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studi di poesia latina studies of latin poetry
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EDITORS IN CHIEF Giorgio Bonamente Presidente Accademia Properziana del Subasio Roberto Cristofoli Università di Perugia Rosalba Dimundo Università di Bari Paolo Fedeli Accademia dei Lincei Giovanni Polara Università di Napoli Federico II Carlo Santini Università di Perugia
EDITORIAL STAFF Chiara Moretti SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy
studi di poesia latina studies of latin poetry
PROPERZIO FRA REPUBBLICA E PRINCIPATO PROCEEDINGS OF THE TWENTY–FIRST INTERNATIONAL CONFERENCE ON PROPERTIUS Assisi – Cannara, 30 May – 1 June 2016 Edited by Giorgio Bonamente Roberto Cristofoli Carlo Santini
ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO - ASSISI
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© 2018 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher.
Cover picture: Assisi, Domus del Lararium. Oecus, parete Nord, pinax con scena degli sposi.
Ha dato la sua generosa collaborazione il socio Arnaldo Manini in segno del comune affetto per Roberto
ISBN: 978-2-503-58125-5 e-ISNB: 978-2-503-58126-2 DOI: 10.1484/M.SPL-EB.5.115909 ISSN: 2565-9006 e-ISSN: 2566-011X D/2018/0095/166 Printed on acid-free paper
NON SOLO OMERO: IL MITO TROIANO IN PROPERZIO
SOMMARIO
Giorgio Bonamente Introduzione
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Donatella Porzi Prefazione
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Federica Bessone La ricezione dell’elegia properziana nell’opera di Stazio
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Mario Citroni I dedicatari di Properzio e il patronato letterario tra repubblica e principato
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Gian Biagio Conte Properzio ovvero la sincerità della finzione
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Rosalba Dimundo Non solo Properzio: il ruolo del personaggio maschile nel IV libro 107 Paolo Fedeli Properzio, da Assisi a Roma, e ritorno
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Luciano Landolfi Per exempla: amore elegiaco, matrimonio ed etica della famiglia in Properzio
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Mario Lentano La nuda rupe e il Tevere straniero. Roma prima dei suoi dèi
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Francesco Marcattili Due statue onorarie dall’area del ‘Tempio di Minerva’: Propaganda e culto imperiale ad Asisium
263
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SOMMARIO
Marc Mayer I Olivé La otra Cornelia, Cornelia Paulli Aemilii, notas sobre Propercio 4, 11: ¿un silencio culpable?
283
Paola Pinotti Da Properzio a Massimiano
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Carlo Santini Apollineo e dionisiaco nel viaggio finale di Properzio
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Helmut Seng Cosmologia e cosmogonia fra repubblica e principato. Q ualche approfondimento su Properzio III, 5
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Elisabetta Todisco Echi degli interventi augustei sul senato nel quarto libro delle elegie di Properzio (4.1.11-14) 387 Fabio Stok Riflessioni conclusive 411
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GIORGIO BONAMENTE Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio in Assisi
INTRODUZIONE
A nome di tutti i soci porgo il saluto ai partecipanti al XXI Convegno internazionale su Properzio, che si svolge mentre l’Accademia Properziana del Subasio celebra i suoi 500 anni di attività ininterrotta dalla sua fondazione. Un sodalizio di “Gentiluomini” e di “Uomini virtuosi” risulta infatti già costituito nel 1516 per discutere di filosofia e di letteratura; nel 1554, mentre si svolgevano le varie sessioni del Concilio di Trento, prese un nuovo nome, quello di Accademia de’ Desiosi (17 febbraio 1554). Gli accademici erano in grande parte prelati e nobili, i quali esprimevano con la nuova denominazione il loro ‘desiderio’ di cultura, di studio e di erudizione, avviando tra l’altro la ricerca di epigrafi di epoca romana e costituendo il primo nucleo della cospicua raccolta ora presente nel Foro. Non è mia intenzione ripercorrere una storia secolare, ben delineata in due volumi di Giuseppe Catanzaro (Storia dell’Accademia Properziana del Subasio, I-II, Assisi 2004), ma desidero segnalare che il lapidario di Assisi, accresciutosi nel corso di tre secoli a cura dell’Accademia, non solo è il più cospicuo in Umbria, ma è stato anche edito esemplarmente a cura di Giovanni Forni nel 1987 (Epigrafi lapidarie romane di Assisi. Catalogo regionale dei beni culturali dell’Umbria, n. 1, Perugia 1987) in concomitanza col suo monumentale studio sui Properzi (I Properzi nel mondo romano: indagine prosopografica, in “Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei”, Rendiconti s. VIII, 40, 1985, pp. 205-223). Ciò basti per indicare la continuità di interesse per la tradizione storica e culturale per il Poeta e la sua età e mi si conceda benevola attenzione se informo altresì che il V Centenario si apre 10.1484/M.SPL-EB.5.115910
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G. BONAMENTE
proprio con questo XXI Convegno e sarà celebrato con iniziative che si svolgeranno nell’arco di due anni, tra le quali segnalo la Mostra sulla ceramica umbra del ’900. Sperimentazione e Innovazione (16 luglio-31 ottobre 2016), il congresso internazionale su La maiolica italiana nel Rinascimento (9-11 settembre 2016), il convegno su Luoghi, figure e itinerari della restaurazione in Umbria (1815-1830). Nuove prospettive di ricerca (2-3 dicembre 2016). Nel 2017 è previsto il Convegno internazionale sul Tea tro sacro. Pratiche di dialogo tra religione e spettacolo, collegato alla Ia Rassegna del teatro del Sacro (8-10 settembre 2017). Chiedere a eminenti studiosi di varie università italiane e di quelle di Francoforte e Cambridge di riconsiderare Properzio tra repubblica e principato a quattro anni di distanza dal convegno su Properzio e l’età augustea: cultura, storia, arte, significa sollecitare ancora l’attenzione sul contesto storico come chiave interpretativa della sua poesia. Tenendo nel debito conto il rapido e tumultuoso trasformarsi di un’epoca di passaggio scandita dalla battaglia epocale di Azio, si può tornare sulla quaestio dell’adesione o meno di Properzio agli ideali augustei, pensando in termini di interazione con il nascente principato, al pari degli altri grandi poeti dell’età di Augusto. Nel giovane esponente dell’aristocrazia municipale di Assisi, vissuto a Roma in un arco di tempo che abbraccia sia la grande conciliazione politica del 27 a.C. sia la celebrazione del ‘nuovo secolo’ nel 17 a.C., non vanno pertanto presi in esame soltanto i tempi, quanto piuttosto la formazione e il linguaggio con cui divenne interprete raffinato e attento di un mondo in evoluzione. Dopo un quarantennio, la felice formulazione della ‘integrazione difficile’ può essere quindi riletta alla luce di una trama più fitta di studi prosopografici, di riscontri con atti della politica Augustea, nonché, in termini generali, di ulteriori riflessioni sul rapporto tra storia della cultura e potere conseguente alla scelta di una ‘politica per il consenso’. Aspetti non secondari sono anche costituiti da una migliore conoscenza della dinamica dei circoli letterari e, specificamente per il domi nobilis Properzio, del patronatus esercitato su di lui da un senatore di origine perugina come Volcacio Tullo. Un Convegno che si svolge a un anno di distanza dalla pubblicazione del grande Commento di Paolo Fedeli, Rosalba Dimundo e Irma Ciccarelli è destinato a fissare molti punti fermi per la 8
INTRODUZIONE
conoscenza del Poeta. Dal canto suo l’Accademia rivendica il merito di avere accolto con attenta partecipazione sin dall’esordio i ‘seminari’ biennali che, avviati nel 1976 con il primo Colloquium Propertianum, hanno assunto dal 1989, grazie a Francesco Della Corte, Paolo Fedeli, Antonino Scivoletto e Salvatore Vivona, la forma con la quale proseguono tutt’oggi. Secondo la tradizione il convegno avrà una seduta in una delle altre città legate alla storia di Properzio; nel 2016 è il turno del Comune di Cannara, nel cui territorio sono presenti i resti di Urvinum Hortense. È giunto il momento dei ringraziamenti a cominciare dalle autorità che hanno onorato le sedute del convegno: i Sindaci di Assisi e di Cannara, rispettivamente l’arch. Antonio Lunghi e l’avv. Fabrizio Gareggia, la Presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Umbria prof.ssa Donatella Porzi, S. E. Mons. Domenico Sorrentino, Arcivescovo della Diocesi di Assisi, Nocera Umbra e Gualdo Tadino, la dr.ssa Elena Calandra, Direttore della Soprintendenza archeologica dell’Umbria, il dr. Giuseppe Depretis, Presidente della Fondazione CariPerugia Arte. Un ringraziamento va poi al socio dell’Accademia Arnaldo Manini, che anche per il 2016 ha sponsorizzato le borse di studio per la partecipazione di giovani studiosi al convegno. Un vivo ringraziamento va infine ai componenti del Comitato scientifico proff. Roberto Cristofoli, Rosalba Dimundo, Paolo Fedeli, Giovanni Polara e Carlo Santini, unitamente ai componenti della Segreteria Maura Antognelli Ferrini, Monica Falcinelli e Gianfranco Chiappini. Al Vice-presidente Mario Ferrini un grazie particolare, per la condivisione di tutto il percorso organizzativo e per la grafica raffinata degli inviti e dei manifesti.
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DONATELLA PORZI Presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Umbria
PREFAZIONE
Lo svolgimento del ventunesimo Convegno internazionale di studi properziani ha messo al centro del dibattito temi salienti della personalità del grande poeta latino e del momento storico da lui vissuto. Le questioni legate ai modi di fare poesia nelle fasi cruciali del passaggio storico dalla Repubblica al Principato augusteo si riflettono, attraverso la figura di Sesto Properzio, fino a riverberarsi nell’atmosfera culturale nella quale oggi la letteratura sviluppa, specialmente in poesia, il suo diritto a esserci, a essere seguita, letta, recitata, ascoltata. Ci siamo convinti sempre più del fatto che questo messaggio in grado di attraversare i millenni e le civiltà si è generato da Assisi, anche se poi si è consolidato, ha avuto fortuna e riconoscimenti a Roma, lontano da quella area etrusca e umbra nella quale si è però conservato il calco dei dolori e delle esaltazioni amorose di Sesto Properzio. Un variegato spettro di contributi scientifici ha tessuto la trama della critica properziana, confermando antiche tesi e rinnovando altrettanto benemerite letture del poeta assisiate. Ne esce una figura di Properzio molto articolata, di un uomo fortemente conteso fra centro romano e periferia umbra, fra rispetto delle norme e trasgressione poetica, fra tradizioni ed elegia, fra opportunità da cogliere e libertà individuale da salvaguardare, fra antiche divinità e avvento di una nuova spiritualità. Un uomo, un poeta, dunque, molto moderno, che non si sarebbe mai tirato indietro nemmeno, vivendo ai nostri giorni, di fronte alle mille ambiguità di una società – come la nostra – votata al cinismo e molto spesso incapace di amare. Non sarebbe mai esistita, per Properzio, una colpa del singolo, uomo o donna, 10.1484/M.SPL-EB.5.115911
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D. PORZI
come quella del rifiuto di dispiegare l’amore sul mondo, finalità che, invece, a suo parere ci plasma proprio nel nostro venire al mondo. Q uello di Properzio, visto in quest’ottica d’amore totalizzante, è un messaggio così forte da rendere sublime e caritatevole qualunque attenzione possiamo riservare, con animo puro, agli altri che ci circondano o che ci ascoltano da lontano. È un messaggio molto semplice e universale, che costa sacrifici e rinunce – come Properzio stesso insegna con la sua biografia –, ma che è in grado di elevare lo spirito di chiunque sappia sentirne la freschezza, l’ardore, il disinteresse per qualunque altra cosa che non sia amore e pace. È un messaggio molto umbro, pagano fino al midollo, ma ugualmente vero e significativo anche oltre il tramonto del paganesimo. È un messaggio che, in quanto collocato all’origine dell’identità di questa terra umbra, siamo chiamati a fare nostro e a dispiegare nei nostri comportamenti pubblici e privati. In questo senso Properzio è all’origine di una catena di affetti e di sentimenti che, oltre il paganesimo, si allunga nella storia della civiltà cristiana e si dirama nelle vicende letterarie dei millenni in Umbria: Properzio ha avuto prosecutori in molti spiriti cristiani eletti del due-trecento e, in letteratura, in figure come Gio viano Pontano, fino ad arrivare alla comune istanza callimachea che ritroviamo nel perugino Sandro Penna. Properzio, Pontano e Penna formano la triade inesauribile della ricchezza lirica umbra nel corso di due millenni. L’indomani del ventunesimo Convegno molti progetti esaltanti possono nascere e dare frutti, nell’interesse prioritario della comunità assisiate e di quella regionale, intorno a Sesto Properzio. L’obiettivo più ambizioso, a mio avviso, rimane quello di divulgare la figura e le opere del grande poeta al di là del consesso degli eruditi e dello studio degli specialisti. L’opera dell’Accademia, in linea con una specchiata tradizione antica e recente, non mancherà – ne sono certa – di spendersi in questa direzione, fino a trovare riferimenti e interessi nello stesso Comune e in tutta la compagine intellettuale di Assisi, con benefiche ricadute nel campo stesso del turismo culturale, che non potrà non giovarsi del messaggio d’amore e di pace scritto da Sesto Properzio.
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FEDERICA BESSONE
LA RICEZIONE DELL’ELEGIA PROPERZIANA NELL’OPERA DI STAZIO
Q uarant’anni fa, in appendice a L’integrazione difficile, Antonio La Penna dedicava ai poeti flavi una pagina dei suoi Appunti sulla fortuna di Properzio e scriveva così: «L’età flavia, come si sa, conosce un nuovo amore per la poesia augustea, e Properzio è implicitamente un classico, di rilievo molto maggiore di quanto non appaia dall’accenno di Q uintiliano. In Marziale e in Stazio (non solo nelle Silvae, ma anche nella Tebaide) gli echi sono parecchi e significativi. Il poeta umbro è gustato non soltanto per la sua dolcezza, ma anche per la raffinatezza e l’audacia delle sue iuncturae». E ancora: «La presenza in Marziale e Stazio non può stupire, ma è notevole che essa si avverta anche in poeti solo epici, Silio Italico e Valerio Flacco, e nel primo molto più largamente che nel secondo».1 Per ognuno dei tre epici, La Penna portava un esempio: «Il legame ieiuno… sono con cui Properzio, felicemente audace, indica i latrati di Cerbero affamato è stato ripreso e raffinatamente rielaborato da Stazio, Thebais 12,170: tigridis Hyrcanae ieiunum murmur 2 […] Valerio Flacco è poeta raffinato e non meraviglia che egli abbia avvertito la bellissima e audace iunctura di Properzio, 4,8,8 sibila torquet (detto del serpente) e l’abbia persino arricchita in 7,525 s.: trepidantia torsit / sibila; più sorprendente La Penna 1977, 252-253. Prop. 4,5,3-4 nec sedeant cineri Manes, et Cerberus ultor / turpia ieiuno terreat ossa sono!; Stat. Theb. 12,169-170 non secus adflavit molles si quando iuvencas / tigridis Hyrcanae ieiunum murmur. L’unico commento di Pollmann 2004, ad loc. è: «The roaring of the tiger betrays her hunger»; cfr. invece Dimundo in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, ad loc. 1 2
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F. BESSONE
è vedere come Properzio abbia ispirato un verso dolcissimo anche a un poeta mediocre quale Silio: cfr. Prop. 3,15,33 litore sic tacito sonitus rarescit harenae con Silio Italico, 7,259 languentes tacito lucent in litore fluctus (dove una raffinata novità è la molle allitterazione con la l)».3 Da precursore dell’ondata di studi che ha portato alla riscoperta della poesia flavia, e da suo promotore, anche attraverso il lavoro degli allievi (Mario Citroni, Alessandro Perutelli, in tempi più recenti Marco Fucecchi e Laura Micozzi), La Penna guardava a questi poeti con occhio attento, e concedeva una certa raffinatezza persino al «mediocre» Silio – che pure, nei seminari pisani, confessava di non aver letto integralmente. Soprattutto, dimostrava un’attenzione per lo stile che rimane tuttora un desideratum della critica: mi pare sintomatico che, delle tre osservazioni citate, sia stata ripresa nei commenti solo quella su Valerio.4 Gli strumenti su cui La Penna poteva contare non erano molti: gli apparati di loci similes nelle edizioni critiche (la Teubner di Schuster-Dornseiff e, ancor prima, di Hosius); la Tabula poetarum qui Propertium aut imitati sunt aut saltem legerunt, nei Prolegomena di Enk all’edizione del I libro; le liste di paralleli negli articoli di Shackleton Bailey e di Fletcher, oltre a un contributo specifico di Colton, Influence of Propertius on Valerius Flaccus.5 Lo stesso La Penna, già autore di un De Martiale Propertii imitatore, sarebbe tornato isolatamente sul tema con la 3 Prop. 3,15,31-34 ac veluti magnos cum ponunt aequora motus, / Eurus ubi adverso desinit ire Noto, / litore sub tacito sonitus rarescit harenae, / sic cadit inflexo lapsa puella genu; Sil. 7,253-259 (reazione al discorso di Fabio) his dictis fractus furor et rabida arma quierunt, / ut, cum turbatis placidum caput extulit undis / Neptunus totumque videt totoque videtur / regnator ponto, saevi fera murmura venti / dimittunt nullasque movent in frontibus alas, / tum sensim infusa tranquilla per aequora pace / languentes tacito lucent in litore fluctus. Il rapporto speculare con la similitudine di Aen. 1,148-156 (Nettuno che placa le acque come un uomo politico, cfr. Littlewood 2011 ad loc.), per cui l’illustrandum virgiliano del calmarsi della tempesta viene riflesso qui nell’illustrans, è arricchito da un verso finale che lega la similitudine di Silio a quella di Properzio e ne varia l’immagine con un effetto di luce (quasi un ricordo del ritorno del sole in Virgilio). 4 Cfr. Perutelli 1997 a 7,525-526. 5 Schuster – Dornseiff 19582; Hosius 19222; Enk 1946, 59-69; Shackleton Bailey 1952, 313-320; Fletcher 1960; 1961; Colton 1964.
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LA RICEZIONE DELL’ELEGIA PROPERZIANA NELL’OPERA DI STAZIO
nota Sibila torquet (Prop. 4, 8, 8). Storia (tentata) di una callida iunctura.6 Q uarant’anni dopo, per chi voglia studiare i «Riflessi properziani sulla poesia dell’età flavia» (il titolo che mi era stato assegnato dagli organizzatori del convegno), la strada è più agevole, ma non troppo frequentata. Gli strumenti di ricerca, anche escludendo quelli digitali, sono incomparabili. Tutto Properzio si può leggere ora con l’ausilio di commenti monumentali, dettagliatissimi, e provvisti di indici pressoché infallibili; e anche i poeti flavi dispongono ormai di un discreto corredo di commenti, di qualità varia, in continua crescita (questi non sempre, purtroppo, con indici dei passi). Il rapporto coi modelli augustei, non solo in poesia, è un tema centrale della rinascita flavia di questi anni, e va da sé che osservazioni sparse su riprese properziane si possono trovare quasi ovunque in bibliografia (con questo voglio anche dichiarare i limiti della mia ricerca, che non è stata certo esaustiva). Invece, interventi mirati sulla ricezione di Properzio – a quanto ho potuto vedere – si contano sulle dita di una mano, e sono per lo più recentissimi: per Marziale, ad esempio, una nota di Canobbio, Marcella altera Cynthia in Marziale 12, 21, che fa seguito a uno studio su Marziale e la tradizione elegiaca latina; 7 per Valerio Flacco, un articolo di Heerink sulla ‘lettura metapoetica dell’Ila di Properzio’, divenuto ora un capitolo del suo libro su Ila; 8 per Stazio e Silio, accanto al saggio più ampio di Rosati (di cui riparleremo), Il modello di Aretusa (Prop. IV 3): tracce elegiache nell’epica del I sec. d.C., vi sono cenni isolati, ma importanti, in contributi come quello di Carole Newlands sul tema elegiaco di città e campagna in Silvae 3,5.9 Q uello che presento qui è uno studio non del tutto originale né del tutto diligente, risultato di una ricerca appassionata e incompleta: è un punto di partenza, più che di arrivo, ma quello che so è che varrebbe la pena proseguire. Ho limitato il campo, e ho scelto Stazio. Ho iniziato dal basso, per così dire, dagli indici dei commenti e dalle liste di paralleli; ho riflettuto sui passi già 8 9 6 7
La Penna 1955; 1979. Canobbio 2014; 2011. Heerink 2007; 2015. Rosati 1996; Newlands 2012.
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segnalati, mi sono imbattuta in qualche particolare che era sfuggito, ho cercato di collegare tra loro i dati – ed è stato come vedere emergere un disegno, quando si uniscono dei punti con una linea continua. Offro un primo saggio, molto parziale, di quello che si potrebbe fare, ma posso dire che di un fatto mi sono persuasa: Virgilio è il paradigma, Ovidio il modello onnicomprensivo, ma, per Stazio, Properzio è una voce spesso presente e sempre distinta, una parte cospicua in un rapporto con la poesia augustea che non si comprende se non nel suo complesso. La presenza di Ovidio è pervasiva, l’impronta della sua poetica più profonda, ma è spesso dietro al modello ovidiano che Stazio lascia intravedere o affiorare, qualche volta prevalere, la matrice properziana degli stessi testi di Ovidio, quasi in un contributo di storia letteraria. La ricezione di Properzio, come esponente del l’elegia, nelle varie opere di Stazio permette di osservare la diversa relazione di ognuna con questo genere letterario; la ripresa di formule properziane fa apprezzare l’elaborazione di uno stile teso, che ha una certa affinità di fondo con quello di Properzio; e la citazione di exempla mitici (spesso provocanti) riconosce l’autorevolezza della fonte e l’incisività delle sue formulazioni, mentre sposta l’accento su tratti compatibili col nuovo contesto. Un aspetto è notevole, e merita di essere valorizzato: programmi e recusationes properziani, con l’evidenza del loro linguaggio metaforico e la perentorietà delle loro posizioni, sono un riferimento costante, anche in senso polemico od orgogliosamente autoiro nico, per il nuovo posizionarsi del poeta professionale in un sistema dei generi profondamente trasformato. Anche l’elegia eziologica è aggiornata ai tempi: e la funzione civile del quarto libro di Properzio può diventare il modello inatteso di un’ezio logia privata, che celebra i destinatari delle Silvae ripensando in chiave leggera temi solenni della poesia augustea – un paradigma delle mutate condizioni della comunicazione letteraria nella società di età flavia.10
10 A quest’ultimo punto, appena accennato nella versione orale di questo contributo, ho dedicato uno studio a parte (Bessone c.d.s. a).
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LA RICEZIONE DELL’ELEGIA PROPERZIANA NELL’OPERA DI STAZIO
1. Stazio, Properzio e l’Elegia Properzio è presente anche in persona nella poesia di Stazio, come invitato virtuale alle nozze di Stella e Violentilla, in Silvae 1,2. A onorare l’unione del poeta elegiaco con la ricca vedova partenopea sono chiamati i poeti tutti, ‘ma soprattutto voi che al verso eroico sottraete l’ultimo piede’, sed praecipui qui nobile gressu / extremo fraudatis opus (vv. 250-251). Messo in ombra Gallo (evocato forse da carmina… digna),11 qui è Properzio che segue Callimaco e Fileta come primo nel canone degli elegiaci latini: 250
nunc opus, Aonidum comites tripodumque ministri,
diversis certare modis; eat enthea vittis
atque hederis redimita cohors, ut pollet ovanti quisque lyra. sed praecipui qui nobile gressu
extremo fraudatis opus, date carmina festis
digna toris. hunc ipse Coo plaudente Philitas
Callimachusque senex Vmbroque Propertius antro ambissent laudare diem, nec tristis in ipsis
Naso Tomis divesque foco lucente Tibullus. (Silv. 1,2,247-255)
Separati dal congiuntivo irreale, i poeti sono spartiti in due gruppi asimmetrici e Properzio sta accanto ai greci, ma ‘nel suo antro umbro’: ecco un omaggio elegante al ‘Callimaco romano’, il poeta che, nell’elegia 3,1, chiedeva a Callimaco e Fileta ‘in quale antro’ avessero composto insieme poesia tenue (dicite, quo pariter carmen tenuastis in antro?, Prop. 3,1,5), ma nella 4,1 proclamava la sua Umbria, Romani patria Callimachi (4,1,64). La rispettosa richiesta di permesso del terzo libro viene letta qui insieme all’autoproclamazione orgogliosa del quarto; Stazio commenta Properzio con Properzio e decreta così il successo del poeta: il suo primato italico e la raggiunta parità coi Greci.12
11 Cfr. Silv. 1,2,251-252 con Corn. Gall. fr. 2,6-7 Courtney ]..… tandem fecerunt c[ar]mina Musae / quae possem domina deicere digna mea. 12 Per l’arte allusiva che connota ognuno dei poeti con un richiamo alle rispettive opere, in particolare a contesti proemiali e programmatici, cfr. La Penna 1988; Hollis 1996, 58-59.
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Anche l’Elegia è presente alla festa: in carne e ossa, e, per l’occasione, ‘più alta del solito’ (celsior adsueto, Silv. 1,2,8), mentre si mescola alle Muse nascondendo la sua zoppia (alternum fultura pedem, 1,2,9). È la personificazione simbolica del genere letterario, interpretata da Rosati come un «richiamo all’ordine dell’elegia»: che viene riconciliata qui con l’ethos matrimoniale, svuotata della sua carica sovversiva, e resa infine socialmente rispettabile.13 Anche i versi di Properzio, qui, sono emendati. All’inizio, come un programma, la voce del poeta celebrante contrappone questo professus hymen (vv. 25-26) a ille solutus amor (v. 29), e, relegando nel passato l’amore irregolare e la poesia elegiaca di Stella, rinnega le convenzioni del genere poetico: d’ora in poi non più affanni e paure, né maldicenze o cattiva reputazione, niente più sospiri, clandestinità, porta chiusa, ianitor, lex o pudor a vietare gli incontri; la passione si è sottomessa alle leggi e ha morso il freno: 25 30 35
ergo dies aderat Parcarum conditus albo vellere, quo Stellae Violentillaeque professus clamaretur hymen. cedant curaeque metusque, cessent mendaces obliqui carminis astus, fama tace: subiit leges et frena momordit ille solutus amor, consumpta est fabula vulgi et narrata diu viderunt oscula cives. tu tamen attonitus, quamvis data copia tantae noctis, adhuc optas permissaque numine dextro vota paves. pone, o dulcis, suspiria, vates, pone: tua est. licet expositum per limen aperto ire redire gradu: iam nusquam ianitor aut lex aut pudor. amplexu tandem satiare petito (contigit) et duras pariter reminiscere noctes. (Stat. Silv. 1,2,24-37)
I versi 29-33 riscrivono a rovescio alcuni passi properziani. La fabula vulgi che ormai ‘si è consumata’ è la populi… fabula di cui Properzio dichiarava di non curarsi, purché la sua poesia fosse apprezzata dalla docta puella: me iuvet in gremio doctae legisse puellae, auribus et puris scripta probasse mea. Rosati 1999, 158-163.
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LA RICEZIONE DELL’ELEGIA PROPERZIANA NELL’OPERA DI STAZIO
haec ubi contigerint, populi confusa valeto fabula: nam domina iudice tutus ero. (Prop. 2,13a,11-14)
Stazio muta la prospettiva: anche qui scrivere elegia è esporsi alle dicerie della gente, anzi, del volgo – populi è rincarato con vulgi –, ma non che le chiacchiere non abbiano importanza: piuttosto, non hanno più ragione d’essere. L’elegia è cosa del passato, un’esperienza superata. E l’amore si è trasferito in una dimensione diversa, non più solo urbana,14 ma propriamente cittadina; qui non è il ‘popolo’, o il ‘volgo’, a ‘sparlare’ di quei baci, ma una comunità di cives a ‘vederli’, finalmente, in pubblico: et narrata diu viderunt oscula cives (Silv. 1,2,30).15 È l’élite sociale che si raccoglie intorno alla coppia illustre (e che costituisce il pubblico delle Silvae) a sancire, con la sua presenza alla cerimonia e la visione diretta, il carattere legittimo di quell’amore, consacrato ora dalle nozze. Stella, attonito, sospira ancora, desidera, teme, benché gli sia ‘concesso di godere di una notte così speciale’, quamvis data copia tantae / noctis (1,2,31-32): è la stessa matrice verbale della ‘notte’ rubata ‘concessa’ da Cinzia al rivale, in Properzio 3,8 (cui nunc si qua data est furandae copia noctis, Prop. 3,8,39); ma per Stella non ci saranno più furti, risse o rivali: questa notte così importante, unica (tanta nox), segna la fine di tante notti furtive dell’elegia. Persino nella poesia minore delle Silvae, il genere dell’elegia erotica può essere guardato come dall’alto in basso. Eppure, tutta la poesia di Stazio dialoga con l’elegia, dall’epica ambigua del l’Achilleide – che non esisterebbe senza le Heroides e l’Ars amatoria, oltre che le Metamorfosi di Ovidio – al discorso sublime della Tebaide. Nel poema delle fraternae acies (Theb. 1,1) – gli stessi 14 In Properzio cfr. anche 2,24a,1-2 ‘Tu loqueris, cum sis iam noto fabula libro / et tua sit toto Cynthia lecta foro?; 5-7 quod si iam facilis spiraret Cynthia nobis, / non ego nequitiae dicerer esse caput, / nec sic per totam infamis traducerer urbem. Cfr. Hor., Epod. 11,7-8 heu me, per urbem (nam pudet tanti mali) / fabula quanta fui. 15 Narrata rimanda inoltre a Ov., Am. 3,1,17-22 (parla Tragoedia) nequitiam vinosa tuam convivia narrant, / narrant in multas compita secta vias. / saepe aliquis digito vatem designat euntem / atque ait ‘hic, hic est, quem ferus urit Amor’. / fabula, nec sentis, tota iactaris in Urbe, / dum tua praeterito facta pudore refers’ (cfr. le parole di Elegia in 53-54 vel quotiens foribus duris infixa pependi / non verita a populo praetereunte legi!).
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armaque fraternae tristia militiae cantati da Pontico in Properzio (1,7,2) –, il registro elegiaco è una presenza non rara: è un controcanto frequente al furore di guerra, che si fa sentire soprattutto nelle scene di addio; una coloritura contrastata della voce femminile, e talora un’incrinatura di quella maschile (nelle esitazioni dei guerrieri); o, all’opposto, è la cifra paradossale di un desiderio di potere che ha i tratti del furor erotico.16 Un solo esempio, già noto, può mostrare come la ricezione di Properzio sia profonda e attenta in tutte e tre le opere di Stazio, e come uno stesso modello erotico-elegiaco sia ripensato in forme diverse secondo i contesti, configurando un diverso rapporto di ogni opera con questo genere poetico – ogni volta con una traccia distinta del testo properziano. Il lavoro citato di Rosati (1996), dopo quelli sull’Achilleide, ha aperto una strada agli studi in varie direzioni: i rapporti tra epica post-virgiliana ed elegia augustea, il ruolo della voce femminile nell’epos, la ricezione combinata delle Heroides di Ovidio e del loro archetipo properziano. Il lamento di Deidamia nell’Achilleide è un’Eroide in esametri, la protesta di una relicta che piange la separazione dall’amato a causa della guerra: una replica di Aretusa e Laodamia, senza le punte estreme dell’antimilitarismo elegiaco. C’è un punto in particolare in cui Deidamia duetta con Aretusa:17 «La giovane sposa piange fra le braccia di Achille […] la delusione di quelle nozze tanto bramate che tuttavia non sono valse a trattenere nemmeno per un po’ il legittimo sposo presso di lei ([…] thalamis haec tempora nostris? / hicne est liber hymen? […], 1,936 ss. […]); con accenti molto simili a quelli con cui l’Aretusa di Properzio […] lamentava il forzato distacco da Licota […] e la delusione delle speranze riposte nel matrimonio: haecne marita fides et pactae in gaudia noctes […] ?, Prop. 4,3,11 s. […]».18 Nella Tebaide l’eroina che si misura col modello di Aretusa è Argia, la sposa di Polinice, stretta in una contraddizione tragica tra l’amore per lo sposo e la scelta della guerra; qui è una sentenza sulla forza dell’amore coniugale che segna la ripresa e la distanza da 16 Cfr. Bessone 2002; c.d.s. d; e; Micozzi 2002; Briguglio 2017a; 2017b, 48-62. 17 Cito Rosati 1994, 43-44 e 48-49. 18 Rosati accetta qui l’emendamento di Rothstein, pactae in gaudia, sostenuto anche dalla ripresa in Theb. 5,72 (Ipsipile) ‘nullae redeunt in gaudia noctes’.
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Properzio: Theb. 3,704-705 ‘nescis, pater optime, nescis / quantus amor castae misero nupsisse marito…’; la richiesta al padre Adrasto della guerra contro Tebe, in nome dell’amore per uno sposo ‘sventurato’, piega in senso paradossale la sentenza di Aretusa, che era pronunciata in un contesto antimilitarista, subito dopo il sogno di accompagnare il marito nella guerra detestata (Prop. 4,3,49 omnis amor magnus, sed aperto in coniuge maior).19 Infine, Silvae 5,1, l’epicedio per Priscilla, moglie del liberto Abascanto, elogia una donna che avrebbe voluto seguire il marito in guerra, se le leggi dell’accampamento romano lo avessero consentito; 20 l’ipotesi irreale et, si castra darent, vellet gestare pharetras, / vellet Amazonia latus intercludere pelta… (Silv. 5,1,130131) è una trascrizione per voce autoriale del desiderio di Aretusa in Prop. 4,3,45-46, Romanis utinam patuissent castra puellis! / essem militiae sarcina fida tuae,21 con la stessa aspirazione al ruolo di Amazzone (là Hippolyte, v. 43, qui Amazonia… pelta).22 Ma, nel contesto delle Silvae, il motivo elegiaco si trasforma – letteralmente, sotto i nostri occhi – in qualcosa di diverso: diventa un veicolo dell’encomio imperiale, che da Priscilla si sposta sul marito, il potente liberto di Domiziano; e sposta il baricentro sintattico sulla chiusa del periodo, la restrittiva introdotta da dum: …dum te pulverea bellorum nube videret / Caesarei prope fulmen equi divinaque tela / vibrantem et magnae sparsum sudori Su questo, e sulla ripresa della sentenza in Ovidio, Lucano e Silio, cfr. Bessone 2011, 202-203 e n. 3, con bibliografia. 20 Silv. 5,1,127-134 parva loquor: tecum gelidas comes illa per Arctos / Sarmaticasque hiemes Histrumque et pallida Rheni / frigora, tecum omnes animo durata per aestus… (i vv. 130-134 sono citati nel testo); cfr. 66-70 quodsi anceps metus ad maiora vocasset, / illa vel armiferas pro coniuge laeta catervas / fulmineosque ignes mediique pericula ponti / exciperet. melius, quod non adversa probarunt / quae tibi cura tori, quantus pro coniuge pallor. 21 Cfr. anche vv. 43-44 felix Hippolyte! nuda tulit arma papilla / et texit galea barbara molle caput; 47-48 nec me tardarent Scythiae iuga, cum Pater altas / astricto in glaciem frigore vertit aquas. 22 Si veda inoltre il motivo topico della disponibilità ad affrontare, tra i pericoli, anche il freddo (in Properzio glaciem, frigore, in Stazio gelidas, frigora): un elemento del ‘modello di Aretusa’ che risale al ‘motivo di Fedra’ come già declinato da Gallo in Verg., Ecl. 10,46-48 ‘tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum) / Alpinas, a! dura nives et frigora Rheni / me sine sola vides’ (cfr. 22-23 ‘tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secuta est’). I versi di Virgilio, che Servio dice vicinissimi a quelli di Gallo stesso, sono ben presenti a Stazio (cfr. Silv. 5,1,128-129 Rheni / frigora). 19
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bus hastae (Silv. 5,1,132-134). La frase, che si è aperta celebrando l’eroica fedeltà della moglie al marito, culmina esaltando la lealtà eroica del funzionario all’imperatore: le tensioni del modello elegiaco properziano sono superate, in questo elogio di una coppia esemplare per la fides, coniugale e imperiale.
2. Esercizi di stile, visioni di bellezza, poetica dell’ambiguità Le tracce verbali, più visibili, di Properzio nell’opera di Stazio non sono associate solo ai motivi erotici. È l’esercizio dello stile che fa delle sue elegie, nel loro insieme, una riserva di gioielli espressivi sfruttata dalla Tebaide alle Silvae.23 Il ‘ruggito digiuno della tigre ircana’, che imita il ‘verso del digiuno’ di Cerbero, è solo una delle iuncturae audaci che Stazio ha tolto a Properzio. Nel proemio della Tebaide, le immagini di morte non vengono tutte dall’epica o dalla tragedia: ‘le città svuotate da morte vicendevole’, egestas alternis mortibus urbes (Theb. 1,37), ricordano gli ‘accampamenti greci’ che Apollo ‘svuotò con avidi roghi’ in Properzio 4,6; è l’Apollo – dal volto omerico – della prima parte dell’elegia, quello che guida la nave di Augusto alla vittoria di Azio: Prop. 4,6,31-34 non ille attulerat crines in colla solutos / aut testudineae carmen inerme lyrae, / sed quali aspexit Pelopeum Agamemnona vultu / egessitque avidis Dorica castra rogis.24 Tutto l’effetto è affidato qui all’espressività del verbo, egerere: e, per questo, Stazio ha fatto ricorso alla resa properziana dell’inizio dell’Iliade. Più avanti Giove, adirato contro la casa di Edipo, elenca i misfatti che sta per punire: Theb. 1,233-235 ‘scandere quin etiam thalamos hic impius heres / patris et inmeritae gremium incestare parentis / appetiit, proprios (monstrum!) revolutus in ortus’. Scandere thalamos è un nesso straordinario, che identifica il letto con il 23 Non solo la combinazione verbale ardita, ma anche l’attacco efficace di un’elegia può sollecitare la creatività di Stazio: su Silv. 1,4,1-2 Estis, io, superi, nec inexorabile Clotho / volvit opus e Prop. 4,7,1 Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit (la guarigione di Rutilio Gallico e l’apparizione di Cinzia come prove del l’esistenza di entità soprannaturali) cfr. Henderson 1998, 126 n. 95 e Pittà 2016, ad loc. 24 Il distico successivo presenta Apollo vincitore di Pitone: vv. 35-36 aut qualis flexos solvit Pythona per orbis / serpentem, imbelles quem timuere lyrae.
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trono, l’unione nuziale con l’ascesa politica, l’incesto con la scalata al potere. Stazio ha avvertito tutta la potenza delle parole di Tazio a Tarpea, nel suo invito sarcastico mentre la uccide: Prop. 4,4,8990 ‘nube’ ait ‘et regni scande cubile mei!’. L’ambizione empia di Tarpea è modello di quella di Edipo. Ma Stazio è andato più in là di Properzio: ha soppresso regni e ha giocato tutto sulla pregnanza di scandere: il verbo della salita al trono (scandit… solium è in Theb. 11,654-655) o della scalata dei Giganti al regno celeste (come in Hor. carm. 2,19,21-22 tu, cum parentis regna per arduum / cohors Gigantum scanderet impia). Un verbo che, da solo, qualifica Edipo come impius heres / patris – in ogni senso. Nel settimo libro, Polinice abbraccia Giocasta tra lacrime di gioia, attirandosi il suo rimprovero: Theb. 7,498-499 ‘quid colla amplexibus ambis / invisamque teris ferrato pectore matrem?’. Smolenaars (1994, ad loc.) osserva che «tero è scelto apposta per la sua crudezza», rimanda a Adams (1982, 183) per la valenza sessuale, e confronta per il nesso Prop. 3,20,6 forsitan ille alio pectus amore terat.25 Il realismo di terere, con il suo sapore erotico, è sfruttato da Properzio anche nelle parole dell’ombra di Cinzia in 4,7,93-94 ‘nunc te possideant aliae; mox sola tenebo, / mecum eris et mixtis ossibus ossa teram’; in quest’ultimo passo, il poliptoto ossibus ossa dichiara la matrice epica dell’immagine, che risale a Ennio (Ann. 584 Sk. premitur pede pes atque armis arma teruntur) e, attraverso di lui, a Omero.26 Stazio restituisce alla funzione originaria il senso ostile del verbo, legato alla sfera delle armi, ma di Properzio conserva la connotazione erotica, che nei passi elegiaci veniva rafforzata proprio dalla concretezza realistica e dalla matrice militare dell’espressione. Smolenaars commenta così il
25 Tratti di linguaggio erotico elegiaco di specifica marca properziana sono usati per i pueri delicati nelle Silvae: analoga ripresa (sia pure in senso figurato) di un nesso dalla carica erotica in Silv. 2,1,206-207 pectora blandus / miscet et alternum pueri partitur amorem, per cui cfr. Prop. 4,7,19-20 pectore mixto / fecerunt tepidas proelia nostra vias (con Dimundo, in Fedeli – Dimundo – Ceccarelli 2015, ad loc.); inoltre, nel v. 45 blandis ubinam ora arguta querelis…? sembra affiorare la memoria di Prop. 1,16,13-16 haec inter gravibus cogor deflere querelis / supplicis a longis tristior excubiis. / ille meos numquam patitur requiscere postis, / arguta referens carmina blanditia (e cfr. al v. 44 ingenui crines, un paradosso per uno schiavo, con Prop. 1,4,13 ingenuus color, per cui si veda Fedeli 1980 ad loc.). 26 Cfr. Dimundo in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, ad loc.; Harrison 1991 a Verg., Aen. 10, 360-361.
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verso della Tebaide: «Again Jocasta stresses her son’s insincerity by pointing out the paradox of his armoured embrace». Ma c’è di più. Q ui siamo nel mito tebano, e questo non è solo un abbraccio tra una madre e un figlio. La sfumatura sessuale, esaltata dalla memoria properziana, ha qui un ruolo chiave: è parte di una strategia poetica che, nei rapporti tra i figli di Edipo e la madre, replica ossessivamente l’immagine dell’incesto. Con il properziano terere, Stazio riproduce l’effetto che Seneca ricercava con coire in un’immagine simile delle Phoenissae (Sen. Phoen. 469-470 maternum tuo / coire pectus pectori clipeus vetat).27 Altri esempi si potrebbero trarre dalla Tebaide, ma ne aggiungo uno soltanto dall’Achilleide, che mostra la sensibilità alle immagini elegiache di bellezza femminile, disponibili ad essere reimpiegate per il fascino degli efebi; nello stesso passo, è col linguaggio programmatico properziano che Stazio annuncia la futura grandezza epica di Achille. Insieme a Ovidio – in misura minore, ma con pari efficacia – anche Properzio fornisce i materiali per la ‘poetica del l’ambiguità’ di cui è fatta l’Achilleide.28 Con un abile montaggio, l’apparizione di Achille, di ritorno dalla caccia, interrompe le parole di Chirone sul verbo vidi. Il maestro ha da poco aggiornato la madre Tetide sui progressi allarmanti del fanciullo, la cui ‘forza precoce prepara qualcosa di grande e supera la sua tenera età’, ‘nescioquid magnum… / vis festina parat tenuesque supervenit annos’ (1,147-148): un annuncio del destino omerico dell’eroe, modellato sull’annuncio properziano dell’Eneide, nescioquid maius nascitur Iliade (Prop. 27 Interessante, infine, il riuso di un nesso properziano nell’insulto di Ippomedonte ai nemici in Theb. 9,300 ‘ibitis aequoreis crudelia pabula monstris’. Il motivo epico del guerriero dato in pasto ai pesci (Hom., Il. 21,120-127; Verg., Aen. 10, 557-560) è rinnovato col ricordo dell’intera sequenza di apertura di Prop. 3, 7, «a poem clearly much in Statius’ mind here» (Dewar 1991 ad loc.). Là l’uso figurato di crudelia pabula (v. 3), per l’allettamento che la pecunia offre ai vizi degli uomini, ne anticipa la conseguenza concreta, l’immagine di Peto, affogato durante un viaggio commerciale, come piscibus esca (v. 8). Stazio, oltre a introdurre un’iperbole fantastica (aequoreis… monstris), ha innovato l’immagine epica con il nesso properziano reso pregnante dall’enallage (cfr. Fedeli 1985 ad loc.), leggendo insieme i due punti tra loro legati dell’elegia (l’uomo attirato dai crudelia pabula che diventa a sua volta piscibus esca) e scegliendo, tra le due, l’espressione meno scontata. 28 Vedi infra, § 3, sull’Ercole properziano come modello di travestitismo per Achille.
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2,34,66).29 E il Centauro ha appena evocato, per analogia, i giovani eroi Ercole e Teseo, che aveva visto un tempo (1,156-158 ‘olim equidem, Argoos pinus cum Thessala reges / hac veheret, iuvenem Alciden et Thesea vidi – / sed taceo’). Il giovane Achille, grazie alla sequenza narrativa, sovrappone letteralmente la sua immagine a quella degli eroi più grandi e integra così, con l’azione, le parole del maestro, troncate dall’aposiopesi. È ora attraverso gli occhi di Tetide che noi lettori vediamo per la prima volta il giovane eroe. La prima descrizione della sua figura non è solo una presentazione programmatica della sua ambiguità, ma è un pezzo di scrittura empatetica in equilibrio fra le sensazioni di spavento e di dolcezza alla vista provate dalla madre, che è qui la focalizzatrice del racconto: figit gelidus Nereida pallor: ille aderat multo sudore et pulvere maior, et tamen arma inter festinatosque labores dulcis adhuc visu: niveo natat ignis in ore purpureus fulvoque nitet coma gratior auro. necdum prima nova lanugine vertitur aetas, tranquillaeque faces oculis et plurima vultu mater inest, qualis Lycia venator Apollo cum redit et saevis permutat plectra pharetris.
(Ach. 1,158-166) Maior (v. 159) conferma le parole di Chirone e comunica una suggestione inquietante di imponenza; dulcis, gratior (vv. 161162) esprimono una sensazione di tenerezza e di gradevolezza alla vista. ‘Grandezza’ eroica e ‘dolcezza’ femminea si mescolano nel ritratto che si presenta agli occhi e al cuore di Tetide e che, per lei come madre, è allo stesso tempo inquietante e commovente. Nel contempo, per il lettore, le associazioni elegiache ed epiche delle immagini e del lessico segnalano i due principali codici letterari a cui il testo dell’Achilleide fa riferimento: le ‘fiaccole tranquille negli occhi’ di Achille (tranquillaeque faces oculis, 1,164) richiamano le geminae faces degli occhi di Cinzia in Properzio (Prop. 2,3a,14 non oculi, geminae, sidera nostra, faces) e antici29 Il passo properziano è aggiornato da Stazio nel l’elogio di Lucano in Silv. 2,7,75-80: cfr. Newlands 2011, ad loc. (e al v. 108 per la ripresa di Prop. 3,1,9).
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pano, per contrasto, il bagliore feroce degli occhi di Achille nel l’Iliade (Hom. Il. 19,365-366 τὼ δέ οἱ ὄσσε / λαμπέσθην ὡς εἴ τε πυρὸς σέλας). Nell’aspetto ambiguo dell’eroe si mescolano una bellezza efebica, quasi femminea, e l’annuncio di un futuro da guerriero; il risultato è un ossimoro, che richiama il paradigma del capo carismatico: un connubio ideale di mitezza e di vigore.30 Infine. Anche il tratto più ricercato della descrizione di Achille sembra suggerito da Properzio. Sono i versi 1,161-162 niveo natat ignis in ore / purpureus, ‘sul volto di neve nuota un fuoco di porpora’. Ai contrasti netti, tradizionali in contesti come questo (colore niveo e purpureo, neve e fuoco), si aggiunge qui una metafora ossimorica, il ‘fuoco’ che ‘nuota’, con l’idea implicita di una fiamma che scioglie la neve in acqua e vi ‘fluttua’ dentro – a esprimere una visione cangiante e una lotta tra elementi incompatibili. L’inedita metafora, è stato osservato,31 reca il ricordo di una doppia similitudine per la bellezza di Cinzia, dove al contrasto tra neve e porpora si accosta l’immagine dei petali di rosa che ‘nuotano’ nel latte (natant): nec me tam facies, quamvis sit candida, cepit (lilia non domina sint magis alba mea; ut Maeotica nix minio si certet Hibero utque rosae puro lacte natant folia)... (Prop. 2,3a,9-12)
Può sembrare difficile sfidare una tale preziosità; ma Stazio vi è riuscito, e col nata[n]t di Properzio ha trasformato il ‘vecchio’ motivo del fuoco in una novità assoluta.
3. Exempla mitici, elegia ed eros L’incisività di espressioni e immagini di Properzio sollecita la memoria di Stazio anche nella formulazione degli exempla mitici, in cui il formato compatto favorisce la pregnanza espressiva; e la configurazione elegiaca di storie e personaggi del mito offre ai 30 Si veda La Penna 2000, 128-129; sul paradigma di Alessandro Magno sono modellati il ritratto di Domiziano nelle Silvae e quello di Scipione Africano nei Punica. Cfr. Bessone c.d.s. b. 31 Cfr., oltre a Uccellini 2012 ad loc., Chinn 2015, 183-184.
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diversi contesti della sua poesia modelli eroici ridotti di sublimità, o paradigmi sensuali di cui ridurre le punte erotiche. Ercole che fila la lana al servizio di Onfale è per Teti un buon precedente da citare per convincere Achille a travestirsi da donna; è il primo, e il più calzante, dei quattro exempla che la dea propone al figlio, e prefigura l’innamoramento per Deidamia: Ach. 1,260-261 ‘si Lydia dura / pensa manu mollesque tulit Tirynthius hastas…’. Q ui viene espanso in un verso e mezzo un pentametro di Properzio che oppone le ‘molli lane’ alla ‘dura mano’ dell’eroe: Prop. 3,11,17-20 Omphale in tantum formae processit honorem, / Lydia Gygaeo tincta puella lacu, / ut, qui pacato statuisset in orbe columnas, / tam dura traheret mollia pensa manu. Stazio sposta la clausola pensa manu in incipit, la fa anticipare da dura, con enjambement, e riferisce mollis alle ‘aste’ – un’immagine supplementare, che anticipa il tirso agitato da Achille nelle danze femminili e nel rito bacchico, cornice dello stuprum.32 La quasicitazione, che sfrutta l’efficacia di una formulazione memorabile, funziona inoltre, nella retorica persuasiva di Teti, come richiamo all’autorità del testo properziano. In Properzio l’effetto di contrasto tra durezza virile, in particolare delle mani, e mollezza femminea è sfruttato anche da Ercole stesso nell’elegia 4,9, nelle parole con cui l’eroe exclusus tenta di persuadere le puellae chiuse nel santuario della Bona Dea, rivendicando il proprio passato femminile dopo aver vantato la propria identità eroica (Prop. 4,9,47-50 ‘idem ego Sidonia feci servilia palla / officia et Lydo pensa diurna colo, / mollis et hirsutum cepit mihi fascia pectus / et manibus duris apta puella fui’). A quel l’effetto di contrasto ricorre anche lo stesso Achille, nelle parole con cui consola Deidamia dopo la violenza, contrapponendo alla propria figura di eroe, allevato tra selve e nevi della Tessaglia, il ruolo femminile abbracciato esclusivamente per amore della puella (Ach. 1,654-655 ‘tibi pensa manu, tibi mollia gesto / tympana’). L’orgogliosa autocoscienza eroica, espressa nell’identica formula ille ego [sum],33 è esibita da Ercole e Achille con uguale finalità Cfr. Uccellini 2012, ad loc. Cfr. Prop. 4,9,37-41 ‘audistisne aliquem tergo qui sustulit orbem? / ille ego sum! Alciden terra recepta vocat. / quis facta Herculeae non audit fortia clavae / et numquam ad vastas irrita tela feras, / atque uni Stygias homini luxisse tenebras?’ 32
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autopromozionale, ma con accenti diversi: per Achille travestito è la rivelazione di un’identità virile che deve paradossalmente rassicurare la vittima della violenza (‘ille ego (quid trepidas?)…’, Ach. 1,650); per Ercole è il vanto di un’identità minacciosa, da sostituire col ricordo rassicurante dei propri trascorsi femminili (‘sin aliquam vultusque meus saetaeque leonis / terrent et Libyco sole perusta coma…’, Prop. 4,9,45-46). Un rapporto più profondo lega i due eroi,34 le loro storie parallele di travestitismo per amore,35 e gli episodi speculari in cui entrambi sfidano il divieto di violare uno spazio sacro riservato alle donne – con esito opposto. Tutta la scena del rito bacchico nel bosco, a cui Achille partecipa in vesti femminili, confondendosi tra le fanciulle e ridendo tra sé dei moniti della sacerdotessa (Ach. 1,593-602), ricorda scenario e sceneggiatura di Properzio 4,9 e ne ricalca la forma dell’espressione (cfr. lucus… nemus, lex, inaccessum viris, sacerdos, femineo con lucus… nemus, femineae, sacerdos, interdicta viris, lege); 36 ma Stazio ‘corregge’ il modello, sostituendo all’inutile ricordo del travestimento il travestimento in atto, che si rivela espediente più efficace e garantisce il successo all’eroe. Le riprese puntuali dal testo properziano sono la traccia verbale di interessi letterari comuni: il gusto per miti di travestitismo, per una fluidità di genere sessuale che diventa fluidità di genere poetico, e per sperimentazioni sulle forme letterarie al confine tra dimensione epico-eroica ed erotico-elegiaca.37 con Ach. 1,650-652 ‘ille ego (quid trepidas?) genitum quem caerula mater / paene Iovi silvis nivibusque inmisit alendum / Thessalicis…’. 34 Per Ercole come modello eroico di Achille cfr. Ach. 1,156-157 (parole di Chirone) e 188-190 (canto di Achille). 35 Sull’interpretazione romantica del mito di Ercole e Onfale in elegia (come servitium amoris) cfr. Uccellini 2012 a 1,260-261. 36 Cfr. Ach. 1,593-594 lucus Agenorei sublimis ad orgia Bacchi / stabat et admissum caelo nemus e 598-602 lex procul ire mares: iterat praecepta verendus / ductor, inaccessumque viris edicitur antrum. / nec satis est: stat fine dato metuenda sacerdos / exploratque aditus, ne quis temerator oberret / agmine femineo; tacitus sibi risit Achilles con Prop. 4,9,23-26 sed procul inclusas audit ridere puellas, / lucus ubi umbroso saepserat orbe nemus, / femineae loca clausa Deae fontesque piandos, / impune et nullis sacra retecta viris… e 51-56 talibus Alcides; at talibus alma sacerdos, / puniceo canas stamine vincta comas: / ‘parce oculis, hospes, lucoque abscede verendo! / cede agedum et tuta limina linque fuga! / interdicta viris metuenda lege piatur / quae se summota vindicat ara casa’. 37 Per questa implicazione del rapporto tra l’Achilleide e il quarto libro di Properzio cfr. Uccellini 2012 a 1,260-261.
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Altrove in Stazio il tenore erotico dei quadri properziani viene opportunamente smorzato. A proposito dell’exemplum di Achille in Silvae 4,4, per l’otium che ritempra le forze, Rossella Corti, in un articolo importante, ha osservato in nota un contatto con Properzio.38 Nell’epistola, Stazio esorta Vitorio Marcello a sottrarsi alle curae e all’assiduus labor nella stagione estiva, con gli esempi diatribici del Parto che allenta l’arco e dell’auriga che fa riposare i cavalli, e con l’esempio inedito della propria cetra che si allenta; quindi aggiunge l’esempio di Achille che suona la lira: un paradigma di alternanza tra fatica e riposo impiegato anche in Valerio Massimo e nella Laus Pisonis,39 ma che il poeta flavio arricchisce col dettaglio del canto d’amore per Briseide, in una formulazione che tiene conto di Properzio: Silv. 4,4,35-36 talis cantata Briseide venit Achilles / acrior et positis erupit in Hectora plectris. «Stazio concede all’otium dell’eroe omerico anche il piacere dell’amore», nota la Corti; dell’amore, o, forse meglio, del canto d’amore: l’eroe sembra colto, non nell’intimità con la schiava, alternata alle fatiche in armi, ma nella lunga pausa che lo tiene lontano dalla guerra, irato per la sottrazione di Briseide; è ‘l’ira di Achille’, appunto, dopo la quale l’eroe torna più temibile in battaglia e uccide Ettore in duello.40 Stazio corregge qui uno degli exempla con cui Properzio, nel l’elegia 2,22a, dimostra che l’amore non consuma le forze, comprovando così che lui stesso è capace di amare più donne senza che il suo officium venga meno: Prop. 2,22a,29-30 quid? cum e complexu Briseidos iret Achilles, / num fugere minus Thessala tela Phryges? Guerriero e amante, l’Achille elegiaco alterna le battaglie al sesso, e si slancia direttamente dall’amplesso con Briseide allo scontro coi Troiani. Rientrando nei ranghi rispetto alla provoca38 Corti 1991, 212 n. 58; la segnalazione era già in Enk 1946, 63. Per altre tracce verbali cfr. Silv. 4,4,33-37 vires instigat alitque / tempestiva quies… venit… acrior con Prop. 2,22a,27-28 nec… languens… venit: / nullus amor vires eripit ipse suas. 39 Val. Max. 8,8 ext. 2; Laus Pis. 169-177, su cui cfr. Di Brazzano 2004, ad loc. 40 Stazio reinterpreta l’immagine omerica di Achille che, nella tenda, canta sulla lira i klea andron (Hom. Il. 9,189): per le diverse interpretazioni critiche e riletture poetiche della scena omerica cfr. Rosati 1999, 147-152; Fantuzzi 2012, 133-139; 160 n. 47 («Statius seems to interpret Achilles’ music not as consolatory but as restorative – a respectable form of relaxation which reinstated Achilles to military efficacy, if not violence»).
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zione properziana, Stazio fa sua la reinterpretazione romantica, postomerica, della relazione fra Achille e Briseide, ma offre una versione castigata dell’exemplum, che viene adattato al destinatario e all’intento del contesto: illustrare il principio maior post otia virtus a un patrono impegnato nell’attività politica e militare. Sostituendo il canto d’amore in assenza di Briseide all’esercizio dell’amore con lei, entro la stessa matrice formale (cantata Briseide venit Achilles al posto di e complexu Briseidos iret Achilles), il poeta delle Silvae esibisce, anche qui, un ‘richiamo all’ordine’ del l’elegia;41 al tempo stesso, offre a Vitorio Marcello un indizio sul progetto e sulla composizione dell’Achilleide, l’impresa epica in cui è attualmente impegnato, come ricorda più avanti al patrono (Troia quidem magnusque mihi temptatur Achilles, v. 94): un epos il cui protagonista, nella parte che possediamo, deve molto all’Achille della tradizione erotico-elegiaca latina.42 In qualche caso la rilettura di un exemplum properziano rivela in Stazio una particolare audacia. L’elegia 3,14 esalta l’uso delle ‘palestre’ e dei ginnasi femminili di Sparta (multa tuae, Sparte, miramur iura palaestrae, / sed mage virginei tot bona gymnasii, vv. 1-2), in cui le donne si esercitavano nude fra gli uomini, e lo illustra col paradigma mitico di Elena che, a seno nudo e senza arrossire, imbracciava le armi tra i fratelli Castore e Polluce, impegnati negli allenamenti in riva all’Eurota: Prop. 3,14,17-20 qualis et Eurotae Pollux et Castor harenis, / hic victor pugnis, ille futurus equis, / inter quos Helene nudis capere arma papillis / fertur nec fratres erubuisse deos. In Silvae 4,8 Stazio si congratula con Giulio Menecrate per la nascita del terzo figlio, che si aggiunge a un maschio e a una femmina, ed elogia la varietà della prole illustrandone i pregi con una doppia similitudine: quella con la piccola Elena, che, già degna delle ‘palestre’ di Sparta (patria di sua madre Leda), gattonava in mezzo ai due fratelli nello splendore della sua bellezza infantile; e quella con due stelle che splendono intorno alla luna (un raffinato ricordo della definizione oraziana dei Dioscuri in carm. 1,3,2 sic fratres Helenae, lucida sidera). Il passo armonizza suggestioni 41 Stazio avrà tenuto presente anche Prop. 2,8,37-38 at postquam sera captiva est reddita poena, / fortem illum Haemoniis Hectora traxit equis, oltre a Ov., Am. 1,9,33-34. 42 Sull’immagine di Achille, nuovamente citato come exemplum per la fedeltà nell’amicizia dimostrata a Patroclo, si chiude il componimento (vv. 104-105).
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diverse in un insieme originale: Stat., Silv. 4,8,25-31 macte quod et proles tibi saepius aucta virili / robore, sed iuveni laetanda et virgo parenti / (aptior his virtus, citius dabit illa nepotes); / qualis maternis Helene iam digna palaestris / inter Amyclaeos reptabat candida fratres, / vel qualis caeli facies, ubi nocte serena / admovere iubar mediae duo sidera lunae. La formulazione properziana ‘come Elena tra i fratelli’, in un quadretto familiare degno delle ‘palestre’ di Sparta, viene conservata e mutata di segno: da illustrans per un costume straniero, che stuzzica la sensibilità erotico-elegiaca, diventa un paradigma nobile ad uso della poesia celebrativa. Per esaltare la famiglia del patrono, Stazio non teme di evocare un malizioso contesto elegiaco, ma lo trasforma in una visione di innocenza infantile; e in questa censura allusiva corregge le implicazioni negative attribuite all’uso spartano nella tradizione culturale greco-romana: persino l’antitesi fra cura della palestra e della maternità (su cui si veda il frammento tragico citato in Cic., Tusc. 2,36,8) 43 viene neutralizzata qui dalla promessa della figlia femmina di dare presto nipoti (citius dabit illa nepotes, v. 27). Le potenzialità sconvenienti dei modelli elegiaci vengono spesso neutralizzate nel discorso poetico di Stazio. Così è anche in Silvae 3,5, l’esortazione alla moglie a seguire il poeta nel ritiro partenopeo; qui il ritratto della figlia di Claudia, che a Napoli potrà trovare un degno marito, ripete moduli e immagini usati da Properzio nell’elegia 2,1 per il fascino femminile di Cinzia, e riusati nell’elegia 2,22a per il fascino di donne diverse – un reimpiego disinvolto e consapevole, che Ovidio commenta contaminando le due elegie in Amores 2,4.44 Anche Stazio combina Properzio con Properzio, e Properzio con Ovidio, nell’elogio di una fanciulla che sa suonare, cantare e danzare; ma la ripresa puntuale dei modelli elegiaci (evidente soprattutto nel contatto tra Silv. 3,5,66 candida seu molli diducit bracchia motu e Prop. 2,22a,5-6 sive aliqua in molli diducit candida gestu / bracchia) non fa che sottolineare un paradosso allusivo, la conversione della puella docta-amante-elegiaca in una puella docta ‘da marito’: una conciliazione tra fascino e virtù, 43 Trag. inc. fr. CXI, 206-208 R.3 nihil horum similest apud Lacaenas virgines, / quibus magis palaestra, Eurota, sol, pulvis, labor, / militia in studio est quam fertilitas barbara. 44 Cfr. Bessone 2008.
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tra seduzione elegiaca e rispettabilità sociale. È il programma di una riconversione letteraria dell’elegia, dichiarato negli ossimori che siglano il brano: ingenium probitas artemque modestia vincit (v. 67).45
4. Proemi, programmi, recusationes I programmi poetici di Stazio hanno attirato negli ultimi anni una intensa attenzione critica: si è studiata la relazione con le affermazioni programmatiche dei poeti augustei e, come per le dichiarazioni di Marziale, si è messo in evidenza lo spostamento dei termini dell’estetica callimachea in rapporto con le nuove condizioni della comunicazione letteraria, in un sistema dei generi che muta col mutare della società e del ruolo dei poeti in essa. Ora, per Stazio, è il lungo poema epico – la Tebaide – ad essere ‘molto vegliato’ (o mihi bissenos multum vigilata per annos / Thebai, Theb. 12,811-812) e ‘tormentato da molto lavoro di lima’ (nostra / Thebais multa cruciata lima, Silv. 4,7,25-26), mentre la poesia minore e occasionale – quella delle Silvae – è un prodotto dell’improvvisazione o della composizione veloce, che si pretende non rifinito anche quando è pubblicato in forma di libro.46 Due sono i gesti tipici di Stazio: la promessa al futuro di un epos storico-celebrativo sulle imprese di Domiziano, reiterata nei proemi della Tebaide e dell’Achilleide e poi nelle Silvae – equivalente, si è detto, a un ‘differimento sine die’ –; 47 e i congedi temporanei dall’epica con cui, nelle Silvae, il poeta della Tebaide (e poi dell’Achilleide) si riduce con apparente degnazione a una misura minore. L’uno e l’altro gesto hanno tratti in comune con la recusatio augustea,48 ma ne rappresentano una variante ben distinta. Lo scarto tra generi maggiori e minori diventa qui anche il dislivello tra due forme diverse dell’epica: il gesto ricusatorio entra nell’epos mitologico e vi innesta le pose con cui poeti ele Su questo ed altri contatti con Properzio e l’elegia in Silvae 3,5 cfr. Bessone c.d.s. f. 46 Rosati 2015. 47 Rosati 2002. 48 Nauta 2006. 45
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giaci, bucolici, lirici avevano rifiutato l’epica tout court. Per converso, la poesia tenue non è presentata come una scelta esclusiva o definitiva rispetto all’epica, né, di fatto (nonostante la praefatio a Silvae 1), come la premessa minore a una carriera poetica orientata in senso ascensionale, sul modello virgiliano.49 L’uso intercambiabile di alcuni indicatori è significativo: satis è usato nel proemio della Tebaide per rifiutare un’epica più grande, e nelle Silvae per rifiutare le divinità grandi dell’epica come ispiratrici della poesia tenue; 50 paulum e paulisper sono impiegati nel proemio dell’Achilleide per giustificare l’indugio in un’epica minore, e nelle Silvae per legittimare l’impegno temporaneo in un genere minore; 51 audeo o audacia connotano le sfide del vate epico, come quelle del poeta delle Silvae.52 Una reciproca implicazione di piccolo e di grande è ciò che distingue la poetica di Stazio: un poeta professionale a tutto tondo, che pratica in parallelo generi diversi, all’occorrenza lascia gli arma per celebrare amici e patroni, ma sfrutta il prestigio dell’epos per sponsorizzare la sua poesia d’occasione, e può elevare i componimenti encomiastici quasi ad altezze epiche. Un nuovo relativismo dei generi, più 49 Stat., Silv. 1 praef. 1-9 diu multumque dubitavi, Stella iuvenis optime et in studiis nostris eminentissime, qua parte et voluisti, an hos libellos, qui mihi subito calore et quadam festinandi voluptate fluxerunt, cum singuli de sinu meo pro[ ], congregatos ipse dimitterem. quid enim [ ] quoque auctoritate editionis onerari, quo adhuc pro Thebaide mea, quamvis me reliquerit, timeo? sed et Culicem legimus et Batrachomachiam etiam agnoscimus, nec quisquam est inlustrium poetarum qui non aliquid operibus suis stilo remissiore praeluserit. 50 Theb. 1,32-40 (cfr. in partic. i vv. 32-34 citt. infra nel testo): ‘accontentarsi’ di cantare una Tebaide, anziché le guerre di Domiziano, è una variazione paradossale e provocatoria rispetto alle recusationes degli elegiaci, che dichiarano di ‘accontentarsi’ di un genere minore anziché affrontare l’epos, tra cui quello tebano (cfr. Prop. 3,9,37-44 non flebo in cineres arcem sedisse paternos / Cadmi nec septem proelia clade pari […] inter Callimachi sat erit placuisse libellos / et cecinisse modis, Coe poeta, tuis; per satis con diversa funzione programmatica cfr. 4,6,6970 bella satis cecini: citharam iam poscit Apollo / victor et ad placidos exuit arma choros); Silv. 1,5,1-9 …Naidas, undarum dominas, regemque corusci / ignis adhuc fessum Siculaque incude rubentem / elicuisse satis. paulum arma nocentia, Thebae, / ponite; dilecto volo lascivire sodali; 2,3,6-7 quid Phoebum tam parva rogem? vos dicite causas, / Naides, et faciles (satis est) date carmina, Fauni (Newlands 2011 ad loc.: «satis: a programmatic word, setting limits to a theme and its style»). 51 Bessone 2014, 184-185 n. 33; Bessone c.d.s. c. 52 Cfr. Stat. Silv. 1 praef. 19 ausus sum; 22 audacter; 3 praef. 4 hanc audaciam stili nostri; 4,7,25-28 quippe te fido monitore nostra / Thebais multa cruciata lima / temptat audaci fide Mantuanae / gaudia famae.
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vicino ad atteggiamenti ovidiani, prende il posto delle opposizioni nette proclamate dagli augustei – e, in particolare, da un elegiaco come Properzio.53 Proprio per questo forse, nell’intenso rapporto con le dichiarazioni di poetica augustee indagato dalla critica, non sempre si è prestata a Properzio la dovuta attenzione. Eppure i programmi properziani, per evidenza e memorabilità – oltre che per la tattica dilatoria –, sembrano esercitare su Stazio un’attrazione speciale. Il proemio della Tebaide è il luogo dove forse meno ci si aspetterebbe la traccia di un elegiaco: 54 limes mihi carminis esto Oedipodae confusa domus, quando Itala nondum signa nec Arctoos ausim spirare triumphos bisque iugo Rhenum, bis adactum legibus Histrum et coniurato deiectos vertice Dacos aut defensa prius vix pubescentibus annis bella Iovis. tuque, o Latiae decus addite famae… […] tempus erit, cum Pierio tua fortior oestro facta canam; nunc tendo chelyn; satis arma referre Aonia et geminis sceptrum exitiale tyrannis… (Stat., Theb. 1,16-22; 32-34)
E invece il differimento dell’epos celebrativo impiega qui una serie di strumenti già usata da Properzio nella 2,10 – l’elegia che esordisce a sorpresa con un programma epico e, poco dopo, lo rimanda al futuro. Là il poeta dichiara all’inizio che ‘è tempo’ di un canto diverso, di commemorare ‘l’esercito romano’ del suo condottiero, e poi che, se anche le forze gli mancassero, ‘l’audacia’ di aver voluto cose grandi sarà per lui motivo di gloria: sed tempus lustrare aliis Helicona choreis et campum Haemonio iam dare tempus equo. Bessone 2014. Un cenno solo in Galli 2013, 64 n. 34: «This passage seems an imitation of Virgil ge. 3.46-48 mox tamen ardentis accingar dicere pugnas / Caesaris […], but perhaps also of Propertius 2.10.25-6 nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina […] and 3.9.45-48 […] te duce vel Iovis arma canam […] Statius here combines the recusationes through which Propertius expresses his intention to stay within the boundaries of the topic typical of the elegiac genre with the Virgilian model from the Georgics as regards the promise to celebrate Caesar’s deeds in the future». 53 54
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iam libet et fortis memorare ad proelia turmas et Romana mei dicere castra ducis. quod si deficiant vires, audacia certe laus erit: in magnis et voluisse sat est. (Prop. 2,10,1-6)
Subito dopo, con uno scarto, Properzio declina quel progetto al futuro, perché, al presente, la sua poesia ‘non’ è ‘ancora’ pronta al compito: haec ego castra sequar; vates tua castra canendo magnus ero: servent hunc mihi fata diem! […] nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontis, sed modo Permessi flumine lavit Amor. (Prop. 2,10,19-20; 25-26)
Ricapitolando. Troviamo qui in sequenza: Tempus (sc. est) ripe tuto,55 Romana… dicere castra, vires, audacia, vates… magnus ero, tua castra canendo, e infine nondum. Ora, basta uno sguardo al testo di Stazio per ritrovare – declinati fin dall’inizio, con coerenza, al futuro – gli elementi portanti del tormentato discorso properziano: Itala… signa… (spirare) è una variante di Romana… (dicere) castra, nondum anticipa la conclusione properziana, (nondum…) ausim nega la audacia pretesa e poi rinnegata da Properzio, tempus erit guarda fin da subito al futuro, fortior auspica le vires di cui Properzio dubitava, tua facta canam varia tua castra canendo. Stazio corregge Properzio con Properzio, rivedendo la sua falsa partenza e saldandola alla chiusa del componimento: qui non c’è lo slancio frenato dall’esitazione, ma, da subito, un rinvio diretto e deciso. Nel proemio della Tebaide riconosciamo inaspettatamente, più che la promessa del proemio al mezzo delle Georgiche, le velleità epico-celebrative di un poeta elegiaco: una mossa riluttante, ma sufficiente ad omaggiare Augusto, come Stazio si augura che il suo omaggio sia sufficiente per Domiziano. Anche nel cuore della Tebaide, l’elegia 2,10 di Properzio sembra riecheggiata in un annuncio programmatico. È l’invoca Per la formula cfr. anche Ov., Am. 3,1,23-26 (parla Tragoedia) ‘tempus erat thyrso pulsum graviore moveri; / cessatum satis est: incipe maius opus. / materia premis ingenium; cane facta virorum: / “haec animo” dices “area facta meo est” ’. 55
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zione a Calliope e ad Apollo perché concedano ‘forze’ ‘diverse’, e un’ispirazione ‘più grande’ alla ‘cetra’, per cantare ‘la guerra’ che ‘ormai’ chiama: sed iam bella vocant: alias nova suggere vires, Calliope, maiorque chelyn mihi tendat Apollo.56 (Theb. 8,373-374)
Q ui, insieme al proemio al mezzo dell’Eneide (Verg., Aen. 7,44-45 maior rerum mihi nascitur ordo, / maius opus moveo), risentiamo l’attacco propositivo properziano, sed… aliis… / … iam… / iam… / … / …vires… […] bella canam, quando scripta puella mea est. nunc volo subducto gravior procedere vultu, nunc aliam citharam me mea Musa docet. surge, anime, ex humili! iam, carmina, sumite vires! Pierides, magni nunc erit oris opus.57 (Prop. 2,10,1-5 cit.; 8-12)
Il salto di genere poetico annunciato, per poi essere differito, e di fatto smentito, nell’elegia properziana offre a Stazio la matrice per un duplice sviluppo: un’inedita recusatio dell’epica storica all’interno dell’epos mitologico, realizzata nel proemio con una mossa dilatoria; e l’effettivo cambio di passo che, nel cuore della narrazione epica, avvia il più impegnativo racconto dei bella. La presenza inattesa di Properzio è stata segnalata anche nel proemio dell’Achilleide.58 Il poeta chiede ad Apollo una nuova fonte di poesia epica, dopo quella che ha ‘prosciugato’ con la Tebaide: 56 Cfr. Barchiesi 2001, 349: «Stazio comincia una nuova sequenza di battaglia ed è come se un poeta elegiaco venisse strappato verso un’altra dimensione… nunc ad bella trahor (Tib. 1,10,13)». Alius è usato in direzione inversa, di altezza decrescente (dall’epica alla poesia occasionale), in Silv. 1,5,1-5 non Helicona gravi pulsat chelys enthea plectro / nec lassata voco totiens mihi numina Musas […] alios poscunt mea carmina coetus. Per la ‘retorica di alius’ come ricerca del sublime nell’epica flavia cfr. Hardie 2013, 135-138. 57 Cui si accompagnano in magnis, v. 6; magnus, v. 20. Cfr. Augoustakis 2016, ad loc.; Myers 2015, 45 n. 82. 58 Barchiesi 1996, 51-55. Per la possibile inversione di un tratto properziano cfr. inoltre Bessone 2014, 218-219.
