiscano con me. Ciò significa che è costitutivo della mia felicità anche adoperarmi a che molti altri intendano la stessa cosa che intendo io, affinché il loro intelletto e la loro cupidità convengano pienamente con il mio intelletto e la mia cupidità.14

12.  P. Cristofolini, I due/infiniti attributi in Spinoza, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», IX, n. 3, 1979, pp. 1175-1188: p. 1180. La questione relativa al testo spinoziano è stata definitivamente chiusa da A. Koyré nel testo latino stabilito per la sua traduzione del TIE (Paris 1974). 13.  Al § 16 Spinoza ribadisce: «Pertanto ciascuno potrà già vedere che io voglio dirigere tutte le scienze a un unico fine, ossia al conseguimento della suprema perfezione umana della quale abbiamo detto» (TIE, § 16, p. 30; corsivo nostro). 14.  TIE, § 14, p. 29. Non a caso, Spinoza scriverà un’ethica e non una meta­ fisica.

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L’affermazione di questa istanza comunitaria porta con sé l’esigenza di una fondazione del sapere altrettanto “comunitaria”, se per pervenire a quella felicità comune è essenziale «ut alii multi idem atque ego intelligant» (§ 14). E di nuovo: che si debba assumere il testo spinoziano avendo cura di conservarne l’adeguata configurazione, non toglie certo i problemi che esso solleva; anzi, li amplifica. Poiché – come si è mostrato in estrema coerenza con quanto espresso in TIE, § 12 – se si tiene ferma l’equipollenza dei termini connessi dalla locuzione et interim, si deve pur tuttavia dare ragione di come all’interno della stessa natura umana possano sussistere quelle due tendenze e di come si relazionino tra loro senza che l’una tolga (o invalidi) l’altra. Ancora più, se quella stessa forma della cogitatio non deve valere solo per me, ma anche – e nella medesima maniera – per gli altri. Ed è proprio a questo livello che sorge il problema dell’emendatio.

4 Così Spinoza al § 15, indicando in maniera programmatica il senso del perfezionamento della natura umana e dell’emendatio già annunciata nel titolo dell’opera: Perché questo avvenga, è necessario intendere della natura quanto basta per acquisire tale natura; poi è necessario formare una società tale quale è desiderabile, affinché il maggior numero possibile pervenga a quel fine con la massima facilità e sicurezza; inoltre si deve por mano a una filosofia morale, così come a una dottrina relativa all’educazione dei fanciulli; ed essendo la salute non piccolo mezzo per raggiungere tale fine, bisogna predisporre una scienza medica completa; e poiché molte cose difficili sono rese facili per mezzo della tecnica, con la quale possiamo guadagnare molto tempo e agio, non si deve trascurare in nessun modo la meccanica. Tuttavia, si deve anzitutto escogitare un modo di curare l’intelletto e di purificarlo dall’inizio, per quanto è possibile, affinché intenda le

114 cose felicemente, senza errore e nel modo migliore [Sed ante omnia excogitandus est modus medendi intellectus ipsumque, quantum licet, initio expurgandi, ut feliciter res absque errore et quam optime intelligat].15

Il passaggio, che vale anche come una prima formulazione della “modalità” con cui dovrà essere condotta l’emendatio, propone una precisa scansione – sia logica che etimologica – dei momenti di tale “operazione”: c’è bisogno di cercare un modo per “curare” l’intelletto e purificarlo affinché possa comprendere le cose senza cadere in errore (quello stesso errore, anzitutto, che faceva ritenere come “preziose” le cose vane e non faceva apparire “certi” i mali da abbandonare). Si tratta però di capire la valenza dei termini impiegati. L’ampiezza del valore semantico che caratterizza il termine emendatio emerge con forza dalle molteplici e, talvolta, contrastanti forme in cui è stato reso: dal nederlandese “Verbetering”, al tedesco “Verbesserung”, al francese “reforme”, all’italiano “emendazione”, si tratta di soluzioni che restituiscono solo parzialmente la polisemia dell’operazione che l’emendatio implica. Una polisemia che è, anzitutto, costitutiva dell’operazione stessa indicata da Spinoza, la quale operazione è certo “cura” e “guarigione”, ma anche “correzione”, “riforma”, “rettifica”, “miglioramento” e, senza dubbio, “perfezionamento” (se proprio intende perfezionare quella natura umana di cui sopra). Ora, quel che balza immediatamente all’attenzione del lettore è che la ricerca di questo modus medendi dell’intelletto vada compiuta con lo stesso intelletto. L’uso terminologico di Spinoza sembra quasi tradire una sottile ironia: si tratta di ex-cogitare, proprio nell’accezione di inventare, architettare – dove profonda è la natura “operativa” dell’intelletto in Spinoza – un modo per acquisire una cogitatio che sia al sicuro, ossia, emendata, dagli errori in cui cade comunemente l’intelletto. Ma come potrà l’intel15.  TIE, § 15, pp. 29 s.

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letto concepire tutto questo, prima di essere stato emendato a sua volta, ossia prima di essere stato messo in condizione di poter affrontare quello stesso processo di emendazione di cui dovrà essere fautore? Vi è forse un’emendatio presupposta all’emendatio? Poiché se l’intelletto fosse già in grado di operare la propria emendazione, non è chiaro da cosa dovrebbe essere emendato (cioè non sarebbe chiaro il senso stesso del richiamo all’emendazione); come, d’altro canto, nel caso non ne fosse in grado, non si capirebbe in quale modo potrebbe affrontare il proprio percorso di “correzione/perfezionamento” in cerca di quella natura umana molto più “stabile” del § 12. Spinoza non è solo consapevole del problema, ma è la stessa partizione dei momenti dell’emendatio che suggerisce l’esigenza di farsi carico fino in fondo della difficoltà, radicalizzandone il significato (mossa che, come vedremo a breve, ha essenzialmente a che fare con la questione del metodo, anzi: è già quella stessa questione). Se si volge nuovamente l’attenzione al testo, troviamo che l’emendazione dello stesso intelletto sembra articolata in due momenti: il primo marcato dal verbo mederi e legato alla locuzione ante omnia (prima di tutto c’è da escogitare un modo per “curare” l’intelletto), e il secondo legato al verbo expurgare. Se risulta comprensibile il carattere preliminare dell’emendatio (ante omnia) rispetto alla serie delle scienze necessarie al perfezionamento della natura umana elencate nel § 15 (conoscenza della natura, formazione di una società, ecc.) visto che l’adeguata “conoscenza” delle cose è richiesta proprio per attuare quelle scienze, meno scontato è il rapporto di antecedenza che pare presentarsi tra i momenti interni della stessa emendatio. La locuzione «quantum licet, initio expurgandi» non rappresenta solo una difficoltà filologica del testo, ma costituisce un discrimine costitutivo nella modalità d’intendere proprio il modus medendi che Spinoza sta qui indicando. Infatti, in contrasto con la “correzione” dei Nagelate Schriften (assunta da Mignini nell’edizione del testo latino a sua cura da cui stiamo citando) «quantum licet, initio expurgandi», le Ope-

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ra Posthuma riportano la seguente versione: «quantum initio licet, expurgandi». L’accezione che ne deriva è profondamente diversa, poiché implica due significati completamente diversi della purificazione dell’intelletto, dove se in NS la purificazione è relegata a gesto iniziale, in OP ne viene sancita la costitutiva incompiutezza: «purificare l’intelletto, per quanto è possibile all’inizio». Questo significa che la cura dell’intelletto non è operazione preliminare, non è un’operazione che si compie una volta per tutte, ma diventa la cifra stessa della definizione dell’intelletto. Per quanto possibile all’inizio, significa che la purificazione non può avere luogo solo all’inizio, non è un atto che si dà una volta per tutte a partire dal quale è possibile dare fondamento al sapere. L’emendatio dell’intelletto è un gesto in fieri: l’intelletto si emenda conoscendo(si) all’interno del percorso stesso del sapere16. Questo stesso percorso è metodo, conoscenza riflessiva che non è altro (tranne) che questo conoscer(si) dell’intelletto nei conosciuti. E però è quindi anche tutti quei conosciuti (che sono sue idee): questo intelletto non espunge perciò la propria imbecillitas, ma se ne assume il carico in modo da “interpretare” e codificare le distorsioni che tale natura produce – e sono sue, distorsioni. Del resto, l’imperativo spinoziano è chiaro: «conoscere esattamente la nostra natura, che desideriamo perfezionare e, simultaneamente, quanto è necessario della natura delle cose»17. Ma questo significa che, il primo “risultato” di questa emendazione è quello di trasformare essenzialmente la nozione di intellectus: da strumento, organon del conoscere esso diventa il luogo stesso del conoscere, o detto altrimenti: esso diventa lo spazio stesso della verità. L’intero TIE indica propriamente questo percorso, una via

16.  Peraltro, «quantum initio licet, expurgandi» è profondamente coerente con l’apertura del § 15: «necesse est tantum de Natura intelligere quantum sufficit». Si tratta di conoscere della natura quel tanto che basta. 17.  TIE, § 25, pp. 33 s.

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affatto lineare, accidentata e densa di torsioni, ma che segna un’indicazione precisa (sebbene da dimostrare) del procedere di Spinoza: «il vero metodo è la via per cercare la verità stessa o le essenze oggettive delle cose o le idee (tutti questi termini significano la stessa cosa) nell’ordine dovuto»18.

5 Nell’esporre il metodo19 per cui dovrà essere possibile il conoscere, Spinoza precisa che questo metodo non consisterà in una ricerca all’infinito, come se per cercare il vero metodo fosse necessario un «secondo metodo che indaghi il metodo di indagine della verità e, per indagare il secondo metodo, [fosse] necessario un terzo e così all’infinito» poiché – chiosa Spinoza con evidente tono polemico – così facendo «non si perverrebbe mai alla conoscenza del vero, anzi a nessuna conoscenza»20. L’interruzione di questa sorta di regressus ad infinitum prodotto dal metodo diventa una prima indicazione di quello “slittamento” sopra indicato della nozione di intelletto da mezzo di conoscenza a orizzonte stesso del conoscere. È significativo l’esempio, per così dire, “fattuale” con cui Spinoza chiarifica la difficoltà in cui il conoscere verrebbe a trovarsi; esempio in cui il problema del regresso del metodo (il suo carattere pura18.  TIE, § 36, p. 37. 19.  Tra i vari studi sul problema del metodo nel TIE, cfr.: R. Violette, Méthode inventive et méthode inventée dans l’introduction au «De Intellectus Emendatione» de Spinoza, in «Revue Philosophique de la France et de l’Étranger», CLXVII, n. 3, 1977, pp. 303-322; L. Vinciguerra, Iniziare con Spinoza, Errore e metodo nel Tractatus de intellectus emendatione, in «Rivista di storia della filosofia», vol. 49, n. 4, 1994, pp. 665-687; A. Sangiacomo, Sulla compiutezza del De intellectus emendatione di Spinoza, in «Rivista di storia della filosofia», vol. 65, n. 1, 2010, pp. 1-23 (in cui è presente un’ampia disamina della bibliografia critica sul tema). 20.  TIE, § 30, p. 35.

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mente formale) viene associato agli strumenti corporei con cui poter battere il ferro: Qui si ha […] la stessa cosa che accade negli strumenti corporei, a proposito dei quali sarebbe possibile argomentare allo stesso modo. Infatti, per battere il ferro è necessario il martello e per avere il martello è necessario produrlo; per questo c’è bisogno di un altro martello e di altri strumenti, per avere i quali ci sarà bisogno di altri strumenti e così all’infinito; ma in tal modo ci si sforzerebbe invano di provare che gli uomini non hanno alcun potere di battere il ferro. Invece, come gli uomini all’inizio poterono fare alcune cose molto facili con strumenti innati [innatis instrumentis], anche se con fatica e imperfettamente e, costruite queste, ne costruirono altre più difficili con minor fatica e maggiore perfezione, così, avanzando gradualmente da opere semplicissime agli strumenti e dagli strumenti ad altre opere e altri strumenti, giunsero al punto di compiere tante opere e così difficili con poca fatica.21

Il carattere critico dell’esempio, volto chiaramente a mostrare la contraddittorietà intrinseca di ogni discorso preliminare intorno al metodo che non sia, esso stesso, già contenuto del metodo, viene qui costruito su un elemento preciso: è intanto perché gli uomini hanno saputo battere il ferro che si mostra lo sforzo vano di chi vorrebbe dimostrare il contrario ricorrendo all’impossibilità generata dal rimando infinito. Spinoza sta cioè dicendo che costruire gli strumenti corporei per battere il ferro significa essenzialmente battere il ferro, o detto in maniera più precisa, che procurarsi gli strumenti ricade costitutivamente all’interno dell’azione stessa di saper battere il ferro. È possibile cioè interrogarsi sull’inizio di quella “pratica” poiché intanto si ha “esperienza” di cosa significhi battere il ferro. Solo dalla prospettiva di questa impossibile genealogia il significato battere il ferro precede l’azione che designa. Il seguito del discor-

21.  TIE, §§ 30-31, p. 35.

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so spinoziano mostra chiaramente come questa pratica sia già inscritta nel contesto in cui si costituisce; il che vale come dire che il contenuto del metodo è il metodo stesso. Nonostante infatti la difficoltà rappresentata dal ricorso a quegli strumenti innati, si tratta di capire quale senso svolga concretamente quel richiamo a un elemento “innato”, ossia non dipendente da altro. Qui l’utilizzo che Spinoza fa del termine innato non ha alcuna finalità di reintrodurre o richiamare una qualche accezione ingenua di innatismo (come se alcune capacità precostituite si dessero “nativamente” nella natura umana), piuttosto è volta a mostrare il tratto co-originario del sorgere del gesto e della propria significatività. Il significato del battere il ferro non si costituisce come rimando ad altro, non presenta la propria “operatività” a partire da un altro gesto che gli conferisca significato, allo stesso modo di come il metodo non abbisogna di un altro metodo per darsi. Questo non significa però che l’operatività del metodo sia presupposta al metodo stesso, ma che il carattere “innato” dello strumento mostri come strumento e contenuto sorgano insieme. Non solo: se lo strumento ha in sé la sua forza di operare (la propria significatività), è qualcosa di più che mero strumento: Allo stesso modo anche l’intelletto, mediante la sua forza innata [vi sua nativa], si appronta degli strumenti intellettuali, con i quali acquisisce altre forze per altre opere intellettuali, e da queste opere altri strumenti, ossia la capacità di indagare ulteriormente avanzando in modo graduale fino ad attingere il culmine della sapienza.22

Più che strumento, intelletto significa vis: la forza dell’intelletto è nativa non perché esso sorga munito di elementi e strumenti predeterminati, ma perché si costituisce essenzialmente come quella stessa forza. La nota che Spinoza appone alla lo-

22.  TIE, § 31, pp. 35 s.

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cuzione «vi sua nativa» è chiara: «per forza innata intendo ciò che non è causato in noi da cause esterne, come spiegherò in seguito nella mia Filosofia»23. La forza dell’intelletto è nativa poiché ha la forza di non essere causata da altro. Al livello del TIE in cui ci troviamo, questa forza si presenta anzitutto rispetto al problema del metodo, ma va, in pari modo, considerata rispetto all’inciso del § 33 sull’idea vera, dove Spinoza affida a una brevissima incidentale messa tra parentesi, uno dei portati principali del suo metodo come conoscenza riflessiva, ovvero che «habemus enim ideam veram». Inciso di cui darà ragione molto più avanti, in quel passaggio del § 104 in cui verrà posto in maniera esplicita il problema del fondamento di questa riflessività (in quel luogo detto cogitatio); e proprio alla luce di quanto guadagnato rispetto alla ridefinizione del significato di metodo, Spinoza dirà che «i nostri pensieri non possono essere determinati a partire da nessun fondamento»: non ex nullo alio fundamento, ma da nessun fondamento24. L’intelletto è “finalmente” emendato: liberato dal suo dover essere fondamento altro rispetto al conoscere, quel fondamento che, oggettivizzandosi (facendosi cioè objectum), riproporrebbe le stesse aporie riscontrate per il metodo. I confini dell’intelletto diventano, pertanto, la loro stessa crisi se esso diventa ciò che, distinguendosi radicalmente della temibile imaginatio (cfr. § 84), si costituisce essenzialmente come vis, come potenza di poter abitare l’idea di cui ha nozione, ossia: di essere quella stessa idea, proprio perché «methodus non dabitur nisi prius detur idea» (§ 38). Per fare questo, la sua potenza diventa tale da espungere da sé ogni idea «ficta, falsa et dubia» (§ 51), da saper riconoscere l’insussistenza di ogni conoscenza erronea,

23.  TIE, § 31, p. 35, nota k. con la definizione dell’intelletto. 24.  Una possibilità per respingere la correzione del testo spinoziano è stata mostrata in maniera molto persuasiva da Jean-Luc Marion nel suo Le fondement de la cogitatio selon le De Intellectus Emendatione, cit.

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disinnescando tutto ciò che è finto e illusorio. Non fosse che questa potenza, de-­sostanzializzando ogni finzione, fa proprio del suo conoscere il fingere stesso: tanto potente, da “simulare” la stessa potenza dell’immaginazione25.

25.  Tale carattere è esplicito al § 72, dove Spinoza ammette che «per formare il concetto di sfera fingo a piacere una causa, ossia che un semicerchio ruoti intorno al centro e che dalla rotazione nasca, per così dire, la sfera. Certamente quest’idea è vera e, benché sappiamo che in natura nessuna sfera è mai nata così, questa è tuttavia una percezione vera e un modo facilissimo di formare il concetto di sfera. Ora si deve notare che questa percezione afferma che il semicerchio ruota e tale affermazione sarebbe falsa se non fosse congiunta al concetto della sfera o della causa che determina tale moto, ossia, in senso assoluto, se fosse una mera affermazione. In tal caso, infatti, la mente tenderebbe ad affermare il solo movimento del semicerchio, che non è contenuto nel concetto del semicerchio e non nasce dal concetto della causa che determina il movimento» (TIE, § 72, pp. 52 s.). Spinoza abbandonerà la nozione di finzione ma non la portata problematica che essa implica se proprio nella forma del fingere si palesa il carattere operativo dell’intelletto. Sul tema, neppure lontanamente affrontabile in questa sede, si veda D. Bostrenghi, Forme e virtù della immaginazione in Spinoza, Bibliopolis, Napoli 1996, pp. 21-62.

Sezione II Politica e rappresentanza

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Populismo e crisi democratica in Italia. Due note di Eugenio Mazzarella

1. La grammatica del populismo e il caso italiano La sintetica grammatica del populismo proposta già per tempo da Aldo Bonomi nel 2012, all’inizio del decennio più francamente populista della politica italiana, come «forma generale della politica, instabile quanto si vuole, in cui confluiscono istanze di chiusura così come richieste di società aperta, localismo e nuovo universalismo dei beni comuni, rapporto diretto con il leader e istanze partecipative radicali»1, offre un’istantanea del fenomeno, oggi in Italia, che fa capire intuitivamente come ad esso concorrano delusioni generate dalla politica lungo tutto l’arco delle sue espressioni classiche, da destra a sinistra. È proprio questo che fa del “nuovo populismo” – in giro in questo primo scorcio di millennio in Europa e in Italia, ma non solo – una forma “generale” della politica, e non un’espressione per quanto vasta di una sua specifica area di riferimento. Una forma generale, alle cui pulsioni – al di là dell’instabile e sempre più ampio amalgama di pubblica opinione che l’alimenta, di 1.  A. Bonomi, Verso un nuovo populismo: crisi economica e crisi dei partiti, in «Italianieuropei», n. 6, 2012, pp. 39-44: p. 43.

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movimenti e delle sue interpretazioni “libere” o in libera uscita dalle adesioni politiche tradizionali – non resta estraneo il principale obiettivo polemico di questo nuovo populismo: la politica in quanto tale come ceto politico professionale, per l’ovvia sua tentazione di cavalcarne l’onda di piena cercando di sopravvivere a se stessa in assenza di risposte adeguate alla sua crisi. L’afflittivo populismo di lotta e di governo che abbiamo a lungo subito in Italia – già dai primi anni ’90 del secolo scorso – nell’interpretazione di Berlusconi e della Lega, e che ha non poco contribuito alle sabbie mobili in cui si è trasformato il guado che da vent’anni doveva passare la politica italiana, viene anche da qui. Oltre, ovviamente, per la più facile attitudine della destra a “leggere” con le sue categorie ideologiche, e a interpretare in prima istanza, l’“individualismo incoerente” – sempre pronto a tutelarsi corporativamente – che esita da dinamiche sociali, dove la dialettica tensiva tra individuo e comunità tende a scompensarsi nell’egoismo individuale e di gruppo. Ma questa crisi della politica è troppo generale per essere ascrivibile a una mera mediocrità del ceto politico, a un semplice deficit di qualità di quei soggetti sociale collettivi che sono i partiti o le organizzazioni politiche tradizionali. Il nuovo populismo si alimenta di una drammatica disintermediazione politica sempre più potentemente configurata nella crisi delle democrazie liberali del welfare in Occidente; e di una diffusa disintermediazione intellettuale, non solo in capo alla politica, come incapacità di trovare categorie adeguate a leggere e più ancora a rispondere alla crisi sociale in atto. Un combinato disposto che facilita l’affidarsi della pubblica opinione ad un “emotivismo” di massa (vi richiamava l’attenzione già nel 2009 la Caritas in veritate di Benedetto XVI2), che 2.  Cfr. Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, Introduzione, § 3.

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mentre esprime il disagio sociale, concorre a ostruire percorsi ragionati e razionali di soluzione, capaci di ricucire la frattura tra politica e società. Questa crisi da disintermediazione ha trovato più fortemente esposto il sistema dei partiti europei, letto in parallelo al sistema americano, per la maggiore latitudine dell’intermediazione politica tradizionalmente da esso svolta. A questo proposito Mauro Calise3, sempre nel 2012, come Bonomi, ha in modo convincente richiamato in servizio la classica tipologia, esemplata sul sistema americano, di Theodore Lowi (1964)4 sulle “arene del potere” individuabili nella politica, ciascuna contraddistinta dalla prevalenza di un diverso attore politico, in uno schema in cui è la natura della policy arena a promuovere i diversi attori politici. Una tipologia quadripartita: a) l’arena distributiva, «imperniata sul patronage e la distribuzione di micro risorse»; b) l’arena costituente, «nella quale vengono stabilite le regole che presiedono all’organizzazione istituzionale di un regime politico»; c) l’arena redistributiva, «dove si registra lo scontro tra le parti sociali per la redistribuzione della ricchezza su ampia scala»; d) l’arena regolatoria, «dove sono in gioco i diritti fondamentali che riguardano la sicurezza, la proprietà, la libertà». Assunto questo schema quadripartito, i partiti europei – storicamente «portatori di precise e ben visibili piattaforme che investivano gli aspetti più critici dell’organizzazione sociale», mediatori d’interessi, attori politici fondamentali, cioè, su tutte le quattro arene politiche – con la crisi strutturale del welfare subiscono un arretramento dalla loro capacità di presidiare tut3.  Cfr. M. Calise, Che ne sarà dei partiti, in «il Mulino», n. 3, 2012, pp. 413-­ 421. 4.  Cfr. Th.J. Lowi, American Business, Public Policy, Case-Studies, and Political Theory, in «World Politics», XVI, n. 4, 1964, pp. 677-715.

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te e quattro le arene del potere della tipologia di Lowi. Già per questo, a differenza dei partiti americani storicamente efficienti nelle prime due arene, e mai impegnati a fondo sulle ultime due, dove giocano altri attori politici, essi sono condannati a essere molto più delusivi dei cugini americani, per le società di riferimento, nella generale crisi delle democrazie del welfare. Non solo, ma nella convergenza funzionale d’intermediazione sociale agibile ai partiti tra le due sponde dell’Atlantico, i partiti europei appaiono sempre meno attrezzati per fronteggiare le sfide di governo che agitano le arene più scottanti, ma anche nel loro «ritirarsi nel recinto del patronage statale nonché nel ruolo costituente – certo non marginale – di garanti del funzionamento infrastrutturale del sistema», cioè nel loro allinearsi a una funzione “americana”, peculiarmente deficitari. Esemplare il caso italiano, dove alla difficoltà ovvia, per le attese cui si viene meno, di uscire dalle arene politiche più scottanti – nei limiti in cui nelle società europee, con le loro tradizioni politiche, questo è possibile – per consegnarle in linea di principio a un regolatore europeo che stenta ad avere fisionomia riconoscibile, e nei fatti piuttosto al disordine anonimo dei mercati, si aggiunge l’incapacità di conseguire un efficientamento compensativo nelle arene politiche, cui ragioni strutturali spingono a restringere la propria missione: in concreto un patronage politico locale soddisfacente in termini di costi/benefici per i cittadini e un ammodernamento istituzionale. Ad aggravare il quadro, si aggiunge, in questa situazione, che è generale nelle società del welfare, il nevralgico snodo della selezione delle classi dirigenti, con la crisi rovinosa dei meccanismi di selezione del ceto politico legata al collasso dei partiti tradizionali e al corto circuito mediatico in cui si è avvitata la selezione di élites politiche, che registra un generale scadimento in tutte le democrazie occidentali.

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Sul tema, nel 2011 (sul «Corriere della sera»)5 Ernesto Galli della Loggia in questo senso ha argomentato il deterioramento qualitativo delle classi politiche dei paesi del welfare, acconciatesi per decenni a essere “democrazie della spesa”, selezionanti le classi politiche spesso al rovescio dei bisogni di ciclo economico interno e di prospettiva sul piano globale. Al venir meno delle condizioni strutturali che hanno ciò reso possibile per decenni, hanno corrisposto le scadenti performance della selezione dei leader affidata alla personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale in tutta l’area euroamericana. Non che la personalità in politica non conti, anzi ha sempre contato e giustamente, ma quando la sua valutazione è fatta in gran parte attraverso le apparizioni tv allora è ovvio che a contare siano specialmente l’aspetto, la simpatia, l’abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Non certo le caratteristiche più significative per la selezione di leader capaci in un contesto di crisi epocale. Il ricorso ai “tecnici”, nei momenti in cui i “motori” istituzionali del sistema politico si imballano, viene anche da lì, oltre che dalla necessità di dare risposte alla crisi non allineate al ciclo elettorale e ai suggerimenti dei sondaggisti sul consenso al momento disponibile sul mercato. I guasti, in Italia, della personalizzazione della leadership, e della sua selezione su questi scenari mediatici, sono sotto gli occhi di tutti. Né ha dato fin qui grandi prove, in più di un decennio di applicazione, il succedaneo partecipativo nazionalpopolare delle “primarie”, piuttosto sintomo che terapia di una crisi di selezione; dove la ricerca di credibilità della politica, “mettendoci la faccia”, prova a proporre un’assunzione di responsabilità riconoscibile in vivo e non in video. Anche se poi la mediaticità videocratica delle facce viene continuamente 5.  E. Galli della Loggia, Il vero disavanzo delle democrazie, in «Corriere della sera», 17.08.2011.