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tu modo, si veterem digno deplevimus haustu, da fontes mihi, Phoebe, novos ac fronde secunda necte comas. (Stat., Ach. 1,8-10)
Deplevimus (un prosaismo) fa pensare alla robusta bevuta di Ennio sitiens, ‘assetato’, in Properzio 3,3 – dove un Apollo callimacheo vieta al poeta elegiaco di attingere alla fonte epica, per la sproporzione tra i suoi parva ora e quei magni… fontes.59 Già qui, la sceneggiatura di Stazio sembra riscrivere a rovescio quella properziana. Poco dopo, ai vv. 10-11, il poeta ricorda che non è uno straniero nel bosco Aonio – in Beozia, cioè, allo stesso tempo sede delle Muse e teatro degli eventi narrati nella Tebaide –: neque enim Aonium nemus advena pulso nec mea nunc primis augescunt tempora vittis. scit Dircaeus ager meque inter prisca parentum nomina cumque suo numerant Amphione Thebae. (Stat., Ach. 1,10-13)
Il nesso Aonium… nemus (lo ha mostrato Barchiesi) cita ancora Properzio 3,3, dove Calliope vieta espressamente al poeta di ‘tingere del sangue di Marte il bosco Aonio’: ‘nil tibi sit rauco praeconia classica cornu flare, nec Aonium tingere Marte nemus’. (Prop. 3,3,41-42)
Vantandosi con Apollo di aver bevuto a una fonte epica, e di aver frequentato da poeta epico l’Aonium nemus, Stazio infrange il doppio divieto ingiunto a Properzio da Apollo e da Calliope. Ma il poeta della Tebaide aveva già violato il divieto della Musa properziana, nel settimo libro del poema: aveva già portato, letteralmente, ‘Marte’ nell’Aonia delle Muse, e aveva spaventato le 59 Prop. 3,3,1-6 visus eram molli recubans Heliconis in umbra, / Bellerophontei qua fluit umor equi, / reges, Alba, tuos et regum facta torum, / tantum operis, nervis hiscere posse meis, / parvaque tam magnis admoram fontibus ora, / unde pater sitiens Ennius ante bibit; 13-16 cum me Castalia speculans ex arbore Phoebus / sic ait aurata nixus ad antra lyra: / ‘quid tibi cum tali, demens, est flumine? quis te / carminis heroi tangere iussit opus?’.
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dee facendo loro udire le trombe di guerra (Tyrrhenos tumultus, da confrontare con rauco… cornu in Properzio, 3,3,41 cit.): nunc age, Pieriae, non vos longinqua, sorores, consulimus, vestras acies vestramque referte Aoniam; vidistis enim, dum Marte propinquo horrent Tyrrhenos Heliconia plectra tumultus. (Stat. Theb. 7,628-631)
C’è una sorta di compiacimento, da parte di Stazio, nell’andare contro le recusationes elegiache – un tocco di autocoscienza arguta, e quasi di autoironia, ma insieme di sicuro orgoglio, nel rivendicare il ruolo di poeta epico riscattandolo da illustri rifiuti, sfatando tabù letterari, e assumendo nel suo testo un opposto punto di vista, per confutarlo.60 Anche Silvae 4,4 reca tracce di Properzio: il dubbio esposto a Vitorio Marcello sulle proprie capacità di affrontare l’epica celebrativa61 è l’ennesimo differimento di un poema su Domiziano. Anche qui, la pretesa esitazione sta tutta all’interno del genere grande, tra il magnus Achilles da un lato e gli arma maiora del l’Ausonius dux, dall’altro. E, anche qui, Stazio toglie alcune immagini a Properzio, questa volta all’elegia 3,9, dove il poeta opponeva a Mecenate la propria incapacità di affrontare un epos celebrativo su Augusto: 60 Un rapporto sicuro, anche se oscurato da un’incertezza testuale, è quello tra Silv. 1,5,1-3 non Helicona gravi pulsat chelys enthea plectro / nec lassata voco totiens mihi numina, Musas; / et te, Phoebe, choris et te dimittimus, Euhan e Prop. 3,2,1516 at Musae comites et carmina cara legenti / nec defessa choris Calliopea meis, dove nec è emendamento di Baehrens, accolto da Fedeli 19942, mentre Heyworth 2007 stampa il tràdito et. Se la congettura cogliesse nel segno, e se Stazio avesse letto nec in Properzio, aggiungerebbe un rincaro autoironico alla ripresa dell’immagine (cfr. lassata… totiens con nec – o et – defessa) e del grecismo chori: nel contesto festoso, prenderebbe temporaneamente le distanze dalle proprie fatiche epiche, attribuendosi un’ispirazione faticosa per le stesse Muse che l’elegiaco Properzio negava per sé – un’altra rivendicazione orgogliosa di tratti rifiutati nei programmi properziani. Se invece Stazio avesse letto et, rincarerebbe comunque, con un’iperbole, l’espressione neutra o appena lievemente autoironica di Properzio, riconoscendo pur sempre la maggiore ‘fatica’ dell’ispirazione epica. 61 Dopo che la Tebaide è giunta in porto (Silv. 4,4,87-92 nunc si forte meis quae sint exordia musis / scire petis, iam Sidonios emensa labores / Thebais optato collegit carbasa portu / Parnasique iugis silvaque Heliconide festis / tura dedit flammis et virginis exta iuvencae / votiferaque meas suspendit ab arbore vittas) e mentre è in corso l’Achilleide (vv. 93-96, citt. infra nel testo).
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trahit impetus illo iam pridem retrahitque timor. stabuntne sub illa mole umeri an magno vincetur pondere cervix? dic, Marcelle, feram? fluctus an sueta minores nosse ratis nondum Ioniis credenda periclis? (Stat., Silv. 4,4,96-100)
Le immagini del peso sul collo (pondere, v. 98) e della nave (ratis, v. 100) da non affidare al vasto mare richiamano, in particolare, l’apertura dell’elegia: Maecenas, eques Etrusco de sanguine regum, intra fortunam qui cupis esse tuam, quid me scribendi tam vastum mittis in aequor? non sunt apta meae grandia vela rati. turpe est, quod nequeas, capiti committere pondus et pressum inflexo mox dare terga genu62 (Prop. 3,9,1-6)
– il contatto non è sfuggito a Ruurd Nauta, che lo ha proposto in una nota a piè di pagina nel suo studio sulla recusatio in età flavia.63 Forse un altro piccolo dettaglio si può aggiungere, a proposito dei versi immediatamente precedenti della Silva: nunc vacuos crines alio subit infula nexu: Troia quidem magnusque mihi temptatur Achilles, sed vocat arcitenens alio pater armaque monstrat Ausonii maiora ducis. (Silv. 4,4,93-96)
Q ui il gesto di Apollo, armato di arco – che distoglie Stazio dal comporre l’Achilleide, lo ‘chiama altrove’ (vocat… alio) e gli indica (monstrat) ‘le armi più grandi del condottiero ausonio’ – muta di segno il gesto ammonitore di Apollo in Properzio 3,3: un dio che imbraccia la lira, e, al poeta tentato dall’epica, indica (monstrat) 62 Cfr. poi vv. 30 velorum plenos subtrahis ipse sinus; 35-36 non ego velifera tumidum mare findo carina: / tota sub exiguo flumine nostra mora est; inoltre 3,3,23-24 alter remus aquas alter tibi radat harenas, / tutus eris: medio maxima turba mari est. Su Prop. 3,9 si veda anche supra nel testo, su sat/satis. 63 Nauta 2006, 31-32 n. 30.
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con il plettro un nuovo sentiero che porta alla grotta delle Muse (là il rifiuto dell’epos sarà ribadito da Calliope): dixerat, et plectro sedem mihi monstrat eburno, quo nova muscoso semita facta solo est. hic erat affixis viridis spelunca lapillis…64 (Prop. 3,3,25-27)
Il canto diverso, simboleggiato da un ‘altrove’ spaziale, in Properzio è l’elegia, in Stazio un epos più elevato. L’Apollo ammonitore del prologo degli Aitia (e della sesta Egloga), maestro di poesia sottile, si è mutato in un dio che tenta di distogliere da un’epica grande per esortare ad una ancora più grande. Nel riscrivere a rovescio la scena callimachea, il poeta flavio evoca la sceneggiatura di Properzio, e ripete un’espressione del poeta elegiaco con funzione opposta – ma, certo, il suo Apollo appare meno autorevole e ascoltato di quello di Callimaco e Properzio. C’è spazio solo per accennare a Silvae 4,7.65 Nell’apertura dell’ode saffica a Vibio Massimo, Stazio richiama la Musa Erato dall’epica a una misura minore, con lo stesso termine greco e la stessa metafora – gyri, i volteggi e il percorso del cavallo – usati da Apollo in Properzio 3,3 per rimproverare lo sconfinamento del poeta nell’epica.66 Un rapporto preciso lega i due testi, in cui l’epos è un’uscita, rispettivamente realizzata o solo sognata, dai percorsi della poesia minore. La prima strofa iam diu lato sociata campo fortis heroos, Erato, labores differ atque ingens opus in minores contrahe gyros (Stat., Silv. 4,7,1-4)
64 Cfr. v. 40 ‘nec te fortis equi ducet ad arma sonus’. Su pater, detto di Apollo in Silv. 4,4,95, che richiama «l’Apollo epico, monumentale di Virgilio» in Aen. 3,89, si veda Newlands 2017, 330-331. 65 Aggiungo che l’apertura in stile negativo di Silv. 5,5 (vv. 1-7) richiama elegie programmatiche properziane, in particolare la 3,1 e la 3,3, in varie immagini e termini (come il grecismo orgia): ai contatti notati da Gibson 2006, ad loc. si può accostare quello tra dicite, rivolto alle Muse al v. 5, e Prop. 3,1,5 dicite, rivolto a Callimaco e Fileta. 66 Cfr. Wimmel 1960, 317 (con altri rimandi a Properzio nelle pp. 318-319).
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LA RICEZIONE DELL’ELEGIA PROPERZIANA NELL’OPERA DI STAZIO
si può confrontare con ‘cur tua praescriptos evecta est pagina gyros? non est ingenii cumba gravanda tui’. (Prop. 3,3,21-22)
Con finezza autoriflessiva, come in una leçon par l’example, Stazio colloca il termine properziano, che indica la ‘svolta’, nel punto in cui la strofe saffica si chiude; e stringe l’invito alla ‘contrazione’ nello spazio contratto dell’adonio, il segmento minimo nella misura minore del metro lirico.67 Il vocabolo properziano era già stato ripreso da Ovidio in un brano dei Remedia, in cui il poeta si richiama al suo ‘giro’ (il ‘percorso prefissato’, o l’ambito consueto della sua poesia) dopo un excursus polemico di risposta all’Invidia: Ov., Rem. 397-398 hactenus invidiae respondimus: attrahe lora / fortius et gyro curre, poeta, tuo. È interessante notare che quella digressione contiene un annuncio velato del prossimo passaggio di Ovidio a una poesia più alta, e addirittura a un genere più alto, l’epica delle Metamorfosi,68 come conferma un’allusione al proemio al mezzo delle Georgiche, su cui si sofferma Paola Pinotti nel suo commento.69 Come in Properzio, dunque, e come poi in Stazio, il richiamo ai gyri prescritti coincide anche in Ovidio con un rientro rispetto allo slancio dell’epica. Ecco un esempio emblematico di come le riprese properziane possano combinarsi, in Stazio, con la ripresa di passi di Ovidio già a loro volta modellati su Properzio: in questo caso contrahe, nella Silva, è forse un ricordo di attrahe nei Remedia. L’esordio di quest’ode è particolarmente ricco di memorie letterarie. Solo in tempi recentissimi, nel suo contributo al Brill’s Companion to Statius, Sarah Myers ha osservato quello che appare Morgan 2010, 214 (su Silv. 4,7 cfr. pp. 189-199; 212-220). Cfr. Lazzarini 1986 a 389-396. 69 Cfr. Ov., Rem. 389-396 rumpere, Livor edax: magnum iam nomen habemus; / maius erit, tantum, quo pede coepit, eat. / sed nimium properas: vivam modo, plura dolebis, / et capiunt anni carmina multa mei. / nam iuvat et studium famae mihi crevit honore; / principio clivi noster anhelat equus. / tantum se nobis elegi debere fatentur, / quantum Vergilio nobile debet epos, con Pinotti 1993, ad loc. 67 68
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evidente, che l’invito a Erato a ridursi a una misura ‘minore’ (vv. 2-4 citt.) inverte il proemio al mezzo dell’Eneide: là l’invocazione a Erato è seguita dall’annuncio di una misura poetica ‘maggiore’, nunc age… Erato… maior rerum mihi nascitur ordo, / maius opus moveo (Verg., Aen. 7,37-45; cf qui ingens opus, v. 3).70 Stazio rovescia le parole del maestro per legittimare il suo diverso itinerario poetico. In questo brano, così affollato di tradizione, c’è spazio per più di una reminiscenza di Properzio. Non solo i gyri, ma anche il campus in cui Erato si è a lungo esercitata rimanda a un’immagine programmatica properziana, ancora una volta dall’esordio ‘epico’ dell’elegia 2,10: Prop. 2,10,1-2 sed tempus lustrare aliis Helicona choreis / et campum Haemonio iam dare tempus equo. Q ui, nelle Silvae, Stazio inverte la direzione rispetto all’agenda epica di Properzio, e si richiama dall’epos a una poesia meno elevata. Forse anche il doppio nunc (vv. 10-11), accompagnato da comparativi, riscrive a rovescio la stessa elegia properziana, come osserva Fedeli (2005, ad loc.), ripetendo «il nunc anaforico, quale segnale dell’aspirazione immediata a un canto di tipo diverso». La terza strofa Maximo carmen tenuare tempto; nunc ab intonsa capienda myrto serta, nunc †maior† sitis et bibendus castior amnis71 (Silv. 4,7,9-11)
Myers 2015, 52. Il testo tràdito, accettato da Vollmer 1898, è ritenuto insoddisfacente da commentatori ed editori recenti: Coleman 1988 stampa sitit, di Saenger; Courtney 19922 e Liberman 2010 (con discussione in apparato) pongono maior tra cruces; Shackleton Bailey 2003 mette a testo la sua congettura (anticipata da van Dam 1994, 421) at per et – superflua, perché la forza avversativa è già presente in et. Il testo tràdito è difeso in modo convincente da Merli 2013, 93-94 (con bibliografia a p. 92, n. 62): i due comparativi maior e castior, apparentemente contraddittori e incongruenti, distinguono questo componimento dal resto delle Silvae, come più elevato e al tempo stesso più raffinato. Si aggiunga che la tensione ossimorica tra maior e castior prolunga quella tra Maximo e tenuare, e sembra riprodurre la tensione di Properzio 3,3 tra la sete di poesia ‘grande’ (vv. 5-6 parvaque tam magnis admoram fontibus ora, / unde pater sitiens Ennius ante bibit) e l’acqua (casta) della Castalia con cui Calliope asperge il poeta (v. 13 cum me Castalia speculans ex arbore Phoebus; vv. 51-52 talia Calliope, lymphisque a fonte petitis / ora 70 71
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si può confrontare con Prop 2,10,9-10 nunc volo subducto gravior procedere vultu, / nunc aliam citharam me mea Musa docet.72 Infine. Sempre nella terza strofa, al v. 9, Stazio enuncia il suo programma ossimorico di ‘comporre un carme tenue’ (e insieme di ‘attenuare il canto’) ‘per Massimo’, con un gioco verbale sul nome del destinatario: Maximo carmen tenuare tempto.73 Q ui Stazio combina Properzio con Orazio. Il nesso carmen tenuare è quello riferito da Properzio alla poesia tenue di Callimaco e Fileta, in 3,1,5 dicite, quo pariter carmen tenuastis in antro? Allo stesso tempo, la tensione ossimorica fra Maximo e tenuare ricorda la chiusa dell’Ode 3,3 di Orazio, desine… magna modis tenuare parvis, un richiamo della Musa a una misura minore, col rimprovero di aver osato un canto troppo grande per il metro lirico: Hor. carm. 3,3,69-72 (dopo il discorso diretto di Giunone) non hoc iocosae conveniet lyrae. / quo, Musa, tendis? desine pervicax / referre sermones deorum et / magna modis tenuare parvis. In Orazio, dietro quel rimprovero, c’è l’orgogliosa consapevolezza del proprio esperimento letterario, il vanto di aver prodotto una poesia grande in una misura piccola. Analoga coscienza c’è nel poeta flavio, che usa qui il verbo dell’audacia poetica, tempto: lo stesso con cui connota l’audacia della sua Tebaide nello sfidare Virgilio (quippe te fido monitore nostra / Thebais multa cruciata lima / temptat audaci fide Mantuanae / gaudia famae, vv. 25-28). Per un poeta professionale qual è Stazio, l’epica e la poesia minore sono entrambe, allo stesso modo, delle sfide – tanto più qui, in una prova in metro saffico che è tra le più impegnative delle Silvae e che è messa, niente meno, sotto il segno di Pindaro.74 Il grande e il piccolo sono per il poeta flavio concetti relativi. Grandezza non è sinonimo di sciatteria, né tenuità di rifinitura. L’epos è vegliato e limato, come non può non essere dopo Virgilio; i componimenti minori sono il frutto presunto di un’ispirazione improvvisa e di un piacere della rapidità. Non solo Callimaco Philitea nostra rigavit aqua; per l’associazione paretimologica cfr. Liberman 2010, ad loc. e Merli 2013, 93 n. 65). 72 Cfr. anche Silv. 4,7,6 novi… plectri con Prop. 2,10,10 aliam citharam. 73 Cfr. Coleman 1988, ad loc. 74 Cfr. Merli 2013, 187-189 sul tono più elevato, e meno distante dall’epica, di questo carme rispetto a Silv. 1,5.
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è contraddetto. I programmi dei poeti augustei sono ripensati, o ripresi nelle loro punte più provocanti. Stazio può riscrivere a rovescio nelle Silvae una movenza dell’Eneide, promuovendo la propria immagine di vate nazionale successore di Virgilio – capace però, a differenza del maestro, di frequenti ridiscese dal sublime –; può ripetere, nell’Achilleide, la provocazione ovidiana di un epos ‘ciclico’ che è allo stesso tempo un carmen deductum, una contraddizione in termini callimachei;75 può giocare come Orazio su diversi livelli della lirica, e più di lui avvicinarla all’epica, o elevarla, con minore modestia, all’altezza di Pindaro.76 Per lui che sa porsi dall’una e dall’altra parte degli schieramenti augustei, e osa fare la spola tra l’alto e il basso, accorciando le distanze tra generi diversi, le drammatiche contrapposizioni properziane non valgono più; ma è con le immagini, il linguaggio, le movenze di Properzio che Stazio disegna una parte, non piccola, del suo innovativo profilo di poeta.
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Abstracts La ricezione di Properzio nella poesia flavia, oggetto di interventi sporadici negli ultimi decenni, merita uno studio approfondito. Stazio riserva al l’elegia properziana un’attenzione speciale e in Tebaide, Achilleide e Silvae offre un ricco campionario di riprese, nel quadro di un rapporto col genere elegiaco intenso e variamente connotato nelle diverse opere. Di Properzio, Stazio si impegna a rielaborare iuncturae audaci, immagini di bellezza, formulazioni di exempla mitici, nella comune ricerca di uno stile teso e incisivo; con lui condivide l’interesse per la voce e il ruolo femminile, o per miti di travestitismo che si prestano a sperimentazioni letterarie; da lui riprende, anche convertendoli alla celebrazione di patroni privati, i modi della poesia eziologica. La matrice properziana è spesso riconoscibile dietro il modello ovidiano, o accanto a echi di Virgilio e Orazio. Arditezze stilistiche impreziosiscono e addensano il discorso sublime della Tebaide; materiali properziani servono a costruire la poetica dell’ambiguità nel l’Achilleide o a ritrarre la bellezza efebica nelle Silvae; correzioni a Properzio funzionano, nella poesia d’occasione, come ‘richiamo all’ordine dell’elegia’. Intensivo è il riuso dei programmi poetici properziani in contesti proemiali e programmatici di tutte e tre le opere di Stazio: distinti tra le riprese dagli altri augustei, linguaggio, metafore e sceneggiature di Properzio, oltre alla sua tattica dilatoria, danno forma al discorso di un professionista della poesia, che abbandona le contrapposizioni nette del poeta elegiaco per un nuovo relativismo dei generi. 49
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The reception of Propertius in Flavian poetry, sporadically investigated in the last decades, deserves an in-depth study. Statius reserves to Propertian elegy a special attention; in the Thebaid, Achilleid, and Silvae he offers a vast range of echoes, in the frame of a relation with the elegiac genre that is intense and variously connoted in his different works. Statius engages in reworking Propertius’ audacious iuncturae, images of beauty, formulations of mythical exempla, in the common search for a strained and incisive style; he shares with him the interest in the female voice and role, or in transvestism myths that lend themselves to literary experimentations; he takes from him the modes of aetiological poetry, even converting them to the celebration of private patrons. The Propertian matrix is often recognizable behind the Ovidian model, or next to echoes of Virgil and Horace. Stylistic boldness makes the sublime discourse of the Thebaid precious and dense; Propertian materials serve to construct the poetics of ambiguity in the Achilleid or to portray ephebic beauty in the Silvae; in the occasional poetry, corrections to Propertius function as a ‘call to order of elegy’. The reuse of Propertian poetic programmes is intensive in proemial and programmatic contexts of all the three works of Statius: distinguished among the echoes of the other Augustans, the language, metaphors and scenarios of Propertius, as well as his dilatory tactics, give form to the discourse of a professional poet, who abandons the clear-cut oppositions of the elegiac poet for a new relativism of genres.
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MARIO CITRONI
I DEDICATARI DI PROPERZIO E IL PATRONATO LETTERARIO TRA REPUBBLICA E PRINCIPATO
1. Il passaggio dalla repubblica all’impero comportò una trasformazione profonda nei rapporti di patronato e clientela, al punto che, come è noto, un’interpretazione a lungo accreditata, legata al nome di Anton von Premerstein, vedeva consistere la natura sostanziale del nuovo potere imperiale proprio nell’aver Ottaviano monopolizzato l’intero sistema del patronato, prima gestito da una pluralità di soggetti.1 Oggi la grande evoluzione – o ‘rivoluzione’ – politica e istituzionale che la comunità romana conobbe negli anni in cui Properzio visse e operò viene interpretata come un fenomeno complesso, in cui si combinano una quantità di fattori sociali e culturali, nonché ideologici, oltre che propriamente politici, e che non si lascia ricondurre a formule semplificanti. Il significato che ebbe, in questo quadro, l’evoluzione dei rapporti di patronato e clientela è oggetto di discussione, ma vi sono pochi dubbi sulla rilevanza di tale evoluzione. Una trasformazione profonda ci fu anche nei rapporti di patronato letterario, che dell’istituto del patronato costituiscono un sottosistema, peraltro dotato di caratteri molto specifici. Ai poli estremi del processo, la differenza tra il quadro repubblicano dei rapporti di patronato e quello imperiale appare sufficientemente netta. Da una situazione in cui le relazioni di patronato, che investono l’intera società, si riconducono a una pluralità di vertici, rappresentati dalle famiglie che, nel corso del tempo, detengono il maggior potere economico, politico e sociale in una
Von Premerstein 1937.
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10.1484/M.SPL-EB.5.115913
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comunità gestita da gruppi oligarchici – i quali nominalmente esercitano il potere politico come rappresentanti della comunità pubblica e della stessa massa dei clienti che contribuisce con i suoi voti alla attribuzione delle magistrature – si passa a una situazione in cui una sola persona, coadiuvata da una corte, si colloca al vertice superiore di una piramide di relazioni clientelari da più forte a più debole. Il patronato dei singoli continua ad avere rilevanza, ma ogni patrono ha almeno un punto di riferimento superiore in una scala che, attraverso una serie più o meno lunga di mediazioni, arriva fino all’imperatore. Se nel suo insieme l’evoluzione è ben riconoscibile, il percorso non è però lineare, e situazioni diverse convivono in un quadro non privo di contraddizioni, soggetto a interpretazioni diverse: e ciò vale soprattutto per la fase di passaggio, che è quella che a noi ora interessa. Un quadro analogo, pur con rilevanti differenze specifiche, ci propone l’evoluzione del patronato letterario. Si muove da una situazione in cui i testi dei drammi da rappresentare in spettacoli pubblici erano commissionati ai poeti da magistrati che si avvicendavano annualmente, e che agivano per conto della città oligarchica. I magistrati della repubblica erano d’altra parte essi stessi, sul piano individuale, membri delle famiglie di quell’oligarchia che esercitava stabilmente con quei poeti, e con altri intellettuali, un patronato personale e anche domestico. Il che avveniva dapprima solo in casi sporadici, come quello di Livio Andronico, di cui Gerolamo tramanda che avesse svolto il ruolo di insegnante dei figli di quel Livio Salinatore di cui era stato schiavo e da cui aveva ottenuto la libertà. Poi in forma sempre più ampia con il diffondersi dell’interesse per le attività culturali nei ceti elevati. Filosofi, poeti, storici, grammatici, sono in relazione personale con uno o più membri dell’aristocrazia; spesso vivono nelle loro case, li accompagnano nelle campagne militari, in missioni diplomatiche, nell’esercizio di cariche amministrative e di governo nelle province. Il punto di arrivo è una situazione in cui, benché il patronato di singoli personaggi e famiglie continui ad avere una consistente presenza, Giovenale (7,1) potrà dire che «Speranza e motivazione degli studi risiedono soltanto nell’imperatore»: Et spes et ratio studiorum in Caesare tantum. Anche se questa affermazione fosse da interpretare come ironica dal punto 52
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di vista soggettivo del poeta, non per questo essa sarebbe meno significativa del fatto che dopo poco più di un secolo di vita del nuovo regime almeno in alcuni ambienti o ceti la persona individuale dell’imperatore era vista come la fonte ultima, e in definitiva unica, da cui discende ogni possibile beneficio per un poeta o un letterato. D’altra parte gli epigrammi di Marziale, le Silvae di Stazio, le epistole di Plinio, largamente confermano, sia per il patronato letterario che per il patronato non letterario, tanto la persistente pluralità dei patroni privati quanto la preponderanza della posizione dell’imperatore come vertice ultimo della piramide. Marziale e Stazio attestano inoltre ampiamente il fenomeno, proprio del principato, del patronato, letterario e non letterario, esercitato da liberti imperiali che rivestono cariche a corte. E Giovenale (7,88-92) attesta anche, con sdegno, il patronato esercitato da favoriti dell’imperatore privi di incarichi. Anche nel caso del patronato letterario l’evoluzione non è lineare. Inoltre, l’interpretazione del quadro dei rapporti nelle diverse situazioni è resa più complessa dal fatto che, nel corso del l’evoluzione dell’istituto del patronato, evolve anche il più tipico profilo sociale dell’intellettuale e del poeta. Da una prevalenza iniziale di persone di condizione bassa, che vivono del loro lavoro di ‘professionisti’ della letteratura e dipendono dai patroni per il loro sostentamento, si passa a una crescente presenza di poeti economicamente autonomi, spesso di condizione equestre, che ai patroni chiedono sì maggiore agio economico, ma anche o soprattutto accreditamento nella società alta, e con esso diffusione massima delle loro opere e opportunità di ulteriori rapporti intellettuali e di stimoli letterari, confrontandosi spesso con patroni che essi stessi scrivono opere letterarie, anche impegnative. Come nel caso del patronato in generale, così nel caso del patronato letterario la fase augustea, in quanto fase di passaggio, appare particolarmente problematica, tanto più in quanto è considerata una fase di passaggio anche per l’evoluzione della figura sociale dell’intellettuale e del poeta. Non ci dobbiamo dunque stupire se nel panorama degli studi troviamo rappresentate opinioni addirittura opposte in merito alla posizione che l’età augustea occupa nel percorso evolutivo sopra delineato. La posizione più tradizionale riconosce in Augusto l’iniziatore della nuova fase ‘imperiale’ del patronato lettera53
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rio – eventualmente dopo un primo avvio da parte di Cesare – e fa discendere da questo ruolo di Augusto come patrono delle lettere, esercitato con la fondamentale collaborazione di Mecenate, la presenza di temi propagandistici ispirati all’ideologia del nuovo regime monarchico nei testi dei poeti dell’epoca. Q uesta chiave interpretativa è stata continuamente riproposta, dal Rinascimento a oggi, da interpreti spesso condizionati dalle esperienze della letteratura celebrativa delle diverse corti europee o da quelle del dirigismo culturale praticato dai regimi assolutistici novecenteschi. Espressa in forma molto netta da Syme nella Roman Revolution,2 o in forme molto più sfumate e problematiche, e sicuramente più vere, da altri in seguito, tra i quali soprattutto Antonio La Penna,3 la troviamo ancora oggi riproposta nelle forme più rigide da Luciano Canfora.4 Al contrario Peter White, nel più impegnativo e sistematico studio sul patronato letterario a Roma, interpreta il mecenatismo augusteo in stretta continuità con quello repubblicano, sposta a dopo Augusto l’inizio del mecenatismo imperiale, e non fa discendere, se non molto marginalmente, le tematiche di ideologia imperiale nei poeti augustei da pressioni esercitate da Augusto, direttamente o per tramite di Mecenate, nel quadro di rapporti di patronato.5 Ancora diversamente Barbara Gold, nel suo libro sul patronato letterario antico, vede nell’età augustea un periodo felice di sospensione, o almeno di grande allentamento, dei vincoli patronali e di sostanziale libertà degli scrittori, quasi tutti economicamente autonomi, dopo la fase di stretta dipendenza dalle famiglie aristocratiche di letterati-professionisti bisognosi di sostentamento e prima dell’instaurarsi del sistema di patronato imperiale.6
Syme 1939, 459-468. La Penna 1963 e in vari scritti successivi dello stesso autore, tra i quali La Penna 1998. 4 Canfora 2015, 435-453 e passim. 5 White 1993 che, con la sua ricca e documentata argomentazione, risulta del tutto convincente nel contrastare una visione propriamente dirigistica del ruolo di Mecenate e Augusto nei confronti dei poeti. Ma un rilevante condizionamento da parte di quelle che i poeti dovevano considerare le aspettative – espresse o inespresse – di Augusto e di Mecenate non può essere ragionevolmente negato, e in vari passaggi White stesso non manca di riconoscerlo. 6 Gold 1987, 4 s.; 111 s. 2 3
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Il succedersi delle figure dei dedicatari delle elegie properziane, dall’esclusiva presenza, nel I libro, di persone legate al poeta da relazioni che si presumono solamente personali e private al farsi avanti, nei libri successivi, della figura sostanzialmente ‘pubblica’ di Mecenate e, corrispondentemente, la crescente apertura della poesia di Properzio verso tematiche civili e celebrative tipicamente ‘augustee’, può apparire quasi come una registrazione fedele – e tanto esplicita da poter essere assunta come emblematica – del mutamento dei rapporti tra produzione letteraria e poteri civili e politici che era in corso appunto in quegli anni. In verità i dati di cui disponiamo sulle relazioni di patronato in cui si colloca la produzione di Properzio non sono molti. Nelle pagine che seguono ci proponiamo di esaminarli e di interpretarli cercando di distinguere tra ciò che può essere affermato con ragionevole certezza e ciò che si colloca nel campo delle ipotesi e delle ricostruzioni congetturali. 2. La pubblicazione del I libro di Properzio si può datare con buona probabilità al 29/28 a.C., e dunque due o tre anni dopo Azio.7 A quella data, Orazio era in relazione con Mecenate da circa 10 anni. Gli aveva dedicato il I libro delle satire (pubblicato nel 35 a.C.), la satira centrale del II libro (pubblicato nel 30), il libro degli epodi (anch’esso pubblicato nel 30) e aveva fatto della sua relazione con Mecenate il tema di molti componimenti e passaggi all’interno di queste opere. Vario e Virgilio erano in rapporto con Mecenate già da prima (furono essi a presentare Orazio a Mecenate 8). Nel 29 Virgilio aveva dedicato a Mecenate le Georgiche, opera al tempo stesso ‘consacrata’, più che dedicata, anche a un divinizzato Ottaviano, del resto già ringraziato come un deus, pur senza nominarlo apertamente, nel componimento iniziale delle Bucoliche (vv. 6, 7, 18 e cfr. 42 s.), pubblicate pro7 È la datazione generalmente accolta, sia pure sulla base di pochi e non precisi indizi: vd. infra, n. 23. 8 Cfr. Hor. Sat. 1,6,54 s. Nella satira 2,6, che si data al 31/30 a.C., Orazio dice (v. 40) che egli è da quasi otto anni tra gli amici di Mecenate. Nel viaggio a Brindisi (sat. 1, 5), che si data alla primavera del 37, Orazio è già pienamente integrato nella cerchia di Mecenate, cui era stato ammesso, egli dice (Sat. 1,6,61), nove mesi dopo un primo incontro col futuro protettore, incontro che era stato promosso da Virgilio e Vario.
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babilmente il 38.9 Secondo una notizia riferita nella vita di Virgilio di Donato (§ 27), nel 29 le Georgiche, dedicate a Mecenate, furono lette in anteprima a Ottaviano personalmente da Virgilio cui, quando la voce si abbassava, dava il cambio Mecenate. Vario nel 29 ebbe l’incarico di scrivere il testo della tragedia rappresentata al triplice trionfo di Ottaviano, ottenendo un premio che fu a lungo ricordato come eccezionalmente generoso.10 Lo stesso Vario aveva pubblicato un poema De morte, in cui attaccava aspramente Antonio, in data anteriore alla composizione della Bucolica VIII in cui quel poema era citato: e dunque al più tardi nel 39. È altamente probabile che questa posizione anti-antoniana di Vario coincidesse con un suo schieramento con Ottaviano, e che l’opera si collochi in una fase di forte tensione tra i due personaggi: forse tra l’estate del 44 e la costituzione del triumvirato nel novembre del 43,11 o dopo il riaprirsi dei loro contrasti con l’inizio della guerra di Perugia, nel 41. Di solito si dimentica che nel 43, quando Azia, la madre di Ottaviano, morì e fu sepolta con esequie di stato, Domizio Marso, un poeta che sarà ricordato da Marziale (8,55,21), insieme a Vario, come uno dei grandi beneficati da Mecenate, aveva scritto epigrammi commemorativi in onore della defunta in cui si faceva esplicito riferimento alla natura divina di Ottaviano, pur senza affermarla apertamente (Epigr. Bob 39 e 40). Non vedo ragione per tentare, come si è fatto, di spostare la redazione dei due epigrammi di Domizio Marso a data molto successiva alla morte di Azia:12 dobbiamo prendere atto, io credo, che ad appena un anno dalla morte di Cesare già vi erano dei poeti L’identificazione del deus con Ottaviano, già data per certa dai commentatori antichi, è comunemente accolta dagli studiosi. Cairns 2008, 70-75 ha riproposto la tesi che si tratti di Asinio Pollione (a p. 71 Cairns ricorda i rari tentativi di identificazioni diverse). 10 Orazio, Epist. 2,1,246 s., parla di munera multa di Augusto a Virgilio e a Vario e la nota di ps.-Acrone ad l. dice che ricevettero ciascuno un milione di sesterzi. La stessa cifra è data come premio ricevuto da Vario per il solo Thyestes in una didascalia presente in due manoscritti dell’VIII e IX sec. (cfr. Jocelyn, 1980), dalla quale siamo anche informati che la tragedia fu rappresentata ai ludi indetti post Actiacam victoriam Augusti. Vario è ricordato tra i poeti che ricevettero grandi benefici economici da Mecenate in Laus Pis. 239; Mart. 8,55,21; 12,3(4),1. 11 Così Hollis 1977, 187 s. Altri, come Rostagni 1959, 380-383 [= 1961, 391-395], seguito da Wimmel 1983, 1573 s., pensano a una data tra l’inizio del triumvirato e il 39. Sulla questione vd. anche Citroni 2003, 116 s. 12 Cfr. Citroni 2015, 260 s., con bibliografia. 9
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mobilitati a contribuire all’esaltazione dell’immagine di Ottaviano secondo linee conformi a quelle che si consolideranno in futuro nella ideologia del principato augusteo; e il fenomeno cresce e si consolida nel corso più che decennale che dalla costituzione del triumvirato porta fino ad Azio, in una stagione in cui non si può certo ancora parlare di un patronato egemone di tipo ‘imperiale’ nel senso sopra descritto. Le altre figure di eminenti patroni delle lettere attivi in quegli stessi anni, quali Asinio Pollione e Messalla, non operano in subordine, ma in parallelo a Ottaviano e a Mecenate e, a quanto pare, in buona reciproca sintonia visto che i loro nomi ricorrono in posizioni di onore nei testi di Virgilio e di Orazio, in certi casi in tempi diversi, in certi casi contemporaneamente a quelli di figure appartenenti alla cerchia mecenatiana, e visto che Tibullo, e più tardi Ovidio, che operano nell’orbita di Messalla, sono tra gli amici di Orazio come attestano, in passi ben noti, nell’un caso Orazio (carm. 1,33; epist. 1,4) e nell’altro caso Ovidio (trist. 4,10,49). Nel I libro di Properzio non sono nominati né Mecenate né altri personaggi a noi noti come patroni delle lettere in quel tempo, e il solo riferimento a Ottaviano non è in alcun modo complimentoso: nel dittico di brevi elegie (21 e 22) collocate, con grande evidenza, alla fine del libro, Ottaviano appare non come il princeps che si appresta ormai a ridare pace ed equilibrio al mondo, ma al contrario, all’interno di una cupa rievocazione di un caduto nella guerra di Perugia, probabilmente un parente del poeta (1,22,7), come uno dei capiparte nelle guerre civili (1,21,7), generatrici di lutti e di sofferenze atroci e non sanate.13 Nel I libro incontriamo quattro figure di dedicatari, ai quali complessivamente sono rivolte metà delle elegie (11 su 22). Tre di essi, Basso, Pontico e Gallo, vengono rappresentati come totalmente immersi nel mondo della convenzione elegiaca in cui realtà e finzione si integrano e si confondono. In due casi siamo però certi che si tratta di persone reali. Basso, dedicatario di 1,4, e Pontico, dedicatario di 1,7 e 1,9, sono infatti nominati, entrambi, anche nell’unica testimonianza esterna al testo stesso 13 Una vivida traccia delle sofferenze patite da Perugia per opera di Ottaviano capoparte delle guerre civili permane anche nella celebrazione di Augusto in 2,1,29, ove tra le sue imprese si ricordano «i focolari sconvolti dell’antico popolo etrusco» (eversos … focos antiquae gentis Etruscae).
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di Properzio di cui disponiamo a proposito delle relazioni intrattenute dal poeta: Ovidio, nell’elegia finale del IV libro dei Tristia (4,10,47 s.), li ricorda, rispettivamente l’uno come poeta giambico e l’altro come poeta epico, tra i poeti che erano soliti recitargli in anteprima i loro versi, insieme a Emilio Macro (amico anche di Virgilio), Orazio e, appunto, lo stesso Properzio. Pontico appare come poeta epico anche nelle elegie che gli dedica Properzio, mentre di Basso nell’elegia a lui rivolta non ci viene detto che fosse poeta.14 Essendo persone reali le figure di Pontico e Basso,15 è probabile che fosse persona reale anche Gallo, il giovane aristocratico – Properzio in 1,5,23 s. gli attribuisce nobilitas e priscae imagines degli antenati – cui sono dedicate ben quattro elegie del libro (5; 10; 13; 20) e che appare in quadri di vita elegiaca affini a quelli in cui vediamo agire Pontico e Basso. Il profilo di questo personaggio è però, proprio per questo suo carattere di figura ‘elegiaca’, alquanto sfuggente, e il nome Gallo è comunissimo: in mancanza di riferimenti esterni, non siamo perciò in grado di tentare una identificazione. Io sono tra coloro che non credono possa trattarsi di Cornelio Gallo, che nobilis certo non era.16 Eppure questa identificazione ha trovato nel corso del tempo qualche convinto sostenitore, e tra essi in primo luogo Francis Cairns.17 Per Cairns Cornelio Gallo, poeta e alto collaboratore di Suits 1976 e Cairns 1983, 79-83 credono di riconoscere nell’elegia per Basso una serie di riferimenti alla sua qualità di giambografo: ma certo in mancanza della testimonianza di Ovidio nessun interprete sarebbe stato in grado di riconoscerli. 15 Heslin 2011 ritiene Ponticus nome fittizio (sul modello del l’oraziano turgidus Alpinus) per una figura tipica di poeta epico dal punto di vista della poetica callimachea che rifiuta la vastità del mare (pontus). Basso sarebbe pseudonimo del poeta giambico (genere ‘basso’) e in particolare di Orazio, il giambografo latino per eccellenza, che era anche basso di statura (bassus, termine osco di uso volgare, sarebbe tanto più idoneo pseudonimo dell’osco Orazio). Orazio risponderebbe al gioco con tre pseudonimi di Epod. 11, tutti allusivi, secondo Heslin, ad aspetti del I libro di Properzio. Ovidio, in Trist. 4,10, riprenderebbe il gioco. Nonostante la raffinata analisi del passo ovidiano condotta da Heslin, continuo a credere che esso dimostri che si trattava di due nomi veri (Basso, del resto, è nominato da Ovidio insieme a Orazio, come persona da lui diversa, ma per Heslin in Ovidio Basso rappresenta Orazio giambico, Orazio rappresenta Orazio lirico). 16 Tra i tanti che considerano questa una difficoltà insormontabile ricordo Syme, 1978, 99 s. 17 Cairns 1983 e soprattutto Cairns 2006, 70-249 (breve storia della questione a p. 76 s.). Cairns ritiene che nobilitas qui significhi «notorietà» e che le priscae imagines siano richiamate in senso generico e non riferite a Gallo. 14
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Ottaviano, ha questa forte presenza nel I libro perché è, insieme a Tullo di cui tra breve diremo, un patrono di Properzio. Al di là di questa problematica identificazione, cui io non credo, si potrebbe comunque pensare che il Gallo del I libro di Properzio, in quanto aristocratico, fosse un protettore del suo amico poeta. Ma poiché le elegie che lo riguardano ne fanno una figura totalmente integrata nel mondo erotico-elegiaco, ogni suo ruolo nella biografia del poeta resta necessariamente sospeso nel campo delle mere ipotesi. Pontico, nella prima delle due elegie che gli sono dedicate (1,7) rappresenta, in quanto poeta epico, la scelta di poetica, e anche la scelta di vita, alternativa a quella tipica del poeta-personaggio elegiaco: ma questa prima elegia già profetizza che anch’egli verrà un giorno vinto dall’amore, preparandoci alla seconda elegia (1,9) in cui Pontico, innamorato, è ormai pienamente integrato nel mondo elegiaco. Q uesti dedicatari, che sono riconoscibili con certezza come persone reali e al tempo stesso sono assorbiti nelle convenzioni del mondo elegiaco, possono valere, credo, come rappresentazione emblematica della più generale destinazione della poesia elegiaca che, secondo la convenzione del genere, si rivolge a lettori che hanno esperienza d’amore per indirizzarli, consigliarli, aiutarli a conquistare la persona amata e confortarli dei fallimenti, e che nella realtà avrà effettivamente avuto come pubblico di riferimento principale, anche se certo non unico, lettori e lettrici giovani, non troppo conformisti, e non privi di esperienza della vita galante. Q uesti dedicatari amici, che nel testo appaiono coinvolti in vicende amorose conformi alle convenzioni elegiache, e proprio nelle vicende stesse di cui sono protagonisti i personaggi del poeta-amante Properzio e della sua amata Cinzia, essi stessi indecisi tra realtà e finzione, tendono a identificarsi con l’insieme anonimo degli amici cui altre volte si rivolge il discorso elegiaco, amici che a loro volta, come sfondo e ambiente della vita elegiaca, non possiamo separare del tutto dal Syme 1978, 100-103 (e cfr. Syme 1986, 308 n.) avanza l’ipotesi che possa trattarsi di un Caninio Gallo (forse figlio del L. Caninio Gallo console nel 37 a.C.) o di un Elio Gallo, fratello, figlio o nipote dell’Elio Gallo che fu prefetto dell’Egitto dopo Cornelio Gallo: non risulta che fosse senatore, ma Syme pensa potesse discendere da famiglia nobile decaduta. Fedeli 1985, 397 pensa possa essere lo stesso Elio Gallo futuro prefetto dell’Egitto.
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reale ambito di destinazione della poesia elegiaca, dal suo pubblico di lettori, e di lettrici.18 Ben diverso è lo statuto con cui entra nel testo properziano il personaggio di Tullo, dedicatario di quattro elegie del libro (1; 6; 14; 22). Una prima differenza, esteriore ma molto significativa, consiste nel fatto che gli sono dedicate l’elegia iniziale e finale: in tal modo egli si configura chiaramente come dedicatario dell’intero libro. Altra fondamentale differenza è il fatto che egli resta coerentemente nella posizione di figura esterna e antagonista al mondo elegiaco, posizione che Pontico aveva occupato solo provvisoriamente nella prima delle due elegie a lui dedicate. Nell’elegia di apertura in cui il poeta, rappresentando in termini generali la propria condizione di vittima d’amore, fornisce ai lettori i presupposti che motivano la genesi e la natura dell’opera che si accingono a leggere, Properzio inserisce, poco dopo l’inizio, il vocativo del nome dell’amico senza coinvolgerlo in alcun modo nel contesto del mondo elegiaco. È un mero atto di dedica, e dunque di omaggio, a un lettore privilegiato, rappresentante scelto del pubblico reale dei lettori, che naturalmente è da pensare come più ampio dei giovani coinvolti nell’esperienza d’amore che costituiscono il pubblico elegiaco convenzionale. Una conferma su questo diverso ruolo di Tullo ci viene dall’ultima elegia del libro. Dopo 20 componimenti in cui il poeta ha sempre parlato come poeta-amante elegiaco, già la penultima elegia (21) determina una brusca e inattesa frattura. Si tratta del cupo epigramma dettato dalla sofferta memoria della guerra di Perugia che ho già ricordato per il riferimento a Ottaviano. Il poeta depone improvvisamente la sua maschera di poeta-amante per mostrarsi portatore di esperienze di tutt’altra natura, di fronte a un pubblico a sua volta non più immaginabile come quello dei lettori-amanti elegiaci. Q uesto lettore, il lettore reale, il cui ambito di esperienze e di interessi non è circoscritto alla vita erotica, è ora preparato all’epigramma finale (22): un autoritratto, una sphragìs conclusiva, in cui il poeta si presenta come figlio di una patria umbra Del problematico rapporto tra le figure dei singoli dedicatari, il profilo letterario del ‘pubblico elegiaco’, e la realtà del pubblico dei lettori in Properzio mi sono occupato in Citroni 1995, 377-408, da cui attingo qui e nelle pagine che seguono qualche elemento, e cui rinvio per una trattazione più compiuta di questo aspetto. 18
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le cui sofferenze nella guerra civile, unite a quelle della contigua Etruria, valgono come emblema della tragedia che per quella guerra ha sofferto l’intera Italia. Destinatario individuale di questo autoritratto di un poeta che non è più il poeta-amante della convenzione elegiaca, e che si rivolge dunque ai lettori reali, e non ai destinatari-amanti della convenzione elegiaca, è appunto Tullo, il personaggio che nel mondo delle convenzioni elegiache cui era dedicato fin qui l’intero libro non era mai entrato a far parte. Anzi, ne aveva rappresentato coerentemente l’alternativa in due elegie a lui dedicate nel corso del libro: nell’elegia 1,14 dove Tullo, evocato nei suoi momenti di otium in una splendida villa in riva al Tevere, è emblema dei piaceri della ricchezza e del lusso, che nulla valgono agli occhi del poeta-amante elegiaco se non si accompagnano ai piaceri di un amore felice; e soprattutto nel l’elegia 1,6, che ci riconduce al tema del patronato letterario. Presupposto dell’elegia 1,6, quale lo ricaviamo dal testo stesso, è che Tullo, accingendosi a partire al seguito di uno zio che si recava in Oriente con un incarico pubblico, aveva proposto a Properzio di unirsi anch’egli alla spedizione. L’elegia esprime il rifiuto di Properzio. Egli non può rinunciare alla sua identità di amante, che coincide con la sua identità di poeta elegiaco. In questa identità egli trova al tempo stesso la sua gloria e la sua maledizione: è un destino cui il poeta si sente irrimediabilmente consegnato e che lo esclude dal mondo dei valori e dei doveri civici che sono ragione della carriera e del successo nel mondo romano. Q uesta elegia, collocata poco dopo l’inizio del libro, consentiva ai lettori esterni alla cerchia di Properzio, e consente anche a noi, di riconoscere, attraverso l’identità di questo zio, Lucio Volcacio Tullo, che è figura ben nota, l’identità stessa del dedicatario di Properzio, e di comprendere meglio la natura del suo rapporto col poeta, o almeno di fare congetture fondate in proposito. La famiglia dei Volcaci è ben attestata in epigrafi di fine repubblica e inizi principato soprattutto a Perugia, ma anche in altri centri vicini, tra i quali in particolare Assisi, ove alcuni suoi membri rivestirono cariche locali tra fine I secolo a.C. e I d.C.19 A Roma, membri della famiglia erano entrati in senato da almeno Documentazione e bibliografia in Bonamente 2004, 44-47.
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tre generazioni, perché il Lucio Volcacio Tullo console nel 66 a.C., figura di un certo rilevo nella politica romana di quegli anni,20 attivo fino almeno al 46 a.C. e secondo ogni probabilità padre del l’omonimo zio dell’amico di Properzio, non era un homo novus.21 Un Gaio Volcacio Tullo (RE IX A 1, c. 754), che potrebbe essere stato fratello o cugino dello zio dell’amico di Properzio, fu legato di Cesare in Gallia e nel corso della guerra civile. Lo zio del dedicatario di Properzio, quasi certamente figlio del console del 66, aveva rivestito la pretura nel 46, un incarico di governo in Cilicia nel 45 e il consolato ordinario nel 33 insieme a Ottaviano (il quale peraltro aveva deposto la carica dopo meno di un giorno): evidente prova di stretta vicinanza politica, e certo anche personale, al futuro Augusto.22 L’incarico cui si riferisce l’elegia properziana è quello, confermatoci per via epigrafica, di proconsole della provincia d’Asia, per l’anno di carica 30/29 o 29/28 o, al più tardi e meno probabilmente, 28/27.23 Si trattava di un incarico molto ambito, riservato a consolari di prestigio, e particolarmente delicato nei primi tempi dopo Azio, poiché la provincia era stata fino Cfr. Hanslik 1962; Cairns 2006, 45; Eck 2014, 2 s. Così Wiseman 1971, 276, n. 506 (seguito da Broughton 1986, 223; Cairns 2006, 44; Eck 2014, 2) in base al fatto che Cicerone in Leg. agr. 2,3 afferma che prima del suo consolato (63 a.C.) per moltissimo tempo (perlongo intervallo) non vi era stato alcun console homo novus. Syme 1986, 29 e Du Q uesnay 1992, 79 lo qualificano come novus. 22 In proposito, vd. anche Heslin 2010, 58. 23 Da un decreto del 9 d.C. conservato in varie copie (edizioni in Laffi 1967 e Dreyer – Engelmann 2006) ricaviamo che rivestì la carica, ma non in quale anno, e la data è stata oggetto di discussione. Ritengo convincenti, a fronte di proposte di datazione più tarda, le argomentazioni sostanzialmente convergenti di Laffi 1967, 59-62 a favore del 30/29 o 29/28 a.C., di Cairns 1974, 156-159 a favore del 30/29 e di Habicht 2010-2011 a favore di uno dei primi anni dopo Azio. Eck 2014, 4 propone 29/28 o 28/27. Solo una datazione non più recente del 28 si concilia con l’altro unico dato di cui disponiamo per datare la pubblicazione del I libro, e cioè la sua probabile anteriorità all’ottobre del 28, data della dedica del tempio di Apollo Palatino celebrata nel II libro (2,31). Heslin 2010 colloca l’elegia 1,6, e la pubblicazione del I libro, al 33 a.C., quando, secondo una sua ipotesi, Ottaviano, in prossimità della scadenza dei poteri triumvirali, avrebbe provocatoriamente designato Volcacio Tullo, suo uomo e console in quell’anno, quale governatore dell’Asia a partire dal 1° gen naio 32, pur nella consapevolezza che non avrebbe potuto andarvi ed esercitare la carica essendo di fatto la provincia sotto il controllo di Antonio. Q uesta ipotesi si scontra col fatto che, come già obiettato da Habicht 2010-2011, 40 s., l’elegia 1,6 mostra chiaramente che Tullo sta partendo per una spedizione già decisa e imminente. 20 21
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ad allora sotto il controllo di Antonio. Alla delicatezza di questo compito allude Properzio in 1,6,20 quando dice che Tullo, collaborando con lo zio, dovrà «ridare gli antichi diritti agli alleati trascurati». Il proconsolato d’Asia fu certo conferito a L. Volcacio Tullo, come poco prima il consolato, per precisa volontà di Ottaviano, che doveva vedere in lui una persona di sicura fiducia. Il dedicatario di Properzio, che farà parte del seguito dello zio forse con il ruolo formale di legatus proconsulis,24 appare nel testo come amicus (1,22,2), un coetaneo (ricordiamo che solo vari anni dopo, in un’elegia del III libro di cui diremo, il poeta prospetterà un suo prossimo matrimonio): un amico che intende condividere con Properzio le prospettive di carriera. Da lui diviso per la diversa scelta di vita, che lo rendeva esterno al mondo elegiaco, e per la diversa condizione sociale: Tullo era membro di una famiglia senatoria che aveva avuto due consoli nelle ultime due generazioni ed era vicinissima al principe. Properzio apparteneva a una delle famiglie più in vista della piccola e provinciale Assisi e non è chiaro se avesse dei congiunti già in carriera a Roma.25 La prosperità della sua famiglia era stata compromessa (4,1,128 in tenuis cogeris … lares) per l’espropriazione di cospicue proprietà terriere (4,1,129 s.), evidentemente in relazione alle guerre civili. 24 Così Atkinson 1958, 313 e Eck 2014, 6 s., notando che era usuale coinvolgere un parente in tali funzioni. Habicht 2010-2011, 402 obietta che il ruolo di legatus avrebbe richiesto di norma il rango senatorio, improbabile in questo caso, data la presumibile giovane età. Secondo Eck, nonostante l’età, Tullo poteva essere già senatore. Cairns 2006, 46, e cfr. 76, si mostra addirittura certo che fosse già stato pretore. 25 L’appartenenza dei Properzi al l’aristocrazia locale di Assisi è attestata dalla documentazione epigrafica già da prima della fine del II secolo a.C., e dunque, a quanto pare, dalla terza generazione precedente quella del poeta. A Roma un Properzio Postumo, di cui diremo, probabilmente della stessa generazione del poeta, e un Properzio Celere (Tac. Ann. 1,75,3), certo più giovane, furono senatori in età augustea, arrivando alla pretura. Nella generazione precedente a quella del poeta, un Properzio, a Roma, fu coinvolto nel conflitto tra Cicerone e Clodio (Cic. Dom. 49): è stato ipotizzato (Rothstein 1920, 4 e cfr. Cairns 2006, 15) che potesse trattarsi del padre del poeta, ma in realtà non sappiamo se i Properzi attestati in aree diverse appartenessero alla stessa famiglia. Il nome ricorre nelle epigrafi, dalla fine del II a.C. al III d.C., prevalentemente in area umbra, con concentrazioni ad Assisi, a Roma, in Numidia; casi sporadici altrove in Italia e nelle province occidentali. Documentazione completa in Forni 1985, che registra 93 Propertii (quasi tutti noti solo per via epigrafica, molti di essi liberti). Ulteriori dati, analisi e bibliografia in Gaggiotti-Sensi 1982, 262 s. e soprattutto in Bonamente 2004, 28-35 e Cairns 2006, 3-34.
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È verosimile, ma non certo, che Properzio fosse di rango equestre: l’accenno alla bulla aurea indossata prima dell’assunzione della toga virile (4,1,131 s.) sembra suggerirlo, ma non è prova sufficiente. La distanza sociale, di ruolo politico, e certo anche economica, rispetto alla famiglia di Tullo, unita alla comune area geografica di origine, configura le tipiche condizioni di un rapporto di patronato-clientela. A questo punto dobbiamo richiamarci all’uso di magistrati e comandanti militari romani di portare con sé nelle province propri familiari, amici personali, clienti vari, e in particolare anche intellettuali, scienziati e poeti come membri di quella che veniva qualificata come cohors amicorum. L’uso, per vari aspetti, ci appare imitazione di analoghe pratiche ellenistiche, ma diventa comunque parte integrante, stabile, e molto rilevante, del sistema romano del patronato. Per quanto riguarda il patronato letterario, si deve osservare che tra le figure di intellettuali che fanno parte del seguito di un magistrato, o di un comandante militare, si incontrano sia dei non-cittadini romani: greci o italici (come Ennio, Polibio, Archia, Timagene) che, pur di diversa condizione economica e sociale, si trovano, per ragioni diverse, in posizione di effettiva dipendenza dal patrono, sia greci di rango elevato come Panezio, sia persone appartenenti ai ceti più elevati della società romana: cavalieri di alta condizione, come Lucilio, o anche un senatore di rango pretorio come Varrone.26 Tra i poeti di condizione equestre e in qualche caso anche senatoria, o comunque economicamente autonomi, provenienti da diverse aree del l’Italia che – si tratti di un caso o della conseguenza di ragioni sociologiche profonde che possiamo solo alquanto vagamente congetturare – rappresentano la quasi totalità dei poeti di elevato prestigio che ci sono noti dalla generazione di Catullo a quella di Ovidio, sappiamo che Catullo e Cinna furono nella cohors di Memmio, Tibullo nella cohors di Messala. Vari giovani poeti pieni di ambizioni, amici di Orazio, saranno parte della cohors di Tibe26 Un’utile illustrazione dei diversi ruoli di Timagene e di Varrone al fianco di Pompeo, di Archia al fianco di Lucullo e di altri personaggi eminenti della politica romana in Gold 1987, 73-107. I casi di Ennio con Fulvio Nobiliore nella conquista di Ambracia, di Polibio con Scipione al momento della distruzione di Cartagine, di Lucilio con Scipione all’assedio di Numanzia sono ben noti. Velleio 1,13,3, dice che Scipione aveva sempre accanto a sé, in pace e in guerra, Polibio e Panezio.
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rio nella spedizione orientale del 20 a.C. (Hor. Epist. 1,3). Il viaggio diplomatico in cui Mecenate porta con sé, tra gli altri, Virgilio, Vario e Orazio, è un caso speciale di questo stesso costume. Per lo più non siamo in grado di distinguere se, caso per caso, intellettuali e poeti avessero solo il compito di consentire al magistrato di disporre di un ambiente cittadino colto anche in viaggio e in provincia, o se avessero anche, o esclusivamente, delle mansioni amministrative militari effettive, tirocinio per una carriera in cui il magistrato che guidava la spedizione poteva poi essere un punto di riferimento e un appoggio fondamentale. In molti casi l’attività militare e la carriera si univano alla vocazione poetica, anche a quella di poeta d’amore: il caso più vistoso è naturalmente quello di Cornelio Gallo, ma sappiamo che furono poeti d’amore e uomini d’arme Tibullo, i neoterici Cornificio e Ticida, forse Cassio Parmense. Potremmo anche aggiungere il caso, certo molto particolare, di Orazio tribunus militum dell’esercito di Bruto a Filippi. Nel caso della proposta di partecipazione ricevuta da Properzio nulla ci dice che la sua qualità di poeta avesse qualcosa a che fare con le ragioni della proposta stessa, e nulla sappiamo di interessi culturali del consolare Lucio Volcacio Tullo. Ed è vero che Properzio non accettò la proposta, non partecipò a questa né, verosimilmente, ad altra spedizione. Ma il fatto che egli ne abbia avuto l’opportunità resta significativo, sul piano generale, della attualità e diffusione, direi della ‘normalità’ di questa fondamentale forma del patronato romano, ed è significativo ai fini della nostra valutazione dei rapporti tra Properzio e il dedicatario del suo I libro. Forse non sarebbe prudente qualificare il dedicatario del I libro, individualmente, come patronus di Properzio nel senso che siamo soliti attribuire a questo termine, poiché egli stesso, al momento della pubblicazione del I libro di Properzio, sembra essere agli inizi della sua carriera, sotto la protezione dello zio.27 Ma il fatto 27 Gli interpreti si dividono tra chi considera Tullo un amico di Properzio, in quanto di pari età e condizione, chi lo considera suo patrono, e chi è incerto o oscilla tra le due possibilità: lo nota Cairns 2006, 3, che dà una breve rassegna di queste diverse posizioni negli studi recenti. Cairns (come Gold 1987, 111, 113, 143) è certo che si debba considerare Tullo un patrono, e obietta a Syme 1986, 359, che lo qualificava «a sodalis of equal years, not a patron», che l’età non
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che dalla famiglia dell’amico fosse venuta al poeta una proposta che si configura come tipico atto di patronato, sociale, politico, e in tanti casi anche letterario, nella società romana, identifica la famiglia di Tullo, e dunque anche Tullo stesso, come punto di riferimento per l’inserimento, e l’accreditamento, di Properzio, e dunque della sua poesia, nel contesto dei più elevati ambienti della capitale.28 Inutile ribadire che l’origine dalla stessa area geografica (Perugia era la città di origine di Tullo, Assisi di Properzio) è circostanza che comunemente costituisce potente incentivo agli atti di patronato. Se il mantenimento di una condizione di autonomia economica che, quanto meno, consente a Properzio di respingere l’offerta di Tullo pur dopo la perdita di vaste proprietà terriere paterne, fosse eventualmente dovuto a atti di patronato che avrebbero consentito il recupero o il risarcimento di quelle perdite – verosimilmente dovute alle confische imposte ai proprietari locali dopo la conclusione (40 a.C.) della guerra di Perugia – e se tali ipotetici atti di patronato possano, con ulteriore ipotesi, essere attribuiti agli stessi Volcacii è campo di mera speculazione congetturale, in cui non credo sia il caso di spingersi. La pratica della cohors amicorum continua anche dopo Augusto, almeno per qualche tempo, ma la partecipazione di poeti di significativa importanza ci risulta essere situazione comune solo nell’età della repubblica e del principato augusteo, spingendosi fino a Tiberio (ricordiamo la presenza di Albinovano Pedone nel seguito di Germanico nel 15 d.C.), mentre non mi pare risultino esempi notevoli nella successiva età imperiale.29 Probabilmente ciò è dovuto e alla minore autonomia nella azione diplomatica può essere un criterio discriminante. Q uesto è vero, ma la posizione di esordiente in carriera, connessa con l’età, può essere un criterio rilevante. E a che punto fosse la carriera di Tullo a questa data non possiamo sapere (vd. sopra, n. 24). Non posso consentire con Heyworth 2007, 96 secondo cui Tullo non rifletterebbe una relazione della vita reale del poeta, ma sarebbe una imitazione poetica di un patrono, uno strumento poetico per sfruttare il potenziale letterario del patronato, né con Weinlich 2015, 73 che, a proposito di 3,22, ammette la concomitanza di un piano di lettura in cui Tullo può essere considerato persona reale e un piano di lettura in cui è figura letteraria di ‘patrono’ del regime augusteo, che Properzio contesterebbe (vd. infra, n. 31). 28 Concordo dunque con Bonamente 2004, 47, che preferisce parlare di patronato da parte della famiglia, non da parte della persona del dedicatario. 29 Lo notava già White 1982, 53-55.
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e militare dei proconsoli e legati in età imperiale e soprattutto all’immagine di più basso profilo, di mera funzionalità al potere dell’imperatore, che dovevano avere le loro spedizioni. Ricordiamo che dal 12 a.C. Augusto aveva disposto che il trionfo fosse riservato soltanto a lui e ai membri della sua famiglia. Q uesta opportunità offerta a Properzio dal consolare Lucio Volcacio Tullo, e non raccolta dal poeta, potremmo dunque forse considerarla un atto, mancato, più propriamente tipico del patronato letterario repubblicano che si protrae nel principato. E d’altra parte Volcacio Tullo agisce politicamente nell’orbita di Ottaviano, il fondatore del principato che con Mecenate ha già dato avvio a quel patronato letterario accentrato e tendenzialmente monopolistico, gestito dal titolare stesso di un potere politico accentrato e monopolistico, che sarà proprio dell’età imperiale. Ed è ragionevole supporre che lo stretto legame, politico e personale, tra Volcacio Tullo e Ottaviano abbia facilitato l’ingresso, testimoniato a partire dal II libro, di Properzio nella cerchia di quel Mecenate che, pur interessato personalmente alla letteratura e alla sua promozione come i patroni letterari della repubblica, operava al tempo stesso nell’orbita e nell’interesse del titolare di un potere monarchico, cui si considerava, ed era, subordinato. Una relazione di patronato di tipo repubblicano quale quella di Properzio con i Volcaci evolve così, attraverso il subordinarsi politico e personale dei rappresentanti delle famiglie senatorie alla persona del principe, verso una relazione di patronato di tipo imperiale. Anche Virgilio e Orazio, del resto, erano entrati nella cerchia dei protetti di Mecenate dopo aver fruito del patronato di illustri membri dell’aristocrazia repubblicana come Asinio Pollione e Valerio Messala. Aggiungiamo che un’epigrafe, databile verso la fine del I a.C., opportunamente richiamata da Francis Cairns, sembra attestare l’esistenza di un rapporto, di cui non possiamo però definire la consistenza, della famiglia dei Volcacii con Mecenate e con sua moglie.30
Si tratta di un’epigrafe funeraria, pubblicata in Hammond 1980, in cui appaiono accostati i nomi di un liberto dei Volcaci, di un liberto di Mecenate e di uno schiavo (?) della moglie di Mecenate, Terenzia. Cfr. Cairns 2006, 21 e 252 s. Hanno insufficiente fondamento, come diremo tra poco, le ipotesi di nessi familiari tra Properzio e la moglie di Mecenate. 30
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L’avvicinamento a Mecenate, che possiamo ritenere facilitato dal pregresso rapporto con un consolare, figlio di consolare, così vicino a Ottaviano, è comunque da considerare in primo luogo come dovuto all’apprezzamento incontrato dal I libro presso il pubblico qualificato di Roma, e in particolare presso lo stesso Mecenate. Si trattò di una svolta decisiva nella vita e nella carriera poetica di Properzio, che acquistò sicurezza, ambizione, e che si sentì mobilitato verso nuovi temi poetici.31 3. Il II libro presenta, infatti, uno scenario molto diverso. Non solo esso si apre con una impegnativa elegia a Mecenate (2,1), elegia che, data la posizione iniziale, ha l’evidente funzione di dedica del libro al nuovo amico e protettore, e che contiene alti riconoscimenti ad Augusto. Non solo comprende un’elegia (2,10) in cui viene annunciata una svolta della poesia di Properzio verso la celebrazione delle gesta di Augusto: svolta poi subito rinviata ma che intanto dà luogo a una vibrante pagina di omaggio alle imprese militari del principe. Non solo contiene riferimenti eulogistici ad Augusto in altre quattro elegie (7,5 s.; 16,37-42; 31; 34,61-64). La presenza delle due alte figure pubbliche di Augusto e Mecenate, benché sia centrale solo in due elegie, acquista ulteriore rilevanza 31 Cairns 2006 che pure dà spazio e importanza alle ipotesi di relazioni familiari con Mecenate dei Volcaci (di cui ho detto qui sopra e in n. 30) e dello stesso Properzio (di cui dirò più oltre), ritiene (pp. 74-76, 251 s.) che il poeta sia stato costretto a cercare appoggio in Mecenate dopo che i patroni su cui poteva contare al tempo del I libro erano usciti di scena. Ma l’identificazione del Gallo del I libro con Cornelio Gallo, suicida nel 27 la ritengo, come ho detto, del tutto improbabile, e l’esaurirsi dell’influenza dei Volcacii, o addirittura la loro caduta in disgrazia, è mera ipotesi di Cairns in base alla mancanza di notizie su L. Volcacio Tullo dopo il proconsolato d’Asia e in base alla lunga permanenza del nipote a Cizico (Prop. 3,22,1 …tam multos placuit tibi Cyzicus annos), ove non sembra potesse avere alcun ruolo pubblico (Eck 2014, 6-8): permanenza che Cairns interpreta come un esilio di fatto (p. 76, è più cauto a p. 354). Ma Properzio, in 3,22, non suggerisce alcun disagio di Tullo a Cizico, ove anzi pare trovarsi a pieno agio (cfr. placuit) e parla apertamente della prospettiva, al suo ritorno a Roma, di aspirare a ulteriori cariche degne della sua tradizione famigliare (40 hic tibi pro digna gente petendus honos). La rinuncia per alcuni anni alla carriera poteva avere ragioni personali (ad es. qualche buona opportunità di guadagno a Cizico) o, come pensa Eck (l. cit.), derivare dalla percezione della scarsa probabilità di successo in anni in cui la posizione di console era riservata al principe e a poche persone a lui vicine. Weinlich 2015, 70 s. pensa che Properzio alluda al vuoto di posizioni verificatosi nel 23, e intende il riferimento come sarcastico, nel quadro di una, a mio parere impossibile, lettura ‘antiaugustea’ dell’elegia.
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per un’altra diversità molto vistosa rispetto al I libro: mi riferisco al venir meno delle figure di dedicatari individuali riconoscibili come persone reali del mondo di relazioni private del poeta, sia che fossero integrati nelle situazioni della convenzione elegiaca, come Pontico, Basso e Gallo, sia che ne fossero estranei, come il solo dedicatario del libro, Tullo. Nel II libro, che pure conta 34 elegie di contro alle 21 del I libro, sono molto pochi i personaggi diversi dal poeta e dalla sua donna che abbiano un ruolo nelle diverse situazioni elegiache, e in appena tre elegie (21, 22, 34) incontriamo personaggi dotati di un nome che li individui: e, per di più, si tratta sempre di un nome greco che, sempre, è evidentemente uno pseudonimo. Anche ammettendo che in qualcuno di questi casi, o in tutti, dietro lo pseudonimo si celi una persona reale, è un fatto che, attraverso gli pseudonimi, Properzio ha voluto sottrarre questi personaggi alla riconoscibilità da parte di ogni lettore estraneo a una cerchia privata di persone che sarebbero eventualmente state in condizione di riconoscerli.32 Solo nel caso di Linceo, protagonista dell’ultima elegia del libro (2,34), figura di poeta epico e tragico che si è rivelato inaspettatamente sensibile all’amore e ha cercato di sedurre Cinzia, il testo orienta a pensare a un personaggio reale nonostante la convenzionalità elegiaca della situazione in cui è collocato – situazione peraltro simile a quella in cui nel I libro è collocato il poeta epico Pontico, che è personaggio reale. Il punto è che Properzio ci dà una serie dettagliata di indicazioni, tutt’altro che scontate, sui temi trattati nei versi di questo personaggio, tra cui in particolare il suo interesse per la filosofia: indicazioni che mal si spiegherebbero nel caso di una figura fittizia e dunque meramente tipica. Jean-Paul Boucher, osservando che i generi praticati da questo personaggio (epica e tragedia) e gli specifici temi trattati, compreso il non ovvio interesse filosofico, si attaglierebbero alla figura di Vario, e che lo pseudonimo Lyn Cairns 2006, 257 e 271, pensa che Properzio, nel passaggio al patronato di Mecenate, possa aver soppresso da elegie già composte i riferimenti a persone connesse all’ambiente dei suoi precedenti protettori, abolendo nomi o sostituendoli con pseudonimi. Ma a parte l’improbabilità di questa autocensura, il protrarsi dell’assenza di riferimenti a persone identificabili nelle elegie erotiche del III libro mostra che si tratta di un’evoluzione della modalità elegiaca properziana indipendente dalla contingenza del passaggio a un nuovo rapporto di patronato. 32
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ceus potrebbe alludere al nome vero essendo maculata, e dunque varia la pelliccia della lince (variae sono qualificate le lynces in Virgilio, Georg. 3,264), ha sostenuto l’identificazione con Vario.33 In seguito, in un verso di questa elegia è stata anche notata la possibile eco di un verso di Vario.34 Q uesta identificazione, accolta con favore da vari studiosi ma contestata da molti altri,35 resta del tutto incerta, tanto più che è difficile ammettere che Properzio, anche se, in ipotesi, solo al fine di un amabile gioco letterario, coinvolga in una situazione elegiaca, attribuendogli un ruolo per certi versi imbarazzante se non addirittura ridicolo, un poeta epico molto più anziano, circondato da un’aura di grande prestigio.36 In particolare all’interno della cerchia mecenatiana, in cui Properzio era stato ammesso da poco, Vario era probabilmente il poe ta più anziano, e il suo ruolo doveva essere non inferiore a quello di Virgilio.37 Se invece l’ipotesi cogliesse nel segno, avremmo qui l’unica attestazione in Properzio, o in ogni altra fonte antica, di un rapporto personale del poeta, oltre che con Mecenate, anche con almeno un altro membro della sua cerchia: quella cerchia che Orazio rappresentava tanto compatta e coesa. Certo, nell’elegia a Linceo Properzio tesse alte lodi di Virgilio, che bene si attagliano a un Properzio ormai membro della cerchia. Ma Virgilio era già un personaggio pubblico, universalmente noto e ammirato. E quei versi esprimono fervida ammirazione, interpretano una ammirazione condivisa, ma non fanno allusione alcuna a un rapporto personale, che pure verosimilmente sussisteva. Anche nel caso di un altro dei personaggi designati con pseudonimo nel II libro si è ipotizzata l’identificazione con un poeta: Demofoonte (2,22) porta il nome dell’eroe greco figlio di Teseo che, di ritorno da Troia conquistò l’amore della principessa tracia Boucher 1958 e cfr. Boucher 1965, 272 e 298-300. Brugnoli in Brugnoli – Stok 1991, 133-135. 35 In Cairns 2006, 296 una rassegna di prese di posizione di vari studiosi. Cairns dichiara di considerare la questione aperta, ma di fatto sviluppa (pp. 295319) un’impegnativa analisi di 2,34 in quanto rivolta a Vario. 36 Così La Penna 1977, 11. Ricordiamo che già nelle Bucoliche (9,35 s.) Vario è considerato da Virgilio un poeta di grande prestigio cui egli stesso non osa paragonarsi. 37 Cairns 2006, 295-319 reinterpreta 2,34 appunto come un raffinato complimento a Vario e a Virgilio, e anche a Mecenate che ne è il comune protettore, da parte del giovane Properzio recentemente ammesso nella cerchia. 33 34
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Fillide, che poi abbandonò, e potrebbe dunque essere il Tuscus nominato da Ovidio (Pont. 4,16,20) come poeta che cantò Fillide. In questo caso l’ipotesi ha però molto minor fondamento, in quanto il testo di Properzio non dice che questo Demofoonte fosse un poeta. Il personaggio di Panto, rivale del poeta nell’amore di Cinzia nell’elegia 2,21, ci appare figura immaginaria, e tali saranno anche i rari personaggi ‘elegiaci’ anonimi che appaiono altrove nel libro. Dunque il poeta nel II libro ha ridotto il ruolo degli attori delle situazioni elegiache, e li ha sottratti alla riconoscibilità del pubblico generale, e nostra, attraverso l’anonimato o lo pseudonimo, lasciando indefinito se si tratti di persone reali o fittizie e consentendo perciò solo a un pubblico ristretto di riconoscervi eventuali figure reali. Si tratta di una complessiva scelta artistica, che attribuisce minore consistenza al contesto delle relazioni personali reali del poeta, il quale invece da un lato sviluppa maggiormente la dimensione monologica e introspettiva della sua poesia erotica, e dall’altro conferisce alla sua voce un carattere più generale e più idoneo ad assumere anche il compito di voce pubblica nella trattazione di temi civili e di omaggio ai personaggi pubblici di Mecenate e di Augusto, nonché nell’affermazione di fronte al più generale pubblico dei lettori di una crescente consapevolezza di essere una grande figura ormai canonica del genere elegiaco, capace di ogni più ambiziosa tematica. L’idea di scrivere solo o essenzialmente per un pubblico giovanile per guidare e accompagnare le sue esperienze d’amore, o per conquistare le ragazze si ripropone con insistenza (13,5-16 e 21-26; 34,31-58 e cfr. 5,6; 8,11 s.; 11,1 s.; 12,23 s.; 14,19; 24,1 s. e 21 s.; 25,39-45), ma entra in concorrenza con l’orgogliosa affermazione, in chiu sura del libro, di poter aspirare ad entrare nel canone dei grandi poeti latini d’amore destinati a essere letti da tutta la comunità e dai posteri (34,93 s. e cfr. 25,4). 4. Nel III e IV libro la tendenza si accentua ulteriormente. I componimenti in cui viene proposto il tipico scenario erotico elegiaco sono ancora dominanti nel III, ove però trovano spazio alcune impegnative elegie di tema diverso, mentre si riducono a tre soli casi nel IV (5, 7 e 8). Inoltre, nelle elegie di tema erotico tanto del III che del IV libro non vengono più coinvolti personaggi in 71
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cui si possa anche solo pensare di intravedere un dedicatario reale: si tratta ogni volta di schiavi e schiave, prostitute e mezzane, sempre con nomi greci. Un’elegia del III libro (3,22) è dedicata a Tullo, che è rimasto in Asia per molti anni e si accinge a rientrare a Roma. Anche in questa nuova apparizione, Tullo continua a non essere partecipe della vita elegiaca, come non lo era stato nel I libro, e anzi gli si prospettano, al suo ritorno, matrimonio, figli e nipoti come si conviene al membro di un importante casato.38 A questo punto Properzio stesso non gli parla come poeta dell’elegia d’amore, ma come voce pubblica, come poeta patriottico: alle bellezze dell’Asia, conosciute dall’amico, contrappone in una elaborata celebrazione ‘patriottica’, la superiore grandezza di Roma.39 Q uesta elegia attesta il mantenimento di un rapporto con Tullo, ma nulla ci può dire sul ruolo patronale eventualmente ancora esercitato da lui o dalla sua famiglia nei confronti del poeta. Consapevole di essere autorevole voce pubblica, Properzio può sentirsi legittimato a comporre un solenne epicedio per Marcello (3,18), non necessariamente commissionato da Mecenate o dalla famiglia di Augusto – la morte del giovane principe aveva certo colpito l’opinione pubblica e poteva essere assunta naturalmente e spontaneamente come tema di un componimento poetico – ma ovviamente scritto, quanto meno, con l’intenzione di risultare ad essi gradito. E si sente legittimato a proporre al pubblico generale e ai posteri l’epicedio per Peto (3,7), persona per noi sconosciuta e probabilmente poco nota anche ai lettori antichi esterni alla cerchia delle relazioni private del poeta (di un’ipotesi di identificazione, troppo esilmente fondata, secondo cui sarebbe stato figlio di un personaggio di alto livello, diremo tra poco). L’elegia è certo scritta per compiacere i familiari dello sfortunato giovane, ma è anche scritta, e pubblicata, presupponendo ormai che occasioni legate al mondo dei suoi rapporti privati siano, nella 38 Sulle ragioni della permanenza di Tullo in Asia non siamo informati: vd. sopra, n. 31. 39 Zetzel 1982, 99 nota il capovolgimento della situazione rispetto all’elegia 1,6: ora è Properzio che sollecita Tullo alle responsabilità del buon cittadino. Della crescente consapevolezza di Properzio di poter assumere una voce pubblica, che si rivolge a tutta la comunità e ai posteri, ho trattato in Citroni 1995, 401-408, cui rinvio.