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invocata dai sacerdoti della “partecipazione vera”, sempre in cerca di falsi profeti, del carisma in videobox, impegnati a lisciare il pelo della crisi della democrazia rappresentativa anche quando le forme della democrazia diretta scivolano verso quelle, non istituzionalmente contenute e frenate, della democrazia plebiscitaria. Né, a dire il vero, la pseudo trasparenza e orizzontalità del web, dove si mette il tweet, cioè il passaggio dalla faccia che attira alla parola che mobilita, sembra a sua volta offrire grandi chances di migliorare la selezione delle élites politiche e dare un contributo al grande tema, nella crisi della democrazia rappresentativa, della “verifica” (competenza, autorevolezza, sincerità) del “carisma” in politica, di una verifica critica dei poteri; una funzione questa, di una verifica “riflessiva” del carisma dei “capi”, che è storicamente uno dei punti di forza della selezione democratica rappresentativa e delle organizzazioni “corporate” (istituzioni) del potere. Anzi il web in questo ultimo decennio ha sempre più portato in evidenza il suo lato oscuro di controllo e inquinamento nella formazione della pubblica opinione, emergendo come uno dei più potenti impedimenti a una selezione consapevole delle elités politiche da parte del corpo elettorale, spinto a scegliere non chi propone le soluzioni migliori ai suoi problemi, ma chi propone la retorica più efficace a vellicarne gli umori, anche i peggiori, che in società in ansia per il loro futuro hanno più facile esca. Il problema di come trovare nella politica «un potenziale di innovazione alla decrescita democratica o postdemocrazia che oggi sembra l’orizzonte cui tende l’Occidente in crisi» (Bonomi) non sembra poter risolversi nella personalizzazione della politica, quale che sia il medium in cui si coagula: video, piazza o web, senza coinvolgere una rifunzionalizzazione della struttura e dell’agire dei partiti politici, che dia alla personalizzazione della politica un copione sociale meditato – una trama di cui si conoscano gli esiti – da “rappresentare” e non solo da

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“improvvisare”, con le alterne fortune della battuta che può riuscire o no. Quello che è certo è che questa innovazione dovrebbe far sì che la decrescita economica – un problema sostantivo per le democrazie del welfare, in un quadro in cui (la globalizzazione) la crescita di “giustizia economica” nel mondo tende a definanziare la “giustizia sociale” nei paesi del welfare – non si traduca in decrescita democratica, cioè che la perdita d’intermediazione economica della politica e di intermediazione di aspettative vissute come diritti non si traduca in disintermediazione generale della politica, in deficit grave e non compensativo, come sarebbe necessario, di intermediazione sociale, di tenuta politica comunitaria. Questo potrebbe voler dire che lo sforzo di questa innovazione dovrebbe concentrarsi su come presidiare con efficacia le arene politiche cui è spinta a restringersi l’intermediazione politica funzionale anche dei partiti europei, cioè a) l’arena distributiva, imperniata sul patronage e la distribuzione di microrisorse, e b) l’arena costituente, nella quale si stabiliscono le regole che presiedono all’organizzazione istituzionale di un regime politico. In concreto, questo in Italia significherebbe: a) ammodernamento istituzionale dello Stato, anche risolvendosi a congiungere i due piani della personalizzazione della leadership politica, quello politico-elettorale e quello istituzionale, ai fini di imbrigliarne il disordine e l’arbitrio vigenti, sciogliendo il dilemma premierato o presidenzialismo in una cornice istituzionale adeguata; b) recupero di austerità ed efficienza nel patronage politico sui territori, cioè nell’articolazione politico-amministrativa dello Stato. Quest’ultimo punto segnala come sia illusorio pensare che basti rivolgersi al ceto politico attivo sui territori per rispondere alla crisi di credibilità del ceto politico nazionale, cioè agli attori

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del deficit di credibilità amministrativa sul piano locale per rimediare al deficit di credibilità istituzionale degli attori politici nazionali. Anche sui territori e non solo al centro c’è un deficit di credibilità da ripianare; oltre all’ovvia considerazione che in una crisi di selezione del ceto politico costruito sulle dinamiche del welfare, gli amministratori locali sono di necessità i meno vocati a prenderne una distanza per ammodernarlo ai fini di evitarne il collasso. Il che aggiunge una difficoltà, ma almeno dice una verità. Tuttavia, anche fatto ciò al meglio, è difficile pensare che i partiti politici europei possano ritirarsi sic et simpliciter – senza che questa si trasformi in una rotta che apra la strada, più di quanto già lo sia, a populismi demagogici o a tecnocrazie senza condivisione – dalle altre due arene politiche cui con Lowi abbiamo fatto riferimento, e a cui gli europei sono abituati: l’arena redistributiva, dove si registra lo scontro tra le parti sociali per la redistribuzione della ricchezza su ampia scala; e l’arena regolatoria, dove sono in gioco i diritti fondamentali. Qui è la scala europea, della costruzione europea, quella più adatta a consentire ancora alla politica, e ai partiti, di giocare un ruolo di attori, e non di mere comparse, sulla scena della globalizzazione, nella ridefinizione e intermediazione di aspettative sociali e diritti che ne viene sollecitata. Questo implicherebbe certamente la disponibilità a cedere quote di sovranità nazionale (con, sullo sfondo, l’ideale regolativo del cosmopolitismo) alla costruzione europea, per averne di più reale, nello spazio statuale, per quanto di sovranità resta sul territorio nazionale, senza consegnarsi indifesi all’Anonima Mercati. Su questo punto politica e cultura hanno un compito: veicolare nelle opinioni pubbliche europee che è meglio avere meno potere “in teoria” (istituzionale) per averne di più vero, di quello che resta a disposizione, a casa.

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Solo così l’Europa, che resta, nonostante tutto, la più grande piattaforma economica al mondo, avrà modo anche di ricordarsi più facilmente che è ancora, e forse anche di più – un terreno su cui nella competizione globale senza regole oggi paga certo dazio –, la più grande “piattaforma di diritti”. E questo è un asset competitivo di lungo periodo che non va mandato in soffitta, perché la sanità pubblica arriverà pure negli Stati Uniti e gli scioperi in Cina. L’Europa è una vecchia talpa: se ci crede, la sua rivoluzione, lo spirito dello ius publicum europaeum, potrà ancora scavare il mondo.

2. La questione democratica in Italia come crisi della rappresentanza Ma perché l’Italia sia in grado – nella competizione geopolitica globale – non solo di mantenere questo aggancio europeo, ma di contribuire (è una stringente necessità) a fare dell’Europa una soluzione alla crisi delle società europee, c’è bisogno che il Paese affronti una buona volta, tra le sue molte emergenze, quella democratica istituzionale; e le peculiari pulsioni populiste in cui anche la politica tradizionale e non solo i nuovi “movimenti” o l’aggiornamento populista in chiave sovranista di partiti politici attivi da decenni (la Lega) o da sempre nel quadro repubblicano nato dalla Resistenza (la destra oggi nei panni di Fratelli d’Italia), l’hanno lasciata macerare. Sì che l’Europa non sia “venduta” dalla retorica populista non come soluzione, ma come parte dei loro problemi per insolvenza della “solidarietà”, della “rassicurazione” europea (economica, politica, sociali) ai suoi popoli. Sono diverse le valutazioni della portata di questa crisi, ma è un punto comune di analisi. C’è chi ritiene che questa crisi investa la democrazia in quanto tale e i suoi fondamenti, e chi si limita a leggerla come una crisi della sua qualità e del suo

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respiro. I due punti di vista non si escludono. L’indubbia crisi della qualità e del respiro della nostra democrazia è a tale punto di stress da esporre a rischio i suoi stessi fondamenti pluralisti e partecipativi affidati al sistema della rappresentanza. Ne fa fede il recentissimo lessico salviniano dei “pieni poteri” chiesti al “popolo sovrano”, perché nel migliore dei casi “non disturbi il manovratore” fino alle elezioni successive (per riandare alla versione berlusconiana, certamente più light, della stessa pretesa “governista”). Essere meno pessimisti è difficile. È un dato obiettivo la vistosa torsione in senso populista e oligarchico della nostra democrazia, dove l’elemento populista agganciato al leader tende a depotenziare le funzioni classiche della rappresentanza della sovranità popolare; e insieme l’elemento oligarchico – un regime misto fatto di reti di interessi che intrecciano snodi istituzionali e poteri sociali forti: non devo qui richiamare il significato politico dei ricorrenti affaire “Bisignani”, per usare un nome eponimo, al di là dei loro stessi profili penali – trova nel leader populista la copertura politica più idonea a una deistituzionalizzazione sempre più spinta dello stesso indirizzo di governo. Tutto ciò produce una lesione di non poco conto ai capisaldi di una ben intesa democrazia costituzionale, tanto da far parlare costituzionalisti di scuole diverse (da Baldassare a Ferraioli a Elia) di “decostituzionalizzazione” del sistema politico, cioè di devitalizzazione della legge fondamentale, in una costituzione materiale, cioè in una prassi di governo e amministrativa che più che implementare l’indirizzo costituzionale, come per il passato, è ormai per certi aspetti obiettivamente contestativa degli assetti costituzionali previsti. Che ormai si governi per “decretazione d’urgenza” o fiduciaria (che tocca anche il nevralgico nodo della legge di bilancio) per vocazione o necessità degli attori politici è un fatto. E non è un caso che in votis l’ultimo governo ha segnalato l’urgenza – fondamentalmente un ritorno alla Costituzione vigente – di una nuova centralità del parlamento, di un recupero

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della natura rappresentativa sostanziale, e non solo formale, della democrazia italiana. Va detto che il problema – la questione democratica come crisi delle forme rappresentative e di governo delle democrazie liberali – non è solo italiano. Ma va altrettanto rimarcato che sono due decenni che su un aggiornamento che non stravolga, ma li aggiorni nel senso dell’efficienza, i nostri assetti istituzionali, in nessun altro paese si è prodotto tanto inconcludente chiacchiericcio politico; il che ha favorito la succitata torsione populista e oligarchica. Quello che noi abbiamo in sostanza mancato, in questi ormai lunghi anni, è un nuovo equilibrio tra rappresentanza e governabilità, nesso sul quale si regge ogni democrazia sana; un nuovo equilibrio richiesto da una domanda di governabilità non appesantita o impedita da mediazioni della rappresentanza sempre più ipertrofiche, impotenti e inconcludenti, a fronte dell’accelerazione dei processi sociali in società per converso sempre più mobili e dinamiche. A questa domanda di governabilità si è provato a rispondere, accorciando il rapporto tra i cittadini elettori e la loro rappresentanza con l’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e di regione, e con lo stesso abborracciato bipolarismo, forzato dallo strumento elettorale, di cui disponiamo a livello nazionale. La mancanza di sistematicità, però, di questi tentativi di risposta – non inquadrati in una rinnovata cornice istituzionale, da tutti vista come necessità, ma mancata come attuazione legislativa – non ha prodotto, a nessun livello, una migliore governabilità del sistema (ne fa fede almeno il rapporto costi/ benefici per i cittadini nell’esplosione della spesa pubblica a tutti i livelli, soprattutto a partire dall’andata a pieno regime degli istituti regionali, sempre più a mio avviso parte del problema dello Stato in Italia, mentre si continua a spacciarli come soluzione, solo che si mediti con serietà sugli effetti dissolutori

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dell’unità sostanziale dello Stato, e della sua più che claudicante pseudo-unità socio-economica, dell’aberrante richiesta leghista del “regionalismo differenziato”). Ha prodotto anzi scorciatoie certamente populiste, le cui velleità autoritarie se non hanno trovato sbocchi più consistenti di quelli che pure tentativamente hanno avuto è da un lato per la presenza di vincoli di sistema, anche costituzionali, dall’altro anche per una troppo smaccata mancanza di autorevolezza delle leadership coinvolte in questo processo; in questo senso la parabola del berlusconismo è sufficientemente esemplare. Né fortunatamente hanno avuto esito le prove di “riformismo” costituzionale del renzismo, che avessero avuto successo avrebbero probabilmente consegnato la democrazia italiana a una “dittatura della maggioranza” figlia di una pulsione governista fuori controllo. Tutto ciò ha ulteriormente mortificato la domanda di rappresentanza, se mai ce ne fosse stato bisogno, facendo deperire ancor più le forme tradizionali per il cui tramite viene costruita. Anche il mito del “governo del fare”, icona del berlusconismo, ma che non è estraneo ai sindaci “cacicchi”, e a chiunque si senta investito del carisma del “ghe pensi mi”, del grande “risolutore”, questo mito, galleggiando su un mare di chiacchiere e sfuggendo all’imperativo di intervenire in modo efficace sul sistema della rappresentanza, ha favorito non poco il degrado della rappresentanza politica e amministrativa. Anzi, il leaderismo ha più coperto che risolto una crisi di sistema, e da elemento di soluzione del problema è diventato esso stesso parte del problema. Più che garantire “decisionismo” ed effettività di governo, l’affidarsi al “capo” ha da un lato reso possibile al sistema politico l’esonero dall’assunzione di più diffuse e costose – per il ceto politico – responsabilità di autoriforma, dall’altro alla sopravvivenza del sistema nella sua struttura di fondo socio-politica e di composizione di interessi personali e di ceto ha fornito anche la via di fuga del capro espiatorio – a copertura di un

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sottobosco di interessi particolari e spesso puramente personali che allignano in un sistema della rappresentanza giudicato dai cittadini, quando sono urbani, autoreferenziale e a loro estraneo. Un giudizio che negli anni si è fatto sempre più pesante e insostenibile, cui il ceto politico (anche quello degli homines novi) purtroppo più che rispondere con interventi strutturali sul sistema della rappresentanza ha creduto di poter sfuggire indulgendo spesso a soluzioni di facciata che carezzano il vento populista suscitato dalla cattiva politica; soluzioni che spesso riguardano il livello mediaticamente più esposto del sistema della rappresentanza, quello parlamentare, ma che non hanno la forza di incidere nella carne viva, nella “ciccia” per usare una brutta ma efficace espressione, dei costi della politica e della sua inefficienza che sono spalmati a tutto campo nel sistema, dal piccolo comune di montagna ai vertici delle istituzioni, e se si va a vederne i pesi assoluti e relativi sono molto più incidenti in periferia che al centro, se solo si avesse l’onestà intellettuale di prendere sul serio almeno un neppure tanto recente richiamo della Banca d’Italia sulle dinamiche della spesa pubblica e sulla perdita di efficienza del sistema dagli anni ’70 in poi: guarda caso anni di attuazione delle regioni a statuto ordinario. E così si è passati dalla retorica di “Roma ladrona” ai tagli ai privilegi dei parlamentari allo scandalo del porcellum, per finire ai pannicelli caldi del rosatellum, e alla rimitologizzazione del rapporto della politica con il territorio; e il connesso mantra del federalismo, impraticabile (non si è mai vista una “federazione” per scissione) o del regionalismo, via più spiccia e più praticabile agli egoismi territoriali, mascherati da efficientamento amministrativo. E si finge di non vedere ciò che non si riesce e non si vuole toccare: l’ipertrofia e l’inefficienza (quest’ultima soprattutto al Sud, ma non solo al Sud) del reticolo politicoamministrativo locale a tutti i livelli; che è la vera fonte di delegittimazione della politica e di sua disistima sui territori, data da ormai più che vent’anni, cominciata per altro dallo svolazzo

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di banconote da una finestra di un condominio di Milano, la capitale “morale” del Paese. A parte la notazione contro intuitiva, rispetto a questa retorica della vicinanza della politica ai territori, che la partecipazione elettorale è scemata negli anni percentualmente in modo drastico passando dal livello politico a quello amministrativo; il che almeno vuol dire che quando c’è una proposta politica affidata a un leader o a un marchio di partito, si vota e si partecipa di più, cioè si disistima di meno il sistema, si ritiene meno inutile andare a votare. Vorrei essere chiaro: è necessario e fondamentale – soprattutto ai fini di una più leggibile efficienza e imputabilità di responsabilità del sistema – diminuire il numero dei parlamentari (fattispecie ancora sub judice), e differenziare il ruolo delle Camere, in una nuova e coerente cornice di ammodernamento istituzionale, e magari affidarsi per la scelta dei parlamentari al collegio uninominale, con un po’ di coerenza nell’applicazione del sistema che eviti eccessi di franchigia a personale politico sempiterno, limitando ad esempio il numero dei mandati per legge; ma tutto questo non basta se non si va alla struttura del sistema, alla patologia del suo corpaccione malato, che è tale dalle Alpi a Capo Passero. Cerco di spiegarmi con una metafora pasticciera, così facilito chi vuole pensare che sto solo facendo pasticci analitici. Se assumiamo la torta, immaginiamo una cassata, del complesso della rappresentanza politico-amministrativa italiana come equivalente a 4 chilogrammi, lo strato nazionale di questo sistema, la struttura della rappresentanza parlamentare, la glassa bianca che si vede e riluce, pesa più o meno 50 grammi, che possono anche essere tolti tutti, lasciando solo il mandarino apicale (più o meno quello che è capitato di chiedere Berlusconi a inizio di una legislatura, che gli appariva trionfale, dichiarando l’inutilità del Parlamento), ma la torta continuerà a pesare 3 chili e novecentocinquanta grammi, il che per il metabolismo del Paese continuerà a essere insostenibile.

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Molti ritengono, per convenzione, per conformismo, per resa più o meno senza condizioni alla vulgata politica vincente, che per superare questi problemi di pasticceria istituzionale la strada maestra sia quella non di tornare indietro, a forme di centralità dello Stato nazionale, ma di insistere e continuare sulla strada dell’autonomia politica e amministrativa, avvicinando come si dice la politica ai territori, più di quanto sia già; e per evitare che su questa strada continuino a saltare il basalto e i sampietrini con l’aumento infinito dei costi di manutenzione della sua percorribilità, che però si debba ricorrere a forme più spinte di regionalismo – per restare in metafora, un asfalto che sarà fonoassorbente di ogni traffico sulla sua superficie e più resistente ai carriaggi e ai traffici politico-amministrativi. Una pura illusione. E qualche domanda sulla sostenibilità di questa illusione per il sistema paese, per la tenuta stessa della sua unità nazionale, è bene che ci si cominci a porsela davvero, anche alla luce del dibattito fortunatamente accesosi, bloccandone l’attuazione, prima che il primo governo Conte ratificasse le pre-intese del governo Gentiloni con le regioni Veneto, Lombardia e EmiliaRomagna. Ritenere che “basti la parola” regionalismo, perché si generino di per sé abbattimenti di sovra costi della politica e pratiche virtuose nel governo dei territori, potrebbe rivelarsi una pia illusione, e portare il Paese a un salasso immeritato, dovuto ancora una volta a una cattiva politica, a una cronica incapacità di passare dalle parole ai fatti senza inciampare nelle dure repliche di una realtà non compresa e non affrontata con la necessaria lungimiranza nelle sue criticità. E sicuramente due criticità con cui il regionalismo, quando anche lo si voglia attuare, come almeno è nelle intenzioni della proposta del ministro Boccia, in una rigorosa cornice di solidarietà nazionale, espressamente per altro prevista dalla Costituzione, dovrà fare i conti sono i lievitati (da decenni) costi della politica, e la bassa qualità media dei suoi addetti ai lavori. Dove

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il problema è più accentuato, nel Mezzogiorno, è da tempo in corso, non a caso, un serrato dibattito sul “partito del Sud”, sui pro e i contro dell’ipotesi di una declinazione “leghista” della forma-partito anche nel Mezzogiorno, come quella più adatta a risollevare le sue sorti. Un dibattito che prende atto, pur in un’errata declinazione imitativa del fenomeno leghista, di una necessità: solo una nuova rappresentatività del ceto politico meridionale, sostanziata di autorevolezza, potrà dare al Sud, nel confronto-competizione che si apre con il regionalismo, per “solidale” che sia, con il resto del Paese, qualche chance di uscirne “vivi”. Il regionalismo, la sua accentuazione, personalmente non so se sia un’effettiva opportunità per il Paese (costituenti tra i più autorevoli erano di parere nettamente opposto: Francesco Saverio Nitti, più che ancora meridionalista, tra i massimi studiosi ed esperti nell’Europa di allora di Scienza delle finanze, era convinto che fosse un rischio per il bilancio dello Stato che sarebbe stato pagato dal welfare che il nascente Stato unitario si apprestava a varare a presidio dei più deboli, ceti o territori che fossero; e dello stesso parere erano Benedetto Croce, Concetto Marchesi, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Lugi Preti e Fausto Gullo), ma è certamente una sfida facile da perdere, per quanto ineludibile. È davvero l’ulteriore “avvicinamento” della “politica” al “territorio” predicata dal regionalismo una chance per vincere la sfida dell’ammodernamento e dell’efficienza del sistema Paese? O non si rischia di perderla definitivamente questa sfida? È dalle istituzioni delle regioni, che per altro non hanno visto sparire le province, ma solo crescere le comunità montane, e varie strutture di para-stato amministrativo, che la politica si è in Italia “avvicinata” al territorio, proponendo vizi antichi soprattutto al Sud di questo “avvicinamento”: un perverso circolo tra società e politica con un’elefantiasi di ceto politico-amministrativo che più che sostenere i territori spesso si sostenta di essi e sulle loro inevase necessità. I sovra costi

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della intermediazione politica della spesa pubblica, abnormi soprattutto al Sud, sono innegabili. È davvero, l’accentuazione del regionalismo, il modo per abbattere questi sovra costi o si rischia di aggravarli, soprattutto se innestato, il regionalismo sempre più spinto, su un circolo perverso e non spezzato in anticipo tra una politica autoreferenziale, impegnata a garantirsi innanzi tutto le sue condizioni strutturali di riproduzione come ceto sociale, e una società debole alla ricerca di tutela improprie dai gestori pro tempore della spesa pubblica? Il regionalismo potenziato funzionerà in generale, se funzionerà, e soprattutto al Sud, ma non solo a Sud, solo a condizione di un poderoso “alleggerimento” della politica sui territori. Ogni costruzione deve fare i conti con i materiali a disposizione per costruire e se inadatti scartarli deve procurarsene di nuovi. Ora si guardi spassionatamente al ceto politico disponibile sul mercato, e non solo nel meridione, che certo enfatizza in modo abnorme problemi invero già propri al ceto politico nazionale. Solo un cieco non vedrebbe quote assolutamente notevoli di ceto politico che si muovono sui territori più in logiche di autotutela – elettivamente garantita dalla partecipazione alla “gestione” purchessia della spesa pubblica intermediata da chi “governa” – che di proficua rappresentanza dei territori in discorso. Solo questo spiega il trasformismo ormai al dettaglio – aiutato da sistemi elettorali che favoriscono la frammentazione della rappresentanza – di una politica in franchising svolta da singoli e da gruppi che si aggregano opportunisticamente sotto quella o questa sigla politica, e quando non c’è ne registrano una nuova sul mercato. Ormai i partiti politici tradizionali – e i nuovi movimenti danno pericolosi segnali di omologazione – hanno tratti cospicui di catene di negozi locali in franchising, dove l’aggregazione è fondamentalmente orientata a tenersi sul mercato o ad ampliarvi

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il proprio spazio. I leader appaiono spesso costretti – qualcuno magari malvolentieri, qualcuno ne ha proprio la vocazione – ad assoldare per questa o quella battaglia, anche buona e talvolta del tutto degna, capitani di ventura al cui soldo sul territorio non mancano spesso veri e propri lanzichenecchi. In genere sul piano ideologico comunicativo molte di queste “truppe”, in servizio permanente effettivo, buone per ogni battaglia, si proteggono dal disdoro sociale conclamato – con poca fortuna a dire il vero, considerata l’opinione prevalente sui “politici” – con la mistica dei territori o il concetto una volta nobile di militanza. Non tutto certo è così. Ma molto, e ad ogni modo troppo, è così. Che fare per impedire che un accentuato regionalismo, in un contesto del genere, si riveli l’ultimo colpo alla tenuta della credibilità “rappresentativa” unitaria della democrazia italiana, e il fattore unitivo di un Paese anche istituzionalmente sempre più diviso non sia un leader populista di quelli che le caratteristiche richieste dalle demokrature di oggi? La mia opinione è che ci sarebbe bisogno di ciò che temo non accadrà, perché nessuno se ne sta facendo davvero carico: che prima dell’implementazione del regionalismo ci sia in Italia un corposo ridisegno del “peso” delle “autonomie” sui territori che porti a una politica più leggera ed efficiente, quanto meno per l’abbattimento alla fonte di inutili sovra costi burocratici e amministrativi legati all’intermediazione politica. E della ripresa di un nesso, sempre più latitante, della politica con l’etica. Solo in questo nesso c’è la possibilità di risalire una china che è da allarme rosso per il presente e il futuro del Paese, che arranca in una crisi sociale ed economica che esibisce allo stesso tempo uno smarrimento valoriale nelle sue classi dirigenti talora insultante per la sensibilità comune. Perché il rapporto tra politica ed etica pubblica non riguarda certo solo i comportamenti del ceto politico; nella sua deriva manchevole, e sempre più lesiva degli interessi generali, coinvolge segmenti importanti dei ceti che hanno peso reale nella vita pubblica, im-

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prenditori, professionisti, ai livelli effettivi di classe dirigente. Una deriva che è fonte di un costume diffuso di elusione dal senso della cosa pubblica: il macigno della questione fiscale, prima ancora che dell’economia criminale, ne è il più evidente monito. Non è più differibile interrogarsi sulle cause sistemiche di questa situazione, che se dura dagli anni ’80 del secolo scorso, ha forse, e senza forse, qualche motivo strutturale alla sua base, al di là del legno storto della natura umana, per dirla con Kant, che l’etica si vota da sempre a provare di correggere. E torno su un tema nevralgico: è l’eccesso d’intermediazione politica il brodo di coltura della crisi di legalità in tanti livelli della cosa pubblica e della pubblica amministrazione. A vedere ciò che succede in tante, troppe situazioni locali, non possiamo non prendere atto che stiamo pagando le troppe illusioni legate alla “stagione dei sindaci”, dell’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia, governatori. Tutto ciò nasceva dalla giusta preoccupazione di riportare la politica vicino ai cittadini, ma la “vicinanza della politica” rischia di essere un pericoloso slogan demagogico, se non si provvede – e fin qui non si è certo politicamente provveduto – a garantire la qualità effettivamente democratica di questa “vicinanza”, che spesso si risolve nell’alimentarsi reciproco di convenienze tra un ceto politico autoreferenziale e labile sul piano dei comportamenti pubblici, quando non corrotto, e segmenti sociali che fanno del sistema di relazioni con la pubblica amministrazione e con la politica la chiave del loro “successo”. Questo ovviamente a danno dell’interesse pubblico, anche quan­do magari i successi elettorali confermano, ed è capitato, soprattutto al Sud, a una politica locale un consenso senza governo, drogato sostanzialmente dal controllo della spesa pubblica; almeno fino a quando il circolo vizioso politico-clientelare non si arena sul discredito montante che nasce dal cumulo dei disagi e delle emergenze frutto alla lunga delle disecono-

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mie del non governo. La prima esigenza etica della politica è la sua efficienza nella soluzione dei problemi dei cittadini, ma all’etica dell’efficienza della politica non può essere estranea l’efficienza dell’etica, vale a dire il contributo di successo all’azione amministrativa dei comportamenti coerenti con un’etica pubblica degna di questo nome. Ma cosa può garantire una migliore qualità della vicinanza della politica ai territori, su cui insiste? O, detto altrimenti, una migliore qualità della rappresentanza politica e amministrativa che vi emerge? Due cose innanzi tutto: strumenti più idonei nella selezione della rappresentanza, un sostanziale dimagramento della rappresentanza stessa. In sostanza si tratta di porre rimedio a due mali strutturali – una vera struttura di peccato, per riprendere una categoria di analisi sociale della pastorale della Chiesa – della rappresentanza politica in Italia: l’ipertrofia e la frammentazione, e la personalizzazione clientelare della scelta dei rappresentanti. Come si può ovviare? Forse si tratta di prendere atto che un territorio non può esprimere, in una sorta di piramide rovesciata del numero dei cittadini su cui insiste, un manipolo di consiglieri circoscrizionali, qualche consigliere comunale, un consigliere provinciale, nel caso un rappresentante delle comunità montane, un deputato, un senatore, e tutti i livelli amministrativi che vi sono connessi, con tutte le pertinenze para-pubbliche che ne vengono indotte. Si è creato un ceto politico professionale o para-professionale abnorme, che nella crisi dei partiti di massa ormai coincide pericolosamente con la stessa militanza politica, inducendo un’incapacità di autoriforma del sistema, che ha pochi precedenti. La “professione” come esercizio di un “credo” di servizio al bene comune, che l’etimo weberiano del Beruf politico attingeva ai significati di “chiamata” e di “vocazione” della parola chiave della politica all’epoca della sua declinazione come “amministrazione”, si è ormai immeschinita a “impiego” routinario e autoreferenziale

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di un ceto politico, il cui capitale sociale per stare sul mercato della politica è spesso solo una micro o macro-clientela di interessi organizzati. La trasmigrazione trasformistica di migliaia di “operatori” politici sul territorio, che con il loro book di “contatti”, spesso malversato, si riposizionano continuamente in base alle opportunità del momento sul mercato politico, inserendosi nei network che si agglutinano in vista di quella o questa performance rappresentativa non ha più niente di “politico”, ma il tono tragico di una dismissione morale dell’azienda base di un Paese evoluto: la democrazia. Nel mentre rivedo queste note, qualcosa se ne sta ancora una volta vedendo nella trasmigrazione in Calabria – per le imminenti elezioni regionali – di interi pezzi già di “centrosinistra” nel “centrodestra”, e più in generale nelle più che prevedibili fortune, in questa subcultura del costume politico, del leghismo – percepito come “vincente” sul piano nazionale – al Sud. Che fare? Tralascio le riforme istituzionali ai livelli alti, che prevalentemente da decenni producono solo letteratura di studio, ma sarebbe urgente proporre una sostanziale rastremazione degli addetti alla rappresentanza, inducendo altresì significative soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza stessa già al livello basico delle elezioni comunali, e l’espungere ad ogni livello possibile il voto di preferenza, applicando in modo diffuso il collegio uninominale, oltre ovviamente a porsi domande ormai classiche per l’Italia della semplificazione della sovrastruttura politico-amministrativa, che ho già richiamato: quante comunità montane? le province ancora? e i Consigli regionali di quanto possono dimagrire? Non sfugge a nessuno che minori quantità in circolazione di rappresentanza politica significano una sua migliore selezione e una chance realistica di controllo della qualità politica della loro azione, e non ultima della correttezza del loro operato. Forse l’unica azienda che ha bisogno in Italia di un rilancio che passa per una ristrutturazione al ribasso, per tagli agli addetti, insieme lineari e selettivi,

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è l’azienda politico-rappresentativa. C’è un vecchio detto popolare che fa, aggiornato, al nostro caso: “il pesce puzza dalla testa”. Però ormai anche la coda ha i suoi problemi. E qualcosa, prima di finire in testacoda, da dove si voglia cominciare, questo Paese dovrebbe farla.