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elaborazione letteraria che egli è capace di darne, di interesse universale. Q uesta considerazione potrebbe riguardare anche l’elegia del III libro dedicata a Postumo e Galla (3,12), una coppia di giovani sposi, in occasione della partenza di Postumo per una spedizione in Oriente. È comunemente considerata probabile l’identificazione di questo Postumo con il Gaius Propertius Postumus che, come attesta la sua epigrafe funeraria (CIL 6, 1501 = ILS 914), percorse la carriera senatoria, quasi certamente in età augustea, rivestendo vari incarichi fino alla pretura e a un proconsolato e che, data la relativa rarità del nome Propertius, è generalmente ritenuto un parente del poeta.40 Ma dubbi motivati sono stati espressi da qualche studioso in primo luogo sul fatto che il Postumo di 3,12 vada considerato persona reale (già Pasquali, ad es., sosteneva dovesse essere considerato figura fittizia 41), poi sul fatto che, nel caso, debba trattarsi proprio di quel personaggio e, infine, sulla parentela di costui con il poeta.42 Le principali ragioni di dubbio sono: il fatto che Postumo è cognomen comunissimo; il fatto, probabilmente decisivo, che il dettagliato cursus honorum registrato dall’epigrafe non comprende alcuna spedizione in Oriente; il fatto che le epigrafi relative ai Properzi di Assisi ne attestano generalmente l’appartenenza alla tribù Sergia mentre Properzio Postumo apparteneva alla tribù Fabia, mai attestata per assisiati.43
40 Così, ad es., Rothstein 1924, 102 s.; Butler – Barber 1933, 293; Lambertz 1953; Hanslik 1957; Fedeli 1985, 397; Syme 1939, 384 e 466; Syme 1978, 102 (in questo caso con un’espressione di dubbio); Syme 1986, 308 e 359, n. 100; PIR P 1010 [1998]; Cairns 2006, 16-20 (e pp. 28 e 43 «his cousin»), il quale ritiene che il conseguimento della cura viarum sia segno di particolare favore verso il presunto parente del poeta da parte di Augusto, che doveva avere speciale attenzione per questa carica visto che la rivestì personalmente nel 20 a.C. Nisbet – Hubbard 1978, 223 considerano plausibile anche l’identificazione con il Postumus di Hor. Carm. 2,14, già ipotizzata da altri, accolta, dubitativamente, da Syme 1986, 386, appoggiata con ulteriori congetture da Cairns 2006, 19 s.; 23 s., negata da White 1993, 251 che ritiene il Postumo di Orazio sicuramente più anziano. 41 Pasquali 1920, 468 s. 42 White 1993, 251 esprime una posizione nettamente negativa su questi due punti. Anche per Forni 1985, 212-216 [1986, 193-195], Bonamente 2004, 33 s.; Eck 2014, 9 s. si tratta di ipotesi prive di sufficiente fondamento. 43 Wiseman 1971, 254, n. 345 e cfr. PIR P 1010 [1998].
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La forza di quest’ultima obiezione è stata peraltro messa in discussione, per l’esistenza di qualche parziale eccezione.44 Si è anche pensato che Galla, la moglie del Postumo di 3,12, il cui nome nell’ultimo verso dell’elegia è stampato nelle edizioni nella forma Aelia Galla, potesse essere una parente (sorella, o più probabilmente figlia, o nipote) di Elio Gallo, prefetto dell’Egitto tra il 27 e il 24 a.C., dopo Cornelio Gallo.45 L’ipotesi è però debole. Tra l’altro, come ci ricorda Peter White, il consenso dei manoscritti ha la lezione L(a)el(l)ia: la correzione Aelia, accolta da tutti gli editori, risale al Gulielmius che appunto vedeva una difficoltà nella mancanza di attestazioni dell’unione dei nomi Laelius e Gallus: 46 la correzione è, certo, molto probabile, ma pur sempre congetturale. Syme, con ipotesi molto audace, suggeriva che Peto, il giovane di cui Properzio in questo stesso libro pubblicava l’epicedio, perito in mare nel corso di un viaggio che aveva come meta appunto l’Egitto (3,7,5 Petum ad Pharios tendentem lintea portus), fosse un figlio di Elio Gallo, il quale avrebbe poi adottato Elio Seiano.47 Se questa congettura cogliesse nel segno, insomma, anche l’epicedio per Peto ci ricondurrebbe nell’ambito delle relazioni personali di parentela e affinità di un poeta che assegna alla sua persona e alla sua voce un ruolo ormai pubblico. Ma è congettura che ha solo l’assai tenue supporto della attestazione del cognomen Peto per illustri rappresentanti della antica famiglia degli Aelii: e comunque nulla se ne può ricavare, se non costruendo congetture su con44 Forni, che pure dubita della parentela tra il poeta e Properzio Postumo, segnala (1985, 215 [= 1986, 194]) due casi di umbri, non assisiati, iscritti a Roma nella tribù Fabia e (Forni 1982, 27) vari casi di assisiati registrati in tribù diverse dalla Sergia (ma non nella Fabia); documenta inoltre, specie in Forni 1966, che vi erano varie possibilità, e motivazioni, di cambiamento della tribù di appartenenza da parte degli italici. 45 Così ad es., von Rohden 1984 e 1984a, Butler – Barber 1933, 293, Fedeli 1985, 397: sorella; Rothstein 1924, 102: figlia; Nisbet – Hubbard 1978, 223 s.: figlia o piuttosto sorella; Syme 1939, 384: figlia; Syme 1978 102: sorella, figlia o nipote, e così anche Cairns 2006, 20; Syme 1986, 308: figlia o nipote. Eck 2014, 10 ammette la possibilità di una parentela. 46 Gulielmius 1583, 239. Cfr. White 1993, 250; Cairns 2006, 20. 47 Syme 1978, 102; Syme 1986, 308; seguito da Cairns 2006, 20 s., che cerca altri indizi in tal senso e accede anche all’ulteriore audace idea, già suggerita implicitamente da Syme 1986, che proprio la morte di questo presunto figlio avrebbe indotto Elio Gallo ad adottare Seiano.
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getture, per quanto riguarda le relazioni di patronato del poeta. Del resto Peto nell’elegia properziana è qualificato come pauper per condizioni famigliari (v. 46), il che non sembra corrispondere alla figura di un figlio di prefetto d’Egitto, e in ogni caso non corrisponde alla appartenenza a una famiglia che eserciti il patronato delle lettere.48 Nel quadro di queste ipotesi, Nisbet e Hubbard hanno anche rilevato che la madre di Seio Strabone, il cui figlio Elio Seiano fu adottato da Elio Gallo, era una Terenzia, probabilmente sorella della moglie di Mecenate. Se Galla fosse parente di Elio Gallo, e suo marito Postumo parente di Properzio, ne deriverebbe un legame familiare, benché molto indiretto, di Properzio con Mecenate che Francis Cairns pone tra le condizioni che avrebbero potuto facilitare l’ingresso del poeta nella cerchia di Mecenate:49 ma l’assoluta incertezza delle identificazioni di Galla e Postumo di cui si è detto rende tutte queste costruzioni congetturali troppo precarie. Il componimento occasionale per Postumo e Galla trova per così dire una replica e variazione nel IV libro nella lettera di Aretusa a Licota (4,3), una coppia di sposi designati con pseudonimi. Vari interpreti, in base alla affinità della situazione presupposta, pensano che si tratti ancora di Postumo e Galla, gli sposi di 3,12, che verrebbero ora riproposti con degli pseudonimi. Ma nulla di certo possiamo dire in proposito, o comunque sulla identità di questi due personaggi. Le elegie del IV libro non hanno dedicatari individuali espliciti. La voce pubblica del poeta è predominante, e si fa, nelle numerose elegie eziologiche, voce narrante delle antichità e glorie di Roma: cfr. 1,1-70; 2; 4; 9; 10. In 4,6, celebrazione dell’origine del tempio di Apollo Palatino (edificio in evidenza anche in apertura del libro: cfr. 4,1,3) e della vittoria di Azio, la voce del poeta è quella di un sacerdote, un vates che con i suoi versi officia un pubblico rito. 48 Cairns 2006, 21, adducendo Val. Max. 4,4,8 s., ricorda che la famiglia degli Aelii appunto vantava la modestia dei propri mezzi privati a fronte dei grandi meriti pubblici: ma si tratta di un vanto che risaliva a tempi lontani, e che difficilmente era ancora attuale in età augustea. 49 Nisbet – Hubbard 1978, 223 s.; Cairns 2006, 20 s., che sottolineano anche l’origine etrusca di Seio Strabone.
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La voce personale, che si presume autobiografica, del poeta come persona individuale è presente nella prima parte del proemio (ma trasformata in quella di una guida al percorso eziologico che si svilupperà nel corso del libro) e la voce del poeta come amante è presente nelle elegie d’amore, ma non si rivolge a figure di amici e dedicatari. L’epicedio di Cornelia, che chiude il libro, e in cui la parola è assegnata alla defunta, è evidentemente scritto per compiacere i suoi congiunti, membri delle eminenti famiglie della defunta e del marito, ed è, dopo le elegie per Tullo, il solo componimento properziano che attesti un legame con personaggi contemporanei diversi da Mecenate e Augusto sicuramente identificabili, autorevoli e influenti, potenzialmente capaci di esercitare il patronato. Ma sia il personaggio di Cornelia (figlia di Scribonia, terza moglie di Augusto, e dunque sorellastra della di lui figlia Giulia), sia quello di suo marito ci riconducono in verità direttamente ad Augusto, cui erano legati molto strettamente, per relazioni familiari e politiche.50 Come il II libro, anche il III contiene un’impegnativa elegia dedicata a Mecenate, peraltro in collocazione di minore evidenza, al nono posto: non si tratta dunque, formalmente, della dedica del libro. Anche questa è una recusatio attraverso cui, oltre al dedicatario, si celebra, sia pure nella forma ‘minore’ che la recusatio può concedere, anche e anzi in primo luogo Augusto. A lui in questo libro, a differenza che nel II, non va alcuna dedica esplicita di elegie, ma lo spazio per elogi nei suoi confronti si apre in componimenti di tema diverso: in 3,4, quasi una nuova recusatio ad Augusto, anche se non a lui rivolta; in 3,11,29-72, e cfr. i rapidi riferimenti in 3,12,2 e 3,18,12 (nell’elegia per la morte di Marcello, che coinvolge comunque direttamente Augusto). E così sarà nel diverso impianto del IV libro: non dediche dirette, né a Mecenate né ad Augusto, ma molto spazio alla celebrazione di Augusto in 4,6 e a temi ideologici sicuramente molto cari al princeps nelle elegie eziologiche.
50 Puntualmente riepilogate in Cairns 2006, 360 s. e Eck 2014, 11-13, il quale giustamente nota come tutto ciò che si dice in questa elegia era di dominio pubblico e che non abbiamo quindi elementi per dire se Properzio avesse contatti personali con Cornelia o con il marito.
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5. Solo due elegie a Mecenate, dunque, delle quali una sola di dedica di un libro, e solo un’elegia rivolta direttamente ad Augusto. Il rapporto con Mecenate è presentato da Properzio nel modo più esplicito nei termini della clientela e al tempo stesso è animato da un calore affettivo che è proprio dell’amicizia: ormai, dopo il lungo dibattito, tuttora vivacemente in corso, sui concetti di amicitia romana e di patronato e clientela, sappiamo che i due elementi non sono reciprocamente esclusivi, ma possono convivere, e anzi comunemente convivono anche nello stesso rapporto e nella stessa persona.51 Non solo amicitia può essere eufemismo per coprire rapporti tra soggetti socialmente diseguali tra i quali prevale la dimensione dell’utilità reciproca e dell’esercizio di potere, e che dunque rientrerebbero di fatto nella categoria di patronato-clientela, ma sul piano sostanziale sentimenti e comportamenti propri dell’amicitia, cioè connotati da affettività, altruismo, abnegazione, di fatto intercorrono tra soggetti socialmente diseguali che si scambiano i benefici e i servizi propri del rapporto di patronato e clientela. Ciò si verifica in particolare anche nel mecenatismo letterario, ove il prestigio intellettuale della parte socialmente debole attenua la distanza, o ne trasforma la percezione, senza annullarla. Properzio, in modo confrontabile a Orazio, ma diverso nei toni e nello stile poetico e umano, professa con enfasi la sua condizione di dipendenza, di inferiorità, di subordinazione di fronte a Mecenate, e al tempo stesso l’intensità dell’affetto. In particolare, nella recusatio del III libro Properzio dichiara una totale dipendenza umana e poetica da Mecenate: pretende che il proprio ritegno ad affrontare la grande epica, cui si teme impari, sia un conformarsi, che sente come per lui dovuto e inevitabile (cogor), al modello comportamentale dello stesso Mecenate (3,9,21 s. At tua, Maecenas, vitae praecepta recepi / cogor et exemplis te superare tuis), il quale si astiene dall’assumere gli alti ruoli politici e militari che pure sarebbero alla sua portata. Ma se Mecenate vorrà invece essergli guida verso gli impegni più ardui (47 te duce), Non avrebbe senso dare qui una bibliografia che rifletta l’ampiezza del dibattito che si è aperto in proposito a partire soprattutto dalla fine degli anni ’70 è che è tuttora in corso tra studiosi di storia, società e letteratura di Roma antica. Mi limito a rinviare alla lucida sintesi di Konstan 2005, con bibliografia essenziale. 51
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egli li affronterà, certo che la sua capacità, la sua vocazione (ingenium) crescerà se sarà sostenuta dagli ‘ordini’ (sub iussa) del suo dux: indicazioni cui evidentemente si sente vincolato ad attenersi nell’interesse stesso della qualità della sua poesia (52 crescet et ingenium sub tua iussa meum).52 Chiede dunque a Mecenate di prendere lui in mano le redini della sua giovinezza di cui è il sostenitore (fautor), di guidarlo, sia pur senza rigidità (57 mollia tu coeptae fautor cape lora iuventae: ma mollia è congettura di Broekhuyzen, per lo più accolta dagli editori; mollis dei codici sarebbe da riferire, predicativamente, a Mecenate; solitamente si vede in questo aggettivo un riferimento al genere elegiaco, che il poeta sta continuando a praticare, spesso qualificato come mollis e confacente alla iuventa) e di indirizzare la sua corsa con segnali propizi (58 dexteraque immissis da mihi signa rotis). Ed è grato a Mecenate perché gli concede la gloria, che da Mecenate stesso dipende, di essere considerato un suo seguace (59 s. hoc mihi, Maecenas, laudis concedis et a te est / quod ferar in partis ipse fuisse tuas). Se qui lo prega di assumere la guida della sua giovinezza, alla fine del proemio del II libro lo invocava come nostrae spes invidiosa iuventae, «speranza, che gli altri mi invidiano, della mia giovinezza» e vitae et morti gloria iusta meae, «meritata ragione di gloria per me in vita e in morte» (2,1,73 s.). Sono espressioni che fondono con forza e intensità senso di dipendenza e senso di riconoscente fiducia che questa dipendenza sia ragione e garanzia di crescita umana e artistica (si noti l’insistenza su giovinezza e sviluppo: spes iuventae; coeptae iuventae) e infine di una gloria che È discusso il grado di perentorietà da attribuire a iussa, usato anche da Virgilio nei confronti di Asinio Pollione (Ecl. 8,11 s. iussis carmina coepta tuis) e di Mecenate (Georg. 3,41 tua …haud mollia iussa). White 1993, 266-268 segnala il carattere convenzionale di iubeo per sollecitazioni di carattere letterario. Dei 27 passi da lui raccolti, tre sono anteriori a Virgilio e sembrano garantire una convenzionalità del termine nel linguaggio di cortesia corrente già prima che i passi virgiliani potessero eventualmente imporsi come modello agli autori successivi. Cfr. Cicerone ad Attico: magnum opus … ut iubes, curabo (2,4,3); quod iusseras edolavi (13,47); Q uinto Cicerone al fratello: poema iubes perficere (Q .fr. 3,6(8),3). White rileva che in vari casi la richiesta espressa con iubeo non proviene da persona di condizione più elevata. Si deve probabilmente sempre intendere che chi riceve la richiesta, o anche solo ritiene che le richiesta potrebbe essere nelle intenzioni dell’interlocutore, vuole evidenziare, per ragioni di cortesia e di riguardo nei suoi confronti, che si considera a essa vincolato. Vd. anche la trattazione di La Penna 1987, 412. 52
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percorre tutta la vita e si spinge oltre la morte. Sono prospettive inebrianti, che il credito pubblico riconosciutogli da Mecenate con l’ammissione nella cerchia dei suoi protetti rende ora per lui raggiungibili. I termini accesi, appassionati, con cui Properzio si esprime vogliono mostrare l’affetto di cui si carica la gratitudine per chi gli ha reso possibili questi traguardi. Ma anche da parte del protettore, nell’immagine che il poeta ha di lui, o almeno nel l’immagine di lui che egli ha voluto trasmetterci, vi è una penetrante carica affettiva nei confronti del suo protetto, pur nella superiorità della propria condizione. Subito dopo le parole che abbiamo ora esaminate, Properzio conclude l’elegia proemiale del II libro con la visione di Mecenate che un giorno, disceso dal suo cocchio lussuoso, si chinerà a piangere sulla tomba che racchiude la cenere muta del poeta, vittima di un amore infelice. 6. Properzio scrive il suo I libro in una Roma in cui il patronato letterario di Mecenate è una realtà molto solida che da almeno dieci anni, forse addirittura da quindici, sta convogliando intorno al sostegno della causa politica di Ottaviano molti intellettuali e poeti, almeno alcuni dei quali peraltro, come certamente Orazio, già in precedenza, autonomamente, sentivano il bisogno di impegnare comunque la loro poesia nella causa della civitas. Altri, come probabilmente Vario che già nel 35 era considerato il nuovo grande epico di Roma (Hor. Sat. 1,10,43 s.), certo già autonomamente sentivano il bisogno di un ritorno all’epica. Diversamente Properzio, che prima dell’avvicinamento a Mecenate non pare aver avvertito, comunque non ha espresso, aspirazioni diverse da quella per la poesia d’amore. Al tempo del I libro, estraneo al mondo mecenatiano, egli si confrontò con le possibilità tradizionalmente offerte dal patronato repubblicano, fruendone forse in misura alquanto ridotta e forse più per l’accreditamento sociale nella capitale che per sostegni materiali: ma nulla di certo si può dire su questo punto. Nulla sappiamo del resto anche di favori e vantaggi materiali che egli possa aver ricevuti da Mecenate. La collocazione della sua abitazione sull’Esquilino, probabilmente in stretta prossimità degli Horti Maecenatiani ove abitava lo stesso Mecenate, ha dato spunto all’ipotesi che si trattasse di una casa donatagli, o messagli a disposizione, da Mecenate. Tanto più che anche Virgilio abitava, secondo la vita svetoniana, 79
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in prossimità degli Horti Maecenatiani, e su quel colle ebbe casa anche Orazio.53 Ma siamo nel campo delle ipotesi. L’aprirsi della poesia di Properzio a temi più ampi, etici e civili, dopo il I libro, fu graduale, e parziale: le pressioni del patrono cooperarono verosimilmente con ambizioni genuinamente maturate dal poeta anche per gli stimoli ricevuti dagli altri poeti della cerchia mecenatiana e dalla complessiva atmosfera della Roma del dopo-Azio. Il patronato di Mecenate, in quanto fu esercitato a vantaggio di colui che sarebbe divenuto la guida dello stato e l’iniziatore dell’impero, fu di fatto incunabolo del futuro patronato imperiale. Fu, in un certo senso, integrazione nella persona di Mecenate del patronato di un magnate privato, ricco e amante delle lettere, e del patronato del principe esercitato tramite questo stesso magnate. Ma, parallelamente, il principe stesso esercitava, certo d’intesa con Mecenate, un patronato diretto. Sappiamo dalle notizie biografiche antiche che intratteneva un rapporto personale con Virgilio e Orazio, che scriveva loro delle lettere, che ne sosteneva e indirizzava l’attività, che faceva parte, a volte, del loro uditorio privilegiato. L’epistola di Orazio ad Augusto, appunto sollecitata da una lettera dello stesso Augusto conservataci da Svetonio nella sua biografia di Orazio, testimonia questo rapporto diretto del principe con i poeti sia per la sua natura di epistola al principe, sia per le affermazioni in essa contenute: Orazio attribuisce ad Augusto il ruolo e la responsabilità di indirizzare la produzione letteraria e gli dà le indicazioni perché possa farlo secondo le linee che Orazio ritiene opportune. Attesta esplicitamente, sia pur in chiave caricaturale, che i poeti comunemente si aspettano incentivazione e sostegno economico proprio da una spontanea e generosa ini53 L’ipotesi che la casa di Properzio potesse essere un dono di Mecenate era stata già formulata da Rothstein 1924, 177 solo sulla base del fatto che il poeta in 3,23,24 dice di abitare sull’Esquilino. La collocazione della casa di Properzio in prossimità degli Horti Maecenatiani è sostenuta con argomentazione sottile ma efficace e probabile da Grüner 1993, il quale nota come i poeti augustei per i quali abbiamo informazioni sul luogo di abitazione (Virgilio, Properzio, Orazio, Albinovano Pedone) risultano aver tutti abitato sull’Esquilino, e i primi due in prossimità degli Horti Maecenatiani, ma lascia prudentemente aperta la questione se questo presunto ‘quartiere dei poeti’ si fosse formato per libera scelta dei poeti stessi o perché Mecenate, donando o mettendo loro liberalmente a disposizione gli alloggi li avesse di fatto costretti a risiedere a lui vicini. Cairns 2006, 258 s. opta con sicurezza per questa seconda ipotesi.
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ziativa personale del principe (Epist. 2,1,226-228 ut …nos… commodus ultro / arcessas et egere vetes et scribere cogas), e senza ombra di caricatura afferma che Augusto in persona valuta e, se del caso, loda e premia i poeti, provando inoltre per essi sentimenti di amicizia (245-247 tua … iudicia atque / munera quae multa dantis cum laude tulerunt dilecti tibi Vergilius Variusque poetae). L’epistola di Orazio ad Augusto è scritta intorno al 13 a.C., qualche anno dopo la pubblicazione dell’ultimo libro di Properzio. Si è spesso detto che questo più diretto ruolo di Augusto come protettore e guida della produzione letteraria caratterizza gli anni successivi al 20 a.C., quando Mecenate avrebbe invece, da parte sua, ridotto, o concluso, il suo impegno in quel senso, come sarebbe dimostrato dal fatto che Orazio, che in precedenza aveva dedicato a lui ogni sua raccolta rivolgendogli il componimento di apertura, o quello centrale, e in ogni suo libro gli aveva consacrato largo spazio, dopo quella data gli dedica solo un’ode, non proemiale, del IV libro (4,11). E come sarebbe confermato dal fatto che il nome di Mecenate non appare più nel IV libro di Properzio. Q uesto silenzio dei poeti è stato messo in relazione con la notizia, che Tacito ci fornisce, peraltro senza una collocazione cronologica né una precisa motivazione, di un venir meno, a un certo punto, del ruolo di Mecenate come amico e consigliere di Augusto.54 È stato più volte obiettato che i rapporti personali dovettero restare intatti, se Mecenate nel testamento nominò erede Augusto (Cass. Dio 55,7,5) e affidò Orazio alla sua protezione (Suet. vita Hor.). Gordon Williams e Peter White hanno individuato e valorizzato varie altre notizie che mostrano come l’autorevolezza e il prestigio di Mecenate, che avevano come presupposto il suo rapporto
54 Tac. Ann. 3,30,4; 14,53,3 e 55,2 e cfr. Cass. Dio 54, 19,3 e 6. Dopo che Syme 1939, 341 s. 409, 412 (e cfr. Syme 1978, 114; 1986, 389) aveva riproposto la tesi secondo cui all’origine del distanziamento da Augusto vi era il comportamento tenuto da Mecenate in occasione della congiura di Murena, collocata da Syme nel 23 a.C., si era consolidata l’idea che da quella data e da quell’episodio potesse derivare anche il venir meno delle dediche dei poeti: cfr. ad es. Dalzell 1956, 151 s.; La Penna 1963, 115 s. e 139; Williams 1968, 87 s.; Williams 1978, 56-59; Brink 1982, 527-530; 546-551; 559 s. La Penna 1996, 802 (e in altri suoi interventi) mantiene l’idea di un declino del potere di Mecenate, come attestato da Tacito, e di un più diretto impegno di Augusto nel guidare le lettere, ma non crede a un peggioramento delle relazioni tra i due sul piano personale (su questo punto era stato comunque molto cauto anche in La Penna 1963, 115).
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personale con Augusto, non siano mai venuti meno.55 Ma la testimonianza di Tacito non può essere trascurata: un certo distacco ci fu, anche se non fu esibito né ufficializzato, come Tacito stesso ci fa capire. Ed è verosimile che il venir meno di Mecenate nel IV libro di Properzio, e la drastica riduzione della sua presenza in Orazio, ne siano una conseguenza. Più incerto è se vada considerata una conseguenza di questo verosimile parziale distanziamento tra Augusto e Mecenate anche il fatto che solo in questa fase più tarda si collocano le notizie dateci dalla vita oraziana di Svetonio relative a interventi diretti di Augusto su Orazio per commissionargli dei componimenti: nel 17 a.C. l’incarico di comporre il Carmen saeculare e in anni successivi le richieste di odi in celebrazione delle vittorie di Tiberio e di Druso, e di un’epistola poetica a lui stesso dedicata. White ricorda che l’interesse diretto di Augusto sulla produzione di Virgilio ci è attestato già in anni precedenti.56 Egli cita la richiesta di modifica del finale delle Georgiche dopo la morte di Gallo nel 27/26 a.C.; lo scambio di lettere tra Augusto e Virgilio sul progresso della composizione dell’Eneide negli anni tra il 27 e il 24; la lettura di alcune parti dell’Eneide alla presenza sua e di Ottavia, databile al 22; l’incarico a Vario e a Tucca di curare l’edizione dell’Eneide nel 19. Ma si può risalire a tempi ancora precedenti. Abbiamo ricordato che già nelle Bucoliche, opera in 55 Williams 1990 (modificando sue precedenti posizioni) e, indipendentemente, White 1991, con argomenti in parte simili, contestano l’attendibilità della notizia su un comportamento improprio di Mecenate in occasione della congiura, e notano come proprio il contesto della fonte (Suet. Aug. 66) escluda che ne sia conseguito un peggioramento del rapporto con Augusto. Meno convince la tesi secondo cui anche i passi di Tacito non basterebbero a farci credere a una riduzione del potere di Mecenate. Williams formula l’ipotesi improbabile di un accordo stabilito tra i due fin dall’inizio su un trasferimento in futuro ad Augusto della gestione dei rapporti con i poeti, trasferimento che sarebbe avvenuto dopo il 18 a.C., una volta raggiunta la pienezza di pace e stabilità politica. White (cui si deve comunque la più lucida e approfondita analisi di tutta la questione, con ulteriore bibliografia) legge i passi tacitiani come una reinterpretazione tendenziosa di quel disimpegno politico di Mecenate che, dal 29 a.C. in poi, sarebbe stata fisiologica conseguenza della normalizzazione della politica romana dopo le guerre civili (cfr. già in questo senso Reckford 1959, 196-199), per cui non furono ulteriormente consentiti incarichi di elevata responsabilità a un eques, e ricorda che Tacito stesso in Ann. 6, 11, 2 dice che dopo le guerre civili Mecenate non ebbe più incarichi di governo, affidati da allora in poi a senatori. 56 White 1991, 138.
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cui Mecenate ancora non appare, è certo Ottaviano – se pur non nominato – il personaggio ringraziato come deus per i benefici salvifici accordati al poeta-pastore. Al 29 risalgono la lettura virgiliana delle Georgiche personalmente a Ottaviano e il ricchissimo premio assegnato a Vario. Ma ciò che ritengo soprattutto notevole è che ai vv. 226-228 dell’epistola di Orazio ad Augusto qui sopra citati l’interessamento diretto del principe nei confronti della produzione poetica contemporanea è dato come cosa pacifica nella comune coscienza dei poeti, i quali si attendono personalmente da lui attenzione, considerazione e riconoscimenti anche materiali. Il quadro che Orazio dipinge, al di là degli elementi caricaturali, presuppone una situazione già consolidata di rapporto diretto del principe con i poeti del tempo. Un patronato diretto, efficace e concreto, sui poeti, Augusto lo esercitava dunque da molti anni, certo già ben prima del presunto appartarsi di Mecenate. Lo esercitava, evidentemente, nei limiti del tempo disponibile, che doveva essere, specie fino al 27, assai ristretto. E lo esercitava in parallelo e integrazione con l’azione di Mecenate, la quale si svolgeva essa stessa in larga parte a suo nome. Ma il ruolo di protagonista di Mecenate nel rapporto con i poeti è confermato dal fatto che agli occhi stessi degli antichi, fu la sua figura, non quella di Augusto, a fissarsi come quella del titolare emblematico del ruolo di protettore delle lettere.57 Alla crescita del potere di Ottaviano corrispose, a quanto possiamo giudicare, un ampliamento e una crescente centralità del patronato congiunto di Mecenate e del principe che, già quasi precorrendo il modello ‘centralistico’ del mecenatismo imperiale, arrivò ad oscurare gli altri centri di patronato letterario, pur ancora attivi autonomamente secondo il tradizionale modello repubblicano. L’entrata di Properzio nella cerchia di Mecenate può valere essa stessa come un segno della crescente centralità di quella cerchia, che tende a monopolizzare il patronato letterario. Le parole di Properzio 3,9,59 s. che abbiamo richiamate verso la fine del precedente paragrafo: hoc mihi, Maecenas, laudis concedis et a te Nella Laus Pisonis (v. 248) che secondo la ricostruzione, a mio parere convincente, di Champlin 1989 si data intorno a 39 d.C., troviamo già l’uso del nome di Mecenate come ‘antonomasia’ per indicare il protettore ideale delle lettere, uso che ricorrerà anche in Mart. 8,55,5 e cfr. 11,3,10 e Iuv. 7,94. Cfr. anche Bellandi 1995, 84 s. 57
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est / quod ferar in partis ipse fuisse tuas possono essere interpretate anche come attestazione dello straordinario valore che a questo punto veniva attribuito alla partecipazione a un gruppo sempre più egemone. Dal quadro delle persone coinvolte come dedicatari o oggetto di omaggi nei libri successivi al I non sembra, come abbiamo visto, che Properzio si appoggiasse anche ad altri personaggi influenti del tempo attivi come ‘mecenati’ in parallelo a Mecenate, secondo il modello policentrico repubblicano: modello che si andava esaurendo, ma continuava a operare, come vediamo dalla poesia di Ovidio dall’esilio, che attesta le varie relazioni che questo poe ta aveva instaurato con personaggi di rango elevato. L’elegia per la morte di Cornelia non basta a provare rapporti di Properzio con membri dell’aristocrazia augustea non correlati con il suo rapporto con Mecenate, e per suo tramite con Augusto, dato lo stretto legame delle famiglie di Cornelia e del marito di lei con Augusto. Nel caso di Properzio, anche in assenza di biografie antiche, non conserviamo notizie di sue relazioni personali col principe. Perciò non siamo autorizzati a considerare Augusto come un suo patrono diretto.58 Ma lo spazio che gli è dato, dopo il I libro, è consistente, e la sua figura ha sempre più un ruolo di alto punto di riferimento. Anzi, nelle elegie per Mecenate Properzio esplicita una verità in certo senso scontata, ma che solo in lui, tra i poeti della cerchia, troviamo apertamente dichiarata. Nell’elegia 2,1 Mecenate, con tutti i suoi meriti personali e l’affetto che suscita, è dichiarato figura totalmente subordinata ad Augusto non solo, come ovvio, per il ruolo pubblico rivestito (questo aspetto trovava espressione, svolta sul piano della totale abnegazione personale nei confronti dell’amico e della sua causa, nell’apertura degli Epodi di Orazio: 1,3 s. paratus omne Caesaris periculum / Diversamente Cairns 2006, 320-361 vede in Augusto il patrono diretto di Properzio nel IV libro, e in parte anche nel III, e considera come propriamente commissionate da Augusto (o eventualmente ancora da Mecenate, ma al preciso fine di compiacere Augusto) varie elegie, quali già 2,31, con l’ekphrasis della porticus del tempio di Apollo Palatino e poi 3,4; 3,18 e 4,11. In Williams 1990, 265 s. utili osservazioni su come da un lato Augusto, nella sua condizione sovraordinata a quella di Mecenate, è indirettamente patrono dei poeti da lui protetti, ma d’altro lato, nella loro poesia, «è sempre considerato come un ente al di sopra dell’ordinario livello umano». 58
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subire, Maecenas, tuo), ma anche come tema della sua poesia.59 Q uesta, nella misura in cui sarà capace di essere celebrativa, avrà Mecenate (2,1,25 s.) solo come tema subordinato (cura secunda), al di sotto del tema principale, costituito da Cesare (Caesare sub magno), dalle guerre e dagli atti di quel Cesare (il nome è ripetuto con enfasi) che è ‘tuo’ (bellaque resque tui memorarem Caesaris). Ciò che di Mecenate sarà oggetto di celebrazione sarà la sua fedeltà ad Augusto in pace e in guerra (36 et sumpta et posita pace fidele caput). Nel l’elegia 3,9 Properzio dichiara che se Mecenate si deciderà ad assumere in prima persona responsabilità pubbliche, civili e militari, e darà cosi l’esempio a Properzio ad assumersi le più alte responsabilità di poeta, la gloria che egli sa di poter allora celebrare in Mecenate, i suoi vera tropaea, sarà (33 s.) quella della fides nei confronti di Augusto, alla cui fama egli si accosterà seguendone, sia pur da vicino, le orme (Caesaris et famae vestigia iuncta tenebis). Q uesta aperta professione del fatto che il patrono, per quanto illustre e venerato, ha a sua volta qualcuno che sta sopra di lui – il fatto stesso che ciò possa essere detto senza offesa, perché è un fatto comunemente riconosciuto che quel qualcuno sta al di sopra di tutti – ci fa in qualche modo sentire già in un quadro imperiale, quando il patronato sarà apertamente esercitato, per conto del sovrano, da dignitari di corte, eventualmente anche liberti. I poeti intorno a Mecenate, e lo stesso Properzio, hanno anche molta libertà: Properzio potrà coltivare finché ne sentirà la vena, una poesia d’amore libertina che si pretende corrispondente alla vita, non separata da essa, e potrà formulare, accanto a molte dichiarazioni di omaggio ad Augusto, anche alcune decise dichiarazioni di fastidio e rifiuto contro idee propagandate dal regime, o normative da esso avanzate, in termini di militarismo e di moralizzazione dei comportamenti (2,7; 15,41-46; 16,19 s.; 3,4, 21 s.; 5,11 s.; 47 s.; 12, 5 s.). E potrà combinare l’elogio di Augusto con il ricordo della ingiusta sofferenza inflitta alla terra etrusca (2,1,29).60 59 Cairns 2006, 324 s. ritiene che Augusto abbia più spazio di Mecenate nella poesia di Properzio. Io mi riferisco qui alle dichiarazioni programmatiche di Properzio di subordinazione del tema ‘Mecenate’ al tema ‘Cesare’. 60 In questo lavoro non ho inteso confrontarmi con quanti leggono in Properzio una trama di allusioni e riferimenti ostili ad Augusto e allo stesso Mece-
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Alla grande domanda, se e fino a che punto la protezione, e i favori probabilmente anche materiali, ricevuti da Mecenate (dei quali però assolutamente nulla sappiamo) abbiano condizionato il suo atteggiamento nei confronti del princeps e abbiano condizionato il percorso della sua poesia verso tematiche civili e nazionali, o se questo percorso corrispondesse a ragioni umane e artistiche da lui comunque autonomamente sentite, o se ancora, queste relazioni con i grandi di Roma avessero nutrito e arricchito positivamente una vocazione che di questi nutrimenti andava in cerca, probabilmente nemmeno lo stesso Properzio avrebbe saputo dare una risposta certa, né probabilmente alcuno degli altri poeti augustei avrebbe saputo. Tanto meno potremo dare una risposta certa noi. Ma è la ‘grande domanda’, e proprio perché non riusciremo mai a darvi una risposta definitiva, non smetteremo mai di porcela nella lettura di questi poeti.
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Abstracts Viene condotto un esame sistematico dei personaggi nominati nelle elegie di Properzio per valutare il tipo di rapporto che poteva intercorrere tra essi e il poeta e per cercare di identificare i casi in cui si possa 90
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fondatamente parlare della sussistenza di una relazione di patronato letterario. Vengono soprattutto esaminati i rapporti con Volcacio Tullo, Mecenate e Augusto, nel più ampio quadro dell’evoluzione del l’istituto del patronato tra la fine della repubblica e l’età del principato augusteo. An analysis of all the characters that appear in Propertius’ elegies is carried out in order to determine what kind of relationship could exist between them and the poet, and to identify the cases where a relationship of literary patronage is certain or possible. In particular, the relationships with Volcacius Tullus, Maecenas and Augustus are discussed, in the context of the evolution of patronage from the late Roman Republic to the Augustan principate.
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GIAN BIAGIO CONTE
PROPERZIO OVVERO LA SINCERITÀ DELLA FINZIONE
Virgilio non era attratto dall’elegia d’amore. E nemmeno Orazio. In Orazio l’avversione verso la poesia elegiaca era un’insofferenza quasi umorale; un po’ diversamente Virgilio mostrava un vago senso d’insoddisfazione per un genere poetico che peraltro stava diventando di gran moda. Comunque i due poeti si trovarono d’accordo nel rifiutare gli elegi. Vediamoli all’opera i due grandi augustei. Virgilio nella decima ecloga mette il scena l’amico poeta (e suo potente protettore) Cornelio Gallo, l’archegeta della poesia elegiaca romana. Ne dice l’amore infelice per Citeride/Licoride (i solliciti amores), ne rappresenta cioè le struggenti pene. La premura affettuosa di Virgilio lo porta a suggerire che la poesia elegiaca praticata da Gallo è la causa prima di quell’insistente tormento. Il poeta bucolico offre all’amico come primo rimedio di passare alla quieta semplicità della vita pastorale. Gallo accetta l’invito e scopre l’incanto del mondo bucolico, in cui tutto è soddisfatta serenità, e anche l’amore non è furore e struggimento, ma dolce abbandono. Gallo sembra cedere all’invito: se è la tormentata realtà della vita elegiaca che appare negativa, anche la poesia elegiaca finisce per caricarsi di valenze negative, giacché in quel modo di cantare si identificano fra loro l’esperienza di vita e l’esperienza di poesia. Ma, pure immerso in un amore che è sostanzialmente sofferenza, sofferenza irrinunciabile, Gallo tenta di mettere in pratica il rimedio offerto dall’amico bucolico: non può mettere da parte l’amore, ma può mutarne il contesto e l’ambientazione: basta che cambi il codice poetico e riscriva in chiave bucolica i versi già composti secondo il modo elegiaco. Deve scegliere la consolazione delle selve, vale 10.1484/M.SPL-EB.5.115914
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a dire rinunciare alla città. Ma il male si rivela più forte del rimedio: omnia uincit Amor, et nos cedamus Amori. Gallo si arrende al furore d’amore (all’insania della passione sofferta) e rinuncia definitivamente alla pacificazione bucolica. Q uesto, per somme linee, è il senso programmatico della decima ecloga. La strutturazione ‘drammatica’ messa in atto da Virgilio suggerisce il confronto dinamico fra due poetiche – la bucolica e l’elegia – che si misurano reciprocamente e cercano così, attraverso un confronto sceneggiato, di definire i propri limiti relativi, i loro confini individuali. Virgilio, a suo modo, sta formulando qui un programma di ‘amore senza elegia’. Gallo necessariamente risulterà refrattario all’offerta che Virgilio gli ha fatto per sottrarlo alle pene d’amore. Gallo non può far suo il programma bucolico perché così sarebbe costretto a rinunciare alla propria voce poetica (giacché senza sofferenza amorosa e senza lamento il poeta elegiaco perderebbe la sua stessa voce, diventerebbe muto, cesserebbe ipso facto di essere il poeta che è). Per i poeti elegiaci il nome stesso dell’elegia parlava di una poesia di pianto: l’epitaffio di Domizio Marso ricordava Tibullo come elegis molles qui fleret amores. La refrattarietà di Gallo al mondo bucolico è in ultima analisi la più evidente conferma dei limiti costitutivi entro cui agisce il codice elegiaco. Il quale codice elegiaco, mi ripeto, vuole che l’amante-poeta sia un malato renitente alla cura: ama la sua sofferenza come la sostanza, ma soprattutto la condizione necessaria, del suo fare poesia, giacché vivere senza sofferenza d’amore, come appunto ho detto, sarebbe per il poeta restare senza canto. Il confronto dunque fra elegia e bucolica, nella drammatizzazione di Virgilio, si risolve in una sostanziale, irreducibile inconciliabilità fra le due poetiche. Anche Orazio era disposto a concedere poco, lui anzi nulla, al genere elegiaco. In un epodo, l’11, si fa beffa di ogni possibile amante elegiaco rappresentando ridicolmente se stesso in veste di ex-amante frenetico e sofferente. “Ti ricordi, Pettio, che ero diventato la favola dell’intera città? Una vera malattia, di cui ora sento vergogna. Stavo muto e depresso nei conviti, sospiravo e tradivo di essere innamorato. Tu mi dicevi ‘va’ a casa’ e io, ohimé, andavo invece vacillando a piangere alla porta di lei – porta, ridico ohimé, spietatamente chiusa. Ma ora ho un ragazzino tenero e morbido, da cui non potrebbero staccarmi gli amici, o forse sì, potrebbe stac94
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carmi un’altra candida puella o un altro ragazzino dalla pelle liscia e dai lunghi capelli”. È tutta una caricatura dell’amante elegiaco, dei topoi della passione tormentosa, del paraklausithyron, della dedizione costante ma costantemente insoddisfatta. Appunto perché è un’antipatizzante caricatura della maniera elegiaca il componimento oraziano contiene contraffatti molti degli aspetti distintivi della vita elegiaca. È infatti celebre la definizione che di quest’epodo 11 dava Friedrich Leo: «plane elegia iambis concepta». Una definizione, quella di Leo, che si attaglia bene a tutto l’epodo, il quale potrebbe in qualche modo assomigliare a un’elegia se solo si escludessero gli ultimi versi che rovesciano sarcasticamente il senso del componimento. Q uei versi finali annunciano il rinsavimento del poeta innamorato e fanno capire che tutto quel che precede altro non è se non una canzonatura beffarda, una parodia irridente del tormento elegiaco. Ai motivi convenzionali di un mondo ch’egli rifiuta, che ai suoi occhi addirittura sfiora il ridicolo, Orazio contrappone come rimedio il ricorrere a un alius ardor: una scelta lucreziano-epicurea in cui alberga una punta di spensierato cinismo. Ecco come si cura l’insoddisfatta passione elegiaca: la ricetta è semplice, basta trovare un altro amore … e sùbito scompare la sofferenza struggente dell’amante respinto. Come, d’altronde, aveva consigliato di fare l’altro antielegiaco, Virgilio, quando chiudeva la seconda bucolica col verso inuenies alium, si te hic fastidit, Alexim. Ancor più risentita l’intolleranza che verso il genere elegiaco Orazio mostra un’altra volta in una breve ode del 2.° libro, la 9. Si rivolge all’amico Valgio Rufo, poeta vicino a Tibullo: «Non sempre dalle nubi scrosciano le piogge, non sempre il mar Caspio è in tempesta, non sempre le fredde tramontane tormentano il Gargano. Tu invece sempre, dico sempre, insisti a cantare con ritmi lacrimosi il tuo Miste che ti è stato strappato» – Tu semper urges flebilibus modis / Mysten ademptum – «né la passione d’amore ti lascia quando viene la sera né quando fa giorno» nec tibi Vespero / surgente decedunt amores / nec rapidum fugiente solem. (Su questi due versi ritorno tra un attimo). Un buon esempio della monomania lamentosa propria del poeta elegiaco: non sempre la natura si scatena furiosa nel maltempo, essa conosce anche momenti di cielo sereno: solo tu canti sempre la stessa nenia dolente. Ormai anche tu, Valgio, è ora che smetta e passi ad altri 95
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generi di poesia e per esempio ti metta a cantare con me le nuove vittorie di Cesare: Desine mollium / tandem querelarum: «Cessa alfine i languidi lamenti». Superfluo notare che molles e querellae sono parole marcate del linguaggio elegiaco, e che proprio contro di esse è indirizzato il fastidio di Orazio, e la sua derisione stizzita. Ho detto poco fa che sarei ritornato su due versi di quest’alcaica beffarda e antielegiaca: «né la passione d’amore ti lascia quando viene la sera né quando fa giorno», nec tibi Vespero / surgente decedunt amores / nec rapidum fugiente solem. Purtroppo i commenti oraziani (nemmeno l’ottimo realizzato da Nisbet-Hubbard) non si accorgono che qui il poeta sta alludendo a due versi virgiliani che vengono rielaborati ma anche scopertamente citati: Ipse caua solans aegrum testudine amorem / te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, / te, ueniente die, te decedente canebat. È questa, nei versi virgiliani, la raffigurazione del poeta Orfeo che ha perso la sposa Euridice e la piange con lamenti dolcissimi e inconsolabili. Orazio, dunque, ha riconosciuto nell’Orfeo dell’epillio virgiliano in chiusa alle Georgiche il modello del cantore elegiaco, dotato di uno straordinario potere di canto ma inutilmente prigioniero della propria sofferenza. Nei suoi due carmi Orazio ama farsi beffa della lamentosità elegiaca. Virgilio invece no, non è beffardo: non crede certo che la via da prendere per chi fa poesia sia quella del canto elegiaco, ma non vuole affatto essere derisorio. Virgilio sente di dover rinunciare ai modi elegiaci ma di quei modi dà un’esemplificazione superba, quasi dicesse «vi faccio vedere, io che la rifuggo, quanto può essere bella la poesia elegiaca»; e così facendo realizza (quasi contro il suo stesso credo) uno dei brani più affascinanti di tutta la letteratura classica. L’Orfeo di Virgilio canta l’amore, il dolore del distacco, la perdita dell’amata: una poesia fatta di vicende e note personali, e di passione infelice. Ma è questa stessa la ragione della debolezza intrinseca di Orfeo. Egli non è solo un amante, è un amante-poeta, un personaggio che fa dell’amore – della sofferenza amorosa – l’oggetto esclusivo del suo canto. Egli si ripiega su se stesso e risolve tutto nel canto. Il furor erotico, che è l’alimento stesso della sua mania poetica, finisce per perderlo. Ecco che viene in chiaro il paradosso che, secondo Virgilio, è sotteso a tutta la poesia elegiaca (per la verità ne resta fuori una parte della poetica ironica e riflessiva di Ovidio, ma questo è un 96
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altro discorso). La poesia che nasce come consolazione per vincere l’infelicità del tormento amoroso, di quel dolore fa il suo vitale nutrimento. Esiste, però, suggerisce Virgilio, anche un’altra poesia – quella che al fascino struggente di Orfeo oppone la tenacia laboriosa e l’impegno utile di Aristeo, la sua pia docilità alla volontà divina. Aristeo è l’antimodello di Orfeo, è la possibilità georgica contrapposta al canto di erotikà pathemata, una possibilità completamente diversa da quei canti che affascinano ma allontanano dal mondo reale. Una scelta di poesia, insomma, che è anche scelta di una diversa forma di vita. Se Aristeo vince per la sua pietas e la sua oboedientia, Orfeo – nonostante la favolosa magia del suo canto poetico – fallisce perché è tutto e solo egotistico, chiuso nel suo mondo e ingannato dall’esclusiva sudditanza all’amore. L’elegia appare dunque incompatibile con altre forme di mondo. Ritornando per un attimo alla decima egloga e al tentativo virgiliano di segnare per exemplum i confini di due diversi generi poetici (con la contrapposizione sceneggiata di bucolico ed elegiaco), devo dire che mi sembra assolutamente impossibile accettare una formula per così dire ibridata quale quella che vorrebbe fare della poesia elegiaca ‘una bucolica in abiti cittadini’: è questa la proposta di Paul Veyne, una proposta che anziché fare chiarezza porta solo confusione negli interpreti. Tutto il libro di Veyne (che risale peraltro a oltre trent’anni fa) è un libro che mette in imbarazzo. Molte delle sue posizioni, che sarebbero anche condivisibili, sono di fatto estremizzate oltre ogni accettabilità. Veyne ragiona come se dovesse ancora scalzare interpretazioni quali quelle di real life proposte da La Penna o da Jasper Griffin, fuorviati entrambi dalla ‘retorica della sincerità’, ingannati cioè dalla rappresentazione di stereotipi ogni volta travestiti da esperienze autenticamente sofferte. Non si può dimenticare che c’è stato Allen nel frattempo, che c’è stato fra l’altro Pasoli; c’è stato poi, decisivo, tutto il lavoro sistematico di Fedeli. Lo studioso francese si è creato un idolo polemico che da tempo ha più solo pochi, trascurabili, adoratori. Veyne s’impegna a forzare porte che sono invece già ben aperte, o almeno dischiuse. Per esempio, che quella dell’elegiaco non sia l’effusione o la confessione di un poeta romantico, è cosa vera e giusta: è pur vero però che la critica più smaliziata non lo 97
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crede più, e da tempo. Altrettanto giusto è pensare che l’elegia ‘sia una creazione culturale’; ancora giusto è riaffermare che ci si deve sottrarre alla ‘consuetudine autobiografica’. Ma mi pare davvero riduttivo, e in ultima analisi sbagliato, dire che l’elegia ‘è un gioco’, ‘una giocosa menzogna, un paradosso giocoso’ che tutto in essa è simulacro umoristico senza traccia di ironia e asprezza; che ‘una sola manca: l’emozione’. Il problema vero è che Veyne sembra credere (credenza del tutto paradossale per un semiologo militante com’è lui!) – sembra credere, dicevo, che esista una letteratura che cerca il ‘vero e reale’ per se stesso e non per gli ‘effetti di realtà’ impressi in quell’artefatto complesso che noi chiamiamo testo. E se questo è comunque fuorviante, ancor più lo diventa nel caso di una letteratura come quella antica, così subordinata alle regole della codificazione, così frequentemente atteggiata secondo stereotipi tematici e formali, così diffusamente attraversata da retoriche varie. Si deve pensare invece che nelle opere letterarie la finzione ‘gioca’ dialetticamente con la realtà. La letteratura opera sempre in una dialettica fra l’accettazione e il rifiuto degli stereotipi culturali. Per intenderci, se si cerca una formula incisiva e illuminante per definire l’elegia latina d’amore, così querula e sospirosa, fatta di vagheggiamenti e smanie sofferte, nulla serve meglio di un felice epigramma di Pessoa messo altrettanto felicemente in rima da Antonio Tabucchi: Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente. Ecco come funziona questa forma retorica della sincerità: essa si immedesima tanto nella finzione da inverarla appieno. L’amore elegiaco, abbiamo accennato, è soprattutto sofferenza e insoddisfazione, frenesia e vaneggiamento. Il dolore agisce come una forza totalizzante, senza rimedio. La delusione (per una notte d’amore negata) produce incontenibile infelicità; la gioia (per una notte d’amore ottenuta) diventa tripudio. Manca ogni misura, manca ogni buon senso che freni il furore della passione. Voglio fare un esempio che credo riuscirà istruttivo. Istruttivo perché può mostrare che talvolta il senso comune, la verisimiglianza del sano buon senso, può essere addirittura fuorviante quando il lettore è costretto a confrontarsi con una codificazione letteraria che vive invece nel delirio, che fa della sproporzione e dell’eccesso il modo normale di sperimentare la vita quotidiana. 98
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Una codificazione letteraria, insomma, che è aliena dall’uso del senso comune. Le traversie esegetiche (e anche critico-testuali) dell’elegia 1, 17 di Properzio sono la prova migliore di questo possibile rischio. Molti commentatori hanno creduto, ragionando in termini di verisimiglianza e buon senso, che il poeta si trovi in mare còlto da una tempesta furiosa mentre si sta dirigendo verso il porto di Cassiope – e che già si senta sull’orlo della morte. La Penna per es. scrive: «Properzio raffigura se stesso in mezzo al mare in tempesta mentre, per liberarsi di Cinzia, cerca di raggiungere la Grecia» (41). Ma in realtà il poeta è ‘fuor dal pelago alla riva’, si trova sulla spiaggia battuta dal fortunale: v. 4 omniaque ingrato litore uota cadunt: «tutte le mie preghiere cadono sulla spiaggia ingrata»: insomma è sulla spiaggia e, in preda al pànico, assiste alla furia del mare scatenato. Perciò egli non è affatto in pericolo di vita. Ha esordito con una confessione di colpa: Et merito quoniam potui fugisse puellam : «E me lo merito perché ho osato allontanarmi dalla mia donna». Ma ora il rimorso lo schiaccia e lo trascina a credere che per lui – giusta punizione! – la sorte sia segnata. Cinzia non potrà seppellirne il corpo. Morirà dunque lontano dal l’amata. Sopravviene, con l’incalzare del rimorso, anche il ravvedimento del colpevole: sarebbe stato meglio sopportare i capricci di lei che fuggire lontano e condannarsi così a una morte miserabile, senza il conforto di un suo ultimo abbraccio. La rêverie di morte arriva dopo lo sconforto, ed è il punto estremo dall’autocommiserazione. Ma quello a cui Properzio si abbandona è tutto un vaneggiamento, è solo un delirio, se delirio è perdita del controllo razionale e conseguente assalto di ansie insussistenti: la passione si intensifica, la fantasia si esalta nel l’aspettativa di una giusta punizione: Et merito. Eppure abbiamo visto qual è la situazione reale che dobbiamo immaginare: Properzio sta sul litorale. Il pànico però lo rende certo che egli non potrà mai più ripartirsene perché la furia degli elementi glielo impedirà per sempre; negli iniqua uada troverà la sua tomba. Sragiona convinto che lo scatenarsi dei venti sia causato dal risentimento di Cinzia infuriata per l’abbandono. Prega perché cessi l’ira di Cinzia e con essa cessi la tempesta ed egli possa, pentito e perdonato, ripartire. 99
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Il fatto che il poeta si pianga come ormai condannato a morire lontano dall’amata – lo abbiamo già detto – ha convinto i critici che egli sia in reale pericolo di vita, che si trovi in mezzo ai flutti tempestosi, che stia per fare naufragio e finire annegato. Essi hanno interpretato l’elegia dando fede ai vaneggiamenti del poeta. E così, anche quando si è trattato di risanare il testo in un punto corrotto, essi hanno giudicato seguendo un presupposto infondato. La corruttela, vediamola, sta nel terzo verso: Et merito, quoniam potui fugisse puellam, nunc ego desertas alloquor alcyonas: nec mihi Cassiope solito uisura carinam, omniaque ingrato litore uota cadunt.
Q uesto è il testo probabile dell’archetipo o almeno è il testo dato dal consenso dei codici più autorevoli. Il tràdito solito del v. 3 c’è chi lo ha accettato e c’è chi, in vario modo, lo ha emendato. Per chi lo accetta, solito starebbe per ex solito (il che per me è già una difficoltà non piccola); e starebbe a significare che ‘di solito’ la nave salpa ma che questa volta non lo farà, a meno che non vogliamo credere che Properzio fosse ‘abituale’ navigatore, il che è a dir poco assurdo. Saluo di Richmond o saluam di Müller sembrano tra i tentativi meno improbabili, non improbabili quanto il solido di Kraffert che cerca di far valere l’ablativo come fosse in solido ‘sulla terraferma’ (che non è possibile grammaticalmente ed è solo paleograficamente verosimile, ma certo è rimedio insufficiente per ritrovare il senso del verso). La soluzione giusta, nella scia di un soluit proposto da Madvig (e riscoperto da Heyworth, che però lo combina con una sua improbabilissima congettura), l’aveva trovata Barber: solui. Ma Barber l’aveva egli stesso scartata argomentando che non si adattava alla situazione rappresentata, giacché Properzio doveva verisimilmente trovarsi sulla nave in mezzo alla tempesta e solui comporterebbe che egli invece vuole salpare, «sciogliere gli ormeggi». Che è proprio la situazione reale, che noi abbiamo sopra ricostruito. Barber sbagliava con molti altri interpreti che assecondavano il delirio del poeta preda delle sue fantasie di morte. Solui per aplografia con uisura dever aver dato origine a un soluisura ed è stato poi rabberciato alla buona con l’integrazione solito uisura. In base all’interpretazione complessiva dell’elegia 100
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(non dimentichiamo che Properzio vorrebbe salpare ma la tempesta glielo sta impedendo) il verso si ricostruisce così: nec mihi Cassiope solui uisura carinam
Q uesto restauro trova un’impressionante analogia in 1, 8A, 11: nec tibi Tyrrhena soluatur funis harena.
Siamo davanti a un bell’esempio di ‘orecchio interno’ properziano: il ripetersi di un cliché metrico-verbale che è segnato non solo dall’assonanza ritmica ma anche da singole corrispondenze nell’ordine delle parole: nec mihi ~ nec tibi; Cassiope un nome proprio geografico che ritorna in un altro nome proprio geografico Tyrrhena; e infine solui uisura da confrontare con soluatur funis; carinam infine riecheggia harena. Secondo Baehrens dopo Cassiope va integrato est: Cassiopest da legare a uisura. Io sono convinto del restauro, così come sono convinto che per interpretare (e occasionalmente risanare) un testo elegiaco controverso si debba ricorrere non al buon senso comune, ma tenere invece conto del modo peculiarissimo in cui l’elegia latina esprime l’esperienza di vita – un universo di sentimenti e pensieri in cui qualcuno vedrà solo il fantasticante rifiuto della realtà, che qualcun altro considererà invece un costrutto melodrammatico ai limiti della realtà. Io lo definirei, e lo dico con malcelata simpatia, nient’altro che una superba creazione nevrotica. La ‘forma mentis’ dell’elegia è quella della dismisura sentimentale: forse avevano ragione Virgilio e Orazio a considerare quel mondo come inquietante e sterile, per quanto dotato di grande fascinazione: e per questo se ne tennero lontani. Si può dunque dire che esiste una ideologia elegiaca destinata a dare forma a tutti i testi dei poeti del genere. Al centro di questo, chiamiamolo pure, sistema ideologico è da riconoscere la concezione secondo cui l’amante-poeta è schiavo della sua donna, della sua passione, della sua incurabile debolezza, e in fondo anche della sua poesia. Se ci accordiamo dunque a vedere in ogni forma di ideologia la riduzione del tutto a una parte, nel caso dell’elegia, della ‘totalità’ della vita, resta praticabile soltanto la vita d’amore. Di questa parte, l’idea del seruitium amoris segna i confini, anzi 101
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i confini invalicabili. Ma pur ridotto il questo spazio ristretto, il poeta d’amore non si sente povero: il resto del mondo da cui egli si è escluso può essere recuperato purché sia opportunamente tradotto e riaccolto nel nuovo sistema di senso che egli ha scelto di costruire: non sarebbero solo cose, persone, valori, modelli culturali, a restare sacrificati, il sacrificio tocca anche (l’amante è poeta) temi e soggetti letterari, possibilità espressive, ambizioni di poesia diversa. Proprio perché sistematicamente pervasiva, l’ideologia definita dal seruitium amoris può mettere in atto un vero e proprio processo di riformulazione del mondo. Basta pensare per esempio all’esclusione fondamentale, quella riguardo alla guerra e ai suoi valori, tanto fondamentale da configurarsi come in opposizione con i valori elegiaci primari (coerentemente, d’altra parte, sul piano delle scelte di poetica, il callimachismo dell’elegia vuole che ‘la Musa leggera’ si affermi appunto ricusando le armi e gli eroi della grande poesia epica: «Amore è dio di pace»: Pacis Amor deus est; pacem ueneramur amantes, canta programmaticamente Properzio). Su questo mi soffermerò con un esempio dal terzo libro verso la fine del mio discorso. Ma il rifiuto della guerra riguarda solo il sistema di senso in cui la guerra figura iscritta: e voglio dire non soltanto le degradazioni che il recente passato aveva associato all’idea della guerra (ambizione, carrierismo, avidità) ma anche i tratti meno positivi del modello eroico (crudeltà, violenza, rudezza). Eppure nell’elegia non manca uno spazio per l’eroismo, l’abnegazione, la gloria, la patientia; ma si tratta di un eroismo d’amore, di una capacità quasi infinita di sopportare per amore sofferenze e oltraggi, di un’offerta di sé che in nome dell’amore sa giungere fino alla morte. Alcuni anzi credono (anche se io sarei cauto) di poter sostenere che il properziano laus in amore mori sia una riformulazione elegiaca del dulce et decorum est pro patria mori. E anche la gloria non sarà negata all’amante fedele. Il genere elegiaco, come si sa, ‘parla’ volentieri attingendo al plesso metaforico della militia amoris: ed è questa metafora (metafora antifrastica: «Io sono soldato d’Amore, non di Marte») – è questa metafora, dicevo, lo strumento che consente di convertire (e così di recuperare) quegli altri valori che sono alieni, anzi concorrenziali all’elegia. 102
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Sono ben note le costanti più vistose del genere, i suoi tratti esteriori. L’elegia conosce solo una relazione d’amore ‘irregolare’, ambientata nella vita galante cittadina, quella società colta e raffinata in cui possono figurare intellettuali, donne libere e uomini di potere. Q uesto tipo di amore non soltanto è destinato a soffrire conflittualità e delusioni (la domina concede al poeta una felicità sempre precaria, perché sottratta ai diritti consolidati del uir), ma comporta insieme esclusioni e rinunce. Si rinuncia a una vita rispettabile e socialmente approvata, o a un matrimonio opportuno, e si accetta la nequitia di un’esistenza dissipata: Cynthia…/… me docuit castas odisse puellas / improbus et nullo uiuere consilio, dice l’elegia fondativa della monobiblos properziana. Amore come tormento, sofferenza come condizione creativa di poesia: questi, che sono i correlati tematici della ‘chiusura’ elegiaca, sono anche gli elementi più instabili del sistema di cui fanno parte, in quanto portano al suo interno tensioni destinate a insidiarne i presupposti stessi. Vengono di qui quelle contraddizioni ne che faranno necessariamente un’esperienza letteraria effimera. Il poeta ha scommesso che altro non esiste se non l’amore, che pure lo fa soffrire; ma questa sua sofferenza è grande quanto è grande lo spazio concesso all’amore, cioè di fatto quanto il mondo tutto. Per esprimere questo, l’amante-poeta non può che rappresentare come insopportabile la propria condizione. E si fa vedere persino deciso a trarsene fuori, a cercare soluzione diverse: è così che (quasi un paradosso all’interno dell’assunto elegiaco) la liberazione dall’amore, la ricerca di rimedi contro di esso, diventa un tema ricorrente di questa poesia: Ma il paradosso è solo apparente: finché il sistema dell’elegia ‘tiene’, il tentativo di liberazione serve solo come prova a rovescio: fallisce e con ciò stesso riconferma la scelta per il mondo elegiaco. L’amore è sofferenza, dicevamo, è malattia, ma soprattutto malattia che rifiuta la cura: Omnis humanos sanat medicina dolores: / solus Amor morbi non amat artificem, sentenzia rassegnato Properzio nella prima elegia del secondo libro. La medicina toglierebbe la malattia, ma insieme toglierebbe la possibilità stessa del fare poesia elegiaca, giacché la forma dell’esperienza elegiaca sta anche nella costrittività di questo binomio: malattia e rifiuto 103
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di guarigione. Non è un caso che nella X.a ecloga l’ospitalità offerta da Virgilio a Gallo finisca con il fallimento della cura, come si è visto prima. Nemmeno è un caso che la guarigione riuscita, e la conseguente liberazione dai vincoli dolorosi del seruitium, si trovi alla chiusa della più grande raccolta di Properzio, dove appunto significa fine reale dell’amore e commiato dal genere (3, 24). Q uasi il poeta dicesse: guarito dall’amore tormentoso, dico addio a una poesia fatta di passione e sofferenza. Ho promesso di ricordare l’elegia 3, 5 Pacis Amor deus est, pacem ueneramur amantes:/ stant mihi cum domina proelia dura mea. «Noi amanti siamo contro la guerra: l’unico tipo di battaglie che io conosco sono le pugnae amatoriae con la mia Cinzia». Dopo l’asserzione provocatoria, quasi a guadagnarsi una momentanea aura di rispetto, il poeta assume la seria maschera convenzionale del predicatore diatribico e inveisce contro quelli che amano vivere in mezzo a pericoli e lotte, attirati dall’ambizione di poteri e ricchezze. La loro vita è vana: la morte renderà tutti gli uomini uguali. Finché sono ancora giovane, proclama Properzio, voglio godere dell’amore. Q uando la canuta vecchiaia scolorirà le mie chiome e Venere mi sarà impedita, mi dedicherò alla filosofia, e in particolare allo studio della natura. Per ora, dunque, il poeta sceglie il philedonos bios e rinvia all’età avanzata la possibilità di un philosophos bios. Me iuuat in prima coluisse Helicona iuuenta Musarumque choris implicuisse manus: me iuuat et multo mentem uincire Lyaeo et caput in uerna semper habere rosa. Atque ubi iam Venerem grauis interceperit aetas, sparserit et nigras alba senecta comas, tum mihi naturae libeat perdiscere mores … (3, 3, 19-25)
L’aspirazione di Properzio in sé non è originale: Virgilio e Orazio si proponevano di fare lo stesso. L’originalità di Properzio sta piuttosto nel modo in cui egli professa la sua intenzione. Ce ne rendiamo conto se solo si ricordano alcuni versi cruciali della tradizione letteraria latina. Mi riferisco al proemio del IV libro di Lucrezio, quei versi grandiosi che contengono una delle più entusiastiche dichiarazioni di poetica mai pronunziate in latino (4, 1-17): 104
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Auia Pieridum peragro loca nullius ante trita solo: iuuat integros accedere fontis atque haurire, iuuat nouos decerpere flores insignemque meo capiti petere inde coronam, unde prius nulli uelarint tempora Musae; primum quod magnis doceo de rebus et artis religionum animum nodis exsoluere pergo …
Nel vanto di Lucrezio l’elemento espressivo più marcato è certo la coppia del verbo iuuat, ogni volta ad inizio di frase. Properzio recupera il doppio iuuat per farne il segnale marcato della sua allusione. Stabilita così la relazione interdiscorsiva con il testo di Lucrezio, Properzio può facilmente assumere un tono più leggero e suggerire un gioco di parole paretimologico che lo giustifichi per aver scelto una vita completamente dedicata all’amore: me iuuat in prima … iuuenta: «iuuat considerata la mia iuuenta», «amo questo tipo di vita perché sono giovane». Ma Properzio va avanti con il suo tono scherzoso. Lucrezio aveva detto che iuuat incoronarsi la testa con fiori così da apparire favorito dalle Muse (essere incoronato dalle Muse è una tradizione che comincia con Esiodo, Theog. 30-31, continua con Teocrito, 7, 128-9; e anche Lucrezio descrive Ennio come il primo che riporta giù dall’Elicona una corona di foglie sempreverdi). Properzio replica, correggendo con un sorriso insolente il suo illustre predecessore: «iuuat incoronare il capo, ma con una ghirlanda di rose primaverili» – è questa l’unica corona che il giovani amanti ricercano, il gioioso simbolo dei banchetti. Lo spirito libertino del poeta elegiaco, fiero della propria débauche, si spinge ancora più avanti. Lucrezio aveva giustificato il suo vanto di poeta arrogandosi il merito di «sciogliere la mente dai dagli stretti nodi della superstizione», animum … exsoluere; Properzio invece si vanta di mentem uincire. Per la verità egli dice di volere mentem uincire Lyaeo «avvincere la mente con Bacco», dove il vino viene indicato con un epiteto del dio: Lyaeus, ‘colui che scioglie’. Il poeta così realizza, con un paradossale nuovo gioco paretimologico, l’umoristica impossibilità di «legare con quello che scioglie»; e finisce in tal modo per rivelarsi egli stesso come parte del gioco: ‘sciogliere’, che era nel testo di Lucrezio, ora è stato rovesciato in ‘legare’. Come dire: «legare sì, ma con il vino dei banchetti erotici, quel vino che scioglie gli animi». 105
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‘Scioglieva’ dalle superstizioni la dottrina di Lucrezio, ora a ‘sciogliere’ gli animi è il vino amato dalla gioventù gaudente che canta l’amore. Un’ultima considerazione sul testo. Nei vv. 19 e 21 di Properzio i manoscritti oscillano tra iuuat e iuuet. Molti editori uniformano la coppia dei due verbi in iuvet /iuuet. Ma iuuet /iuuet è un congiuntivo che si è formato sull’ottativo libeat del v. 25 – dove l’ottativo esprime bene l’incertezza di una scelta rinviata all’età della vecchiaia: “che allora mi sia gradito apprendere alla perfezione le leggi della natura”. Mi pare evidente che l’anaforico iuuat … iuuat del modello lucreziano, cui il poeta provocatoriamente si riferisce, deve essere la lezione corretta. Per ora insomma il poeta-amante preferisce godere una vita d’amore con la sua domina. Se c’è chi preferisce la vita delle armi, parta pure per una guerra in Oriente: le insegne di Crasso aspettano di essere riportate in patria. Con quest’ultimo gesto irridente si chiude l’elegia. E qui chiudiamo anche noi.
Abstracts Prendendo le mosse dall’insofferenza che Virgilio e Orazio mostravano per la poesia elegiaca, l’autore schizza le linee essenziali del l’ideologia poetica praticata da Properzio. Vengono discussi due croci testuali contenute in Prop. 1, 17 e 3, 5. By interpreting the sense of antipathy that Virgil and Horace harboured towards elegiac poetry, the author gives an outline of Propertius’s literary ideology and tackles two text problems in 1, 17 and 3, 5.