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In che stato è la democrazia rappresentativa? di Massimo Adinolfi

Non molto tempo fa, nel 2009, è stato pubblicato in Francia, e presto tradotto in italiano, un libro collettaneo dal titolo In che stato è la democrazia?1. Variare su quel titolo non è stato solo un omaggio a ricerche e perlustrazioni intorno allo stato della democrazia nel mondo contemporaneo, ma anche un modo per spostare l’accento in direzione della forma rappresentativa che l’idea democratica ha assunto in età moderna: essa è in crisi molto più che non l’emblema democratico, per dirla con Badiou che in effetti lo respinge, trovandolo del tutto falso, per quanto universalmente diffuso2. Il senso delle considerazioni che qui vengono offerte è però capovolto, rispetto al tragitto seguito da Badiou, dal momento che lo svuotamento

1.  Aa. Vv., In che stato è la democrazia?, tr. it. di A. Aureli e C. Milani, Nottetempo, Milano 2010, con contributi di G. Agamben, A. Badiou, D. Bensaïd, W. Brown, J.-L. Nancy, J. Rancière, K. Ross, S. Žižek. 2.  Per questo, secondo Badiou, «sarà possibile fare verità sul mondo in cui viviamo solamente accantonando la parola “democrazia” e assumendosi il rischio di non essere democratici e di essere quindi davvero malvisti da “tutto il mondo” […]. Ma per noi si tratta del mondo, non di “tutto il mondo”» (A. Badiou, L’emblema democratico, in Aa. Vv., In che stato è la democrazia?, cit., pp. 15-28: p. 16).

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della sostanza democratica (il popolo radunato e attivo – ossia il comunismo – dalla cui mobilitazione dipende marxianamente, per il filosofo francese, il deperimento del potere e dello Stato) è nient’altro che la specifica prestazione del regime rappresentativo. Non è dunque ciò che, nello stato attuale, manca alla democrazia a suggerire una diagnosi critica. Se mai, è l’infragilirsi dei discorsi di legittimazione che dovrebbero congiungere la democrazia al suo costitutivo esser mancante a rendere evidente la sua crisi, nelle forme rappresentative che le sono proprie in Occidente. In ogni caso, la risposta alla domanda posta nel titolo di solito non dà luogo a dubbi: lo stato della democrazia è un cattivo stato, uno stato di crisi. Una prima, rapida riflessione deve essere però dedicata al senso della parola “crisi”. Guarderò solo in un secondo momento, ma lo farò molto brevemente, ai profili istituzionali delle democrazie contemporanee, per chiudere con una riflessione, necessariamente rapsodica, intorno alla nozione di rappresentanza. La parola crisi non nomina un concetto bensì un dispositivo, così si dice oggi, cioè un intreccio insieme teorico e pratico di discorsi e forme della prassi. È la proposta, tra gli altri, di Dario Gentili3, per citare solo uno degli ultimi libri in argomento, che, sulla scorta di un celebre saggio di R. Koselleck4, analizza l’uso politico di questi concetti nella nostra epoca. Gentili mette insieme un percorso snello, che va dalle radici antiche del concetto nell’arte medica, passa attraverso le filosofie della crisi di primo Novecento, per presentare infine la crisi, nell’orizzonte contemporaneo, come una modalità di governo. La tesi centrale del suo saggio, che ha risonanze gramsciane e 3.  D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018. 4.  Mi riferisco a R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, tr. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1972.

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foucaultiane, è infatti che la crisi è un dispositivo funzionale a un certo modello di governance di tipo neoliberale. È un modo di amministrare la cosa pubblica legato al declino delle forme moderne della politica e al differimento sine die della possibilità stessa di una decisione politica in senso proprio. La crisi è, in uno, gestione della crisi. Non vi è prima la crisi e poi, in risposta ad essa, l’allestimento della risposta alla crisi, ma vi è un unico dispositivo in cui crisi e gestione della crisi si tengono insieme, rimandandosi reciprocamente e procrastinandosi all’infinito5. In concreto, però, e lasciando cadere le contraddizioni o almeno gli imbarazzi della performatività, questo vorrebbe dire che lo stato di crisi della democrazia non è una disavventura inaspettata, un accidente capitatoci fra capo e collo, e neppure la conseguenza più o meno inevitabile di errori commessi non è ben chiaro da chi, ma è piuttosto un elemento di struttura, la condizione richiesta, coltivata, a volte persino intensificata (si pensi a tutte le retoriche dell’emergenza) perché non si accumuli l’energia politica necessaria a mettere in discussione l’ordine capitalistico della società, nella sua fase attuale. L’uso del dispositivo della crisi è, insomma, riassumibile nell’acronimo TINA, che riprende lo slogan più famoso del Conservative Party di Margaret Thatcher: there is no alternative, non

5.  Naturalmente, se si tratta di questo, anche l’esame di questo dispositivo non dovrebbe limitarsi all’analisi concettuale ma dovrebbe trovare il modo di congiungersi a processi storici reali, cosa che mette evidentemente in difficoltà la comunità scientifica: è possibile, infatti, che gestire la crisi significhi anche lasciare che si discuta di essa in modo profondo e educato, ma tutto sommato sterile; tra gli effetti performativi del dispositivo dovremmo includere forse noi stessi. Lo si può dire con qualche ironia e autoironia in una nota, in fondo alla pagina, ma è ben più di un rilievo leggero o divertito: non sempre a chi adopera questi modelli di analisi ne è forse chiara l’implicazione.

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c’è alternativa6. Non c’è alternativa, si intendeva innanzitutto, al capitalismo globalizzato, ai liberi mercati e al libero commercio (ma dovremmo dire insieme agli organismi internazionali che si fanno interpreti del capitalismo, del libero mercato e del libero commercio). Ma la stessa modalità di discussione viene impiegata quando si tratta, per esempio, dell’euro. Perché dobbiamo tenerci l’euro? Perché non ci sono alternative praticabili. Non a caso vi è chi dice che la moneta unica non è stato altro che lo strumento per introdurre politiche di segno neoliberista e, insomma: tutto ciò che i nomi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher impersonificavano negli anni Ottanta del secolo scorso. La praticabilità di un’alternativa è ovviamente ragionata a partire dalla situazione esistente, sicché nel giudizio di impraticabilità vi sarebbe semplicemente la consacrazione surrettizia dell’esistente. Allo stesso modo, perché dobbiamo tenerci l’Unione Europea? Perché non vi potrebbe essere un’altra Europa? Perché, di nuovo, non vi sono alternative praticabili7. Analogamente si risponde anche alla domanda: perché la democrazia, nella sua forma attuale? Perché non vi sono alternative praticabili, perché – secondo la nota frase di Churchill che viene ripetuta fin troppo spesso (il che vorrà pur dire qualcosa) – la democrazia è il peggiore dei sistemi possibili, ad eccezione di 6.  Benché associata alle politiche thatcheriane, la frase proviene in realtà dalla statistica sociale di Herbert Spencer. Sulla figura di Margaret Thatcher esiste una bibliografia già vasta; basterà qui citare i due volumi della biografia più completa sulla Lady di ferro: J. Campbell, Margaret Thatcher. The Grocer’s Daughter, Jonathan Cape, London 2000, e Id., Margaret Thatcher. The Iron Lady, Jonathan Cape, London 2003. Ma si veda anche C. Berlinski, “There is No Alternative”. Why Margaret Thatcher Matters, Basic Books, New York 2008. 7.  E per riassumere il tutto nel modo più incisivo, ecco la formula di M. Fisher, Realismo capitalista, tr. it. di V. Mattioli, Nero, Roma 2017, p. 25: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

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tutti gli altri. E questo significa che anche la democrazia, persino la democrazia, si giustifica via negationis, solo per la mancanza di alternative praticabili8. La democrazia – s’intende – nella sua forma procedurale, elettoral-parlamentare, fondata sul suffragio universale, libero e segreto, sul rispetto di alcuni diritti fondamentali, sulla separazione dei poteri e poco altro. Che altro, infatti, mettereste al suo posto? Qual è l’alternativa? Questa è anche la parte di ragione di Fukuyama, quando scriveva il suo – prima celebrato, poi denigrato – saggio sulla fine della storia, da cui per la verità oggi persino il suo stesso autore ha finito col prendere una certa distanza9. E però la domanda rimane, nonostante qualche ripensamento di Fukuyama: siamo in grado di indicare un’alternativa praticabile al capitalismo e alla democrazia liberale? Se no, Fukuyama non aveva tutti i torti: la storia è finita. La storia è finita nel senso che ne è disvelato il telos. O almeno: il dispositivo dal quale siamo disposti prosciuga del tutto la nostra immaginazione politica. L’idea di Fukuyama è, ovviamente, compatibile con le difficoltà di sviluppare uno Stato moderno ed efficiente, o con i sempre possibili arretramenti della democrazia liberale. È compatibile con la retrocessione democratica seguita all’accelerazione della

8.  La più radicale messa in questione di questa logica negativa, di cui vengono discussi i fondamenti teoretici, è in L.V. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001. Cfr. anche, per un inquadramento generale del tema del negativo, M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004, e R. Esposito, Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino 2018. 9.  Mi riferisco a quanto ne scrive nel suo ultimo libro: F. Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, tr. it. di B. Amato, UTET, Torino 2019. La tesi sulla fine della storia, formulata in F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, tr. it. di D. Ceni, Milano, Rizzoli 1992, era già apparsa, con il titolo interrogativo The End of History?, nel 1989, in «The National Interest», n. 16, pp. 3-18.

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fine del secolo scorso: oggi non cresce più il numero dei regimi democratici, mentre prima, al tempo in cui scriveva Fukuyama, erano in costante aumento. Ma questo non vuol dire molto. L’idea del politologo americano è conciliabile con i problemi che hanno paesi come l’Ucraina o la Tunisia a impiantare un regime democratico, e anche con gli esiti non brillantissimi dell’esportazione della democrazia in Afghanistan o in Iraq. Lo è un po’ meno, nota lo stesso Fukuyama nel suo ultimo libro, Identità, di fronte alle minacce che vengono da paesi che fino a poco tempo fa si consideravano acquisiti al campo della liberaldemocrazia. L’esempio ovvio è la democratura, la democrazia autoritaria di Viktor Orbán, che ha esplicitamente rivendicato il carattere illiberale del regime politico di cui è alla guida10. Sarebbe decisamente più complicato mantenere questa idea, invece, se si rifiutasse un simile telos, se da qualche parte fosse contenuto un principio di rivolta, o una rivolta di principio, nei confronti della forma politica liberal-democratica. Per Fukuyama, peraltro, le attuali difficoltà dipendono dal fatto che «né il nazionalismo né la religione» sono davvero scomparse «quali forze attive nella politica mondiale»11. La modernizzazione, intesa come una sorta di domesticazione (per usare un termine di Peter Sloterdijk)12, non ha funzionato del tutto. «Le

10.  Il termine “democratura” è stato coniato dallo scrittore croato Predrag Matvejević, ma per la discussione sull’involuzione illiberale delle democrazie contemporanee, nell’ambito degli studi politologici, il punto di partenza è F. Zakaria, The Rise of Illiberal Democracy, in «Foreign Affairs», vol. 76, n. 6, 1997, pp. 22-43. Sulla figura di Viktor Orbán, cfr. S. Bottoni, Orbán. Un despota in Europa, Salerno Editrice, Roma 2019. 11.  F. Fukuyama, Prefazione a Identità, cit. (ed. digitale, pos. 94, come anche per le citazioni seguenti). 12.  P. Sloterdijk, Che cosa è successo nel XX secolo?, tr. it. di M.A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 2017, in particolare cap. II (ma il tema è già presente nel saggio principale, su La domesticazione dell’essere, raccolto in

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democrazie liberali contemporanee non hanno risolto fino in fondo il problema del thymós», scrive Fukuyama, cioè – traducendo nel lessico politico moderno – il problema del riconoscimento della dignità, individuale e collettiva. «Esse – continua il politologo statunitense – promettono, e in larga misura offrono, un grado minimo di pari rispetto, sotto la forma dei diritti individuali, dello stato di diritto e del diritto di voto». Dopodiché aggiunge che purtroppo non sempre le cose vanno a questo modo, lasciando così intendere che si tratta, dopo tutto, di un problema pratico, di forze che, certo, si incontrano o si scontrano in nome dell’isotimia, richiedendo cioè pari rispetto o pari dignità, ma che non arrivano sino al punto di mettere in discussione il principio stesso, il valore democratico della pari dignità, dell’uguaglianza di trattamento. Non so però quanto Fukuyama si renda conto che, se è mantenuta la regola dell’iso­ timia, è in fondo ancora mantenuto l’orizzonte in cui iscrive la sua interpretazione demoliberale del corso storico13. Ci sono insomma complicazioni pratiche, sembra dire, non revisioni teoriche da fare. Altro è invece se quell’orizzonte è sconvolto dalla megalotimia, dalla passione smodata, dall’ambizione di essere riconosciuti come superiori, che Fukuyama cita, per la verità, ma che subito accantona, benché, dal lupo Trasimaco fino all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, stia in questa ambizione, genuina o risentita, immediata o riflessa che sia, il vero possibile detonatore della storia raccontata da Fukuyama, e l’inizio di un’altra storia14.

P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184). 13.  «La nascita della democrazia moderna è la storia della rimozione della megalotimia da parte della isotimia» (F. Fukuyama, Identità, cit., pos. 428). 14.  Per questa storia diversa, è molto più utile allora la mappa disegnata da P. Mishra, L’età della rabbia. Una storia del presente, tr. it. di S. Prencipe e L. Fusari, Mondadori, Milano 2018.

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Ora, io non so se si tratta davvero di far brillare la carica esplosiva a cui il detonatore della megalotimia potrebbe dar la scintilla. Direi però che rimane un fatto, che per quante crisi possano accendersi ad ogni longitudine o latitudine, per quanti conflitti scoppino o potranno scoppiare, è presumibile che verranno ancora combattuti in nome della democrazia (l’emblema disprezzabile di Badiou), di una qualche sua regola disattesa o tradita, da ripristinare o da inverare, non in nome del suo puro e semplice rigetto. Ed è tuttora difficile immaginare, nonostante la crisi del 2007-2008 e il sospetto che comincia a circolare sulla teoria economica mainstream (teoria – lo ricordo – compatibile con versioni più liberistiche o più welfaristiche, che sono variazioni su un comune impianto di fondo. Qui non si tratta, insomma, della discussione sulla riduzione delle diseguaglianze e il Green New Deal o su politiche industriali rinnovate, o di regole più stringenti per il mercato), è difficile immaginare – dicevo – che si manifesti un antagonismo sociale e politico capace di mettere significativamente in discussione l’economia di mercato. È così, dunque, che vorrei rappresentare, riassumendo l’impasse in cui ci troviamo: avvertiamo l’esigenza di infondere nuova vita a forme politiche che appaiono esangui, rattrappite, asfittiche, ma non abbiamo disponibili alternative praticabili; sospettiamo perfino che si debba lacerare il tessuto democratico, per risemantizzare la politica, per risignificare i modi e le forme della partecipazione, della cittadinanza, e sentiamo persino che la mancanza di alternative potrebbe essere solo un effetto ideologico, di cui siamo vittime, ma non per questo riusciamo davvero a sbarazzarcene, a sognare il sogno di un’altra cosa. La crisi è questa condizione, a quanto pare: più che una crisi, un’impasse. Ora, in luogo di trovare il modo per sbloccare l’impasse, io vorrei, molto più modestamente, stare a quel che c’è, e fornirne

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una descrizione (in modo evidentemente sommario, visto il poco tempo a disposizione, e senza poter qui convocare tutte le competenze giuridiche o politiche che sarebbero necessarie, va da sé). La ragione banale per questo approccio modesto è anzitutto nell’impasse: non saprei davvero come indicare alla mosca il modo di uscire dalla bottiglia, per dirla con l’immagine con cui Wittgenstein indicava alla filosofia i suoi compiti. Ma, ammesso pure che si tratti di ridefinire i termini stessi della politica, prima di dichiarare del tutto inservibile l’armamentario democratico credo che non sarebbe del tutto inutile passarlo in rassegna, per come è effettivamente impiegato nei paesi avanzati. Al tempo stesso, però, vorrei suggerire che per un simile proposito meramente ricognitivo vi è una ragione un po’ meno banale in ciò, che troppe volte lo sguardo in ciò che è – che è peraltro una definizione della filosofia, in Hegel – viene portato muovendo da un certo ideale, rispetto al quale la realtà delle democrazie contemporanee rimarrebbe troppo lontana, ben al di sotto delle aspettative suscitate. Vorrei cioè insinuare il sospetto che forse lo stato delle cose non ha solo i tratti bloccati e claustrofobici che ho richiamato finora. Per far ciò, devo evitare di cadere nel discorso, fin troppo frequentato, abusato persino, per cui la democrazia sarebbe una bellissima cosa, orribilmente sfigurata nella pratica politica contemporanea15. La domanda che ho formulato nel titolo – in che stato è la democrazia rappresentativa? – richiederebbe anzitutto una ricognizione, se possibile anodina, di questo stato. E il fatto che questa descrizione, come qualsiasi descrizione in

15.  Nella tradizione italiana di studi politici, è divenuto standard il riferimento alle promesse non mantenute della democrazia, di bobbiana memoria: cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984. Ma la letteratura in argomento è, ovviamente, vastissima.

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genere, non possa affatto riuscire Wertfrei, secondo un ideale di avalutatività delle scienze sociali difficile da mantenere, non credo possa significare che possiamo esimercene, con il rigore che ci è consentito. Per ovvie ragioni di spazio, non ho ora l’intenzione né ho la competenza giuridico-politica per fornire l’atlante completo delle democrazie contemporanee, per dare un nome a tutti i suoi monti, i suoi fiumi e le sue valli, ma mi limito essenzialmente a un punto soltanto, ad articolare cioè una possibile risposta alla domanda: che cosa rende democratico, oggi, ai nostri occhi, un certo regime politico? Uso il termine “regime” per intendere l’assetto istituzionale di una società, che comprende anche quella che, nella tradizione giuridica italiana (si pensi a Costantino Mortati), è conosciuta come la costituzione materiale di un Paese16. Sicché la domanda è: che cosa è ciò da cui, nella costituzione materiale delle democrazie contemporanee, nelle sue istituzioni formali e informali, dipende il loro carattere democratico? A proposito di Wertfreiheit, è evidente che la domanda suppone già che non basterà citare il Parlamento, non basterà dire ubi Parlamentum (Senatus, Popularium) ibi democratia (se non altro, aggiungo qui en passant, perché la storia dei Parlamenti e in genere delle istituzioni rappresentative è molto più lunga e complessa della storia della democrazia, come ricordava il pa16.  Non si tratta solo di un omaggio a un testo ormai classico della tradizione giuspubblicistica italiana, ma di un rinvio a un punto non secondario delle riflessioni di Mortati, spesso occultato dalle riprese sbrigative di un’espressione che ha avuto larghissima fortuna. La costituzione materiale, per Mortati, non indicava infatti il piano meramente fattuale dei rapporti di forza, contrapposto a quello formale dei rapporti propriamente giuridici: «se all’istituzione originaria si attribuisca, come si deve, natura giuridica, devono trovarsi in essa sussistenti quei caratteri irriducibili della giuridicità, senza dei quali l’istituzione non potrebbe considerarsi idonea al suo compito» (C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano 1940, p. 74).

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dre della giuspubblicistica italiana, Vittorio Emanuele Orlando, anche se lo faceva per rintuzzare le spinte democraticistiche in direzione del suffragio universale, alla fine dell’800)17. Questo è però il punto cruciale: che ce ne facciamo dei Parlamenti? Sono un presidio di libertà e di democrazia, o non presidiano più un bel nulla, essendo scavalcati da ogni parte da altri poteri, da altre istanze? Lascio inevasa la domanda e mi accingo, in modo molto sommario, a gettare lo sguardo in ciò che è, così come mi proponevo, alla descrizione, cioè, delle forme della legittimità democratica, sulla scorta delle indagini condotte, in particolare, da Pierre Rosanvallon. Com’è noto, Rosanvallon ha negli ultimi anni pubblicato alcuni libri in cui segue da vicino le trasformazioni dell’ordine democratico. Popolo introvabile, controdemocrazia, legittimità democratica (declinata al plurale) sono i termini in cui si è articolata una ricerca che, fin dai titoli sotto i quali si presenta, si allontana da uno schema classico, in cui la democrazia è solo, o è essenzialmente, esercizio della sovranità popolare18.

17.  Va ricordato – come fa M. Fioravanti, La genesi dello Stato liberale, in Aa. Vv., L’unificazione istituzionale e amministrativa dell’Italia. 1861-1890, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 113-127 – che in Italia fu la scuola di V.E. Orlando, «per mano in primo luogo di Santi Romano, a creare la prima grande teoria della genesi dello Stato unitario. […] In un clima che si immaginava di sostanziale e pacifico consenso al regime liberale – continua Fioravanti – non vi era bisogno di alcuna evocazione politica del potere costituente inteso come originaria volontà generatrice della forma politica nazionale. Lo Stato unitario sembrava saldo di per sé, sulle sue proprie gambe, e non aveva quindi bisogno di alcuna legittimazione politica, della forza di un qualche mito originario» (p. 114). (Sul tema, è utile anche l’ultimo contributo di M. Fioravanti, Passato presente e futuro dello Stato costituzionale odierno, in «Nomos. Le attualità del diritto», n. 2, 2018, disponibile al seguente link: http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/nomos/maurizio-­fioravantipassato-presente-e-futuro-dello-stato-costituzionale-odierno/). 18.  Cfr. P. Rosanvallon, Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Gallimard, Paris 1998; Id., La démocratie inache-

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Termini – quelli impiegati da Rosanvallon – con i quali il politologo francese non prende in esame soltanto l’evoluzione costituzionale delle democrazie contemporanee (il che, peraltro – voglio aggiungere –, non è nemmeno poco, se si considera ad esempio il sospetto che ha circondato, nella tradizione comunista italiana, l’istituzione della Corte costituzionale, perché si riteneva che, insieme a tutti i correttivi giuridico-liberali del principio democratico, potesse finire con l’imbrigliare le sacrosante aspirazioni democratiche delle masse popolari)19. Si tratta piuttosto della formazione di concrezioni di potere, in seno ai corpi politici e sociali, che non possono essere ricondotte se non indirettamente alle forme canoniche della legittimazione

vée. Histoire de la souveraineté du peuple en France, Gallimard, Paris 2000; Id., La contre-démocratie. La Politique à l’âge de la défiance, Seuil, Paris 2006. In particolare, però, ho utilizzato, per la sommaria ricognizione nel testo, P. Rosanvallon, La legittimità democratica. Imparzialità, riflessività, prossimità (2008), tr. it. di F. Domenicali, Rosenberg & Sellier, Torino 2015. 19.  Cfr. il celebre discorso alla Costituente di Palmiro Togliatti del 14 marzo 1947 (ripreso con il titolo Per una Costituzione democratica e progressiva, in P. Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Bompiani, Milano 2014, pp. 720-745), di cui riporto il passo centrale: «Perché si sono introdotte queste norme? E perché riscontriamo in questa stessa direzione tutta una serie di altre debolezze nell’ordinamento costituzionale che ci viene proposto? L’onorevole Nenni ha dato una risposta che a me sembra giusta. Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto».

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democratica (essenzialmente il suffragio universale), e su cui dunque il sospetto è ancora maggiore, dentro la tradizione che citavo prima. Rosanvallon parla, in particolare, di decentramento delle democrazie, con riferimento a una certa pluralizzazione delle fonti di legittimità. Se il centro di una democrazia è la sovranità popolare, oggi le democrazie appaiono decentrate, non organizzate semplicemente intorno a quel centro. Il che ha qualche conseguenza su entrambi i versanti, tanto su quello della sovranità quanto su quello del popolo. L’unità, la compattezza, l’omogeneità non apparterranno più (se mai sono appartenute) né alla sovranità né al popolo. Forse aveva ragione Lyotard quando diceva che popolo «è il nome di una nuvola di frasi eterogenee che si contraddicono a vicenda»20. E certo il popolo che vota, che si esprime nell’urna, non è il popolo in senso sociologico, e d’altra parte questa grandezza reale va a sua volta distinta dal popolo come vettore del principio politico dell’uguaglianza. Il punto che vorrei sottolineare, però, è che non è più ovvio che democrazia sia, per eccellenza, quel regime in cui queste diverse dimensioni del popolo – formale, sostanziale, ideale – sono portate a coincidenza. Lo stesso dicasi dal lato della sovranità, naturalmente, dove alla tradizionale separazione orizzontale dei poteri si aggiunge nella nostra epoca una inedita separazione verticale. Alludo in questo caso all’esperienza europea, che può essere considerata un tentativo di interpretare la sovranità come una proprietà distribuita, frammentata dell’autorità pubblica, che si differenzia verticalmente, su livelli diversi; un’unione, dunque – come ha scritto Sergio Fabbrini –, che «per 20.  E. Tassin, La Déflection des grand récits. Entretien avec Jean-François Lyotard, in «Intervention», n. 7, nov.-déc. 1983/jan. 1984, pp. 48-58: p. 52. Ma si veda J.-F. Lyotard, Il dissidio, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, in particolare § 208, p. 182.

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funzionare non richiede né uno stato né un governo»21. (Col che, per la verità, non è detto affatto che funzioni). Sta qui la principale ragione per cui ho suggerito che occorre gettare uno sguardo in ciò che è, liberandosi dai pregiudizi teorici. È chiaro, infatti, che se manteniamo il classico orizzonte unanimistico e omogeneistico della teoria politica – una certa idea dello Stato nazionale, una certa idea della sovranità, una certa idea di popolo – dobbiamo valutare tutte le trasformazioni, complessificazioni e diversificazioni della forma democratica come movimenti in perdita, modalità che comportano una certa diminutio, forse la dispersione di una sostanza democratica che andrebbe invece conservata intatta, compatta. O che magari richiede solo integrazione su altri terreni, non propriamente giuridico-politici. Ci si iscriverà allora in una di quelle prospettive che prendono a cuore la promessa democratica di rendere reale e non solo formale l’uguaglianza – che vanno da una ragionevole, prudente difesa del welfare a una più radicale rivendicazione del reddito di base, fino a nuove, del tutto inedite esperienze del comune – oppure, come l’ultimo Fukuyama o, per esempio, Böckenförde22, si troverà che sono necessari enfatici supplementi di senso, che soddisfino le ansie identitarie. I fenomeni che invece Rosanvallon prende in considerazione, con l’intento di completare una ricognizione della democrazia così com’è oggi (e non come dovrebbe idealmente essere) sono – mi sarà consentito di richiamarli velocemente, per titoli – la formazione del potere amministrativo, che ha storicamente accompagnato l’evoluzione dello Stato moderno, le

21.  S. Fabbrini, Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 129. 22.  Cfr. E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2010.

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autorità indipendenti (tra le quali Rosanvallon include anche le Corti supreme, come la nostra Corte costituzionale, la cui vicenda citavo prima), autorità che costituiscono un tratto imprescindibile dell’evoluzione democratica secondo-novecentesca, e infine quelle che chiama le istituzioni dell’interazione, espressione con la quale allude agli elementi in cui, nella pratica, si svolge e articola l’esercizio effettivo dell’arte di governo, quando si fa prossima alle particolarità sociali. Pensiamo, a titolo esemplificativo, alle commissioni che raccolgono i pareri delle comunità locali su determinate questioni che possono avere su di esse un impatto importante. Ora, l’aspetto rilevante di questa descrizione è che essa viene fornita con l’idea – ripeto – che gli elementi reperiti sulla mappa della democrazia contemporanea offrano una nuova articolazione/differenziazione della legittimità democratica, e che dunque la legittimità non provenga più dalla sola (stavo per dire: dalla mera) consacrazione popolare. Rosanvallon arriva sino al punto di parlare di una nuova età della legittimità, e forse questa etichetta sarebbe appropriata se fosse sostenibile che l’indebolimento del centro democratico della sovranità popolare è in realtà una revisione di quel divorzio, di quella sconnessione o di quella frattura originaria fra potere e sapere, che attraversa tutto lo spazio della modernità. Non è possibile risolvere una simile questione in poche battute, e tuttavia sia consentito farvi almeno riferimento grazie alla presa di posizione di Hans Kelsen23. Il quale sosteneva che il relativismo è necessariamente la concezione filosofica di sfondo della democrazia, perché la democrazia suppone l’ignoranza riguardo a ciò che è bene per una comunità. Di qui il passaggio

23.  Cfr. H. Kelsen, Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica, tr. it. di F. L. Cavazza, in H. Kelsen, La democrazia, il Mulino, Bologna 1966, pp. 441-453.

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dal bene comune alla pace come fine ultimo; di qui la necessità di spoliticizzare certe materie, di mettere a tacere filosofi e teologi; di qui, infine, la costruzione di uno spazio pubblico in cui tutti hanno diritto, allo stesso titolo, di prendere la parola. Ora, però, amministrazioni, autorità indipendenti, banche centrali, corti, comitati civici, tutto il continente lentamente emerso nel corso della modernità ha inventato nuove figure della legittimità democratica orientate alla razionalità, alla riflessività, alla prossimità, che suppongono evidentemente tutto meno che un relativismo rinunciatario, tutto meno che un’abdicazione dei saperi, ma anzi richiedono la definizione e il perseguimento di un interesse generale da parte di poteri e istituzioni che non sono espressioni, dirette o indirette, della volontà generale. Un interesse generale all’efficienza, alla competenza, all’imparzialità, alla neutralità, alla sussidiarietà che non necessariamente è in linea con la volontà generale e che, evidentemente, non può essere coltivato dando la parola a tutti. Non tutti sono competenti, non tutti sono imparziali, non tutti sono prossimi al problema, e così via. Se è così, se non tutti ma solo alcuni, è perché a questi non tutti appartiene un sapere che ha diritto di trattenere il potere, o perlomeno di mediarlo, di complicarne l’esercizio. Ecco, sarebbe importante presentare tutta questa materia sotto il titolo di: complicazioni nell’esercizio democratico del potere. Complicazioni, non sconfessioni. Ho detto: sarebbe importante per una forma di prudenza, ma non adopererei comunque un giudizio assertorio, men che meno un giudizio apodittico. Sarebbe importante, dico, nel senso che invito a tenere perlomeno aperta la possibilità di considerare la cosa, senza liquidazioni affrettate. È anche possibile, ovviamente, che da questo non tutti emergano non cose universalmente apprezzate come la parità di trattamento, la salvaguardia di diritti o l’imparzialità di giudi-

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zio, ma soltanto la particolarità di interessi determinati, tutelati a discapito della generalità sociale (interessi economici, ad esempio, o di ceto corporativo, o di minoranze organizzate: si possono produrre molti esempi, al riguardo). In tal caso, dovremmo evidentemente rinunciare ad attribuire a questo vasto tessuto una schietta patente di democraticità. Correndo però il rischio, occorre ribadirlo, che per rimanere ligi a un incontaminato ideale democratico finiamo con l’apparire come quelli che per trarsi d’impaccio se la cavano con un: tanto peggio per i fenomeni. Non so infatti se sia realismo politico dire: tutto questo nulla ha a che fare con la democrazia, ma solo con la sua crisi, con il suo rattrappimento, con la sua deriva oligarchica o elitaria; o se non sia più realistico provare a descrivere la democrazia così come si presenta, riconoscendo peraltro che i suoi tratti rimangono aperti alla contesa politica, e quindi tanto a degenerazioni e involuzioni, quanto a evoluzioni e arricchimenti. Non ogni complicazione è un imbroglio, insomma, ai danni della genuina volontà popolare. Naturalmente, il modo più semplice per mantenere la democraticità almeno come una patina che ricopre tutta questa sfera politico-istituzionale è sottolineare che la fonte ultima è sempre il popolo24. Io però non credo che ciò sia sufficiente. Ho appena detto fonte ultima: come dobbiamo giudicare allora tutto quello che c’è nel

24.  Si pensi alla procedura di nomina del governatore della Banca centrale, carica a vita fino al 2005. La questione dell’indipendenza delle Banche centrali ha impegnato a lungo la dottrina costituzionalistica, viste in particolare le trasformazioni da cui è stato investito il governo della moneta entro il processo di integrazione europea. Trovo utile al riguardo ricordare la posizione di G. Teubner, per il quale la Banca centrale svolge, nella conduzione della politica monetaria, una funzione analoga a quella delle Corti costituzionali: cfr. G. Teubner, Nuovi conflitti costituzionali. Norme fondamentali dei regimi transnazionali, tr. it. di L. Zampino, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2012.

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mezzo, prima che si attinga la fonte? La domanda può apparire troppo brusca, non è per questo meno necessaria: perché questa metafisica del principio, questa potenza arcontica non dovrebbe venire in questione? Davvero rischiamo di compromettere la democrazia, di perdere sostanza democratica, se solo osassimo dubitare che i circuiti istituzionali si alimentano a quell’unico principio, essendo per il resto privi di forza propria, di virtù propria, di vita propria? Posso, in questo modo, richiamare anche il dibattito, che è vecchio quanto la democrazia stessa, che in età moderna ha riguardato la legittimità delle istituzioni rappresentative. Le quali pure stavano nel mezzo: sia perché, storicamente, erano già lì, quando il moto democratico le ha investite, sia perché, per l’appunto, non possono vantare titoli teorici di originarietà democratica. È dunque dal loro rapporto con la fonte originaria del popolo che viene giudicata la loro rappresentatività: fino, eventualmente, alla negazione, fino anzi a negare che abbia un senso il rappresentare in quanto tale, in base alla celebre tesi rousseauiana per cui la volontà generale non può essere rappresentata. Tutti ricordano infatti quel passo del Contratto sociale di Rousseau, in cui il filosofo ginevrino scrive che gli inglesi si illudono di essere liberi, in realtà lo sono solo nell’attimo in cui depongono la scheda nell’urna, quando si consegnano ai loro rappresentanti, facendo getto della loro libertà. Ne fanno un così cattivo uso, della libertà, commentava perfido Rousseau, che meritano di perderla25. E siccome un “momento Rousseau” è arrivato sino a noi, forse non è del tutto inutile un supplemento di riflessione, al riguardo. Non mi riferisco solo alle famigerate piattaforme informatiche dei nostri giorni, ma anche all’aspirazione all’unanimismo,

25.  Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, tr. it. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1966, l. II, cap. XV, p. 127.

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che è ancora viva, per cui l’adozione del principio maggioritario non trova tuttora molto di più di una giustificazione di natura tecnica. L’impasse in cui si trova l’Unione europea, che su determinate materie mantiene la richiesta di unanimità nella decisione (e, dunque, un diritto di veto) proviene da qui: se nessuno deve essere governato da altri che non sia se stesso, allora nessuno può avere potere su di un altro: dunque, solo l’unanimità è veramente democratica26. Solo quando si è dovuto riconoscere, con buona pace di Rousseau, che la volontà generale non poteva manifestarsi direttamente, ma doveva rassegnarsi alla mediazione rappresentativa, è stato necessario trattare le maggioranze che si formano in seno agli organismi rappresentativi, come se fossero espressio-

26.  L’unanimismo democratico, in cui nessuno ha potere su di un altro, è un orizzonte teorico poco compatibile anche con la segretezza dell’espressione del voto. Voglio sottolinearlo, benché sia un punto solo teorico, perché nessuno discute più la necessità di proteggere il voto, in determinate procedure, grazie al segreto. Ma se siamo davvero in democrazia, se nessuno ha potere su di me, allora che bisogno c’è di nascondermi, direi persino di vergognarmi del mio voto? Se non sono abbastanza libero da poter votare in pubblico, allora in che senso sono libero? Se c’è voto segreto, vuol dire che non c’è democrazia. Eppure, noi consideriamo, proprio al contrario, che solo dove il voto è segreto c’è democrazia. Questo mi pare un caso lampante, benché solo di scuola e poco discusso, in cui siamo chiamati a prendere partito per la realtà della vita democratica o per un’astratta idealità. Che la manifestazione della libertà debba essere custodita dal segreto smentisce l’idea democratica, eppure quella contraddizione rende praticabile l’esercizio democratico del voto. Non solo. Vorrei inoltre aggiungere che, in realtà, la protezione che la segretezza assicura al voto è anche l’offerta di uno spazio in cui la volontà politica dell’elettore, o del votante in genere, può crescere, maturare, senza che cambiamenti o ripensamenti passati e futuri vengano schiacciati su un’unica dimensione e interpretati, per esempio, come sconfessioni o tradimenti. Agli occhi degli altri e ai propri stessi occhi. In questo senso, la segretezza protegge me persino da me stesso, consente a me di diventare un altro, è l’invenzione di uno spazio o di una presa di distanza di cui io stesso approfitto per essere o diventare altro da ciò che sono.

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ne di quella volontà. Questo come se è stato essenziale per la giustificazione della rappresentanza democratica, per colmare lo iato dalla maggioranza all’unanimità, anche se non può non apparire, alla luce di quell’aspirazione unanimistica, molto più che un rattoppo, un male minore. Ma il supplemento di riflessione al quale voglio invitare riguarda proprio il rappresentare, la rappresentanza/rappresentazione. Che non può essere considerata – si osserva giustamente – solo un mezzo, una tecnica, un metodo. Per rappresentare possono in effetti intendersi più cose e il primo senso, quello della sostituzione, è solo il più povero27. Rappresentare vuol dire anche sostituire, certo. Dove non posso essere presente mando un mio rappresentante. Ma in questa logica, il rappresentante non ha alcuna autonomia rispetto a chi rappresenta. È ancora una logica rousseauiana, o giacobina, che porta dritti al mandato imperativo, l’unico che non dispiacesse a Rousseau (e a Marx, penso di poter aggiungere)28. Anche questa logica può 27.  Sul concetto, mi limito qui a due rinvii generali: G. Duso, La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Franco Angeli Milano 2003, e H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, tr. it. di C. Tommasi, Giuffrè, Milano 2007. 28.  Questa è anche la logica che Hannah Arendt prosegue nel suo voluminoso saggio sulla rivoluzione. Tanto più notevole, allora, dentro un pensiero orientato alla polemica sistematica nei confronti del concetto di rappresentanza, appare la pagina seguente, particolarmente problematica, che mette conto dunque riportare per esteso: «Se i rappresentanti eletti sono legati dalle istruzioni ricevute al punto da riunirsi solo per tradurre in atto la volontà dei loro elettori, possono ancora scegliere se considerarsi fattorini in abiti da cerimonia o esperti pagati come specialisti per rappresentare, al pari degli avvocati, gli interessi dei loro clienti. Ma in entrambi i casi si presume, naturalmente, che gli interessi dell’elettorato siano più impellenti e importanti di quelli dei suoi rappresentanti: i quali sono gli agenti pagati di persone che, per qualsiasi ragione, non possono o non vogliono occuparsi degli affari pubblici. Se al contrario si intende che i rappresentanti abbiano, per un periodo limitato, il compito di governare coloro che li hanno eletti – con la rotazione delle cariche non può esistere, naturalmente, un governo rappresentativo in

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essere superata per ragioni meramente funzionali, come già nel caso del principio maggioritario, cioè per l’impossibilità pratica di far funzionare un Parlamento in cui gli eletti siano rigidamente vincolati, oppure in considerazione degli altri significati che assume il rappresentare, quando non sia tanto un modo di sostituire quanto un modo di presentificare, come sosteneva Carl Schmitt nella Verfassungslehre, contro la concezione procedurale e astratta della nozione: rappresentare significa allora «rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente»29. Dopo di che, Schmitt elencava le parole confacenti all’essere che doveva essere pensato dentro questo schema: «grandezza, altezza, maestà, gloria, dignità, onore»30. Parole, credo, abbastanza eloquenti.

senso stretto – la rappresentanza significa che gli elettori rinunciano al loro potere, anche se volontariamente, e che il vecchio adagio “Tutto il potere risiede nel popolo” è vero solo per il giorno delle elezioni. Nel primo caso il governo degenera in semplice amministrazione, lo spazio pubblico scompare: non v’è più spazio né per vedere ed essere visto in azione – lo spectemur agendo di John Adams – né per discutere e decidere – l’orgoglio di Jefferson di essere “partecipe del governo”: gli affari politici sono quelli destinati per necessità a essere decisi da esperti, ma non sono aperti alle opinioni e a una vera scelta: perciò non c’è alcun bisogno di quel “corpo scelto di cittadini” di Madison il quale dovrebbe filtrare e decantare le opinioni in opinioni pubbliche. Nel secondo caso, che è molto più vicino alla realtà, si riafferma invece la vecchia distinzione fra governante e governati che la rivoluzione aveva cercato di abolire con l’instaurazione della repubblica: ancora una volta i cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari di governo sono divenuti privilegio di pochi, che soli possono “esercitare le [loro] virtuose disposizioni” (come Jefferson chiamava ancora le capacità politiche degli uomini)» (H. Arendt, Sulla rivoluzione, tr. it. di M. Magrini, Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 274). 29.  C. Schmitt, Dottrina della costituzione, tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, p. 277. Il concetto esistenziale di rappresentanza viene per questo distinto in linea di principio da «altri concetti come incarico, mandato, gestione d’affari, commissione, amministrazione fiduciaria, ecc.» (p. 274). 30.  Ivi, p. 277.

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Qui però vorrei adottare la stessa misura prudenziale che ho adottato già sopra: come prima non ho fatto nessuno sforzo per dire che cos’è democrazia, per poi misurare sul metro della definizione quanto la realtà se ne discosti, così ora non ho l’ambizione di presentare innanzitutto il concetto, per poi accostarlo alla realtà. È una prudenza che mi pare adotti anche Hasso Hofmann quando osserva Schmitt procedere dalla posizione assiomatica del concetto alle conseguenze che ne discenderebbero logicamente, conseguenze che hanno, con riferimento alla situazione nella Repubblica di Weimar che Schmitt aveva dinnanzi, il sapore schiettamente antidemocratico al quale ho prima alluso, per cui l’organo rappresentativo finiva per lui con l’essere solo il governo, non il Parlamento. Se però «si punta al cuore del problema – scrive infatti Hofmann –, il tratto caratteristico che balza agli occhi è dato da una convergenza di fattori quali la centralità dell’idea di raffigurazione dell’unità politica […]»31. Noi abbiamo bisogno di rappresentazione perché abbiamo bisogno di unità: è l’unità che viene resa presente, ancor più se la presentificazione culmina in una personificazione. L’unità che viene resa presente, addirittura impersonificata, ha evidentemente questa irrinunciabile caratteristica che non raffigura un’alterità, ma l’identità e la verità del rappresentato32. Per usare l’espressione di Hofmann, questo è il cuore del pro-

31.  H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, cit., p. 11. Il passo decisivo è C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 280: «L’unità politica è rappresentata come totalità. In questa rappresentanza c’è qualcosa che va al di là di ogni incarico e funzione. Perciò non qualsivoglia organo è rappresentante. Solo chi governa partecipa alla rappresentanza». 32.  Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 272: «Nella realtà della vita politica esiste tanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi strutturali del principio di identità, quanto poco uno Stato che possa rinunciare agli elementi della rappresentanza».

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blema: che fin dalla costruzione hobbesiana dello Stato moderno, la logica della rappresentanza è intervenuta con compiti di unificazione e identificazione. Nel caso di Hobbes in una forma tale per cui una volta costituita, nel processo di autorizzazione, l’autorità pubblica nella persona del sovrano, il sovrano rimane l’unico attore, senza contraddizione o anche solo differenza alcuna che possa essere agita politicamente dagli autori, cioè dagli individui che lo hanno autorizzato. Si tratta, certo, di una logica ben più ricca di quella meramente sostitutiva, in cui però si conferma il principio dell’unità e dell’identità del soggetto politico: ci si preoccupa di renderlo presente, non più di sostituirlo non essendo presente, ma la rappresentatività non comporta in nessun caso uno sfondamento, o anche solo uno sfalsamento di questa unità e identità. Al punto che quando uno sfalsamento si produce, quando si registra una non coincidenza, quando si apre una distanza, essa viene percepita come una falla, come un buco da rammendare, come un fallimento del sistema, o, per venire a noi, come un tradimento della democrazia (se ad essere rappresentato deve essere il popolo). Gli scoppi di populismo, che attraversano tutta la storia della democrazia moderna, non sono che la riattivazione di questa logica33. E, per contro, quando si vuol rifiutare invece l’intero tracciato dell’unità e dell’identità di 33.  Non mi è possibile discutere, in questo saggio, le molteplici forme del populismo contemporaneo (contro cui però è indirizzata la presentazione dei termini della legittimità democratica in età contemporanea e la difesa del concetto di rappresentanza democratica). Mi limito pertanto a rinviare al libro più importante che mi è dato di conoscere sui fondamenti storici e teorici del populismo democratico, basato sull’idea che quanto più ci si allontana dall’esercizio diretto del potere popolare come pure da procedure di sorteggio nell’attribuzione delle principali cariche esecutive e giudiziarie, tanto meno si mantiene un tratto democratico nella forma di governo. Mi riferisco a J.P. McCormick, Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011.

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una soggettività politica piena, per tema di rimanere dentro una parabola concettuale compromessa (compromessa, per esempio, con una metafisica, o con una certa teologia politica) allora si finisce con il non usare più, in alcun modo, il lessico della rappresentanza, che si giudica, per dir così, totalmente integrato in quel circuito. Orbene, anche in questo caso, la domanda che conviene porsi è semplicemente: non sarà che tenendo ferma una certa logica, sia che si tratti di rivendicarla, sia che si tratti di respingerla, si perde qualcosa dal lato dei fenomeni? È davvero impossibile stirare il concetto di rappresentanza in modo da mantenerne lo sfalsamento come la sua propria forma, mantenere la sfocatura, la disidentificazione non come un difetto – magari un difetto ineliminabile – ma come una condizione del suo esercizio? La filosofia può dare di sicuro una grande mano a pensare le macrocategorie, i meghista ghene che sono coinvolti in questa questione: nel suo libro sulla genesi e la crisi della rappresentanza moderna, Duso, ad esempio, adopera Platone per mostrare in quale aporia si cacci l’idea moderna di rappresentanza, ma forse non sarebbe del tutto inutile se si accettasse, più prosaicamente, di guardare in concreto, nel campo politico democratico, come accade che un organismo eserciti la rappresentanza, quale dimensione della generalità politica e sociale vi si può riconoscere, come la rappresentazione sia sempre interrotta dal conflitto con ciò che rappresenta, ma anche tenuta e ripresa, non riuscendo tuttavia a farsi mai piena identità e presenza, e come anzi la politica della presenza (che nella nuova realtà mediatizzata, nella democrazia del pubblico, come la chiama Bernard Manin34, ha preso indubbiamente un nuovo spicco) determini in realtà un cortocircuito della democrazia.

34.  B. Manin, Principi del governo rappresentativo, tr. it. di V. Ottonelli, il Mulino, Bologna 2010.

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Merita di essere richiamata, a questo proposito, una considerazione che si trova nel libriccino di J.-L. Nancy dedicato alla verità della democrazia (che in realtà è un libro sul ’68). Per apprezzarne il sapore, occorre forse riprendere brevemente la questione centrale posta da Nancy in politicis. Lo faccio davvero molto in breve. Per Nancy, l’autorità – e s’intende l’autorità democratica, non essendovene altre di legittime – «non può essere definita da alcuna autorizzazione preliminare (istituzionale, canonica, normata)»35. Nulla precede l’autorità democratica, «salvo un desiderio che vi si esprime o vi si riconosce». «Se la democrazia ha un senso – continua il filosofo – può essere solo quello di non disporre affatto di un’autorità identificabile a partire da un altro luogo e da un altro slancio che non sia quello di un desiderio – di una volontà, di un’attesa, di un pensiero – in cui si esprime e si riconosce un’autentica possibilità di essere tutti insieme, tutti e ognuno». Nessuna logica della rappresentanza, tanto meno una rappresentanza sfocata o rifratta può essere impiantata qui, in questa sorta di comunismo esistenziale, per cui la democrazia «è spirito prima ancora di essere forma»36. Ora, Nancy è fin troppo accorto per non scrivere sì “desiderio”, senza avvertire che il soggettivismo non c’entra nulla, o per non scrivere “spirito”, senza avvertire che lo spiritualismo non c’entra nulla. Queste avvertenze ci sono, né io voglio prenderle di mira come excusationes non petitae. Ma poiché Nancy avverte anche il pericolo che se non è democrazia in senso formal-elettoralistico, come mero sistema dei mezzi, mera procedura (“mero” è ciò che risulta essere una procedura per Nancy – s’intende – e per chiunque cerchi il soffio dello spirito, o semplicemente il senso), allora – se non è democrazia – rischia di essere totalitarismo, per tutto ciò 35.  J.-L. Nancy, Verità della democrazia, tr. it. di R. Borghesi e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009. Le citazioni seguenti sono tutte tratte dal capitolo V. 36.  Ivi, cap. VI.

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Nancy sottopone a un recupero inatteso non il concetto della democrazia ma quello della politica tout court, nata – scrive – «dalla separazione tra se stessa e un altro ordine, che oggi il nostro spirito pubblico non intende più come divino, sacro o ispirato, ma che nondimeno mantiene la sua separazione (ancora una volta attraverso l’arte, l’amore, il pensiero…) – una separazione – continua il filosofo francese – che si potrebbe dire quella della verità o del senso, di questo senso del mondo che è fuori dal mondo, come dice Wittgenstein»37. D’improvviso, la politica, non la sua forma democratica, ma la politica finisce con l’essere solo un mezzo, lo strumento e il luogo di questa separazione, contro la pretesa che la politica in genere debba riassumere l’integralità del destino umano. Ora, io non so dire se davvero questo sia lo spirito del ’68: forse lo è della sua anima libertaria, comunista ma libertaria. È vero pure che mentre pensa la politica come separazione, Nancy pensa la democrazia come una metafisica e solo in secondo luogo come una politica. Però, se è questo, se si tratta di mantenere una distanza, una separazione, e se non c’è da mettere la forma di vita democratica sotto la tutela di alcuna autorizzazione preliminare – di alcuna trascendenza, ivi compresa quella di un soggetto politico rivoluzionario – allora, forse, lo stato della democrazia rappresentativa, essendo lo stato, la situazione di questa separazione, ciò che la politica è quando, pur mantenendosi democratica, si lascia pensare nei limiti di questa separazione, forse questo stato non è così compromesso, così deteriorato come abitualmente siamo portati a credere. E forse, come in certi circoli ermeneutici, così anche nell’impasse democratica si può stare nel modo giusto.

37.  Ivi, cap. VII.

Sezione III Religione e rappresentazione

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«La vérité est un cri». Michel Henry sulla crisi del religioso di Carla Canullo

1. «La vérité est un cri» «La vérité est un cri. De le hurler ma gorge se déchirera»1. Appassionato cultore di ogni forma artistica, Michel Henry, certamente noto per la sua filosofia, è stato anche autore di romanzi. Nell’intervista Narrer le pathos2 rilasciata a Mireille Calle-Gruber, il filosofo racconta l’intreccio, nella sua opera, di filosofia e creazione letteraria affermando di non aver fatto altro, in entrambe, dal “narrare la vita”. A proposito del romanzo Le fils du roi, alla fine del quale si legge che «la vérité est un cri», Calle-Gruber scrive che in quest’opera «prende forma, attraverso il sogno, l’immaginazione e la ripresa della parabola del Cristo»3. Nel romanzo, in effetti, gli episodi in cui si palesa la prossimità della vicenda umana del protagonista Josè con la vicenda del Cristo si susseguono, e, soprattutto, attraverso la narrazione drammatica delle vicende, si dispiega l’esistere di ogni uomo come figlio della vita. Ambientato in un mani1.  M. Henry, Le fils du roi, Encre Marine-Gallimard, Paris 2009, p. 549. 2.  M. Henry, Narrer le pathos, in Id., Phénoménologie de la vie, vol. III, De l’art et du politique, Puf, Paris 2004, pp. 309-323. 3.  Ivi, p. 314.