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NON SOLO PROPERZIO: IL RUOLO DEL PERSONAGGIO MASCHILE NEL IV LIBRO
1. Come tutti i classici, anche Properzio «dice cose che ci riguardano» 1 e, senza aver bisogno di molte mediazioni, parla in modo diverso ai lettori di ogni epoca; esistono tuttavia alcuni aspetti della sua poetica che lasciano poco spazio a riflessioni veramente nuove e originali. Sul ruolo della donna nel IV libro, in particolare, sono apparsi negli ultimi anni contributi eccellenti: 2 penso soprattutto alle indagini di Paolo Fedeli,3 che si concentrano sulla nuova stagione poetica di Properzio anche in relazione alla donna, e scorgono in Cinzia e in Cornelia il simbolo, ai due estremi, del l’universo femminile in età augustea. In una prospettiva d’indagine solo apparentemente ribaltata, dunque, si rivolge qui l’attenzione al personaggio maschile, che nei versi properziani integra e completa quello femminile; l’uomo, infatti, è ‘ l’altro da sé’, che nella poesia elegiaca condivide con la donna il ruolo di protagonista principale; è significativo, però, che il compito di definire funzioni e caratteristiche degli uomini del IV libro venga affidato quasi esclusivamente alle diverse voci femminili. Nel lungo periodo di tempo intercorso tra la pubblicazione del III libro – in cui si scorgono i germi di un’altra elegia possibile 4 – Prendo in prestito un’efficace definizione di ‘classico’ in Pontiggia 2006, 25. Oltre all’esemplare studio della Wyke 2002, si rinva a Heyworth 2010, 89-104. 3 Cfr. Fedeli 2014, 373-419 e soprattutto il suo saggio introduttivo in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 65-134. 4 Come sottolinea Wyke 2002, 79, «the third book of the Propertian corpus presents as its starting-point and inspiration not an elegiac mistress but 1 2
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e quella del IV, Properzio ridefinisce la sua poetica anche in rapporto ai protagonisti principali dei suoi versi; alle pressioni sempre più consistenti del sistema politico, che orientano verso la scelta della poesia civile, egli oppone di nuovo la fedeltà agli ideali alessandrini, ma al tempo stesso si mostra pronto per una poesia che, senza rifiuti ansiosi o servile acquiescenza, rifletta le non lievi trasformazioni del suo mondo.5 Il lettore, che ha percepito il lento ma inesorabile distacco di Properzio dai temi consueti, non è affatto sorpreso dal nuovo programma poetico e dalla pluralità di voci che si aggiungono a quella del poeta all’insegna del cambiamento; la spiccata valenza programmatica dell’elegia di Vertumno, del resto, certifica il rinnovamento della poetica properziana, perché oltre a insegnare a leggere le diverse figure femminili,6 la 4,2 fornisce spunti utili per comprendere meglio anche il personaggio maschile del IV libro; 7 su di lui le donne concentrano il dolce rimpianto del passato, le angosce del presente e le trepide speranze per un futuro diverso. 2. Il compito di aprire la serie di personae loquentes che si affiancano a Properzio spetta a una giovane moglie, che ha anche la grande responsabilità di far sentire la voce femminile, con un privilegio che era stato concesso solo a Cinzia in casi eccezionali; 8 la parrhesia spinge Aretusa a toccare con accenti di scoperto Hellenistic poets Callimachus and Philitas, and it only employs the title Cynthia toward its close in poetic declarations of erotic desertion or dismissal». 5 Sull’originalità del IV libro properziano nell’ambito del nuovo assetto politico-istituzionale cfr. Marcone 2015, 132, che si concentra sull’operazione politico-culturale augustea, volta a sottolineare l’immutabilità attraverso i secoli della grandezza di Roma e dei Romani e la crescita all’interno dell’identità; importanti contributi critici su tali aspetti in Zecchini 2005, 97-114 e Fedeli 2012, 3-18. 6 Lo sottolinea la Wyke 2002, 84. 7 Nei vv. 23-24 indue me Cois, fiam non dura puella: / meque virum sumpta quis neget esse toga?, infatti, a Vertumno basta semplicemente mutare abbigliamento per «poter assumere indifferentemente tanto l’aspetto di un uomo quanto quello di una donna»: sono osservazioni di Fedeli, in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 83. 8 Tra le molteplici trasformazioni simbolicamente preannunciate da Vertumno, la prima è quella del narratore della 4,3; molto opportunamente la Wyke 2002, 91 sottolinea che «in the very first transformation which follows on from the many shapes of Vertumnus, Propertius takes on the character of the faithful wife Arethusa and she, paradoxically, takes on the character of the earlier Propertian narrator».
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biasimo argomenti scottanti per una donna, come la politica espansionistica di Augusto e, contro ogni regola del κλέος, a suggerire al marito di moderare il coraggio in guerra, per ritornare incolume tra le sue braccia. Nel personaggio di Licota, che rispetto a quello di Aretusa, il più delle volte è appiattito sullo sfondo di guerre, assalti a città e terre dal clima inospitale, i connotati tipici del miles valoroso si fondono con quelli predominanti dell’amante elegiaco. Dopo il velato rimprovero espresso nel v. 2 cum totiens absis, si potes esse meus – in cui la prolessi mette in rilievo le reiterate assenze imposte a Licota dai doveri militari, che determinano la sofferenza di Aretusa – i due coniugi sono virtualmente congiunti dal codice della comunicazione epistolare (vv. 3-6 Si qua tamen tibi lecturo pars oblita derit, / haec erit e lacrimis facta litura meis; / aut si qua incerto fallet te littera tractu, / signa meae dextrae iam morientis erunt); l’accenno al momento della lettura, infatti, concentra l’attenzione su Licota, mentre il riferimento alle lacrime che cancellano la scrittura propone l’immagine della sofferenza di Aretusa all’atto della redazione. La chiusa del prescritto epistolare (v. 6 signa meae dextrae iam morientis erunt) commenta simbolicamente la momentanea ‘uscita di scena’ della donna, a cui subentra la descrizione di Licota in paesi lontani (vv. 7-10 Te modo viderunt intentos Bactra per arcus, / te modo munito Sericus hostis equo, / hibernique Getae, pictoque Britannia curru, / ustus et Eoa decolor Indus aqua); la serrata successione dei pannelli narrativi segnala il passaggio dallo spazio privato di Aretusa a quello ufficiale di Licota,9 mentre l’anafora incipitaria di te modo scandisce con precisione catalogica la coordinata del passato recente e focalizza la riflessione di Aretusa sulla persona del marito; da impavido combattente, in quegli scenari di guerra Licota si comporta come ci si attenderebbe da un soldato di Augusto, ma la sua fisionomia continua a essere alquanto sbiadita, perché è affidata solo alla testimonianza oculare dei nemici che combatte: lo si capisce dall’uso di viderunt, che nel v. 7 e nel v. 9 ha come soggetto un toponimo (Bactra; Britannia). 9 L’estraneità dei due personaggi ai rispettivi mondi, che provoca la profonda sofferenza di Aretusa, è messa in rilievo dalla Wyke 2002, 88.
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La lista dei popoli e dei luoghi, che hanno il privilegio di vedere il suo Licota, e l’implicita allusione ai rischi delle guerre sono immediatamente seguite da una provocatoria domanda, che fa capire come Aretusa pretenda dal marito il rispetto del vincolo coniugale; l’interrogativa retorica dei vv. 11-12 (Haecne marita fides et † parce avia † noctes, / cum rudis urgenti bracchia victa dedi?) dà rilievo al motivo della tutela del legame matrimoniale (marita fides) e al ricordo ancora vivo della prima notte d’amore (cum r u d i s …dedi?); al tempo stesso, però, essa esprime la certezza che sono proprio le numerose campagne militari a impedire a Licota di assolvere il primo dovere coniugale – quello, cioè, della convivenza stabile con la moglie – e l’amara consapevolezza che il ruolo di miles è inconciliabile con quello di maritus.10 Nella collocatio verborum del v. 12 i termini che si riferiscono ad Aretusa (rudis …bracchia victa dedi) stringono in un metaforico abbraccio l’unico vocabolo che pertiene a Licota (urgenti); lo slancio passionale tra i due coniugi fa leva su un’espressività biunivoca, perché gli evidenti prestiti dal linguaggio militare hanno una precisa ricaduta anche in ambito erotico (rudis, urgere, bracchia victa dare). Sebbene lontana e infelice, Aretusa continua a occuparsi del suo Licota e con amorevole dedizione per lui tesse i mantelli militari (v. 18 texitur haec castris quarta lacerna tuis) e confeziona indumenti di lana (vv. 33-34 noctibus hibernis castrensia pensa laboro / et Tyria in chlamydas vellera secta suo); nell’ultimo distico, il ruolo di moglie consente ad Aretusa di riformulare il topos erotico dell’insonnia, con una singolare commistione di paradigmi elegiaci e convenzioni sociali; le notti fredde (noctibus hibernis) e insonni per la lontananza dell’amato, infatti, non trascorrono invano, ma sono impiegate per confezionare indumenti da inviare al marito; nella ‘iunctura’ castrensia pensa se il pensum definisce una determinata quantità giornaliera di lana da filare 11 e riconduce a un pacifico ambiente domestico, castrensis, sinonimo di 10 Sui topoi elegiaci della separazione degli amanti e del l’elogio della fides, che, in riferimento all’amore coniugale erano stati sistematicamente sviluppati già in 3,12, cfr. Dimundo in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 505-506, in cui vengono messe in luce anche le analogie e l’innegabile interdipendenza tra 3,12 e 4,3. 11 Cfr. 3,15,15; 4,7,41; Ov. Her. 3,75 ss. e OLD s.v. [1b].
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militaris,12 allude all’impegno ufficiale che tiene lontano Licota dalla moglie. Dopo l’invettiva contro l’inventor belli (vv. 19-20),13 Aretusa manifesta la preoccupazione che le spalle e le mani del marito possano essere logorate dalla corazza e dal contatto con le armi (vv. 23-24 dic mihi, num teneros urit lorica lacertos? / Num gravis imbelles atterit hasta manus?); introdotte nel v. 23 dalla formula dic mihi, che mette in stretta relazione i due coniugi ed esprime l’amorosa sollecitudine della donna, le parole di Aretusa raffigurano un ritratto di Licota che si allontana dal cliché tradizionale del miles, per avvicinarsi allo stereotipo della poesia erotica: 14 dal punto di vista della moglie, infatti, come le donne delicate dell’elegia,15 Licota ha braccia e mani non adatte alla guerra. La struttura dell’apostrofe riflette l’inconciliabilità del ruolo di marito con quello di militare; lo fa capire il contrasto originato dalla collocazione di urit lorica all’interno dell’iperbato teneros … lacertos, i cui termini sono elegiacamente connotati; a sottolineare la pateticità del contesto interviene anche l’espressione imbelles … manus, in cui l’enallage assegna alla manus un’inclinazione del l’uomo (imbellis). L’allusione di Aretusa al deperimento fisico di Licota (macies 16) – che anche il pallore conferma 17 – e la speranza che i segni del malessere derivino dalla nostalgia di lei (vv. 27-28 Diceris et macie vultum tenuasse; sed opto / e desiderio sit color iste meo), ricondu La sinonimia risale a Cicerone: cfr. Gähwiler 1962, 44-45. Sul carattere esemplare di Aretusa, le cui esigenze private si contrappongono a quelle pubbliche imposte dalla guerra, cfr. le osservazioni di Bessone 2015, 124. 14 Lo conferma il rinvio a Hor. Carm. 1,8,10-11 cautius vitat, neque i a m l i v i d a gestat a r m i s / b r a c c h i a , in cui i lividi prodotti dalle armi sono accortamente evitati da chi, come Sibari, irretito dall’amore per Lidia, ha ormai abbandonato le rudi attività militari. 15 Cfr. Wyke 2002, 90, che (n. 28) mette in parallelo i teneri lacerti di Licota con i pedes teneri di Cinzia in 1,8,7. 16 Nel linguaggio erotico il termine macies, che serve a esprimere la consunzione amorosa e ricorre per la prima volta in Trag. inc. 189 R.3, conserva un’impronta stilisticamente elevata, qui esaltata soprattutto dall’unione con tenuare (sulla maggiore consistenza poetica del verbo semplice – tenuare – rispetto ai composti cfr. Norden 1916, 291 e Hofmann – Szantyr 1965, 299. 17 Gli elegiaci riprendono il topos del pallore da Saffo (31,14-15 V.) e da Catullo (64,100). 12 13
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cono ugualmente alla topica erotica e trasfigurano in chiave elegiaca il personaggio del marito guerriero. Licota ricompare al termine del l’epistola quando, in una rilettura elegiaca dell’archetipo letterario omerico,18 a lui torna a rivolgersi direttamente Aretusa, con la supplica di non cedere alle lusinghe della gloria (vv. 63-69); la donna è disposta a sopportare persino le assenze reiterate e prolungate, a patto che Licota si tenga prudentemente lontano dai pericoli della guerra; la sua minuziosa precettistica mira a stigmatizzare i valori del l’ἀριστεῖα – gloria militare (v. 63) e bottino ricavato dalle spoliazioni (v. 64) – svilisce le ragioni della guerra – sprezzo del pericolo (65) e dei rischi dovuti alle insidiose tecniche d’attacco dell’avversario (v. 66) – ed esalta quelle dell’amore. Ma con un brusco trapasso argomentativo, subito dopo Licota è trasferito idealmente dalla periferia infida della guerra al centro rassicurante di Roma, sulla scena sfavillante della processione trionfale; l’incongruenza tra i praecepta da seguire per non lasciarsi sedurre dalla gloria militare (vv. 63-66) e l’augurio di sfilare nel trionfo (vv. 67-68) è sanata dal mandatum del v. 69: dal punto di vista di Aretusa, infatti, dopo i successi militari il ritorno del marito deve essere garantito dal rispetto dei foedera lecti. Nelle battute conclusive dell’epistola, Aretusa, che torna ad avere un ruolo di primo piano, usurpa un compito che spettava ai reduci di guerra, perché promette che, se l’amato ritornerà incolume, sarà lei a manifestare la sua riconoscenza agli dèi con un’offerta votiva, corredata da un’iscrizione; destituita del suo ruolo ufficiale, nella subscriptio la figura di Licota riacquista in parte la sua identità grazie al ruolo di vir, che, tuttavia, è significativamente privo di nome: nell’iperbato salvo …viro, l’aggettivo – che va inteso sia con l’accezione di ‘salvo’, in rapporto alla funzione ufficiale di miles, sia con quella di ‘fedele’, che rinvia al ruolo di maritus – riassume con efficace brevitas la duplice natura del personaggio di Licota.
In Il. 6,407 Andromaca esortava il marito a non concedersi troppo al valore; a sua volta Properzio aveva già utilizzato il motivo nell’analogo rimprovero mosso a Postumo in 3,12,9-12 illa quidem interea fama tabescet inani, / haec tua ne virtus fiat amara tibi, / neve tua Medae laetentur caede sagittae, / ferreus aurato neu cataphractus equo, / neve aliquid de te flendum referatur in urna. 18
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3. Contrariamente alle vicende di quegli uomini che il mito consegna all’Ovidio delle Heroides, nella 4,3 la storia di Licota ha un finale aperto: il lettore properziano, dunque, potrà immaginare una conclusione in cui il marito di Aretusa continuerà a battersi per la gloria con ardimentoso sprezzo del pericolo e manterrà incorrupta i foedera lecti. Non così per Tazio, che sin dall’inizio della 4,4 non conosce cedimenti sentimentali e agisce con fiera determinazione; nel l’elegia di Tarpea l’autorità maschile è a tal punto restaurata da Properzio, da condannare a un destino prevedibile e tragico la protagonista femminile; il poeta, infatti, si riappropria del suo ruolo di narratore e con il solenne fabor (v. 2) preannuncia un canto dai toni sostenuti, che si riaggancia alla natura etiologica del libro; 19 ben presto, però, egli cede il ruolo di persona loquens a Tarpea, che lo manterrà a lungo, perché il suo monologo supera per ampiezza la metà del carme; i punti di vista dei due ‘narratori’ – che segnalano la duplice natura dell’elegia (etiologica ed erotica) – s’intrecciano continuamente, perché il racconto di Tarpea impone a Properzio di «riflettere sui dubbi, sulle angosce, sulle speranze di una donna che […] non è capace di resistere alla forza dell’amore»; 20 ma c’è di più, perché costantemente sotteso è un terzo punto di vista, quello di Tazio, che viene reso manifesto solo alla fine. Se per Tarpea Tazio è il prode e gagliardo guerriero di cui s’innamora e per il quale non esita a rinnegare Vesta e addirittura Roma, per Properzio egli è il capo nemico che, oltre a sedurre e ad abbandonare la donna una volta raggiunto il suo scopo (il tradimento di Tarpea), spregevolmente non rispetta i patti. Nel corso dell’elegia il poeta assume «un atteggiamento costantemente in bilico fra l’ovvia condanna del tradimento e l’esi genza di comprenderne la ragione»; 21 mostra di essere dalla parte di Tarpea quando, nel tentativo di discolparla, dapprima sottoli19 Il carattere etiologico del carme – ampiamente analizzato da Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 605-606 – è confermato dalla ripresa del l’esordio, in cui vengono menzionati il turpe sepulcrum di Tarpea sul Campidoglio e la conquista dei limina antiqui Iovis, nel distico conclusivo (vv. 93-94 A duce Tarpeium mons est cognomen adeptus. / O vigil, iniustae praemia sortis habes). 20 Così Fedeli 2014, 386. 21 Sono parole di Fedeli 2014, 383.
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nea il desiderio della donna di divenire la sposa legittima – non l’amante – del re dei Sabini (vv. 55-56; 88), successivamente attribuisce una finalità politica alla grave decisione della vestale, pre sentandola quasi come un’opera di mediazione fra i due popoli in lotta (vv. 59-60); la giustificazione addotta dal poeta, però, finisce per ritorcersi contro la sua stessa creatura; Tarpea, infatti, ‘invade un campo’ – quello bellico – di esclusiva pertinenza maschile e si macchia di una colpa che richiede una punizione esemplare; la viva partecipazione del poeta al dramma di Tarpea emerge dal verso conclusivo dell’elegia, perché l’epiteto (iniusta) non solo designa la sors della vestale, ma indica anche che Tazio è il vero artefice dell’inganno; sia pure scellerato, infatti, «il pactum da lui stipulato con Tarpea […] esigeva il dovuto rispetto e non la brutale violazione col ricorso a un ignobile sotterfugio»; 22 dal punto di vista di una donna innamorata, inoltre, il patto è del tutto equivalente al foedus amoris, che la donna rispetta, ma l’uomo viola. Nella presentazione oggettiva del narratore, sin dall’inizio della vicenda Tazio assolve egregiamente i compiti previsti per un capo che, per garantire l’incolumità sua e dei suoi soldati, fa eseguire i lavori di consolidamento; nei vv. 7-8 Hunc Tatius fontem vallo praecingit acerno / fidaque suggesta castra coronat humo) la solerte attività di Tazio viene esaltata dal lessico militare,23 con qualche intrusione allotria, perché nella ‘iunctura’ fida …castra (v. 8), l’epiteto dà, sì, valore alla caratteristica di refugium dei castra,24 ma rinvia per contrarium anche alla fides tradita, motivo principale dell’elegia. Tazio appare per la prima volta a Tarpea mentre si esercita a cavallo nella pianura dov’è accampata l’armata sabina 25 (vv. 19-20): il rapporto tra i due personaggi, valorizzato dalla distribuzione dei versi proposta dal testo di Fedeli, è segnalato da Cfr. Fedeli 2014, 385. Cfr. vallum, castra e il composto praecingere, ripreso nel pentametro dal suo sinonimo coronare (ThlL IV 992,10 ss.). 24 Cfr. Schippers 1818, 38. 25 In proludere – verbo tecnico per indicare il compiere azioni militari – se il prefisso «inquadra una tale attività tra i preliminari» (Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 631), la parte radicale rinvia al carattere non ancora rischioso dell’esercitazione. 22 23
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vidit, che, nell’ambito della teichoscopia amorosa di ascendenza alessandrina, può essere letto in chiave elegiaca come un rinvio al motivo dell’innamoramento che avviene con un semplice sguardo; il punto di vista femminile emerge dall’importanza che Tarpea accorda anche ai picta …lora: abile cavaliere, Tazio ha tutte le qualità – la bellezza e la superiorità del rango, testimoniata dai finimenti preziosi del suo cavallo – che irretiscono le fanciulle inesperte, e senza volerlo cagiona «quel particolare stato di stupor che segna l’insorgere del mal d’amore»: 26 obstupuit (v. 21), in corrispondenza colonnare con vidit (v. 19), oltre a enfatizzare il motivo del colpo di fulmine, indica l’attonita consapevolezza di Tarpea che il cavaliere nemico non è un comune soldato «perché regale è la sua bellezza e regale il suo armamento»; 27 non sorprende, quindi, che la donna preghi le Ninfe affinché l’asta di Romolo non sfiguri il bel volto dell’amato (v. 26) 28 e sia affascinata anche dai formosa arma Sabina (v. 32): l’insolito epiteto dato agli arma 29 fa capire che agli occhi di Tarpea (oculis …meis) le armi di Tazio producono un effetto non diverso da quello provocato dalla sua facies. L’innamoramento induce Tarpea a formulare un desiderio indecoroso per una donna romana: diventare suddita dei propri nemici e soprattutto di Tazio (vv. 33-34), che di conseguenza indossa le vesti del vincitore verso cui è rivolto lo sguardo umile e supplice del prigioniero di guerra (v. 34 captiva …conspicer 30); inserito nella prospettiva della poetica erotica, captivus allude al motivo del servitium amoris e non sorprende che, nella mutata visione poetica del IV libro, sia «la donna innamorata […] a voler divenire schiava dell’uomo che l’ha conquistata».31 Dopo l’addio a Roma (vv. 35-36), Tarpea immagina che il suo passaggio con Tazio nel campo nemico avvenga in sella allo stesso cavallo Cfr. Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 635. Il motivo dello sbalordimento di Tarpea viene enfatizzato dalla stretta successione di sostantivo e aggettivo (regis …regalibus). 28 La locuzione faciem …Tati è analoga a regis facie del v. 21. 29 Sul l’opportunità di restituire il testo con formosa dei recenziori cfr. le osservazioni di Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 645. 30 Conspicere, in cui va recuperato il valore intensivo del prefisso, riconduce nuovamente al motivo dello sguardo che provoca l’innamoramento, già presente in vidit (19), obstipuit (21) e nell’espressione formosa oculis arma Sabina (v. 32). 31 Cfr. Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 647. 26 27
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di razza, verso il quale l’amato continua a mostrare un’affettuosa sollecitudine: con la raffinatezza che lo contraddistingue agli occhi di Tarpea, infatti, ora Tazio esprime la sua premurosa cura anche nel gesto di sistemare a destra la criniera del destriero.32 La figura di Tazio subisce un vero e proprio stravolgimento – che investe anche il valore simbolico del sistema della moda – nei vv. 53-54 te toga picta decet, non quem sine matris honore / nutrit inhumanae dura papilla lupae; con una logica argomentativa apparentemente ineccepibile, Tarpea assegna a Tazio il decus di portare le insegne regali, che fregiano indegnamente Romolo; nel primo emistichio del v. 53, l’allitterazione e l’assonanza enfatizzano la maggiore dignità di Tazio, indicato con intenzionale sottolineatura dall’incipitario te; la cesura e subito dopo la negazione, invece, danno risalto alla contrapposizione con chi, segnalato solo dall’indefinito quem, si arroga tale privilegio, pur essendo privo del matris honos; all’immeritato beneficio di Romolo fa riferimento nel verso successivo anche la ‘iunctura’ inhumanae …lupae – in cui l’epiteto la dice lunga sulla natura ferina della nutrice di Romolo – che incornicia dura papilla (durus esaspera il processo di degradazione di chi del latte di una lupa si è nutrito); inhumanus e durus, inoltre, invalidano il legame di sangue di Romolo con rea Silvia ed esaltano la maggiore dignità di Tazio – lui, sì, insignito del matris honos – a indossare la toga picta. Nel l’inseguire i suoi sogni e sulla scorta delle precedenti affermazioni sulla toga picta, è del tutto comprensibile che nei vv. 55-56 Tarpea pensi a sé come regina al fianco di Tazio e che con tua …sub aula faccia riferimento a Roma; alla ‘romanizzazione’ dell’amato concorre l’immagine della donna nei panni di un’uxor dotata (v. 56); il futuro marito, del resto, è degno di meritare la toga picta e accrescerà a dismisura le sue già consistenti ricchezze, perché Tarpea porterà in dote addirittura Roma. Nonostante sia follemente innamorata del re nemico, Tarpea è cosciente della gravità del suo progetto e non esita a proporre un ‘piano B’, che deve far leva sull’orgoglio militare e sulla necessità che sia proprio Tazio a vendicare l’offesa ricevuta dal ratto delle 32 Normalmente la criniera cade a sinistra; collocare la criniera a destra è un gesto riservato solo ai cavalli di razza: lo apprendiamo da Virgilio (Georg. 3,86), da Ovidio (Met. 2,673-674), da Columella (6,29,2) e dai Geoponica (16,1,9: su tale particolare cfr. anche il commento ad loc. di Hutchinson 2006).
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Sabine; la proposta minor rispetto a quella ottimale del matrimonio e della fondazione a Roma di una nuova stirpe a fianco del re sabino, non a caso viene introdotta nei vv. 57-58 da si minus; nella sorvegliata distribuzione dei pensieri, Tarpea rievoca l’oltraggio subito dai Sabini con il famoso ratto (la ‘distractio’ raptae …Sabinae incornicia la litote ne sint impune) e grazie alla ripresa dello stesso verbo nel pentametro impone a Tazio l’obbligo di ripagare i Romani con la stessa moneta (me rape). Ma il rapimento – Tarpea se ne rende conto – non garantirebbe affatto il ruolo tanto agognato (quello, cioè, di sposa legittima di Tazio) e, con un ennesimo cambio di funzione, la donna si dice disposta a farsi mediatrice delle parti belligeranti, se solo le venisse concesso di divenire sposa legittima di Tazio (vv. 59-60): l’Ich-stil e la particolare pregnanza di posse 33 da un lato esaltano la capacità di Tarpea di risolvere la situazione, dall’altro sviliscono la personalità di Tazio, che nella folle strategia di Tarpea ha solo il ruolo di maritus, come si deduce per converso da nupta in explicit di verso.34 E sotto forma di una benevola visione Tazio ricompare nella conclusione del monologo di Tarpea, che, nel sognare la persona amata si comporta come il più tradizionale degli amanti elegiaci; 35 nei vv. 65-66 Experiar somnum, de te mihi somnia quaeram. / Fac venias oculis umbra benigna meis la disposizione dei termini nell’esametro – il riferimento a Tazio (de te), collocato al centro in forte rilievo dopo la cesura, è seguito dal pronome che indica la donna – dà rilievo al desiderio di Tarpea di incontrare l’amato nei suoi sogni; nel pentametro, dopo l’invito affettuoso rivolto a Tazio (fac venias), anche grazie alla disposizione dei termini viene riproposto il motivo dell’auspicato abbraccio, destinato, però, a non realizzarsi; priva com’è della sua corporea fisicità, nei desideri di Tarpea la figura di Tazio ha solo l’impalpabile consistenza di un’umbra. Posse ha qui il significato di ‘essere in grado di…’. Nupta di Lütjohann 1869, 20-21, difeso poi da Madvig 1873, 65-66 e accolto da Fedeli, risponde alla finalità di Tarpea di dare rilievo al suo ruolo di mediatrice tra gli eserciti in lotta. 35 Sognare la persona amata è motivo ricorrente nella poesia erotica greca e latina: oltre a 2,26a e 4,7, altri esempi significativi sono stati registrati da Bömer 1977 a Ov. Met. 9,450-471. 33 34
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Nel momento cruciale del racconto (vv. 81-82) ancora una volta la primazia spetta alla donna; convinta di poter condurre a termine la mediazione delle ostilità, come un’abile stratega Tarpea è attenta alla tempistica del suo piano d’azione, che prevede innanzitutto la delicata scelta del καιρός per l’incontro con il capo nemico; 36 con rapida efficienza – esaltata dal linguaggio tecnico e, nel pentametro, dalla struttura asindetica e dal poliptoto – sancisce poi la stipulazione del patto con Tazio, il cui contenuto sarà stato con ogni probabilità il tradimento in cambio del matrimonio; alla reale identità di Tazio è riservato solo un fugace accenno (egli è definito hostis perché a parlare è Properzio, che fa suo il punto di vista dei Romani), mentre comes, che suggella significativamente il distico, ripropone il ruolo a cui ambisce Tarpea.37 Con le movenze tipiche della καταστροφή di ascendenza tragica, gli eventi precipitano inesorabilmente verso la conclusione, che viene descritta attraverso un linguaggio conforme alla gravità del momento (vv. 87-88); 38 l’epigrafica concisione del narratore è lo stigma impietoso del comportamento di chi, come Tarpea, viola la fides (l’aver disertato la custodia della porta) e la pietas (il tradimento della patria, per di più iacens); dal punto di vista di Tarpea, il duplice tradimento è una pratica da licenziare in fretta per poter coronare il suo sogno d’amore (non a caso il v. 88 è aperto da nubo, che ripropone con ricorsività ossessiva il motivo del matrimonio): certa che il patto verrà rispettato, all’amato lascia la scelta di fissare il giorno delle nozze; solo a questo punto Tazio esce allo scoperto e il suo potere decisionale è segnalato sia dalla forte avversativa che all’inizio del v. 89 36 Nel v. 81 hoc …suum tempus rata convenit hostem va segnalata la presenza del participio di un verbo dall’arcaica risonanza: Axelson 1945, 64. 37 Come sottolinea Fedeli nel suo commento, «se lo si intende etimologicamente, comes sta a significare che la stessa Tarpea rappresenta un elemento del patto: d’altronde non può essere che così, perché solo mostrando ai Sabini il sentiero nascosto, che li condurrà all’interno di Roma, Tarpea diverrà sposa di Tazio; di qui futura comes, perché la clausola del patto è legata al successo dell’impresa. Comes, per cui cfr. OLD s.v. [5a]: ‘a partner, sharer, associate’, guarda in due direzioni a seconda del punto di vista: da quello di Tazio, allude alla funzione di guida da parte di Tarpea, da quello della traditrice, al suo ruolo di compagna di Tazio nel cammino della vita». 38 Cfr. l’allitterazione, l’omeoteleuto e la presenza del nesso epicheggiante -que -que.
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precede il suo nome, sia dall’intervento del narratore (neque enim sceleri dedit hostis honorem), che commenta positivamente la condotta del re dei Sabini; 39 pur essendo un nemico, da vero soldato qual è Tazio sa bene che il tradimento è uno scelus, sebbene sia stato lui ad accettare e a favorire il piano nefando di Tarpea; è solo un pentametro (v. 90) – che si contrappone al lungo monologo di Tarpea (vv. 31-66) – a riportare l’intervento in prima persona di Tazio, che con l’efficiente rapidità 40 di chi è abituato a comandare 41 dà una risposta che avrebbe reso felice Tarpea, se solo non fosse stata un commento spietatamente ironico della sua morte. In una vicenda contrassegnata dal tradimento,42 dunque, a un nemico di Roma spetta paradossalmente il compito di riscattare con una punizione esemplare l’indegno oltraggio arrecato da una vestale ai suoi concittadini. 4. I contorni storicamente ben definiti 43 di Cornelia e di Paolo forniscono a Properzio l’occasione per tributare un grande atto d’omaggio a Scribonia, che era stata moglie del princeps, e di conseguenza ad Augusto stesso; 44 la nuova identità letteraria dei due coniugi, però, contrae forti debiti con generi e topoi diversi (epigramma funebre, genus iudiciale), con modelli virgiliani ed euripidei, ma anche con gli stessi versi properziani (si pensi
39 Il nesso allitterante con honorem dà un risalto positivo al termine hostis, che compariva già nell’explicit del v. 81; come osserva Gazich 1995, 263, il sostantivo «acquista, grazie alla sua collocazione nella frase, una sfumatura concessiva, che riconosce al nemico un superiore atteggiamento di aequitas». 40 Come già in precedenza Tarpea, anche Tazio non esita ad agire con prontezza; la gravità del momento è segnalata al v. 91 dall’impiego del sintagma virgiliano dixit et che riprende formule omeriche come ἦ καί (e.g. Il. 1,219. 258), ἦ ῥα καί (e.g. Il. 3,310. 355) o callimachee (Hymn. 1,30 εἶπε καί). 41 Anche Tazio usa due imperativi che aprono i due emistichi. 42 Janan 2001, 75 osserva che «the Capitoline that Tatius mockingly calls his ‘marriage bed’ sees his murderous duplicity, not Tarpeia’s». 43 Per Bettini 1992, 137-138, grazie a Cornelia Properzio offre l’eccezionale possibilità di «ascoltare il dialogo intimo di una matrona romana con il proprio marito: di una di queste donne che, almeno nelle imposizioni del codice culturale, non solo non dovevano parlare con estranei, ma non dovevano neppure ricambiare il saluto di chi, inopportuno, cercava di incontrare i loro occhi per strada». 44 Cfr. Wyke 2002, 109 e Hubbard 1974, 116-118.
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alle analogie e, soprattutto, alle differenze con 4,7, che aiutano a definire meglio i protagonisti della 4,11 45). La figura di Paolo, destinatario principale del lungo discorso di Cornelia, si chiarisce solo in rapporto alla moglie e sin dai versi iniziali il lettore percepisce la differenza tra i due interlocutori, che non è dovuta solo alla loro diversa condizione; se Cornelia si impone per una risoluta autorevolezza (non a caso dà inizio al suo discorso con l’imperativo desine, che riconduce ben oltre Virgilio,46 per risalire allo Scipio di Ennio 47), Paolo ha i tratti distintivi della topica erotica, come le lacrime versate per la separazione dalla donna amata, l’amore al di là della morte e le preghiere dell’innamorato alla porta insensibile; «sublimati […] dalla situazione e dalla nobiltà dell’appello»,48 però, i caratteri elegiaci non sono invasivi tanto da stravolgere la fisionomia reale dei protagonisti. Con l’impronta affettuosamente imperiosa del l’apostrofe di Cornelia contrastano la mesta fragilità e le manifestazioni del dolore di Paolo, eccessive al punto che la copiosità del pianto diviene un peso molesto per il sepolcro di Cornelia (v. 1 urgere 49); invano, poi, alle lacrime egli aggiunge le preghiere, perché le infernae leges sono inflessibili e la porta degli Inferi non si spalanca (v. 2 panditur) di fronte alle suppliche; il concetto è ribadito quando, con la piena consapevolezza che le deriva dall’essere ormai un’umbra, Cornelia aggiunge che i litora dell’oltretomba
45 Sulle analogie – sovrastimate da Rambaux 2001, 309-312 – e soprattutto sulle differenze tra le due elegie si rinvia alle osservazioni introduttive di Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 115-118; il rapporto tra i due carmi era stato già analizzato da Lange 1979, 335-342; Komp 1988, 188-200 e Günther 2006, 393. 395. 46 In Virgilio si registrano otto attestazioni di desine in apertura di esametro: Buc. 5,19; 8,61; 9,66; Georg. 4,448; Aen. 4,360; 6,376; 10,881 e 12,800. 47 Con desine iniziava un famoso esametro dello Scipio di Ennio, in cui l’Africano si rivolgeva addirittura alla patria (Var. 6 V.2 desine, Roma, tuos hostis): sul senso dell’identità strutturale tra l’esametro d’apertura dell’elegia e quello enniano si sofferma Fedeli nel commento ad loc. 48 Sono parole tratte dal commento di Fedeli ad loc., che con argomentazioni più che condivisibili e diversamente da chi scorge un doppio senso di lettura dell’elegia (cfr. Copley 1956, 81 e Wyke 2002, 109), esclude la possibilità di un’interpretazione sub specie elegiae della figura di Cornelia e soprattutto di quella di Paolo. 49 Q ui usato nel senso di opprimere: cfr. OLD s.v. [3a].
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non ascolteranno le preghiere (v. 6 surda 50) e, assorbite dalle rive dell’Acheronte, le lacrime si confonderanno con le acque infernali. La rievocazione del nobile passato e dei ruoli più importanti – quelli di coniuge e di padre – che egli riveste agli occhi della moglie, consente a Paolo di riaffermare la sua presenza; in perfetta sintonia con la concezione aristocratica del mos maiorum, nei vv. 11-12 Cornelia esprime l’idea della continuità ininterrotta del tempo, perché l’esametro focalizza l’attenzione sul presente (coniugium Paulli definisce lo status di Cornelia al momento della morte) e sul passato (i trionfi militari della gens Cornelia, nella trasposizione metaforica dei currus avorum), il pentametro contiene il riferimento ai figli, che illumina la prospettiva futura della vita di Paolo: come anche nel v. 73, infatti, i figli sono definiti pignora, cioè ‘le garanzie’ della fama di Cornelia e nell’assomigliare al padre, essi attestano la pudicizia della nobile madre.51 Il ricordo del matrimonio, che inevitabilmente si intreccia con il ricordo di Paolo, riaffiora nelle parole di Cornelia ai vv. 33-36, in cui la successione delle fasi dell’età e il suo passaggio dalla gens di appartenenza a quella parimenti nobile del marito sono segnalati dal cambio dell’abbigliamento femminile; la toga praetexta (v. 33) – che designa l’abito delle giovanette fino al matrimonio,52 simbolicamente evocato anche dall’altera vitta (v. 34) 53 – era infatti sostituita dalla stola; l’inconcinnitas che alcuni critici scorgono nel distico 54 umanizza Cornelia, perché fa capire come ai 50 L’epiteto surdus rinvia alla topica sordità degli dèi inferi, alle preghiere che qui caratterizza i fiumi infernali. 51 Il motivo della rassomiglianza al padre, che garantisce la nobiltà d’animo dei figli risale a Esiodo (Op. 235 τίκτουσιν δὲ γυναῖκες ἐοικότα τέκνα γονεῦσι): attestazioni in Fedeli 1972, 114-115, nel commento a Catull. 61,214-218 sit suo similis patri / Manlio et facile omnibus / noscitetur ab insciis / et pudicitiam suae / matris indicet ore). 52 Lo si apprende da Isid. Orig. 19,24,16 dicta autem praetexta quia praetexebatur ei latior purpura. 53 Altera vitta indica qui solo una vitta diversa da quella che raccoglieva i capelli delle giovani fino al matrimonio, quando veniva sostituita da sei fasce: sulla riduzione numerica del numero delle fasce rispetto a quello tradizionalmente previsto si rinvia a Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1328 e alla bibliografia citata. 54 Properzio mette in stretta successione la rappresentazione simbolica della fanciullezza (la pretesta) con quella delle nozze (le fiaccole nuziali): tra coloro che sottolineano tale mancanza di concinnitas cfr. Riesenweber 2007, 238.
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suoi occhi «nelle tenebre dell’oltretomba il matrimonio si concretizzi nella luminosa immagine delle torce della deductio dalla casa della sposa a quella del marito»; 55 senza ulteriori indugi, poi, l’umbra riprende il colloquio ideale con Paolo, che il lettore ritrova sul sepolcro (lo fa capire il deittico che nel v. 36 connota la pietra tombale); il vocativo del nome è inserito subito dopo il verbo (v. 35 iungor), che esprime l’idea dell’unione matrimoniale, e prima dell’iperbato tuo …cubili, che identifica il vincolo coniugale con il motivo della condivisione dello stesso letto; l’immagine del matrimonio, però, si lega indissolubilmente a quella della morte, perché dall’espressione tuo …discessura cubili si capisce che per la fedelissima Cornelia l’allontanamento dal letto coniugale coincide con la fine della vita; nel pentametro il riferimento alla lapide, che deve recare l’orgoglioso accenno all’univirato di Cornelia, riconduce all’intreccio tematico di amore e morte, che ricorre comprensibilmente anche altrove nell’elegia.56 La straordinaria pudicizia di Cornelia non solo rende onore al marito, ma dà lustro anche alla sua carriera politica, a cui accorda quel credito che nella realtà non aveva riscosso; 57 con i vv. 37-42, infatti, Cornelia dà inizio all’esaltazione delle sue virtù esemplari, che, in assenza di testimoni reali, possono essere garantite dalle ceneri dei nobili antenati; l’oggetto della testimonianza (vv. 41-42 [testor] me neque censurae legem mollisse neque … / … nostros erubuisse focos) ribadisce la stretta connessione tra le due gentes (l’Aemilia e la Cornelia), che viene assicurata dalla pudicizia immacolata della donna (vv. 41-42 ulla / labe mea). Cornelia si spinge al punto di elogiare apertamente la discussa censura del marito, nel tentativo di restaurarne la fama e di screditare implicitamente i detrattori; nella prospettiva futura del L’osservazione è di Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1328. Cfr. 46 viximus insignes inter utramque facem con Fedeli ad loc.: «la torcia è un simbolo bivalente, perché è presente sia nella cerimonia nuziale sia nei riti funebri, e l’antitesi fra l’uno e l’altro tipo di fax costituisce un topos». 57 Da Velleio Patercolo (2,95,3 censura Planci et Paulli acta inter discordiam neque ipsis honori neque rei publicae usui fuerat, cum alteri vis censoria, alteri vita deesset, Paullus vix posset implere censorem, Plancus timere deberet nec quicquam obicere posset adulescentibus aut obicientes audire, quod non agnosceret senex) veniamo a conoscenza delle aspre critiche rivolte alla censura che Paolo esercitò con L. Munazio Planco nel 22 a.C., anno in cui Augusto aveva ripristinato la magistratura abolita al tempo delle guerre civili. 55 56
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mandatum affidato alla figlia (vv. 67-68), infatti, la vicenda politica di Paolo trae sostegno e lustro dalla dignità morale della parte femminile del suo casato; per la madre, infatti, Emilia Lepida è specchio della censura paterna, perché anche a lei appartengono i sani principi e l’integrità morale che hanno consentito a Paolo di distinguersi sul piano politico; rispetto al padre, inoltre, Emilia Lepida ha un valore aggiunto, perché se imiterà lo stile di vita materno e sarà fedele a un solo uomo per tutta la vita riuscirà a ottenere come Cornelia il massimo elogio per una donna romana. Paolo conquista un ruolo centrale nelle perorationes che Cornelia indirizza a lui (vv. 73–84) e ai figli (vv. 85–96); 58 il profondo affetto per i suoi cari trapela anche dalla programmazione meticolosa del futuro, che contempla l’inevitabile ribaltamento dei ruoli: al padre che si occupa dei suoi piccoli, infatti, subentreranno i figli quando ad avere bisogno della loro assistenza sarà il genitore ormai vecchio. A Paolo, dunque, Cornelia consegna la tutela dei communia pignora: cura (v. 74) – che non va inteso affatto in senso elegiaco – indica la costante preoccupazione della madre per i nati, che non si dissolve con la consunzione del corpo tra le fiamme, ma continua ad assillarla anche da morta.59 Le volontà che Cornelia non è riuscita ad affidare al marito quando era ancora in vita, hanno ora un valore prescrittivo maggiore: non a caso il gerundivo e gli imperativi puntellano sistematicamente i mandata ed evidenziano gli obblighi impegnativi del vedovo; 60 il primo compito di Paolo – quello, cioè, di fare anche da madre e di sopportare l’onus (v. 76 turba ferenda) dell’educazione dei figli – prevede una funzione insolita per un padre, che nel v. 75 viene sottolineata anche dalla collocazione di pater in coincidenza con la dieresi bucolica. La prima fase ‘operativa’ del fungi mater58 Il carattere di arringa difensiva dell’elegia è sottolineata da Lentano 2012, 116-133 e soprattutto da Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 12721275. 59 Il motivo dell’affidamento dei figli allo sposo, che apre la peroratio a Paolo, è frequente negli epitaffi in versi: cfr. Schulz – Vanheyden 1970, 71; come sottolinea Fedeli ad loc., tuttavia, Properzio complica la trama di allusività di tale contesto, perché viene ispirato anche dal nobile modello tragico dell’Alcesti euripidea: v. 375 ἐπὶ τοῖσδε παῖδας χειρὸς ἐξ ἐμῆς δέχου. 60 Cfr. v. 75 fungere; vv. 75-76 illa … / omnis erit …turba ferenda; v. 77 adice; v. 80 falle; v. 84 iace.
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nis vicibus da parte di Paolo potranno essere i baci dati ai figli in lacrime, ai quali egli dovrà aggiungere anche quelli della madre: nel v. 77 il genitivo matris, al posto del possessivo mea (scil. oscula) che ci si attenderebbe dopo tua, «implicitamente ribadisce che d’ora in poi il marito dovrà svolgere anche il ruolo da lei tenuto in quanto madre dei suoi figli»; 61 nel pentametro ritorna il motivo del peso che Paolo dovrà portare in triste solitudine dopo la morte della moglie, sebbene qui la gravosa responsabilità sia allargata a tutta la casa (tota domus).62 Cornelia sa bene che Paolo continuerà a soffrire per la sua scomparsa, sebbene sin dall’inizio del suo discorso gli abbia imposto di non piangere, e la preoccupazione che i figli possano essere turbati dalle lacrime paterne la induce a ‘disciplinare’ anche i segni di afflizione del marito; Paolo dia pure sfogo alla sua pena, ma lontano dagli occhi dei figli (vv. 79-80); 63 si accontenti, poi, di soffrire nella solitudine delle notti, quando non riuscirà a prendere sonno (v. 81) e forse sognerà l’amata consorte (v. 82), in una situazione che vagamente ricorda quella di Properzio nella 4,7; Cornelia, inoltre, è certa che il marito potrà parlare col suo ritratto in assenza di testimoni (v. 83 secreto … loqueris 64), secondo una tradizione che riconduce al nobile modello di Protesilao; 65 la consapevolezza che si tratterà di un dialogo impossibile, però, emerge dalla sfumatura ipotetica del participio futuro responsurae (v. 84).66 Dopo che Cornelia ha prospettato ai figli l’eventualità che Paolo si risposi e indicato il comportamento più opportuno Cfr. il commento di Fedeli ad loc., 1380. L’analogia col distico precedente fa leva anche su un sistema lessicale comune: vv. 75-76 illa …omnis turba ~ v. 78 tota domus; v. 76 erit …ferenda ~ v. 78 onus esse tuum. 63 Anche in questo caso la ricorsività del lessico rende più incisive le prescrizioni di Cornelia e garantisce compattezza alla sezione: cfr. v. 77. 80 oscula; v. 77 cum dederis; v. 80 cum venient; v. 77 flentibus; v. 80 siccis …genis. 64 La certezza di Cornelia viene confermata dal futuro loqueris. 65 La storia del simulacrum cereum – a cui Ovidio allude in Her. 13,149156 e Pont. 2,8,57-58. 65-74 – è narrata con dovizia di particolari da Igino (Fab. 103); cfr. anche situazioni analoghe in Stat. Silv. 2,7,128-131 e Sil. 8,94; sul ritratto che sostituisce la persona amata si rinvia all’importante studio di Bettini 1992, passim, che dedica alla vicenda di Cornelia le pagine 137-141. 66 Sulla frequenza negli augustei di tale sfumatura semantica del participio futuro si rinvia a Hofmann – Szantyr 1965, 390. 61 62
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da tenere con la matrigna (vv. 85-90), nell’ultima esortazione materna a loro indirizzata (vv. 91-94) Paolo si riappropria del ruolo di vedovo che agli occhi della moglie gli conferisce una dignità maggiore; se questa sarà la decisione del marito, i figli dovranno prepararsi senza indugio a un compito che sarebbe spettato a lei, e rivolgere al padre le affettuose attenzioni destinate ad alleggerire il peso degli anni e la solitudine di un vedovo: in discite …iam nunc (v. 93), se l’imperativo tradisce «quel piglio didascalico che una madre deve tenere nei confronti dei figli»,67 l’indicazione temporale esprime la premurosa sollecitudine per il marito, perché sin dall’adolescenza i figli dovranno essere in grado di scorgere nel padre i segni dell’età che avanza. L’apostrofe di Cornelia ai suoi cari si conclude con l’augurio che gli anni sottratti a lei si aggiungano quelli dei suoi figli (v. 95) e l’auspicio al marito di invecchiare col conforto della sua nobile discendenza (v. 96 prole mea); se nel presente della situazione comunicativa Paolo piange e si dispera sul sepolcro della moglie, nella prospettiva futura dell’augurio di Cornelia ha l’aspetto di un vecchio, fedele, però, al ricordo della moglie. Al termine di un’elegia che alterna toni sostenuti a momenti intensamente patetici e nel segno dei valori della famiglia che vincono la sfida del tempo, Properzio congeda la serie dei personaggi maschili della sua opera con l’immagine toccante di un anziano vedovo, appagato però dai sicuri successi dei figli.
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Abstracts Scopo dell’intervento è delineare i caratteri peculiari del personaggio maschile, che anche nel IV libro properziano integra e completa quello femminile; l’uomo, infatti, è ‘ l’altro da sé’, che nella poesia elegiaca condivide con la donna il ruolo di protagonista principale. Ci si sofferma in particolare sulle figure di Licota (4,3), di Tazio (4,4) e di Paolo (4,11) e sulle diverse voci femminili, a cui è affidato quasi esclusivamente il compito di delineare funzioni e caratteristiche dei rispettivi uomini. The aim of this study is to outline the particular characteristics of the male character, that integrates and completes the female one even in the Propertian fourth book; the man, in fact, is ‘the other self ’, which shares the main role with the woman in elegiac poetry. In particular, the analysis focuses on Licota (4.3), Tazio (4,4) and Paullus (4,11) and on the different female voices, to which is almost exclusively entrusted the task to delineate functions and characteristics of their men.
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1. Confesso che con un certo sgomento vedo aumentare negli ultimi tempi la tendenza a scorgere nei poeti augustei atteggiamenti di subdola sovversione nei confronti del potere: apparentemente essi elogerebbero il princeps, ma sotto sotto lo criticherebbero o addirittura ironizzerebbero sulla sua gestione della cosa pubblica. Ho sempre pensato che l’ironia raggiunga il suo scopo se, oltre all’autore, anche i lettori sono in grado di percepirla: evidentemente si ritengono Augusto e i suoi uomini di fiducia a tal punto idioti da non accorgersi di essere presi in giro. Se, poi, persino il serissimo editore oxoniense di Properzio, di fronte al patetico esordio delle parole di Cornelia al marito nell’ultima elegia del IV libro (Desine, Paulle, meum lacrimis urgere sepulcrum), vede in desine un’autoesortazione del rassegnato poeta a farla finita con una poesia di ossequio dei potenti che è costretto a comporre, e di questa sua ipotesi pretende di trovare conferma nel fatto che il vocativo Paulle rassomiglia all’imperativo greco παῦε (‘cessa’), allora è necessario mettere le cose in chiaro, muovendo dalla fase di produzione e diffusione del testo. Sarà opportuno, in primo luogo, ribadire un dato di fatto che si dava per ovvio e scontato, ma che evidentemente non lo è: l’importanza del legame che s’instaura fra il poeta e il suo patronus (o con i suoi patroni). Mettersi sotto le ali di un patronus è necessario per chi, come Properzio, vittima del dissesto familiare in seguito alle confische dopo il bellum Perusinum, dai luoghi natii si è trasferito a Roma e lì cerca fortuna praticando il mestiere tutt’altro che redditizio di poeta, per di più di poeta d’amore. Un libro di poesia, come il I delle elegie di Properzio, che certa10.1484/M.SPL-EB.5.115916
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mente ebbe una circolazione separata dagli altri, era destinato a una ristretta cerchia d’intenditori, capaci di cogliere le allusioni ai modelli: per forza di cose, quindi, il poeta deve avere quale referente l’aristocratico colto e influente in campo politico. In assenza dei moderni diritti d’autore, non è solo per motivi di sopravvivenza che un poeta privo di una fortuna personale ha bisogno del sostegno di un patronus: provvedere alla pubblicazione di un’opera letteraria avrebbe richiesto uno sforzo finanziario insostenibile da parte di un poeta squattrinato, perché costosissimo era il materiale scrittorio (il rotolo papiraceo), costosa l’attività dei copisti, molto limitato il numero dei potenziali lettori e inesistenti i guadagni o tutt’al più limitati alla cessione dell’originale a un librarius, che ne diveniva il proprietario. Se si tiene presente tutto ciò, allora si comprende il motivo della dedica, esplicita o sancita dal ruolo assegnato nel libro a un personaggio di rilievo, perché il dedicatario era il patrono e il finanziatore dell’opera. È ben noto che questa è una pratica antica, che risale almeno al tempo del rapporto di tipo ‘mecenatistico’ degli Scipioni con i letterati della propria cerchia (Ennio in primis). Ovvia è la conseguenza di questo stato di cose: il poeta deve fare i conti con i suoi patroni, perché ad essi è legato da un sistema di officia che è tenuto a rispettare: in tal modo egli finisce per assumere un ruolo di dipendenza nei confronti dei suoi patroni e finanziatori. Il Properzio del I libro fa le sue scelte e mette in chiaro fin dall’elegia incipitaria che suo patrono è Lucio Volcacio Tullo. Basta consultare l’aureo volume in cui Wilhelm Schulze ricostruisce la storia dei nomi delle gentes, per constatare che le iscrizioni relative ai Volcacii attestano che si tratta di gens dell’Etruria, in particolare di Perugia e dintorni.1 Un Lucio Volcacio Tullo era stato console nel 66 a.C. e un suo figlio omonimo ottenne il consolato assieme ad Ottaviano nel 33 a.C., l’anno in cui il dissidio di Ottaviano con Antonio divenne insanabile.2 Il console del 33 a.C. era lo zio paterno di Tullo, l’amico a cui Properzio ha dedicato il I libro delle sue elegie.3 Schulze 1904, 378. Cfr. poi Torelli 1969, 285-363 (p. 303 sui Volcacii). Cfr. Hanslik 1962, 1838 (n° 18), Syme 1964, 124-125. 3 Cfr. Hanslik 1962, 1837 (n° 17). 1 2
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Dunque, quando l’umbro Properzio, trasferitosi a Roma dopo le confische delle terre paterne, si vede nella necessità di ricorrere alla tutela di un patronus per pubblicare il suo libro di poe sia, lo trova nel giovane esponente di una famiglia importante dell’aristocrazia della sua terra d’origine: e poco importa che Assisi appartenga alla regio VI (Vmbria) e Perugia alla regio VII (Etruria), perché in realtà – come ha ribadito Giorgio Bonamente – non esisteva «alcuna distinzione tra le due aree, per l’assoluta mancanza di magistrature o di giurisdizioni proprie delle regioni».4 Tullo è saldamente presente nel libro sin dalla prima e programmatica elegia, addirittura con un’apostrofe ritardata che lo inserisce nel nobile esempio mitico di Milanione e Atalanta. Azio e il suicidio di Antonio appartengono al passato e il panorama politico, ormai definitivamente chiarito, non lascia dubbi sulla strada che, di lì a poco, condurrà alle decisioni del 28-27 a.C., col conferimento dei poteri ad Augusto. In questa situazione Properzio sceglie la poesia d’amore, che non solo è poesia del disimpegno, ma che canta addirittura una serie di disvalori antitetici ai valori del civis Romanus. Significativa è la sua scelta, ma ancor più lo è che Tullo, per tradizione familiare perfettamente integrato negli ideali aristocratici e vicino al centro del potere, sia divenuto patrono di un poeta che esalta compiaciuto il servitium nei confronti di una donna dispotica e il rifiuto di una vita politicamente e civilmente impegnata. Evidentemente sia Tullo sia i lettori sapevano distinguere fra la letteratura e la vita reale, e capivano bene quale fosse il senso, tutt’altro che rivoluzionario, della presentazione di una realtà dai valori sovvertiti, che implicitamente confermava la validità di quelli reali. Q uando, poi, lo zio paterno di Tullo se ne andrà in Asia in qualità di proconsole nel 30-29 a.C. e il nipote dovrà seguirlo,5 Properzio nella VI elegia non solo non accompagnerà l’amico e patrono in quelle terre lontane, ma renderà manifesto il suo rifiuto con una totale libertà di espressione, contrapponendo alla ovvia scelta dell’uomo politico quella, per lui altrettanto ovvia, del poeta d’amore che preferisce restare a Roma per non compromettere i fragili rapporti con la sua donna: è la Bonamente 2004, 21 e n. 10 con ampia bibliografia. Come legatus o come quaestor pro praetore, secondo Cairns 1974, 157-159.
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stessa libertà di espressione che gli consente di contrapporre nella XIV elegia agli ozi raffinati e sontuosi di Tullo nella sua splendida villa in riva al Tevere la propria esistenza di poeta, che alle ricchezze antepone l’amore della propria donna. Di pari passo col rifiuto delle ricchezze, delle cariche, degli onori procede nel I libro quello della poesia epico-tragica dai toni solenni, che trova compiuta espressione nell’invito rivolto a Pontico nella VII elegia perché si decida ad abbandonarla. Tali atteggiamenti da parte del poeta vanno giudicati come la coraggiosa manifestazione di un non integrato in un sistema oppressivo, addirittura di un suo deciso oppositore, oppure proprio alla luce della tranquilla acquiescenza del patrono essi costituiscono una testimonianza della libertà con cui si potevano effettuare le scelte in campo letterario? Il punto nodale del I libro, si sa, è costituito dalla rievocazione del bellum Perusinum nei due ultimi carmi, a più di dieci anni di distanza dalla sua drammatica conclusione.6 La durata stessa dell’assedio fa capire che Lucio Antonio, il quale in quanto console doveva operare d’intesa col senato di Roma, aveva trovato ampio sostegno nella città assediata da parte dell’aristocrazia locale: quell’aristocrazia contro i cui esponenti si scatenò l’efferata rappresaglia ordinata da Ottaviano, allorché – tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo del 40 – la città si arrese per fame. I 300 membri di famiglie dell’aristocrazia e del ceto equestre che, secondo Svetonio,7 furono massacrati nella ricorrenza delle Idi di marzo, spiegano e giustificano ampiamente i Perusina …patriae …sepulcra che Properzio ricorda a Tullo nel l’ultima elegia del libro (1,22,3). Ma in favore di quale parte politica si erano schierati i Volcacii? Sul loro ruolo durante il bellum Perusinum si possono formulare solo ipotesi: a me sembra ragionevole quella di Bonamente, quando afferma che, «considerata la loro appartenenza alle file dei cesariani, essi avranno dimostrato anche un coerente attaccamento ad Ottaviano, o quanto meno un rapido adeguamento alla politica del vincitore, se nel 33 a.C. un esponente di quella fami6 Del comportamento dell’aristocrazia locale durante l’assedio ha già trattato nel Convegno del 2002 Giorgio Bonamente, alle cui conclusioni mi ricollego. 7 Suet. Aug. 15,1-2; cfr. anche Cass.Dio 48,14,4.
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glia, lo zio di Tullo, era console insieme ad Ottaviano».8 Rapido, in ogni caso, e favorito dal potere centrale fu l’allineamento di quella stessa aristocrazia, decimata da Ottaviano, alla mutata situazione politica. Se alla luce di tali considerazioni rileggiamo 1,21, forse possiamo giungere a una conclusione più equilibrata e più consona all’accortezza con cui Properzio, che quegli avvenimenti rivive in una temperie politica ben diversa, presenta un momento drammatico per la sua gente e per la sua stessa famiglia. Sia pure nelle incertezze testuali dei vv. 5-6 si capisce che Gallo, ferito a morte sui monti dell’Etruria, si rivolge a un commilitone che, ferito in modo non grave, cerca scampo nella fuga. Nel sentire i suoi lamenti il fuggiasco volge altrove gli occhi sbarrati per la paura e per l’orrore. Gallo, morente, lo invita a fermarsi un attimo e, dopo avergli augurato di trovare scampo nella fuga e di poter riabbracciare i genitori, lo prega di riferire alla sorella che, sfuggito alle truppe di Ottaviano, è stato ferito a morte da mani ignote. Alla sorella dovrà anche indicare il punto in cui, sui monti del l’Etruria, si trovano le sue ossa, perché possa provvedere a dargli sepoltura. Gallo e il fuggiasco militano, dunque, nell’esercito di Lucio Antonio: se Gallo, come si potrà capire dal carme conclusivo, è un propinquus e, dunque, un parente del poeta, quello che si può desumere per certo è che la gens di Properzio aveva militato dalla parte degli sconfitti. Non mi sembra, invece, che si debba necessariamente scorgere qui una vibrata denuncia del l’operato di Ottaviano, a testimonianza dell’ostilità di Properzio nei suoi confronti (cosa ancor più improbabile se i Volcacii si erano schierati dalla parte di Ottaviano): le ignotae manus colpevoli della morte di Gallo saranno, verisimilmente, di sbandati o di predoni dediti al saccheggio; ce lo fa capire il senso peggiorativo dell’espressione, se la si confronta col pomposo Caesaris enses (con la significativa presenza del poetico ensis), che designa l’armata di Ottaviano. Importante, piuttosto, è la presenza dell’aggettivo Etruscus, sia all’inizio sia alla fine del monologo di Gallo, da cui traspare l’orgoglio del poeta – sicuramente condiviso dal suo patronus – di appartenere a una terra dall’antica civiltà. Bonamente 2004, 50.
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Alla XXII e ultima elegia del I libro è assegnata la funzione di sphragís: nel nome di Tullo si è aperto il libro e nel suo nome esso si chiude: però il poeta, che nell’esordio lo aveva strettamente unito al motivo-guida del libro, e dunque all’amore sofferto e contrastato per Cinzia, ora lo associa alle sue origini e alla sua terra natia. Properzio s’immagina una domanda dell’amico sulla propria origine, sulla propria famiglia, sulla propria terra: la sua risposta si sviluppa con un insolito periodare, caratterizzato non solo da un’ampiezza che supera abbondantemente i confini di un distico e finisce per occuparne addirittura quattro, ma anche da un andamento complesso e per di più complicato da un’espressione parentetica che si prolunga per tre versi. Apparentemente il risultato è costituito da un epigramma, che si colloca sia per struttura sia per numero di versi allo stesso livello del carme che nel libro lo precede: dieci versi che si leggono tutto d’un fiato, dopo la serrata successione di quesiti del primo distico. Ciò che importa, tuttavia, è che in quell’ampio periodo Properzio non risponde alle domande dell’amico con quell’esattezza che esse esigono, nella loro asindetica successione: Properzio divaga e si sposta su un altro versante, che è quello del bellum Perusinum, e la sua scelta finisce per associare ancor più intimamente l’ultimo carme del libro a quello che lo precede. Il legame di 1,22 con 1,21 è garantito dalla menzione dei resti (gli ossa) del propinquus, che giacciono insepolti nella pulvis Etrusca. In quanto, poi, ai Perusina sepulcra, chiara allusione ai lutti provocati dal bellum Perusinum a cui si aggiunge la loro definizione come Italiae funera (‘esequie dell’Italia’) duris temporibus, essi sono inquadrati nelle guerre civili che solo ad Azio avrebbero avuto fine con la vittoria di Ottaviano: altro non può essere il significato del v. 5, con la sua allusione al virgiliano en quo D i s c o r d i a c i v e s / produxit miseros (Buc. 1,71-72), combinata con l’oraziano acerba fata R o m a n o s a g u n t / scelus que fraternae necis (Epod. 7,17-18). Col ricordo del propinquus caduto nel bellum Perusinum, dunque, Properzio finisce per mettere in rapporto il suo destino e quello della sua famiglia con le tragiche vicende delle guerre civili e al tempo stesso fornisce all’amico Tullo, nella chiusa del libro, la giustificazione della propria scelta di vita che lo tiene lontano dalla partecipazione alla vita politica. Che il suo atteggiamento voglia essere di aperta condanna nei 134
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confronti di Augusto, mi sembra improbabile: sarebbe a dir poco singolare che egli avesse ricercato il patronato di Tullo, ora strettamente legato al potere augusteo, per criticare, poi, apertamente proprio Augusto: 9 il primo a pagarne le conseguenze sarebbe proprio Tullo. Sono d’accordo con Günther, quando osserva che «die Aussagen Properzens in seinem ersten Buch enthalten gewiss nichts explizit Antiaugusteisches; Properz nimmt keine Partei, stellt sich auf niemandes Seite, und warum hätte er sich auch auf die Seite von Augustus stellen sollen?»; e conclude che «wie Properzens Weigerung, Tullus auf seinen Expeditionen zu begleiten, zeigt, konnte Properz sich selbst gegenüber seinem Gönner eine beträchtliche Unabhängigkeit leisten».10 2. La funzione di patronus esercitata da Tullo cessa con la sua partenza per l’Oriente al seguito dello zio proconsole. Non c’è nulla di sorprendente nel fatto che sia stato proprio Mecenate, il quale aveva già accolto nella sua cerchia chi, come Orazio, aveva militato nella parte avversa, ad accordare il suo patronato a Properzio. Mecenate era etrusco allo stesso modo di Tullo: in questo c’è piena continuità con il I libro, e c’è anche continuità nel fatto che, allo stesso modo di Tullo, Mecenate non abbia avuto alcuna difficoltà nell’accordare la sua protezione a un poeta d’amore, che in quanto tale doveva essere programmaticamente contrario alla celebrazione delle gesta del principe. Ma forse è giunto il tempo di mettere definitivamente da parte la tendenza, nobilmente trattata da Ronald Syme, ma mal trattata dai suoi epigoni, a porre Augusto sullo stesso piano dei dittatori moderni. È lecito supporre l’esistenza di sollecitazioni a celebrare in versi epici i successi di Augusto ed è altrettanto lecito pensare che il farlo abbia arrecato vantaggi economici. Ma di sicuro ciò non si traduceva in un obbligo o in una coercizione: ne è testimone Properzio stesso, che nel II e nel III libro può continuare a difendere e a praticare la poesia d’amore, senza che dal suo atteggiamento sia intaccata l’amicizia o a causa di esso venga meno la protezione di Mecenate. Anche in questo mi trovo pienamente d’accordo con 9 Sagge osservazioni, a questo proposito, si possono leggere in Günther 2012, 30-31. 10 Günther, ibid.
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Günther, quando sostiene che «allerdings scheint das Regime keinerlei spezifizierbaren Druck auf die Dichter ausgeübt zu haben, politische Dichtung in einer ganz bestimmten Form oder mit einer bestimmten Thematik zu verfassen. Maecenas – und d.h. die Kulturpolitik des Augustus – war daran interessiert, Dichter von echter Begabung für das System zu gewinnen, und er überließ es ihnen, ihre eigene Art und Weise zu finden, Politik und Herrscherlob in ihr ästhetisches Konzept und in ihre zuvörderst von anderen Themen geprägte Dichtung zu integrieren».11 Anche se in apertura del II libro Properzio si rivolge ai lettori col convenzionale espediente della risposta a una domanda a lui rivolta (2,1,1 quaeritis unde mihi totiens scribantur amores), l’apostrofe a Mecenate nel v. 17, ripresa poi nella chiusa secondo una tecnica a lui cara, fa capire che destinatario e patrono del libro è Mecenate. Il rapporto che s’instaura fra poeta e patrono illustre è ben chiarito nei vv. 73-74 Maecenas, nostrae spes invidiosa iuventae, / et vitae et morti gloria iusta meae, in cui Mecenate è definito spes (cioè ‘motivo di speranza’) invidiosa per il giovane Properzio: secondo Gellio (9,12,1) può esser detto invidiosus sia qui invidet sia cui invidetur; qui, ovviamente, solo il secondo significato è appropriato.12 A completamento del l’amplificazione dell’apostrofe a Mecenate, nel pentametro il poe ta mette in chiaro che il suo favore costituisce per lui motivo di vanto durante la vita e continuerà ad esserlo dopo la morte: è questo il modo scelto da Properzio per unire il suo agli elogi rivolti a Mecenate dai suoi poeti preferiti. Nei versi precedenti, però, il poeta si era premurato di mettere in chiaro la sua intenzione di continuare a scrivere poesia d’amore, e lo aveva fatto con l’accorto ricorso a una garbata recusatio, in cui il rifiuto del poema epico non assumeva affatto i toni di un attacco frontale. Nei confronti di Callimaco, che nel prologo degli Aitia (fr. 1,23-28 Pf.) aveva ricevuto da Apollo l’invito a non praticare la poesia altisonante, Properzio introduce
Günther 2012, 36-37. Cfr. Ov. Met. 4,795 (= 9,10) multorumque fuit spes invidiosa procorum, dov’è chiara l’allusione al verso properziano, e altri esempi in ThlL VII 2, 206, 75 ss. 11 12
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alcune variazioni, che gli consentono di fondare la recusatio su tre argomenti: l’inadeguatezza delle proprie forze al canto dai toni epici, la scelta convinta del tenue, la necessità di praticare il tipo di poesia a lui più congeniale. È significativo, però, che quello di Properzio sia un rifiuto dell’epos che riguarda il passato, dagli scontri del mito a quelli della storia di Roma dalla fondazione alle gesta di Mario: ché se, invece, egli dovesse celebrare imprese degne di essere epicamente cantate, allora di fronte a quelle di Augusto avrebbe solo l’imbarazzo della scelta, e si capisce che volentieri le canterebbe (vv. 27-34). Properzio, dunque, mostra piena coscienza del ruolo del poema epico nella cultura del tempo suo; tuttavia, pur consapevole dell’inarrestabile ascesa della poesia celebrativa per i consensi di cui gode negli ambienti ufficiali, egli non ha alcuna difficoltà nel proclamare all’inizio del libro che continuerà a comporre versi d’amore, sicuro com’è che il suo diniego non muterà l’atteggiamento dei potenti nei suoi confronti.13 Significativo è il catalogo delle gesta di Augusto che il poeta vorrebbe celebrare, se ne avesse le forze: esso include la guerra di Modena (43 a.C.), la battaglia di Filippi (42 a.C.), lo scontro navale di Nauloco (36 a.C.) e, infine, con una significativa rottura dell’andamento cronologico, la guerra di Perugia (41-40 a.C.) e la conquista dell’Egitto dopo Azio (31-30 a.C.). Il catalogo, dunque, prende le mosse dagli esordi della carriera di Augusto ed è contrassegnato esclusivamente dalle guerre civili alle quali Azio metterà fine. Mentre la guerra di Modena non riceve alcun commento, nella presentazione di Filippi è l’appositivo civilia busta ad acquistare il rilievo maggiore dalla sua collocazione anticipata: s’intuisce che Properzio ha voluto enfatizzare la tragedia delle guerre civili con un’espressione ad effetto (‘sepolcro di cittadini romani’), che non a caso ricorda i Perusina patriae sepulcra di 1,22,3; in tal modo egli si prepara la strada alla presentazione del bellum Perusinum nel v. 29. Non credo che sia 13 Esemplare è il giudizio su 2,1 espresso da Günther 2012, 34: «an keiner Stelle in diesem Gedicht spricht Properz von einer Forderung von Seiten des Maecenas, die er zurückweisen müsste. Im Gegenteil, Properz bietet sich freiwillig an, die Taten des Princeps zu besingen – wenn er nur die Kraft dazu hätte. Die Liste der Siege des Princeps (2,1,25ff.), die en passant gibt, stellen dabei zugleich eine beachtliche Huldigung dar. Die Recusatio erfüllt hier glänzend ihre Funktion als rhetorisches Mittel, den Gegenstand des Panegyrikers durch die Versicherung zu erhöhen, ihm fehlten die Kräfte, ihn angemessen zu würdigen».
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nel giusto Reitzenstein, quando ritiene che quel verso rappresenti una palinodia di 1,22: 14 ben difficilmente Properzio, colpito negli affetti familiari dalla guerra di Perugia, avrebbe potuto rinnegare, se non il tono di esecrazione perlomeno l’orgoglio di appartenere a una gens etrusca che traspariva da quei versi; sarebbe stata, fra l’altro, una grave scortesia nei confronti di Mecenate, che delle sue origini etrusche andava fiero.15 Che il poeta non possa aver cambiato opinione in così breve tempo lo si capisce dal modo in cui l’avvenimento è evocato: egli, infatti, avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto con le parole eversam gentem Etruscam, ma ha preferito parlare di eversos focos antiquae gentis Etruscae; i foci non sono una semplice sineddoche per domus, ma comunicano un senso d’intimità familiare protetta da un’atmosfera religiosa. Importante è anche l’epiteto della gens Etrusca: antiquus, infatti, con la sua enfatizzazione della vetustà della civiltà etrusca, oltre a rappresentare un atto di omaggio nei confronti di Mecenate per probabile suggestione dell’incipitario Maecenas atavis edite regibus nel primo carme di Orazio, accresce il tono patetico dell’immagine e indica la persistenza del vivo senso di partecipazione alla sorte infelice della città e della terra natia, che il poeta aveva espresso nei due carmi conclusivi del I libro. Non credo, quindi, a una palinodia, ma anche in questo caso non credo neppure che Properzio voglia esprimere una presa di posizione ostile nei confronti di Augusto: anzi, mi sembra che proprio contesti come questo ci aiutino a intendere la causa prima dell’adesione sua e di altri poeti al programma augusteo. Q ui, infatti, nel progettare un canto delle imprese belliche si elencano solo gli scontri che avevano funestato l’Italia prima di Azio: per Properzio, come per Orazio e per Virgilio, Azio è il “Wendepunkt” della storia di Roma, perché col suicidio di Antonio ha decretato la fine delle guerre civili. È lecito, dunque, ricordare i momenti tragici del passato, anche quelli che hanno segnato dolorosamente la vicenda personale del poeta, ma lo si fa nella consapevolezza che essi hanno costituito le tappe, dolorose ma
Reitzenstein 1896, 186-187. Cfr. 3,9,1 Maecenas eques Etrusco de sanguine regum, col mio commento ad loc. 14 15
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necessarie, nella via che ha condotto alla definitiva pacificazione, di cui Augusto è stato l’artefice. Nel rivolgersi a Mecenate, Properzio è ben consapevole di rivolgersi anche ad Augusto; lo fa ben capire nei vv. 25-26, dove tui …Caesaris …tu / Caesare sub magno mette in grande risalto lo stretto legame di amicizia fra Augusto e Mecenate, che nei vv. 37-38 sarà nobilitato dai mitici esempi di Teseo e Piritoo, di Achille e Patroclo: l’anastrofe nel v. 26 (Caesare sub, col raro uso di sub nel senso di ‘subito dopo’) 16 contribuisce insieme al poliptoto a mettere in piena luce le doti di Augusto, qui racchiuse in magno, mentre il punto di vista del poeta sul ruolo di Mecenate a fianco del principe è affidato a cura secunda, in cui cura definisce il ‘soggetto poetico’ (Goold: ‘my second theme’). Fissati in tal modo sin dall’elegia incipitaria i termini del l’amicizia che lega il suo patrono ad Augusto, il poeta può rivolgersi direttamente al principe: anche in questo caso egli ricorre alla recusatio; tuttavia, considerato l’augusto destinatario, non sorprende che quella della X elegia sia del tutto singolare. Mentre in 2,1 si avvertiva in modo chiaro l’assenza di una reale volontà di praticare un nuovo genere di poesia, 2,10 mostra l’aspi razione a perseguirlo: tutto dipende dall’argomento di canto. Ora Properzio si definisce pronto a celebrare le battaglie e gli eserciti guidati da Augusto: se, poi, gli mancheranno le forze, l’aver osato costituirà per lui motivo di lode (vv. 1-6). Egli riconosce che, mentre la giovane età è adatta al canto d’amore, quella matura lo è al canto di guerra; poiché egli ha cantato la sua donna, è giunto il momento di celebrare le guerre. Libet nel v. 3 fa capire che la decisione gli è ben gradita, mentre voluisse nel v. 6 e volo nel v. 9 connotano una ferma e convinta intenzione. Non mancano, d’altronde, gli argomenti di canto; e se nel v. 13 l’Eufrate, che ricorda la disfatta di Crasso, si limita a un gesto di neutralità rinunciando a proteggere i Parti, nel v. 15 l’India si offre addirittura al vincitore con un manifesto segno di sottomissione (dat colla): 17 insomma, se c’è una terra ai limiti del mondo che 16 Cfr. Verg. Aen. 5,323 sub ipso …volat, col commento di Servio, e Hofmann – Szantyr 1965, 279. 17 La sottomissione dell’India si riferisce in realtà a una delle frequenti ambascerie inviate ad Augusto (cfr. Res gest. 5,50-51, Suet. Aug. 21,3).