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comio, i personaggi de Le fils du roi sono infatti la narrazione dei diversi modi in cui il pathos della vita si sente e accade, e a proposito della quale Henry scrive: Questo libro è stato difficile da realizzare. In esso sta il mio lavoro metafisico ed è l’idea che nella vita ci sia qualcosa di soffocante e allo stesso tempo inebriante che mi ha portato a questo che è un vero e proprio romanzo carcerario – uso questa parola non solo perché la storia è ambientata in un manicomio ma soprattutto perché una tale situazione esclude qualsiasi tipo di scelta. Quando si sta nel mondo si può sempre girare a destra o a sinistra, ma quando si tratta della vita e della sua verità è in gioco tutto o niente. È così che la condizione della vita si libera allo stato puro, nella sua terribile tensione.4

La “verità”, dunque, e il grido con cui essa si fa sentire nella vita: i lettori di Michel Henry riconosceranno senza difficoltà nei due termini qui citati il Leitmotiv di C’est moi la vérité5 e di altre opere del filosofo francese in cui tale tema è svolto anche attraverso il commento di alcuni passi del Nuovo Testamento. Ciò detto, che senso potrà avere parlare di “crisi del religioso” in e con un autore per il quale tale questione non si pone e, soprattutto, per il quale la religiosità era una delle espressioni del pathos della vita?

2. Crisi del religioso: l’inutilità e l’incertezza di una questione Poste queste premesse, giustamente si potrebbe obiettare che l’interrogarsi sulla “crisi del religioso” riflettendo con Michel Henry rischia di porre un interrogativo inutile. Inutile così 4.  Ivi, p. 319. 5.  M. Henry, C’est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996; tr. it. di G. Sansonetti, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997, specialmente le pp. 120 ss.

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come Blaise Pascal definiva René Descartes, al quale rimproverava il fatto di aver ridotto Dio, con la sua filosofia, a una cosa insignificante (chiquenaude) il cui unico compito era mettere il mondo in movimento. Per aver operato questa riduzione inaugurando quella giustapposizione tra “Dio dei filosofi” e “Dio della fede”6 che la modernità avrebbe sigillato (avendola tuttavia ereditata da un lungo percorso maturato nei secoli precedenti), Descartes meritava perciò di essere appellato inutile et incertain7. Se riferita a Henry e alla “crisi del religioso”, l’inu­tilità non riguarderebbe il filosofo e il modo in cui ha trattato la questione-Dio, ma concernerebbe la strategia di lettura che in queste pagine ne viene proposta, essendo stato scelto di interrogare l’autore su una questione che non costituisce il focus della sua opera e che egli non ha affrontato. Ma c’è di più, ché oltre a essere inutile Descartes (a detta di Pascal) era anche incerto. Varrebbe la stessa obiezione per la questione che si sta ponendo – e dunque l’ermeneutica di Henry qui proposta, oltre a essere inutile, sarebbe anche incerta? Tornando a Pascal, è noto che l’obiezione che egli poneva toccava un punto decisivo dell’argomentazione cartesiana del cogito, principio inconcussum che pre-tendeva alla certezza ogni qualvolta che era pronunciato. Può esser detta la stessa cosa della “crisi del religioso”? Probabilmente sì, sebbene tale incertezza assuma in Henry un senso diverso. Se infatti per un verso il filosofo parla indirettamente di tale crisi denunciando la crisi spirituale (e in questo senso “religiosa”) della cultura del XX secolo, per altro verso la ricezione della sua opera, soprattutto in Italia e almeno in un primo momento, si è per lo più concentrata sull’ultima parte della sua produzione, ossia 6.  Cfr. B. Pascal, Pensées, testo stabilito da L. Lafuma, Seuil-l’Intégral, Paris 1963, fr. 913. 7.  Cfr. ivi, fr. 887. Sulla lettura pascaliana di Descartes cfr. V. Carraud, Pascal et la philosophie, Puf, Paris 1992, pp. 219-288.

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sulla cosiddetta trilogia dedicata al cristianesimo, rendendo così incerta tale crisi8. Data dunque quest’incertezza, alla quale va aggiunto che Henry difficilmente potrebbe essere annoverabile tra i filosofi cristiani o tra i “filosofi della religione”, e dato anche il fatto che la crisi di cui egli parla è soprattutto crisi della filosofia9, della vita10, della cultura, cui prodest interrogare questo autore per disegnare quella figura della crisi che coinvolge, appunto, il religioso? Giova perché la ricezione di Henry è stata fortemente marcata dal suo inserimento nel cosiddetto tournant théologique de la phénoménologie française, inserimento che ha fatto di questo filosofo, forse malgré lui, un pensatore del religioso. Affrontare la questione “inutile e incerta” fin qui esposta gioverà dunque perlomeno a chiarire le cose, al di là della polemica.

8.  Cfr. G. Sansonetti, Michel Henry. Fenomenologia Vita Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2006; G. De Simone, La rivelazione della vita. Cristianesimo e filosofia in Michel Henry, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2006. I tre volumi di Henry centrati sul cristianesimo sono: C’est moi la vérité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996; tr. it. di G. Sansonetti, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997; Incarnation, Seuil, Paris 2000; tr. it. di G. Sansonetti, Incarnazione, SEI, Torino 2001; Paroles du Christ, Seuil, Paris 2002; tr. it. di G. Sansonetti, Parole del Cristo, Queriniana, Brescia 2003. 9.  Cfr. M. Henry, L’essence de la manifestation, Puf, Paris 1963, 19902; tr. it. di D. Sciarelli et al., L’essenza della manifestazione, intr. di G. De Simone, Orthotes, Napoli-Salerno 2018; M. Henry, Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990; tr. it., Fenomenologia materiale, a cura di P. D’Oriano, Guerini e Associati, Milano 2001. 10.  Cfr. M. Henry, Genealogia della psicanalisi. Il cominciamento perduto, ed. it. a cura di V. Zini, Ponte alle grazie, Firenze 1990; l’edizione francese Généalogie de la psychanalyse. Le commencement perdu, esce per le Presses Universitaires de France (Paris) nel 1985.

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3. La polemica Difficilmente si contesterà che il motivo principale che ha fatto di Henry un pensatore del “religioso” è stato il suo inserimento nel cosiddetto tournant théologique de la phénoménologie française. Nel 1989 Dominique Janicaud lo include infatti tra gli autori che avrebbero compiuto la svolta verso il teologico negata invece sia dalla fenomenologia storica sia da altri filosofi che si sono reclamati alla fenomenologia, ad esempio Mikel Dufrenne11. Janicaud, che contestava a Emmanuel Levinas e Jean-Luc Marion di aver aperto in fenomenologia la via della manifestazione della trascendenza, obiettava invece a Henry proprio il modo in cui questi intendeva la “struttura dell’immanenza”12. Agli occhi di Janicaud era infatti proprio tale struttura a essere problematica, ché Henry avrebbe fatto dell’immanenza il modo originario secondo cui si compie la rivelazione di ogni trascendenza. Di più, pur parlando di “struttura dell’immanenza”, in realtà il nostro filosofo, (sempre a detta di Janicaud) non avrebbe fatto altro dal presentare un’“interiorità tautologica”13 declinata tramite il ricorso a Meister Eckart; interiorità la cui struttura sarebbe paradossalmente de-strutturata non essendo trama di relazioni ma accadendo soltanto come pura autoreferenzialità – poiché ogni immanenza (secondo Henry) si rivela soltanto sentendo se stessa. Su questo “sentire se stessa” dell’immanenza per l’autoaffezione si focalizzerà la lettura henryenne della fenomenologia di Husserl, rovesciando la quale, osserva Janicaud, Henry formula la sua idea-guida concernente l’eterogeneità radicale tra la vita trascendentale e il metodo eidetico; idea-guida che lo condurrà 11.  Cfr. M. Dufrenne, La poétique, Puf, Paris 1973. 12.  Cfr. D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, L’éclat, Combas 1991, pp. 58 ss. 13.  Cfr. ivi, p. 60.

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poi alla sua ipotesi fenomenologica principale, ossia: «Rinunciare a “far vedere” l’affettività in se stessa»14, per il fatto che tale capacità di modificarsi e sentirsi (ossia l’affettività) non appare al di fuori delle affezioni nelle quali essa si dà ed è colta, così come il piacere e la gioia sono colti soltanto nei sentimenti che ne danno prova. Non apparire al di fuori del proprio sentirsi significa inoltre non essere visibile e, di fatto, «la vita si mantiene nell’invisibile»15. Con ciò Henry avrebbe separato “forma e contenuto”, ché la vita che si sente non ha alcuna forma ma è puro contenuto (in quanto “vita”) noto a se stesso nella misura in cui si sente non riferendosi ad altro che a sé. Ora – e questo sarebbe il gesto teologico compiuto da Henry – in quest’immanenza si celerebbe una “teologia mascherata” (larvée) perché «l’effettività di Dio, dapprima soltanto nominata, si lascia direttamente identificare come “Verbo che viene in questo mondo”; il linguaggio diventa “Parola di Vita” e il metodo si muta in “Via”»16. Concludendo queste osservazioni, Janicaud scrive che difficilmente si ignorerà fino a che punto questi passi siano prossimi al Vangelo di Giovanni17. In realtà nelle pagine che Janicaud cita i riferimenti di Henry sono altri, ché proprio nei passaggi che gli sono contestati per un verso egli legge Husserl e Descartes, per altro verso critica la lettura hegeliana di Kojève e il “maître à penser” Mikkel Borch-Jacobsen. Dunque non c’è alcuna intenzione da parte del filosofo di ricorrere, nello svolgimento del suo metodo fe14.  Ivi, p. 65. 15.  Ibidem. 16.  Ivi, p. 66. I passi tra apici sono citazioni che Janicaud prende dall’edizione francese del testo di M. Henry, Phénoménologie matérielle, cit., pp. 127, 131, 133. Nell’edizione italiana i passi sono alle pp. 165-167. 17.  Scrive Janicaud nelle righe che seguono i passi di Henry appena citati: «occorrerebbe non conoscere il Vangelo, e soprattutto quello di Giovanni, per non comprendere dove vanno a parare la disgiunzione tra l’oggetto e il metodo della fenomenologia» (D. Janicaud, Le tournant théologique, cit., p. 66).

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nomenologico, a testi della tradizione cristiana come invece Janicaud pretenderebbe. Inoltre il primo dei volumi della cosiddetta trilogia sul cristianesimo, C’est moi la vérité, Io sono la verità, è pubblicato nel 1996, e dunque dopo Le tournant théologique de la phénoménologie française. Soltanto nell’ope­ ra del ’96 Henry inizierà il suo corpo a corpo con il Vangelo di Giovanni trovando nel Prologo la “materia fenomenologica” della sua opera. A partire da che cosa, allora, Janicaud muove la sua critica che Henry ha tuttavia confermato ex post? Se ci atteniamo alla lettera dei testi tale critica sarebbe giustificata soltanto da pochi riferimenti. Le cose invece cambiano se li leggiamo alla luce del senso di crisi che, pur se non è affrontato direttamente, indirettamente Henry espone facendo coincidere la crisi del religioso con la critica della barbarie – la quale altro non sarebbe dall’“oblio della vita” che egli contesta sia alla fenomenologia di Husserl, sia alla filosofia moderna. E quando in Fenomenologia materiale Henry parla di Vita, e dunque quando contrappone la Vita all’analisi eidetica husserliana, egli non ha in mente soltanto il Prologo giovanneo o la vita divina ma, verosimilmente, anche quello che della vita aveva già indagato in Genealogia della psicanalisi, libro il cui sottotitolo «Il cominciamento perduto» si riferisce proprio alla “Vita” (“inizio perduto dalla filosofia” che il filosofo francese cerca in Schopenhauer, Freud, Nietzsche). Prima di farlo in questi testi, tuttavia, già nel testo La barbarie e in quello dedicato a Marx18 Henry aveva svolto la sua idea di crisi come oblio della vita. Perciò, per verificare se si possa o no parlare, con Henry, di “crisi del religioso”, occorrerà prima passare attraverso la crisi di cui Henry parla e che la barbarie fa accadere, ossia la crisi della vita. Barbarie per uscire dalla quale Henry si fa “più barbaro

18.  Cfr. M. Henry, La barbarie, Grasset, Paris 1987, e prima ancora Id., Marx. I. Une philosophie de la réalité, II. une philosophie de l’économie, Gallimard, Paris 19762.

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del barbaro” – così come Heidegger proponeva di «pensare il pensiero greco ancora più grecamente»19.

4. Il Logos contestato Per intitolare la sua opera La barbarie Henry sceglie il termine di origine greca barbaros, da cui barbarie. Il termine indicava, come noto, quanti non parlavano il greco perché non appartenevano alla koinè culturale condivisa ed erano dunque “balbettanti”. A ben vedere, tuttavia, se ci atteniamo a questo significato del termine, Henry (filosofo che critica la barbarie della cultura contemporanea) è egli stesso “barbaro” perché rifiuta, con la sua proposta fenomenologica, di parlare la lingua greca del Logos che illumina ogni conoscenza. Perciò agli occhi di un greco, il filosofo che critica la barbarie sarebbe apparso “barbaro”. Ma Henry sarebbe apparso barbaro anche agli occhi della filosofia moderna che si è imposta con la svolta scientifica galileiana e che ha condotto alla crisi della cultura del XX secolo, riducendo l’uomo a oggetto tra gli oggetti occultandone la verità. Sulla modernità Henry non cambierà avviso né aggiungerà altri elementi alla sua critica. Per quanto riguarda il Logos greco, invece, egli contesterà anche il fatto che esso, unendosi con phainomenon, renderà possibile la nascita di quella corrente di pensiero che nel ventesimo secolo ha trionfato come fenomenologia20 e che si è interrogata (e s’interroga) sulle condizioni dell’apparire. E poiché ciò che appare deve contemporaneamente essere inteso e detto, il termine Logos sarà ciò che con19.  Riprendiamo il motivo da M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia 1973, pp. 83-125: p. 112: «Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancora più grecamente». 20.  Cfr. M. Henry, Fenomenologia materiale, cit., p. 61.

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temporaneamente indica la possibilità di pensare e dire ciò che appare. Il Logos, scrive Henry in Incarnazione, è la possibilità ultima di ogni linguaggio, è la Parola originaria che parla in ogni parola. E questo nella misura in cui è identificato con la fenomenicità pura su cui si fonda, con la quale fa tutt’uno. Fenomenicità e Logos non dicono in fin dei conti che la medesima cosa. […] Fenomenicità e Logos sono intesi in senso greco, l’apparire che indicano entrambi è quello del mondo»21.

Henry cercherà una via diversa della manifestazione che non alieni la fenomenalità dei fenomeni assegnandola ad altro da essi. Una via che non faccia del mondo l’orizzonte della manifestazione perché, se “mondo” è ciò in cui tutto appare, questo vuol dire che 1) esso costituisce la condizione di possibilità di ogni manifestazione, ma anche che 2) tale condizione è un au dehors estatico di cui la fenomenalità ha bisogno per manifestarsi. La filosofia occidentale, secondo Henry, è quindi «quella il cui logos è la fenomenicità del mondo»22: questo è il pregiudizio sul quale essa si fonda. La critica che viene mossa è forte, forse anche troppo tranchant, ma si giustifica se andiamo alla radice della questione che ha guidato l’autore fin dalla thèse L’essenza della manifestazione. Infatti, in alcune pagine molto note in cui egli si propone di cercare l’“essenza della manifestazione” e in cui nega che tale essenza sia opera della trascendenza, Henry scrive: «Per una manifestazione, non essere l’opera della trascendenza significa sorgere e compiersi indipendentemente dal movimento nel quale l’essenza si slancia e proietta in avanti nella forma di un orizzonte; significa sorgere, compiersi e mantenersi indipendentemente dal processo ontologico di oggettivazione, ossia in assenza di ogni trascendenza». E poco dopo: 21.  M. Henry, Incarnazione, cit., p. 49. 22.  M. Henry, Fenomenologia materiale, cit., p. 165.

184 La manifestazione che si produce in assenza di ogni trascendenza è tuttavia manifestazione della trascendenza stessa. Che una manifestazione, la manifestazione dell’essenza intesa come trascendenza, si produca in assenza di ogni trascendenza significa: l’atto originario della trascendenza si rivela indipendentemente dal movimento attraverso il quale si slancia in avanti e si proietta fuori di sé. […] Quello che non va oltre sé, che non si slancia oltre sé ma resta in sé senza abbandonare se stesso né uscire da sé è, nella propria essenza, immanenza. L’immanenza è il modo originario in cui si compie la rivelazione della trascendenza stessa e, come tale, l’essenza originaria della rivelazione.23

Appaiono qui le ragioni di Henry ma anche, reciprocamente, i motivi che hanno condotto Janicaud a criticarle tacciandole di esser formulate con un linguaggio a suo dire “teologico”. Nello svolgere la propria “essenza della manifestazione”, infatti, Henry usa i termini di immanenza e trascendenza che ricorrono anche in questo linguaggio ma egli (questo passo e altri lo confermano) non li connota di alcun significato religioso. Invece il suo scopo era tutt’altro, era pensare la Vita a partire da se stessa ed è per questo che egli formula la critica alla barbarie del mondo moderno. Facendolo, Henry tuttavia non si limita a formulare una lettura della modernità ma si pone fuori da tale “mondo” – facendosi con ciò “barbaro”. Se infatti barbaro è colui che non parla il linguaggio nel quale la comunità dotta si riconosce, Henry – né greco né moderno – è barbaro. Essere barbaro non significa tuttavia rinunciare al linguaggio, significa inaugurarne una nuova forma che non sia pura astrazione e che venga dall’essenza stessa della manifestazione, un linguaggio filosofico più greco del greco e, perciò, autenticamente greco perché è manifestazione non estatica che parli finalmente la lingua dell’affection e dell’affectivité che rende possibile ogni altro sentire.

23.  M. Henry, L’essenza della manifestazione, cit., p. 241.

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Affinché tale linguaggio sia autenticamente filosofico e dunque manifestante, esso deve assumere la stessa forma che intende rifiutare, e dunque deve essere “linguaggio” – ché altrimenti non permetterebbe un rinnovamento radicale e totale della filosofia finendo semplicemente col porsi al di fuori di essa. Sebbene dunque Henry non parli la lingua della koinè, egli – comunque – parla un linguaggio; tale linguaggio è quello della materialità affettiva e non estatica, ossia il linguaggio di ciò che in greco si dice pathos. Il pathos è la sua stoffa, la sua struttura, la sua carne; detto altrimenti, ciò che ne costituisce la condizione di possibilità. Che cosa, tuttavia, costituisce questo linguaggio e qual è la sua condizione di possibilità? La risposta, nota, di Henry è che si tratta della Vita. Questa rende possibile ogni manifestazione perché può mostrarsi soltanto ciò che vive: quanto è statico, immobile o morto non si manifesta né accade. Vita che, però, non è bios o zoè, ossia vita che ha bisogno del mondo per mostrarsi. La vita di cui parla Henry è auto-affezione pura, pathos. Riscrivere il greco in greco, ritrovare la radice stessa del linguaggio greco significherà allora ritrovare tale pathos, il quale indica «il modo del fenomenalizzarsi secondo il quale si fenomenalizza la vita nella sua autorivelazione originaria, la materia fenomenologica di cui quest’autodonazione è fatta, la sua carne. […] Se la vita rivela originariamente soltanto la propria realtà, ciò accade perché il suo modo di rivelazione è il pathos […], questa pienezza di una carne immersa nell’auto-affezione del suo soffrire e del suo gioire»24. Il “sentire originario” assume dunque il nome greco di pathos, il quale è totalmente immanente (così come immanente è l’essenza della manifestazione) ed è il modo in cui la vita 24.  M. Henry, Phénoménologie matérielle et langage (ou: pathos et langage), in A. David - J. Greisch (a cura di), Michel Henry. L’épreuve de la vie, Cerf, Paris 2001, pp. 15-37: p. 25.

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si manifesta. Henry a più riprese scrive che la possibilità del linguaggio non sta nella “cosa detta” ma nella “fenomenalità pura”, ossia in quell’affectivité che sta a fondamento di ogni esperienza e di cui parlerà ampiamente nell’ultimo libro dato alle stampe senza tuttavia averne potuto vedere l’apparizione, Parole del Cristo. Sull’affettività si tornerà in seguito. Per ora ci si limiterà a rimarcare che parlare un altro linguaggio, barbaro, significa far sì che si manifesti un linguaggio altro e inaudito, che sia la condizione di possibilità di ogni lingua e parola, ossia la loro stoffa e struttura. Perciò essere barbari in questo caso significherà parlare una lingua che dica ciò che la lingua “colta” non riesce a dire perché le si sottrae. Henry, tuttavia, fa anche di più: egli ci insegna che il barbaro apprende alla lingua quei tratti che essa aveva dimenticato o perduto, giacché la sua stoffa invisibile è un linguaggio “altro”, pathétique, che fa scoprire alla lingua risorse sconosciute. Ciò detto, una questione resta ancora aperta: il linguaggio estatico e condiviso è un linguaggio che permette una diffusione universale del sapere, mentre Henry cerca un nuovo modo di portare alla manifestazione parole che rischiano di rimanere incomprensibili e incomunicabili – e che, soprattutto, non sono parole dette ma “sentite”. Se questo è il caso, però, cui prodest questo argomento? Cui prodest questo “linguaggio della vita” in cui ogni vita può parlare soltanto a se stessa e di se stessa? Forse, giova proprio a chiarire il senso di “crisi” che Henry dà da pensare. Infatti è a questo punto che la crisi può fare la sua apparizione grazie alla critica del linguaggio estatico; critica che qui mostra il suo tratto euristico attestando che il manifestarsi del linguaggio come pathos è la modalità dell’autocoglimento della radice fenomenologica del “darsi a dire” di ogni manifestazione. In tal modo il passaggio attraverso la critica della barbarie conduce al linguaggio (possibile) della Vita. Sembrerebbe però non aver condotto alla “crisi” e alla “crisi del religioso”, della

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quale in apparenza niente è stato detto. In apparenza, tuttavia, perché in realtà un tratto della figura henryenne della crisi è perlomeno apparsa. Si tratta di una “crisi” che Henry fa accadere percorrendo quel metodo fenomenologico che egli chiama “via” e che Janicaud gli contesta. La “crisi”, detto altrimenti, accade mentre è seguita e percorsa la via che la manifestazione stessa traccia. E seguire tale via implica che si rompa la superficie apparentemente “liscia” delle cose per portarne alla luce ciò che non può veder-si nel fuori del “mondo” e che soltanto la vita immanente porta a manifestazione (vita non visibile as such, ma tale da manifestarsi nel sentimento che la fa accadere). E, innanzitutto, tale vita non visibile è vivente nella carne. Versus, dunque, una barbarie che occulta e copre riducendo tutto a ciò che può essere rappresentato, occorre essere più barbari del barbaro e fare “filosofia con il martello” per provocare quella crisi che è il momento virtuoso in cui la verità della vita viene a manifestazione. Resta però da vedere se questa figura della “crisi” che accade per la manifestazione e quando “l’essenza della manifestazione” si dà, sia anche “crisi del religioso”. Crisi di cui è stata detta l’incertezza e di cui appare, ora, anche l’indecisione.

5. Del religioso, legame vivente L’indecisione della “crisi del religioso” in Henry non soltanto appare ma anche si mantiene: appare perché, in seguito alla riflessione sulla carne, egli approda al Cristianesimo; si mantiene perché sebbene di quest’ultimo Henry parli, sono invece rari i passi in cui parla di religione. In uno di questi scrive che «Religione, religio, indica un legame, quello tra l’uomo e Dio»25, e 25.  M. Henry, Le christianisme, une approche phénoménologique?, in Id., Phénoménologie de la vie, vol. IV, Sur l’éthique et la religion, Puf, Paris 2004, pp. 95-111: p. 108. Stesso motivo ivi, p. 159.

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che «questo legame è quello della vita e del vivente. […] Ora, la prima e decisiva affermazione del cristianesimo è ricollocare l’etica nel luogo che le appartiene, nell’immanenza del vivente, facendo del Comandamento il Comandamento della Vita che genera il vivente»26. La religione, dunque, “lega” manifestando e rivelando il legame della Vita e dei viventi, e sta qui, forse, il contributo che Henry offre a un pensiero che si interroga sul “religioso” e la religione – contribuendo al chiarimento di ciò che religio fa accadere e manifestare. Sebbene, quindi, Henry non si interroghi sulle dimensioni storiche e teologiche della religione e sebbene non si interroghi sull’istituzione “chiesa”, la religione – nella misura in cui è riflessione sul legame inaugurato nella carne dalla Vita – è centrale nel suo percorso fenomenologico, come ricordava intervenendo a Parigi all’Institut Catholique (19 gennaio 2001)27 durante la presentazione di Incarnation. In questa occasione egli presentava la sua intera opera come un pensiero che interroga il fondamento che, nella “sua” fenomenologia della vita, «è costituito da ciò che potrebbe esser chiamato “dualismo fenomenologico” o “duplicità dell’apparire”»28. Questo assunto è alla base del fatto che, in Incarnation, il corpo è indagato nel suo duplice darsi come corpo che appare tra le cose e come carne vivente che si rivela «per l’auto-impressione immanente e patica della vita»29. E prosegue: «Sono queste le premesse di un’analisi svolta per la prima volta negli anni 1946-1950 […]. In seguito, questi presupposti del dualismo fenomenologico

26.  Ivi, p. 109. 27.  Cfr. Ph. Capelle-Dumont (a cura di), Phénoménologie et incarnation (Séance Académique autour du Professeur Michel Henry), in «Transversalités», n. 81, janvier-mars 2002. 28.  Ivi, pp. 88-89. 29.  Ibidem.

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sono stati applicati a diverse questioni – Marx e l’economia, l’inconscio, la cultura, l’opera d’arte, il metodo fenomenologico e la fenomenologia del XX secolo in generale»30. È questo percorso filosofico – e la verifica dell’ipotesi maturata all’inizio della ricerca – a trovare nel cristianesimo un interlocutore speciale. Partendo dal presupposto che «a partire dal momento in cui sono ricondotti alla loro originarietà, i presupposti fenomenologici traggono la loro verità soltanto da se stessi»31, quando Verità e Vita sono identificate accade che «il potere di rivelazione si rivela non essere più altro, nell’assolutezza della Parusia, da questa autorivelazione e autoattestazione che costituisce l’essenza della vita»32. E, conclude Henry quest’efficace Selbstdarstellung, «a questo proposito, possiamo considerare l’interpretazione filosofica del Cristianesimo proposta negli ultimi due volumi come l’incontro della fenomenologia della vita e di una religione, la quale non si limita affatto – proprio perché in essa ne va della vita – a una qualunque filosofia»33. In questa auto-presentazione convergono alcune delle questioni poste, ché alla domanda se il “religioso” sia o no stato messo a tema da Henry potremmo finalmente rispondere che “religioso” è ciò che la fenomenologia porta a manifestazione come Vita e della Vita. E tuttavia, affinché tale “religioso” – o almeno il “religioso” inteso in tal senso – appaia, occorre seguire la crisi che esso stesso provoca accadendo come legame di vita. Ciò fa della riflessione che Henry svolge sul cristianesimo, e dunque della fenomenologia della vita che dispiega nelle ultime tre opere, il punto di approdo di un percorso in cui la crisi è fatta

30.  Ibidem. 31.  Ibidem. 32.  Ibidem. 33.  Ibidem.

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accadere affinché il “religioso” si manifesti. Percorso in cui il cristianesimo è incontrato nella sua radice vivente e vivificante la carne – ogni singola carne vivente. Percorso in cui il religioso si manifesta come capacità di legare carne e vita – ipotesi che tuttavia non viene svolta da Henry attraverso la lettura e l’interpretazione dei testi della tradizione cristiana ma che egli ha svolto fin dalla stesura dei volumi dedicati a Marx.

6. Pensare la Vita con Marx In un passaggio dei suoi due volumi su Marx, Henry scrive che il filosofo tedesco «è uno dei primi pensatori cristiani del­ l’Occidente»34. Senza ignorare quanto complessa ed equivoca sia la posizione marxiana vis-à-vis del cristianesimo35, Henry non esita comunque a cogliere nel cristianesimo il motivo su cui si fonda l’attenzione di Marx nei riguardi dell’individuo vivente versus la specie astratta di Feuerbach. Lo attesta la conclusione dei due volumi dove Henry scrive: «Sia che formi l’essenza della produzione o che, nel mondo socialista a venire, essa se ne ritragga e sia resa a se stessa, la soggettività costituisce in ogni caso il suolo e il tema unico dello sviluppo concettuale. Il pensiero di Marx ci pone davanti a una domanda abissale: che cos’è la vita?»36. Questa domanda henryenne si spiega in continuità con quanto fino a ora visto, ossia con il proteggere l’essenza della vita contro ogni sua riduzione, e in questo consisterebbe, di nuovo, la crisi della religione, ossia la sua capacità di manifestare ciò che la barbarie ricopre con la sua pratica acritica. E ciò che la barbarie ricopre e maschera è innanzitutto quell’essenza per la 34.  M. Henry, Marx. II, cit., p. 445. 35.  Lo spiega nella nota 1 (ibidem) che chiude il passo citato. 36.  M. Henry, Marx. II, cit., p. 484.

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quale tutto si sente; essenza già annunciata, rapidamente e en passant, ossia l’affectivité che Henry mette a tema, di nuovo, fin da L’essenza della manifestazione. È in quest’opera, infatti, che Henry annuncia tale essenza come “auto-esperienza di sé” (auto-épreuve de soi) possibile perché la sua essenza è, appunto, affectivité/affettività37, ossia capacità di manifestarsi nel sentire sé, capacità di rivelarsi mentre e perché si sente se stessi. Per ciò la vita è pouvoir di «giungere a sé»38, di manifestarsi grazie all’«essenza originaria della rivelazione»39, la quale non è altro dal potere della vita di autorivelarsi nell’esperienza che fa di sé. Scrive Henry a tal proposito: «La vita si sente, prova se stessa. Essa non è “qualcosa” che, in più, ha la proprietà di sentirsi ma sentirsi è la sua stessa essenza: la pura esperienza e prova di sé, il fatto di sentire se stessa»40. Questa proprietà della vita fa sì che essa s’auto-affecte, ossia diventi reale. Infatti, «l’auto-affezione non è un concetto vuoto o formale, […] essa definisce la realtà fenomenologica della vita stessa – una realtà la sua sostanzialità pura e la cui fenomenalità pura è l’affettività trascendentale»41. Infine, la vita è potere di accrescersi e «l’accrescersi è il movimento della vita che si compie in essa in ragione di ciò che essa è, in ragione della sua soggettività»42. La “vita”, dunque, appare già ne L’essenza della manifestazione, dove si annuncia nel suo stretto legame con l’affectivité/affettività che ne rende possibile il suo sentir-

37.  E «l’affettività – scrive Henry – è l’essenza della vita» (M. Henry, L’essenza della manifestazione, cit., p. 485). 38.  M. Henry, Genealogia della psicanalisi, cit., p. 384. 39.  M. Henry, L’essenza della manifestazione, cit., p. 461. 40.  M. Henry, Qu’est-ce que cela que nous appelons vie?, in Id., Phénoménologie de la vie, vol. I, De la phénoménologie, Puf, Paris 2003, pp. 39-57: p. 49. 41.  M. Henry, La barbarie, cit., pp. 30-31. 42.  M. Henry, Fenomenologia materiale, cit., p. 55.

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si e s’auto-éprouver. Di nuovo, allora, essendo questo il caso, perché Henry per parlare della vita si volge verso la religione e, nello specifico, verso il cristianesimo? Forse, perché il cristianesimo non soltanto si fa banco di prova del dualismo dell’apparire di cui Henry parlava nella sua Selbstdarstellung parigina, ma anche perché esso “risponde” a una questione che invece la critica alla religione di Feuerbach (che Henry indaga nel suo libro su Marx) aveva fallito. Tale fallimento era accaduto quando in nome della critica della religione Feuerbach aveva sostituito al Dio-infinito della teologia razionale la Gattung infinita ponendola come ragion d’essere dell’individuo finito. Facendo questo, Feuerbach ha ricondotto l’individuo al concetto della specie (Gattung) che ne costituirebbe l’essenza. In tal modo l’essenza dell’individuo vivente non sarebbe altro da un morto concetto la cui verità è posta dal pensiero e non da ciò che rende il sé vivente, o anche, che lo rende un’ipseità. La Gattung, ancora, riassorbirebbe l’individuo nella generalità del concetto alienandogli il proprio sé e pensando tale sé a partire da una verità che è altra dal sé. Perciò, e dunque per ribaltare questa situazione, occorre pensare la verità non fuori dalla vita ma nella vita stessa. Si spiega allora perché Henry apra il primo libro della trilogia sul cristianesimo, Io sono la verità, con la questione della verità e introducendo la distinzione tra la verità del mondo e la verità del cristianesimo e della vita che esso ha proposto. Il cristianesimo sarebbe quel momento vivente in cui alla verità del mondo è stato contestato il primato, quella verità del mondo che è la sola che il pensiero occidentale abbia pensato, concependo un unico modo del manifestarsi dei fenomeni, ossia l’au-dehors du monde. Au dehors in quanto esteriorità in cui tutto viene alla luce e che finirebbe con l’essere indicata come la fenomenalità stessa, o come la condizione di possibilità del manifestarsi (e non soltanto della manifestazione as such).

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7. Sul paradosso del religioso I tratti del pensiero henryen esposti convergono finalmente nel disegnare la crisi e, nello specifico, la “crisi del religioso”. Crisi che non riguarda il cristianesimo nei suoi tratti confessionali e che è invece un “mettere in crisi” la barbarie che copre la vita con la propria superficie liscia e priva di pathos vivente. La medesima critica rivolta alla barbarie è indirizzata al capitalismo e al capitale che si sostituisce alla vita allo stesso modo in cui il Dio della teologia razionale occulterebbe la forza del cristianesimo. Di nuovo, tuttavia: se tutto è già nella fenomenologia della Vita, perché rivolgersi al Cristianesimo? Forse perché individuando in esso non una religione ma un senso del religioso incarnato e vivente, Henry vi ha colto anche la possibilità di pensare l’individualità senza sussumerla sotto l’universale astratto del concetto e per consegnarla all’universalità concreta della vita. Tutti, infatti, condividono la vita, e il Cristianesimo, secondo Henry, è la religione in cui la vita ha preso la sua carne per tutti. In questo senso ogni crisi (si tratti della crisi del capitale, della cultura, delle istituzioni) fa venire a manifestazione quella carne vivente invisibile al mondo e nel mondo e che chiede di tornare alla Copropriation – ossia al reciproco appartenersi originario del corpo e della terra43. Copropriation sulla quale il filosofo concludeva l’opera La barbarie e che sta a indicare l’inseparabilità della vita e del corpo44. “Crisi 43.  Cfr. M. Henry, La barbarie, cit., pp. 73 ss. Stesso motivo in L’éthique et la crise de la culture contemporaine, in Id., Phénoménologie de la vie, vol. IV, Sur l’éthique et la religion, cit., pp. 31-39: p. 37. 44.  «Corps et Terre sont liés par une Copropriation si originelle que rien n’advient jamais dans l’en-face d’un pur Dehors, à titre d’ob-jet, pour une theoria, comme quelque chose qui serait là sans nous – mais seulement dans l’historial de cette Copropriation originelle et comme son mode limite. Nous appellerons Copropriation cette Corpropriation originelle» (M. Henry, La barbarie, cit., p. 73).

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del religioso” – in Henry – indica perciò meno un “religioso” che è in crisi e più la capacità del religioso di provocare la crisi rompendo la superficie continua di una barbarie in cui la crisi non c’è. C’è tuttavia anche un secondo motivo che emerge da questa crisi che il religioso provoca e a partire dal quale Henry conduceva la sua lettura di Feuerbach e Marx. Si è detto che la critica che Henry muove a Feuerbach è che questi sarebbe stato capace di pensare l’individualità della vita versus la Gattung di Feuerbach. Gattung che è specie infinita che si sostituisce all’infinito pensato e concettualizzato dalla teologia. Si obietterà che in realtà Feuerbach ha pensato infinito e finito, dunque specie e individuo, come i due fuochi irriducibili di un’elisse. Questo tratto ellittico è tuttavia ignorato da Henry, interessato alla critica che Marx muove a Feuerbach a partire dall’individuo che, nel linguaggio del filosofo francese, è il vivente. Dunque la “crisi del religioso” è il momento in cui la singolarità del vivente si manifesta nel suo essere vivente in una carne che, di nuovo, la barbarie dimentica. Ciò detto, compiendo forse un passo oltre Henry, diremmo che la crisi non è quella che, con il suo carico più o meno drammatico, scoppia mettendo in discussione lo status quo. La crisi è la rivelazione della vita che non si riconosce come tale quando è tacitata dall’evidenza luminosa del mondo. Invece, nella manifestazione della religione e del religioso si annuncia il legame con la Vita di ogni vivente, legame che associa accadendo nella carne che ciascuno è. Nell’accadere di questo legame, inoltre, si annuncia anche un terzo motivo manifestato dalla “crisi del religioso”, ossia il tratto paradossale del religioso stesso. Un “religioso” che è non paradosso nel senso in cui lo era per Kierkegaard, e dunque per il salto della fede, ma paradosso perché (paradossalmente) soltanto la crisi del religioso fa sì che il religioso si manifesti. Detto altrimenti: c’è religioso soltanto dove c’è la “sua” crisi, ossia la crisi che esso provoca.

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A partire da Henry e, forse, andando ancora una volta oltre il suo pensiero, riflettendo sulla crisi del religioso appare difatti questo paradosso: ciò che non è in crisi non si mostra perché è occultato dalla luce del mondo; un mondo che occulta l’essenza della manifestazione perché (e nella misura in cui) occulta l’apparire della vita. Tale apparire è anche occultato dalla barbarie incapace di mostrare una vita che, invece, si sente (e dunque si manifesta) nel pathos; è occultato dal capitale perché esso copre con la sua patina menzognera il vivente. Né la barbarie, né il capitale, né il mondo fanno dunque apparire la vita perché essi si attestano soltanto sull’apparizione dell’au dehors della superficie e non di ciò che rende la superficie stessa vivente e intraducibile nell’oggettività visibile. Contro ogni au dehors e contro l’universalità morta della Gattung, dunque, la crisi ci conduce alla ricerca di un’universalità viva che non è esito della sussunzione, sotto la sua egida, del particolare ma è scoperta dell’individuale come vivente singolare nel quale la vita (universale) si manifesta. E forse in questa ricerca di un universale vivente in ogni singolo individuo sta l’invito ad attestarsi al di qua della loro giustapposizione per ritornare al punto che Feuerbach svolge, che Henry ignora ma che invece resta produttivo e non smette di manifestare la sua potenza euristica, ossia quell’ellisse tra infinito e finito, vita e vivente, specie e individuo cui è difficile rinunciare. E cui forse neppure il Cristianesimo – malgrado la riconduzione alla Vita di ogni singolo vivente – ha rinunciato.

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Idolo e concetto. Considerazioni sull’esigenza di una crisi. H.U. von Balthasar e J.-L. Marion di Giuseppe Pintus

Nel presente studio tenteremo di stabilire una linea di continuità tra l’opera del teologo Hans Urs von Balthasar1 e quella 1.  Il piano della pubblicazione delle opere di von Balthasar, nell’edizione italiana e su indicazione dell’autore, è diviso in sette sezioni per un totale di trenta volumi. Si aggiungono poi diverse opere mai inserite all’interno del piano e altre che ancora attendono una traduzione nella nostra lingua. Le prime tre sezioni costituiscono la parte centrale del suo lavoro, la sua “summa”. Queste sono state tradotte in italiano con i termini di Gloria (comprendente sette volumi), Teodrammatica (cinque volumi) e Teologica (tre volumi), a cui segue La mia opera ed Epilogo. Prenderemo in considerazione soprattutto il primo volume di Gloria: Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Bd. II, Schau der Gestalt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961; tr. it. di G. Ruggeri, Gloria, vol. I, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971. A proposito del lavoro di von Balthasar, della sua biografia e della discussione nata dalle sue opere si veda: E. Guerriero, Hans Urs von Balthasar, Morcelliana, Brescia 2006. A proposito della bibliografia del teologo svizzero si veda l’articolo di C. Capol, La bibliografia di Balthasar, in «Communio», n. 203-204, 2005, pp. 199-206. Una bibliografia completa fino al 1975, sempre a cura di Cornelia Capol, è riportata in H.U. von Balthasar, Rechenschaft, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965; tr. it. di G. Sommavilla, Il filo di Arianna attraverso la mia opera, Jaca Book, Milano 1980. Per favorire la comprensione del piano delle sue opere, lo stesso autore periodicamente ha dato dei prospetti di massima: in particolare si evidenzia il citato Il filo di Arianna e l’articolo Uno sguardo d’insieme sul mio pensiero, in «Communio», n. 105, 1989, pp. 39-44. Per ciò che riguarda

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di Jean-Luc Marion, allo scopo di mostrare non solo l’origine di alcune delle preoccupazioni principali che hanno animato la prima fase (teologico-filosofica) della proposta del filosofo francese, ma la loro continuità nella produzione più matura (interamente filosofica)2. Se è vero che, come Marion ha più volte ribadito, il nucleo centrale della sua produzione, ovvero la trilogia della Fenomenologia della donazione3, risponde alla serie dei problemi aperti con le prime opere di proposta, vale a dire L’idolo e la distanza4 e Dio senza essere5, e che L’idolo e la distanza intende proseguire «sulla via indicata»6 dal teola trilogia di Gloria, Teodrammatica e Teologica, è fondamentale: H.U. von Balthasar, Mein Werk. Durchblicke Epilog, Johannes Verlag, Einsiedeln 1990, tr. it. di G. Sommavilla, La mia opera ed Epilogo, Jaca Book, Milano 1994. 2.  Sul rapporto tra Marion e von Balthasar segnaliamo in particolare N. Rea­li, Fino all’abbandono, l’eucaristia nella fenomenologia di Jean-Luc Marion, Città Nuova, Roma 2001; M. Vetö, Approches de Dieu dans la pensée de Jean-Luc Marion, in S. Camilleri - Á. Takács (a cura di), Jean-Luc Marion. Cartésianisme, phénoménologie, théologie, Archives Karéline, Paris 2012, pp. 115138; S. Camilleri, Phénoménologie, théologie et Écritures, ivi, pp. 139-161. Quest’ultimo è estremamente interessante in quanto mostra come il riferimento a Balthasar agisca anche in De surcroît; a p. 153 scrive: «Se J.-L. Marion chiama qui [il testo che sta commentando è tratto da De surcroît] la teologia a seguire i passi di Balthasar leggendo fenomenologicamente le Scritture…». 3. La Fenomenologia della donazione comprende: Réduction et donation, Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, Puf, Paris 2004; tr. it. di S. Cazzanelli, Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia, Marcianum Press, Venezia 2010; Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Puf, Paris 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che, SEI, Torino 2001; De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, Puf, Paris 2001. 4.  J.-L. Marion, L’idole et la distance, Grasset & Fasquelle, Paris 1977; tr. it. di A. Dell’Asta, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979. 5.  J.-L. Marion, Dieu sans l’être, Fayard, Paris 19821 (Puf, Paris 20022); tr. it. di A. Dell’Asta e C. Canullo, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2008. 6.  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., p. 6. Con maggior forza ritroviamo il richiamo a Balthasar nella nota 31 del capitolo dedicato a Dionigi (La Distanza e il Discorso di lode, pp. 145-199): «mettiamo qui in campo il con-

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logo svizzero, un approfondimento in tal senso può aiutare a comprendere anche una delle tematiche marioniane oggi più discusse: quella del dono. Tale studio si concentrerà intorno al riconoscimento comune di una crisi del religioso, una crisi e le sue esigenze, ma anche sull’esigenza di una tale crisi e sull’apertura che essa permette.

I. Hans Urs von Balthasar 1. Sull’opportunità di una crisi Con queste parole Balthasar si esprime nell’introduzione al primo volume di Gloria: Si danno epoche che, innamorate delle forme originarie dell’esi­stenza, tentano di esprimerle e copiarle dappertutto, ad esempio mediante forme di convivenza e di organizzazione della vita sociale, che per un istante storico riescono ad esprimere quanto c’è di più alto, ma poi si svuotano e si atrofizzano. […] Si danno epoche della rappresentazione nelle quali, per l’abbondanza delle forme offerte, era naturale sperimentare il kalon-kagathon (bello e buono) a tal punto che si poteva facilmente incorrere nella tentazione di scivolare dalla forma originaria in quella derivata. Là dove queste forme secondarie si infrangono e si attirano il sospetto di atteggiarsi a ideologie, è ad un tempo più facile e più difficile ritrovare la strada che porta alle origini della forma.7

cetto di distanza che, d’altra parte, guida tutto il nostro lavoro, fondandosi su quello che Hans Urs von Balthasar ha chiamato “il senso aeropagitico della distanza”» (ivi, p. 194). 7.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 16.

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Si tratta qui del rapporto tra forma e rappresentazione, tra una forma e la sua rappresentazione e il rischio del passaggio dalla prima alla seconda. Vi sarebbe un rischio nella forma che si traduce in un pericolo della rappresentazione, ma tale pericolo può aprire una strada verso il riconoscimento della forma originaria. Per il teologo della Gloria il riferimento alla forma è inevitabile: l’uomo non può fare a meno di rifarsi ad alcune forme e di costruire a partire da esse. Esiste tuttavia il rischio che le forme a cui si guarda non siano quelle originali (primarie) bensì quelle derivate (secondarie). Esiste inoltre una possibilità nel momento in cui una forma non originale si infrange, vi sarebbe cioè, nella crisi delle forme secondarie, come una facilitazione a scorgere le forme originarie. Potremmo forse leggere la proposta teologica di von Balthasar a partire da questa considerazione. Dovremmo inoltre rintracciare tale preoccupazione e l’annuncio dell’occasione da essa offerta anche in quello che alcuni studiosi hanno definito come il «principio estetico»8 della sua opera. Se ciascuna delle tre parti del suo opus magnum è costruita a partire da uno dei trascendentali dell’essere e la scelta dell’inizio cade sul pulchrum, dovremmo tentare di vedere in questa teorizzazione dell’estetica, di questo tipo di estetica, il metodo più adeguato, forse quello più in grado di ricavare delle possibilità da una certa crisi.

2. Il principio estetico Il punto di partenza fu conquistato attraverso una lunga preparazione e rientra nella trama di coerenze che hanno come obbiettivo dichiarato quello di «evidenziare la singolarità del

8.  Cfr. G. Ruggeri, Il principio estetico nella teologia di Hans Urs von Balthasar, in «Humanitas», III, giugno 1989, pp. 338-354.

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cristianesimo come id quo maius cogitari nequit»9. A tale scopo, la scelta organizzativa dell’impianto teorico della sua opera viene mutuata dall’idea dei trascendentali medievali. Ognuna delle tre raccolte sopra citate corrisponde a uno dei trascendentali. Se però è consuetudine iniziare dal verum, Balthasar non solo sceglie l’ultimo, ma quello che addirittura è al centro di una discussione circa la propria spettanza ad occupare un posto nella serie. Von Balthasar sceglie il pulchrum nientemeno che per iniziare (fondare) il suo discorso teologico e quello filosofico ad esso intrinseco. La scelta di un principio estetico può sembrare strana, in particolare se ci troviamo di fronte a un testo teologico. L’inversione di priorità rispetto all’ordine classico (vero, buono, bello), inizialmente adottato dallo stesso von Balthasar10, non può non essere considerato significativo. Scrive infatti: In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto e […] gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica.11

La parola bellezza, così inaspettata e fuori moda, finanche equivocata, costituirebbe, quindi, una possibilità per poter riaffermare sia il bene che il vero e, in questo modo, ritrovare un approccio più stabile al problema dell’essere. In altri termini, forse forzando un po’ anche le intenzioni del nostro, si potrebbe dire che se non si partisse da una estetica, la teoretica e 9.  H.U. von Balthasar, Il filo di Arianna, cit., p. 7. 10.  R. Vignolo, Gloria, rileggendo l’estetica teologica, in «Communio», n. 120, 1991, pp. 27-43: p. 30. 11.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 11.

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l’etica rischierebbero di non parlare più a nessuno: «La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello»12. Innanzitutto, questo accadrebbe per la necessaria di unità che in essi è implicata: l’esigenza che un termine ha per gli altri. La dinamica, che segna il percorso teologico dell’opera, parte dunque dal bello e approda al vero passando per il buono.

3. Il concetto di forma Le parole utilizzate per esprimere il bello devono necessariamente essere riferite a quello che il nostro teologo chiama «mistero della forma»13. La forma di cui parliamo trova la sua espressione extra-teologica in quella che comunemente chiamiamo opera d’arte e con questa intrattiene una profonda analogia, innanzitutto sul piano del riconoscimento che entrambe esigerebbero. Il concetto di forma, tuttavia, non riguarda solo l’arte: è un concetto dinamico e può essere riferito anche alla vita dell’uomo14, fino al punto che vale la seguente affermazione: la forma a cui si guarda in-forma l’esistenza, l’espressione di quella genera sempre una impressione, nel senso che imprime un’immagine in chi la contempla. Per tale ragione le 12.  Ivi, p. 12. 13.  Ibidem. Il concetto di Forma (Gestalt) Balthasar lo deve a Goethe e, in particolare, a un’opera sul mondo biologico delle piante: Metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura; cfr. G. Narcisse, I fondamenti filosofici della teologia di Hans Urs von Balthasar, in «Communio», n. 203204, 2005, pp. 45-51: p. 46. Dall’idea di forma ricava quella di armonia e infine applica queste in filosofia grazie alla musica: cfr. H.U. von Balthasar, Die Entwicklung der musikalischen Idee. Bekenntnis zu Mozart (risp. 1925 e 1955), Johannes Verlag, Einsiedeln-Freiburg 1998; tr. it. di L. D’Angelo, Lo sviluppo dell’idea musicale e Testimonianza per Mozart, Glossa, Milano 1995, pp. 13-15. 14.  Cfr. H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 15.

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considerazioni sulla forma prescrivono una certa attenzione e segnalano un rischio. A seconda delle forme a cui si guarda (originarie o derivate) si costruisce una certa rappresentazione e azione. Balthasar si riferisce qui alle ideologie, a quelle forme che in alcuni punti chiama “mitiche”15. Le forme mitiche sono senza dubbio delle forme derivate, sono le forme derivate per eccellenza. Il mito, in questo contesto, dovrebbe rappresentare il tentativo di concepire immagini verosimili che spieghino l’esistenza del mondo e della vita in un movimento che dalla parte (dall’uomo) va verso il tutto (la realtà totale). La visione proposta da Balthasar predilige un movimento inverso: è il tutto in qualche modo che va incontro al tentativo immaginativo della parte, si rivela e si rende presente in una forma concreta. «Infatti – dice von Balthasar citando Herder – nella rivelazione Dio è veramente “rivelato”, mentre il mito rimane “un eterno giro di danza attorno all’altare del Dio ignoto”»16. Sul piano teologico la forma e il bello vengono espressi nella parola Gloria. Cito: Il glorioso sul piano teologico corrisponde a ciò che sul piano filosofico è il bello trascendentale.17

E ancora: Gloria è cifra di Dio nella sua rivelazione, definizione categoriale che tutto supera e che esprime l’essere divino nella sua profondità.18

15.  Cfr. ivi, p. 16: «Laddove queste forme secondarie [forme derivate] si infrangono e si attirano il sospetto di atteggiarsi a ideologie è ad un tempo più facile e più difficile ritrovare la strada che porta alle origini della forma». 16.  Ivi, p. 75. 17.  H.U. von Balthasar, Il filo di Arianna, cit., p. 35. 18.  A. Moda, La gloria della croce. Un dialogo con Hans Urs von Balthasar, Messaggero, Padova 1998, p. 48.

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Tale rivelazione nel cristianesimo coincide con la forma di Cristo e con la sua assoluta singolarità. A sua volta questa consiste nel fatto che l’umanità di Cristo è il luogo in cui l’archetipo stesso, il Figlio – icona perfetta del Padre – si trasferisce nell’immagine senza cessare di essere archetipo. La forma scelta si dà in modo perfetto, senza che sia perso niente di ciò che deve darsi; in modo singolarissimo, senza che nessuna forma possa essere confusa con essa; e in modo incommensurabile, senza che nessun’altra forma possa definirla. Balthasar è sempre attento a ribadire un aspetto a tal proposito: «Cristo è la forma perché è il contenuto»19. Non si dà dunque una distinzione di momenti tra interno ed esterno, come un prima e un poi separati, per cui possa darsi un interno senza un esterno o un interno senza forma. Nella forma si dà l’interno20. Si potrebbe anche dire che la forma è il darsi dell’interno, del contenuto. Come la grande opera d’arte, la forma va percepita a partire dalla sua unità compiuta: ciò che le fosse aggiunto e ciò che le fosse tolto comporterebbero la sua perdita: «ogni elemento [che la compone] è plausibile solo dentro la totalità dell’immagine»21 e tutta la forma è plausibile solo come totalità compiuta. L’accordo interiore della forma è dato dal fatto che la misura risulta dall’insieme degli elementi della forma e non da uno di essi soltanto. Inoltre, come la grande opera d’arte, essa non si comunica con il linguaggio comune, già esistente; essa stessa si fa lingua nuova, che può essere intesa da chi ha la sensibilità adeguata a percepirla.22

19.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 433. 20.  Cfr. G. Ruggeri, Il principio estetico nella teologia di Hans Urs von Balthasar, cit., p. 342. Cfr. anche H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 19. 21.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 438. 22.  G. Marchesi, Gesù Cristo, irradiazione della Gloria, in «Communio», n. 203-204, 2005, pp. 86-104: p. 99.