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ad Augusto si sottrae, è bene che la si conquisti in breve tempo. Sono questi gli argomenti che il poeta canterà, sicuro di divenire un vate grande (vv. 13-20). Tutto sembra preludere a un passaggio nel campo della poesia epica celebrativa: ma ecco che all’improvviso (vv. 21-24) il poeta si sente come chi, di fronte alle statue imponenti delle divinità, è costretto a deporre le ghirlande di fiori ai loro piedi; incapace com’è di raggiungere pienamente la gloria, può solo offrire umile incenso con riti modesti. Un tale mutamento è senz’altro improvviso, ma non giunge inatteso, perché il canto delle imprese di Augusto era previsto per il futuro, al completamento delle imprese gloriose o tutt’al più durante la loro realizzazione. D’altronde, nell’ultimo distico, nondum etiam (v. 25) non chiude affatto il discorso: per ora Properzio resta poeta d’amore, ma non è detta l’ultima parola; la sua promessa è stata formulata per l’aetas extrema e, in ogni caso, un saggio del canto di tipo nuovo egli lo ha offerto nei vv. 13-18. C’è, tuttavia, una novità importante: qui non si parla più di un passato di guerre civili, ma si ricordano i successi recenti e si auspica un futuro ricco di vittorie e di conquiste. Il poeta d’amore, che per convenzione è poeta di pace, ora si sta mutando in un cantore di successi bellici. Ad Azio si ritorna dove meno ce l’attenderemmo, in un contesto della XVI elegia del II libro in cui Properzio parla delle sue pene per il tradimento di Cinzia. Il poeta sa bene che dovrebbe vergognarsi del suo atteggiamento, ma sa bene che, come dice un proverbio, un amore turpe è duro d’orecchie. Lo conferma Antonio, che ad Azio scelse la fuga vergognosa pur di seguire l’amata Cleopatra. La rievocazione del vile comportamento di Antonio serve a collocare sullo stesso piano il turpis amor dell’amante elegiaco e quello del condottiero, in quanto espressione entrambi del turpe servitium a cui può costringere una donna. Avulso dal contesto, e per questo ritenuto da taluni interpolato, può apparire a prima vista il distico (vv. 41-42) che presenta un chiaro atto d’omaggio ad Augusto e alla sua clementia: la virtù e la gloria di Augusto risiedono nel suo essere un principe di pace; egli ha deposto la spada nel fodero con la stessa mano che ha ottenuto la vittoria. Ma c’è da stupirsi, dopo quello che si è visto, se Properzio ha ritenuto – dopo la rievocazione di Azio – di non potersi esimere da un gesto adulatorio nei confronti del principe? 140
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D’altronde la presentazione di Augusto come condottiero vittorioso, che è stato capace di porre un freno alle armi, non fa che riproporre il motivo virgiliano del parcere subiectis et debellare superbos (Aen. 6,853). L’accenno ad Augusto quale principe di pace ci consente di capire meglio l’improvviso affacciarsi nella poesia del II libro dell’elogio a lui rivolto in quanto restauratore ed edificatore di templi. Il poeta d’amore capisce bene che l’introduzione nella poesia erotica di tematiche connesse con l’attività edilizia rischia di risultare piuttosto stravagante in un canzoniere per Cinzia, e ricorre a un ingegnoso espediente: invece di accogliere all’interno del tessuto erotico elementi ad esso estranei, presenterà come accessorio proprio l’argomento erotico. È quello che egli fa nella XXXI elegia del II libro, dove il tenue legame con la poesia di corteggiamento galante è definito nel distico iniziale: a un appuntamento con l’amata, Properzio non è giunto in orario; colpevole del ritardo che Cinzia gli rimprovera è stata l’inaugurazione del portico di Apollo, annesso al tempio del dio sul Palatino, di cui egli dà una parziale descrizione. L’elegia ha tutta l’aria di esserci giunta in modo incompleto; tuttavia il suo probabile stato frammentario non impedisce di cogliere il forte impatto ideologico del complesso.18 Edificato su un terreno di proprietà di Ottaviano che era stato colpito dal fulmine,19 il tempio era stato votato nel 36 a.C. dopo la vittoria su Sesto Pompeo a Nauloco 20 e dedicato nel 28 a.C.: 21 poiché la casa di Augusto sul Palatino era collegata alla terrazza del tempio da una rampa di accesso, dimora del principe e luogo di culto del dio suo protettore costituivano un complesso unitario di grande significato ideologico.22 Il fatto stesso di aver inserito in una raccolta di poesia d’amore un carme che, invece, tesse l’elogio di una simile realizzazione del principe costituisce di per sé una significativa testimonianza
18 Sul tempio di Apollo come sintesi di un progetto politico-culturale cfr. Zanker 1989, 97. 19 Cfr. Suet. Aug. 29, 3; Cass.Dio 49, 15, 5. 20 Vell. 2, 81, 3; Cass.Dio 49, 15, 5. 21 Cass.Dio 53, 1, 3; CIL I² 214. 245. 249. 22 Cfr. Zanker 1989, 57; 2014, 221-244 e, per il forte effetto scenografico, Sauron 2014, 85.
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di adesione del poeta elegiaco al programma edilizio del magnus Caesar (v. 2) e anticipa ciò che troverà ampio sviluppo nel IV libro. È questo il tempo in cui Augusto prende a sondare l’opinione pubblica in vista di interventi legislativi in materia matrimoniale, che solo nel 18-17 a.C. si concretizzeranno nelle leges Iuliae de maritandis ordinibus e de adulteriis coercendis. In seguito, evidentemente, alle reazioni non favorevoli, per il momento il progetto di legge venne messo da parte: la VII elegia del II libro attesta la grande gioia di Properzio e di Cinzia, che sarebbero stati costretti a una inevitabile separazione. Anche in questo caso ci si rende conto che è necessario saper distinguere fra letteratura e vita reale, perché il poeta di certo esagera nel descrivere gli effetti della legge: 23 se, infatti, s’interpretano in senso letterale le sue parole, la progettata legge lo avrebbe costretto non solo a sposarsi (vv. 8-9), ma addirittura a non incontrare più la sua amante (vv. 1-4; 9-10) e a generare figli per la patria in armi (vv. 13-14; 20). Un simile sistema di coazione diretta, in cui si fa addirittura divieto all’uomo sposato di praticare rapporti extraconiugali, è del tutto ignoto alle successive leggi matrimoniali. Ben si capisce, quindi, che l’esasperazione delle conseguenze della legge serve a Properzio per mettere in luce come i fondamenti etici che la ispirano siano in insanabile contrasto col modo di vivere del poeta d’amore. Ancora una volta, dunque, l’esperienza letteraria prevale sulle consuetudini della vita reale. Senza tenere alcun conto di ciò, si è ravvisata nelle parole di Properzio una prova certa della sua coraggiosa indipendenza nei confronti della volontà di Augusto: sicché non solo Paratore può definire l’elegia «uno degli esempi più convincenti della libertà di tono con cui Properzio si comporta di fronte ad Augusto»,24 ma anche Lyne parla di una «splendid and brave insolence».25 Non si considera, però, che il poeta d’amore deve recitare la sua parte, che gli impone la fedeltà alla sua donna che non potrà mai sposare e, dunque, il rifiuto del matrimonio e della prole. Che una tale manifestazione di fedeltà ai modelli e ai luoghi Cfr. Spagnuolo Vigorita 2002, 14. Paratore 1986, 84. 25 Lyne 1980, 78. 23 24
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comuni della poesia d’amore non avesse alcuna portata sovversiva, il principe lo capiva bene. Ché se, poi, si vuole ravvisare un coraggioso atteggiamento d’indipendenza nei vv. 5-6, in cui si dice che persino Augusto deve farsi da parte in una materia, l’inseparabilità degli amanti, in cui Giove stesso non ha avuto successo, bisognerà pure tener conto del modo in cui Properzio esprime un tale concetto: egli, infatti, ripropone anaforicamente, con l’altisonante magnus Caesar, il motivo della potenza del principe e lo completa con l’indicazione di una gloria militare (in armis) di certo molto gradita ad Augusto. Al principe, d’altronde, il poe ta d’amore chiede soltanto di farsi da parte in materia d’amore: lo chiarisce il pentametro, con l’immagine dei popoli vinti che in materia d’amore non hanno alcun peso. Se di ‘audacia’ da parte di Properzio si vuole parlare, tutt’al più nel II libro la si potrà ravvisare nella sua dissociazione dall’abolitio memoriae di Cornelio Gallo dopo il suicidio: ma al tempo stesso balza agli occhi l’accorta discrezione con cui Properzio, nella chiusa del libro, accenna alla tragica fine del suo illustre predecessore, nello stesso contesto in cui colloca la poesia d’amore a un livello di pari dignità rispetto a quella di Virgilio (2,34,91-92): et modo formosa quam multa Lycoride Gallus mortuus inferna vulnera lavit aqua!
La morte di Cornelio Gallo era recente (v. 91 modo), e ben nota era la causa del suicidio 26 nel 26 a.C., dopoché era caduto in disgrazia presso Augusto. Tacere il nome di Gallo nella ‘lignée’ dei poeti d’amore (da Varrone Atacino a Catullo a Calvo a Properzio stesso) sarebbe stato inconcepibile: Gallo, per di più, era essenziale per la concezione dell’amore come sofferenza, che Properzio aveva fatto sua sin dal I libro. Q ui, però, Gallo non è descritto mentre compone carmi per Licoride, ma viene rappresentato mentre negli Inferi lava le ferite d’amore a lui inferte dalla bella Licoride; la drammaticità della situazione è accresciuta da quam multa, che in forte iperbato nei confronti di vulnera sottolinea con enfasi la quantità di tali ferite. In tal modo sembra che Gallo non sia morto per la ferita della spada con cui si suicidò, ma in seguito alle ferite d’amore! Cfr. Cass.Dio 53,23.
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3. Anche il III libro è legato al nome di Mecenate: a lui è dedicata la IX elegia, in cui l’illustre patrono viene esaltato come modello di vita. È significativo, però, che dopo le prime tre elegie del libro, che definiscono il rapporto di Properzio con la poesia callima chea, la IV, aperta da un allusivo arma, si occupi della progettata spedizione di Augusto in Oriente. Sin dall’inizio dell’elegia Properzio si mostra sensibile all’importanza dell’impresa contro popoli ricchi e bellicosi ai confini del mondo; prevede già i futuri trionfi, s’immagina il Tigri e l’Eufrate finalmente sotto la giurisdizione romana e i trofei strappati ai Parti appesi alle pareti del tempio di Giove. Il poeta d’amore, che dovrebbe essere poeta di pace, ora prende a incitare i soldati perché si affrettino a mettere in mare le navi e a preparare i cavalli, certo com’è che la loro impresa cancellerà l’onta della disfatta di Carre. Ha suscitato scalpore il fatto che, sia pure dopo tali concessioni alla poesia celebrativa, nella chiusa dell’elegia il poeta preghi Marte e Vesta, perché gli consentano di assistere, mollemente sdraiato accanto alla sua donna, al trionfo di Augusto. Deve ciò indurci a concludere che, servendosi dell’ironia, egli esprima con un polemico atteggiamento antieroico un rifiuto dell’impresa progettata? Credo che questa interpretazione, per quanto ampiamente diffusa, travisi il senso del carme. Come si spiegherebbe, oltre alle invocazioni a Marte e a Vesta, il ruolo di Augusto nella struttura dell’elegia? Il princeps compare, infatti, all’inizio (v. 1), al centro (v. 13) e alla fine (vv. 19-20). In particolare, dando inizio all’elegia con arma, Properzio rinvia all’incipit dell’Eneide e, subito dopo gli arma, al posto del vir virgiliano colloca il divino Augusto (deus Caesar), che da Enea discende. L’atteggiamento antieroico è di prammatica in un poeta d’amore, perché gli consente di riaffermare, in un’elegia patriottica, il topos letterario del ruolo insostituibile della donna amata nella propria poesia. Al tempo stesso, però, si avverte nell’elegia la chiara consapevolezza che, se il poeta può godere dei vantaggi di una vita tranquilla e sicura, egli lo deve ai successi di Augusto. Nel nome di Mecenate si apre la IX elegia del III libro, e alla sua figura è legata l’intera struttura del carme, incorniciato dal l’apostrofe iniziale e da quella conclusiva; ma anche la parte centrale si apre (v. 21) e si chiude (v. 34) col nome di Mecenate, ed è seguita da 6 distici (vv. 35-46) a esaltazione delle scelte da lui 144
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compiute; a completare il quadro, l’apostrofe finale (vv. 47-58) è aperta da te (sc. Maecenate) duce ed è chiusa da un distico a lui rivolto (vv. 57-58). L’elogio di Mecenate, che muove dal riconoscimento della capacità di mantenersi entro i limiti del suo status di cavaliere benché discenda da sangue regale, serve a Properzio per giustificare la preferenza accordata alla poesia tenue anziché all’epos altisonante, che le sue fragili spalle non sarebbero in grado di sostenere. L’opposizione fra grande e tenue si ritrova, trasferita a livello esistenziale, nei vv. 21-30, nel l’elogio a Mecenate per la scelta di una vita modesta e appartata. Mecenate, che si è ritirato in un’ombra discreta, è humilis come lo è per definizione il poeta elegiaco e anch’egli, come il poeta elegiaco, ha scelto il campo del tenue (v. 29 in tenues …umbras). Anche in questa circostanza, però, una tale presa di posizione non implica un rifiuto totale e definitivo della materia epica: nella chiusa del carme, infatti, Properzio lascia intendere al suo patrono che, se continuerà ad essere da lui guidato, potrà anche cimentarsi in argomenti epici. È questo un atto d’omaggio di grande portata nei confronti dell’illustre protettore, perché Properzio implicitamente afferma che, se Mecenate lo vorrà, egli passerà nel campo dell’epos: si tratta di un atto d’omaggio che ha messo in crisi non pochi studiosi properziani, convinti che questa aperta disponibilità a comporre poesia epica costituisca un incredibile voltafaccia, che mal si concilia col loro ‘cliché’ del Properzio che resiste alle sollecitazioni del potere politico. Da quanto si è visto finora c’è da dubitare della giustezza di una tale critica: ma è certo che in questa stessa elegia la fedeltà di Mecenate nei confronti di Augusto riceve un’ampia glorificazione. Lo stretto legame di Mecenate col princeps viene celebrato da Properzio nella sezione centrale: Caesaris …famae vestigia iuncta tenebis (‘alla gloria di Cesare Augusto uniformerai i tuoi passi’), aveva proclamato nel v. 33, prima di ribadire che la fedeltà avrebbe costituito presso i posteri il massimo titolo di gloria per Mecenate (v. 34 Maecenatis erunt vera tropaea fides), in un verso solenne, ‘incorniciato’ dal nome del patronus e dalla sua dote precipua: in tal modo al nome del principe, in apertura d’esametro, corrisponde quello del suo fedele e leale amico in apertura del pentametro. Q uali sono, d’altronde, gli argomenti di un possibile canto epico? Si comincia con la Tauromachia e con la Gigantomachia 145
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(vv. 47-48), che da Callimaco era stata rifiutata nel programmatico esordio degli Aitia (fr. 1,19-20 Pf.), ma si passa subito a Roma e agli eventi più significativi della sua storia, con un audace salto dai miti della fondazione agli avvenimenti della storia contemporanea, che per essere cantati in modo degno necessitano di una più robusta ispirazione: tuttavia gli argomenti del canto epico con cui Properzio si ripromette di accompagnare i cocchi trionfali sono esigui e scontati, e si riducono ai Parti che non costituiscono più un pericolo, alla conquista di Alessandria e al suicidio di Antonio (vv. 53-56): ancora una volta. dunque, la conclusione delle guerre civili grazie ad Augusto rappresenta il «Wendepunkt». Mecenate diviene l’ispiratore del poeta e assume nei suoi confronti un ruolo analogo a quello delle Muse: nella chiusa dell’ele gia Properzio si augura che continui a sostenerlo e a proteggerlo. Se ciò avverrà, il poeta sarà considerato da tutti un seguace della sua stessa pars (vv. 59-60 hoc mihi, Maecenas, laudis concedis et a te est / quod ferar in partes ipse fuisse tuas): Mecenate, dunque, favorendo e proteggendo (v. 57 fautor) l’attività poetica di Properzio, diviene l’artefice della sua gloria e della sua fama. Poeta e illustre protettore costituiscono un binomio inscindibile, allo stesso modo di Augusto e Mecenate: il patronus è al tempo stesso un amicus, sia nel rapporto che lega Mecenate ad Augusto sia in quello che lega Properzio a Mecenate, ed è del tutto ovvio che il poeta si senta vincolato a condividere le stesse scelte politiche del suo patronus. Properzio, però, non ha dimenticato Tullo, che è stato il primo a valorizzare il suo talento poetico: Tullo ricompare nella XXII elegia del III libro, nel garbato e affettuoso rimprovero per il suo troppo lungo soggiorno nell’Ellesponto, che diviene un esplicito invito a un sollecito ritorno a Roma. Per convincerlo Properzio tesse le laudes Italiae, ben consapevole d’inserirsi in una gloriosa serie di letterati (da Orazio a Virgilio a Varrone), ma le introduce con una significativa premessa (vv. 19-22): Roma trionfa con la forza delle armi; però, una volta conseguita la vittoria, all’ira deve sostituirsi la pietas, vale a dire la clementia nei confronti dei vinti. Di nuovo riecheggia qui il virgiliano parcere subiectis et debellare superbos, che costituisce un punto di forza dell’ideologia augustea. Non è un caso che, nel rivolgersi a Tullo, Properzio non si sia limitato a includere fra i miracula Italiae solo località del Lazio, 146
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ma le abbia fuse con immagini della comune terra d’origine, specificando addirittura che il Clitumno scorre ab Vmbro tramite (vv. 23-26). Poi, esaurito l’elenco dei mostri che popolano le terre dove Tullo indugia, l’elegia si conclude con due distici (vv. 39-42) che racchiudono una serie di motivi della massima importanza per un civis Romanus politicamente impegnato: al richiamo alla terra madre e alla sua incomparabile bellezza si uniscono il prestigio che si ottiene con l’esercizio dell’eloquenza, la necessità di una discendenza per chi appartiene a una nobile gens, la scelta di un sposa adeguata a un personaggio d’alto lignaggio qual è Tullo e l’amore coniugale che deve accompagnare il legame matrimoniale. Apparentemente di carattere privato, gli ultimi argomenti sono perfettamente in linea con la politica d’Augusto e ci consentono d’intravvedere un’adesione che troverà il suo logico sbocco nelle elegie del IV libro. Non è privo di significato, d’altronde, che le laudes Italiae, con i loro dettagli geografici e con la loro erudizione mitologica, si chiudano con la parola amor, perché qui il termine ha un senso ben diverso da quello che ci attenderemmo in Properzio poeta d’amore: qui amor definisce l’amore familiare, esaltato dalla morale augustea, e la fedeltà coniugale, che verrà presa a modello in più d’una elegia del IV libro. Si tratta, dunque, della concezione dell’amore che impone ai coniugi di tener presenti in primo luogo la procreazione e un’ampia discendenza. È significativo che ciò avvenga prima delle due elegie conclusive, che segnano il distacco da Cinzia e dalla poesia che sinora l’ha cantata. Già nella XII elegia, nel rivolgersi a Postumo che ha lasciato la moglie in lacrime per seguire le insegne di Augusto, Properzio aveva sviluppato per la prima volta la tematica dell’amore coniugale e ne aveva tessuto l’elogio. Deciso era stato, in quella circostanza, il rifiuto della guerra, strettamente associata alla cupidigia di denaro, e l’intera elegia ruotava attorno al motivo della fedeltà, beninteso della moglie al marito: ma s’intuisce che il poe ta ha ormai imboccato la strada che, nel IV libro, lo condurrà al rovesciamento della situazione, con Aretusa che pretenderà il rispetto della fedeltà coniugale da parte del marito in guerra. Nell’elegia del III libro, nel momento stesso in cui esprime il rifiuto delle scelte militari, Properzio tesse accortamente l’elogio della campagna augustea di moralizzazione dei costumi e di valorizzazione del matrimonio. 147
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Se in 3,12 è chiara la presenza di una tematica di fondo (la guerra come elemento di separazione della coppia), che verrà ripresa nell’epistola di Aretusa a Licota, altri indizi fanno capire che Properzio ha ben chiara la strada che condurrà alla composizione del IV libro. Nonostante la ribadita adesione al culto del tenue nelle elegie iniziali, nel III libro la poesia d’amore finisce per avere un ruolo del tutto marginale, che sfocerà fatalmente nella demitizzazione conclusiva della donna amata. Anche nell’XI elegia del III libro la vittoria aziaca è considerata come la conclusione di un lungo periodo di guerre intestine e l’elogio di Augusto esalta il suo ruolo di salvatore di Roma, che a tutti ha concesso la possibilità di vivere in una condizione di tranquilla sicurezza: grazie a lui e alle sue imprese ora è possibile solcare i mari senza alcun pericolo (vv. 71-72). Non si riesce a capire come, anche in un carme che è ricco d’elogi nei confronti dell’artefice della vittoria aziaca, si sia voluta scorgere una presa di posizione apertamente antagonistica nei suoi confronti.27 Nell’interpretazione di Azio come scontro fra l’Occidente e l’Oriente Properzio si adegua a quello che era stato un motivo ideologico forte nel l’entourage di Ottaviano, condiviso già da Virgilio: per di più, oltre a fare sua la contrapposizione fra Roma e l’Oriente, Properzio la sviluppa (vv. 41-44) servendosi del contrasto fra un elemento del mondo egiziano e uno di quello romano (Tevere e Nilo, ingombranti navi da guerra egiziane e veloci liburne romane) e, soprattutto, della presentazione della battaglia quale scontro di opposte divinità (Giove e Anubi). Ma parimenti indicative di una piena adesione sono la presenza di Pompeo (v. 68), che inserisce il principato nel solco della tradizione repubblicana, la caratterizzazione del principe come cittadino ideale (v. 55) 28 e il senso della continuità fra il fondatore di Roma (Romolo) e Augusto, suo salvatore e rifondatore (v. 65). Properzio, quindi,
È questo il caso di Paratore 1936. Per quanto riguarda la presentazione di Augusto come civis, par omnibus, Augusto stesso, secondo Tacito (Ann. 1,54,2), civile rebatur misceri voluptatibus vulgi, ed Eutropio, nel caratterizzare il suo lungo regno, afferma che XLIV annis quibus solus gessit imperium civilissime vixit (7,8,4). Il principe è il civis ideale, che col governo della res publica realizza la massima prerogativa dell’uomo completo: cfr. Béranger 1953, 152. 27 28
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mostra di avere ben chiaro quello che sarà lo sviluppo in chiave augustea del IV libro. 4. Uno dei non pochi punti di contatto del IV libro delle elegie properziane col coevo IV libro dei carmi oraziani è costituito dall’assenza del comune patrono. Nel IV libro delle odi di Orazio, Mecenate compare, in modo piuttosto surrettizio, solo nel carme 11, in occasione del suo genetliaco: in precedenza, per non parlare del suo ruolo nel I e nel II libro, nel III a lui erano stati dedicati addirittura tre carmi (8. 16. 29): nel suo nome si erano aperte tutte le opere di Orazio, dagli Epodi alle Satire, dal I libro dei Carmina al I delle Epistole. Ora è Augusto a divenire il destinatario del II libro delle Epistole e la sua figura domina nel IV libro delle odi: ciò è tanto più significativo in quanto in precedenza non mancavano nei primi tre libri delle odi carmi di elogio ad Augusto, ma rarissimo era il caso – come in Carm. 1,2,52 te duce, Caesar – di un’apostrofe a lui rivolta.29 Nel IV libro delle elegie di Properzio l’illustre patronus del II e del III addirittura scompare, e il silenzio sull’eques Etrusco de sanguine regum ha alimentato le ipotesi di una clamorosa rottura con Augusto. Di un deterioramento della loro amicizia parla Tacito, quando negli Annales (3,30,3-4) – a proposito di C. Sallustio Crispo, nipote della sorella dello storico – sostiene che aetate provecta s p e c i e m magis in amicitia principis quam v i m tenuit, e aggiunge: idque et Maecenati acciderat, fato potentiae raro sempiternae, an satias capit aut illos, cum omnia tribuerunt, aut hos, cum iam nihil reliquum est quod cupiant. Anche se in merito non abbiamo altre testimonianze, tutto lascia credere che dopo il 20 a.C. sia Augusto stesso a gestire direttamente i rapporti con gli esponenti della cultura.30 Sui motivi del declino del ruolo in precedenza tenuto da Mecenate si possono formulare solo ipotesi prive della necessaria verifica: 31 la spiegazione più semplice è che Cfr. Brink 1982, 536. In merito cfr. La Penna 1963, 115, che oltre all’atteggiamento di Orazio mette in rilievo la totale assenza di Mecenate nel IV libro delle elegie di Properzio, e più recentemente Lyne 1995, 136 ss.; 189 ss. 31 Sulle possibili cause del raffreddamento del l’amicizia di Mecenate con Augusto cfr. Brink 1982, 528-529. La notizia di Suet. Aug. 66,3, secondo cui Mecenate secretum de comperta Murenae coniuratione uxori Terentiae prodidisset, 29 30
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Augusto, consolidatisi ormai i suoi poteri, non abbia più ritenuto necessaria una politica di attivo intervento e di vigile organizzazione del settore culturale, anche perché i letterati ormai avevano assunto di buon grado il ruolo di panegiristi del regime. Sia l’esametro virgiliano sia i metri della lirica oraziana erano stati in grado di adattarsi alle tematiche più diverse, incluse quelle dell’ufficialità augustea: invece la tradizione latina del distico elegiaco e le reiterate dichiarazioni di poetica dei primi tre libri non consentivano al cantore di Cinzia di sfruttare in modo organico e sistematico le stesse possibilità. Non c’è alcun dubbio che, negli anni che dividono la pubblicazione del III libro da quella del IV, egli abbia avvertito la tensione fra il mondo dai valori sovvertiti della poesia elegiaca d’amore e l’opera restauratrice intrapresa da Augusto. La sua scelta è consistita nel ridefinire la poesia elegiaca aprendole orizzonti nuovi: senza rinnegare il canto d’amore per Cinzia, il suo tentativo è stato quello di legare al glorioso passato delle origini di Roma la celebrazione dell’attività di Augusto nei campi più diversi, dal politico-militare al legislativo, dalla moralizzazione dei costumi alla creazione di un nuovo volto di Roma. In definitiva, la sua appare come un’opera di mediazione fra i contenuti erotici tradizionali della poesia elegiaca e le istanze sempre più pressanti del mondo augusteo. Neppure il poeta d’amore può restare insensibile al fascino della città che cresce: Augusto, con i suoi interventi nei campi più diversi, è intento a riscrivere tutto e, al tempo stesso, «iscrive se stesso in ogni aspetto della vita, pubblica e privata».32 È l’architettura, in particolare, ad avere un ruolo di primario rilievo nel suo progetto di conquista di un generale consenso, grazie alla felice intuizione di legare il programma di rinnovamento edilizio a quello di esaltazione dei valori religiosi: già a ridosso di Azio egli da un lato favorisce la costruzione sul Palatino dell’imponente tempio di Apollo, dall’altro erige il Mausoleo nella parte settentrionale del Campo Marzio e trasforma profondamente il Foro. Cassio Dione (52, 30, 1) attribuisce a Mecenate il merito di aver suggerito a Ottaviano, nel 29 a.C., il necessario abbellimento della e le speculazioni costruite dagli storici su tale base sono state sottoposte a una dura critica da Williams 1990, 258-275, che non crede a un deterioramento dei rapporti di Augusto e Mecenate. 32 Barchiesi 1994, 59.
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città quale punto di primaria importanza ai fini della conquista del consensus. Da allora gli interventi edilizi si susseguirono con un ritmo incalzante e furono tali da incidere sensibilmente sulla fisionomia della città repubblicana.33 Come attesta Svetonio,34 dando prova di accortezza e lungimiranza Augusto si preoccupò di coinvolgere in qualità di committenti i personaggi di maggior rilievo, sicché nel corso degli anni «membri della famiglia imperiale, vecchi alleati politici, seguaci di Antonio poi passati dalla sua parte, famiglie cooperanti della nobiltà tradizionale, membri dei nuovi ceti in ascesa, e, non da ultimo, senato e popolo; tutti furono chiamati a collaborare, in una grande e concertata azione di consenso».35 Properzio sin dal II libro sembrava preannunciare gli esiti dichiaratamente augustei del IV, pur evitando di entrare in aperto conflitto con i contenuti della poesia erotica. Erano quelli gli anni in cui Augusto dava inizio all’opera di restauro e di nuova edificazione dei templi e degli edifici pubblici: testimone attento e interessato dei mutamenti della città, il cantore di Cinzia era ricorso, come si è visto, all’ingegnoso espediente del ritardo ad un appuntamento d’amore a causa dell’inaugurazione del portico di Apollo, annesso al tempio del dio sul Palatino, per darne una descrizione dal forte impatto ideologico.36 Edificato su un terreno di proprietà di Ottaviano che era stato colpito dal fulmine,37 il tempio era stato votato nel 36 a.C. dopo la vittoria su Sesto Pompeo a Nauloco 38 e dedicato nel 28 a.C.: 39 poiché la casa di 33 Un ottimo sguardo d’insieme, oltreché in Zanker 2013, 51-56, in Sommella – Migliorati 1991, 291-297 e soprattutto in Favro 1996, in particolare nelle pp. 79-142. 34 Suet. Aug. 29, 4-5 sed et ceteros principes viros saepe hortatus est ut pro facultate quisque monimentis vel novis vel refectis et excultis urbem adornarent. Multaque a multis tunc extructa sunt, sicut a Marcio Philippo aedes Herculis Musarum, a L. Cornificio aedes Dianae, ab Asinio Pollione atrium Libertatis, a Munatio Planco aedes Saturni, a Cornelio Balbo theatrum, a Statilio Tauro amphitheatrum, a M. vero Agrippa complura et egregia. 35 Così Hölscher 2009, 151; sulla partecipazione delle gentes cfr. anche Sommella – Migliorati 1991, 291-295. 36 Sul tempio di Apollo come sintesi di un progetto politico-culturale cfr. Zanker 1989, 97. 37 Cfr. Suet. Aug. 29, 3; Cass.Dio 49, 15, 5. 38 Vell. 2, 81, 3; Cass.Dio 49, 15, 5. 39 Cass.Dio 53, 1, 3; CIL I² 214. 245. 249.
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Augusto sul Palatino era collegata alla terrazza del tempio da una rampa di accesso, dimora del principe e luogo di culto del dio suo protettore costituivano un complesso unitario di grande significato ideologico.40 Il fatto stesso di aver inserito in una raccolta di poesia d’amore un carme simile costituisce di per sé una significativa testimonianza di adesione del poeta elegiaco al programma edilizio del magnus Caesar (v. 2). Di contro in Tibullo solo in pochi distici dell’elegia a Messalino (2, 5, 23-38) il Palatino, il Campidoglio, il Velabro fanno da sfondo a una scena d’amore bucolico e un tenue riferimento alla città augustea si può cogliere tutt’al più nella profezia della Sibilla nei vv. 55-56 (carpite nunc, tauri, de septem montibus herbas / dum licet: hic magnae iam locus urbis erit). Neppure in Orazio, sia pur nella convinta adesione al programma di Augusto, i suoi interventi sul tessuto urbanistico occupano uno spazio di rilievo: sicché si può dire che proprio l’elegiaco Properzio sia stato il più convinto cantore del progressivo mutamento della fisionomia della città dei tempi suoi. Q uando, fra il 20 e il 15 a.C., compone il IV libro, per lui si tratta solo di saper scegliere, nella presentazione di una raccolta a metà strada fra poesia delle origini e poesia d’amore, quale aspetto celebrare dell’attività del principe: non a caso egli decide di privilegiare il restauro di edifici sacri e la costruzione di templi e di teatri. Illuminante è l’esplicita dichiarazione di poetica che sovrintende a tale scelta: il poeta, infatti, si considera in procinto d’intraprendere un’impresa che non ha nulla da invidiare a quella di un fondatore o rifondatore di città: quando, infatti, nel v. 57 della 4,1 egli mette in chiaro l’aspirazione a moenia disponere versu, egli fa di sé un singolare fondatore. Sullo stesso piano dell’attività edilizia promossa da Augusto, grazie alla quale Roma sta mutando la sua fisionomia, si colloca quella del poeta, che modifica il suo modo di far poesia adattandolo alle istanze dei tempi nuovi; e come Augusto con la sua opera di restauro e di nuova costruzione di templi e di edifici pubblici sta rifondando Roma, così Properzio si accinge a riscrivere Roma con la sua poesia delle origini dei sacra, degli dei e dei cognomina locorum. 40 Cfr. Zanker 1989, 57; 2014, 221-244 e, per il forte effetto scenografico, Sauron 2014, 85.
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Ma come Roma cresce nel rispetto della continuità col passato, così il poeta apre nuove vie alla poesia elegiaca senza escludere quelle già percorse nel passato. È importante, però, capire che quando, in apertura della prima elegia, il poeta offre allo sguardo dell’hospes la visione degli aurea templa che si ergono nella loro maestosa imponenza, egli non si propone soltanto di esaltarne lo splendore e l’architettonica perfezione, ma vuole mettere in risalto la pietas del principe nei confronti degli dèi e la fusione della nuova Roma augustea col momento religioso. Ma c’è di più: l’insieme dei carmi che, in misura più o meno accentuata, privilegiano le tematiche eziologiche dà l’impressione di organizzarsi in modo da riprodurre l’aspetto della città: molto acutamente, ricollegandosi a una felice intuizione della Fantham,41 Mario Labate ha notato che «la struttura del IV libro properziano sembra prevedere che il poeta antiquario visiti con le sue illustrazioni e le sue ricostruzioni eziologiche i luoghi di quella stessa area del centro di Roma che lo sguardo proemiale aveva panoramicamente abbracciato»: 42 nel Foro, infatti, sbocca il vicus Tuscus, dov’è collocata la statua di Vertumno, che di lì può scorgerlo (4,2,6); fra il Campidoglio e il Foro si consuma il dramma di Tarpea (4,4); al tempio di Apollo sul Palatino rinvia l’elegia che celebra la vittoria aziaca (4,6); quella di Ercole (4,9) spazia dal Palatino all’Aventino, dal Velabro al Foro Boario; nel Campidoglio si colloca il tempio di Giove Feretrio (4,10). È ben noto che la politica di Augusto sulla città, pur abbandonando la grandiosità dei progetti di Cesare, non volle rappresentare un momento di rottura nei confronti del suo programma.43 Alla scelta augustea della continuità piuttosto che della rottura fa riscontro un analogo atteggiamento del poe ta architetto. Nel discorso di Properzio all’hospes nella prima parte dell’elegia Cfr. Fantham 1997, 122-135; 2009, 65. Labate 2010, 158 n. 1. 43 Sul progetto di Cesare, sulle resistenze del senato repubblicano e sul declino dei templi e dei luoghi di culto cfr. Zanker 1989, 24-29, Sommella – Migliorati 1991, 287-291; sulle fasi di passaggio dalla Roma cesariana a quella augustea cfr. ora La Rocca 2014, 93-95. Dell’edilizia templare Augusto stesso nelle Res gestae tenderà a mettere in luce gli interventi di risanamento e di restauro che avevano caratterizzato gli inizi, sostanzialmente conservativi, della sua attività (20, 4 duo et octoginta templa deum in urbe consul sextum ex auctoritate senatus re fe ci, nullo praetermisso quod eo tempore refici debebat). 41 42
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incipitaria, a prima vista si ha l’impressione che sia privilegiato il motivo del contrasto e che, per di più, esso si manifesti nei campi più diversi: il più evidente, quello fra presente e passato, prende le mosse dall’invito all’hospes perché s’immagini un solitario paesaggio di colli e di campi erbosi, là dove ora si erge imponente la Roma di Augusto, e un luogo di pascolo per le sfinite giovenche di Evandro là dove ora splendido s’innalza il tempio di Apollo sul Palatino (vv. 1-4). Tuttavia, come non c’è condanna del lusso e degli splendori della Roma di Augusto, così non c’è neppure rifiuto del passato, non solo perché esso s’identifica con le origini della città, ma anche perché tutto è considerato alla luce di una ininterrotta continuità fra la Roma di un tempo e quella di Augusto. La scelta stessa della poesia eziologica si carica di un marcato significato ideologico, proprio perché essa consente a Properzio di collegare le origini lontane col presente augusteo e di mettere in chiaro che dal confronto dell’arcaica semplicità col moderno splendore emerge in tutta la sua evidenza una linea di continuità. Il senso della continuità – che anche nel programma politico Augusto aveva preferito alla rottura nei confronti del passato, con la sua concezione dell’impero inteso come una prosecuzione della repubblica – nell’elegia incipitaria si riflette nella raffigurazione del principe che innova nel solco della tradizione. Anche per questo motivo il confronto tra passato e presente viene sempre inteso come un fenomeno di crescita, ed è questo il principio che governa il IV libro delle elegie di Properzio. Cornelia, protagonista dell’ultima elegia, col suo discorso di fronte al tribunale degli Inferi costituisce una realizzazione perfetta di una tale concezione della storia di Roma: da un lato è orgogliosamente legata al suo passato familiare, che s’identifica con la gloria degli Scipioni e con i momenti più significativi della storia di Roma; dall’altro, però, nelle parole rivolte ai figli mostra di concepire il rapporto col passato come un fenomeno di crescita, che può solo preludere a un futuro migliore per la stessa Roma. Ma il senso della continuità riguarda anche il nuovo modo di far poesia: nei vv. 59-60 di 4,1 Properzio proclama di voler porre il proprio impegno poetico interamente al servizio di Roma: Di fronte a un simile programma il lettore può essere indotto a pensare che egli intenda scrivere poesia epica o, in ogni caso, una 154
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poesia che abbandonerà lo stile tenue per adottare quello magniloquente, che meglio si adatta a un tale contenuto. Properzio, allora, contrapponendo nei vv. 61-62 lo stile della poesia di Ennio a quello legato all’ispirazione dionisiaca chiarisce che da questo punto di vista nulla è cambiato nei confronti dei tre libri precedenti e che la sua celebrazione di Roma avverrà nel rispetto del genere e dello stile finora adottati. Nel segno della continuità s’iscrive anche, accanto all’esal tazione della Roma augustea, il recupero dell’Umbria e delle proprie origini. Nei vv. 61-62 il nome di Ennio, che si staglia in incipit d’esametro, rappresenta la poesia epica, mentre in evidente contrapposizione all’inizio del pentametro si colloca mi, che indica Properzio e la sua poesia elegiaca. Dopo essersi collocato idealmente allo stesso livello di Ennio – o almeno a un livello tale da consentire un confronto tra i generi rappresentati – Properzio passa nel v. 63 dall’ego al nos (nostris …libris), e il plurale ‘maiestatis’ contribuisce a conferire solennità al contesto, insieme all’immagine dell’Umbria personificata, che nel l’auspicio-previsione del poe ta non solo deve insuperbirsi (superbiat), ma addirittura deve gonfiarsi d’orgoglio (tumefacta) per la produzione poetica del suo figlio illustre. Grazie all’epa nadiplosi di Vmbria, nel pentametro l’autoelogio raggiunge il culmine nell’orgogliosa proclamazione del poeta umbro di essere il romano Callimaco: è significativo che nell’esaltazione della propria patria il poeta attribuisca a se stesso, nuovo Callimaco, l’epiteto di Romanus e collochi addirittura il sostantivo patria all’interno della pomposa autocelebrazione; in tal modo egli mostra che lo spirito campanilistico di un tempo è ormai superato e che fra la patria delle origini e la Roma del presente si è ormai compiuta una perfetta fusione. Dall’Umbria personificata lo sguardo di Properzio si allarga, poi, a tutti coloro che passeranno sotto le mura della sua città e, guardandole, rivolgeranno un memore pensiero al poeta, che grazie alla sua ispirazione le ha rese famose. Non c’è contraddizione fra la definizione di Roma quale patria di Properzio e l’elogio dell’Umbria in quanto terra natale: è chiaro che il poeta ora si sente romano e, di conseguenza, è la Roma augustea l’oggetto del suo canto: tutto questo, però, non può annullare il ricordo della terra d’origine, un ricordo che è ben diverso dalle prese di posizione della chiusa del I libro. 155
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Là il ricordo della guerra di Perugia lo aveva indotto a tratteggiare una contrapposizione con la Romana discordia; ora l’acquisita certezza di essere celebrato quale cantore di Roma è legata alla gloria raggiunta, che però ridonderà a tutto vantaggio della terra natia. La solennità del contesto raggiunge il suo punto più alto nei vv. 67-68, nell’apostrofe a Roma e nell’invito a essa rivolto perché favorisca l’opera grande che sta nascendo in suo onore. Nel v. 67 la grandiosità dell’apostrofe è resa ancor più intensa dalla specularità dei vocativi, che alla città unisce strettamente i suoi abitanti (Roma …cives). In una tale rappresentazione, l’opus che sorge per Roma (tibi) vuole rievocare l’immagine delle mura di una città che crescono progressivamente e, in particolare, della crescita della Roma augustea nei confronti di quella delle origini, celebrata nella parte iniziale dell’elegia. Sopiti ormai, per la conciliazione da tempo raggiunta, i rimpianti per l’infelice sorte della terra etrusca, giunto al termine del percorso che lo ha condotto dalla denuncia della Romana discordia, quale causa prima dei Perusina sepulcra, all’esaltazione degli aurea templa eretti dal conquistatore di Perugia, Properzio può guardare con uno spirito diverso alla terra natia e alle sue origini. A Horos è affidato, nella seconda parte dell’elegia incipitaria, il compito di tracciare la biografia del poeta umbro. Fin dal v. 121 traspare, dalle parole che Properzio gli assegna, l’orgoglio del poeta per i suoi luoghi d’origine: è la collocazione stessa del pronome personale accanto ad Vmbria a legare fortemente il poeta alla sua terra; l’epiteto che di essa definisce l’antichità costituisce un chiaro rinvio alle glorie della civiltà etrusca, a cui si aggiunge il vanto di appartenere a una gens importante. Non si può escludere che nel citare nel v. 122 la parola patria, Horos intenda operare un sottile ‘distinguo’ nei confronti della posizione in precedenza assunta da Properzio: per il poeta, infatti, che si era rappresentato quale futuro cantore di sacra deosque et cognomina prisca locorum di Roma, la patria dei vv. 59-60, al cui servizio egli poneva la propria ispirazione poetica, era Roma. Subito dopo, però, nel l’immaginare una fama imperitura per la sua poesia, all’Umbria in quanto terra d’origine egli aveva restituito il legittimo titolo di patria, ma aveva adottato una soluzione di compromesso proclamandosi Callimaco romano (vv. 63-64 ut nostris tumefacta superbiat Vmbria libris, / Vmbria Romani patria Callimachi). 156
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Per Horos, invece, che consapevole della volontà degli astri non approva le nuove scelte poetiche di Properzio, l’Umbria resta la patria del poeta, nel cui futuro egli non intravvede la possibilità che divenga il Romanus Callimachus grazie alla pratica della poesia eziologica. Il filo logico del discorso – che era rimasto in sospeso sin dal v. 121, dopoché la domanda di Horos a Properzio sulla sua patria aveva trovato un’espansione nella descrizione dell’Umbria – viene riannodato nei vv. 127-130 grazie a un brusco passaggio alle disavventure che hanno colpito il poeta in ancor tenera età: la morte del padre, prima, la confisca dei beni, poi. Nei vv. 129130 si avverte un forte contrasto fra l’esametro, che caratterizza l’antica opulenza della famiglia del poeta col ricorso a un’immagine di laboriosità campestre, e il pentametro, che tale immagine subitaneamente distrugge: il passaggio dal l’impf. congiuntivo versarent al pf. indicativo abstulit, unito all’idea della rapina violenta che è insita in auferre, fa pensare a una consolidata situazione di floridezza economica che improvvisamente viene sconvolta. Colpevole dell’improvviso gesto di rapina è considerata direttamente la pertica del misuratore di terreni, utilizzata per delimitare le terre dell’Umbria da confiscare e da assegnare ai veterani di Ottaviano nel 40 a.C., dopo la conclusione infausta del bellum Perusinum. Se questo è il ‘Wendepunkt’ della vita di Properzio, nella sua poesia lo è Azio, che resta tale, per la pace riconquistata dopo le contese civili, anche nel IV libro, dove non a caso l’elegia che celebra i tre lustri dalla vittoria è collocata al centro. In un carme che vuole essere un omaggio ad Augusto, il ruolo attribuito ad Apollo assume un significato importante, perché il dio vi compare sia con l’aspetto d’infallibile arciere sia con quello di pacifico citaredo. Augusto non viene esaltato solo per aver guidato la flotta vittoriosa, ma anche per le mire espansionistiche che a lui vengono attribuite; l’elogio a lui tributato, però, non riguarda solo le sue doti di condottiero, ma coinvolge la sacralità della sua figura, proprio grazie allo stretto legame istituito con Apollo, suo nume tutelare. Anche in questo caso Virgilio costituisce il punto di riferimento, con la sua rappresentazione della battaglia di Azio sullo scudo di Enea (Aen. 8,671-728), che Properzio mostra di 157
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tenere ben presente.44 All’emulazione del grande modello, però, egli ha preferito un modo nuovo di presentare l’avvenimento: all’ampiezza della descrizione virgiliana si contrappone la scarna essenzialità di quella properziana (un solo distico!) e alla scelta virgiliana della narrazione la preferenza accordata da Properzio al discorso diretto. Più sfumata, poi, in Properzio è la presentazione di Azio come uno scontro fra Occidente e Oriente, che aveva ottenuto un rilievo maggiore in 3,11, e sostanzialmente assente è la rappresentazione del trionfo (sostituito da un trionfo mancato: quello di Cleopatra) e del corale ringraziamento di Roma: in Properzio l’evento pubblico diviene una privata celebrazione simposiaca.45 Azio, in definitiva, è presente nel IV libro e vi occupa addirittura il posto centrale, preceduta e seguita com’è da 5 elegie: ma al tempo stesso l’eco della battaglia navale è ormai lontana, tanto che Apollo arciere depone volentieri l’arco e le frecce per divenire ispiratore di poesia. Però l’elegia del IV libro costituisce un inno ad Apollo e una glorificazione di Augusto, la cui vittoria è presentata come il trionfo della libertà sulla monarchia di tipo orientale.46 Evidente è la distanza dall’atteggiamento del poeta nel II e del III libro: in 2,15 il mare d’Azio non veniva esaltato quale simbolo della gloria di Augusto, ma era evocato in funzione dei lutti prodotti dalle guerre civili (vv. 41-48). Al tempo del II libro la polemica s’inseriva nella topica contrapposizione dei fautori della guerra al poeta elegiaco che, invece, preferiva l’amore; ma basta che trascorrano pochi anni perché si avvertano significativi mutamenti nel modo di presentare lo stesso evento. Nell’XI elegia del III libro, infatti, Properzio sembra aderire in pieno all’interpretazione che nella vittoria di Ottaviano ad Azio vede la vittoria dell’Occidente sull’Oriente; tuttavia, mentre per Virgilio, come poi per Augusto nelle sue Res gestae, l’Occidente s’identifica con l’Italia, in Properzio di ciò non resta più traccia. 44 Cfr. e.g. v. 23 hinc Augusta ed Aen. 8,678 hinc Augustus, v. 29 puppim … flamma ed Aen. 8,680 puppi …flammas. 45 Le analogie e le differenze fra le due esposizioni sono studiate da Pillinger 1969, 195, Sweet 1972, 171, Syndikus 2010, 333-334; la trattazione migliore è quella di Miller 2004, 73-84. 46 Cfr. il v. 58 sceptra per Ionias fracta vehuntur aquas e, di contro, i libera signa (v. 62) della flotta di Ottaviano.
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Non sono trascorsi neppure dieci anni da Azio e già del ruolo del l’Italia e degli Italici nella costituzione di un blocco unitario non si parla più, ma tutto è considerato alla luce della gloria di Roma. Nel Properzio del IV libro, poi, l’adesione al trionfalismo augusteo potrà pure dispiacerci, ma nulla ci obbliga a negare sincerità tanto all’antica quanto alla più recente presa di posizione. Sulla base del gusto personale si può apprezzare il carme aziaco del IV libro o, al contrario, lo si può ritenere un pessimo prodotto: nel secondo caso, però, è un’evidente forzatura sostenere che Properzio l’abbia scritto senza alcun impegno perché costretto ad esprimere un elogio che non condivideva, o che egli abbia voluto far trasparire dal tono eccessivamente enfatico il suo atteggiamento critico nei confronti di Augusto.47 5. Nei giorni nostri si ha la netta impressione che si voglia a tutti i costi riscattare il poeta dall’accusa di essersi allineato col ‘regime’ augusteo. Abituati come siamo alla determinata ed efficiente ferocia dei moderni regimi dittatoriali e al servilismo nei confronti dei potenti, un simile tentativo può apparire nobile: c’è da chiedersi, però, se il poeta augusteo meriti realmente l’etichetta di poeta cortigiano. L’errore dei moderni consiste nel porsi di fronte agli avvenimenti di 2000 anni fa senza valutare la distanza, non solo temporale, che dagli antichi e dal loro mondo ci separa e che non ci consente di fissare disinvolte analogie.48 In merito a Properzio e agli elegiaci, si corre il rischio di prendere troppo sul serio il convenzionale e programmatico rifiuto elegiaco degli impegni politici e militari a tutto vantaggio di uno stile di vita caratterizzato da disvalori: il poeta d’amore deve recitare sino in fondo il suo ruolo, ma è ben consapevole che i suoi dotti e aristocratici lettori sapranno ben cogliere il senso reale di quel mondo dai valori sovvertiti o addirittura invertiti che egli propone come un modello di vita. Nel caso di Properzio, per giustificare il suo mutato atteggiamento nel IV libro si è tirato in ballo un deciso e determinante 47 Così, oltre a Galinsky 1969, 87, Connor 1978, 2-3. 9; da ultimo anche Heyworth 1994, 67 sembra accordare credito all’ipotesi di una lettura in chiave ironica. 48 Contro un tale atteggiamento della critica le pagine migliori sono state scritte da Günther (2011, 623-653; 2012, 36-38. 43-45).
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intervento del principe in persona, una volta venuto meno, fra il 20 e il 19 a.C., il ruolo di Mecenate. Sicché, mentre si allontana l’immagine di un Mecenate che non si limita a sostenere e a foraggiare i più validi fra i poeti, ma addirittura decide e impone le tematiche delle loro opere, c’è ancora chi considera Properzio un poeta cortigiano ‘malgré lui’ e pensa di dover giustificare le sue scelte immaginando che egli le abbia fatte perché costretto dalle pressioni di Augusto.49 È comprensibile che tanto il principe quanto Mecenate abbiano gradito dai poeti a loro vicini un impegno diretto nella poesia encomiastica, in particolare nell’epos celebrativo: è tutto da dimostrare, però, che nel tentativo di raggiungere un tale risultato essi abbiano calpestato l’autonomia artistica e condizionato le scelte individuali.50 Mario Labate e Gianpiero Rosati, nell’ampia prefazione al recente volume miscellaneo da loro curato su La costruzione del mito augusteo (Heidelberg 2013), hanno ben delineato le variegate posizioni della critica contemporanea in merito alle origini del mito augusteo e alla diffusione dell’ideologia augustea, in cui «la battaglia di Azio si impone come evento fondativo»; 51 per parte mia non ho alcuna esitazione nello schierarmi dalla parte di quanti ritengono che nel corso degli anni i poeti augustei, Properzio incluso, abbiano dato un valido contributo p e r s o n a l e alla creazione del l’ideologia augustea: di essa, a parer mio, i poeti augustei non sono stati i passivi ricettori, ma al contrario g l i a t t i v i c o s t r u t t o r i . Properzio, più di un decennio dopo il bellum Perusinum, potrà pure deplorare i Perusina patriae sepulcra e, al termine della sua produzione poetica, potrà pure rimpiangere la perdita dei possedimenti 49 L’ipotesi, già prospettata da Postgate nel suo commento alla VI elegia, è stata ripresa da Galinsky 1969, 86-87 e costituisce il nucleo centrale (nei capitoli XI e XII) del volume di Stahl 1985. In seguito l’ha sostenuta, oltre a D’Anna 1986, 69 e a Zecchini 2005, 106, persino Hutchinson 2006, 2-7. In merito alla posizione di Stahl e di quanti la pensano come lui mi sembrano fondate le critiche di Butrica 1996, 99 e n. 31: in particolare, concordo pienamente con lui quando osserva che «it would seem the purest self-destructive folly for Propertius always to be advertising his opposition in this way if the political climate was as oppressive as Stahl assumes». 50 Definitive, su questa materia, mi sembrano le riflessioni sviluppate da Günther 2013, 260-263. 51 Labate – Rosati 2013, 11.
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paterni: ma già all’epoca del I libro si trattava di avvenimenti ormai superati dalla politica di riconciliazione prontamente perseguita da Ottaviano con l’aristocrazia romana, da un lato, e con la nobiltà municipale italica dall’altro. In quanto a Perugia, le vicende di famiglie importanti, come gli Atilii Glabriones, e le vicende stesse della famiglia di Tullo, col consolato dello zio nel 33 a.C. insieme ad Ottaviano, sono una testimonianza «della continuità – prima e dopo la guerra – dell’aristocrazia cittadina e della sua capacità di ricostruire legami forti con Roma».52 Credo che dell’avvenuta riconciliazione, dopo gli eccidi del bellum Perusinum, si possa scorgere traccia anche nella XXII e ultima elegia del I libro. Alle domande di Tullo sulla sua origine, sulla sua famiglia, sulla sua terra Properzio risponde in modo vago e preferisce spostarsi sul versante del bellum Perusinum, sicché la sua scelta finisce per associare ancor più intimamente, anche nella struttura epigrammatica, l’ultimo carme a quello che lo precede. Q uesto insolito trovarsi di fronte a una chiusa spiccatamente epigrammatica in un libro di elegie d’amore parve sospetto a Niklaas Heinsius e lo indusse a giudicare 1,2122 quali «fragmenta operis maioris».53 Vale la pena di ricordarsene negli apparati critici, se non altro perché il suo dubbio è stato recepito e ulteriormente motivato, per 1,22, da Friedrich Leo: 54 troppo vaga e imprecisa egli giudica la risposta di Properzio alla precisa richiesta di Tullo, troppo generica la sua menzione del l’Umbria e dei Perusina sepulcra, e ne deduce uno stato d’incompletezza dell’elegia e del libro. Che la parte finale dell’ultimo carme possa essere caduta è ipotesi tutt’altro che peregrina, se si riflette sulla circolazione isolata del I libro, che solo in un fase successiva è stato unito agli altri. Già Housman, dieci anni prima di Leo, aveva espresso forti dubbi sulla completezza di 1,22 e aveva cercato di porvi rimedio con una serie di trasposizioni interne al carme e di dislocazioni da altri carmi.55 Per parte mia, credo che il carme sia stato concepito così come ci è giunto e ritengo che la spiegazione della sua brevità e la giusti 54 55 52 53
Bonamente 2004, 44. Heinsius 1742, 333. Leo 1898, 469-478 (= AKlS II 169-178). Housman 1888, 3.
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ficazione della sua vaghezza non vadano ricercate alla luce di un genere letterario particolare (l’epigramma ellenistico, per intenderci), ma siano già nella domanda iniziale: purché se ne colga pienamente il senso e si avverta la risonanza della sua nobile ed epica origine. Solido, come sempre, è il terreno dell’allusività. Q uando Properzio si fa chiedere da Tullo qualis et unde genus, qui sint …Penates, il suo modello è ben diverso da un epigramma ellenistico: il suo modello è Omero, il cui influsso sulla sua poe sia, nonostante i reiterati proclami di adesione a Callimaco, diverrà dominante sin dal II libro; Omero, beninteso, con le sue mediazioni, in particolare quella di Virgilio. La domanda di Tullo è carica di omerica memoria, ed è proprio la reminiscenza del contesto odissiaco a inserire in un’epica dimensione Properzio, e con lui i ricordi di una patria sconvolta dalla guerra e dai lutti che essa ha prodotto, infierendo anche sulla sua famiglia. Τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν, πόθι τοι πόλις ἠδὲ τοκῆες, «chi sei, di quale stirpe, dove hai città e genitori?»: così recitano due versi del l’Odissea (1,170; 19,105), e formulazioni analoghe si trovano qua e là, ad accompagnare le peregrinazioni di Odisseo e i suoi approdi presso genti che non lo conoscono. Fra i due loci dell’Odissea, quello a cui Properzio rinvia e, dunque, il suo reale modello, è il secondo: nel XIX canto dell’Odissea Penelope rivolge la stessa domanda a Odisseo, che ad Itaca ha fatto ritorno e a lei si è presentato nei laceri panni di un mendico (v. 105 τίς πόθεν εἰς ἀνδρῶν ~ qualis sc. sim in Properzio; πόθι τοι πόλις ἠδὲ τοκῆες ~ unde genus, qui sint …Penates in Properzio). Alla domanda di Penelope, Odisseo non risponde in modo esplicito: non può farlo, d’altronde, perché ancora deve dare sfogo alla sua vendetta e, di conseguenza, divaga ed elude la richiesta; anzi, invita Penelope a non fargli domande sulla sua stirpe e sulla sua patria, perché al ricordarle il suo animo soffrirebbe troppo (vv. 115-118). Q uando, poi, Penelope impaziente rinnova il suo invito (v. 162 ἀλλὰ καὶ ὧς μοι εἰπὲ τεὸν γένος, ὁππόθεν ἐσσί) e lo esorta a dire una buona volta quale sia la sua origine, Odisseo riprende a divagare e si disperde in un ampio racconto delle sue peripezie, mescolando al vero notizie che sono frutto d’invenzione (vv. 165-203). Properzio, dunque, come Odisseo, straniero l’uno in una patria devastata, parimenti straniero l’altro nel suo stesso palazzo, nella sua stessa terra ora occupata dai Proci. 162
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Alla elusiva vaghezza di Odisseo fa riscontro l’incompiutezza della risposta di Properzio; ma l’ombra grande dell’epico eroe, con la giustificabile indeterminatezza della sua risposta, costituisce la più valida garanzia della compiutezza del carme che chiude il I libro delle elegie di Properzio. Grazie a quella domanda priva di un’adeguata risposta che all’Odissea omerica rinvia, credo che Properzio voglia fare di sé un personaggio dall’epica dimensione, ingiustamente perseguitato dal destino avverso. Ma credo anche che il carme finale del I libro – sia pur nella dolorosa rievocazione della terra dei padri devastata dalla guerra e del lutto che ha direttamente colpito la famiglia di Properzio – consenta al lettore di scorgere la raggiunta pacificazione col nemico di un tempo e di giustificare quella definitiva riconciliazione che di lì a poco sarà sancita sin dalla elegia incipitaria del II libro, sotto l’egida di Mecenate. Alla domanda di Penelope sul suo passato, Odisseo travestito da pitocco, prima di prendere a narrare storie di fantasiosa invenzione, aveva risposto con una esaltazione della fama di Penelope stessa, inserita in una divagazione sulle caratteristiche di un buon governo: quasi ad opporre la sconvolgente realtà del presente di Itaca a un ideale mondo di totale armonia, se governato da un saggio e giusto reggitore (vv. 107-114): O donna, nessun mortale sopra la terra infinita può biasimarti; anzi fama di te sale al vasto cielo come d’un re perfetto, che, pio verso i numi, su numeroso popolo e fiero tenendo lo scettro, alla giustizia è fedele: porta la terra nera grano e orzo, piegano gli alberi al peso dei frutti, figliano senza sosta le greggi, il mare offre pesci, per il suo buon governo prospera il popolo sotto di lui.56
Se Odisseo evita di rispondere in nome delle sofferenze che gli provoca il rievocare il passato e il parlare della sua stirpe e della sua patria (vv. 115-118), è proprio questo, in definitiva, che fa anche Properzio quando, a distanza di più di un decennio dalla conclusione del bellum Perusinum, chiude il I libro con un sapiente contrasto fra la patria sconvolta dalla guerra e quello che essa era La traduzione è di Rosa Calzecchi Onesti (Torino 1963).
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in passato, al tempo della sua nascita, quando anziché un grande cimitero (i Perusina sepulcra del v. 3) era una terra ubertosa, dai fertili campi (v. 10). Ma forse il verso conclusivo, così contrastante con le immagini di morte e di distruzione che lo precedono, serve anche a sancire che lutti e devastazioni pesano, sì, ma appartengono ormai al passato, allo stesso modo delle origini del poeta; forse proprio in quella chiusa improvvisa, che spalanca di fronte al lettore la visione della fertile Umbria, si può avvertire il preannuncio di una riconciliazione, dura da ammettere da parte dei vinti, ma che ormai era tempo di accettare. In ciò ci soccorre la mediazione virgiliana. È molto probabile che l’VIII libro del poema epico virgiliano – che risale di certo all’epoca più antica della sua redazione – grazie alle recitationes sia stato già noto a Properzio quando metteva fine al suo I libro di elegie: in ogni caso, ciò che conta è l’atmosfera diversa che allora si doveva respirare a Roma. Nell’VIII dell’Eneide l’epico protagonista, in cerca di una terra in cui ricostruire la sua sconvolta identità, risalendo il corso del Tevere giunge alla città di Evandro. Nello scorgere all’improvviso le celsae rates che silenziosamente si appressano scivolando lungo le acque del fiume, Pallante balza in piedi e, afferrata una lancia, dalla sommità di un colle grida a quegli sconosciuti la stessa domanda di Penelope: qui genus? unde domo?, e aggiunge: pacemne huc fertis an arma? (Aen. 8,114). Anche la risposta di Enea sarà elusiva, come quella di Odisseo, e come quella di Properzio a Tullo: Enea non dirà il proprio nome, ma definendo Troiugenae sé e i suoi rinvierà alla comune terra d’origine. In tal modo egli ricorderà, sì, la patria distrutta, allo stesso modo di Properzio, e denuncerà un presente di guerra con le genti del Lazio (8,117-118): ma lo farà tendendo un ramo d’olivo, in segno di pace.
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PROPERZIO, DA ASSISI A ROMA, E RITORNO
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P. FEDELI
Abstracts È ampiamente diffusa la tendenza a considerare Properzio come un poeta cortigiano suo malgrado e a giustificare le sue scelte con le pressioni del princeps: anche Properzio, tuttavia, così come gli altri poeti vicini a Mecenate, non è stato un passivo ricettore, ma un attivo costruttore dell’ideologia augustea. Si ricostruiscono qui le tappe, sin dal I libro delle elegie, della sua tutt’altro che difficile integrazione. There is a widespread tendency to consider Propertius a reluctant court poet and to justify his choices as a result of the pressure applied by the princeps. However, just like the other poets close to Maecenas, Propertius was not a passive receiver but an active initiator of the Augustan ideology. In the present article the phrases are pieced together, starting from the first book of the Elegies, of his less than difficult integration.
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LUCIANO LANDOLFI
PER EXEMPLA: AMORE ELEGIACO, MATRIMONIO ED ETICA DELLA FAMIGLIA IN PROPERZIO Una contentum pudeat me vivere amica? Prop. 2, 30, 23 Ultima talis erit, quae mea prima fides Prop. 2, 20, 34
Proviamo per un attimo a sottoporre un famoso pentametro properziano (1, 12, 30) all’attenzione di un ostinato fautore del biografismo in letteratura: Cynthia 1 prima fuit, Cynthia finis erit.
Forse si chiederebbe se gli estremi di un’intera esistenza possano concretamente riassumersi in un idionimo,2 convincendosi ancor più della pertinenza delle proprie considerazioni dopo la lettura di 2, 20, 17-18, distico in cui la solenne formula del giuramento sulle ossa dei genitori sigla la professione di una fedeltà destinata a durare tutta la vita: 1 Solo in un altro caso troveremo il nome Cynthia utilizzato in anafora intrastichica, ossia in 2, 5, 28, un verso dal segnato andamento contrappuntistico (‘Cynthia, forma potens: Cynthia, verba levis’), dal momento che di norma Properzio disloca il nome dell’amata una volta sola all’interno di un singolo verso, caso per caso inserendolo in sedi iconiche (l’incipitaria, la quarta e la quinta sede di un esametro; l’apertura di un pentametro o l’attacco del secondo emistichio di questo stesso). Di séguito il novero delle sedi metriche occupate dal l’idionimo Cynthia nei quattro libri properziani. In sede incipitaria di esametro: 1, 1, 1; 3, 8; 4, 8; 6, 16; 10, 19; 12, 6; 2, 16, 11; 32, 8; 33a, 1; 34, 93; 4, 7, 3; 8, 63. In quarta sede: 1, 5, 31; 11, 23. In quinta sede: 1, 4, 19 e 25; 11, 1; 17, 5; 18, 5 e 31; 19, 1, 15 e 21; 2, 5, 1; 7, 1 e 19; 13, 7 e 57; 16, 1; 19, 1 e 7; 24a, 5; 30b, 25; 32, 3; 3, 21, 9; 4, 7, 85; 8, 15 e 51. Ad attacco di pentametro: 1, 15, 26. Ad apertura di secondo emistichio di pentametro: 1, 3, 22; 8a, 8; 8b, 30 e 42; 11, 8; 11, 26; 12, 2; 15, 2; 18, 6 e 22; 2, 5, 4 e 30; 6, 40; 24a, 2; 29b, 24; 3, 24, 26. 2 Si deve comunque a Keith 2014, 337, l’aver dimostrato come Cynthia non sia solo un epiteto cultuale, tramutato da Properzio in idionimo, bensì un nome proprio femminile dotato di precisi riscontri epigrafici (CIL 6.33672: [- - -]uttidia Cynthia).
10.1484/M.SPL-EB.5.115917
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L. LANDOLFI
Me tibi ad extremas mansurum, vita, tenebras: ambos una fides auferet, una dies.
Dopo le lucide puntualizzazioni della Wyke, al cui dire Cinzia equivarebbe all’idionimo di una donna che «as part of a poetic language of love,… should not be related to the love life of her poet but to the ‘grammar’ of his poetry»,3 supportate dai rilievi di Fedeli circa le trappole ermeneutiche che il biografismo ha teso a studiosi di alto profilo quali Lyne 4 e Griffin,5 lo spettro del diretto travaso nella silloge properziana di reali esperienze di coppia o di proclami dettati da un’irruenza incontrollata dovrebbe essere stato esorcizzato una volta per tutte. Un mirato sistema di isotopie lega i gesti e i comportamenti di Cinzia a quelli di Lesbia prima e a quelli delle altre dominae elegiache poi (Delia, Nemesi, Neera e Corinna).6 Q ua de re non ambigitur… In atto, la lente con cui accostarsi alla poesia di Properzio non può non tener conto della tematizzazione di atteggiamenti, situazioni, riti e abitudini del couple élégiaque già normativizzati e protocollati prima dalla poesia ellenistica, poi dalla lirica catulliana. Credere alla lettera che Cinzia sia stata dotata della capacità sia di distruggere nel poeta qualunque altra passione (3, 15, 9-10),7 sia di creargli uno stato di completa dipendenza psicologica (1, 11, 25-26),8 suonerebbe fuorviante al solo considerare le convenzioni previste per la costruzione del personaggio della puella, dietro il quale si celerà pure una donna realmente esistita, ma i cui contorni fisici e la cui condotta vengono rimodulati nel rispetto di anteriori formulazioni letterarie. In realtà, insistendo sull’asimmetria del rapporto stretto con l’amata, in grado di condizionare l’internal writer,9 Properzio Così, impeccabilmente, Wyke 2001, 31. Il riferimento va a Lyne 1980. 5 Alludo alla monografia di Griffin 1985. 6 Sul tema vd. Fedeli 2008, 7-23. 7 Cuncta tuus sepelivit amor, nec femina post te / ulla dedit collo dulcia vincla meo. 8 Seu tristis veniam seu contra laetus amicis, / quidquid ero, dicam ‘Cynthia causa fuit’. 9 In materia Stahl 1985, 11 commenta: «The movement of thought from tristitia to laetitia has led the lover to realize his total dependance upon another uman being’s behavior». 3 4
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PER EXEMPLA: AMORE ELEGIACO, MATRIMONIO ED ETICA DELLA FAMIGLIA
si adegua al tropo dell’endemica precarietà della relazione amorosa, ben radicato nel genere elegiaco, precarietà dinanzi alla quale reagisce tramite un meccanismo di mediazione pareneticodidattica: con il porgere a Cinzia modelli di comportamento tratti da un repertorio mitico popolato da eroine innamorate o da spose oltremodo fedeli, il poeta dispiega una tattica psicagogica che possa indurla via via ad una dedizione completa, ad una pudicizia d’antan, prova di una raggiunta quanto rassicurante corresponsione di affetti. Nondimeno, la morfologia di costruzione (e di ricostruzione) del foedus elegiaco rimane sfibrantemente autoreferenziale. Infatti, l’inefficacia della strategia di riequilibrio interno della coppia si rivela con il procedere della relazione stessa, con i picchi e le cadute delle illusioni circa la stabilità del legame, con le mosse reciproche dei protagonisti impegnati in una partita a due dominata dall’iterazione e dalla sclerosi di gesti e comportamenti, sino allo svuotamento del legame stesso. E la voce autoriale, detentrice pressoché unica delle singole fasi della storia d’amore, dei suoi riti e dei suoi codici, porge al lettore antico, come a quello moderno una versione unilaterale, deformata e deformante delle infedeltà, degli abbandoni e dei ritorni di Cinzia.10 L’urgenza di ampliare lo spettro d’interesse a personaggi femminili di natura parzialmente o diametralmente diversa compensa e riaccende l’energia compositiva di Properzio soprattutto nello snodo costituito dal passaggio dal terzo al quarto libro della silloge, dove le protagoniste stesse di singole, significative elegie (Elia Galla nella 3, 12, Aretusa nella 4, 3 e Cornelia nella 4, 11) rappresentano altrettante icone dell’amore coniugale o del matrimonio impegnato nella genitura, senza dover costituire modelli di riferimento per la domina, non più dedicataria dei moniti protrettici del poeta-amante. Dal paradigma mitico ad uso ‘didattico’ 11 all’iconicità esemplare di talune eroine, voci interne e protagonistiche dei testi d’appartenenza: questo l’itinerario interpretativo che intendo percorrere oggi, partendo dal
10 Sul tema non si può prescindere dalle incisive osservazioni di Rosati 1992, 71-94. 11 Su exemplum ed esemplarità nelle elegie di Properzio fa testo la monografia di Gazich 1995.
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L. LANDOLFI
l’analisi della dialettica esistente fra amore elegiaco e matrimonio all’interno della relazione con Cinzia, continuando con lo studio di due elegiac wives (Elia Galla e Aretusa), per approdare poi alla disamina della figura dell’anelegiaca Cornelia, la matrona la cui esistenza consisterebbe, a parere della Lowrie, in «a list of Roman female virtues and social desiderata».12
1. Amore elegiaco e matrimonio: prassi e didassi all’ombra di nobili exempla È acquisizione consolidata quella per cui la paradossalità del l’amore elegiaco si tradurrebbe in una transcodificazione assiologica tesa a rinvenire al l’interno del legame extraconiugale valori fondanti dell’unione regolare fra un uomo e una donna,13 attingendo immagini e tropi dalla tradizione poetica epitalamica o comunque da componimenti collegati all’àmbito del matrimonio, nonché alla prole concepita al suo interno. Difficilmente un solo distico potrebbe compendiare la dialettica esistente fra il potere totalizzante della passione e la stabilità rassicurante degli affetti familiari, dialettica composta tramite la proiezione del lessico e di certo repertorio tematico proprio del l’eheliche Liebe sull’aussereheliche Liebe 14 in 1, 11, 23-24,15 là dove l’autore rimodula l’apostrofe diretta da Andromaca ad Ettore presso le porte Scee: 16 Citazione desunta da Lowrie 2008, 172. Si segnala, in merito, la sintesi redatta da Labate 2012, 27. 14 Dal canto suo, Williams 1958, 25 osserva come i poeti elegiaci romani siano pronti a disprezzare i legami matrimoniali e a parlare con toni misoginici di provenienza greca (derivanti soprattutto dalla νέα), quantunque attingano poi al serbatoio dei Roman marriage ideals per esprimere le loro optatives relationships con le amate. Sul tema vd. infra. 15 Affianca al caso di Prop. 1, 11, 23 quello di Ov. her. 3, 52 (tu dominus, tu vir, tu mihi frater eras) Barchiesi 1992, 29, asserendo: «Più o meno mediatamente, queste enumerazioni ‘sostitutive’ risalgono tutte a una scena famosa omerica. È l’amore coniugale di Andromaca per Ettore, reso memorabile dal l’enumerazione “tu sei mio padre, mia madre, mio fratello, tu mio fiorente compagno” (Il. 6, 429-30)». 16 Non a caso Rothstein 19202, I, 73 osservava: «Auch den antiken Leser musste diese Stelle and die Worte der Andromache bei Homer erinnern (Ilias VI 429)». Invariabilmente il passo è riportato tanto da Enk 1946, 105, quanto da Butler – Barber 19662, 171, rappresentando un’acquisizione definitiva della critica properziana. Naturalmente il materiale e la sceneggiatura epici si prestano 12 13
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PER EXEMPLA: AMORE ELEGIACO, MATRIMONIO ED ETICA DELLA FAMIGLIA
Prop. 1, 11, 23-24: Tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes, omnia te nostrae tempora laetitiae. Hom. Il. 6, 429-430: Ἕκτορ, ἀτὰρ σύ μοί ἐσσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ ἠδὲ κασίγνητος, σὺ δέ μοι θαλερὸς παρακοίτης.
All’interno dell’esametro latino, a riscontro di un’unica occorrenza del pronome mihi non è soltanto l’epanafora del nesso divaricato tu… sola a diversificare, incidendola, la contiguità della coppia pronominale σύ μοι presente in ambedue i versi omerici: infatti, paragonata al ventaglio degli affetti domestici di Andromaca, ormai compendiati dalla figura di Ettore, risalta la diade, tutta quiritaria, domus // parentes, incarnata da Cinzia. E quantunque, nella fattispecie, domus detenga la particolare valenza di ‘famiglia’,17 il significante non smette di rinviare il lettore alla sede stessa degli affetti più intimi, la casa, su presumibile esempio catulliano (c. 68, 22 e 94).18 Properzio non rinunzia ad inglobare nell’esametro l’anafora verticale del pronome di seconda persona singolare offertagli dal testo epico, tramutandola in orizzontale con marcata Pathetisierung, per collocare poi in ciascuna sede iconica dell’esametro le parole-chiave della confessione a Cinzia: dattilo d’attacco Tu mihi; a ponte fra arsi e tesi il predicativo sola, prima della cesura semiquinaria posta dopo il lemma domus; attacco del secondo emistichio tu in anafora; ponte fra arsi e tesi dell’explicit, parentes, in armonica rispondenza a domus. Persino Cat. c. 58, 3, nel dichiarare la propria passione per Lesbia (plus quam se atque suos amavit omnes, scil. Lesbiam) non era arrivato a tanto.19 a reimpiego solo se passibili di ricodifica in termini elegiaci, come osservato da Dalzell 1980, 31 e da Benediktson 1985, 17. 17 Come rileva Fedeli 1980, 282. 18 Sul che indugia Whitaker 1983, 61, sottolineando come in questi versi il poeta usasse il lemma domus nel senso figurativo di ‘family, household’ in connessione alla morte del fratello. 19 Potrebbe stupire sulle prime il fatto che in questo verso e nel seguente non ricorra traccia di un verbo di marca ‘affettiva’ come diligo, che da Catullo in poi designa emblematicamente la dimensione sentimentale del rapporto amoroso (come dimostrato da Traina 2015, 68 e n. 20), non già quella passionale o erotica in senso stretto. Si tratterebbe però di uno stupore estemporaneo, valutando come
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L. LANDOLFI
Verifichiamo ora rapidamente la costellazione lessicale pertinente alla sede istituzionale degli affetti domestici, la casa. Allorché il lemma domus faccia la sua comparsa nella raccolta properziana, per lo più risulta riferito alla dimora di Cinzia, basti pensare ai casi di 2, 8, 14; 3, 6, 15; 20, 9. Situazione analoga per le occorrenze del sinonimo aedes.20 Resta nell’ombra il contorno della casa natale del poeta; laddove poi venga descritta l’abitazione di quest’ultimo nel periodo della relazione con Cinzia,21 i toni convenzionalmente diatribici impiegati in 3, 2, 11-14 22 ne disegnano il contorno per antifrasi, in polemica con lo sfarzo edilizio contemporaneo. Anche il quadro degli affetti domestici dell’autore risulta alquanto oscuro: solo di scorcio in 4, 1, 127-130 viene rievocata l’esperienza che lo ha colpito in tenera età, la morte del padre. Il cenno all’ossilegium compiuto in anni ‘indebiti’ (ossaque legisti non illa aetate legenda / patris vv. 127-128), delegato di norma ai parenti più stretti del defunto,23 sottolinea tanto la svolta affettiva quanto il mutamento del tenore di vita subiti dall’orfano, costretto a tenues… Lares (v. 128) dopo le confische dei beni.24 Evanescente, dunque, la figura paterna; ancora più sfuggente il lessico properziano non difetti di verbi dal marcato contrassegno ‘furorale’ (con in testa amare) per descrivere, di volta in volta, il trasporto, la passione, il fuoco divorante nei rispetti di Cinzia, limitando l’impiego di diligo a soli tre casi (in aderenza all’uso corrente nel lessico elegiaco, cfr. ThlL V 1, 11761177 s.v.), due dei quali (2, 24c, 43; 25, 29) connotano da un lato il sentimento nutrito da Teseo per Arianna, dall’altro l’ammissione dell’affetto provato dalla domina per il partner, sentimento che non va palesato in giro per non destare invidia negli altri. 20 In 2, 6, 1; 14, 27. 21 Dislocata sull’Esquilino, come si evince da 3, 23, 24 e, trasversalmente, da 4, 8, 1-2 (cfr. Grüner 1993, 39-55; Keith 2013, 99), non distante dalla dimora di Mecenate ornata da celebri giardini (Prop. 4, 8, 1-2). 22 Q uod non Taenariis domus est mihi fulta columnis, / nec camera auratas inter eburna trabes, / nec mea Phaeacas aequant pomaria silvas, / non operosa rigat Marcius antra liquor su cui vd. Fedeli 1985, 97-100. 23 Esaustivo il commento al passo di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 361 ad loc. 24 Anche la celebre elegia dedicata alla morte del propinquus, la 1, 22, non aggiunge molto al profilo biografico e affettivo del giovane Properzio, il quale alla richiesta Q ualis et unde genus qui sint mihi, Tulle Penates / quaeris (vv. 1-2), replica evocando i Perusina… patriae... nota sepulcra / Italiae duris funera temporibus (vv. 3-4), insistendo poi sulle proprie radici umbre (proxima suppositos contingens Umbria campo / me genuit terris fertilis uberibus vv. 9-10), radici ribadite peraltro in 4, 1, 63-64; 121.
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PER EXEMPLA: AMORE ELEGIACO, MATRIMONIO ED ETICA DELLA FAMIGLIA
quella materna, di cui si appura la scomparsa attraverso le maglie di 2, 20, 15.25 Tornando a 1, 11, 23 (Tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes), a legittimare e ‘ri-significare’ il processo d’identificazione di Cinzia con le figure più rappresentative del retroterra affettivo del poeta interviene in modo incisivo il modello omerico di Il. 6, 429-430 che, nel capovolgimento di ruoli fra personae loquentes e destinatari intratestuali, fa di Properzio la proiezione elegiaca di Andromaca e di Cinzia la proiezione elegiaca di Ettore. Altrove, con un effetto non meno sorprendente, la canonica inconciliabilità fra i correnti prototipi relazionali uomo/donna (relazione amorosa vs matrimonio) parrebbe addirittura comporsi ‘risolvendo’ l’antitesi pregiudiziale 26 fra gli stessi, come pare potersi evincere dal distico di 2, 6, 41-42: Nos uxor numquam, numquam deducet amica: semper amica mihi, semper et uxor eris.
Già l’anadiplosi a contatto dell’avverbio numquam nell’esame tro, doppiata nel verso seguente dall’anadiplosi interposta del l’avverbio semper, trasmette il sapore sentenzioso di questa chiusa. Si tratta di una sentenziosità che non fuoriesce dal circolo chiuso dell’ ‘io’ amoroso compreso fra il nos d’attacco e il mihi precedente la cesura del pentametro, disposti in modo da far risaltare sia la visuale da cui il poeta guarda all’amata, sia il ruolo privilegiato che egli le assegna nella gerarchia degli affetti e nella loro multipla declinazione. Il chiasmo che duplica la diade uxor / amica rovesciandola in amica / uxor, vede comprese in Cinzia le funzioni dell’amante e della moglie in direzione in parte prosecutiva, in parte innovativa rispetto al profilo della Lesbia di Catullo per la quale, negli elegi, il lemma amica registra un’unica ricorrenza in accezione amorosa (c. 72, 3), non coordinata però al sostantivo uxor, mai adoperato in relazione all’oggetto della pas Basti rinviare a Boucher 19802, 76, oltre che a La Penna 1977, 10. Si consideri infatti come per Stahl 1985, 144 «It must be considered a fundamental quality in Propertius’ concept that his love does not admit of the traditional split between love and marriage» (la sottolineatura è mia). A parere di Lyne 1980, 79, il distico di 2, 6, 41-42 rivela un timbro socialmente e politicamente provocatorio, considerando il retroterra legislativo contemporaneo in cui si intendeva rafforzare l’istituto del matrimonio. 25 26
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sione. Un’«ideale moglie elegiaca»,27 in controtendenza rispetto alla legislazione matrimoniale progressivamente varata da Augusto per incrementare e consolidare le unioni legittime.28 In quest’elegia, i paradigmi mitici di comportamento porti a Cinzia sono uxorii: si tratta di Alcesti e Penelope,29 le cui virtù hanno reso felice Admeto e il talamo di Ulisse (v. 23), e ai cui insigni esempi il poeta aggiunge quello di qualunque donna attaccata alla dimora maritale (v. 24).30 Una scelta ben ponderata, questa, se si considera che, come rileva Gazich, «Nella costituzione letteraria del loro personaggio Penelope e Alcesti sono due eroine del gamos, della fedeltà e dell’inviolabilità del legame coniugale, non semplicemente spose omologate alla normalità del costume, bensì artefici di una scelta combattuta e cosciente di fedeltà, ed è questo che conta per Properzio».31 Direi che l’implicito riferimento alla fides,32 qui indubbiamente coniugale, come quella successivamente protestata da Aretusa in 4, 3, 12 (Haecne marita fides?),33 e non già extraconiugale, come quella archetipica di Cat. c. 87, 3-4 (nulla fides ullo fuit umquam in foedere tanta, / quanta in Come la definisce Fedeli 2005, 218. Vd. Lyne 1980, 79, al cui giudizio questi accenti «are also socially and politically provocative, against a background of legislation to enforce marriage». Viceversa, di un impiego metaforico di uxor dovrebbe trattarsi in Prop. 2, 7, 42 secondo il semplicistico punto di vista di Lilja 1965, 231. 29 Alcesti e Penelope rappresentano prototipi di fidissimae uxores (basti pensare alla loro menzione in 4, 11e già in 2, 9, 3-8; 3, 12, 38; 13, 24) a riscontro delle quali il mito di pertinenza può essere riattivato interamente o parzialmente a seconda delle esigenze dello specifico contesto di riuso (cfr. Lechi 1979, 97). Sulla loro fortuna nella raccolta properziana rimando alla nota di commento a Prop. 2, 6, 23-24 stesa da Fedeli 2005, 208-209. 30 Sull’opportunità di intendere l’espressione limen amare come variazione poetica di domum servare segnalo la messa a punto di Fedeli 2005, 209. 31 La citazione è dedotta da Gazich 1995, 282. 32 Vd. Traina 2015, 65-66. 33 Che fides, nel significato di ‘fedeltà coniugale’ non ricorra prima di Properzio, è dato su cui molto opportunamente insiste il commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 531 a proposito di 4, 3, 11: d’altronde, l’uso fattone nelle Heroides (6, 41 e 20, 7), ribadito in Met. 7, 720-721 e in Trist. 5, 14, 36, attesta come l’esempio properziano sia stato dirimente nella particolare declinazione semantica del lemma in oggetto. Sull’evoluzione del significato dell’epiteto maritus si veda poi Tränkle 1960, 80 con ampio corredo di testimonianze. In Properzio l’attributo suddetto amplia le proprie accezioni, venendo impiegato, nella valenza di ‘coniugale’, de variis rebus ad matrimonium pertinentibus, come si deduce dai passi di 3, 20, 26; 4, 11, 33. 27
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amore tuo ex parte reperta meast), chiarisce, puntualizzandolo, lo specifico foedus 34 cui l’autore aspira. Properzio si spinge a proclamare in crescendo quanto neanche Catullo aveva fatto, e con lui, a distanza di tempo, non faranno né Tibullo né l’Ovidio degli Amores: ‘Per me sarai sempre amante, per me sarai sempre anche moglie’ (v. 42). Notoriamente nell’elegia latina il modello della reciprocità amorosa, dell’equilibrata rispondenza affettiva fra le parti è destinato, quasi per definizione, a costituire una meta cui tendere solo idealmente, piuttosto che un obiettivo concretamente raggiungibile e fruibile nel tempo. Per il poeta-amante altro è guardare alla stabilità e alla bilateralità degli affetti coniugali, altro intraprendere, nel quotidiano, la scelta vincolante del matrimonio.35 Lo esclude un acclarato novero di tropi: la tipologia della domina prescelta volta per volta, talora stabilmente impegnata con altri, e comunque di controversa condizione sociale; 36 lo statuto del servitium amoris che sancisce la diseguaglianza fra l’amante e l’amata; l’esibita furoralità della passione, nutrita sia delle distanze fisiche e degli incontri furtivi tra innamorati, sia delle inquietudini e dei sospetti causati dalla mancata frequentazione quotidiana, per non dire dalla sistematica coabitazione. Solo temporaneamente può registrarsi una piena rispondenza fra la fedeltà dell’amata e le aspettative del poeta, come in Prop. 2, 26b, dove la fides e la constantia di cui egli sostiene di aver dato prova sembrano aver sortito risultati decisivi capovolgendo l’abituale condotta della partner. Ad ogni modo, attendere che, come le donne d’un tempo, una fieret cana puella domo (2, 16, 22) equivale ad una consapevole illusione: secondo stereotipo corrente in poesia elegiaca, dalla cupidigia di denaro scaturiscono infatti gli
34 Sul concetto di foedus nella poesia elegiaca basilari le note di Reitzenstein 1912, 9-12. Ridiscussione in Lilja 1965, 156-186. 35 Dal che è facile dedurre l’inadeguatezza dell’impalcatura teorica del contributo di Fontana 1950, 73-76. 36 Destinato a non comporsi il dibattito sullo status sociale delle dominae elegiache, cfr., e.g., Lilja 1965, 91-42; Williams 1968, 529-535; Courtney 1970, 52-53; Sullivan 1976, 76-106; Boucher 19802, 441-474; Della Corte 1982, 550-551; Griffin 1986, 112-141; Newman 1997, 303-306; Wyke 2002, 19-31; Cicu 2003, 21-31; Fantham 2006, 187- 198; Fedeli 2014, 397-398.
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amori facili e mutevoli, mentre il ritegno muliebre appare definitivamente compromesso.37 D’altra parte, qualora si affacci l’evenienza di vincoli coniugali con altre donne, il poeta può far mostra di reagire energicamente. Infatti, se da un canto il ritiro di una legge o di un progetto di legge concernente la promozione dell’istituto matrimoniale,38 induce Cinzia a gioire dello scampato pericolo (i due amanti avevano già pianto a lungo all’idea di un distacco forzato), dall’altro spinge Properzio a dichiarare la ferma decisione di non sposarsi (2, 7, 7-10).39 Dinanzi alla reale consistenza della tirata in oggetto, a fronte di un elusivo silenzio sulla precisa condizione sociale di Cinzia,40 ricordando inoltre come i giovani innamorati della νέα e della Palliata recalcitrassero all’idea di matrimoni imposti con la Si legga il commento di Fedeli 2005, 485 ad loc. con il richiamo a Prop. 2, 24, 24 e a Tib. 1, 6, 85-86. 38 Che Badian 1985, 82 definisce «A phantom marriage law». Sulla controversa, dibattutissima fisionomia di tale provvedimento, oltre ai contributi di Besnier 1979, 191-203; Della Corte 1982, 539-558; Badian 1985, 82-98 (con dossografia precedente); Stahl 1985, 142-145, segnalo la sintesi di Fedeli 2005, 221-225. Non condivisibile, peraltro, il tentativo di Beck 2000, 303-324 di imputare alla non autenticità di 2, 7 il fatto che il suo autore sia l’unico a menzionare l’abrogazione di quella che taluni studiosi tenderebbero a considerare come ‘disposizione triumvirale’ (309). Il più aggiornato contributo sulla questione si deve a Spagnuolo Vigorita 2010, il quale ribadisce la convinzione nell’esistenza di una lex publica o, almeno, di un progetto di legge relativo a matrimoni e filiazione, prima reso noto e poi ritirato, databile al 28-27 a.C. (così a 21). 39 Dal canto suo, Boucher 19802, 135-136, sostiene che Properzio si sarebbe opposto al princeps in tema di riforma dei costumi in modo visibile e indiscutibile: «Pour rester l’amant de Cynthie il refuse le mariage et la paternité, il refuse de donner des soldats à sa patrie (II, 7): de même il excuse en plusieurs occasions les moeurs de Cynthie contre les critiques de l’opinion, ce qui implique un désaveu des lois De pudicitia et De adulteriis». A sua volta, di «accenti ironici e libertini» parla La Penna 1977, 62 a proposito di quest’elegia, «che esprime esultanza per il ritiro delle minacciose leggi matrimoniali». Di sicuro, la valutazione del l’atteggiamento tenuto dal poeta in 2, 7 non deve prescindere dalla separazione fra il Caesar condottiero di vittoriose campagne militari e il Caesar legiferatore in materia di rapporti matrimoniali (e non), sottolineata da Properzio stesso ai vv. 5-6: ‘At magnus Caesar!’ Sed magnus Caesar in armis, / devictae gentes nil in amore valent. 40 Molto opportunamente Wyke 2002, 30 sottolinea: «Here, if nowhere else in Augustan elegy, we might expect to find a clearly defined social status allocated to the elegiac mistress, because, at this point in the elegiac corpus, the text seems to be directly challenging legal constraints on sexual behaviour. Nevertheless, even when the elegiac narrative takes as its central focus a legislative issue, no clear social position is allocated to Cynthia». Sull’argomento basilari le osservazioni di Fedeli 2008, 3-38. 37
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forza,41 non si può non nutrire qualche perplessità: a condizionare la composizione di questi distici saranno intervenute prioritarie ragioni di ordine letterario 42 o piuttosto avranno realmente giocato un ruolo determinante i recenti provvedimenti legislativi in tema di unioni matrimoniali? Pochi anni or sono, Spagnuolo Vigorita, autore di un denso volume sulla politica matrimoniale promossa da Augusto, ha dichiarato di condividere l’opinione per cui Properzio avrebbe intenzionalmente alterato gli effetti della legge, onde far risaltare l’inconciliabilità dei suoi principi ispiratori con la nequitia del poeta elegiaco e della sua donna.43 Il testo, inutile negarlo, suona ironico tanto quanto ambiguo (vv. 7-10): nam citius paterer caput hoc discedere collo quam possem nuptae perdere more 44 faces, aut ego transirem tua limina clausa maritus, 10 respiciens udis prodita luminibus.
In questa pericope la prospettiva di un’unione sancita dal rito nuziale viene umoristicamente respinta con l’immagine del l’alternativa poziore, la decapitazione.45 Nello specifico, il bagagliaio iconografico omerico additerà, come in svariati altri passi, l’immagine di base da riadeguare al nuovo contesto, dotandolo di un senso e di una finalità ben distanti dal modello. L’ipo
Stando al corretto richiamo di Cairns 1979, 191-192. Tra le quali potrebbe rientrare, secondo Cairns 1979, 192-193, anche la consuetudine dei προγυμνὰσματα retorici consistenti in un attacco o in una difesa di una legge «already on the statute book or in the process of enactement». 43 Vd. Spagnuolo Vigorita 2010, 22. Su questa stessa linea, in sostanza, Fedeli 2008, 30. 44 Sulla tormentata tradizione di questo versi rinvio al documentato quadro di Fedeli 2005, 229-231 e alle conclusioni di Labate 2012, 27 e n. 16. 45 In materia, secondo Cairns 1979, 186, tanto Williams 1968, 533-534, quanto Boucher 19802, 135-136, professerebbero «the current orthodox point of view»: infatti, anche a suo parere, «in literal terms Propertius II, 7 is an attack on Augustus’ marriage law» (così a 187). Ad ogni modo, nel prosieguo del suo contributo, lo studioso osserva come: «Everything Propertius says about being compelled to marry is an exaggeration and is meant to be recognisable as such by the reader» (così a 189). Delle multiple ipotesi formulate circa l’effettivo ‘stato civile’ del poeta delinea un regesto Lilja 1965, 14. 41 42
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testo invocato dai commentatori,46 Il. 2, 259 (μηκέτ᾽ ἔπειτ᾽ Ὀδυσῆϊ κάρη ὤμοισιν ἐπείη), facente parte dell’apostrofe minacciosa di Odisseo a Tersite, non solo è riconfigurato sul piano eidetico rimpiazzando ἔπειμι con discedo, dotato di tutt’altro vettore semantico, o ὤμοισιν con collo, bensì viene rinnovato sul piano funzionale innestando l’eco nobile in un proclama sapidamente iperbolico, posto che, dinanzi all’eventualità di un matrimonio, il poeta preferirebbe morire. Non si è taciuto come in questa elegia, intesa a proclamare l’incompatibilità dell’amore elegiaco con il matrimonio, la chiusa contenga un distico che rappresenterebbe «icasticamente l’aspirazione alla reciprocità con l’accostamento, nell’esametro, di due emistichi perfettamente speculari: Prop. 2, 7, 19: tu mihi sola places: placeam tibi, Cynthia, solus.47
Tuttavia, la postulata specularità poggia – converrà specificarlo – su un costrutto che, sul piano sintattico, testimonia l’attuale asimmetria della relazione amorosa. Se per Properzio l’esclusività costituisce un punto fermo del rapporto d’amore, per quanto concerne Cinzia rappresenta ancora un traguardo da raggiungere. È il poeta stesso a formulare un tale auspicio, ricorrendo all’impiego, normativo, del congiuntivo. Un amore contraccambiato, al sicuro dai rischi del tradimento, appare a Properzio ben più significativo dell’ipotetico ruolo di padre, garantendo piena corresponsione all’esclusività della passione al maschile. Né marito, dunque, né genitore: tale il destino che il poeta prefigura per sé, dichiarando di non dovere né volere mettere al mondo figli destinati a servire la patria (nullus de nostro, sanguine miles erit v. 14). In un avvicendamento di funzioni, quale quello delineato in 2, 18d, 33-34, nel vivo di un nuovo attacco 48 al cultus e alla sua inutilità pratica, dopo aver condannato la tintura bionda della domina (vv. 23-24; 25-30) e aver riaffermato quanto ella gli appaia naturalmente bella (v. 29),49 Properzio si candiderà ad essere egli Cfr., e.g., Enk 1962, 114; Fedeli 2005, 229. Cfr. Labate 2012, 28. Utili puntualizzazioni in materia anche in Stahl 1985, 151. 48 Vd. già 1, 2, 1 ss. 49 Sostanzialmente simili gli accenti adoperati a riguardo in 1, 2, 26. 46 47
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stesso, da solo,50 fratello e figlio di Cinzia, in mancanza per lei di simili affetti. Il modello delle relazioni familiari si riproietta sul legame di coppia riscrivendone, per il momento, la morfologia e declinandola sì ‘al maschile’, ma con significative varianti rispetto al caso di 1, 11, 23. Nel momento stesso in cui certi ruoli (e certi sentimenti) legati al nucleo domestico assurgono a protagonisti del discorso elegiaco, ecco ripresentarsi il paradigma cogente di Hom. Il. 6, 429-430. La movenza epica ‘tu sei per me…’ viene riformulata in ‘possa io essere per te…’ in quanto, candidandosi al ruolo di fratello e di figlio di Cinzia, Properzio intenderebbe garantirle protezione nel quadro dei consolidati rapporti domestici che a Roma vigono fra una donna e i membri maschili della sua famiglia: 51 Cum tibi nec frater nec sit tibi filius ullus, frater ego et tibi sim filius unus ego.
Q uantunque il poeta smorzi la componente erotica del rapporto a favore di un atteggiamento più protettivo e familiare, finirà comunque per ritagliarsi il ruolo di esclusivo fruitore della bellezza naturale della partner avocando a sé l’unicità del giudizio estetico su di lei (vv. 29-30): 52 Desine! Mi per te poteris formosa videri: mi formosa sat es, si modo saepe venis!
Chi scrive 53 consiglia reiteratamente di contenere il cultus presentandosi nelle vesti di beneficiario e di giudice unico della naturale avvenenza di Cinzia. Al lettore non sfugge come l’asse concettuale intorno a cui si dipana il brano possa essere proprio la sorveglianza 54 che, formalmente, il cultus stesso dovrebbe garan50 Unus ego si legge infatti nell’explicit del v. 34. Dal canto suo, Lilja 1965, 74 ricorda come il verso properziano sia stato spesso ricollegato al catulliano pater ut gnatos diligit et generos di c. 72, 4. 51 Come puntualizza Fedeli 2005, 551, ma vd. già Lilja 1965, 232. Sulla custodia esercitata dai membri maschili di una famiglia sulle consanguinee basti consultare Pomeroy 1978, 161-168. 52 Non passi inosservata l’anafora verticale del pronome apocopato mi, oltre al latente riecheggiamento del catulliano cui videberis bella? di c. 8, 16, stranamente sfuggito all’attenzione della critica specialistica. 53 In preda ad un’«ansia possessiva», a giudizio di Scivoletto 2000, 183. 54 Come, dal canto suo, sarebbe propenso a ritenere Fedeli 2005, 551.
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tire all’amata purché non eccessivo, non ostentato (vv. 35-36), venendo in realtà esercitato nelle forme di un controllo di tipo fraterno o filiale da parte del poeta-amante con un abile mascheramento di ruoli tutelari.55 Daltronde vegliare sull’amata è compito cui il poeta elegiaco non deve né può sottrarsi, vista la ben nota attitudine delle puellae a mentire.56 In 2, 6, 1-8, simulare la presenza di parenti che garantiscano una condotta irreprensibile rappresenta occasione di forte biasimo nei rispetti di Cinzia: Non ita complebant Ephyraeae Laidos aedes, ad cuius iacuit Graecia tota fores; turba Menandreae fuerat nec Thaidos olim tanta, in qua populus lusit Ericthonius; 5 nec, quae dele[c]tas potuit componere Thebas, Phryne tam multis facta beata viris. quin etiam falsos fingis tibi saepe propinquos, oscula ne desint qui tibi iure ferant.
Una folla di spasimanti – di sicuro non exclusi amatores – si accalca nella casa di Cinzia, una folla non paragonabile neppure a quella che a Corinto si contendeva i favori dell’etera Laide, o a quella che attorniava Taide,57 o a quella che cingeva Frine.58 Vd. Lilja 1965, 214 e, in generale, Pomeroy 1978, 160-168. Sufficiente il rimando a Prop. 2, 5, 5 (Inveniam tamen e multis fallacibus unam); 9, 31-32 (sed vobis facile est verba et componere fraudes: / hoc unum didicit femina semper opus). Peraltro, nel caso di Cinzia, l’elegia 1, 11 ha già ospitato le fantasticherie dell’amante sulla sua lontananza, spesa magari ad ascoltare i sussurri insinuanti di un altro, stando adagiati sul lido silenzioso, ut solet amoto labi custode puella (v. 15), dimenticando i communes… di (v. 16). 57 Modello di comportamento, questo, contemplato nella didassi erotica impartita da Acantide in Prop. 4, 5, 43-44. Sull’assimilazione di Cinzia ad un’etera da Commedia Nuova, mediata dall’esperienza della palliata, vd. Fantham 2006, 187. 58 A giudizio di Dunn 1985, 251«… it is no exaggeration to describe all three (scil. examples) as legendary. Lais was immortalizaed in the painting of Apelles, Thais in the plays of Menander, and Phryne in the inscription of Alexander. The use of the Greek forms of theirs names… and of allusive geographical epithets… reinforces the impression that the poet is alluding not a factual past but to a quasi-mythological realm». Il paragone rientrerebbe in quelli che lo stu dioso considera come casi di utilizzo dell’exemplum con connotazione soggettiva, «in that the statement which it conveys may not be true, but simply a delusion of the speaker. It does not describe the way things are, but the conflicting emotions with wich he views them» (così a 252), ma che suona pur sempre oggettivo «in manner (or form)». 55 56
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Al v. 7, Q uin etiam, formula di comodo impiego per una transizione di tipo oppositivo,59 avverte dello spostamento delle quinte: siamo in una cornice tipicamente romana dove occorre inventarsi falsi… propinqui per godere di piena libertà nelle effusioni in pubblico, nel formale ossequio della normativa vigente (vv. 7-8): quin etiam falsos fingis tibi saepe propinquos, oscula ne desint qui tibi iure ferant.
Ben due lemmi, uno aggettivale e uno verbale, legati da allitterazione a vocale variabile e da assonanza (falsos fingis), insistono sulle bugie dell’amata, espediente usuale per Cinzia,60 a giudicare dalla compresenza dell’avverbio saepe. La collocazione a ponte del nesso falsos… propinquos marca l’inaffidabilità delle parole di Cinzia attenta a giustificare, agli occhi della legge e della morale corrente, la presenza di chi ‘legittimamente’ possa oscula… ferre, o, com’è più corretto intendere, in presenza di un simplex pro composito, auferre.61 Il fulcro dell’immagine coincide con il ius osculi, il diritto riservato ai membri maschili di una famiglia (sino al sesto grado) di baciare le donne – in particolar modo per vigilare sul consumo di temetum da parte loro62 –, tuttavia qui il poeta non sembra alludere alla prassi ‘ispettiva’ del bacio fra consanguinei, quanto piuttosto al gesto fisico puro e semplice 63 che però, per venire socialmente accettato, necessita di un dichiarato legame di sangue. D’altra parte, l’uso di un sostantivo ambiguo quale osculum, per lo più privo di connotazioni erotiche – limitate ad un termine quale savium – ma non obbligatoriamente afferente all’idea di un atto rituale, di natura esclusivamente affettiva,64 59 Cinque, se non erro, gli impieghi in Properzio: 1, 17, 5; 2, 6, 7; 9a, 21; 15, 19; 3, 2, 7. 60 E, in genere, per il sesso femminile, a dar retta al distico di 2, 9, 31-32 (Sed vobis facile est verba et componere fraudes: / hoc unum didicit femina semper opus) di timbro misoginico. 61 Come in Prop. 1, 20, 27-28; Ov. am. 3, 7, 47-48. 62 Basti consultare Minieri 1982, 150-163; Contini 1986, 87-110; Petrocelli 1989, 137-139; Bettini 1995, 531-536; Sandei 2009, 1-19. 63 Cfr. la puntualizzazione di Timpanaro 1994, 377. 64 La distinzione operata da Serv. ad Verg. Aen. 1, 256 (sciendum osculum religionis esse, savium voluptatis, quamvis quidam osculum filiis dari, uxori basium, scorto savium dicant) corrispondente, in buona parte a quella operata da Don. ad
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facilita Properzio nella stesura di un verso dal tono reprobatorio nei confronti della partner. Fantasticando in modo autolesionistico, pervaso com’è dalla gelosia, il poeta-amante scorge ovunque rivali e pericoli,65 in un crescendo parossistico che ignora presenze o assenze reali, differenze di età o di sesso, legami parentali o amichevoli (vv. 9-14): me iuvenum pictae facies, me nomina laedunt, 10 me tener in cunis et sine voce puer; me laedet, si multa tibi dabit oscula mater, me soror et quando dormit amica simul: omnia me laedunt: 66 timidus sum (ignosce timori) et miser in tunica suspicor esse virum.
Nel distico d’apertura l’ossessività del sospetto e, di conseguenza, del timore è trasmessa da un trikolon in cui anafore orizzontali e verticali del pronome me s’incrociano, per addizionarsi poi ai due me incipitari del distico seguente e venir ribattute, per l’ultima volta, dal me incastonato nell’hemiepes del v. 13 (omnia me laedent) dove si noterà non solo la cifra riassuntiva dell’asserto, bensì anche il reimpiego del verbo portante laedo, già presente nello spondeo di sesta sede del v. 9 e inserito a ponte fra la prima e la seconda sede metrica del v. 11 in forma poliptotica. La mobilitazione di numerose figure retoriche e il pieno dominio del linguaggio delle emozioni corrono in parallelo al dispiegamento sia di miti sia di eventi storici paradigmatici adoperati ‘eziologicamente’ per dar conto dei «turbamenti e sospetti del poeta, forse non fondati su fatti reali, come spesso i sospetti degli amanti, ma che fanno pensare al peggio, his principiis…».67 Ter. Eun. 456 (oscula officiorum sunt, basia pudicorum affectuum, savia libidinorum vel amorum), non è così ferrea come i due commentatori lascerebbero intendere, basti rileggere la messa a punto di Fedeli 2005, 201 ad loc. Sul lessico dei baci a Roma il più completo lavoro d’insieme resta quello di Cipriani 1992, 69-102. 65 Sul passo penetranti notazioni in Rosati 2008, 266-267. 66 Laedunt, lezione di P, risulta poziore rispetto alla variante laedent testimoniata dagli altri codici, oltre che per motivi di natura contestuale (l’intero pannello è insistentemente costruito al presente), per la ripresa, in forma riassuntiva e conclusiva, del laedunt excipitario del v. 9, ossia dell’esametro che inaugura l’intera sezione giocata sull’angoscia interiore del poeta-amante. A ciò si aggiunga l’iconicità della sede occupata metricamente da laedunt al v. 13, coincidente con il ponte costituito dalla tesi del secondo piede e la cesura semiquinaria. 67 Citazione da Gazich 1995, 277.
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In altri termini, la raffinata architettura di Prop. 2, 6 68 e la sinergia delle componenti sinora rilevate fanno fede del processo mediante il quale mito ed eventuale Erlebnis vengono a legarsi in un nodo inestricabile: nell’uno il poeta rinviene le ‘radici’ dei comportamenti di Cinzia da lui subiti in prima persona, allargando poi le proprie valutazioni al desolante quadro etico contemporaneo dove Amore legittima qualunque comportamento.69 Tuttavia, come ricordavo in precedenza, Prima di dar corpo alla lunga tirata moralistica racchiusa tra i vv. 25-36 del componimento, Properzio celebra il makarismós di Alcesti e di Penelope, mogli esemplari capaci di tener fede all’integrità fisica come tutte le spose che amino la casa del proprio marito (vv. 23-24).70 Q ui l’addizionarsi di immagini stereotipe,71 degno di una controversia de mulierum corruptis moribus,72 fa da cerniera all’epi logo dell’elegia in cui, ad anello, riappare la folla degli spasimanti pronta a calpestare custodi e sbarramenti che il poeta vorrebbe poter frapporre a quanti si accostano a Cinzia (vv. 37-38). D’altronde, se una donna è intenzionata a metter da parte la castità non esiste comunque sorveglianza che possa impedir Su cui vd. Camps 1989, 359-364. Nunc Romae quidlibet audet Amor (v. 29), verso ben analizzato da Gazich 1995, 278-282. 70 Di sapore oraziano il sintagma limen amare (c. 1, 35, 3-4), surroga l’espressione più corrente domum servare che indica, notoriamente, la funzione di custode fedele del focolare domestico riservata alle spose romane. 71 In controluce, i modelli di castità uxoria additati riaffermano l’ambizione ‘monogamica’ del poeta-amante il quale tenta di riproporre a Cinzia quel prototipo di fedeltà rispettato dalle castae nuptae, custodi intemerate del proprio focolare. A parere di Properzio, se a queste ultime è consentito comportarsi come loro aggrada, a che scopo innalzare templi alla Pudicizia per le puellae (vv. 26-27)? I loro occhi sono stati corrotti dalla vista di soggetti figurativi osceni (vv. 27-30); pertanto gema accecato chi per primo ha svelato in tal modo l’intimità fisica (vv. 31-32), un tempo non riprodotta sulle pareti delle case romane (vv. 33-34). Ormai, però, le ragnatele si sono impadronite dei templi mentre l’erbaccia ricopre le statue delle divinità (vv. 35-36). In tema di pudicitia, la fedeltà che ci si attende dalle matrone, cfr. Treggiari 1991, 105-107 e, in rapporto a Cinzia, Fantham 2006, 185, n. 4. 72 Basti ricordare l’attacco di una celebre controversia di Porcio Latrone, fortunatamente trasmessa da Sen. Rhet. contr. 2, 7: l’accusatore di turno è il marito di una donna la quale ha rivendicato l’eredità ricevuta per testamento da un peregrinus negotiator, al cui corteggiamento non sembrerebbe comunque aver ceduto: ‘Q uamquam eo prolapsi iam mores civitatis sunt ut nemo ad suspicanda adulteria nimium credulus possit videri…’. 68
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glielo: 73 Per il poeta, in atto solo l’azione inibente della vergogna può indurre una donna a mantenere integra la propria castità. In sostanza al sicuro è solo chi nutra ancora la pudicitia (v. 40), una virtù, questa, che diremmo distintiva di una sposa come Elia Galla (pendebit collo Galla pudica tuo 3, 12, 22), non di chi intenda seguire i dettami di Acantide (frange et damnosae iura pudicitiae! 4, 5, 28). E a proposito di spose fedeli ad oltranza, consacrate dalla poe sia epico-tragica, nella raccolta properziana al di là di Penelope ed Alcesti non mancano ulteriori esempi di mogli caste cui Cin zia potrebbe (e dovrebbe) ispirare il proprio comportamento se solo fosse disposta. I richiami del poeta all’irreprensibilità di certe eroine mitiche cadono però nel vuoto, venendo regolarmente frustrati: infatti, che si tratti di Evadne 74 o di Alfesibea, citate in 1, 15, 21-22 e 15-16, Cinzia persevera nel mostrarsi incostante, sleale, lusinghevole. Stesso dicasi se gli esempi di fedeltà ad oltranza sono rappresentati da eroine innamorate, ma non sposate, come nel caso di Calipso e Issipile rubricate in 1, 15, 9-14 e 17-18.75 Risultati non diversi sortisce poi il passaggio dalla didassi desti nata alla domina alla considerazione del genus infidum nuptiarum, sordo ai modelli di Evadne e di Penelope additati in 3, 13, 24.76 73 D’obbligo il rimando a Prop. 4, 1, 145-146: nec mille excubiae nec te signata iuvabunt / limina: persuasae fallere rima sat est. 74 Sulle due eroine e i loro ‘trascorsi’ nella letteratura greca vd. Fedeli 1977, 93-96; Papanghelis 1987, 63; Paduano 2008, 386-388. Riguardo la pratica del suicidio sulla pira maritale un quadro documentato in Heckel – Yardley 1981, 305-311. 75 Dunque, nella 1, 15 si registra una tetrade esemplificativa ripartita in una coppia di eroine innamorate, ma non coniugate, e in un’altra di fidae uxores sotto posta, come nota Gazich 1995, 83 ad ‘intensificazione progressiva’, ossia CalipsoIpsipile // Evadne-Alfesibea. Tuttavia, soggiunge lo studioso, «Due addii civili per le storie di Calipso e di Ipsipile, almeno secondo le versioni di Omero e di Apollonio, due vicende di amore e morte per Evadne e Alfesibea, ma una è la fides delle quattro donne-amanti: per Properzio che sta fondando una nuova moralità dell’amore, l’accostamento di exempla diversi, eppure uguali nel comune mes saggio, dimostra che la fides non è legata allo stato anagrafico, ma a una scelta interiore». Bisognerà attendere la 4, 7, l’elegia dedicata all’apparizione in sogno di Cinzia morta di recente perché, con un ribaltamento di ruoli, la donna difenda parossi sticamente la propria fedeltà verso il poeta citando le eroine mitiche sine fraude maritae (v. 1) che abitano l’Oltretomba, ossia Andromeda e Ipermestra, contrap poste alle adultere più celebri, Clitennestra e Pasifae. 76 Sui precedenti tragici del personaggio di Evadne informa Seaford 1987,
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D’altra parte, la regina itacese 77 celebrata per ben due volte in 3, 12, prima 78 con l’equiparazione di Postumo ad Ulisse miranda coniuge, poi tramite l’omaggio alla fedeltà di Elia Galla superiore alla dote proverbiale della figlia di Icario,79 nell’elegia qui discussa non costituisce una pietra di paragone in riferimento a Cinzia.80 In 2, 9 la Penelope properziana, capace di rimanere integra per vent’anni, lei che pure era tam multis femina digna procis (v. 4),81 appare invecchiata nell’attesa del ritorno di Ulisse (vv. 7-8).82 Nulla di più diverso dalle abitudini di Cinzia, pronta a passare da un amante ad un altro in un lasso di tempo minimale, forse un’ora appena (sed fors et in hora v. 1). Dal confronto fra questi brani si inferisce come per Properzio lo sforzo di costruire o di ricostruire una «morale eroica del foedus»83 tramite paradigmi mitici femminili si risolva in una débacle. Toccherà al poeta stesso costituire un monito vivente 84 per gli innamorati che versino in analoghe condizioni e non solo di venir celebrato, dopo la morte, quale cantore delle loro passioni.85 A tramutarsi in exemplum – e già in vita – è il poeta, non la domina, in rapporto alla cui condotta vengono mobilitati tanto modelli mitici ‘protrettici’, quanto modelli mitici ‘giustificativi’ 121-122. Sulle consuetudini delle donne orientali di seguire il marito sulla pira si segnala l’analisi di Stok 2012, 169. 77 Basti consultare la voce omonima in Otto, 20133, 272. In ogni caso l’archetipica fedeltà della regina di Itaca al marito riecheggia nelle righe scritte dalla Penelope ovidiana in cui si legge: Penelope coniunx semper Ulixis ero (her. 1, 84). 78 Postumus alter erit miranda coniuge Ulixes (v. 23). 79 Vincit Penelopes Aelia Galla fides (v. 38). 80 In primo piano è il contegno altero della figlia di Icario (fastus, Icarioti, tuos 3, 13, 10) assieme alle donne virtuose e tenute sotto chiave, anch’esse però vittime del potere di corruzione dell’oro, delle gemme e, in genere, del lusso. 81 Come in Ov. am. 3, 4, 23-24: Penelope mansit, quamvis custode carebat, / inter tot iuvenes intemerata procos. In ars 3, 15 pia… lustris… duobus appare la regina itacese, la cui fides è emblematicamente celebrata anche in trist. 5, 14, 35-36: aspicis ut longo teneat laudabilis aevo / nomen inextinctum Penelopaea fides? 82 Palmare l’eco properziana in Ov. her. 1, 116: Certe ego, quae fueram te discedente puella, / protinus ut venias, facta videbor anus. Sul peso di questa preclusione vd. Fantham 2006, 185. 83 Così Gazich 1995, 90. 84 Vd. Prop. 1, 15, 41: similis moniturus amantis. 85 Cfr. Prop. 1, 7, 23-24: Nec poterunt iuvenes nostro reticere sepulchro / ‘Ardoris nostri magne poeta iaces.’
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onde ridimensionarne gli errori, in considerazione del malcostume ormai diffuso tra le donne romane.86 Insomma, i nobili esempi richiamati tra un componimento e l’altro funzionano ora da strumenti psicagogici ora da strumenti di discolpa conformando le proprie funzioni sulla scorta delle icone prescelte e della relativa cornice d’impiego. Dinanzi all’umoralità e all’incostanza di una domina contesa da numerosi spasimanti, disposti a sottostare ai suoi dettami senza assumere atteggiamenti censori, il duplice ruolo di amante e di precettore risulta insostenibile, a breve e, soprattutto, a lunga gittata. Infatti, quanto più i toni moralistici del poeta suoneranno severi e intransigenti, tanto più la triangolazione della coppia 87 diverrà un rischio tangibile, con tutte le conseguenze del caso. Si pensi all’elegia 2, 32. Un’attenuante alle colpe di Cinzia, colpevole di disdegnare il portico di Pompeo a Roma e di recarsi a Preneste, Tuscolo, Tivoli e Lanuvio per dar libero sfogo ai suoi tradimenti, è individuata nella corruzione dilagante che affligge Roma (2, 32, 43-44). Le colpe che qualche benpensante potrebbe addossare a Cinzia,88 non producono risentimenti in Properzio il quale, constatando ironicamente le infedeltà delle donne a Roma (vv. 43-44), legittima le evasioni della partner richiamando il celebre esempio di Lesbia (vv. 45-46): haec eadem ante illam iam impune et Lesbia fecit: quae sequitur, certe est invidiosa minus.
Stavolta, il modello comportamentale di Cinzia s’identifica con l’immagine antonomastica della puella spregiudicata, spergiura 86 Riguardo ai prototipi femminili considerati in rapporto a Cinzia nei ll. II-IV della raccolta, Fantham 2006, 186 distingue, in termini di moralità, due categorie: quella delle mogli virtuose e fedeli, quasi sempre in posizione arretrata rispetto alle eroine mitiche, e quella delle donne contemporanee dai facili costumi. 87 Animato dalla presenza di un odioso rivale, il triangolo amoroso è stato attentamente studiato da Rosati 2008, 251-272. 88 Scoperto il costrutto in crescendo anaforico della terna Cur haec tam dives? quis dedit? unde dedit? del v. 42 che, dal canto suo, Fedeli 2005, 913 accosta a Cic. Rosc. Amer. 74 e a Cluent. 124. Ad ogni modo, il locus communis dell’arricchimento delle donne, perpetrato attraverso relazioni illecite, compare proprio nelle battute iniziali della pièce latroniana riportata da Sen. Rhet. contr. 2, 7, 1 (tantum in istam dives amator effudit ut post poenam quoque expediat fuisse adulteram). Più oltre, in 2, 7, 9, l’avidità sarà indicata quale base dei vizi femminili (Muliebrium vitiorum fundamentum avaritia est).
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e inaffidabile consegnata dalla silloge catulliana. Respingendo il prototipo delle spose dalla castità intemerata Cinzia ha rifiutato di divenire una nobilis historia. Altro è il suo destino figurale: l’anagrafe letteraria addita nel personaggio di Lesbia il precedente più calzante in tema di superficialità e di slealtà in amore. L’individuazione di tale archetipo scatta all’interno di una scoperta affinità intercorsa fra due relazioni aventi per protagonisti rispettivamente Catullo – Lesbia // Properzio – Cinzia. In altri termini, i due deittici haec eadem che marcano l’attacco di 2, 32, 45, contrappuntati dalla presenza dello pseudonimo Lesbia in dattilo di quinta sede, indicano come i comportamenti di Cinzia godano di una sorta di discolpa (e di ratifica) grazie al precedente della puella catulliana, prototipo dell’inaffidabilità muliebre già nella raccolta poetica che l’aveva resa famosa. L’impunità garantita a quest’ultima può rendere ragione della minore impopolarità toccata all’erede (invidiosa minus v. 46). D’altra parte l’inarrestabile processo di decadenza dei costumi, databile ai tempi del diluvio universale, ha compromesso la castità di uomini89 e dèi (vv. 53-56), sicché agli occhi di Properzio l’imitazione di donne greche e romane da parte dell’amata la rende, in ultima analisi, immune da colpa.90 Da parte del poeta, il graduale ridimensionamento dei torti commessi sino alla completa riabilitazione dell’interessata obbedisce ad una strategia di mediazione condotta sin dal v. 25 del nostro testo. Di certo, il tentativo di recuperare il legame anche a prezzo di sorvolare su una o due notti d’infedeltà fisica (vv. 29-30) rappresenta una mossa accorta, volta a ripristinare l’accordo fra gli amanti e, al contempo, a rigenerare il rapporto. Tuttavia la strategia non suona mirata solo sul piano tattico, presentando al contrario un sigillo letterario di marca grazie al quale il lettore comincia a intuire l’analogia esistente fra la coppia costituita da Catullo/Lesbia e la coppia rappresentata da Properzio/Cinzia, più oltre esplicitata dalla già ricordata menzione di Lesbia (v. 45). In effetti il lettore non può non distinguere nella dichiarazione di Prop. 2, 32, 30 (non me crimina parva movent) l’eco obliqua di 89 Rimanendo un retaggio del regno di Saturno, come attesta il v. 52 (hic mos Saturno regna tenente fuit). 90 Cfr. Prop. 2, 32, 61-62: Q uod si tu Graias es tuque imitata Latinas, / semper vive meo libera iudicio!
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Cat. c. 68, 136 (rara verecundae furta feremus erae), concettualmente travasata da un pentametro ad un altro per indicare il ‘buon uso del tradimento’, fatto con discrezione e limitato nel tempo sì da non pregiudicare il prosieguo della relazione tra il poeta e la sua donna. Se per Catullo l’accettazione delle trasgressioni di Lesbia appare mossa dall’aspirazione a non risultare molesto alla stregua degli sciocchi,91 proiettando poi sul paradigma olimpico della coppia Giove-Giunone gli effetti della gelosia suscitata dagli adulteri,92 per Properzio tale accettazione viene integrata dagli esemplari furta di Elena e Venere che sembrano giustificare a loro volta il nocciolo concettuale dello spunto neoterico. In genere, nell’elegia properziana il criterio relativistico che presiede allo stoccaggio e all’impiego di cataloghi di eroine mitiche collide con la ripetuta presentazione del poeta nelle vesti dell’innamorato fedele sino alla morte.93 In particolare, sembra compendiare la vocazione all’unicità della passione un passo non a caso appartenente ad un testo programmatico quale 2, 1, tale è lo spessore letterario e, al contempo, sentimentale del proclama in esso contenuto (vv. 47-50): Laus in amore mori, laus altera si datur uno posse frui: fruar o solus amore meo! Si memini, solet illa levis culpare puellas et totam ex Helena non probat Iliada.
Gloria è il morire in amore, gloria, e ancora maggiore, il poter godere di un unico amore. Properzio si augura di essere il solo a godere del suo amore, ribadendo in forme desiderative quanto appena sostenuto in tono sentenzioso e declinando al maschile un prototipo comportamentale ascritto alle univirae.94 Dalla considerazione di taglio generale all’auspicio di taglio personale il passo è breve, ma fortemente segnato dal poliptoto Vd. Cat. c. 68, 137: ne nimium simus stultorum more molesti. Pur sempre rilevando come quelli di Giove fossero plurima furta (v. 140), ben distanti dai rara… furta… erae (v. 136). 93 Il che si ricava, oltre che dal celeberrimo passo di Prop. 2, 20, 15-18 (ossa tibi iuro per matris et ossa parentis / (si fallo, cinis heu sit mihi uterque gravis!) / me tibi ad extremas mansurum, vita, tenebras: / ambos una fides auferet, una dies), anche da 3, 20, 10 (fidus ero: in nostros curre, puella, toros!). 94 Come rileva Fedeli 2005, 86. 91
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verbale frui/fruar e dal reimpiego del lemma amor, oltre che dagli ablativi isosillabici uno/meo. A questo punto, domina la sequenza in esame il personaggio di Elena, emblema dell’in clinazione femminile al tradimento. A fronte del ruolo che, come si è visto, la regina spartana sosterrà nella 2, 32, assurgendo a precedente illustre delle infedeltà di Cinzia – un precedente tale da riabilitarne addirittura la condotta – il ruolo da lei svolto nella 2, 1 si conforma al convenzionale biasimo che l’accompagna nell’immaginario corrente. La novità del distico properziano consiste nell’identità di chi pronuncia la condanna dell’adultera per definizione: Cinzia. A suo dire l’intera Iliade appare quale testo riprovevole proprio a causa del tema affrontato, la guerra di Troia innescata dal primo adulterio e dal primo rapimento di cui il mondo classico avesse nozione ‘storica’. Nella raccolta properziana l’angolazione cangiante da cui l’eroina spartana viene descritta svela quanto convenzionale risulti la sua stessa esemplarità. Di caso in caso, il relativismo con cui tale icona viene caricata di contrassegni positivi e/o negativi ne oscura o ne illumina taluni aspetti a favore di altri, collegandone l’antonomastica celebrità ad operazioni di studiato adattamento. Nel caso particolare, il si memini del v. 49, giustamente ricondotto all’it. “se non ricordo male”,95 non sembra alieno da una qualche venatura ironica, specie in riferimento al contiguo sintagma solet illa… culpare,96 dove non sarebbe indebito intravvedere un contrasto fra le censure verbali di Cinzia e i suoi effettivi comportamenti. In ogni caso, in Prop. 2, 1 il personaggio di Elena prelude emblematicamente alle consuetudini delle donne spartane 97 evocate, in termini licenziosi, in 3, 14, non è chiaro
Da ultimo cfr. Fedeli 2005, 87. «Perché naturalmente la puella elegiaca, quella che conosciamo dalle parole di Properzio come infedele, disinvolta e pronta al tradimento, si presenta come donna onesta, e atteggiandosi a matrona di probi costumi deplora piuttosto l’incostanza delle altre (solet illa levis culpare puellas, 2, 1, 49)»: così, dal canto suo, rileva Rosati 2008, 261. 97 Tra le consuetudini di vita delle donne spartane spiccano gli esercizi sportivi, condivisi con gli uomini, che vedono protagonista la stessa Elena ai vv. 19-20 del testo in esame (inter quos et Helene nudis capere arma papillis / fertur nec fratres erubuisse deos). 95 96
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se con intenti ironici, come ritiene Fedeli,98 o con atteggiamenti sostanzialmente seri, come sostiene Cairns.99 Q uali che fossero le reali intenzioni dell’autore a riguardo, al v. 24 dell’elegia la constatazione che a Sparta non occorre guardarsi dalla punizione di un marito severo (nec gravis austeri poena cavenda viri) 100 potrebbe alludere, in trasparenza, alla riconciliazione di Elena e Menelao di cui abbiamo nozione già tramite l’Odissea omerica (Od. 4,121-127), passo in cui l’antico rigore del re ha ormai lasciato il posto alla riappacificazione con la sposa fedifraga, pronta, per parte sua, a ricordare senza mezze misure i propri imbarazzanti trascorsi (vv. 145-146): … ὅτ᾽ ἐμεῖο κυνώπιδος εἵνεκ᾽ Ἀχαιοὶ ἤλθεθ᾽ ὑπὸ Τροίην, πόλεμον θρασὺν ὁρμαίνοντες.
A breve distanza dal brano in esame, per Properzio Elena costi tuirà il termine di paragone estetico più vicino a Cinzia se, come si legge in 2, 3, 32, post Helenam haec terris forma secunda redit e se per Troia sarebbe stato più bello ardere a causa di Cinzia piuttosto che a causa di Elena (v. 34). Rovesciando il punto di vista espresso dalla domina nella 2, 1, il poeta afferma ora di aver finalmente compreso perché si sia potuta scatenare la guerra fra Europa e Asia (2, 3, 35-36): saggi gli appaiono ormai Paride e Menelao nell’essersi contesa una bellezza degna di annoverare a suo carico persino l’eventuale morte di Achille (v. 39). A suo parere Elena costituisce un motivo bellico accettabile persino da Priamo (v. 40).101 Q ualche considerazione ancora, prima di passare al punto successivo dell’indagine. In queste pagine più volte ho accennato alla fides e al foedus come valori fondanti 102 del couple élégiaque e, al contempo, come proiezioni di questo vincolo verso il modello Come vorrebbe Fedeli 1985, 449-451. Vd. Cairns 2006, 376-377. Il punto in Stok 2012, 170. 100 Il nesso a ponte austeros… viros ricorre anche in Prop. 3, 3, 50, su cui vd. la nota di commento di Fedeli 1985, 154 ad loc. 101 Sul l’orma iliadica di questa riformulazione (Il. 3, 156-158) vd. Fedeli 2005, 148. 102 Sul tema, in riferimento alla silloge properziana, offre una vasta documentazione Boucher 19802, 97-104, tuttavia punto di partenza per le successive indagini in tale àmbito restano i contributi di Leo 1905, 604-611 e di Reitzenstein 1912, 9-12, con le integrazioni di La Penna 1951, 190-193. 98 99
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del legame istituzionale di coppia. In tal senso due elegie quali 2, 20 103 e 3, 20 meritano almeno qualche cenno: nella prima la professione di una fedeltà destinata a durare quanto l’intera esistenza (vv. 15-18) dovrebbe dissipare i timori infondati di Cinzia sulla dedizione dell’amante; nella seconda l’eventualità di una ripresa del rapporto passionale, interrotto da qualche tempo, dipende per Properzio da un ‘nuovo atto di fondazione’, un organigramma che sancisca, in prospettiva, forme e modalità relazionali reciproche nel segno del diritto (vv. 15-30). L’intonazione solenne di ambedue i passi, evidenziata in un caso dal ricorso al giuramento di fedeltà, nell’altro dalla sottolineatura della natura contrattuale del patto amoroso, è contrassegnata da una fitta rete di pronomi personali (tibi 2, 20, 15; mihi v. 16; me tibi v. 17 // mihi 3, 20, 16), da un lessico materiato di espressioni e termini giuridici (si fallo 2, 20, 16 // foedera sunt ponenda… signanda iura / et scribenda… lex 3, 20, 15-16; suo constringit pignora signo v. 17; testis v. 18; non certo vincitur foedere v. 21; foedera ruperit v. 23), oltre che da una serie di formule di matrice religiosa (ossa… iuro per matris et ossa parentis 2, 20, 15; cinis…. sit mihi uterque gravis v. 16 // ultores… deos 3, 20, 22; pactas… aras / pollueritque novo sacra marita toro vv. 25-26). Dovremo attendere la 4, 8 per assistere ad una nuova formula legis, stavolta dettata dalla domina ai vv. 71-78 dell’elegia stessa.104 Ma de hoc satis…
2. Omnis amor magnus, sed aperto 105 in coniuge maior (Prop. 4, 3, 49): amore coniugale e punto di vista femminile (tra Aretusa ed Elia galla) Ad una sposa ansiosa e tormentata dalla lontananza del marito, impegnato in Oriente a combattere i Parti,106 Properzio demanda 103 Su cui vd. almeno Lilja 1965, 172-181; La Penna 1977, 116; Lyne 1980, 120-124; Papanghelis 1987, 135-138. 104 Per un sistematico esame lessicale della pericope vd. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1086-1096. 105 Circa la controversa semantica del participio aggettivale e le emendazioni variamente proposte rimando alle recenti messe a punto di James 2012, 428, n. 8 e di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 564-566. Il più acceso sostenitore del testo tràdito resta Maltby 1981, 243-247. Incline a serbare il testo è anche Allen 1989, 484, il quale valuta aperto come un’ipallage al posto di apertus. 106 Vd. Weeber 1977, 82.
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il delicato compito di celebrare l’amore coniugale a mulieris parte 107 tramite un’epistola in distici. Presumibilmente, sul lettore di età augustea la tensione generata dall’innesto di un profilo identitario su di uno antitetico (quello di una consorte di elevata condizione su quello di una puella elegiaca,108 inequivocabilmente docta 109) avrebbe potuto sortire notevoli effetti di straniamento, non fosse che, come dimostrato da alcuni anni a questa parte,110 sul finire del I sec. a.C. non esistevano cesure di sorta 111 nel lessico relativo alle unioni regolari e alle unioni de facto: uxor, vir, matrimonium, coniugium, nuptiae erano designazioni che, con l’intero repertorio di sostantivi e attributi afferenti al corrispettivo àmbito, si riferivano a sposi legittimi e partners in regime di contubernium, a vincoli matrimoniali e a forme di convivenza all’interno di coppie non sposate. Mediante il ricorso al codice epistolare e ad una mittente concepita come un’inattesa elegiac wife, Properzio si trovava nelle condizioni ideali per: 1) dotare una donna di rango della possibilità di dare libero sfogo ai sentimenti normativamente compressi in pubblico; 112 2) consentirle la manifestazione di questi ultimi tramite la scrittura poetica, non peculiare comunque delle donne di condizione sociale elevata; 113 3) procedere, attraverso un lessico comune a legitimae uxores e a puellae doctae, ad un esperimento combinatorio tra i corrispettivi prototipi, da tempo consolidati in letteratura.
107 Un’ ‘elegia al femminile’, quindi, secondo la felice formulazione di Rosati 1989, 30. 108 Non è mancato chi, come James 2012, 426, abbia considerato Aretusa una moglie che si esprime alla stregua di una puella elegiaca, guardando indietro «to the figure of the contracted courtesan in Propertius 3.20. Through the deliberate ambiguity with wich she is presented, Arethusa provides a bridge between the puellae of Books 1-3 and the range of women in Book 4». 109 Cfr. Janan 2001, 55 e n. 10. 110 Basti consultare i saggi di Rawson 1974, 279-305; Phang 2001, 91; James 2012, 425-444. 111 Cfr. Treggiari 1981, 74. 112 Sui caratteri costrittivi del comportamento di una matrona, vd. Bettini 1992, 137-138. 113 Cfr. Pomeroy 1978, 160.
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Credo abbia colto nel segno Günther 114 nell’intravvedere nella 4, 3 il punto di partenza di un diverso tipo di riflessione condotta sul tema dell’amore coniugale rispetto alla precedente esperienza poetica affrontata da Properzio, dato per scontato che la eheliche Liebe «costituisce l’espressione più importante del sentimento d’amore nel quarto libro».115 Il fatto è che, per la prima volta nella parabola dell’elegia latina, tocca ad una donna di ragguardevole rango rivelare i retroscena di quella che poteva essere la diffusa condizione uxoria nella stagione delle conquiste.116 Aretusa viene pertanto deputata ad un compito che nessun’altra eroina properziana dovrà riaffrontare in successione di tempo. Il suo resta uno sfogo atipico e circoscritto nella cornice del più sperimentale dei libri della silloge properziana, il quarto. È lei il nuovo personaggio esemplare, trascelto per discutere di un amore al crocevia fra passionalità e piena legittimità giuridica. Il ruolo istituzionale che il personaggio properziano formalmente riveste denuncia a priori il divario fra il suo ‘io elegiaco’ di legitima uxor romana e quello delle contigue ‘eredi’ mitiche ovidiane. D’altra parte, sia la cartografia della spedizione cui partecipa Licota sia l’elenco dei popoli che lo hanno visto durante le recenti marce giocano con il color quiritario dello sfondo, un color destinato, giocoforza, a dissolversi nei fondali delle lettere dal Sulmonese. Come quinte del recente itinerario battuto da Licota si avvicendano incursioni a Bactra e viaggi lungo i territori dei Neurici, dei Geti, dei Britanni e degli Indi (vv. 7-10); peraltro si segnalano ulteriori cenni all’Arasse (v. 35), oltre che alla capitale della Partia da conquistare (v. 63), ed auspici di un trionfo sui Parti (v. 68): l’innegabile ‘esotismo’ dell’intera descrizione, debitore di un immaginario diffuso nella Roma della fine del I sec. a.C.,117 filtra le suggestioni della pubblicistica bellica augustea,118 lad Mi riferisco a Günther 2006, 369. Così si esprime Dimundo 2014, 303. 116 Afferma Cairns 2006, 358: «A ‘patriotic’ piece offering a moralizing template for the attitudes and behaviour of any upper-class Roman matrona with a husband in the Roman army». 117 Cfr. Dee 1974, 83. 118 L’espressione vincendus Araxes contenuta in 4, 3, 35 lascerebbe dedurre che il testo sia precedente al 20 a.C., data dell’accordo stipulato da Augusto con 114
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dove del tutto realistico suona l’annuncio dell’offerta votiva delle armi di Licota reduce presso la porta Capena (v. 72). D’altronde non meno legati al mondo delle liturgie quiritarie appaiono i riferimenti alla devozione nei rispetti dei Lari e dei Lari Compitali deducibili dai vv. 54 e 57, seguiti dal ritratto del l’erba sabina che crepita sui vecchi focolari nel verso successivo.119 Le ripetute campagne cui il marito di Aretusa partecipa procurano vuoto e sofferenza a quest’ultima, preoccupata che egli non intenda serbare integri i foedera lecti e pronta ad ingiungergli il rispetto rigoroso degli stessi. Eppure, ancora in 3, 12 la voce autoriale di Properzio120 ammoniva Postumo, colpevole di aver seguito le insegne di Augusto a scopo di lucro 121 abbandonando la moglie (vv. 1-2), a non dubitare della sua fedeltà, talmente incrollabile da superare l’esempio di Penelope (vincit Penelopes Aelia Galla fidem v. 38). Lo scarto della voce narrante fra i due testi rivela la diversa visuale da cui la separazione tra due sposi viene interpretata e ri-narrata. Di sicuro un denominatore comune caratterizza questo dittico di elegie: ivi è possibile cogliere la ‘riduzione’ dell’istituto familiare al vincolo coniugale puro e semplice dove, in assenza di prole, è la coppia istituzionalmente sancita 122 a costituire il fulcro della narrazione. Dei tropi distintivi dell’amore elegiaco rimarranno comunque fortissime tracce nel ridisegno del vincolo coniugale al cui interno, per quanto concerne la componente femil sovrano dei Parti, Fraate IV, vd. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 66. Non si dimentichi che in Partia combatteva anche il protagonista maschile della 3, 12, Postumo (potabis galea fessus Araxis aquam v. 8), cfr. Hutchinson 2006, 109. 119 Analisi minuziosa della pericope in oggetto nel commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 572-577. Un ulteriore dettaglio circa gli usi liturgici romani si rintraccia poi ai vv. 61-62 del testo properziano, là dove Aretusa parla del sacrificio di agnelli di un anno la cui offerta sacrale procurerà ai succincti… popae fremiti al pensiero di un nuovo guadagno. 120 Da ultimo, insiste opportunamente sul mutamento del suddetto punto di vista Fedeli 2014, 380, nondimeno cfr. già Dee 1974, 81. 121 Vd. Prop. 3, 12, 3: Tantine ulla fuit spoliati gloria Parthi? 122 Il fatto che i protagonisti della 3, 12 siano personaggi realmente esistiti, laddove i protagonisti della 4, 3 apparirebbero fittizi, non intacca l’analogia situazionale tra i due componimenti dov’è il rapporto fra due sposi, sic et simpliciter, a venir declinato da Properzio, in un caso come narratore esterno, in un altro come internal writer (così Hutchinson 2006, 99) sotto le spoglie di Aretusa, eroina abbandonata, alle cui modalità espressive egli si conforma studiatamente.
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minile della coppia, un’influenza significativa avrà ad esercitare il paradigma della matrona lanifica e domiseda trasmessoci, ad es., dalla Lucrezia di Tito Livio,123 paradigma le cui ripercussioni si colgono nel corpus epigrafico di cui disponiamo.124 Era questo, del resto, il modello muliebre replicato e pubblicizzato dalla famiglia stessa di Augusto, a dar credito a Suet. Div. Aug. 64.125 Dal versante letterario tale iconografia subisce peraltro il condizionamento del ritratto archetipico della Penelope omerica, modello inarrivabile di fedeltà al marito, colta nell’adempimento del muliebre opus per eccellenza, la tessitura.126 Rileggendo sia l’elegia destinata a Postumo sia l’epistola di Aretusa a Licota si resta colpiti del restringersi del fuoco narrativo ai membri delle rispettive coppie sì da ridimensionare in modo significativo eventuali altre presenze. Per essere più precisi, direi addirittura che del tutto inesistenti risultano comprimari o tritagonisti nella 3, 12, laddove pressoché sbiadite appaiono le figure della sorella e della nutrice di Aretusa in 4, 3, talmente circoscritta è la loro incidenza sul tessuto e sullo sviluppo dell’elegia medesima. Tale effetto di ‘eliminazione’ o di ‘dissolvenza’ attanziale, che isola e potenzia sullo sfondo dei componimenti qui considerati le due coppie di sposi, ciascuna divisa dalle campagne militari in corso, accresce il senso di abbandono e di struggimento delle mogli cui neppure le solite mansioni procurano lenimento o distrazione. Con ogni probabilità l’adeguamento dei loro ritratti al profilo canonico della regina itacese andrà ricondotto ad un’aspi razione tenacemente perseguita dal poeta: non era forse quello di Cinzia intenta alla tessitura il paradigma di ‘riconversione’ figurale e comportamentale dell’amante auspicato da Properzio? Sì, certamente, ma non senza rischi.
123 Cfr. Liv. 1, 57, 9 su cui Ogilvie 1965, 222 ad loc. Sintesi della questione in Janan 2001, 62-64; Wyke 2002, 89-90; Dimundo 2014, 303. 124 Si consideri il caso notissimo di Claudia in CIL I2 1211, 8 (domum servavit, lanam fecit), su cui cfr. Petrocelli 1989, 100. 125 Sulla questione vd., da ultime, Janan 2001, 63; Wyke 2002, 86 con dossografia precedente. 126 Stando al motivato richiamo di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 549 ad loc.
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Per il perimetro ridotto della 1, 3, la domina aveva assunto le marche peculiari dell’uxor al telaio ingannando fra gli stami l’attesa del rientro del poeta (nam modo purpureo fallebam stamine somnum v. 41)127 e accreditandosi come donna virtuosa, lontana dalla vita mondana dell’Urbe e dalle sue attrattive. In questo autoritratto, Cinzia offre di sé al lettore un’immagine polare rispetto a quella che sin qui Properzio aveva costruito mediante l’elegia programmatica della Monobiblos e la 1, 2: ne sortisce il profilo di una donna d’altri tempi, senz’altro vicino a quello di una sposa fedele piuttosto che a quello di un’amante disinibita e irrequieta. Ne fanno fede le mansioni cui attende finché il sonno non la sopraffà, estenuata com’è dall’attesa che il poeta rientri dalle abituali scorribande notturne (vv. 39-40). Il femineus labor 128 (tessitura e, all’occorrenza, anche filatura) 129 vedrà in un’altra occasione Cinzia comportarsi come domiseda et lanifica. Nella 3, 6, forte delle conferme via via ottenute dallo schiavo Ligdamo, Properzio va tracciando il ritratto di una Cinzia trasandata e disadorna, fortemente provata per il tradimento subito, mentre tra le lacrime fila in compagnia delle ancelle, dedite a trarre la lana dai pennecchi in una casa dominata da un’atmosfera di generale mestizia (vv. 12 e 15).130 Anche qui l’eroina interviene in prima persona, sottolineando il contraccambio ricevuto per il suo comportamento incolpevole, l’abbandono (ille potest nullo miseram me linquere facto v. 21). Casta, innocente, intenta alle attività muliebri, la domina sem Secondo Wlosok 1967, 349: «Cynthia webt mit purpurnern Faden und singt zur orphischen Leier. In diesen erlesenen Attributen äussert sich die schon festgestellte Erhöhung des Geliebte. Cynthias Weben ist von einfacher Frauenund Mägdearbeit abgehoben. Es ist eine Betätigung, wie sie eine domina zusteht». Non a caso Fedeli 1980, 134 ad loc. sottolinea come Cinzia, fatta oggetto di confronto con le eroine mitiche, sia immaginata al telaio alla stregua di Elena (Il. 3, 125-126), Circe (Od. 10, 221-228), delle Ninfe (Od. 13, 107-108) e, in primis, di Penelope, la regina che in Ov. her. 1, 9-10 si descrive come Nec mihi quaerenti spatiosam fallere noctem / lassaret viduas pendula tela manus. 128 Definizione di Tib. 2, 1, 63, il quale collega sia la filatura sia la tessitura al mondo pastorale (vv. 61-66). 129 In merito Wlosok 1967, 349, n. 2, non manca di osservare «Zum Bild des spinnenden Hausfrau dagegen gehört der Kreis der emsigen Mägde, die einfache Wollen verarbeiten, z.B. Liv. 1, 57, 9, von Ovid fast. 2, 741 ff. weiter ausgestaltet; Tib. 1, 3, 84 ff.; vgl. Verg. Aen. 8, 408 ff.». Una documentata visione d’insieme in Petrocelli 1989, 99-102. 130 Sul tema vd. le incisive osservazioni di Rosati 1992, 88-89. 127
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bra aver perso i contrassegni identitari a lei solitamente attribuiti dal poeta, patendo un abbandono che, con analoghi moduli, sarà addebitato da Properzio a Postumo, un abbandono motivato, nella fattispecie, da ben altre ragioni, la duritia dell’uomo, pronto a seguire spedizioni militari a scopi di lucro (3, 12, 1): Postume, plorantem 131 potuisti linquere Gallam…?
Se in 1, 15, 24 Cinzia subiva l’accusa di non voler divenire anch’ella nobilis historia mutando le proprie abitudini, basta solo che in 1, 3 e in 3, 6 il poeta le dia la parola perché la situazione si capovolga e l’eroina ambisca a riguadagnare i titoli di fedeltà, integrità e onestà di cui è stata privata «ridistribu‹endo› torti e ragioni»132 secondo i propri parametri. Dall’ottica virile, il lanificio, attività primaria delle matrone, attesta quell’operosità casta in grado di rassicurare l’amante elegiaco garantendogli completa fedeltà da parte di colei che ama, non distratta da spasimanti, svaghi, lussi o occasioni mondane, al punto che Tibullo in 1, 3, 85-88 esorta Delia a serbarsi pura, custodita dalla sedula… anus che inganna il tempo narrando storie e traendo lunghi stami dalla conocchia ripiena, mentre l’ancella, tutta presa dai pennecchi, paulatim somno fessa remittat opus.133 Dall’ottica femminile, esso ribadisce altresì il possesso di quelle virtù e di quel tasso di credibilità sociale che una donna, benché non sposata e non di alta estrazione, può ugualmente preservare ispirandosi ad uno specimen corroborato da annosa tradizione e unanimemente considerato come prova di specchiata moralità. In tal senso, nel gioco delle parti del foedus elegiaco, in 3, 20, 7 le castae Palladis artes di cui Cinzia è provvista lascerebbero sperare in un suo mutamento radicale di abitudini e di intenti al quale il Properzio del terzo libro delle Elegie non intende più abdicare. 131 E plorans, nella scena della separazione dal marito, sarà anche Aretusa in 4, 3, 1, nondimeno il suo pianto dirotto avrà a mutarsi in struggimento motivato dalle dicerie infondate che corrono sul conto del marito (fama tabescet inani v. 9), esposto com’è Licota ai pericoli bellici (vv. 10-14), precorrendo i successivi spettri agitati dalla Laodamia ovidiana della tredicesima Eroide. 132 Per appropriarmi di un’espressione di Rosati 1992, 89. 133 Indugia sulle analogie tra Tib. 1, 3, 83-87 e Prop 4, 3, 41-42 il commento di Perrelli 2002, 119-120 ad loc.
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Ma qui, ancora una volta, l’eroina è sottoposta ad un giudizio unilaterale, che rientra nella logora deprecazione dell’inaffidabilità muliebre e che, per ridar vita alla relazione, necessita, come dicevo poc’anzi, di una riformulazione integrale. In atto Cinzia non gode dell’opportunità di contraddittorio. Dovremo attendere la 4, 7 e la 4, 8 per riascoltare la sua voce e la sua ‘verità’ sulle alterne fasi della relazione amorosa. Torniamo a Galla e ad Aretusa. Ambedue, dicevo, incarnano il prototipo della moglie fedele, attaccata al proprio ruolo ma, al contempo, ‘elegiacamente’ chiusa nell’amore totalizzante per il coniuge. In assenza di relazioni con il mondo esterno, la castità intemerata134 è ulteriormente legittimata dall’attaccamento esclusivo al marito per approdare a questo stesso in un circolo chiuso. Si tratta di esempi tangibili di fedeltà coniugale, dote che veniva «considerata come un dovere solo per la donna, e la facilità nel violarla come una colpa tipicamente femminile».135 D’altra parte, l’amore totalizzante, dimensione esclusiva del l’universo muliebre, rappresenta il rovescio della pluralità di impegni e di svaghi in cui gli uomini spendono il proprio tempo, contraendo lo spazio e le occasioni per la vita sentimentale. Con amaro disincanto avrà a cogliere l’inconciliabilità fra questi due Lebensbilder la Ero ovidiana in Her. 19, 9-18, denunciando gli interdetti alla vita pubblica e alle relazioni sociali comminati alle donne.136 Lo sbilanciamento affettivo di cui Ero, personaggio letterario, rimane vittima non è diverso dalla condizione cui sottostanno anche due mogli ‘romane’ come Galla e Aretusa che, vedendo ignorate le proprie richieste, le proprie proteste (si pensi al Galla multa rogante di Prop. 3, 12, 4 nonché all’Haecne marita fides? di 4, 3, 11), subendo le separazioni dai coniugi che combattono al fronte, struggendosi nell’attesa (si pensi a 3, 9, 10-12 per Elia 134 Aggiungerei che nello spazio elegiaco il valore accordato alla castità muliebre è talmente rilevante che Tib. 1, 6, 67-68 ammonisce la madre di Delia perché insegni alla figlia ad essere fedele, quantunque non indossi né la benda né la stola, insegne della condizione matronale. Riguardo ai legami che intercorrono tra questo passo tibulliano e vari stralci della produzione ovidiana vd. Perrelli 2002, 208-209 ad loc. 135 Di tale parere è Fedeli 2014, 380. 136 Sulla qualcosa interviene con calzanti rilievi Rosati 1989, 41-43; Id. 1996, 163-171.