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L’estetica teologica nella prospettiva della Gloria esprime l’«estasi» di Dio, vale a dire la manifestazione senza resto del suo mistero più intimo, il suo non nascondimento23. Tale forma diventa modello, archetipo. Se la forma è quella dell’avvenimento di Cristo, una estetica teologica dovrà parlare della bellezza a partire da questo avvenimento e non da principi formali preesistenti per poi ridurne la forma ai caratteri determinati da questi. Per indicare tale rischio Balthasar fa ricorso all’espressione “Teologia estetica”24, che risulta così contrapposta alla sua proposta di una estetica teologica. Pur ritenendo che l’arte possa apportare un contributo significativo alla discussione teologica, Balthasar non accetta l’idea che si possa guardare alla forma a partire dalle «categorie estrateologiche dell’estetica filosofico mondana», occorre invece farlo «a partire dai dati della rivelazione stessa»25. La forma, che ci incontra storicamente è convincente in se stessa perché la luce mediante cui essa brilla emana da se stessa e si dimostra in modo evidente come tale. Questo non significa che la forma brilla ad ognuno nello stesso modo, questo ognuno dovrà adempiere determinate condizioni previe. […] Ma nessuno potrà affermare che sia la preparazione previa a produrre la legge fisica o la bellezza o il valore dell’opera d’arte.26

4. L’autodonazione della forma La forma è definita a partire dal suo darsi nel massimo dello splendore cioè nell’avvenimento della rivelazione di Dio in Cristo, e tale avvenimento non è subordinabile a una estetica previa, ma, potremmo dire, da alcunché di previo. Questo sarebbe 23.  Cfr. ivi, p. 95. 24.  Cfr. R. Vignolo, Gloria, rileggendo l’estetica teologica, cit., p. 33. 25.  H.U. von Balthasar, La percezione della forma, cit., p. 102. 26.  Ivi, p. 434.

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scorretto in quanto pretenderebbe di ridefinire a prescindere da ciò che, invece, si è dato come definitivo. Si tratterebbe semplicemente in fondo di un residuo di quella mitizzazione che Balthasar intende contestare. La scelta dell’estetica teologica e la sua demarcazione rispetto a una teologia estetica servirebbero dunque per riportare in direzione di una pretesa realista, chiedendo di guadagnare la propria concezione della bellezza primariamente dal modo in cui la forma si dà al massimo della sua manifestazione. Varrebbe qui, forse, ma abbiamo solo il tempo di accennarlo, la prescrizione fondamentale della pretesa fenomenologica, della fedeltà alla cosa stessa e al modo della sua manifestazione. Occorre aggiungere che, come nel caso della grande opera d’arte, essa inaugura un nuovo canone. Si tratta infatti di una forma della rivelazione che nel rivelarsi mostra se stessa diventando l’archetipo, cioè la rivelazione della forma: rivelazione di se stessa e della forma della rivelazione di se stessa. In altri termini, nel momento in cui Dio si rivela, nel suo rivelarsi ci mostra (svela) il modo con cui si è rivelato (forma della sua rivelazione) dandoci l’archetipo di ogni rivelazione. Questo modello potrà definire inoltre ogni rivelazione di qualsiasi bellezza: il modo in cui il cristianesimo, a partire dall’avvenimento della Rivelazione di Cristo, guarda agli oggetti per scorgerne la bellezza, ma anche la bontà e la verità. L’apparire della forma sarebbe fondativo di una nuova ermeneutica. Rivelandosi e rivelando nel contempo la forma della sua rivelazione, la figura cristologica ci dà un metodo per la ricerca della verità. Non è scorretto in Balthasar parlare di una conversione alla forma. Le ragioni di un principio estetico tendono dunque in direzione di una fedeltà alla forma che si dà, senza preliminari anticipanti. Di una esperienza che diventa normativa di ogni esperienza. Rispetto alla ricomposizione della serie dei trascendentali potremmo così riassumere: nell’esperienza «un essere appare, ne

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risulta un’epifania: in questo l’essere è bello e ci appaga. Con l’apparire si dona: è buono. Donandosi si dice: svela se stesso: è vero (in sé e nell’altro al quale si manifesta)»27. L’educazione al bello richiamata dal principio estetico è, dunque, innanzitutto una educazione a qualcosa che si dà. Con questo non si vuole eliminare il carattere trascendente o metafisico dalla verità, ma riportare la verità al suo punto d’accesso più proprio che è la realtà, nel suo carattere di datità. Datità che consegna totalmente il suo contenuto, senza nascondimento alcuno. In più punti di Teologica von Balthasar definisce la verità proprio come «il non nascondimento dell’essere»28. Alla luce di queste considerazioni potremmo dunque riassumere nel modo seguente quella che abbiamo chiamato l’esigenza di un principio estetico: la possibilità di un ritorno alla forma originaria diventa nel contempo possibile e urgente nel momento in cui viene a mancare una certa rappresentazione del mondo. La crisi di questa rappresentazione costituisce una opportunità proprio nel momento in cui una forma secondaria presa come modello rivela la sua parzialità e falsità. Nel momento in cui si ritorna alla forma originaria, nel momento in cui si considera la forma originaria, ci si accorge che questa forma nega la possibilità stessa delle forme derivate, in quanto impone da sé la regola della sua manifestazione. In tal modo non solo la forma originaria rivela se stessa (forma della rivelazione), ma si pone come esemplare rispetto alla conoscibilità di ogni fenomeno, vale a dire che, a partire dalle condizioni (l’assenza di ogni precondizione) che impone per essere riconosciuta in quanto fenomeno, rivela la regola di conoscibilità di ogni fenomeno. In altri termini ancora si potrebbe dire che qualsiasi

27.  H.U. von Balthasar, Uno sguardo d’insieme, cit., p. 42. 28.  Cfr. H.U. von Balthasar, Teologica, vol. I, Verità del mondo, Jaca Book, Milano 2010, p. 205 e p. 268.

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precondizione imposta al fenomeno in generale gli impedirebbe di darsi nella forma originaria e dunque impedirebbe alla forma originaria di darsi.

II. Jean-Luc Marion 1. La morte di Dio come occasione L’obbiettivo dichiarato di Dio senza essere consiste non solo nel proporre un’idea di Dio come non condizionato dall’orizzonte dell’essere, ma anche e soprattutto di mettere in discussione le visioni di Dio che una certa filosofia e una certa teo­logia hanno saputo elaborare: In altri termini, tentiamo di rendere problematica quell’affermazione che trova concordi i filosofi generati dalla metafisica e i teologi generati dal neotomismo: Dio, prima di ogni altra cosa, ha da essere. Il che significa, a un tempo, che egli avrebbe da essere prima degli enti; e che prima di ogni altra iniziativa egli dovrebbe prendere appunto quella di essere.29

La genesi della proposta va, dunque, nella direzione per cui la prima mossa dell’interrogazione filosofica, e del problema di Dio, non dovrebbe porsi, almeno non necessariamente, nei termini del problema dell’essere o del non essere. È proprio in questi termini che in un’intervista del 2011, Marion risponde alla domanda di Dan Arbib circa ciò che ha animato il suo pensiero: «dall’origine, era questo che mi dominava: che essere o non essere, questo non era il primo problema»30. 29.  J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 18. 30.  J.-L. Marion, La rigueur des choses. Entretiens avec Dan Arbib, Flammarion, Paris 2012, p. 14. Cfr. anche Id., Dio senza essere, cit., pp. 12 s.: «La

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Il lavoro del volume consisterà nel mostrare che il termine essere riferito a Dio ne manifesta una certa idolatria concettuale che impedisce di coglierne la questione. L’opera di Marion si dispiega allora nella luce di un certo ateismo e nella negazione di un altro. Sarebbe un errore, infatti, pensare un ateismo radicale dove si dia per risolto il problema dell’esistenza di Dio nell’affermazione certa della sua inesistenza. Un’affermazione certa dell’esistenza potrebbe manifestare, in qualche modo, un problema sbagliato rispetto a Dio e, allo stesso modo, l’affermazione di una inesistenza avrebbe molto in comune con la certezza di una esistenza. Le affermazioni o le certezze circa l’esistenza o la non esistenza di Dio pongono, agli occhi di Marion, gli atei e i teisti sullo stesso piano, sul piano della considerazione di un problema comune: «I teisti, i deisti e gli atei si accordano sul fatto che la questione dell’essere si pone su Dio in modo prioritario, che Dio dovrebbe essere, e che la trascendenza di Dio deve potersi esporre all’interno dell’orizzonte dell’essere»31. Una diversa ipotesi di partenza va dunque individuata e un’idea consolidata dev’essere messa in discussione. Questa ipotesi di partenza va tanto più affermata, quanto più la storia del pensiero dell’Occidente sembra esigerla a parti-

metafisica entra in contatto con Dio solo indirettamente, perché Dio entra in contatto con l’ens in quantum ens solo indirettamente, come suo principio (e creatore). Questa distinzione di Tommaso d’Aquino traccia esattamente la via seguita da Dio senza essere. È certo che la trascendenza di Dio rispetto all’ens può portare sia a dargli il nome di esse, sia a contestare anche questa denominazione; la reale divergenza non deve nascondere che si tratta pur sempre, in entrambi gli orientamenti, di meditare quest’altra sentenza di Tommaso d’Aquino: “Deus est causa universalis totius esse” [Summa theo­ logiae, Ia, q.45, a.2]. In breve, se la fedeltà a Tommaso d’Aquino consiste oltre che nel ripetere delle tesi tomiste, nel riprendere i suoi problemi, e quindi nel cercare di comprenderli, crediamo di poter rivendicare una certa fedeltà a Tommaso». 31.  J.-L. Marion, La rigueur des choses, cit., p. 178.

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re dalla problematica aperta dal grande tema della «morte di Dio». Già con L’idolo e la distanza si palesa in questi termini il primo plesso problematico che si intende affrontare, e nel quale va dunque individuato il punto di partenza dell’intera opera marioniana. Si trattava di considerare la questione della «morte di Dio» inizialmente come una contraddizione, poi come un punto di rilancio. La contraddizione riposa in fondo sul fatto che l’annuncio della morte sia riferito a un dio immortale. D’altronde è pure difficile misconoscere che una certa morte vi sia stata e che abbia prodotto degli effetti. Una morte che non solo lascia le generazioni seguenti sprovviste di una presenza rassicurante e disimpegnate nella celebrazione, ma soprattutto disilluse circa una qualsiasi esistenza. La morte di Dio, infatti, si estende retroattivamente nella presa di coscienza di un certo inganno, attesta in fondo che nessuna esistenza si è mai data. La morte di Dio, infatti, a differenza della morte di un qualsiasi esistente finito, non può essere se non per sempre. Se un dio ci fosse e morisse, la sua morte potrebbe attestare o la sua inesistenza, nei termini di un mai esistito, oppure la falsità di qualcosa che si presentava con il nome di Dio senza esserlo. Un dio che muore non è Dio, e dunque quello che viene a mancare in questa morte non sarebbe propriamente Dio. Che cosa è venuto a mancare allora con la morte di Dio? Dovremmo dire che, per Marion, ciò che è venuto a mancare è una certa idea di Dio, una idea che ha consegnato per secoli, e per le coerenze di una lunga tradizione, un dio immaginato, cioè un idolo, (un mito, nel linguaggio di Balthasar) alla venerazione. Grazie a queste considerazioni Marion può allora chiedersi se «la morte di Dio» non debba essere considerata un’occasione, qualcosa che ci si sarebbe dovuti augurare. In senso assoluto il vantaggio dovrebbe almeno consistere nell’uscita da un inganno e nell’apertura di una possibilità.

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2. La questione dell’idolatria Il nome che Marion attribuisce a un tale dio mortale è idolo. L’idolo e la distanza indaga, nei termini che saranno ripresi anche in Dio senza essere, i concetti di idolo e icona come due modalità differenti e opposte di considerare il rapporto con il divino rispetto alla visibilità. Marion si avvale di queste due figure per far sì che l’una emerga rispetto all’altra per contrapposizione32. Ciò che potrebbe essere identificato nella contrapposizione tra due modelli d’arte, pagana e cristiana, nasconderebbe così una «posta molto più essenziale». La presentazione secondo la successione storica di due concezioni di “arte” permetterebbe di individuare «un conflitto tra due fenomenologie»33. Questo conflitto può palesarsi attraverso le due figure individuate solo se si comprende che ciò che si mette in gioco non riguarda semplicemente l’analisi di due enti o classi di entri fra altri, ma che «l’icona e l’idolo determinano due modi d’essere degli enti»34. L’idolo e l’icona sono modi d’essere che l’ente riceve e accoglie a partire da una possibilità comune, tale per cui uno stesso oggetto potrebbe passare dall’essere l’uno all’essere l’altro a partire dalla possibilità di essere venerato, a partire da una certa predisposizione alla venerazione. Ora, non tutti gli enti presentano questa disposizione. Occorre allora precisare

32.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 21: «lo eidolon presuppone lo splendore greco del visibile, la cui policromia dà adito alla polisemia del visibile, l’eikon, invece, rinnovato dall’ebraico attraverso il Nuovo Testamento e teorizzato dal pensiero patristico e bizantino, si concentra – al pari della luminosità del visibile – sull’unica figura di quello che Hölderlin chiamò appunto Der Einzige, l’unico, solo dopo averlo paragonato e, in ultima analisi, integrato con Dionisio ed Eracle». 33.  Ivi, p. 21. 34.  Ivi, p. 22.

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che possono ammettere la venerazione tutti quegli oggetti che in qualche modo hanno come caratteristica comune quella di essere signa. Solo cioè «quelle opere che l’arte ha foggiato in modo tale da non limitare la loro visibilità a se stesse […] e che, in quanto tali e restando così assolutamente immanenti a se stesse, fanno indissolubilmente segno verso un altro termine, ancora indeterminato»35. L’idolo e l’icona fanno entrambi segno, solo in un modo differente. Il modo in cui in essi il divino è appreso dipende dalla differenza in cui la visibilità lo presenta. Diversi modi di visibilità dunque in cui «il modo di vedere decide ciò che si può vedere, o meglio, per lo meno negativamente, decide ciò che del divino non si potrebbe comunque percepire»36. Si tenga comunque presente che l’idolo non rende presente il dio, né ha questa pretesa, e non è ingannevole in quanto chi lo produce sa bene che non si tratta del dio, proprio per il fatto stesso – è quanto attesta la sua produzione – che non è stato il divino a prendere quella forma, ma un uomo a dargliela. Quando sceglie di adorarlo allora il produttore di idoli, o chi guardandone uno lo rende tale, manifesta piuttosto una volontà, la volontà di produrre un luogo in cui trovare il divino. Un luogo che deve fissare i termini della manifestazione e della presenza non tanto di Dio, ma piuttosto del «suo dio»37. Ciò che si viene a realizzare dunque è una precedenza o anticipazione dell’esperienza umana sull’immagine che il divino assume nell’idolo, e ciò che ne segue è un divino a misura d’uomo38. Sul piano

35.  Ibidem. 36.  Ivi, p. 23. 37.  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit. p. 16 (corsivo nostro). 38.  Cfr. ivi, p. 17: «In questo arresto, lo sguardo cessa di superarsi, di trapassarsi, cessa quindi di trapassare le cose visibili, per fermarsi allo splendore di una di loro. Lo sguardo che non si trapassa più, non passa più attraverso le cose, non le vede più in trasparenza; a un certo punto non ne prova più la

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della visione, non vi è nessun sovrappiù, nessun eccesso che denunci la capacità di chi guarda di insufficienza, e allo stesso tempo nessuna insufficienza in ciò che si guarda, nessun rinvio che spinga a passare oltre: l’idolo sarebbe solo qualcosa che costringe a non passare oltre, che trattiene dall’indifferenza nell’impossibilità del suo misconoscimento o della disattenzione rispetto ad esso39. Per emergerne deve essere scelto e per essere scelto dev’essere già in qualche modo visibile, visibile prima del visibile, previsibile al punto che deve essere visto già prima che lo sguardo vi si posi per appagarsi. Lo sguardo assiste come a uno spettacolo in cui l’idolo si presenta sotto una luce che lo rende visibile, e con esso il visibile stesso e la stessa visibilità si presentano come strappati alla ovvietà che lascia gli enti in qualche modo invisibili. L’idolo attira lo sguardo perché lo sguardo lo ha fatto emergere. Perché possa fissarlo lo sguardo deve innanzitutto fissarsi su di esso, bloccarsi, non andar oltre. Nell’idolo il suo autore si rivede e si ritrova. Scena, messa in scena, in cui ci si rivede come in uno specchio: spettacolo di riflessione. Specchio che è, allo stesso tempo invisibile, perché lo spettacolo offerto non satura lo sguardo che si trova rapito senza attenzione per la dinamica del rapimento40. L’idolo però, avverte Marion, è tale non tanto o non solo in quanto eccezione, ma per il fatto che lo sguardo vi vede solo quanto basta a soddisfarlo. Rispetto al divino, l’idolo è tale pertrasparenza – le trova insufficientemente cariche di luce e di gloria – e una finalmente e da ultima gli si presenta con quel tanto di visibilità, splendore e luminosità che la rende capace, per prima, di attirarlo, catturarlo, colmarlo. Questo primo visibile offrirà a ogni sguardo l’idolo, l’idolo alla sua portata. L’idolo, o il punto di caduta dello sguardo». 39.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 25. 40.  Cfr. ivi, p. 26: «Lo specchio lascia che la propria funzione sia offuscata dallo splendore del guardabile».

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ché lo sguardo lo sopporta: in esso il divino non eccede rispetto alla capacità di presa dello sguardo41. L’idolo dunque attesta il divino nella misura in cui ne «assorbe lo scarto», ne riduce la distanza, lo rende a «portata di mano», lo «garantisce» e così lo perde. L’idolo garantisce nella misura in cui la distanza non è tutelata, in una misura comune che elude l’incommensurabilità del divino.

3. L’icona La figura contrapposta all’idolo è l’icona. In cosa risiede la differenza? «L’icona – scrive Marion – non è l’esito di una visione ma ciò che la provoca. L’icona non si vede ma appare o, più primitivamente, pare, ha l’aspetto di…». Qualcosa cioè ha le sembianze di un dio, nel senso che in lui «sale alla visibilità qualcosa che è proprio degli dèi, appunto senza che per questo un dio venga ad essere preso nel visibile»42. L’invisibile cioè permette che il visibile emerga, facendone il luogo della propria comparsa. In questa manifestazione «anche se presentato dall’icona, l’invisibile resta sempre invisibile; non invisibile perché non colto dalla mira (non-mirabile), ma perché si tratta di rendere visibile questo invisibile come tale: il non-guardabile-in-volto [envisageable]»43. Nell’idolo si avrebbe una scissione dell’invisibile in due: una parte che si riduce al visibile, l’altra che si offusca nel non-

41.  Ivi, pp. 28 s.: «Questo dio, il cui spazio di manifestazione si commisura a ciò che uno sguardo può sopportare: cioè, appunto, un idolo […]. L’idolo, quindi, consegna il divino commisurandolo alla misura di uno sguardo umano. Specchio invisibile, contrassegno del non-mirabile esso deve essere inteso secondo la funzione e valutato in base alla portata di questa funzione». 42.  Ivi, p. 32. 43.  Ivi, p. 33.

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intenzionabile. L’icona invece deve garantire il rinvio ad altro da sé, «senza però che questo altro possa mai riprodurvisi». L’«icona non mostra nulla»: «l’icona chiama lo sguardo a superarsi e a non rapprendersi mai in un visibile, poiché in questo caso il visibile non si presenta se non in vista dell’invisibile. […] In questo senso, l’icona rende visibile solo suscitando uno sguardo infinito»44. L’icona dunque rappresenta la «figura, non di un Dio che in questa figura perderebbe la propria invisibilità per diventarci familiare fino alla familiarità, ma di un Padre che tanto più irradia una definitiva ed irriducibile trascendenza quanto più la offre senza riserve nella figura del Figlio»45. Come si tutela questa «offerta senza riserve»? Quale immagine può restare alla sua altezza? Come l’icona può tutelare il dramma di un indice che deve rappresentare qualcosa che non può mostrare? Lo fa mettendo in scena la distanza, lo scarto, attestando e mostrando la sua impossibilità a rendere presente, a rappresentare46. Tutto il saggio del ’77 era impegnato nella tutela della distanza nei termini di impossibilità a mostrare, a rappresentare, a rendere presente, manifesta, cioè, l’inaccessibilità del divino a partire da una misura comune. In qualche modo dovremmo

44.  Ivi, p. 34. 45.  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., p. 19. 46.  Come fa notare Susy Zanardo: «La teologia apre l’accesso alle estreme possibilità della fenomenalità, orientando il pensiero verso la “potenza incomprensibile” del fenomeno teologico. Marion vuole segnare lo scarto, inteso in termini di “incompatibilità” e di “contrarietà”, tra lo strumento logico (la perfetta intelligibilità del “concetto” metafisico di Dio) e l’assenza di misura di Dio (l’oscurità del concetto inversamente proporzionale all’evidenza della manifestazione divina). A misurare la tensione fra i termini interviene la categoria della distanza, inadatta ad ogni operazione di rappresentazione, perché irriducibile al potere contenitivo e astrattivo dell’intelletto puro» (S. Zanardo, Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 99).

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dire che nell’icona, i colori, i tratti, ecc. non rappresentano il divino, cioè non indicano qualcosa nella misura in cui lo riproducono, neppure nella misura in cui sono simili ad essi, piuttosto «essi indicano, oltre il visibile, l’invisibile irriducibile, che bisogna produrre, far avanzare nel visibile, proprio in quanto invisibile»47. In questo modo l’icona salvaguarda senza resto: per il fatto che non nasconde in una misura familiare la sua impossibilità a mostrare. Quanto più l’icona fa crescere la distinzione tra visibile e invisibile, tanto più l’idolo ne sottolinea l’unione. Tanto più l’idolo commisura, tanto più l’icona richiede l’infinito come tutela della distanza. L’idolo riceve la sua visibilità dallo sguardo che la coglie, l’ico­ na, al contrario, per farsi vedere non ha bisogno che di se stessa. L’idolo non è altro che uno sguardo che ritorna su se stesso, spettacolo della visione che investe il visibile per rioffrire l’immagine che vede. Essa rioffre la stessa mira, lo stesso sguardo che mira: «sguardo che si guarda guardare»48. Con un rischio: che non si percepisca lo sguardo che guarda, o meglio che non si percepisca che in essa uno sguardo guarda. L’invisibilità dell’idolo consiste dunque nel fatto che maschera la fine della mira. In questo processo l’idolo è perfettamente visibile, e precisamente per il fatto che maschera, che si sottrae all’invisibile. Marion non nega che l’idolo rappresenti un’esperienza del divino, tuttavia una tale esperienza si dà sempre a partire da una mira.

4. L’idolo, il concetto e la metafisica Sarebbe sbagliato pensare che l’idolo si riferisca solo a oggetti. In effetti anche nel tentativo di dare un’idea o una immagine del divino può prendere forma un idolo. Ora già dall’opera del 47.  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., p. 19. 48.  J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 42.

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’77 questa contestazione dell’idolatria concettuale si traduce nell’opposizione a una certa metafisica o almeno al tentativo della metafisica di affermare, rispetto a Dio, la sua esistenza, di ridurlo alla questione dell’essere, vale a dire di un concetto. «La produzione di un concetto che pretende l’equivalenza con Dio – scrive Marion – è infatti proprio di competenza della metafisica»49. Già da L’idolo e la distanza, inizia dunque la messa in luce dell’impresa di Marion contro la metafisica intesa fondamentalmente nei termini dell’onto-teo-logia, impresa che continuerà e segnerà uno dei principali fili conduttori della sua opera. Se da un lato la metafisica si è sempre posta un problema su quello che poi avrebbe assunto il nome di «Dio», l’ingresso di «Dio» in filosofia, tuttavia doveva essere stabilito a partire dalle esigenze della metafisica. In tal senso va anche letta la già citata affermazione di Marion secondo cui «i teisti, i deisti e gli atei si accordano sul fatto che la questione dell’essere si pone su Dio in modo prioritario»50. In fondo ciò che unisce queste posizioni sarebbe infatti una comune considerazione metafisica, fino al punto che ci si potrebbe chiedere, come fa Jocelyn Benoist: «è possibile essere atei senza essere metafisici?»51. Il lavoro da intraprendere per guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio si dovrà allora realizzare negativamente contro l’idolatria concettuale e positivamente tentando di guadagnare un pensiero di Dio fuori dalla metafisica52.

49.  J.-L. Marion, L’idolo e la distanza, cit., p. 23. 50.  J.-L. Marion, La rigueur des choses, cit., p. 178. 51.  J. Benoist, L’idée de phénoménologie, Beauchesne, Paris 2001, p. 82. Per un approfondimento sul tema si veda tutto il saggio Le «tournant théologique», ivi, pp. 81-103. 52.  Cfr. J.-L. Marion, La double idolâtrie. Remarques sur la différence ontologique et la pensée de Dieu, in R. Kearney - J-S. O’Leary (a cura di), Heidegger et la question de Dieu, Puf, Paris 2009, pp. 67-94.

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Conclusioni In queste brevi considerazioni possiamo già mettere in evidenza alcuni tratti. Sia per Marion che per von Balthasar esisterebbero un rischio e una esigenza comuni. Rischio di considerazione del divino a partire dal tentativo conoscitivo di un’adeguazione a forme predeterminate; esigenza di restare all’altezza del divino nella sua impensabilità e del suo darsi a partire da se stesso, dal suo modo di manifestazione, laddove si realizzi una qualche manifestazione del divino. Esigenza comune ai due attori che sotto la stessa ispirazione dichiarano di intraprendere la loro opera. Si tratta per entrambi di prendere sul serio il fatto che se Dio deve essere pensato ciò va fatto nei termini dell’«id quo maius cogitari nequit». Infatti nel ’65 von Balthasar colloca la sua opera proprio nel riferimento alla celebre prova di Anselmo53. E sempre in questo riferimento sembra collocarsi l’opera di Marion già in Dio senza essere54. Il tema però è affrontato direttamente in un articolo del 199055, dove quello che Marion tenta di dimostrare è proprio il fatto che l’argomento di Anselmo non dovrebbe, in quanto non potrebbe, essere definito ontologico. Per Marion la formula stessa con cui si afferma l’esistenza di Dio, «id quo maius cogitari nequit» o «aliquid quo nihil maius cogitari potest», propriamente non potrebbe definire alcun concetto, ma al massimo un quasi-concetto con il quale la ragione tenta di spiegare quello che la fede gli ha consegnato, e 53.  Cfr. H.U. von Balthasar, Il filo di Arianna, cit., p. 7. 54.  Cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 67; Cfr anche Id., Le phénomène saturé, in J.-F. Courtine (a cura di), Phénoménologie et Théologie, Criterion, Paris 1992, pp. 79-128, ripreso in J.-L. Marion, Le visible et le révélé, Cerf, Paris 2005; tr. it. di C. Canullo, Il fenomeno saturo, in J.-L. Marion, Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007, pp. 29-66. 55.  J.-L. Marion, L’argument relève-t-il de l’ontologie?, in M.M. Olivetti (a cura di), L’argomento ontologico, “Biblioteca dell’Archivio di filosofia”, CEDAM, Padova 1990, pp. 43-69.