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Galla) dei loro ritorni fra le fantasticherie più cupe, sembrano aver via via assorbito i tormenti e le ansie delle relictae elegiache.137 L’amore matronale138 per il marito, fatto di doveri, di senso di responsabilità, ma anche di un comune progetto educativo nei riguardi della prole, resta estraneo alle angosce e alle inquietudini di Galla verso Postumo e di Aretusa verso Licota per le quali l’assenza di communia pignora (4, 11, 73) assolutizza la dedizione uxoria tradotta nell’indefettibile preservazione del l’integrità fisica. Guardiamo al tessuto linguistico della prima delle due elegie. Ivi gli epiteti casta (vv. 15 e 37) e pudica (v. 23) contraddistinguono emblematicamente la protagonista al punto da farne una miranda coniunx (v. 23) in grado a sua volta di trasformare Postumo in alter… Ulixes (ibid.),139 quell’Ulisse le cui peregrinazioni non avevano compromesso il saldo rapporto con Penelope né avevano intaccato la fedeltà di quest’ultima. L’omaggio alla fides coniugale di Elia Galla, motivo conduttore del testo,140 muove dalla maledizione diretta alla categoria degli avidi – nella quale rientra Postumo, mosso com’è dai guadagni che il bottino partico può assicurare (v. 3) – pronti ad anteporre le armi ad un fidus… torus (v. 6), ossia all’emblema stesso di un matrimonio solido qual è, a tutti gli effetti, quello che lega l’eroina di 3, 12 allo sposo. Il distacco da Postumo non potrà comunque rendere la moglie sensibile ai doni di altri uomini: alla descrizione segmentata dell’equipaggiamento bellico dell’uno (lacerna v. 7; galea v. 8; aurato… equo v. 12) fa riscontro la compatta descrizione Non immotivatamente Günther 2006, 367 evidenzia come nella 4, 3 sia riadattato lo stereotipo dei monologhi delle eroine abbandonate del mito greco su traccia catulliana (c. 64, 132 ss.). 138 Contro la communis opinio di un’estrazione senatoria di Elia Galla (vd., e.g., Bonamente 2004, 32-33) si è pronunciato Eck 2014, 8-10, per il quale il rango equestre del marito fugherebbe dubbi circa l’effettivo ordo di appartenenza della donna, parente di Elio Gallo, secondo prefetto d’Egitto. Ritornano all’ipotesi della provenienza senatoria di Postumo, Keith 2013, 99 e Holzberg 2014, 290-291. 139 Traccia una sintesi della funzione del correlativo mitico nella presentazione della coppia Elia Galla/Postumo, Komp 1988, 238, n. 1. 140 Come ben sottolineato da Boucher 19802, 97 e, più di recente, da Stahl 1985, 263 e da Moretti 1995, 84-85. 137
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dell’ ‘armatura etica’ dell’altra, insensibile ai regali in una città maestra di lussuria proprio in virtù della sua fedeltà esemplare. I verbi selezionati dal poeta per descrivere la condotta della donna rientrano nel dominio semantico militare (munita v. 17; v. 19 vincent, ripreso in chiusa di componimento, dal vincit del v. 38) 141 onde ‘capovolgere’ l’opzione di Postumo,142 ossia il primato tributato alle armi anziché ad un fidus… torus. Con il suo comportamento Galla contrappunterà e ribalterà la scelta compiuta dal marito, mostrando come in una coppia la preservazione dell’integrità del talamo costituisca la scelta poziore… almeno per una donna. Con la 4, 3 Properzio compie, com’è noto,143 un significativo passo in avanti affidando alla mittente dell’epistola il commento diaristico del distacco dal marito, oltre che delle alterne emozioni che da quel momento in poi hanno segnato la sua esistenza. Date per acquisite le isotopie che legano l’elegia in esame alla 3, 12,144 vorrei soffermarmi, là dove frammentariamente il testo lo consenta, sul ruolo che il matrimonio riveste nella visuale della protagonista,145 un tema, questo, che a ridosso della coeva legislazione augustea in materia, acquista un significato pregnante. Aretusa esordisce con un proclama che, in senso stretto, ha relativamente poco di coniugale (vv. 1-2): 146 Haec Arethusa suo mittit mandata Lycotae , cum totiens absis, si potes esse meus. Osservazione, questa, di Nethercut 1970, 99. Definito, non a caso, vesanus dal poeta al v. 7. 143 In merito, basti riportare l’osservazione di Fedeli 2014, 379-380: «A una donna, dunque, Properzio affida il compito di riflettere su un aspetto significativo della condizione femminile, e lo fa conferendole ora i tratti della matrona, ora quelli dell’amante passionale: si tratta, in definitiva, degli stessi estremi fra i quali si muoveva, nei primi tre libri, la caratterizzazione di Cinzia; solo che ora si assiste ad un significativo spostamento del punto di vista». 144 Ossia: riferimenti alle rispettive campagne militari dei mariti (3, 12, 1-4 // 4, 3, 7-10); dirae contro i responsabili del distacco forzato di questi ultimi (3, 12, 5-6 // 4, 3, 19-22); timore che la baldanza e le lusinghe della gloria in battaglia possano essere fatali (3, 12, 9-16 // 4, 3, 63-69); cfr. Becker 1971, 470; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 506. 145 Che per Günther 2006, 367 costituisce uno dei nuclei tematici basilari del quarto libro properziano. 146 Sul l’attacco paradigmatico della missiva rimando alle notazioni di Reitzenstein 1936, 20. 141 142
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Se ancora i mandata possono perfettamente rientrare nelle consuetudini della vita matrimoniale, le disposizioni 147 della moglie al marito, l’equivalenza implicita postulata dal pentametro, per cui ‘possesso’ equivale a ‘presenza continua’, ha tutta l’aria di suonare come un predicato elegiaco. Posto che l’assenza dell’uomo amato (partner o sposo che sia) rappresenterà una tematica centrale nelle Heroides ovidiane,148 nella lettera di Aretusa l’assenza del marito si erige al ruolo di ‘motore archetipico’ 149 del gesto epistolare nonché a suo tema conduttore, tanto più che là dove si arresta la fides dovuta comunque ad un partner e a lui richiesta, subentrano gli obblighi previsti da una fides marita, preposta alla rigida tutela di precisi doveri fra coniugi. La donna non ha accanto a sé il marito, non lo vede. A vederlo sono stati di recente i paesi e i nemici contro cui combatte (vv. 7-10),150 non lei che constata l’infrazione della fedeltà coniugale (v. 11). La distanza fisica fra i due sposi non viene ridimensionata neanche dall’epistola, l’unico mezzo di comunicazione loro consentito, visto che i suoi tempi di redazione e spedizione risultano ‘tragicamente’ sfalsati rispetto alle aspettative della mittente: la polarità verbale tra il presente in cui Aretusa scrive e il futuro in cui Licota riceverà le sue righe e potrà leggerle (mittit v. 1; absis v. 2; potes esse ibid. // tibi lecturo v. 3; derit ibid.; erit… facta v. 4; fallet v. 5; erunt v. 6) – un arco temporale abbreviato da recenti trascorsi cui comunque la donna non ha potuto assistere (modo viderunt v. 7; modo v. 8) – mantiene indefinitamente prospettico lo stato emotivo in cui ella versa, laddove non esiste neppure certezza che il destinatario
Nulla resta ormai da aggiungere all’esegesi di mandata data dal commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 516-517. Vorrei solo segnalare la persistenza del loro impiego da parte di un’altra eroina che condivide con Aretusa la condizione di moglie, Laodamia (Ov. her. 13, 7: mandataque plura dedissem), ma anche da parte di una domina defunta, quale la Cinzia di Prop. 4, 7, 71 (sed tibi nunc mandata damus). 148 Come rilevato da Rosati 1996, 192. 149 Posto che ormai sia data per scontata l’anteriorità di Prop. 4, 3 rispetto alle Heroides ovidiane, come ribadisce, pur con sana problematicità, il commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 508. 150 Riproduco qui il testo secondo i convincenti ritocchi proposti da Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 523-530. Sviluppa un serrato confronto fra questi versi e Cat. c. 11, 1-12, Janan 2001, 56-57. 147
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possa e debba leggere le sue righe riattivando in qualche maniera i contatti interrotti. Nell’immaginario femminile, ripeto, assenza implica perdita di possesso,151 nondimeno, nel caso di Aretusa, la periodicità delle spedizioni di Licota (totiens v. 2; texitur haec castris quarta lacerna tuis v. 18) trasforma un distacco circoscritto in uno indefinito nel tempo, per cui solo l’accesso agli accampamenti, invano auspicato per le fanciulle romane (v. 45), potrebbe arrecare conforto all’eroina properziana, anche a prezzo di vedersi nel ruolo di militiae sarcina fida (v. 46).152 Le fantasie della mittente dell’epistola devono fare i conti con la sua condizione di moglie e di donna di rango: in effetti, per le dominae elegiache era sì possibile seguire l’amato anche tra i freddi e i rischi per mare (si pensi a Prop. 1, 8, 3-8 e a Verg. Ecl. 10, 22-23),153 tuttavia almeno sino alla fine della Repubblica l’eventualità che le spose accompagnassero in guerra i mariti, per venire poi accolte negli accampamenti, era considerata riprovevole. Si consideri l’inattesa dichiarazione di Aretusa ai vv. 47-48 della missiva, dove si appura della sua disponibilità a sfidare i fiumi ghiacciati della Scizia pur di riguadagnare la vicinanza di Licota, se solo gli accampamenti fossero stati aperti alle donne: nec me tardarent Scythiae iuga, cum Pater altas adstricto in glaciem frigore vertit aquas.
Aretusa dà voce ad una rêverie irrealizzabile, fine a sé stessa, di cui risulta consapevole, come, sul piano sintattico rivela l’uso di utinam + cong. piuccheperfetto, seguito dal cong. imperfetto (utinam patuissent … / … / nec… tardarent). Peraltro, nella cartografia abbozzata in Prop. 1, 8, 7-8, le positae… pruinae e le insolitae… nives in cui Cinzia è destinata ad imbattersi rimodulano in termini generici, confinanti con la ste151 Il che si ripropone, sotto altre forme per Ero in Ov. her. 19, 70 (cur totiens a me, lente morator, abes?). 152 Si pensi ad Ov. her. 3, 68: Non ego sum classi sarcina magna tuae: qui, comunque, a parlare è una schiava, per giunta troiana. Briseide mostra piena consapevolezza della propria condizione, sottolineando di voler seguire Achille in qualità di prigioniera, non nupta maritum (v. 69). Nella finzione letteraria Ovidio trasforma l’interdetto romano al comitatus viri imposto alle mogli dei soldati. 153 Ne ho discusso in Landolfi 2014, 99-102.
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reotipia e l’astrazione, i più concreti Realien delle Alpinae… nives e dei frigora Rheni descritti a proposito dell’itinerario battuto da Licoride in Verg. buc. 10, 47. Adesso, Il poeta Umbro innova il pattern introdotto da Cornelio Gallo,154 reimpiegando la cornice geografica di un proverbiale placito erotico (3, 16, 13-14), stando al quale ogni innamorato può percorrere le plaghe scitiche 155 senza incorrere in attentati alla propria incolumità,156 il che non mi pare sia stato ancora rilevato: quisquis amator erit, Scythicis licet ambulet oris, nemo ‹a›deo ut noceat barbarus esse volet.
Nella 4, 3 la Scizia, popolata da barbari, è restituita alla sua fisionomia geoclimatica per indicare le zone estreme e per posizione e per gelo che una moglie esemplare, qual è Aretusa, non esiterebbe ad attraversare pur di ricongiungersi al marito. Lo stereotipo del sommo rigore invernale incrocia lo stereotipo del sito lontano, proverbialmente rischioso, che per amore chiunque potrebbe percorrere restando comunque illeso. Non a caso Aretusa non è neanche sfiorata dal pensiero di incontri pericolosi: presa com’è dall’amore per Licota (e, direi, inviolabile com’è in virtù di tale sentimento), considera solo l’inclemenza delle temperature scitiche che non sembrano comunque spaventarla. Di fatto, al di là delle fantasticherie, a cingere la donna sono esclusivamente le mura domestiche,157 come si desume dalla descrizione delle porte da cui pendono infauste offerte votive (v. 17), per proseguire con l’immagine del letto vuoto le cui Rinvio, ancora una volta, a Landolfi 2014, 99-102. Giustamente Stok 2012, 159 osserva: «Alla definizione di una ‘barbarie’ caratterizzata da estraneità e/o avversione all’amore elegiaco fa riscontro, come… nel caso della 3, 16, la permeabilità delle popolazioni barbariche al codice elegiaco». 156 Vd. Fedeli 1985, 500-503. 157 Sul cumulo di dettagli domestici nel connettivo di quest’elegia, rappre sentativo del modo in cui Properzio cerca di ricostruire il mondo di Aretusa, internal writer, indugia Hutchinson 2006, 100. Sulla paradossale condizione del l’eroina, le cui mansioni muliebri risultano ormai cronologicamente ed economicamente superflue in relazione al mondo circostante, si sofferma Janan 2001, 63, in una lettura del componimento in chiave di Gender Studies, per rilevare come il contesto che la vede protagonista viva del contrasto fra gli uomini, tesi alla ricerca del mondo, e le ‘buone donne’ allineate con la rinuncia al mondo. 154 155
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coperte non restano ferme (v. 32) e concludere con la visione spettrale del silenzio che regna in casa, lì dove solo una volta l’anno la schiava addetta apre il sacello dei Lari nella data prestabilita come in Tib. 2, 1, 59-60 tocca fare al puer di turno. Ai dati desunti dalla quotidianità si addizionano i cenni al confezionamento dei mantelli da guerra per Licota (v. 18) e alla preparazione dei suoi panni militari nelle notti d’inverno (v. 33), oltre che delle strisce di lana tinte di porpora destinate a reggere la sua spada (v. 34).158 Alla chiusura dello spazio, divenuto quasi claustrale, corrisponde lo spegnersi delle voci, come rivela l’emistichio iniziale del v. 53: omnia surda tacent. Ad interrompere questa sorta di non-vita, ripiegata nell’attesa, stanno da un lato gli spergiuri della nutrice, al cui dire il ritardo di Licota nel far ritorno a casa è motivato dalla stagione invernale (vv. 41-42),159 dall’altro i versi degli animali (Craugide, la cagnetta al v. 55; la nottola sulla trave vicina al v. 59), surroghe di un’esigenza dialogica che Aretusa manifesta riducendola comunque allo sfogo monologico dell’epistola il cui destinatario non può che essere il marito, l’unico con cui ambirebbe parlare da vicino. La presenza stessa della sorella al v. 42 dell’elegia (assidet una soror) sembra riferirsi ad una compagnia precipuamente fisica che potremmo immaginare pure come consolatoria, ma in sostanza il personaggio risulta del tutto statico. Sin dall’esordio della missiva, nel descrivere il gesto della sua stesura, Aretusa tradisce atteggiamenti e gesti formalizzati, a breve lasso di tempo, dalla silloge delle Heroides, basti pensare al cenno alla cancellatura delle righe appena vergate prodotta dalle lacrime.160 Se, com’è stato dimostrato da tempo, le protagoniste della raccolta ovidiana aspirano alla regolarizzazione del 158 L’espressione in gladios vellera secta è stata definitivamente chiarita dal commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 550 ad loc. 159 Riguardo alla figura della nutrice dettagli in Hutchinson 2006, 109-110. 160 Sulla deteriorabilità del materiale scrittorio di queste missive vd. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 519 contro l’ipotesi che qui ci si riferisca a tavolette scrittorie propugnata da Moretti 1995, 83. Le liturae descritte nelle epistole ovidiane (su cui vd. Merklin 1968, 463-464) ricorrono di frequente nelle singole missive della raccolta, da her. 3, 3 a 15, 97-98, per non parlare di 7, 183-186 e 11, 1-4 dove al pianto si sovrappone l’immagine del sangue corrosivo, indizio delle intenzioni suicide delle rispettive mittenti (sul che interveniva già Reitzenstein 1936, 20-21).
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rapporto amoroso nelle forme rassicuranti del matrimonio,161 viceversa, ad onta del proprio ruolo giuridico, Aretusa rivela un’emotività e un’insicurezza tali da ricondurla inequivocabilmente al modello dell’amante elegiaca tormentata dalle possibili infedeltà del partner,162 come la più volte ricordata Cinzia di Prop. 1, 3; 3, 6 (e, con adeguata ricontestualizzazione, della 4, 8). Non reputerei una coincidenza quella per cui ansie analoghe agitino, a loro volta, almeno quattro delle uxores relictae ovidiane, ossia Penelope (her. 1, 75-76; 107-108; 112), Issipile (her. 6, 111-112), Deianira (her. 9, 47-54), Medea (her. 12, 193-198). Vittima di spettri, l’eroina properziana auspica di non dover intravvedere sul collo di Licota i segni dei morsi di un’amante (vv. 25-26), preferendo piuttosto che i lividi visibili sul suo corpo siano prodotti dall’azione della corazza e quelli presenti sulle palme delle mani dall’uso dell’asta (vv. 23-24). In crescendo, Aretusa vorrebbe poter attribuire alla nostalgia provata per lei (vv. 27-28) persino lo smagrimento del volto del marito di cui le giunge voce,163 reinterpretando le dure prove della guerra come altrettanti impedimenti alle infedeltà. In tale sorta di transfert psicologico trova posto il meccanismo di elegicizzazione dell’amato,164 la cui immagine assume i tratti delicati e bisognosi di protezione che solo un io elegiaco femminile saprebbe immaginare. Pertanto le membra resistenti del soldato, destinate alle fatiche e allo sprezzo del pericolo, vengono qualificate attraverso epiteti comuni nella Liebesprache, come confermano due nessi quali teneri… lacerti (v. 23) e imbelles… manus (v. 24) al posto degli attesi, e testimoniati, validi… lacerti 165 o 161 Alludo alle pagine di Scivoletto 1976, 103-104, il quale riporta i passi di her. 5, 85; 9, 132 e 137; più di recente si veda Rosati 1992, 84-85. 162 Il che, per antitesi, viene ribadito dal poeta stesso in 1, 18, 10 (an nova tristitiae causa puella tuae?) ma come convinzione infondata di cui Cinzia si è indebitamente persuasa. 163 Q ualche probabilità di cogliere nel vero ha l’ipotesi di Alfonsi 1958, 357 che qui Ovidio abbia potuto attingere, pur nella diffusione del cliché, ai frr. 17-18 del poemetto leviano intitolato Protesilaudamia. 164 Spunti, in tal senso, nelle indagini di Janan 2001, 58-59; 64; Wyke 2002, 90. 165 A partire da Lucr. 4, 829, la giuntura diviene comune in poesia augu stea nei ritratti di eroi intenti in aristie, basti considerare Ov. her. 3, 125 e 4, 81
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aptae… manus.166 A riscontro del primo indicherei il parallelo di Tib. 1, 2, 75 (teneris… lacertis), inserito nel quadro di un amplesso con Delia, e di 1, 5, 43, dove, addirittura la qualifica è apposta alla donna amata, a tal punto l’epiteto reca in sé l’idea di una delicatezza muliebre, né più né meno che in Prop. 3, 6, 13 e in Ov. am. 1, 13, 5.167 A riscontro del secondo segnalerei il caso di Ov. ars 1, 693. Di fatto, quantunque rientri nella casistica ‘aperto in coniuge maior’ (v. 49) a fronte del riconoscimento della grandezza di qualunque amore, anche l’amore per Licota risulta un sentimento sbilanciato, asimmetrico. Tanto basta perché, meccanicamente, esso venga materiato delle situazioni e degli atteggiamenti che quasi venticinque anni fa Rosati ha individuato come tratti comuni, come omologia di ruoli o di dinamiche psicologiche individuabile fra le eroine elegiache e il poeta-amante elegiaco.168 Così anche le notti dell’eroina properziana, presentate come amare (at mihi cum noctes induxit vesper amaras v. 29), rimano con quelle di Cinzia lasciata sola in casa dall’amante (1, 3, 37-40), perché già il prototipo della domina elegiaca ha assorbita e fatta propria l’esperienza che di norma spetta al poeta, trascorrere notti solitarie, struggendosi al pensiero dei tradimenti (noctes… amaras 1, 1, 33).169 Un meccanismo di ricorsività a catena che investe ruoli dispari, condizioni giuridiche diverse, sessi opposti sino alla sovrapposizione psicologica e identitaria. Della consapevolezza comune del vincolo coniugale, della concordia di intenti che dovrebbero presiedere e regolare un’unione legalmente sancita cosa resta di fatto nella 4, 3? Nulla. Non solo le fasi della cerimonia nuziale sono ripercorse alla ricerca degli omina che hanno potuto condizionare la marita fides e la prolungata lontananza di Licota, dalla fiaccola del corteo (v. 13) alla benda disposta inopportunamente sul capo della sposa (vv. 15-16), per giungere alla conclusione del mancato favore di Imeneo alla litur(al singolare); med. 75; met. 5, 422 e 12, 368 (anche qui al singolare), 9, 223; fast. 2, 11 (ancora al singolare), 6, 719. 166 Nel passo properziano, imbellis equivale infatti a ‘inadatto alla guerra’, come rubrica il Th.l.L. VII 1, 419, 50 ss. 167 E, ancora, il nesso si ripropone in Ov. her. 18, 213 e ars 1, 231. 168 Cfr. Rosati 1992, 73-91. 169 Vd. peraltro Prop. 1, 12, 13-14.
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gia nuziale (nupsi non comitante deo v. 16),170 ma non un cenno di Aretusa è inteso a rievocare il quotidiano condiviso con il marito, a richiamare la sua attenzione su ricordi comuni o esperienze comuni. In effetti, un identico destino sembrerebbe accomunare l’eroina properziana e il personaggio ovidiano di Laodamia,171 ossia la separazione dal coniuge al l’indomani delle nozze. Si tratta, naturalmente, di un’inferenza da parte del lettore, tuttavia come spiegare altrimenti il fugace schizzo della prima notte (cum rudis urgenti bracchia victa dedi? v. 12) cui nella 4, 3 non fa seguito alcuna allusione a trascorsi domestici condivisi con Licota? Q uest’ultimo risulta impegnato al fronte per quattro anni di seguito (texitur haec castris quarta lacerna tuis v. 18) tanto che alla moglie non resta che informarsi dei paesi in cui combatte tramite strumenti cartografici (v. 37). L’attesa del suo ritorno si fa bruciante. Proprio al termine dell’epistola il lettore avrà modo di cogliere la ripresa e il potenziamento del tema conduttore del componimento, la fedeltà coniugale. L’unica condizione posta da Aretusa al desiderio che il marito ritorni (hac… sola lege v. 71) consiste infatti nella preservazione degli incorrupta mei… foedera lecti (v. 70). La struttura aurea dell’esametro, dominata dal performativo conserva, vede annodati in cerchi concentrici due nessi a ponte quali incorrupta… foedera e mei… lecti. Il meus incipitario con cui era stato qualificato Licota (v. 2) si riverbera e si correla ora all’indicazione del talamo, che, per il vincolo giuridico stretto fra i due sposi, è di esclusivo possesso della moglie. Nel linguaggio elegiaco la clausola foedera lecti subisce un’importante risignificazione: Tibullo l’aveva adottata in 1, 5, 7 in rapporto al carattere specifico della relazione con Delia, un furtivus… lectus,172 una relazione illegittima coltivata nell’ombra come quella celebrata nella 1, 2. Ovidio, a sua volta, se ne riapproprierà in her. 5, 101 per riferirsi all’oltraggio arrecato al talamo nuziale 170 In proposito si consulti la documentata nota di commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 538. La ‘religiosità’ di Aretusa è indagata da Reitzenstein 1936, 29-30. 171 Delle isotopie e delle distopie fra le due eroine ho trattato in Landolfi 2000, 170-177. 172 Riguardo l’esatta caratura semantica di questa giuntura rinvio a Perrelli 2002, 165-166.
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di Menelao (temerati foedera lecti) e, soprattutto, per aprire l’apostrofe di Procri morente a Cefalo in met. 7, 852 affinché nel letto condiviso con il marito non abbia ad entrare la supposta rivale (per nostri foedera lecti), riprendendo un’espressione cui lo stesso Cefalo aveva fatto ricorso un centinaio di versi prima (v. 710), protestando una totale dedizione alla moglie. Q uest’itinerario, che vede la clausola in esame specificarsi via via in riferimento all’istituto matrimoniale, trova nel proclama di Aretusa il proprio snodo e, insieme, il proprio sigillo, senza che per questo foedus disperda l’originario significato rivestito nel lessico amoroso. Anzi la ‘bipolarità’ che il termine foedus rivela in connessione ai due settori specifici di pertinenza, l’erotico e il coniugale, nel caso della nostra eroina concorre a porre in rilievo la dialettica interna alla sua fisionomia, tradotta nella creazione letteraria di un’elegiac wife. Nella 4, 3 l’auspicio indirizzato a Licota perché partecipi al corteo del trionfatore,173 dopo la sconfitta inflitta ai Parti,174 facendo rientro in patria, sottostà ad un’unica condizione, ad una lex,175 lemma proprio del linguaggio giuridico in linea con l’accezione, precedentemente ricordata, della clausola foedera lecti. L’insistenza della protagonista su di un registro espressivo ‘legalistico’ non sembra preterintenzionale né all’interno del contesto qui esaminato, né in relazione alla formula legis dettata da Cinzia nella 4, 8 176 e, ancor prima, ai foedera, ai iura, alla lex richiamati da Properzio in 3, 20, 15-17 e 21 a difesa della fedeltà che deve legare lui e la sua donna reciprocamente. Da versanti opposti, la fides e il foedus restano perni irrinunciabili su cui costruire un’unione fra un uomo e una donna, quali che siano le formule prescelte dalla coeva normativa augustea in tema di unioni coniugali e di adulteri. A riaffermare la bipolarità dello statuto letterario di Aretusa – ‘personaggio di confine’, se mi si
Insignito della pura… hasta (v. 69), id est sine ferro, come chiosa Servio a proposito di Verg. Aen. 6, 760. 174 In apparente dimenticanza della parenesi antieroica dispiegata al v. 63, cfr. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 586. 175 Vd. OLD s.v. [12c]: «hac, ea lege, on these terms» richiamato nel l’In troduzione del commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 91. 176 Indixit leges (v. 81). 173
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consente l’espressione – concorre il lessico da lei prescelto nel l’epigrafe di dedica della panoplia di Licota (v. 72):177 subscribam: ‘SALVO GRATA PUELLA VIRO’.
A mio parere, in considerazione del parziale rimaneggiamento di Prop. 3, 3, 20 (quem legat exspectans sola puella virum), non è sufficiente osservare, come fa Hutchinson, che «The phrase does not emphasize marriage».178 Q ui l’uso anfibio dei determinati, non a caso posti a contatto (puella viro), preceduti dai rispettivi determinanti (salvo 179 grata), con emboîtement di una clausola nell’altra, gioca con designazioni generiche, attinenti a qualsiasi tipologia di rapporto sentimentale fra una donna ed un uomo, in specie alle relazioni di tipo elegiaco. Uno sguardo anche sommario ai brani di Ps.-Tib. 3, 4, 52 e 58 e di Ov. am. 1, 7, 38; 9, 6, in cui ricorre l’identica sequenza riavvicinata dei due termini, non fa dubitare dell’anagrafe biotica della formula properziana, rimbalzata in her. 4, 2 e in ars 1, 54; 682; rem. 554; 608; tr. 2, 1, 384. Nel suo essere elegiac wife Aretusa concepisce un’iscrizione di ringraziamento agli dèi perfettamente ascrivibile ad un’amante elegiaca: 180 se in essa si può certamente cogliere un’esemplarità valevole «per ogni tipo di legame amoroso tra una donna (puella) e il suo uomo (viro)»,181 da un lato la radice letteraria del lessico utilizzato, dall’altro la persistenza di atteggiamenti e modalità espressive propri delle puellae elegiache nella figura di Aretusa confermano il tono allusivo con cui Properzio in 4, 3, 72 sigla e ratifica l’ambiguo statuto della sua eroina. Ma le contraddizioni irrisolte, le tensioni latenti e patenti addensatesi nella costruzione della figura di Aretusa troveranno 177 Presso la porta Capena, eretta all’inizio della Via Appia, tramite di collegamento tra Roma e Brindisi, onde imbarcarsi per la Grecia e l’Oriente, o da lì far ritorno nell’Urbe, cfr. Butler – Barber 19662, 343; Hutchinson 2006, 115. 178 Così Hutchinson 2006, 118. 179 Negli ultimi decenni, il fatto che qui l’epiteto salvus vada inteso al contempo come ‘salvo’ e ‘fedele’ è stato ribadito da Heyworth 1999, 80, per il quale «salvo is rendered ambiguous by Propertian usage». 180 Della cui fisionomia Aretusa non serba né le caratteristiche della volubilità né quelle dell’infedeltà, cfr. Günther 2006, 369. 181 In tali termini si esprime il commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 591 ad loc.
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modo di comporsi a breve. Con il personaggio di Cornelia l’autore mostrerà al proprio pubblico la fisionomia coesa e organica di una matrona pienamente integrata nel vigente clima di restaurazione, insensibile alle pulsioni dell’eros elegiaco, assorbita dai valori assiali della famiglia e della maternità, del decus gentilizio e della pudicizia di cui fa pubblico, motivato vanto dalle sedi infere cui ormai appartiene.
3. Magnae pars imitanda domus (Prop. 4, 11, 44). Cornelia, paradigma dell’etica della famiglia Nec mea mutata est aetas, sine crimine tota est. Viximus insignes inter utramque facem. (Prop. 4, 11, 44-45)
Dalle fiaccole nuziali a quelle funebri: 182 l’arco esistenziale di Cornelia, l’aristocratica protagonista della 4, 11,183 non conosce mutamenti dal momento delle nozze a quello della morte, segnata com’è da una condotta immacolata (sine crimine v. 44),184 contrassegno di esemplarità specifica (pars imitanda v. 44) all’interno di una stirpe meritatamente illustre (magnae… domus, ibid.,185 ma vd. già currus avorum v. 12). Marcati accenti autocelebrativi contraddistinguono l’arringa da lei pronunciata 186 nel tribunale infero,187 una vera e propria laudatio funebris,188 per tanti versi, che si snoda a partire dal v. 17, 182 Circa la bipolarità dell’uso delle faces vd. il materiale raccolto da Shackleton Bailey 1956, 315-316. 183 Le cui ascendenze, per parte di padre e di madre, sono valutate in modo congruo da Hubbard 1974, 147. 184 Siamo ben distanti dalle faces menzionate da Aretusa, che attingono ad un unico, ominoso repertorio figurativo (4, 3, 13-14). 185 Sul tema cfr. Hallett 1985, 80. 186 Evenienza, questa, stigmatizzata da Val. Max. 8, 3, 2, in netto dissenso nei riguardi di quelle donne, come Mesia Sentinate, Caia Afrania, Ortensia, pronte a difendersi in prima persona in tribunale (sul che vd. Bettini 1992, 143, n. 35). 187 In proposito da ultimi si pronunziano Janan 2001, 146-163; Lentano 2012, 117-133. 188 Che tale sia la cifra distintiva dell’elegia in oggetto ribadisce il commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1272-1273, ma vd. già le indicazioni di Reitzenstein 1969, 128. Ad ogni modo, non sarebbe questa la prima laudatio funebris di una Cornelia, a giudicare dal discorso tenuto da Cesare per la moglie
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dove due attributi litotici intrastichici (immatura… non noxia) dichiarano la scomparsa prematura e il profilo etico della protagonista, morta anzitempo sì, ma giunta incolpevole al verdetto sul suo destino ultraterreno, per il quale non invoca né intende invocare mollia iura (v. 18),189 valendosi di garanti irreprensibili della propria castità, gli antenati maschili della stirpe, chiamati a testimoni al v. 37 del testo in predicato (testor maiorum cineres tibi, Roma, colendos).190 Il severo rispetto della pudicizia e della fedeltà maritale, che la lex Iulia de adulteriis coercendis 191 avrebbe mirato a tutelare con la repressione di adulteria (e forse anche di stupra),192 oltre che di forme di lenocinium, sarà orgogliosamente presentato da Cornelia quale dono di natura che la distingue in quanto membro di una celebre casata,193 senza che gli effetti minatori della coeva legislazione intervengano a migliorare la sua condotta nel timore di un giudice (vv. 47-48). Tale ‘predisposizione naturale’ alla pudicizia deriva in prima istanza dal codice etico della gens Cornelia,194 dall’insieme dei defunta, come precisa, dal canto suo, Dufallo 2003, 172. Proprio sotto forma di tributo funebre la società e la letteratura di età augustea pone in luce il crescente ruolo delle donne, come, per parte propria, rileva Hallett 1985, 74. 189 Ossia ἄωρος, ma incolpevole (cfr. Waszink 1949, 107-112), motivo per cui la matrona aspirerebbe a venir traghettata sull’altra sponda per non dover attendere il compimento dell’ideale durata della sua esistenza. Sull’opportunità di ritoccare poi il tràdito det Pater in nec precor vd. la dirimente presa di posizione di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1307 ad loc. 190 Ad insistere su questo versante del discorso di Cornelia è Lentano 2012, 118-122. 191 Primo semestre del 16 a.C., a detta del recente quanto documentato volume di Spagnuolo Vigorita 2010, 34, cui replica Buongiorno 2013, 273-290, retrodatando la legge suddetta al giugno-luglio del 17 a.C. 192 Seguo qui il disegno della legge in questione ricostruito da Spagnuolo Vigorita 2010, 33. Val la pena peraltro di riportare una puntualizzazione di McGynn 1991, 336, n. 8, stando alla quale nel pensiero giuridico romano «Thus marriage and concubinage were supposed to be mutually exclusive». 193 Cfr. Newman 1997, 334. Opportuna l’osservazione, avanzata da Hallett 1985, 74, in base a cui «At this time (i.e. at time of Augustus) nobilitas begins to be reckoned through mothers as well as fathers; elite children begin to receive mothers’ fathers’ – and not necessarily fathers’ (and fathers’ fathers’) – names. Daughters no less than sons of senators are prohibited from, and punished for, infractions of Augustus’ marital legislation». 194 Sulla paternità di Cornelia, resa intricata dall’assenza di riferimenti alla sua data di nascita e dalla presenza di due mariti succedutisi a fianco della madre
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principi familiari di cui la defunta è, al tempo stesso, depositaria e icona. Una sorta di eredità ‘ematica’, giustamente sottolineata da Hutchinson,195 che l’eroina rivendica all’interno di un albero genealogico 196 nel quale non sfigura, presentandosi come consapevolmente degna di illustri memorie (vv. 41-44; 49-54). In contrasto con il quadro fosco dei fecunda culpae saecula, rei di aver contaminato genus e domus, disegnato da Hor. c. 3, 6, 17-18,197 Cornelia ha tenuto fede ai valori fondanti del proprio ceppo,198 mostrandosi all’altezza del patrimonio etico trasmessole e meritando, in crescendo, le lacrime della madre, il cordoglio della città e persino il gemitus Caesaris, ex-marito di Scribonia, unito ai parenti e ai concittadini nel compianto. L’esistenza e la statura etica della defunta sono sotto gli occhi di tutti, dalla famiglia alla cittadinanza, dalla cittadinanza al princeps.199 Non occorre cercare uno specimen virtutis tra Sciti o Geti, come dal canto suo ammoniva Hor. c. 3, 24, 17-36, a proposito dell’irreprensibilità delle donne di quelle lontane etnie: per i concittadini Cornelia rappresenta un modello 200 tangibile di pudicizia femminile e, insieme a Paullo, il marito, realizza quel modello di coppia irreprensibile che, a detta del poeta lirico, viveva soltanto ai confini dell’ecumène, dove (vv. 21-22): dos est magna parentium virtus et metuens alterius viri certo foedere castitas.
Nell’orgogliosa rievocazione del proprio univirato 201 si compendia l’esemplarità del comportamento della matrona properziana, Scribonia, entrambi appartenenti alla gens Cornelia, vd. ora Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1268-1269. 195 Cfr. Hutchinson 2006, 240. 196 Ridisegnato da Cairns 2006, 360-361. 197 Fecunda saecula culpae saecula nuptias / primum inquinavere et genus et domus. 198 Hor. c. 3, 6, 46-48: aetas parentum peior avis tulit / nos nequiores, mox daturos / progeniem vitiosiorem. 199 Lo sottolinea Lentano 2012, 114-115. 200 IL carattere esemplare del personaggio, sottolineato in modo efficace da Williams 1968, 387-400, è stato ribadito di recente soprattutto da Janan 2001, 147 e 160; Cairns 2006, 358-361; Lowrie 2008, 172-173. 201 Sul l’importanza e il ruolo dell’univirato cfr. Dixon 1988, 22-23; 65; 156; 202.
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fiera e paga di non aver conosciuto altri che lo sposo dalla data delle nozze sino a quella della scomparsa (vv. 35-36): 202 Iungor, Paulle, tuo sic discessura cubili, ut lapide hoc uni nupta fuisse legar
in un’unione stabile che l’iscrizione funebre 203 riservatale registra, consegnandola alle generazioni future a duratura memoria. Il momento del matrimonio e quello della separazione forzata dal talamo si riverberano sulla lastra tombale in cui l’unione fra gli sposi è proiettata fuori dall’esistenza materiale di Cornelia trasformandosi in termine di riferimento. Nelle parole della matrona la sua stessa epigrafe ribadirà il legame inscindibile con il marito e con lui solo,204 veicolando mediante la sequenza a contatto dei lemmi-chiave uni 205 nupta – rispettivamente in chiusa di prima metà dell’emistichio e in apertura di seconda – il prototipo, per non dire il monito di una fedeltà assoluta. Iungor/legar recita il testo ad anello: il primo lemma rievoca il rito nuziale, il secondo lo sbalza al di là della contingenza terrena trasformandolo in modello tangibile di fedeltà coniugale per chi si soffermi a leggere l’epitafio. La morte suggella una condizione esistenziale che non conosce scosse o variazioni, come conferma la concatenazione fra i correlativi sic/ut, dislocati ad attacco di secondo hemiepes di esametro e in esordio di pentametro. Avendo assimilato per via endogena i valori dell’istituto matri-
202 Non fosse per la morte prematura, grazie all’esemplare castità Cornelia corrisponderebbe perfettamente al prototipo di fidi… amores augurato da Tib. 2, 2, 11 a Cornuto, i cui vincula dovrebbero rimanere semper dum tarda senectus / inducat rugas inficiatque comas (vv. 19-20). 203 Sul l’espediente della lastra funeraria come punto di partenza dell’auto ritratto elogiativo di Cornelia vd. Hubbard 1974, 146; Hallett 1985, 76-81. 204 Unicità e perennità rientrano emblematicamente nei canoni del matrimonio romano, come ben sottolineato da Williams 1958, 23, il quale insiste sul fatto che per le donne la prassi dell’univirato costituiva topico motivo di lode nelle iscrizioni funerarie, il che è confermato, con ulteriori ragguagli, da Soria 1965, 41-44. 205 Come in CE 643, 5 (uno contenta marito), 693, 4 (unius viri consortio… coniuncta), 736, 4 (uni devota marito), 968, 3 (coniuge namque uno vixit contenta probato), 1523, 7 (unum sortita maritum), 1693, 1 (u[no cont]enta marito), 2173, 5 (votissima mihi uno marito), 2214 (uno contenta viro). Sull’importanza della sequenza properziana vd. Janan 2001, 154-156; Wyke 2002, 111.
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moniale e della famiglia per trasmetterli a sua volta alla prole,206 Cornelia non necessita né di sollecitazioni esterne alla fedeltà nei rispetti di Paullo, né di esempi esterni alla sua stessa stirpe. In tale tedoforia l’erede più diretta dello stile di vita da lei abbracciato risulta Emilia Lepida, la figlia, cui viene richiesto di conformarsi all’univirato materno perché il marito resti unito a lei (vv. 67-68).207 Cornelia incarna appieno quel rispetto per la fides maritale che l’Orazio del quarto libro dei carmina vedrà garantito dalla legge capace di reprimere il maculosum… nefas (c. 4, 5, 22), assicurando la castità della casa e la somiglianza della prole ai padri, soffocando il delitto con la certezza delle pene.208 Una legge, insomma, tale da cancellare le disinvolte provocazioni delle matrone nei rispetti di giovani adulteri stigmatizzate in c. 3, 6, 25-26.209 Di certo, altro è un intervento repressivo promosso dalle istituzioni, altro la predisposizione ereditaria alla castità, una predisposizione, questa, che, nel caso di Cornelia, mette la figlia nelle condizioni di tutelare la rispettabilità della madre grazie ai propri costumi (Nec te, dulce caput, mater Scribonia, laesi v. 55). Il travaso di valori convalidati da secolare tradizione agisce sì in verticale, contemplando comunque il caso di quelle che potremmo definire ‘ricadute sul piano orizzontale’. Infatti, in nome della propria condotta integerrima la vita della matrona properziana può essere definita da Augusto degna di sua figlia Giulia (Ille sua nata dignam vixisse sororem / increpat vv. 59-60), sorellastra della defunta. Per la fonte da cui proviene un tale riconoscimento eleva la pudicizia di Cornelia su un piano di altissima paradigmaticità. Siamo ben al di là delle proteste genealogiche dell’eroina, che reclamava di non aver arrecato danno con i propri costumi né alla Vestale Claudia Q uinta, né alla Vestale Emilia (vv. 51-54),210 206 Agli antipodi della sconfortante sequenza di generazioni annunciata da Hor. c. 3, 6, 46-48: aetas parentum peior avis tulit / nos nequiores, mox daturos / progeniem vitiosiorem. 207 Per parte propria Dixon 1988, 220 avvicina al distico properziano il brano di Sen. ad Helv. 18, 8 concernente gli esempi che la nonna Novatilla avrebbe dato alla nipote Elvia educandola sin dalla tenera età. 208 Analisi lenticolare del contesto in Fedeli – Ciccarelli 2008, 281-283. 209 Mox iuniores quaerit adulteros / inter mariti vina. 210 Sulla coincidenza fra gli esempi aviti di Q uinta Claudia e della Vestale
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l’una esponente di spicco della casata paterna, l’altra della casata maritale. In tale raggiera di ‘certificazioni’ non manca neppure un posto di rilievo per Scribonia, di cui si diceva or ora.211 L’insistito coinvolgimento delle antenate nella difesa del proprio pudor 212 comprova la continuità dei comportamenti sia nell’alveo della gens Cornelia sia in quello della gens Aemilia, preannunciando peraltro la loro persistenza nei diretti discendenti, ancora in fase di crescita. Nella 4, 11, ad una sezione genealogica al femminile (vv. 41-58) dove, nella preservazione della castità, Cornelia si riconosce nelle ave non tralignando dai loro esempi né arrecando loro onta, fa séguito una sezione aretalogica (vv. 61-72) in cui l’eroina valorizza il principio della genitura, motivo portante della coeva pubblicistica augustea. Legittimo appare il vanto di aver meritato generosos vestis honores, non essendo morta sterile (vv. 61-62). A dare la misura del rigore e della moralità degli Emili, la gens di appartenenza di Paullo, non è solo Emilia Lepida, definita specimen censurae… paternae (v. 67): la protagonista dell’elegia ha già precisato ai vv. 41-42 di non aver ‘ammorbidito’ le leggi censorie amministrate dal marito né di aver fatto ‘arrossire’ il focolare domestico per qualche colpa infamante, come l’adulterio aggiungerei.213 A rispettare queste norme Cornelia era comunque vincolata dalla condizione matronale. Ora, se il focolare domestico costitui sce lo spazio-cardine della casa, punto di riunione della gens, dal che deriva il suo stesso valore simbolico, nessuna tra le componenti delle due casate (paterna e maritale) celebrate dalla defunta sembra averlo mai contaminato. Una girandola di specchi rifrange da Emilia richiamati da Cornelia in Prop. 4, 11, 51-54 e da Cicerone in Cael. 34 ricorrendo al topos retorico ‘mortuos ab inferis excitare’, vd. le suggestive indicazioni di Dufallo 2003, 172-177. 211 D’altra parte, l’orgoglio del l’eroina nei rispetti dei blasonati casati da cui discende, Corneli e Liboni, si coglie ai vv. 29-32 del testo stesso per la cui valutazione rinvio alle note di commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1321-1327. 212 Scrive Janan 2001, 154: «Commentators note with some embarassment Cornelia’s obsessive, and at times near hysterical, insistence on her own chastity, by far the chief subject of her defense. More curious still are the witnesses she calls to attest to her virtue, drawn first from the military conquerors in her family and from their conquests». 213 Cfr. Pomeroy 1978, 170 e n. 36.
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un’esponente all’altra dei Corneli e degli Emili la virtù, la castità, l’onore che contraddistingue il sangue parentale, nondimeno un rilievo significativo è assegnato, come accennavo poc’anzi, alla παιδοποιία, tema centrale nel programma di moralizzazione e di incremento demografico promosso dal princeps. Sin qui la protagonista della 4, 11 è apparsa nobile, pudica, fedele, una matrona, insomma, dotata di caratteristiche coincidenti, per vari aspetti, con quelle riconosciute alle spose romane da Augusto nel fittizio discorso del 9 d. C. postogli in bocca da Dione Cassio.214 La fecondità di Cornelia (nec mea de sterili facta rapina domo v. 62) diviene il contrassegno dell’adempimento dei suoi doveri di moglie, e a Roma, com’è risaputo, si era moglie liberum quae sundum causa, per dirla con Ennio tragico (Scaen. 45 Joc.),215 laddove, etimologicamente, matrona era chi, come rileva Gell. Noct. Att. 18, 6, 8: matronam dictam esse proprie, quae in matrimonium cum viro convenisset, quoad in eo matrimonio maneret, etiamsi liberi nondum nati forent, dictamque ita esse a matris nomine, non adepto iam, sed cum spe et omine mox adipiscendi, unde ipsum quoque ‘matrimonium’ dicitur…216
Ma tale si era anche perché, come attesta Paul. Fest. 112, 26L.: matronas appellabant eas fere, quibus stolas 217 habendi ius erat
dato che la stola rappresentava la veste peculiare delle donne di rango senatorio. Tuttavia Cornelia rimarca di aver pienamente meritato l’onore accordato di diritto alle matrone (emerui generosos vestis honores v. 61) 218 grazie al comportamento tenuto in vita. 214 Cfr. Dio Cass. 56, 3, 3:… πῶς μὲν γὰρ οὐκ ἄριστον γυνὴ σώφρων οἰκουρὸς οἰκονόμος παιδοτρόφος ὑγιαίνοντά τε εὐφρᾶναι καὶ ἀσθενοῦντα θεραπεῦσαι, εὐτυχοῦντί τε συγγενέσθαι καὶ δυστυχοῦντα παραμυθήσασθαι, τοῦ τε νέου τὴν ἐμμανῆ φύσιν καθεῖρξαι καὶ τοῦ πρεσβυτέρου τὴν ἔξωρον αὐστηρότητα κεράσαι; 215 Con l’utilizzo della terminologia propria del matrimonium iustum, stando alla sottolineatura di Jocelyn 1969, 263 ad loc. 216 Vd. peraltro Serv. ad Aen. 9, 215: matres non nisi nobiles dicimus: unde et matronae dictae sunt. 217 Cfr. Isid. orig. 19, 25, 3: stola… Graece vocatur quod superemittatur. 218 Dei travisamenti addensatisi sull’esegesi di questo sintagma fa giustizia il commento di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1358-1362.
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Del resto, alle vittae e alla stola, ornamenti peculiari della condizione matronale, si riferiscono due momenti salienti dell’elegia a testimoniare la piena compenetrazione della protagonista nel corrispettivo ruolo sociale, in controtendenza rispetto al disegno dell’elegiac wife di cui si diceva poc’anzi, Aretusa, il cui disinteresse per le vesti sontuose e i gioielli è dovuto alla lontananza del marito. Anche una sinossi cursoria della 4, 11 e della 4, 3 rivela il disallineamento della sposa di Licota rispetto alle coordinate iconografiche e agli emblemi protocollari della condizione di donna di rango elevato: 219 Prop. 4, 11, 33-34: Mox, ubi iam facibus cessit praetexta maritis, vinxit et acceptas altera vitta comas. Prop. 4, 11, 61-62: Et tamen emerui generosos vestis honores , nec mea de sterili facta rapina domo. Prop. 4, 3, 51-52: Nam mihi quo Poenis nunc purpura fulgeat ostris crystallusque meas ornet aquosa manus? 220
Dalla deposizione della pretesta in coincidenza con la cerimonia nuziale alle bende previste per il rito suddetto (nonché all’acconciatura predisposta per l’occasione),221 sino all’implicito riferimento alla stola, tutto converge nella sottolineatura del consono vestiario di Cornelia 222 a confronto della porpora e delle Eloquentemente abbinate in Ov. Pont. 3, 3, 51-52: Scripsimus haec illis quarum nec vitta pudicos / contigit crines nec stola longa pedes (vd. peraltro trist. 2, 247-248). Sull’abbigliamento lussuoso delle nobildonne romane a partire dal II sec. a.C. vd. Pomeroy 1978, 173. 220 A riscontro del cultus trascurato di Aretusa non si dimentichi il profilo della Laodamia di Ov. her. 13, 31-32; 37-43. Nel rifiuto dei valori materiali Günther 2006, 368 sarebbe incline a scorgere una precisa opposizione rispetto al materialismo della domina di Prop. 2, 9, pronta ad approfittare dell’assenza del partner per intrattenersi con altri uomini. 221 Su cui rimando a Butler – Barber 19662, 381-382. 222 Ciò non toglie che, come opina Wyke 2002, 109, la letterarietà del linguaggio dell’elegia, l’artificiosità della sua struttura, e il debito contratto verso le convenzioni dei componimenti di contenuto funerario rivelino la considerevole distanza fra la Cornelia elegiaca e la realtà della vita e della morte al femminile nella Roma augustea. 219
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gemme cui, in atto, Aretusa nega ogni utilità pratica. La veste tradizionale e le fasce rivelano l’adeguamento della protagonista della 4, 11 al vieto abbigliamento delle aristocratiche, rovescio di altra, ben più significativa adesione al codice comportamentale di loro pertinenza. Da ogni punto di vista la rispondenza di Cornelia con il proprio status può dirsi piena, prolungandosi persino nei moniti rivolti ai figli (e poi al marito),223 a cominciare dall’invito alla prosecuzione della stirpe (Et serie fulcite genus v. 69), per la quale si è adoperata in prima persona (v. 62).224 È forse questo il momento in cui il testo properziano sembra convergere maggiormente con le direttive della pubblicistica augustea che, al di là dei provvedimenti legislativi adottati fra il 18 a.C. e il 9 d.C., emergono dall’immaginario discorso di Augusto trasmesso da Dione Cassio in tema di implementazione delle nascite (56, 2, 3-4): ὧν χρὴ μεμνημένους τὸ θνητὸν τῆς φύσεως ἡμῶν ἀιδίῳ διαδοχῇ γενῶν ὥσπερ τινῶν λαμπαδίων παραμυθεῖσθαι, ἵν’ ἐν ᾧ μόνῳ τῆς θείας εὐδαιμονίας ἡττώμεθα, τοῦτ’ ἐξ ἀλλήλων ἀθάνατον καθιστώμεθα.
Tale trasmissione di consegne costituirà il lascito più rilevante dell’intero messaggio indirizzato dalla defunta a Emilio Lepido, Lucio Emilio Paolo ed Emilia Lepida. Propagazione della stirpe significa trasmissione del nome, fulcro del pensiero gentilizio antico. Nell’ottica di Cornelia, che più volentieri accetterà la partenza del battello infernale al pensiero di tanti discendenti in grado di accrescere la durata della sua esistenza materiale, iniziando dai figli (mihi cumba volenti / solvitur aucturis tot mea fata meis vv. 69-70),225 il ‘puntellamento’ della casata tramite una ricca prosapia costituisce la convalida e l’assicurazione della continuità del servizio sinora prestato, la τεκνοποιία.226 Sulla cui funzione vd. Hubbard 1974, 146. Q uasi superfluo ricordare come a Roma la sterilità femminile potesse risultare motivo di ripudio a partire dall’esempio di Sp. Carbilio (cfr. Val. Max. 2, 1, 4): cfr. Soria 1965, 44. 225 Riguardo alla constitutio textus di questa breve porzione del testo rimando alle pagine di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1368-1370. 226 Accenti affini, per taluni versi, in Dio Cass. 56, 3, 5: πῶς δ’ οὐ μακαριστόν, ἀπαλλαττόμενον ἐκ τοῦ βίου, διάδοχον καὶ κληρονόμον οἰκεῖον ἐξ ἑαυτοῦ γεγονότα καὶ τοῦ γένους καὶ τῆς οὐσίας καταλιπεῖν, καὶ τῇ μὲν φύσει τῇ ἀνθρωπίνῃ διαλυθῆναι 223 224
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A giusto titolo la defunta potrà considerare una consolazione e un trionfo al femminile 227 l’aver goduto di una buona reputazione (libera fama v. 72), foriera dell’elogio alle sue stesse ceneri (emeritum… rogum, ibid.). Tuttavia, se sin qui Cornelia ha ribadito il vanto e il diritto di appartenere onorevolmente alle casate dei Corneli e degli Emili,228 a partire dal v. 73 della 4, 11 l’apostrofe a Paullo condensa il suo stesso magistero pedagogico di Cornelia, il deferimento al marito dei compiti educativi cui ispirare la formazione dei figli. Noto l’influsso esercitato su questa porzione del testo properziano sia a livello contenutistico sia a livello formale dall’Alcesti euripidea, oggetto di studio da parte di G. Paduano.229 Tuttavia, non appena nella 4, 11 la matrona consideri l’eventualità che il marito passi a seconde nozze e i figli debbano accettare la presenza di una nuova moglie al fianco del padre e nel nucleo domestico in cui vivono (vv. 85-90), si avverte una forte cesura tra il brano latino e il modello tragico. Cornelia si rivela ancorata a quei principi di necessaria trasmissione del nome che, una volta di più, rivelano la sua profonda adesione ai veteres mores gentilizi. Se Alcesti chiede in cambio della propria dedizione al marito, spintasi sino al sacrificio della vita (vv. 304-305): τούτους ἀνάσχου δεσπότας ἐμῶν δόμων καὶ μὴ᾽πιγήμηις τοῖσδε μητρυιὰν τέκνοις
la protagonista di Prop. 4, 11 non esige una fedeltà maritale che travalichi la morte, né proibisce a Paullo di rifarsi una vita. Il poeta elegiaco attira l’attenzione dei propri destinatari sul lectus genialis, fulcro della vita coniugale e familiare, mutato nel suo assetto (vv. 85-86), al cui interno domina la figura della noverca. τῇ δὲ ἐκείνου διαδοχῇ ζῆσαι, καὶ μήτ’ ἐπ’ ἀλλοτρίοις ὥσπερ ἐν πολέμῳ γενέσθαι μήτε ἄρδην ὥστε ἐν πολέμῳ γε ἀπολέσθαι; 227 D’altronde i trionfi degli antenati erano stati ricordati ai vv. 11, 29-30, 32, 38 del testo. A ragione Hallett 1985, 80 insiste sul fatto che Properzio, descrivendo la vita di Cornelia tramite lessico e simboli del Roman male aristocratic accomplishment e definendo il suo valore sociale in termini maschili, palesa il tentativo di fondere le sfere concernenti i due sessi. 228 Come pure dei Liboni, cui apparteneva la madre Scribonia, collocati addirittura sullo stesso piano del vincitore di Numanzia e dei Corneli tra i vv. 29-32 dell’elegia, cfr. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1325-1326. 229 Mi riferisco a Paduano 1968, 21-28; Id. 2008, 392-397.
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L’estrazione tragica di questi versi è confermata, ancora una volta, dall’impiego e dal riassorbimento di due diversi spunti euripidei, rovesciati di funzione. Si tratta dell’immagine del talamo, che nel l’addio di Alcesti, rappresenta lo spazio in cui la donna ha perso la propria verginità (vv. 177-179), destinato a divenire possesso di un’altra (vv. 181-182), e del divieto per Admeto di risposarsi per non dare ai figli una matrigna violenta, ostile, non più mite di una vipera (vv. 306-310). Nel testo latino, la noverca, definita cauta (v. 86), ossia in atteggiamento di prudenziale circospezione in una casata che l’ha appena accolta, è ritratta nella consueta postura di una matrona, assisa sul talamo coniugale – appartenuto alla prima moglie (nostro… toro v. 86) – dove era norma che godesse di attimi di riposo, sovrintendesse ai lavori domestici o ricevesse visite.230 Nell’assunzione del nuovo ruolo, la matrigna appare esente dai tratti odiosi che lunga tradizione letteraria le aveva riservato.231 Per intendere le motivazioni di un tale ritratto il lettore dovrà tener conto almeno di due dati, l’uno culturale (Cornelia è una nobildonna e, come tale, non può ricusare l’ipotesi che una nuova sposa le subentri nella propagazione del casato degli Emili),232 l’altro caratteriale (l’eroina non conosce una possessività paragonabile a quella di Alcesti o a quella di Cinzia, non meno energica nel rivendicare il dominio esclusivo sull’amato nella 4, 7, almeno dopo la morte di lui, annunciata come ormai imminente ai vv. 93-94 del componimento).233 Peraltro, il profilo atipico di colei che potrà subentrare al fianco di Paullo è costruito per sottrazione di elementi connotativi, che per la loro stessa pericolosità e negatività234 contrasterebbero con 230 Il riferimento d’obbligo va alle note di commento di Hutchinson 2006, 246 e di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1389-1390. 231 Di prammatica il rimando a Watson 1995, 92-134. 232 In merito Watson 1995, 9, n. 30 sostiene che un’esponente del l’ari stocrazia romana non avrebbe potuto avanzare una richiesta simile a quella posta in bocca ad Alcesti specialmente in vista dei rapporti cronologici intercorsi fra Prop. 4, 11 e la prima delle leggi augustee sul matrimonio, predisposta per inco raggiare particolarmente alle seconde nozze tra abbienti. 233 Tratto, questo, ben colto da Dimundo1990, 200-201, poi ribadito in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1000-1002. 234 Come l’attittudine al veneficio o lo sguardo ostile verso i figliastri, spia delle intenzioni omicide nutrite dalla noverca, studiati da Watson 1995, 102-108.
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la possibilità di instaurare un rapporto disteso con i figliastri: una strategia di negoziazione, questa, derivata dalle preoccupazioni di Cornelia che i figli non abbiano a patire gli effetti usuali delle seconde nozze paterne con tutti i rischi del caso. Nelle parole di Cornelia ai figli, lodare e sopportare il nuovo matrimonio (v. 87) costituirà la prima tappa di un percorso speso a vincere le resistenze e le prevenzioni della nuova arrivata (v. 88); astenersi dai confronti con la madre scomparsa pur di non suscitare fraintendimenti e gelosie nella matrigna (v. 89-90) rappresenterà invece la tappa successiva. D’altronde, nel mondo romano, i comportamenti dei figliastri potevano anche risultare cogenti per una noverca nel modo di relazionarsi con loro: ce lo insegna, a distanza di tempo Sen. ad Helv. 2, 4 sottolineando come la destinataria della consolatio con l’obsequium e la pietas di una figlia abbia costretto la matrigna a divenire una madre.235 Personalmente non saprei dire sino a che punto il ritratto della seconda moglie di Paullo risenta dell’idealizzazione della noverca scitica che Hor. c. 3, 24, 18 designa con il nesso mulier innocens evitando accuratamente la qualifica parentale, evocativa di un’identità sinistra e crudele. Di sicuro in Scizia il sistema educativo applicato ai matre carentes / privigni (vv. 17-18) vien fatto coincidere con il temperare, non con vessazioni o soprusi, o, peggio, con azioni nefande e delittuose. Dinanzi ad un’ipotesi non remota,236 quale quella di un nuovo legame istituzionale per il marito, Cornelia si preoccupa di abbozzare un tipo di convivenza equilibrata fra i propri figli e la matrigna, esponente di una categoria sotto i riflettori del dibattito retorico di epoca augustea.237 Di sicuro, l’odio congenito verso i figliastri, parossisticamente spinto sino all’eliminazione fisica degli stessi, non bastevole comunque a saziare l’avversione provata nei loro confronti,238 ne fa un soggetto privilegiato per le decla Crevisti sub noverca, quam tu quidem omni obsequio et pietate, quanta vel in filia conspici potest, matrem fieri coegisti; nulli tamen non magno constitit etiam bona noverca. Sul tema delle bonae novercae rimando a Dixon 1988, 157-159. 236 Tradottasi in realtà, tre anni dopo la morte di Cornelia, con il matrimonio contratto da Paullo e Marcella, nipote di Augusto, cfr. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1389. 237 Cfr. Bonner 1949, 112 e 115. 238 Basti per tutti l’epiftegmatico detto di Cesto Pio ap. Sen. Contr. 7, 1, 9: Novercae quidem numquam satis privignus occiditur. 235
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mazioni, oltre che un’icona oscura e temibile nell’immaginario corrente. Nondimeno, per la defunta non è impossibile che Paullo preferisca rimanere da solo, confortato dalle cure di cui la prole sarà prodiga (vv. 91-94). Nell’avviarsi a logica conclusione, l’ora zione 239 di Cornelia subisce un marcato innalzamento formale in cui il lettore avverte, grazie a precise spie, il legame che continua ad avvincere l’eroina alle gloriose virtù dei propri antenati e, al contempo, alla memoria della loro esemplarità, trasmessaci in parte da testi letterari ed epigrafici. Se, sull’orma di Heinsius,240 accettiamo che il passo suoni come (vv. 101-102): Moribus et caelum patuit: sim digna merendo, cuius honoratis ossa vehantur avis
sostituendo ai tràditi aquis/equis il ritocco del filologo settecentesco in avis,241 il distico ci restituirà l’insistenza della matrona sulle figure dei propri antenati in linea agnatizia, tra cui spiccano Publio Cornelio l’Africano e Publio Cornelio Ispano. Gli echi provenienti dalle celebrazioni in versi dei due avi valgono da preziosa testimonianza circa la notorietà delle loro biografie: ad immortalarne rispettivamente la grandezza e i costumi sono da un lato un epigramma di Ennio, dall’altro un anonimo epitafio, testi che non possono esser svaniti né dalla memoria di una discendente del ceppo, né da quella di un lettore augusteo ben al corrente di figure-cardine del passato dell’Urbe. Gli accenti impiegati dalla protagonista della 4, 11 tradiscono la combinazione di: Enn. var. 23 V.2: Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli c a e l i maxima porta p a t e t 242 Delle cui partes discute Cicerale 1978, 19-38 con qualche forzatura. Prima della presa di posizione di Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1405-1406 a favore della bontà della correzione di Heinsius, identica adesione a riguardo aveva manifestato Formicola 2011, 62. 241 E, nella fattispecie, il testo del successivo Epicedium Drusi, considerato unanimemente dalla critica come molto indebitato nei rispetti di Prop. 4, 6, può fungere da ‘reagente’ in retrospettiva per risanare le durezze della tradizione manoscritta dell’ultimo pentametro dell’elegia, basti considerarne i vv. 329-330: Ille pio, si non temere haec creduntur, in arvo / inter h o n o r a t o s excipietur avos. 242 Per una complessiva valutazione del contesto e dell’intelaiatura dell’epi 239 240
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CIL I2, 15: virtutes generis m i e i s m o r i b u s accumulavi 243
componimenti declinati come Selbst-Darstellungen. Nel primo dei due l’Africano celebra il destino ‘celeste’ che lo attende, nel secondo il successore elogia i propri mores garanti del virtutes generis accumulare. Si tratta di brani noti, almeno dacché Hallett 244 e Hutchinson 245 ne hanno denunciato l’archetipia rispetto al finale di Prop. 4, 11. Q uello che nel l’epitafio di Gneo Cornelio Ispano suona come un ablativo strumentale (moribus), traslato di sede metrica apre adesso il proclama di Cornelia, diventandone il perno concettuale. Soppressa l’immagine omerizzante della caeli maxima porta,246 per bocca della matrona Properzio salda la visione della meta celeste ottenuta tramite comportamenti virtuosi all’auspicio di esserne all’altezza. Alla fierezza delle dichiarazioni dei due antenati subentra l’augurio a non sfigurare dinanzi ad un tale privilegio, mantenendo, pur nell’alterità formale dei tempi,247 il verbo pateo in posizione iconica (nell’avantesto in chiusa di pentametro, nell’epitesto dinanzi a cesura semisettenaria di esametro). Fissiamo ora lo sguardo sul verbo mereor, che riappare in forma semplice, dopo esser ricorso con il preverbio e- sia nel sintagma emerui generosos vestis honores del v. 61, sia nel nesso a ponte emeritum… rogum del v. 72, a sottolineare gli onori ‘terreni’ che la condotta della matrona le ha garantito in vita e in morte. Q uali i meriti di Cornelia capaci di assicurarle la prerogativa del l’ascesa alle plaghe celesti? Univirato da un lato, genitura dal l’altro. Non mi pare sia stato notato come il gerundio properziano affondi implicitamente il pedale soprattutto sul secondo dei due aspetti peculiari di Cornelia, vantando un riscontro nella celebragramma avente per protagonista Scipione l’Africano cfr. ancora Morelli 2000, 38-40. 243 Vd. Morelli 2000, 56-57. 244 Hallett 1985, 76. 245 Hutchinson 2006, 249. 246 Cfr. Hom. Il. 8, 393: πύλαι οὐρανοῦ. Non va esclusa l’eventualità che Properzio abbia in mente il brano di Cic. rep. 6, 26 richiamato da Hutchinson 2006, 249. 247 Dal canto suo, Reitzenstein 1969, 61 ritiene che il perfetto patuit abbia un segnato valore aoristico, equivalendo pertanto a patet.
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zione della prosapia su cui batteva proprio l’elogio dell’Ispano (vv. 1-2): Virtutes generis mieis moribus accumulavi, progeniem genui
seguito dalla rivendicazione della lode da parte degli antenati, tal che essi possano allietarsi di averlo fatto nascere. L’onore, infatti, ha nobilitato la stirpe (vv. 3-4): Maiorum optenui laudem, ut sibei me esse creatum laetentur. Stirpem nobilitavit honor.
La fierezza che l’eroina ha sin qui rivelato nell’appartenere e nel riconoscersi nella gens Cornelia la dice lunga sulla consonanza tra l’elegia 248 e la sua chiusa con il tessuto di quest’elogium, il primo carme epigrafico in distici elegiaci testimoniato a Roma. Paragonati ai toni trionfalistici degli antichi esponenti della gens Cornelia, quelli del personaggio properziano risuonano più misurati, in relazione sia alla diversa identità sessuale, sia alla specifica condizione matronale. Se costituisce un altissimo privilegio declinato ‘al femminile’ il fatto che il cielo si spalanchi al suo arrivo come spetta di diritto ai benemeriti della patria e a quanti si sono separati e purificati dalle impurità dei corpi, questa concessione si vale per di più del trasporto honoratis… avis (v. 102). Cosa desiderare di più? Dopo la morte, identica meta celeste era toccata, nelle parole di Anchise (Aen. 6, 835-840; 842-843), a L. Emilio Paolo, all’Africano Maggiore, all’Africano Minore. Cornelia è davvero una dei Corneli. * * * Dall’esemplarità di eroine mitiche all’esemplarità di matrone facenti parte dell’aristocrazia augustea: questi i poli del processo 248 Allo specimen ivi proposto Cornelia può omologarsi con la sottolinea tura di 4, 6, 62 (nec mea de sterili facta rapina domo); per quanto attiene poi alla nobilitazione della stirpe tramite l’honor, la matrona si trova nelle condizioni di poter sostenere non solo che nell’Aldilà nessuna donna al sederle accanto turpior erit, Claudia o Emilia che sia, ma di non aver neppur danneggiato l’onorabilità della madre Scribonia (vv. 49-55).
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di trasmutazione che i paradigmi subiscono nell’elegia properziana via via che la loro canonica funzione didattico-psicagogica si svuota e un altro genere di referenzialità può venir esplorato soprattutto nell’alveo del IV libro della raccolta. Alla κένωσις di un repertorio si contrappone l’implementazione di un altro, rappresentato da un’elegiac wife e da una matrona, da un ‘personaggio di confine’ e da uno riluttante al codice biotico di cui entra a far parte. L’antitesi fra vincolo istituzionale e relazione extra-coniugale, cardine del discorso elegiaco, porta ai lettori nei primi tre libri della silloge dell’Assisiate, sembra esaurire tra la 2, 20 e la 3, 20 le proprie possibilità di modulazione entro i confini prestabiliti del genere. L’ideazione di personaggi emblematici quali Elia Galla e Aretusa corrisponde ad un ‘innesto sperimentale’ di un prototipo iconico in un altro dal quale deriva, con crescenti opportunità di espressione, la nuova tipologia della ‘sposa elegiaca’, ancorata ad un tipo di esistenza appartata, trascorsa tra mansioni tipicamente femminili, provvista di una dedizione e una castità acroniche, eppure, al contempo, agitata da un amore pervasivo ed esclusivo, da ansie, timori e gelosie simili a quelle delle dominae elegiache. Un prototipo, ribadisco, che va arricchendosi di sfumature e articolazioni interne tra la 3, 12 e la 4, 3. Nell’incarnare un modello statutariamente estraneo all’elegia, Cornelia si rivela di sicuro il personaggio più originale, più inatteso cui il poeta Umbro abbia dato vita. La sua esistenza è un paradigma, la sua morale è un paradigma, i suoi antenati sono un paradigma, persino la sua prole dovrà essere un paradigma. Ma nella 4, 11 la nozione di ‘ p a r a d i g m a ’ rima con due Wertbegriffe, ossia ‘ t r a d i z i o n e ’ e ‘ c o n s e r v a z i o n e ’ : questo il lascito dell’ultima eroina properziana, il cui profilo anelegiaco forza e ricodifica il genere letterario che a lei apre le porte.
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PER EXEMPLA: AMORE ELEGIACO, MATRIMONIO ED ETICA DELLA FAMIGLIA
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Abstracts Dall’esemplarità di eroine mitiche all’esemplarità di matrone del l’aristocrazia augustea: questi i poli del processo di trasformazione che i modelli femminili subiscono nell’elegia properziana mentre la loro funzione didattico-psicagogica va esaurendosi e un altro genere di referenzialità può venir esplorato soprattutto lungo il IV libro della raccolta. Alla κένωσις di un repertorio si contrappone l’arricchimento di un altro, rappresentato da un’elegiac wife e da una matrona. L’ideazione di personaggi emblematici quali Elia Galla e Aretusa corrisponde ad un ‘innesto sperimentale’ di un prototipo in un altro dal quale deriva la nuova tipologia della ‘sposa elegiaca’, legata ad un tipo di esistenza appartata, trascorsa tra mansioni tipicamente femminili, provvista di una dedizione e una castità fuori dal tempo, eppure agitata da un amore passionale, da ansie, timori e gelosie simili a quelle delle dominae elegiache. Si tratta di un prototipo che si arricchisce di nuove sfumature tra la 3,12 e la 4,3. Nell’incarnare un modello estraneo all’elegia, Cornelia si rivela di sicuro il personaggio più originale che il poeta Umbro abbia creato. La sua esistenza è un paradigma, la sua morale è un paradigma, i suoi antenati sono un paradigma, persino la sua prole dovrà essere un para235
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digma. Ma nella 4,11 la nozione di ‘ p a r a d i g m a ’ fa rima con due termini-chiave, ossia ‘ t r a d i z i o n e ’ e ‘ c o n s e r v a z i o n e ’ : questo il lascito dell’ultima eroina properziana, il cui profilo forza e rifonda il genere letterario in cui viene accolto. From exemplary mythical heroines to exemplary matrons of Augustan aristocracy: these are the poles of the transformation process that the female models undergo in propertian elegy, while their didactic-psychagogic function goes running out and it can be explored another kind of referentiality especially on the book four of the collection. The κένωσις of a repertoire contrasts with the enrichment of another one, represented by an elegiac wife and a matron. The design of emblematic characters such as Elia Galla and Arethusa corresponds to an ‘experimental engagement’ of a prototype in another one by which results the new type of ‘elegiac bride’, linked to a kind of secluded life, spent in typically female jobs, equipped with a dedication and chastity out of time, but agitated by a passionate love, anxieties, fears and jealousies similar to those of elegiac dominae. It is a prototype getting enriched with new shades between 3,12 and 4,3. Cornelia, a foreign model to elegy, proves certainly the most original character created by the Umbrian poet. Her existence’s a paradigm, her morality is a paradigm, her ancestors are a paradigm, even her offspring will be a paradigm. But in 4,11 the notion of ‘ p a r a d i g m ’ rhymes with two key-terms, i.e. ‘ t r a d i c t i o n ’ and ‘ c o n s e r v a t i o n ’ : that’s the legacy of the last propertian heroine, whose profile forces and refounds the genre in which it is incorporated.
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1. La pagina sulla quale si soffermerà la nostra attenzione è tra le più note di Properzio: si tratta dell’apertura dell’elegia 4, 1, e in particolare dei primi otto versi di questo testo denso e affascinante: Hoc quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est, ante Phrygem Aenean collis et herba fuit; atque ubi Navali stant sacra Palatia Phoebo, Evandri profugae concubuere boves. Fictilibus crevere deis haec aurea templa, nec fuit opprobrio facta sine arte casa; Tarpeiusque pater nuda de rupe tonabat et Tiberis nostris advena bubus erat.