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lo fa solo nei termini di un «massimo del pensabile», al limite delle sue possibilità, fino al punto da poter essere considerato come un non-concetto56. Se l’«id quo majus cogitari nequit […] oltrepassa, sconcerta e rende folle ogni pensiero, anche quello non rappresentativo»57, ecco che allora restare all’altezza di un pensiero di Dio vuol dire comprenderlo a partire dalla dismisura. Ma ancora meglio nel tentativo di affermare una certa impensabilità di Dio, meglio di non pensarlo, di impensarlo o ancora di parlarne solo come impensabile. Dove impensabile vuol dire soprattutto inanticipabile, cioè senza condizioni58. Ora questa impensabilità obbliga a una sostituzione: occorre sostituire «Dio» con Dio, occorre cioè depennare (raturer) Dio. Si tratta quindi di riconoscere che Dio per primo traccia un «segno di cancellatura» sul nostro pensiero in quanto lo satura e dunque si rende inaccessibile «ponendosi come suo impensabile»59. Ma in cosa consisterebbe l’impensabilità? Quale nome di Dio potrebbe accettare a questo punto? Il nome più adeguato sarebbe quello di Agape. In effetti l’amore sopporta, anzi è rafforzato dall’impensabilità, così come la donazione60. L’amore 56.  Cfr. ivi, pp. 52 s. 57.  J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 67. 58.  Cfr. ivi, p. 68: «A proposito di Dio, noi ammettiamo chiaramente che non possiamo pensarlo se non sotto la figura dell’impensabile, ma di un impensabile che oltrepassa nella stessa misura sia ciò che non possiamo pensare sia ciò che possiamo pensare; ciò che non posso pensare, infatti, dipende ancora dal mio pensiero, e mi resta quindi pensabile». 59.  Ivi, p. 69. Nel testo, Marion propone di apporre sulla parola Dio una croce di sant’Andrea, pertanto anziché utilizzare la forma Dio si utilizza una x posta sulla parola. Qui non ci è possibile rendere questa forma. 60.  Ibidem: «L’impensabile non nuoce affatto all’amore, né gli nuoce l’assenza di condizioni; anzi ne viene rafforzato. L’amore, infatti, consiste nel d(on)

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non avrebbe o non dovrebbe avere l’esigenza di comprendere, né, se si vuole tale, di porre condizioni. Non sarebbe sbagliato dunque affiancare queste ultime considerazioni di Marion a una celebre affermazione di von Balthasar, per il quale nella rivelazione cristiana Dio viene primariamente non come maestro per noi («vero»), non come redentore con tanti scopi per noi («buono»), ma per mostrare e irradiare Se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella «assenza di interesse» che il vero amore ha in comune con la vera bellezza.61

Il punto che allora costituirebbe la prossimità tra Marion e von Balthasar dovrebbe essere individuato nella comune considerazione di un Dio che non viene affermato, e nemmeno dimostrato a partire da un qualche bisogno del soggetto, o da una qualche idea. Un Dio che si dà al pensiero, più che derivarne. Per von Balthasar questo può essere fatto con radicalità nel pensare Dio a partire dal Pulchrum, nella luce cioè di una figura o di una forma che si consegna al pensiero a partire da se stessa e fissando le regole della sua stessa manifestazione. Di tale prospettiva Marion, almeno in questi primi momenti del suo lavoro, tratterrà almeno un aspetto: la necessità di pensare un evento che imponga le regole della sua manifestazione, evento davanti al quale il soggetto e la sua capacità conoscitiva si rivelano impotenti di anticipazione o di precomprensione totale. Per entrambi, utilizzando i termini di Emmanuel Levinas, si dovrebbe parlare, rispetto a Dio, di una «relazione che non è strutturata in termini di sapere»62. Per entrambi il nome più arsi; ora, per essere d(on)ato, il dono non ha bisogno né di un interlocutore che lo riceva, né di un luogo in cui soggiornare che lo accolga, né di una condizione che lo garantisca o lo confermi». 61.  H.U. von Balthasar, Il filo d’Arianna, cit., p. 34. 62.  E. Levinas, Le Temps et l’Autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F.P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, il melangolo, Genova 1993, p. 6.

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opportuno nel caso di Dio dovrebbe essere quello di Amore, come nome possibile per evitare una comprensione di Dio nei termini di un sapere. Per entrambi, infine, l’estetica e il bello rivestono un luogo privilegiato per la comprensione o l’accesso di ogni evento, compreso quello della Rivelazione. Quando infatti Marion dovrà procedere oltre questa fase, che potremmo chiamare parzialmente teologica, e formulare la proposta “interamente filosofica” della fenomenologia della donazione, sarà anche per lui l’opera d’arte a fornire l’esemplare di una fenomenalità autodonantesi e attestante l’evidenza di una incapacità costitutiva ad opera del soggetto, sia nei termini dell’oggettualità che dell’entità63. Una differenza tra altre dovrebbe però essere presentata: in Marion la possibilità di restare all’altezza di un pensiero del­ l’impensato coincide, già da queste prime opere, con una forte messa in discussione dell’ontologia e con un ricorso al metodo offerto dalla fenomenologia. Qui, forse più che in seguito, questa è intesa soprattutto a partire dalla radicalità della sua proposta, dal richiamo restare al livello della datità, da un certo rispetto da portare nei confronti di una regola imposta dal darsi.

63.  Cfr. J.-L. Marion, Dato che, cit., pp. 46 ss.

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Crisi e filosofia della storia. Note su un nesso esplicativo della modernità di Marco Bruni

Che la nascita e lo sviluppo dell’epoca moderna coincidano con l’affermazione dell’egemonia culturale della “filosofia della storia”, o meglio delle “filosofie della storia”, è tesi ormai riconosciuta in maniera unanime. Il dibattito è sorto piuttosto in merito all’origine della filosofia della storia, se essa segni una “continuità” o una “discontinuità” rispetto al mondo medievale, e se essa determini la “secolarizzazione” della tradizione cristiana o la legittima “autoaffermazione” dell’uomo moderno1. Allo stesso modo, che la moderna filosofia della storia produca una “crisi” del mondo cristiano, e che questa crisi si imponga sotto il segno della “critica”, è altrettanto riconosciuto2. Ragion 1.  Sulla modernità come “secolarizzazione”: K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Edizioni di Comunità, Milano 1963. Sulla modernità come “autoaffermazione dell’uomo”: H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di C Marelli, Marietti, Genova 1992. Sulla polemica tra Löwith e Blumenberg: G. Carchia, Nota alla controversia sulla secolarizzazione, in «aut aut», n. 222, 1987, pp. 67-70. 2.  Sulla crisi della tradizione cristiana nel Seicento: P. Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1946. Sul rapporto tra “filosofia della storia”, “critica” e “crisi”: R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, tr. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1972. Sul

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per cui, se la filosofia della storia è l’ideologia dominante della modernità, la “crisi” stessa della modernità sarà da rintracciare, almeno a livello culturale, nella crisi della filosofia della storia che la sostanzia. La fortunata espressione della “fine delle grandi narrazioni” ha reso questa prospettiva conosciuta anche al grande pubblico3. Le “crisi” dell’hegelismo, del progressismo, del marxismo e del neoliberalismo, il cui dibattito ha scandito una parte consistente della riflessione culturale del Novecento e dell’inizio del nuovo secolo, possono essere considerate altrettante “crisi” della filosofia della storia che sottende questi movimenti. Tuttavia, l’idea della “fine delle grandi narrazioni”, della “fine della storia”, usata per criticare la filosofia della storia, è in realtà un elemento essenziale della filosofia della storia stessa, perché essa, nella sua determinazione assoluta del futuro, implica che il futuro si compia proprio secondo tale determinazione. Anche la “fine delle grandi narrazioni” rimane una “grande narrazione”, rimane l’ultima filosofia della storia dopo il declino novecentesco delle sue concorrenti4. E come le sue concorrenti, nel momento in cui ritengono di aver realizzato il futuro preconizzato, anch’essa si dimostra prossima alla sua crisi ideologica. Infatti, da un punto di vista strettamente teorico, è stato rilevato come sul piano razionale ogni previsione “epistemica” del futuro non tenga conto dei possibili fattori contrari, dell’“eterogenesi” dei fini, come si usa dire; e quindi come ogni tentativo di estirpare definitivamente il “negativo” dal mondo non faccia i conti a sufficienza con l’inevitabile

tema della “crisi” in Koselleck: G. Imbriano, Le due modernità. Critica, crisi e utopia in Reinhart Koselleck, DeriveApprodi, Roma 2016. 3.  Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981. 4.  Per una problematizzazione della nozione di “postmoderno” si veda il volume collettaneo: Ancora il Postmoderno?, a cura di G. Baptist, A. Bonavoglia e A. Meccariello, Manifestolibri, Roma 2016.

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“finitezza” in cui la vita umana consiste5. Da un punto di vista psicologico si potrebbe dire che la filosofia della storia, nelle sue varie declinazioni, non concede quello che promette. Promette la “fine della storia”, e quindi la fine del “male” in terra; non la concede perché, di volta in volta, la “storia” continua, e il “male” con essa. La terra non è ancora senza il “male”, la “storia” non è ancora “finita”. La tenuta della filosofia della storia si gioca nello spazio tra aspettativa e risultato. Un’aspettativa e un risultato non relativi, che hanno a che fare piuttosto con una risposta agli assoluti del “bene” e del “male”, o meglio con una risposta “assoluta” alla questione del “valore” dell’esistenza. In fondo, se si vuole individuare l’“idea-guida” che innerva una certa cultura, si dovrà individuare quale “idea” risponda alla questione del “male”. E dunque del “bene”. Come si vede anche dalla formulazione classica, teologica, della questione: al si deus est, unde malum? è speculare il si deus non est, unde bonum?. Se nel cristianesimo la risposta è da ritrovare nel futuro trascendente prospettato da Dio, nella modernità la risposta si troverà sì nel futuro, ma in un futuro immanente costruito dall’essere umano. Le varie filosofie della storia, che si sono contese, dalla Rivoluzione francese alla controrivoluzione neoliberale, la supremazia culturale, hanno combattuto per il “senso” del futuro. Non solo il progressismo – dall’Illuminismo alle forze democratiche novecentesche – e la rivoluzione – dal giacobinismo al marxismo – sono filosofie della storia, lo sono anche il darwinismo sociale – dall’imperialismo al nazifascismo – e il neoliberalismo – che rilancia il sogno americano durante la crisi del marxismo che anticipa la fine del socialismo

5.  Sulla non prevedibilità del futuro da parte della filosofia della storia cfr. almeno: K. Löwith, Significato e fine della storia, cit.; E. Voegelin, La nuova scienza politica, tr. it. di R. Pavetto, Borla, Torino 1968; K. Popper, Miseria dello storicismo, tr. it. di C. Montaleone, Feltrinelli, Milano 1975; R. Aron, Lezioni sulla storia, tr. it. di S. Poggi, il Mulino, Bologna 1997.

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reale. Nella filosofia della storia è in gioco il predominio per il “senso” del futuro. Il progresso dell’umanità, la dittatura del proletariato, il dominio della razza ariana, il sogno americano sono tutte risposte al “senso” del futuro. La crisi della filosofia della storia è la crisi del “senso” del futuro, e quindi del “senso” tout court, perché nella modernità il “senso” è il futuro stesso. La filosofia della storia non solo produce il mondo moderno, ma anche la sua crisi quando i suoi fondamenti sono messi in discussione. Le vicende della filosofia della storia si articolano tra due grandi crisi, il cui arco è la storia moderna e contemporanea occidentale. In che misura la “fine della storia” proclamata da Hegel non concedesse ciò che prometteva, risulta evidente dalla critica che Marx ha mosso al sistema hegeliano. Se la filosofia della storia di Hegel, nel suo Aufhebung della Aufklärung, rifletteva anche il bisogno della borghesia tedesca di “mediare” l’idea del progresso sfociata nella Rivoluzione e nel Terrore, dopo l’89, con le istituzioni monarchiche prussiane, la critica di Marx rileva come questa “mediazione” non riuscisse a tenere alla prova degli stessi presupposti della dialettica hegeliana. È la critica da sinistra di Hegel, la critica della “sinistra hegeliana”, che Marx porterà, per molti versi, a compimento. La libertà che secondo Hegel sarebbe diventata “sostanziale” nello Stato di Prussia, si rileva all’analisi di Marx solo una libertà “formale”. Alla crisi del sistema hegeliano, alla quale contribuisce in maniera determinante, Marx contrapporrà il rilancio della filosofia della storia illuministica del progresso e della rivoluzione, ma alla luce del metodo dialettico hegeliano ora rettificato, del materialismo dialettico6. In questo senso, i due maggiori indagatori della “dissoluzione” del sistema hegeliano, Karl Löwith e György Lukács, colgono, proprio nella loro contrapposizione, 6.  Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, tr. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1949.

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due elementi costitutivi della cultura posthegeliana7. Se è vero, come dice Löwith, che la “frattura” conduce in Germania al passaggio “da Hegel a Nietzsche”, è anche vero, come sostiene Lukács, che il marxismo si istituisce proprio da questa frattura, per cui, in ambito marxista, la questione della “morte di Dio” e del “nichilismo” può essere considerata solo come la versione “irrazionalista” dell’ateismo moderno. Allo stesso modo, la filosofia della storia del materialismo dialettico non può essere concepita come filosofia della storia, essa è anzi la forma eminente della “scienza”. Insomma, per assistere al passaggio “da Hegel a Nietzsche”, oltreché in Germania, nella restante Europa, bisognerà attendere la “crisi del marxismo” degli anni Settanta del secolo scorso. Nella quale confluirà quindi la critica dell’ideologia del progresso e della rivoluzione a cui proprio Nietzsche aveva dato il la alla fine dell’Ottocento, ponendo le condizioni dello sviluppo dell’“irrazionalismo”, o “pensiero della crisi”, che nel mondo tedesco si affermerà definitivamente dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale8. Per Nietzsche l’unico progresso possibile è quello del “tipo superiore”, del “superuomo”, che dovrà farsi carico della vita e della politica, della “grande politica”, dopo il venir meno della tradizione cristiana, di cui Hegel, proprio con la sua filosofia della storia, era stato il “grande ritardatore”. Ma è solo con Il tramonto dell’Occidente di Spengler che la critica del progresso diventa egemone in Germania9. Spengler, che Thomas Mann ebbe modo di chiamare la “scimmia arguta” di Nietzsche. Se la storia è progressiva, era difficile comprendere perché la guerra del 7.  Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, cit.; G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1959. 8.  Cfr. R. Koselleck - Ch. Meier, Progresso, tr. it. di S. Mezzadra, Marsilio, Venezia 1991; G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di “progresso” fra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1984. 9.  Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia di una storia mondiale, tr. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1978.

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’15-’18 fosse stata la più sanguinosa della storia umana. Anche la tecnologia aveva mostrato i suoi limiti con l’affondamento del Titanic. A ciò si aggiunga il fattore determinante, in Germania (ma anche in Italia): il dramma della sconfitta bellica e delle sfavorevoli condizioni di pace. Alla luce crepuscolare di questi eventi, Spengler può allora dire che l’Occidente è avviato al tramonto. Solo una decisione sovrana può fermare il declino. Per questo Mussolini viene salutato da Spengler come il nuovo Cesare della rivoluzione conservatrice10. Mussolini, che Hitler riteneva il suo maestro. Però la critica del progresso, se vale contro la rivoluzione bolscevica, non può valere né verso il razzismo né verso la tecnologia. Il darwinismo sociale estremo del nazismo riformula l’idea imperialistica della missione civilizzatrice nel senso della schiavitù mondiale dei popoli non ariani. La tecnologia è il mezzo per lo scontro totale. È quello che è stato chiamato «modernismo reazionario»11. La guerra civile europea è, a livello ideologico, la guerra civile tra due filosofie della storia12. La fine della Seconda guerra mondiale non sancisce però il tramonto dell’Occidente, quantomeno a livello economico. Per tutta la seconda metà del Novecento l’economia americana e quella europea sono segnate dal boom economico. Il progresso, almeno dal punto di vista materiale, non è affatto terminato. La sconfitta del nazismo, il Reich millenario durato solo tredici anni, altra clamorosa smentita delle pretese totalizzanti della filosofia della storia, riporta ai margini il pensiero della crisi,

10.  Cfr. G. Conte, Catene di civiltà. Studi su Spengler, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994, pp. 83 ss. 11.  Cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, tr. it. di M. Cupellaro, il Mulino, Bologna 1986. 12.  Cfr. E. Nolte, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalismo e bolscevismo, tr. it. di F. Coppellotti, V. Bertolino e G. Russo, BUR, Milano 2008.

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e i suoi sviluppi decadentisti o guerrafondai, lasciando Stati Uniti e Unione Sovietica a contendersi il mondo. La guerra civile europea lascia il posto alla guerra fredda. La filosofia della storia marxista si contrappone alla filosofia della storia americana. Il comunismo realizzato, da una parte, almeno in un “solo paese”, e il sogno americano dall’altra. Il “paradiso in terra” del comunismo e il “paradiso in terra” dell’arricchimento, del sogno americano. Il sogno è sempre al futuro, se lo si vuole realizzare. Il pensiero della crisi, sconfitto dalla Seconda guerra mondiale, segna il suo ritorno con la crisi del marxismo degli anni Settanta. Se il socialismo aveva trovato la sua realizzazione in URSS, come può generarsi, proprio da sinistra, la “crisi” del marxismo? Ancora una volta la spiegazione è da rintracciare nello spazio tra aspettativa e risultato proprio della filosofia della storia. Insomma: perché il comunismo, in realtà, non era stato realizzato da Stalin. E non era stato realizzato o a causa di Stalin o perché non era possibile esso stesso. Questi sono i due estremi nei quali si muoverà la sinistra marxista dopo la morte di Stalin. Dopo la morte di Stalin: perché solo con la “destalinizzazione”, solo con la possibilità di affermare ufficialmente la non realizzazione staliniana del comunismo, si può criticare la “fine della storia” sostenuta dal DIAMAT. L’altra via per superare la crisi del marxismo che origina dalla destalinizzazione è sostenere che in realtà il comunismo era stato realizzato da Stalin. Ogni revisionismo storico marxista non può che partire da qui13. Ovviamente lo stacanovismo non è conciliabile con la società dei consumi marxista prefigurata da Chruscev. La filosofia della storia marxista, come teoria che si riferisce al futuro, può essere smentita solo quando questo futuro che si realizza sfata la sua predizione. Come nel caso dell’hegelismo e del progressismo. La destalinizzazione, ovve13.  Cfr. D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

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ro la presa di coscienza del fallimento di Stalin, è l’antefatto storico della crisi del marxismo, della critica dall’interno al marxismo stesso. O si guarda ad altre forme di marxismo, a Trockij, il nemico eterno di Stalin, o a Mao, l’alternativa cinese al comunismo russo (anche il comunismo cubano). O si cerca di distinguere il Marx “filosofo della storia” dal Marx “scienziato sociale”, come nel caso di Louis Althusser e Galvano Della Volpe. Oppure si sostituisce Marx con Nietzsche, come nel caso di Deleuze e Foucault, dando il la, in Francia, e quindi in Italia, a quel “da Hegel a Nietzsche” che, tra le due Guerre, si era verificato solo in Germania. Proprio in Germania, dove il tabù della figura di Nietzsche è ancora forte vista la sua appropriazione da parte del nazismo, si verifica piuttosto la sostituzione di Marx con Kant, come nel caso di Habermas, favorendo un secondo ritorno a Kant, dopo il primo del neokantismo post­hegeliano. In Italia queste varie tendenze si incrociano, con una significativa presenza anche di altri pensatori della crisi, che avevano peraltro aderito al nazismo, con Heidegger e Schmitt in prima fila. Si ricordino solo due casi esemplari del dibattito italiano sulla crisi del marxismo degli anni Settanta: Lucio Colletti e Massimo Cacciari. Che la crisi del marxismo sia la crisi della filosofia della storia che lo sottende, in Colletti e Cacciari è particolarmente evidente. Colletti, che riprende, nonostante il veto di Lukács, la critica di Marx proposta da Löwith, si muove in direzione non solo di Nietzsche ma anche di Kant. Cacciari, esplicitamente contro Lukács, sostiene che Nietzsche è il campione della razionalità, andando sempre di più a valorizzare, a “sdoganare”, come si diceva in quegli anni, il pensiero di Schmitt e di Heidegger. L’egemonia culturale marxista lascia il posto a quella del pensiero della crisi. Con la crisi del marxismo e la caduta dell’Unione Sovietica sembra rimanere un’unica ideologia, un’unica filosofia della storia, quella della “fine della storia” del neoliberalismo. La

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“fine delle grandi narrazioni” è in realtà il rimanerne di una sola. Pochi mesi dopo le dimissioni di Gorbachev da presidente dell’Unione Sovietica, Francis Fukuyama pubblica La fine della storia e l’ultimo uomo14. Rielaborazione di un articolo apparso due anni prima a commento della caduta del muro di Berlino, il volume dell’ormai ex marxista politologo nippo-americano diventerà subito un best seller internazionale. Rielaborando la tesi di Hegel e di Kojève sulla fine della storia, Fukuyama sostiene che la democrazia liberal-capitalistica è il “destino” non solo dell’Occidente ma del globo intero. Neanche dieci anni dopo l’uscita del libro di Fukuyama, la fine della storia del neo­liberalismo verrà smentita dall’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle. La storia non era finita, esisteva ancora un “nemico” esterno all’Occidente, l’islamismo radicale. Fukuyama rispose che la storia era sì finita, si trattava solo di «esportare la democrazia» dove la storia mondiale aveva mostrato i suoi segni di arretratezza rispetto allo spirito del tempo15. Le guerre di Bush devono essere lette anche alla luce delle teorie di Fukuyama, che ne era consigliere. Di nuovo l’esportazione della democrazia, la fine della storia dove essa non era ancora finita, mostrava tutti i suoi limiti. Dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, il modello di Fukuyama si dimostrava fallimentare alla prova dei fatti. Il “nemico” esterno rimaneva. La crisi economica del 2008 mostrò come il “nemico” dell’Occidente non era solo “esterno” ma era anche “interno”. Le crisi cicliche del capitalismo, analizzate già da Marx nel Capitale, e che nel ’29 avevano dato il la all’affermazione politica del nazismo, non risparmiarono, a loro volta, il sogno dei neoconservatori americani. Insomma, la “storia” non era 14.  Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, tr. it. di D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992. 15.  Cfr. F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-Building e ordine mondiale nel XXI secolo, tr. it. di S. Castoldi e M. Passarello, Lindau, Torino 2005.

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affatto “finita”, essa continuava, ma sotto il segno della “minaccia”. Il successo del libro di Miguel Benasayag e Gérard Schmit su L’epoca delle passioni tristi si spiega in questo contesto16. La fine della storia acquisisce una declinazione non più edenica ma infernale. Nata sotto il segno dell’“utopia”, la sua ultima formulazione cade sotto quello della “distopia”. Tuttavia, la crisi culturale ed economica del neoliberalismo non ha segnato la sua crisi politica. Come si dice nel linguaggio aziendalistico, la crisi è diventata un’opportunità. Se il neoliberalismo negli anni Ottanta era riuscito ad affermarsi non solo rilanciando il sogno americano su base planetaria, ma anche riprendendo positivamente alcuni elementi del “nichilismo”, cavalcando l’individualismo di massa con il mito dell’“imprenditore di se stesso”17, ora la crisi diventa «arte di governo»18. La presunta fine della storia è in realtà l’inizio della crisi permanente, della «crisi senza fine»19. A ciò si aggiunga l’affermazione delle potenze emergenti che contribuiscono a innalzare la soglia dell’inquinamento e della popolazione globali oltre la soglia del non ritorno. La fine della storia, lungi dal presentarsi come il regno della “pace perpetua” della liberal-democrazia su scala mondiale, si presenta come la possibile fine della storia umana sulla terra a causa della crisi ecologica. La “natura” dimenticata dall’avanzata progressiva della “storia” ritorna sulla scena della vita umana. Come anche il Coronavirus drammaticamente ci ricorda. Più che una nuova “filosofia della storia”, è una nuova

16.  Cfr. M. Benasayag - G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi. L’ideologia della crisi, tr. it. di E. Missana, Feltrinelli, Milano 2004. Cfr. anche U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007. 17.  Cfr. M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata 2017. 18.  Cfr. D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018. 19.  Cfr. M. Revault d’Allonnes, La crisi senza fine. Saggio sull’esperienza moderna del tempo, tr. it. di G. Masperi, O barra O edizioni, Milano 2014.

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“filosofia della natura” ad essere oggi sempre più urgente20. Ancor prima della possibilità materiale di uno “sviluppo sostenibile” o di una “decrescita serena”, è la nostra visione della natura a necessitare un radicale mutamento. Perché, se anche noi esseri umani siamo esseri naturali, allora la distruzione della natura non è altro che la distruzione di noi stessi, non è altro che autodistruzione. Il passaggio dalla centralità della “storia” a quella della “natura” conduce dunque gli uomini a riflettere sul rapporto che intrattengono con loro stessi nell’epoca in cui la risoluzione delle crisi, siano esse più o meno “epocali”, non può esser più demandata a qualcun altro, tanto meno a un presunto “ultimo Dio” che dovrebbe salvarci nel futuro prossimo. Perché la modernità è proprio l’epoca del congedo da ogni Dio. La crisi ambientale ancor più che una sfida alla sopravvivenza umana è una sfida al suo grado di maturità raggiunta. È ancora la questione di Nietzsche sul valore dell’esistenza umana dopo la “morte di Dio”.

20.  Cfr. O. Franceschelli, Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Donzelli, Roma 2014.

Indice

Premessa di Giulio Goria e Giacomo Petrarca

p. 9

Sezione I Sapere e critica

Rossella Fabbrichesi, Il filosofo sulla soglia della caverna

p. 15

Massimo Donà, Essere, universalità, temporalità. Dell’Essere, come figura della “crisi”

p. 27

Giulio Goria, Metodo, fenomenologia e dialettica. A partire dai Problemi fondamentali della fenomenologia di Heidegger

p. 71

Giacomo Petrarca, Il metodo riflessivo come crisi del metodo. Appunti di lettura sul Tractatus de intellectus emendatione

p. 103



Sezione II Politica e rappresentanza

Eugenio Mazzarella, Populismo e crisi democratica in Italia. Due note.

p. 125

Massimo Adinolfi, In che stato è la democrazia rappresentativa?

p. 147

Sezione III Religione e rappresentazione Carla Canullo, «La vérité est un cri». Michel Henry sulla crisi del religioso

p. 175

Giuseppe Pintus, Idolo e concetto. Considerazioni sull’esigenza di una crisi. H.U. von Balthasar e J.-L. Marion

p. 197

Marco Bruni, Crisi e filosofia della storia. Note su un nesso esplicativo della modernità

p. 223

Gulliver

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da Francesco Valagussa

1. Luca Basile, Morte della sovranità. 2. Daniel Innerarity, Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale. 3. Federico Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile. 4. Leonel Ribeiro dos Santos, Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano. 5. Federica Buongiorno - Vincenzo Costa - Roberta Lanfredini (a cura di), La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni. 6. Charles-François Tiphaigne de la Roche, Giphantie. 7. Félix Duque, Gastrosofia divina. Il cibo dello Spirito nel­ l’èra tecnologica. 8. Gaetano Basileo - Giannino Di Tommaso (a cura di), Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca. 9. Giulio Goria - Giacomo Petrarca (a cura di), Figure della crisi.

Gulliver - 9

Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati

ISBN ebook 9788855290296

Crisi e critica sono termini che appartengono al vocabolario della ragione occidentale fin dalle sue origini. Da allora, prima o poi, ogni genere di sapere si è trovato ad affrontare la crisi delle rispettive forme tradizionali assumendo la funzione storica di interpretarne non solo gli elementi contingenti e passeggeri, ma le condizioni essenziali. Che fine ha fatto, oggi, questa potenza critica della ragione e, in modo particolare, della filosofia? Intrecciando politica, filosofia e teologia, i saggi contenuti in questo volume delineano alcune tra le figure più significative attraverso cui cogliere il senso speculativo della crisi, dalle origini del sapere filosofico in Grecia fino all’attuale stato della forma rappresentativa democratica.

Con saggi di Massimo Adinolfi, Marco Bruni, Carla Canullo, Massimo Donà, Rossella Fabbrichesi, Giulio Goria, Eeugenio Mazzarella, Giacomo Petrarca, Giuseppe Pintus.

€ 8,00