È qui appena il caso di ricordare quali e di quale rilievo siano le questioni e direi le sfide che una pagina del genere propone agli esegeti properziani, a tutti i livelli: questioni che l’accumularsi della bibliografia, e in particolare la contestuale apparizione, in tempi recenti, di due amplissimi commenti al quarto libro, non sono bastati a dissipare del tutto. Opinioni divergenti sussistono tut-
* Nel licenziare queste pagine desidero manifestare la mia gratitudine verso quanti le hanno rese migliori, pur senza portare alcuna responsabilità per carenze e lacune che dovessero tuttora contenere. Ringrazio anzitutto Paolo Fedeli per l’onorevole invito a prendere parte all’edizione 2016 del Properziano, quindi Maurizio Bettini e Graziana Brescia per aver letto una prima stesura del lavoro e avermi prodigato suggerimenti e commenti. Sono grato infine a Giuseppe Dimatteo, Matteo Rossetti e ancora a Graziana Brescia per l’aiuto prestato nel reperimento del materiale bibliografico. 10.1484/M.SPL-EB.5.115918
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tora sul carattere unitario dell’elegia o viceversa sull’opportunità di distinguere in essa due carmi indipendenti, il primo coincidente con i primi settanta versi, il secondo con la replica dell’astrologo Horos, magari aggiunta in un secondo momento per giustificare ex post il presunto fallimento del progetto eziologico; 1 una dossografia anche essenziale evidenzia differenti interpretazioni in merito all’atteggiamento del poeta, tra quanti postulano un pieno allineamento augusteo di Properzio e parlano dell’elegia come di un raffinato esercizio di adulazione e quanti invece rilevano sottili prese di distanza rispetto al regime imperiale; 2 per alcuni il testo mira a sottolineare lo iato incolmabile tra passato e presente, cogliendo in quest’ultimo i segni, o almeno i rischi, di un degrado morale, per altri, viceversa, esso punta a mettere in luce l’ininterrotta continuità tra l’epoca remota delle origini e la contemporaneità, per altri ancora Properzio intende problematizzare le stesse nozioni di continuità e discontinuità intorno alle quali si costruisce il progetto eziologico del quarto libro.3 Né manca chi abbia percepito proprio nel quadro della Roma primitiva toni tutt’altro che cordiali, come dimostrerebbero tra l’altro l’assenza 1 Troppo frettolosamente la questione era data per chiusa da Harmon 1986, 1956 a favore dell’unitarietà del componimento, laddove in tempi recenti Günther 2006, 358 ha definito «fairly certain» la divisione dell’elegia in due carmi distinti (Günther peraltro fa terminare il primo al v. 64, ritenendo interpolati 65-66). La tesi unitaria è sostenuta tra gli altri da MacLeod 1976 e, con qualche cautela, da Hutchinson 2006, 61; convinti assertori dell’opportunità di dividere l’elegia in due componimenti separati sono invece Miller 1978, 381, Kidd 1979 e Murgia 1989, preceduti tra gli altri da Sandbach 1962, 264-271, nel quale si trova discussa anche la bibliografia anteriore. In occasione del convegno, Carlo Santini si è autorevolmente espresso a favore dell’ipotesi unitaria. 2 Di «refined piece of adulation» parla Stahl 1985, 255, di «piece of patriotic flattery» Mayer 2007, 158, di «convinta partecipazione alla celebrazione del programma augusteo» Luisi 2008, 411. Prese di distanza e toni ironici o persino sovversivi colgono invece Sullivan 1976, 141 e 144, Edwards 1996, 56, O’Rourke 2010, 477 e da ultimo, a mia conoscenza, Liebeschuetz 2013. Una posizione intermedia – adesione augustea ma senza perdere il distacco che si conviene al poeta elegiaco – sembra quella di von Albrecht 1983, 69. 3 La questione è affrontata da quasi tutti gli studi sull’elegia, dato che dalla sua soluzione dipende l’interpretazione complessiva di questo testo e dell’intero quarto libro, e con particolare ampiezza da DeBrohun 2003, 40-61; all’interno della bibliografia cui ho avuto accesso cfr. poi Van Sickle 1974, 124; MacLeod 1976, 141-142; La Penna 1977, 90; Richardson 1977, 414; Fox 1996, 154; Janan 2001, 402; Welch 2005, 22; Fantham 2012, 313-314; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 152. Un po’ elusivo Rouveret 2001, 267; nulla in Cesaro 2013.
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in quel quadro di qualsiasi allusione al mito dell’età dell’oro o la sottolineatura di aspetti legati più al labor e alla militia che non all’otium e alla pax privilegiati in ricostruzioni analoghe di poeti contemporanei, a partire da quella tracciata da Tibullo nell’elegia a Messalino; e l’escussione delle posizioni adottate dagli studiosi potrebbe essere arricchita senza difficoltà.4 Infine, anche sul piano testuale la sezione che abbiamo delimitato non manca di porre spinose questioni, che toccano almeno due dei versi oggetto della nostra attenzione. Al v. 4 la tradizione legge concordemente Evandri profugae concubuere boves, ma il verbo ha sollevato perplessità sin dall’età umanistica e ancora in tempi recenti: le connotazioni di carattere sessuale legate pressoché invariabilmente al verbo concumbere, al pari del resto del suo derivato concubitus, sono apparse a molti poco pertinenti nel contesto evocato da Properzio, benché non manchino studiosi che le ritengano al contrario frutto di una deliberata scelta del poeta; in alternativa è stato suggerito procubuere, che esprimerebbe l’abbattersi al suolo di animali prostrati dalla stanchezza del lungo viaggio, ma al quale è stata mossa a sua volta la duplice obiezione di presentare una diversa misurazione metrica del prefisso pro- rispetto al termine profugae immediatamente precedente e comunque di allitterare spiacevolmente con quest’ultimo.5 Se però il significato complessivo del v. 4 rimane sostanzialmente ben individuabile, più ardue sono le difficoltà che pone il v. 8, et Tiberis nostris advena bubus erat, anche perché in questo caso la stessa tradizione manoscritta si presenta difforme, con una parte dei codici che reca tutus in luogo di bubus, indice forse di Q uest’ultima tesi è sostenuta con particolare insistenza da Rothwell 1996. Procubuere (ritenuto correzione «almost necessary» da Butler – Barber 1933, ad loc.) è stato sostenuto in particolare da Fedeli 2008, le cui considerazioni sono riprese in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, ad loc., ed è accolto anche da Syndikus 2010, 300, nota 8. Per Günther 2006, 359, nota 28 la correzione «may well be right»; è comunque arduo difendere il testo tràdito con il rimando all’uso di concubitus in 4, 8, 36, come pretende il medesimo studioso (ibid.), anticipato peraltro da Shackleton Bailey 1956, 216. Ritengono invece sostenibili o persino intenzionali le allusioni di carattere sessuale Robinson 2006, 204; Heyworth 2009, 414 (il quale è dell’avviso che «una scena di sesso bovino sul sito del futuro tempio produce un contrasto molto efficace»); Coutelle 2015, ad loc., con la motivazione un po’ sconcertante che il testo properziano contiene «nombreux sous-entendus sexuels». Decubuere è invece scelta isolata dell’edizione properziana curata da Giancarlo Giardina. 4 5
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un disagio interpretativo già risalente nel tempo. Anche a questo riguardo la paradosi ha dato luogo ad un ampio ventaglio di proposte: alcune ritoccano la sola interpunzione del testo, altre suggeriscono interventi più o meno invasivi di ristrutturazione del l’intero pentametro; si è supposto che bubus si sia abusivamente infiltrato nel testo a partire dalle profugae boves di Evandro, ma anche, al contrario, che Properzio intendesse suggerire al lettore che proprio di quella stessa mandria si trattava in entrambi i versi; si è speculato sul significato di advena, fiume ‘straniero’ in quanto etrusco o semplicemente perché proveniente da terre lontane; si è intervenuti su bubus mutandolo in murus, ma anche su nostris rettificandolo in rostris, con la parallela correzione di bubus in clausus e la conseguente ipotesi che il poeta evocasse l’immagine di un fiume non ancora navigabile; fino alla scelta di ricorrere alle croci della disperazione, di fronte alle difficoltà del testo tràdito e all’assenza di motivazioni davvero cogenti per accogliere una qualsiasi delle sue proposte di emendazione, fatta nel recente commento al quarto libro curato da Paolo Fedeli, Rosalba Dimundo e Irma Ciccarelli.6 2. Per fortuna, dal nostro punto di vista tutte le questioni che abbiamo succintamente evocato risultano tutto sommato marginali; gli aspetti che vorremmo mettere in luce nei versi d’apertura dell’elegia properziana si inquadrano piuttosto entro un orizzonte di carattere antropologico, meglio allineato con le competenze di chi scrive rispetto ad un esame strettamente critico-testuale. Q uello che mi preme enucleare da questo incipit sono insomma alcune categorie che attengono al modo in cui la cultura romana percepisce le origini della città e quelle dei suoi dèi. Q uesta scelta non implicherà la conseguenza di ridurre Properzio a semplice porta-parola di un immaginario che lo trascende e che finisce per Mi limito qui ad un nudo elenco di rimandi bibliografici: Booth 1987; Murgia 2002, 70-71; Hutchinson 2006, ad loc.; White 2006, 403; Heyworth 1986, 208-209 e 2009, 414-415. La vecchia congettura di Postgate rostris […] clausus è accolta di recente da Dominicy 2014, 85-88, seguito da Coutelle 2015, 368-369, ma con osservazioni a mio avviso assai discutibili in merito alla presunta assonanza di quest’ultimo termine con i nomi Claudius/Claudia. A proposito di advena, il vecchio repertorio di Warner 1917, 53 ne cita l’uso in relazione al Tevere, attribuendo al termine il significato di «coming from afar» ma esemplificandolo solo con due riferimenti ovidiani. 6
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renderlo irrilevante; al contrario, il modo in cui il poeta riarticola le nozioni che la sua cultura gli mette a disposizione risulta essenziale per la comprensione del testo. Ma quella comprensione apparirà più nitida se inserita entro un orizzonte che non appartiene al solo Properzio. In primo luogo, dai versi dell’elegia proemiale viene dato un rilievo molto significativo ad un aspetto peculiare del mito romano delle origini, quello del carattere radicalmente esogeno delle origini stesse: come è stato osservato in uno studio recente, il racconto sulla fondazione della città e sugli eventi che l’hanno preceduta rivela un’ampia presenza di storie che hanno per protagonisti profughi ed esuli. La presenza di un fondatore straniero alle origini di una città è naturalmente tutt’altro che un unicum nel mito antico, dove a costituire un’eccezione sono semmai le rivendicazioni di autoctonia; è però «l’assoluta preponderanza di figure di profughi (refugee figures) nelle storie sull’origine di Roma a rappresentare un’anomalia»: da Giano a Saturno, da Evandro ad Enea, da Ercole fondatore dell’Ara Massima sino agli stessi Aborigeni, che una parte della tradizione considera autoctoni del Lazio, mentre per altri si tratta di un popolo errante venuto da lontano, il cui stesso nome sarebbe derivato dalla corruzione di un originario e assai eloquente Aberrigenes.7 Nella cultura romana, e con particolare rilievo proprio in quella di età augustea, il sito destinato a ospitare la futura città di Roma sembra percepito come una sorta di spazio vuoto, una tabula rasa primordiale che solo progressivamente si popola di figure, spazi, emergenze abitative, significati. Nell’operazione di invenzione e di attribuzione di senso alle proprie origini, i Romani compiono una scelta decisa a favore della eteroctonia: è ben noto un passo del primo libro liviano in cui lo storico patavino allude con ironia ai fondatori di città che mentendo ne fanno nascere dalla terra i futuri abitanti, quegli abitanti che Romolo non esita invece a raccogliere ricorrendo al disinvolto espediente dell’asilo – a sua volta un moltiplicatore di rifugiati.8 7 Alludo a Lee-Stecum 2008, dalla cui p. 70 proviene la citazione nel testo. Su Ercole come advena cfr. la nota di Servio a Verg. Aen. 8, 269; sulla paretimologia Aborigenes < Aberrigenes Dion. Hal. Ant. Rom. 1, 10, 2; Origo gentis Romanae, 4, 2. 8 Cfr. Liv. 1, 8, 5, su cui va visto, tra gli altri, Briquel 1994.
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Ora, a me pare che i vv. 1-8 di Properzio tendano a insistere proprio su questo aspetto: di Enea si sottolinea la provenienza dalla regione della Troade, attraverso un aggettivo, Phryx, a torto considerato ambiguo da alcuni interpreti particolarmente inclini alla dietrologia, che hanno voluto cogliere in esso allusioni alla fama di effeminatezza legata ai Frigi in una parte della tradizione e nella stessa Eneide; 9 con elegante variatio, per l’arcade Evandro l’aggettivo che ne sottolinea l’origine straniera e lo statuto di profugo non è attribuito all’eroe stesso, ma alle sue giovenche, le già ricordate profugae boves; quanto al Tevere, l’esegesi tradizionale vede in advena un’allusione alla sua natura di fiume “etrusco”; si è supposto talora che il termine sia usato da Properzio non già nel normale significato di “straniero”, ma in quello di “proveniente da un altro luogo”, ma gli esempi citati a questo riguardo dai commenti in riferimento ai fiumi sono tutti post-properziani e probabilmente influenzati proprio dalla nostra elegia; del resto, di quale fiume si può negare che venga da un luogo lontano? In ogni caso, quale che sia il preciso significato da attribuire a advena, resta che il termine prescelto da Properzio tende a fare persino del Tevere – per altri versi elemento stabile e permanente del paesaggio di Roma – un attore intervenuto in un secondo momento, una sorta di immigrato in un territorio che originariamente non ne prevedeva la presenza: del fiume si sottolinea l’aspetto dinamico, mobile, assimilandolo così alle figure degli altri advenae menzionati nei versi precedenti, da Enea ad Evandro.10 Da questo punto di vista, mi chiedo anzi se anche l’innominato e imprecisato hospes del verso d’esordio, sul quale torneremo al momento di chiudere queste pagine, non possa considerarsi 9 Sul punto insiste particolarmente O’Rourke 2011, 5-6. Così poi Robinson 2006, 203 («suggestions of effeminacy»), ma anche il commento di Coutelle 2015, 366, per il quale l’epiteto è teso a «désacraliser le héros». 10 Dunque non si tratta affatto di un epiteto «au caractère ornemental», come ritengono Dominicy 2014, 86 e sulla sua scorta Coutelle 2015, ad loc.: lo diventa, certo, accettando la ristrutturazione del verso accolta dai due studiosi, ciò che rappresenta a mio avviso un motivo ulteriore per rigettare quella ristrutturazione. Né mi è chiaro in che senso Viarre 2005, ad loc. parli a proposito di advena di «une sorte d’épithète homérique». In generale sul punto cfr. Lowrie 2011, 6, che individua opportunamente come motivo unificante di tutti gli otto versi incipitari una «progressive integration of non-native elements». Infine, vale la pena di ricordare che il Tevere è definito “etrusco” ben sei volte in Virgilio, di cui cinque nell’Eneide (documentazione in Horsfall 1990, 156).
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a sua volta parte del flusso centripeto che converge da ogni dove in direzione di Roma, come se la città fosse il polo di attrazione di un movimento che ha preso avvio nei tempi remoti del mito ma che non cessa di esercitare i suoi effetti nel presente, se può ancora chiamare a sé dalle periferie del mondo nuovi soggetti e integrarli nel proprio tessuto.11 Q uanto ai boves di cui si parla nel v. 8, è forse possibile proporre anche a questo riguardo alcune considerazioni. In un celebre passaggio della prima ecloga virgiliana l’atto di bere ad un fiume straniero è icona della condizione dell’esule: se sin da Omero e poi ripetutamente nella tradizione poetica successiva un popolo può essere identificato attraverso la menzione del fiume al quale attinge, i Germani e i Parti virgiliani che si scambiano i rispettivi corsi d’acqua pererratis amborum finibus sono l’espressione del violento sradicamento che incombe su chiunque sia costretto ad abbandonare la propria terra.12 È possibile, pur nell’incertezza testuale del verso, che Properzio stia qui applicando il medesimo motivo ai boves, estranei al Tevere tanto quanto il fiume lo è a loro: se così fosse, ciò che il poeta intenderebbe enfatizzare è che lo sradicamento spaziale e la condizione di profugo riguardano in pari misura gli uomini e loro animali, esattamente come sia Evandro che le sue giovenche condividono il medesimo esilio. Ma nei quattro distici di apertura dell’elegia 4, 1 non meno significativa è la presenza di riferimenti al mondo divino. Degli dèi – a parte l’allusione al tempio augusteo di Apollo Palatino – Properzio fa menzione anzitutto al v. 5, dove ricorda le divinità d’argilla, gli dei fictiles intorno ai quali sono sorti nel tempo gli aurea templa della Roma attuale. I commenti a questo verso citano una serie di attestazioni di età tardo-repubblicana e imperiale che confermano l’uso della terracotta nella realizzazione dei primi simulacri divini, o almeno dimostrano che così i Romani
11 La vocazione “inclusiva” di Roma è valorizzata, com’è noto, anche nei versi successivi dell’elegia proemiale, che alludono all’apporto sabino ed etrusco alle origini della città (vv. 29-31); di quella vocazione è del resto prova la stessa vicenda biografica di Properzio, la cui matrice umbra è non a caso sottolineata nello stesso verso in cui il poeta si definisce “Callimaco romano” (v. 64: Umbria Romani patria Callimachi). 12 Cfr. Verg. Buc. 1, 61-62, da vedere con il commento ad loc. di Cucchiarelli 2012, 162.
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amavano immaginare i loro più antichi manufatti artistici; meno si pone l’accento sul fatto che quel materiale riveste nella tradizione latina anche un preciso significato culturale, funzionando come una sorta di marcatore metonimico per alludere alla semplicità delle origini, e che, salvo casi di prosa tecnica, la terracotta è pressoché invariabilmente evocata per esprimere il primo corno di un contrasto il cui polo opposto è costituito dai preziosi materiali colpevolmente ammirati e bramati dai moderni, come in un passaggio di Seneca nel quale si cita come esempio di grandezza d’animo quello di chi è capace di servirsi dei fictilia come fossero argento e dell’argento come se si trattasse di argilla.13 Se fosse lecito affiancare alla nozione di ‘figura del ricordo’, resa familiare dagli studi di Jan Assmann sulla memoria culturale, quella di ‘materiale del ricordo’, la terracotta degli autori latini entrerebbe senz’altro a far parte di questa categoria: oltre tutto, nel caso specifico dei simulacri divini è costante l’idea che al minimo pregio delle antiche immagini sacre corrispondesse il massimo di venerazione prestato ai loro referenti e viceversa che l’accresciuto valore delle prime si sia accompagnato al progressivo venir meno della devozione religiosa.14 Non direi che questo implichi in Properzio un atteggiamento di moralistica condanna verso la magnificenza dell’architettura sacra augustea; e tuttavia è anche questo un dato di cui tener conto nella valutazione degli intenti perseguiti dal poeta. Vorrei concentrare ora la mia attenzione sui vv. 7 e 8. A proposito del primo, accolgo senz’altro la tesi di chi individua nel testo properziano un riferimento al futuro tempio di Giove Capitolino, realizzato nell’ultimo scorcio dell’età monarchica, lo stesso al quale con ogni evidenza avrebbe pensato qualsiasi lettore 13 Sen. Ep. 5, 6: Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento. Nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus. Plinio il Vecchio, dopo aver esaltato gli antichi simulacri divini in argilla (ricordando tra l’altro a 35, 157 un’antica statua detta Hercules fictilis, ai suoi tempi ancora esistente a Roma), informa di come in età imperiale i fictilia fossero assurti a grande pregio proprio in ragione della loro semplicità, come sorta di reazione alla diffusione di materiali più pregiati, e dunque paradossalmente fossero diventati sintomo di un nuovo picco della luxuria (35, 163: eo pervenit luxuria, ut etiam fictilia pluris constent quam murrina). 14 Com’è noto, la nozione di “figura del ricordo” è stata elaborata in particolare da Assmann 1997.
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antico sentendo associare il nome del signore degli dèi a quello del Campidoglio; escluderei invece che il poeta intendesse evocare il sacrario di Giove Feretrio, magari con l’intenzione di anticipare il contenuto dell’elegia 4, 10, in cui si ricorda l’origine di quel culto, e a maggior ragione che il verso alluda al tempio di Iuppiter Tonans, votato da Augusto solo nel 26 a.C.: sarebbe come presupporre che la rupe Tarpea fosse rimasta nuda sino a quel momento, e certo Giove tuonava da molto prima che l’epiteto scelto dal principe per il suo tempio ne ricordasse questa prerogativa.15 Mi sembra invece eccessivamente sottile l’interpretazione, peraltro piuttosto diffusa, secondo cui Properzio preannuncerebbe, attraverso l’inedito appellativo di Tarpeius riferito a Giove, la successiva elegia 4, 4, che fornisce l’aítion di quel nome: gli esegeti moderni non dovrebbero mai dimenticare che la loro percezione di una raccolta poetica antica non è quella del fruitore coevo, che inevitabilmente esperiva il libro attraverso una lettura progressiva e lineare.16 Resta allora da intendere perché Properzio abbia scelto per indicare Giove una perifrasi, quella di Tarpeius pater, che in poesia si incontra solo dopo di lui e che da lui, con ogni verosimiglianza, deriva. 3. Per rispondere a questa domanda è necessario a mio avviso tenere conto di un aspetto importante della religione romana, sul quale hanno insistito ancora in tempi recenti le ricerche di John Scheid e Maurizio Bettini. Entrambi gli studiosi hanno fissato la propria attenzione in particolare sul carattere ‘civico’ di quella esperienza religiosa: e questo non solo nel senso, ben noto, per cui la pratica del culto a Roma è assai meno una questione di credenza individuale, di fede personale nell’esistenza e nell’azione di una divinità, di quanto non sia invece una prassi esercitata collettivamente e vissuta in un contesto pubblico secondo il calendario e in base ai riti fissati dalla città. La religione romana è civica anzitutto nel senso che è la città stessa, in un senso molto concreto, a istituire gli dèi: i quali ‘nascono’ a Roma nel momento in cui se ne introduce e se ne definisce il culto, momento che coin15 Molto ragionevole a questo riguardo il commento ad loc. di Camps 1965; contra Coutelle 2015, ad loc. 16 Cfr. tra gli altri Marquis 1974, 14-17, in particolare 14; Thayer 2015, 38.
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cide di norma con la consacrazione ufficiale di uno spazio loro riservato o con l’erezione di un tempio e l’introduzione della relativa festività.17 A questo riguardo è particolarmente illuminante un’affermazione di Varrone, a noi nota grazie alla menzione polemica che ne fa Agostino: il dotto reatino, a quanto pare, spiegava di aver composto prima le Antiquitates rerum humanarum e solo in un secondo momento l’analoga raccolta relativa alle res divinae per la ragione che «prima sono esistite le civitates, poi da queste sono state istituite le cose relative agli dèi».18 Q uando dunque i Romani articolano la categoria degli ‘inizi’ in relazione alle divinità, il momento che viene valorizzato non è tanto, o non è affatto, quello della loro ‘nascita’ in senso stretto, ma quello della cerimonia o della decisione pubblica che ratifica il loro accoglimento all’interno della città e istituisce contestualmente uno spazio sacro per l’appropriato esercizio del culto. Bettini in particolare illustra questo punto richiamando un passo celebre dell’ottavo libro dell’Eneide, proveniente da un contesto che Properzio mostra di aver tenuto ben presente proprio nei versi iniziali dell’elegia che stiamo considerando.19 Nella visita ai luoghi della futura Roma compiuta da Enea sotto la guida di Evandro, i due personaggi vengono a trovarsi di fronte al Campidoglio, che in quel momento è ancora un’altura irta di boschi; l’esule arcade aggiunge però che già allora il colle era avvolto da una dira religio e che i contadini erano spaventati dai fenomeni che su di esso si verificavano: Ed ecco che Evandro spiega il perché di questi religiosi timori: sul colle abita un dio, dice, non si sa chi sia, ma gli Arcadi credono di aver visto lassù Iuppiter mentre agita la nera 17 Cfr. in particolare Scheid 1983 e 1985; Bettini 2014, 93-101; 2015 a, 18-21; 2015 b, 31-33. Cfr. anche Blomart 2002, che si occupa tra l’altro del caso di Esculapio cui facciamo cenno più in basso. 18 August. Civ. 6, 4, 11-12 (= Varro, Antiquitates rerum divinarum, fr. 5 Cardauns): Varronis igitur confitentis ideo se prius de rebus humanis scripsisse, postea de divinis, quia divinae istae ab hominibus institutae sunt, haec ratio est: «Sicut prior est», inquit, «pictor quam tabula picta, prior faber quam aedificium: ita priores sunt civitates quam ea, quae a civitatibus instituta sunt». 19 I debiti dell’elegia 4, 1 nei confronti dell’ottavo libro dell’Eneide vengono riconosciuti pacificamente dagli studiosi; siccome il punto non è centrale per il nostro discorso, mi limito a rinviare alla densa sintesi di Fedeli 2012, 12-13; paralleli con altre descrizioni poetiche di Roma in Royo 2014.
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egida e scuote le nubi con la destra. Come si vede Iuppiter si aggira già sul Campidoglio, ben prima della fondazione di Roma, ma la sua identità è ancora oscura, si crede soltanto che sia lui. Q uesta misteriosa presenza, espressa sotto forma di segni e di timori, prelude evidentemente al momento in cui Tarquinio Superbo costruirà il tempio di Iuppiter Capitolinus sul medesimo colle: solo dopo questo inizio lo Iuppiter “del Campidoglio” avrà ricevuto il proprio statuto e la propria identità.20
Se questa affascinante ricostruzione dell’immaginario che accompagna a Roma gli ‘inizi’ degli dèi e l’ingresso di nuove divinità nel culto cittadino è corretta, allora è lecito pensare che proprio il verso properziano sul Tarpeius pater ne offra una conferma ulteriore, tanto più, come si diceva, per il fatto di trovarsi in un contesto che tanti debiti mostra rispetto al passo virgiliano sul quale Bettini ha fondato una parte delle proprie riflessioni. Anche quando lo spazio del Campidoglio era solo collis et herba, la presenza di una forza divina operante sulla cima dell’altura era chiaramente percepibile attraverso le manifestazioni cui dava luogo, la tempesta in Virgilio, il tuono in Properzio: sennonché quelle manifestazioni non erano attribuibili con certezza ad alcuna divinità precisamente identificata – quis deus incertum est, come spiega Evandro nell’Eneide, si può solo essere certi che si tratta di un dio.21 Q uesta figura nebulosa, questa divinità pre-civica e proprio per ciò ancora indefinita nella sua identità, può dunque essere designata soltanto attraverso una perifrasi generica, che chiama in causa da un lato un epiteto, pater, del tutto convenzionale nella titolatura romana degli dèi (non solo Iuppiter, evidentemente), dall’altro un aggettivo, Tarpeius, che non indica altro se non l’afferenza spaziale di questa divinità, la sede nella quale sono localizzate le sue manifestazioni.
20 Bettini 2015 a, 19 (corsivi dell’autore). I versi di Virgilio commentati da Bettini sono Aen. 8, 347-354: hinc ad Tarpeiam sedem et Capitolia ducit / aurea nunc, olim silvestribus horrida dumis. / Iam tum religio pavidos terrebat agrestis / dira loci, iam tum silvam saxumque tremebant. / «Hoc nemus, hunc» inquit «frondoso vertice collem / (quis deus incertum est) habitat deus; Arcades ipsum / credunt se vidisse Iovem, cum saepe nigrantem / aegida concuteret dextra nimbosque cieret». 21 Aen. 8, 352.
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Una simile conclusione può offrire qualche spunto anche per una migliore interpretazione del verso successivo. Si tratta, lo abbiamo visto, di un passo particolarmente sollecitato dagli interpreti; ma i termini che ora ci interessano più da vicino non sono quelli su cui si è appuntato il dibattito filologico. Se infatti Tarpeius pater è una perifrasi poco impegnativa per definire una divinità di cui si colgono le manifestazioni ma non è ancora chiara la precisa identità, non va dimenticato che anche il nome Tiberis può indicare, insieme al fiume, il dio che con esso si identifica. Per quest’ultimo impiego, com’è noto, il latino preferisce la forma Tiberinus; e una glossa spesso citata di Servio ricorda esplicitamente come Tiberis fosse, nel linguaggio comune, ciò che Tiberinus era nel lessico dei sacerdoti e delle invocazioni rituali.22 Ma questa glossa da un lato conferma la sostanziale identità fra il dio e il corso d’acqua – la stessa nota serviana osserva cum ipse fluvius Tiberinus sit –, dall’altro non esclude che in alcuni casi il secondo possa indicare il primo, come accade tra l’altro in un verso di Virgilio, ancora nell’ottavo libro dell’Eneide, che riprendeva a sua volta una analoga invocazione presente in Ennio: teque, o Thybri, tuo, genitor, cum flumine sancto.23 Ora, questa ipotesi interpretativa consente di restituire un valore ulteriore anche all’appellativo advena riservato al Tevere. Advena è in effetti un termine impiegato piuttosto spesso per indicare l’origine non ‘indigena’ di una divinità, a volte accolta da tempo nel culto romano senza che però si perdesse memoria della sua provenienza straniera. Ovidio ad esempio, dopo aver raccontato nelle Metamorfosi il trasferimento dalla Grecia a Roma del culto di Esculapio, che ebbe luogo all’inizio del III secolo a.C., contrappone espressamente quest’ultimo alla figura di Cesare divinizzato, del quale si occupa la sezione conclusiva del quindicesimo libro: Hic tamen accessit delubris advena nostris; / Caesar in urbe sua deus est (dove tra l’altro va notato il medesimo accostamento fra advena e nostris che si legge, in posizione inversa, anche in Properzio, ragione di più per non toccare in questo punto il 22 Serv. Aen. 8, 31: bene “Tiberinus”, quia supra dixerat “deus”: nam in sacris Tiberinus, in coenolexia Tiberis, in poemate Thybris vocatur. 23 Verg. Aen. 8, 72, che riprende Enn. Ann. fr. 26 Skutsch (teque pater Tiberine tuo cum flumine sancto). Cfr. Mambella 1997.
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testo tràdito).24 Come si vede, a un dio certo accolto tempestivamente nel pantheon latino ma comunque giunto a Roma da straniero, Ovidio contrappone Cesare in quanto divinità autoctona perché legata a Roma sin dagli inizi della sua parabola. Del resto, nelle stesse Metamorfosi anche Dioniso, una figura così strettamente connessa alla città di Tebe, viene considerato un advena al momento del suo arrivo nella città di Penteo e come tale respinto proprio in ragione del culto, estraneo alla tradizione, del quale il dio è portatore. L’esempio più chiaro di impiego del termine a proposito delle divinità si legge però nel De legibus di Cicerone: qui viene prescritto infatti che nessuno riconosca autonomamente deos neve novos neve advenas nisi publice adscitos, «a meno che non vengano accolti pubblicamente»: ancora una volta l’enfasi è posta sulla decisione della città in merito all’ammissione nel proprio pantheon di divinità in precedenza ignote o provenienti dall’esterno, e il verbo utilizzato, adsciscere, è il medesimo che si impiegava a Roma per indicare l’accoglimento nella cittadinanza, come osserva ancora Bettini.25 Advenae sono del resto, secondo il mito romano delle origini, gli stessi Penati, divinità tutelari di Troia che Enea e Anchise hanno recato in Italia e che Properzio definisce profugos in un altro punto dell’elegia proemiale: i fondatori di Roma non sono meno stranieri degli dèi chiamati a proteggere la loro fondazione.26 Se questa ipotesi ha qualche possibilità di cogliere nel segno, l’organizzazione del distico risulterebbe allora particolarmente sofisticata: da un lato avremmo infatti una divinità, Iuppiter, che insiste sul Campidoglio di Roma da sempre, ma della quale per il momento non è possibile ancora definire la precisa identità, al punto che per designarla è necessario il ricorso ad una perifrasi generica; dall’altro un dio, Tiberis, puntualmente identificato dal proprio nome, ma colto nel momento in cui si tratta ancora di un advena, in cui ancora non si è compiuta la sua ‘naturalizzazione’ all’interno di una civitas che resta di là da venire. 24 Ov. Met. 15, 745-746, con il commento ad loc. di Hardie 2015. Il riferimento presente subito dopo nel testo è relativo a Met. 3, 561. 25 I passi sono i medesimi citati supra, nota 17. 26 Prop. 4, 1, 39: Huc melius profugos misisti, Troia, Penates.
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S’intende che dal mio punto di vista una simile interpretazione si affianca a quella tradizionale senza sostituirsi ad essa: il Tevere è un fiume straniero perché, al contrario di quello che accade ormai nella Roma augustea, esterno al perimetro originario della città e perché proveniente da un contesto geografico altro rispetto a quello propriamente latino, e al tempo stesso è straniero in quanto divinità non ancora accolta nel sistema romano dei sacra, ciò che secondo la tradizione sarebbe accaduto solo con Romolo. Del resto, una così netta distinzione tra il fiume come mera emergenza geografica e il dio che ne reca il nome è propria più dei moderni che degli antichi, per i quali le due realtà di fatto si confondevano e finivano per coincidere. 4. La “Roma prima di Roma” immaginata da Properzio, sulla scorta di Virgilio, è insomma una realtà priva dei suoi templi non meno di quanto sia priva delle divinità cui quei templi si riferiscono: un’associazione che trova la sua profonda ragion d’essere in quella visione degli dèi come ‘istituzioni’ della città che abbiamo succintamente rievocato. Il suo sito storico si riempie gradualmente di presenze, in gran parte provenienti da lontano: la Frigia di Enea, l’Arcadia di Evandro, l’Etruria del Tevere. Lo statuto di stranieri si estende persino agli animali che brucano l’erba dei colli o bevono l’acqua del fiume e coinvolge gli stessi dèi che attendono la nascita della città per vedere finalmente definita e riconosciuta la propria identità e fissati i culti che si incaricano di ricordarla e celebrarla. Ed è questo processo di progressiva costruzione e densificazione dello spazio urbano e culturale quello che il nuovo Properzio eziologico del quarto libro si ripromette di indagare, isolando al suo interno alcuni momenti privilegiati. Come Properzio interpreti tale processo, lo si ricordava all’ini zio, è tuttora materia di speculazione fra gli studiosi, alla quale vorrei dedicare le osservazioni finali del mio contributo. Un buon punto di partenza è rappresentato a questo proposito da un verso che esula dalla sezione dell’elegia sin qui esaminata; un verso un po’ sconcertante, a dire il vero, che sembra smentire seccamente tutte le interpretazioni tese a cogliere nel testo properziano la valorizzazione della continuità fra passato e presente: nil patrium nisi nomen habet Romanus alumnus (v. 37). I Romani del tempo 250
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presente, secondo Properzio, continuano a chiamarsi come i loro remoti antenati delle origini, ma oltre al nome nulla con essi hanno in comune. L’oblio prevale sulla memoria, la rottura sulla percezione del continuum. Il nome non è più un designatore pregnante, che porta con sé una pluralità di valenze e richiama una precisa costellazione di contenuti, ma è un guscio vuoto, al quale non corrisponde nulla: nomina nuda tenemus.27 Il fatto è che la relazione tra la Roma odierna e quella delle origini sembra costruita secondo il modello di quella che molto acutamente qualche studioso ha definito “città-palinsesto”: come in un codex rescriptus, la nuova trama urbana non si sviluppa a partire da quella sottostante, ma la raschia via e la soppianta.28 Il passato non si intravede in filigrana attraverso il presente, perché quest’ultimo nella sua oltranza lo ha cancellato: il fatto che il marmo brillante dei templi abbia coperto la terra nera potrà essere giudicato in termini positivi, come nel celebre elogio del cultus che apre i Medicamina di Ovidio, o percepito invece come una forma inaccettabile di luxuria, o ancora, come sembra accadere in Properzio, le due situazioni possono essere giustapposte senza che questo implichi necessariamente un giudizio di valore: in tutti i casi, il moderno presenta una opacità che impedisce di vedere il processo che ha condotto ad esso e ancor più di cogliere lo stato originario delle cose, ormai irrimediabilmente obliterato. Q uando si guarda il Campidoglio di oggi e lo si confronta con quello del passato, ricorda ancora Ovidio in un passaggio dell’Ars amatoria, si direbbe che esso appartenga ad un altro e diverso Iuppiter: nil nisi nomen, ancora una volta, il tempio antico 27 Sul v. 37 (e sul successivo e strettamente connesso pentametro, che accolgo nella forma sanguinis altricem non putet esse lupam), oltre ai commenti ad loc. di Coutelle 2015 e di Fedeli – Dimundo – Ceccarelli 2015, cfr. tra gli altri MacLeod 1976, 142; von Albrecht 1983, 219-220; Stahl 1985, 256; Newman 1997, 266267; Janan 2001, 135; DeBrohun 2003, 57-58; Gold 2006, 141-142; Robinson 2006, 204; Alwine 2011; Lowrie 2011, 7. 28 Per l’origine di questa metafora si rimanda solitamente al l’introduzione di Freud al suo Disagio della civiltà (cfr. ad esempio DeBrohun 2003, 41), dove però l’immagine è alquanto diversa: la situazione prospettata da Freud per descrivere i processi della memoria umana era infatti quella di una Roma nella quale le diverse fasi di sviluppo fossero tutte contemporaneamente esistenti e visibili, dove ad esempio nel luogo oggi occupato da Palazzo Caffarelli, e senza che quest’ultimo sia rimosso, sorgesse ancora il tempio di Giove Capitolino – una situazione insomma opposta a quella del palinsesto in senso proprio.
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e quello presente portano lo stesso nome ma sembrano dedicati a due divinità differenti.29 È anzi significativo che anche questo secondo passo si collochi all’interno di un elogio del cultus, motivo così squisitamente ovidiano: in fondo, la monumentalizzazione augustea di Roma è una forma di cultus urbano, e dunque una pratica che rischia di creare alla cultura tradizionale non meno disagio di quanto faccia il trucco femminile. Ma non serbare nulla dei propri padri se non il nome è un addebito grave a Roma, in una cultura che valorizza proprio la continuità fra le generazioni, intesa anzitutto come ininterrotta trasmissione da padre in figlio di un patrimonio di virtù e costumi lungo la catena della discendenza agnatizia: è un’esegesi irricevibile quella che vede nell’espressione properziana un elogio ai Romani che si sono ‘fatti da sé’, che orgogliosamente possono rivendicare di non dovere nulla ai loro antenati.30 La cultura latina è pur sempre qualcosa di profondamente diverso dall’American dream e conservare, dei propri avi, il solo nome – basta leggere a questo riguardo testi illuminanti come l’invettiva ciceroniana contro Pisone o l’ottava satira di Giovenale – equivale ad essere indegni del proprio passato, a mostrarsi discendenti degeneri di una grande tradizione, ciò che costituisce a Roma la peggiore delle colpe.31 In Properzio però questa constatazione non si risolve in la mento moralistico sulla decadenza del presente, men che meno implica un giudizio perplesso o critico sul principato augusteo, ma costituisce la premessa e insieme la giustificazione profonda della ‘svolta eziologica’ di cui l’elegia 4, 1 rappresenta il preannuncio.32 29 Cfr. rispettivamente Ov. Med. 8 (nigra sub imposito marmore terra latet); Ars, 3, 115-116 (in una sezione che deve molto alla 4, 1 di Properzio): Aspice quae nunc sunt Capitolia quaeque fuerunt: / alterius dices illa fuisse Iovis. 30 Su questo aspetto della cultura romana esiste naturalmente un’ampia bibliografia; per lucidità e ricchezza di passi cfr. in particolare Treggiari 2003. L’esegesi cui alludo è stata proposta da Camps 1965, ad loc. ed è rimasta giustamente isolata. 31 Della satira giovenaliana cfr. in particolare i vv. 30-32 (Q uis enim generosum dixerit hunc qui / indignus genere et praeclaro nomine tantum / insignis), dell’orazione ciceroniana il par. 2 (Nam tu cum quaestor es factus, etiam qui te numquam viderant, tamen illum honorem nomini mandabant tuo. Aedilis es factus; Piso est a populo Romano factus, non iste Piso eqs.). 32 Contra Coutelle 2015, 395, per il quale invece i vv. 37-38 rappresentano una sorta di sconfessione preventiva del progetto eziologico, che ne risulta
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Fare eziologia non significa solo optare per una forma di poesia dotta o inserirsi in una prestigiosa tradizione letteraria, che aveva il suo indiscusso archegeta in Callimaco: significa molto di più. Cantare i sacra, i dies e i cognomina prisca locorum, secondo il programma enunciato al v. 69, contribuisce a de-opacizzare il presente, a riportare alla luce la scriptio inferior della città-palinsesto, a restituire senso ad un nomen che resta altrimenti eredità inerte e continuità senza significato, a riannodare il filo delle generazioni, a rendere ai figli immemori i loro padri perduti. È una lotta per la memoria in un momento storico in cui la debordante visibilità del presente si impone sino a fare velo alla conoscenza del passato, un antidoto al paradosso augusteo che nel mentre valorizza l’antico ed enfatizza la propria continuità con esso, al tempo stesso lo cancella e lo soppianta. In questo contesto, alle parole della poesia spetta il compito di chiudere nuovamente il circuito, di riattivare la comunicazione: esse letteralmente presentificano un passato che c’è stato ma che non è più percepibile, esattamente come le parole rivolte all’hospes della 4, 1 disegnano un panorama di erbe e colline, di capanne e statue d’argilla che non esistono più, neppure in forma di traccia residuale – ecco perché trovo fuorviante parlare di ‘passeggiata archeologica’ –, ma che la parola poetica può restituire, rievocare, ricostruire, colmando di senso e di sensi il nomen patrium dei Romani di oggi.33 L’eziologia è insomma un salutare ritorno del rimosso, una prosopopea dei padri che ristabilisce una continuità genealogica altrimenti obliterata. 5. Mi chiedo allora se queste considerazioni non autorizzino una ulteriore e conclusiva ipotesi. È ben noto un passaggio degli Academica posteriora in cui Cicerone tesse un bellissimo elogio dell’amico Varrone proprio nella sua qualità di ‘eziologo’ della cultura romana: quando noi eravamo stranieri e vagavamo nella nostra stessa città alla stregua di ospiti, i tuoi libri, per così dire, ci hanno «infirmé à l’avance»; dello stesso avviso anche Heyworth 2009, 419, per il quale «before Propertius lays claim to the title Callimachus Romanus (64) he has already undermined the project to which that name is attached». 33 Di “passeggiata archeologica” a proposito della 4, 1 parlava com’è noto La Penna 1977, 187-191.
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riportato a casa, permettendoci finalmente di riconoscere chi e dove fossimo. Tu hai chiarito la storia della patria, la divisione delle età, le regole dei riti sacri e dei sacerdozi, le norme civili e militari, la geografia delle regioni e dei luoghi, tu i nomi, i generi, le funzioni e le cause di tutte le cose divine e umane.34
Se avessimo agio di esaminare analiticamente questa pagina ciceroniana, troveremmo in essa già definita molta parte del lessico impiegato dal Properzio eziologico: il nesso aperire causas, che ricorre tal quale nel verso di apertura dell’elegia 4, 10, l’insistenza sui nomina e sui loca, l’attenzione al passato della città e alla sua storia.35 Anche Varrone era sensibile allo svanire del passato, avvertiva dolorosamente l’avanzare dell’oblio che riduceva una veneranda tradizione a puro nome, e anche quest’ultimo noto a pochi: a proposito della festa dei Furrinalia e della divinità cui era consacrata, Varrone rileva ad esempio che la dea era certo ben nota agli antichi, che oltre alla festa le avevano dedicato anche un flamine, mentre «oggi a stento è noto il suo nome, e anche quello a poche persone».36 Q ui dobbiamo però limitarci a un solo aspetto, il lusinghiero riconoscimento che al l’erudito viene tributato da Cicerone per aver «riportato a casa» i Romani stranieri nella loro stessa città: quei Romani che hanno perso memoria del proprio passato, alla stessa stregua di quelli descritti da Properzio come eredi del solo nome patrio, e che vengono dunque chiamati a operare una sorta di ‘agnizione’ della loro stessa identità (il verbo impiegato da Cicerone è proprio agnoscere). Soprattutto, quei Romani che in quanto vittime 34 Cic. Ac. post. 1, 9: Nam nos in nostra urbe peregrinantis errantisque tamquam hospites tui libri quasi domum reduxerunt, ut possemus aliquando qui et ubi essemus agnoscere. Tu aetatem patriae, tu discriptiones temporum, tu sacrorum iura, tu sacerdotum, tu domesticam, tu bellicam disciplinam, tu sedem regionum locorum, tu omnium divinarum humanarumque rerum nomina genera officia causas aperuisti. 35 L’espressione aperire causas è in effetti già in Varro, LL, 6, 37. Sul significato degli interessi antiquari di Varrone nel contesto della cultura romana tardorepubblicana rimando all’eccellente lavoro di Romano 2003, in particolare 101102 sul passo ciceroniano degli Academica; cfr. poi le suggestive pagine di Moatti 2015, 114 ss. 36 Varro, LL, 6, 19: Furrinalia a Furrina quod ei deae feriae publicae dies is; cuius deae honos apud antiquos: nam ei sacra instituta annua et flamen attributus; nunc vix nomen notum paucis (opportunamente citato da Romano 2003, 105).
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di questo smarrimento e oblio delle proprie radici sono divenuti, paradossalmente, hospites di se stessi.37 È difficile dire se Properzio conoscesse questa pagina ciceroniana, e forse non è neppure necessario supporlo, perché il poeta può aver concepito autonomamente la stessa immagine foggiata dall’autore degli Academica. Si è sempre dato per scontato che l’hospes evocato nel primo verso dell’elegia fosse uno straniero, un visitatore, magari lo stesso Horos che di lì a poco prenderà bruscamente la parola per demolire le ambizioni poetiche del ‘nuovo’ Properzio. L’espressione impiegata da Cicerone suggerisce almeno la possibilità di una interpretazione diversa: hospites sono gli stessi Romani, è a loro, prima di tutto, che un discorso come quello che apre il componimento properziano deve essere rivolto.38 Dunque non è vero che dopo la sua fuggevole apparizione iniziale l’hospes scompare, un po’ come quei personaggi protatici che servono ad aprire una commedia e poi non ritornano più sulla scena: è lui, più avanti, a prendere il nome di Romanus alumnus, ed è ancora lui ad essere evocato successivamente dietro termini come Roma o come patria. Ma con questa estrema ipotesi il nostro discorso deve fermarsi; ciò che spero l’analisi sin qui condotta abbia contribuito a ricordare è che nella celeberrima definizione che al centro di questa elegia Properzio dà di sé come Romanus Callimachus, l’aggettivo non è meno importante del nome proprio cui si accompagna.
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Coutelle 2015 = É. Coutelle, Properce, Élégies, livre IV, Bruxelles 2015. Cucchiarelli 2012 = A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, Roma 2012. Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015 = P. Fedeli – R. Dimundo – I. Ciccarelli, Properzio, Elegie, Libro IV, Nordhausen. Hardie 2015 = Ph. Hardie, Ovidio. Metamorfosi, vol. VI, Libri XIIIXV, Milano 2015. Hutchinson 2006 = G. Hutchinson, Propertius, Elegies, book IV, Cambridge 2006. Reid 1885 = J.S. Reid, M. Tulli Ciceronis Academica, London 1885 (rist. Hildesheim 1966). Richardson 1977 = L. Richardson Jr., Propertius Elegies I-IV, Norman 1977. Syndikus 2010 = H.P. Syndikus, Die Elegien des Properz. Eine Interpretation, Darmstadt 2010. Viarre 2005 = S. Viarre, Properce. Élégies, Paris 2005.
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Abstracts Il contributo si propone di analizzare dal punto di vista antropologico Properzio 4, 1, 1-8. Particolare interesse viene riservato alle espressioni Tarpeius pater e Tiberis advena, alla relazione istituita dal poeta fra il passato e il presente di Roma e infine all’identità dell’hospes cui l’elegia si rivolge. The contribution aims to analyse Propertius 4.1.1-8 from an anthropological point of view. Specific attention is paid to expressions such as Tarpeius pater and Tiberis advena, to the connection between Rome’s past and present as established by the poet, and finally to the identity of the hospes mentioned in the first line of the elegy.
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FRANCESCO MARCATTILI
DUE STATUE ONORARIE DALL’AREA DEL ‘TEMPIO DI MINERVA’: PROPAGANDA E CULTO IMPERIALE AD ASISIUM
Come è noto, negli scavi ottocenteschi eseguiti da Charles Victor Famin ad Assisi nell’area del cosiddetto Tempio di Minerva 1 (fig. 1), dedicato a Castore e Polluce,2 vennero in luce due statue acefale in marmo di buona fattura. Una statua virile in nudità eroica e un togato furono infatti scoperti in uno stesso saggio, eseguito nel 1839 non lontano dalla fontana ricavata nel tratto orientale del grande muro di sostruzione dell’edificio templare.3 Le due sculture, attualmente conservate presso il locale Museo Civico e descritte in anni recenti in un ampio catalogo generale delle raccolte comunali della città umbra,4 meritano secondo chi scrive uno specifico ed approfondito esame, nella convinzione che fossero parte di uno stesso gruppo o ciclo scultoreo offerto – come si cercherà di verificare – a selezionati esponenti della domus Augusta nei primi decenni del periodo imperiale.5 E nel senso di un medesimo, originario contesto di dedica ed esposizione, è già significativo che le due statue, purtroppo prive delle rispettive teste-ritratto, siano state rinvenute congiuntamente in prossimità di un tempio che, per una serie di elementi che ricorderemo, si configura per Asisium anche come un centro del culto Su queste indagini, Sensi 1996. Per l’attribuzione del tempio ai Dioscuri e per la bibliografia su questa rilevante area sacra, mi permetto di rinviare ad un mio articolo (Marcattili 2013a). 3 Documentazione ottocentesca su questi interventi raccolta e discussa in Sensi 1996, 541-542, 556-558. Si legge nel BullInst 1869, 261: «…La seconda escavazione nei pressi della fonte, fruttò il ritrovamento di due statue…». 4 Matteini Chiari 2005. 5 Ipotesi cui ho già accennato in Marcattili 2013a, 270-272. 1 2
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dinastico. L’indagine non può che iniziare dalla descrizione delle due sculture, coerenti anche da un punto di vista dimensionale. La prima statua 6 (fig. 2), con sostegno a forma di tronco d’albero, rappresenta un giovane nudo con la clamide appoggiata sulla spalla sinistra, avvolta quindi sull’avambraccio corrispondente e ricadente dalla parte esterna, mentre il braccio destro era in origine sollevato a sostenere un attributo non definibile. Insieme a quest’ultimo, perduti risultano l’intero braccio destro, tagliato all’altezza della spalla, ed il polso e la mano sinistra, in origine protesi in avanti. Il torso mostra una muscolatura eseguita accuratamente, resa comunque in maniera non particolarmente pronunciata, con piani morbidi, sfumati e lisciati, destinati a manifestare l’età giovanile del personaggio rappresentato. La ponderazione del corpo è realizzata con la gamba destra tesa e statica, mentre la sinistra appare flessa, arretrata e rivolta lateralmente; più alta della destra si presenta la spalla sinistra, cui corrispondono l’evidente sporgenza dell’anca destra e la flessione verso il basso del fianco sinistro. Caratteri iconografici che, nell’insieme, hanno consentito di considerare la statua di Assisi una replica parzialmente modificata del tipo statuario detto «Diomede Cuma-Monaco»,7 tipologia impiegata precocemente nelle statue-ritratto sia per rappresentare personaggi della famiglia imperiale (es. Agrippa Grimani o Augusto di Otricoli), sia autorevoli domi nobiles (es. C. Mucius Q .f. Scaevola da Foruli). Indizi di un non definibile riuso della scultura, comunque antico,8 risultano l’irregolare foro colmo di piombo visibile subito al di sotto del pettorale sinistro e, nella zona pubica, un secondo incavo ed altre irregolari tracce di piombo. Ritengo possibile, invece, che sia contemporaneo alla realizzazione della statua un dettaglio ancora ben visibile in corrispondenza del torace: si tratta di un doppio segno verticale graffito con ductus regolare (II) (fig. 3), verosimilmente una cifra che, come ho già avuto modo di 6 Paoletti 1954; Oehler 1961, 72-73; Maderna 1988, 79, 219-220; Papini 2000, 149; Matteini Chiari 2005, 198-199 (L. Sensi). 7 Così Maderna 1988; Papini 2000, 139-157. Cfr., più in generale, Hallett 2005. 8 Così già L. Sensi in Matteini Chiari 2005, 199, che pensa «…ad un’aggiunta successiva per adeguare la scultura ad altra destinazione».
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proporre, sembra indirettamente segnalare l’originaria presenza di una statua analoga (purtroppo perduta) che doveva far coppia con la scultura superstite che stiamo descrivendo. La cifra o sigla, dunque, poteva indicare la seconda statua con la finalità di precisarne, forse al momento dell’esposizione, la posizione da assumere in relazione all’altra o all’interno di un più articolato gruppo di sculture.9 Tale ipotesi diventa ancora più plausibile se pensiamo alle divinità celebrate nel vicino Tempio di Minerva e nell’antistante tetrastilo, consacrati infatti al doppio e fraterno culto dei Dioscuri,10 ai quali quindi il personaggio in nudità eroica (ed il perduto, affine sodale) dovevano idealmente conformarsi.11 Per questi elementi, e per la verosimile datazione della statua superstite all’età augustea 12 – cronologia su cui torneremo più avanti –, ho dunque ipotizzato un’identificazione di quelle che in origine dovevano essere con alta probabilità due statue virili in nudità con due principi eroizzati della famiglia imperiale, i quali per la giovane età, per la ricercata volontà di emulazione con Castore e Polluce, possono essere identificati con gli sfortunati nipoti di Augusto, Gaio e Lucio Cesari.13 Per tali motivi, pur essendo parzialmente diverso il tipo statuario dei due principes, ho rintracciato a Corinto un possibile confronto per il contesto di Assisi: le statue di Gaio Cesare e Lucio Cesare (Corinth 135 e 136) 14 esposte simmetricamente nella Basilica Giulia della Colonia Iulia Laus Corinthiensis – edificio del primo quarto del I secolo d.C. –, sculture di un più articolato ciclo di età tardo-augustea realizzato da abili artigiani attici, in cui compariva anche una statua togata di Augusto (Corinth 134) 15 (fig. 4). Marcattili 2013a, 271. Un’aedes del resto realizzata a proprie spese da due fratelli, i quattuorviri quinquennales Cn. Caesius Tiro e T. Caesius Priscus, come conferma l’iscrizione dell’epistilio (CIL, XI 5378; Asdrubali Pentiti, Spadoni, Zuddas 2007, 271-272). 11 Rinvio a Marcattili 2013a, 271-272 per i motivi che inducono ad escludere l’identificazione della scultura con Castore o Polluce. 12 Matteini Chiari 2005, 199 (L. Sensi). 13 Cfr. al riguardo Pollini 2012, 430-432. 14 La numerazione è quella di F.P. Johnson (1931), che descrive le sculture alle pagine 70-76. 15 Da ultimi, Balty 2009; La Rocca et alii 2013, 176-177 (M. Cadario). 9
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A questo punto è d’obbligo verificare la possibilità che anche il togato rinvenuto insieme al giovane eroe nudo di Asisium, generalmente datato alla fine del I o all’inizio del II secolo d.C.,16 facesse parte del medesimo gruppo, e fosse quindi a sua volta chiamato a rappresentare un membro della famiglia imperiale (fig. 5). Di questa scultura, insieme alla testa lavorata a parte, risultano perduti il braccio destro, l’avambraccio sinistro, la porzione inferiore della gamba destra. Piuttosto ben conservato il panneggio della toga, priva comunque di alcune pieghe all’estremità destra del sinus. Il personaggio è rappresentato frontale e stante, con la gamba destra che appariva flessa e leggermente arretrata, mentre la sinistra – sostenuta all’altezza della caviglia da una capsa cilindrica con coperchio – tesa e portante. I calcei sono parzialmente visibili solo nel superstite piede sinistro. Importante per la datazione della statua è la resa dei panneggi della toga, con il balteus rilevato lungo la vita, l’umbo leggermente rigonfio dalla caratteristica forma ad U, il largo sinus che si arresta in corrispondenza del ginocchio destro. Elaborata la resa della lacinia, che scende verticalmente tra le gambe fino a terra, polipartita e mossa da pieghe parallele, conclusa quindi da una nappa a punta con occhiello terminale scolpita a bassorilievo sulla superficie superiore del plinto. È possibile dunque concludere che anche questa seconda scultura riportata in luce presso il Tempio di Minerva sia di buona esecuzione artigianale, con tratti formali e stilistici che ricordano prototipi urbani e, in particolare, l’Augusto di via Labicana 17 (fig. 6). È indubbio, infatti, che la statua di Assisi condivida con il capolavoro del Museo Nazionale Romano, databile agli ultimi anni di vita del Princeps, la ponderazione, la posizione delle 16 Matteini Chiari 2005, 200 (L. Sensi), cui si rimanda per la bibliografia precedente sulla scultura. Per una diversa proposta di datazione (20 a.C. – 20 d.C.), si veda la sintetica guida sull’area del “Foro Romano” di Assisi (Cipi ciani 2013, 57). 17 La Rocca et alii 2013, 161-162 (M. Cadario), con altra bibliografia; la bibliografia sulla scultura precedente al 1993 è esaurientemente raccolta in Boschung 1993, 176-177. Ho discusso di alcuni caratteri del togato di Assisi con M. Cadario, al quale sono particolarmente grato. Vengo a sapere da G. Bonamente – che molto ringrazio –, e dalla lettura di un sito internet prevalentemente dedicato alla storia di Assisi, che negli appassionati studi di A. Papi sono state già rilevate le forti analogie tra la statua togata di Assisi e l’Augusto di Via Labicana.
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braccia, la resa dei panneggi e delle pieghe della toga, la presenza della capsa accanto alla caviglia sinistra. Anche la particolare resa della lacinia, comunque non presente in tali forme nella statua da via Labicana, rievoca monumenti/modelli urbani e concorre ad inquadrare correttamente la nostra scultura: ricordo l’Augu sto augure in toga ritratto insieme a C. Cesare nell’altare dal vicus Sandaliarius agli Uffizi 18 (2 a.C.) (fig. 7), che presenta una nappa a punta appoggiata a terra; o ancora i rilievi dell’Ara Pacis,19 dove qualche esponente della dinastia ed i sacerdoti ritratti togati in processione – si vedano i septemviri epulonum ed i XVviri sacris faciundis – sfilano con la lacinia triangolare ed a punta disposta tra le caviglie e con lo stesso occhiello terminale (fig. 8). Un dettaglio iconografico della statua assisiate che ritroviamo simile in un celebre togato del periodo tardo-augusteo o della prima età tiberiana, con ritratto non pertinente, rinvenuto nel tempio della Fortuna Augusta di Pompei 20 (fig. 9); oppure, in forme più corsive, in un togato capite velato di età claudia esposto nella vicina Foligno.21 Anche per la resa dei panneggi e delle pieghe, pertinenti confronti per la scultura di Assisi sono possibili con analoghi prodotti di ateliers italici attivi nel periodo giulio-claudio ed impegnati soprattutto, in quei decenni di profondi cambiamenti politici e sociali, nella realizzazione di cicli dinastici destinati proprio ad abbellire edifici pubblici e/o religiosi.22 Basta ricordare le note immagini della famiglia imperiale dalla basilica di Otricoli 23 18 Tra i molti altri, Polacco 1955, 74-91; Mansuelli 1958, 203-206, n. 205; Simon 1986, 70-72, 102-103; Pollini 1987, 30-35; Goette 1990, 29, 114, B a 8; Rose 1997, 104-106, n. 33; Boschung 2002, 195; Rose 2005, 45-50; Pollini 2012, 137-145. Sull’altare del vicus Sandaliarius, cfr. ora Marcattili 2015a. 19 La bibliografia sul l’altare augusteo è ovviamente vasta: per la letteratura più significativa rinvio al recente saggio di C. Parisi Presicce in La Rocca et alii 2013, 230-241. 20 Goette 1990, 117, B a 58; Bonifacio 1997, 42-43, n. 7. La cronologia di questa statua, che presenta una ponderazione diversa rispetto al togato di Assisi, potrebbe comunque essere di qualche anno precedente, se la datazione della dedicatio del tempio della Fortuna Augusta coincide con il 2 a.C., anno del l’assunzione da parte di Augusto del titolo di pater patriae (Torelli 2012a, 203, 209; Marcattili 2015b, 42-45). 21 Sul togato di Palazzo Trinci, proveniente dalla non lontana Spello, si veda ora Marroni 2016. 22 In generale, Balty 1988; Rose 1997; Boschung 2002. Sugli Augustea di prima età imperiale, Segenni 2015. 23 Dareggi 1982. In particolare, sull’Augusto del ciclo di Otricoli, si veda
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e dalla basilica di Velleia (gruppo tiberiano), queste ultime studiate e contestualizzate da C. Saletti,24 il quale per due togati acefali ispirati all’archetipo di via Labicana, proponeva l’identificazione con Augusto 25 (fig. 10) e con Tiberio; 26 o ancora le statue acefale di togati da Foruli al Museo Nazionale di Chieti 27, dall’area forense di Scolacium,28 o nel Museo Archeologico di Jesi,29 quest’ultima assegnata al regno di Claudio, ed a sua volta parte di un ciclo dinastico composto da sette statue.30 Tutte sculture chiamate quindi a rappresentare in importanti contesti delle rinnovate città del l’Italia augustea membri della famiglia del Princeps oppure, come nei casi di Foligno e Foruli, personaggi politicamente impegnati di gentes illustri, e che ben rientrano tra i primi esempi del tipo B a nell’ottima catalogazione di H.R. Goette.31 In virtù delle considerazioni precedenti, possiamo quindi datare anche l’anonimo togato di Assisi, scolpito sul modello del l’Augusto di via Labicana, nei primi decenni del I secolo d.C.; più precisamente, per la cronologia del prototipo urbano alla tarda età augustea, una collocazione all’età tiberiana si delinea come probabile, così come plausibile appare la sua identificazione con un personaggio della dinastia, purtroppo non definibile ma comunque celebrato ad Assisi insieme ad un giovane eroe nel quale abbiamo ipoteticamente riconosciuto, attraverso una serie di elementi indiziari e contestuali, uno dei nipoti del Princeps prematuramente scomparsi. Abbiamo omesso di indicare le dimensioni sia della statua virile eroica che del togato; dimensioni che, come si è anticipato, risultano simili e coerenti: considerando l’assenza del collo e della Dareggi 2003, che discute anche i possibili motivi della scelta del tipo statuario «Diomede Cuma-Monaco» per ritrarre membri della dinastia giulio-claudia. 24 Saletti 1968. 25 Saletti 1968, 40-41, n. 6; Goette 1990, 117, B a 72. 26 Saletti 1968, 41-42, n. 7; Goette 1990, 117, B a 71. 27 Scultura di altissima qualità formale, forse prodotta da un’officina neoat tica all’inizio dell’Impero [Sanzi di Mino, Nista 1993, 44-45, n. 5 (L. Nista); Torelli 2012b, 657, n. 1]. Per il ciclo di Foruli, Sanzi di Mino, Nista 1993; Torelli 2012b, 655-664. 28 Donzelli 1987; Donzelli 1989. 29 Goette 1990, 119, B a 117-120; De Marinis 2005, 138, n. 70 (F. Grilli). 30 Sensi 1979. 31 Goette 1990, 29-37, 113-124.
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testa, inserita a parte nel tronco, l’altezza del togato è di m 1,63, mentre della statua eroica, che del collo conserva una parte del tratto inferiore, l’altezza è di m 1,72. Analoghe risultano anche le altezze dei plinti: cm 6 circa per il togato, cm 6,5 circa per la statua del giovane nudo.32 Misure che, insieme alla constatazione che le due sculture siano state rinvenute vicine nello stesso saggio, contribuiscono a sostenere la nostra ricostruzione, quindi la loro appartenenza ad un medesimo gruppo o ciclo scultoreo dedicato alla celebrazione di membri della stirpe imperiale nell’area del tempio dell’attuale Piazza del Comune.33 Si può dibattere se, all’interno del gruppo di Assisi, l’immagine eroica non sia stata realizzata in precedenza, quindi poco dopo la morte ed eroizzazione di Gaio e Lucio, e se la statua dell’eminente togato non sia stata affiancata alla precedente solo dopo l’ascesa al trono di Tiberio, in quella che C. Saletti avrebbe efficacemente definito una “storia continuativa” del ciclo.34 Si tratterebbe, in ogni caso, di una modesta discrepanza cronologica difficilmente documentabile, e che non modifica nella sostanza la ricostruzione proposta. È proprio al più ampio contesto religioso dell’aedes dedicata ai Dioscuri che dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione, alla ricerca di altre tracce del culto imperiale in questo complesso così ‘centrale’ per la città di Asisium. Prima di tutto va ricordato come il tetrastylum realizzato in asse con il tempio e che, come ricorda l’iscrizione di dedica, ospitava i simulacri di Castore e Polluce, sia stato realizzato proprio nella prima età giulio-claudia,35 in quella che si configura dunque come una più ampia operazione di sistemazione del complesso in virtù di nuove esigenze religiose. Ho tratto le misure delle statue e dei relativi plinti dalle schede del catalogo Matteini Chiari 2005. 33 Va rilevata, più in generale, l’esiguità di sculture romane conservate nelle raccolte di Assisi, spiegabile, almeno in relazione al complesso centrato sul Tempio di Minerva, dai reimpieghi e dalle profonde trasformazioni delle strutture dell’edificio di culto avvenute nel corso dei secoli. In virtù di una serie di ampie ristrutturazioni, infatti, già nel Medioevo lo spazio del tempio ospitò alcune abitazioni, una chiesa dedicata a S. Donato, il «Palatium Comunis» (Abate 1986; Sensi 1996, 531-537). 34 Saletti 1968, 128. 35 Così Coarelli 1991, 17; Coarelli 1996, 252, 257. Più in generale, sul l’edilizia di primissima età imperiale ad Assisi, si veda Strazzula 1985 e, più recentemente, Boldrighini 2014; Manca, Giorgi 2014. 32
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Ora non solo la tipologia del tetrastilo è strettamente associata al culto eroico e, nell’Urbs, alla celebrazione dei divi della famiglia imperiale,36 ma la documentazione epigrafica di un centro laziale importantissimo per il culto dei Dioscuri, Tusculum, assicura che da un certo momento in avanti si stabilì una relazione molto forte tra culto dei gemelli e culto dinastico. Probabilmente per il rapporto assai stretto tra Castore e Polluce e coppie fraterne della famiglia imperiale,37 infatti, è significativo che da un certo momento in avanti il collegio degli aeditui aedis Castoris et Pollucis di Tusculum sia stato chiamato a svolgere un ruolo primario proprio nella celebrazione di Augusto e dei suoi discendenti e successori, adottando l’eloquente appellativo di Augustales aeditui aedis Castoris et Pollucis.38 È stato scritto sulla trasformazione di questo sacerdozio nella città laziale: «Il culto dei Dioscuri, grazie alle sue particolari connotazioni, offriva lo spunto per l’eventuale assimilazione dei principes della dinastia regnante con le divinità. L’associazione con i divini gemelli poteva esercitare l’effetto desiderato nella piccola comunità ed attirare la benevolenza del l’imperatore, particolarmente percepibile sotto i Giulio-Claudii. Per questo e per la sua antichità e prestigio, non a caso il collegio degli aeditui aedis Castoris et Pollucis fu destinato ad assimilare il culto imperiale».39 Una realtà religiosa non diversa possiamo immaginare anche per Assisi, dove il culto di Castore e Polluce veniva officiato nel l’aedes forse più importante della città grazie all’attività di uno specifico collegio attestato per via epigrafica: mi riferisco ai discussi quinqueviri, associati nelle iscrizioni ai quattuorviri iure dicundo, ed identificati appunto da F. Coarelli come i membri di un collegium sacerdotale specificamente legato al Tempio della Minerva.40 E del resto nella direzione di una prolungata destinazione dell’area sacra (anche) per la celebrazione del culto impe Marcattili 2013b. Cfr. La Rocca 1994. Per il contesto assisiate si consideri anche il tema della gemellarità nella poetica di Properzio, sottolineato in Santini 2014, 365-368. 38 Gorostidi Pi 2008. 39 Gorostidi Pi 2008, 864. 40 Coarelli 1991, 17-20; Coarelli 1996, 250-252. Diversa ipotesi in Matteini Chiari 2005, 102-103, n. 22 (G. Asdrubali Pentiti), dove i quinqueviri vengono identificati con i membri di alto rango di una commissione straordinaria. 36
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riale, conduce la più tarda dedica a spese pubbliche e per decreto decurionale all’imperatore Elagabalo, rinvenuta reimpiegata nelle strutture adiacenti all’edificio templare inglobate nella Sala della Minerva del Convento di S. Antonio.41
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Abstracts Nel contributo vengono descritte e contestualizzate due statue acefale rinvenute congiuntamente negli scavi ottocenteschi eseguiti da Charles Victor Famin ad Assisi nell’area del tempio detto di Minerva, aedes consacrata a Castore e Polluce. Le due sculture, una statua virile in nudità eroica e un togato attualmente conservati presso il locale Museo Civico, erano verosimilmente parte di uno stesso gruppo o ciclo scultoreo dedicato ad esponenti della domus Augusta nei primi decenni del periodo imperiale e, come in altri casi noti (es. Tusculum), dimostrano la stretta relazione tra culto dei “divini gemelli” e culto dinastico. 274
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This paper describes and contextualizes two headless statues found together in the nineteenth-century excavations carried out by Charles Victor Famin in Assisi, in the area of the temple called “di Minerva”, an aedes consecrated to Castor and Pollux. The two sculptures, a statue representing a young man in heroic nudity and a togatus, both currently preserved in the local Museo Civico, were probably part of the same group or sculptural cycle dedicated to the members of the domus Augusta in the first decades of the imperial period. As in other known cases (e.g. Tusculum), they demonstrate the close relationship between cult of the “divine twins” and dynastic worship.
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Fig. 1 Assisi, il Tempio di Minerva e l’area antistante con il tetrastilo. Ricostruzione (da Marcattili 2013a).
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Fig. 2 Assisi, Museo Civico. Statua in nudità eroica dall’area del Tempio di Minerva (da Matteini Chiari 2005).
Fig. 3 Assisi, Museo Civico. Dettaglio della statua eroica dall’area del Tempio di Minerva (foto dell’Autore).
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Fig. 4 Corinto, Museo Archeologico. Le statue di Augusto, C. Cesare e L. Cesare rinvenute nella Basilica Iulia (da La Rocca et alii 2013).
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Fig. 5 Assisi, Museo Civico. Statua di togato dall’area del Tempio di Minerva (da Matteini Chiari 2005).
Fig. 6 Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Statua togata di Augusto da Via Labicana (da La Rocca et alii 2013).
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Fig. 7 Firenze, Galleria degli Uffizi. Dettaglio dell’altare dal Vicus Sandaliarius (da Boschung 2002).
Fig. 8 Roma, Ara Pacis. Dettaglio del corteo processionale (da Goette 1990).
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Fig. 9 Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Togato dal Tempio della Fortuna Augusta di Pompei (da Bonifacio 1997).
Fig. 10 Parma, Museo Nazionale di Antichità. Togato dalla basilica di Velleia (da Saletti 1968).
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LA OTRA CORNELIA, CORNELIA PAVLLI AEMILII, NOTAS SOBRE PROPERCIO 4, 11: ¿UN SILENCIO CULPABLE?
La elegía oncena del cuarto libro del poeta Propercio ha sido objeto de tratamientos, algunos de ellos monográficos, importantes,1 entre los cuales el relativamente reciente de la profesora M. Lowrie que lo analiza desde el punto de vista de la propuesta de un exemplum por parte del poeta en la línea de la política augustea del momento en relación al matrimonio.2 Un punto de vista perfectamente aceptable y defendible que puede encuadrar más que correctamente la circunstancia histórica y social que rodea al poema y al tema del cual nos vamos a ocupar. El poema definido por Escalígero como “regina elegiarum” e incluso el entero libro cuarto de la obra properciana no ha recibido hasta hace relativamente muy poco tiempo, en opinión de muchos estudiosos, toda
1 Véase ahora en primer lugar ahora la magnífica edición con comentario de P. Fedeli, R. Dimundo y I. Ciccarelli, Fedeli et alii 2015, 1265-1410, y la introducción de P. Fedeli, 115-120 y esp. 115 y 132, para la elegía que nos ocupa; anteriormente Fedeli 1965, esp. 244-260; además resultan útiles estudios como los de Reitzenstein 1970; Hubbard 1974, 145-149; Soria 1965; Gafforini 1992, esp. 159-160; Papanghelis 1987, 61-62; Janan 2001, 146-183; Liljà 1965, 235; Cicerale 1978; Curran 1968; Paduano 1968 para el tono trágico; Fedeli 1986, esp. 133-134; Flach 2011, 276-285 para un comentario reciente. Además Pasoli 1967, que, sin embargo, al tratar del epicedio no repara en esta cuestión. Puede añadirse además la tesis de Weeber 1977, 217-249, con un detenido comentario sobre las posibles fuentes, entre ellas Eurípides, y manteniendo muy presente su paralelo con un carmen sepulchrale. Ahora también disponemos del importante comentario de Coutelle 2015, 931-989, que no insiste en las importantes cuestiones prosopográficas; véanse, no obstante, 951-952. 2 Lowrie 2008. También Soria 1965; Gafforini 1992, esp. 159-160; Liljà 1965, 235. Rambaux 2001, 309-320, contrasta las figuras de Cintia y Cornelia, dando una visión muy positiva de esta última.
10.1484/M.SPL-EB.5.115920
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la atención que merecía, aunque en el momento actual algunos trabajos recientes, como hemos recogido, lo comentan con evidente minucia y exhaustividad siguiendo la anterior tradición de estudio.3 Nuestra intención en estas páginas no es la de volver sobre este tema, sino sobre los argumentos puestos en boca de la propia Cornelia para definir su linaje y actitud frente a la vida, es decir, ante la sociedad de su momento.4 Un cierto número de afirmaciones que figuradamente profiere en el poema de Propercio son comunes con las atribuidas a otra Cornelia ilustre, la madre de los Gracos, que, no obstante, no se menciona en esta elegía, aunque el personaje cuya mors immatura da tema a la elegía 5 parece seguir en cierto modo el ejemplo de la Cornelia Gracchi, que en la mayor parte de la historiografía romana e incluso griega tardía constituye un exemplum señalado de entereza femenina. De esta constatación partirá nuestro análisis. La cuestión que queremos plantear subsidiariamente es el hecho de que la razón de este silencio pueda ser el síntoma de la circulación, potente en aquel momento, de la leyenda peyorativa que persigue a la madre de los Gracos y que en cierta forma parece salpicar también a la del propio Augusto,6 una hipótesis que desarrollaremos más adelante. Cabe decir también que el peso del prestigio o la influencia de las madres sobre sus hijos varones constituye un factor negativo a los ojos del mundo grecorromano y resulta ya duramente castigado por la “Fortleben”, la fama póstuma, en el propio período antiguo.
3 Véase por ejemplo también el magnífico comentario de Hutchinson 2006, 230-249, con un breve resumen prosopográfico 230-231; anteriormente Camps 1965, 153-167, y Butler – Barber 1964, 378-386. Cfr. los trabajos recientes mencionados en la nota 1; para un panorama bibliográfico cfr. Dimundo 2009. 4 Cfr. Citroni 1995, 407-408, pone de relieve como el libro cuarto de Propercio y sus importantes y comprometidas elegías de temas nacionales marcan un cambio en su perspectiva poética así en 4, 11, el epicedio de Cornelia, pone en boca de ésta la narración, dejando al “poeta público” un papel impersonal de narrador. Además Hemelrijk 1999, esp. 239 nota 71, y 267 nota 48. 5 Para el concepto de consolatio aristocrática, cfr. Fedeli et alii 2015, 12711272, que con razón acercan esta composición a la anónima Consolatio ad Liviam Augustam de Drusi Neroni filii eius, que puede datarse entre el 9 y el 2 a.C. según la documentada demostración de Amat 1997, 26-31. 6 Cfr. nuestra notas 37, 62-65.
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LA OTRA CORNELIA, CORNELIA PAVLLI AEMILII, NOTAS SOBRE PROPERCIO 4, 11
Unas consideraciones prosopográficas indispensables Entrando ya en el tema, véamos en primer lugar quién es la Cornelia de la elegía properciana.7 Sabemos que fue hija de Scribonia,8 la efímera esposa de Octaviano, nacida de un anterior matrimonio de ésta con un Cornelio, que ha sido supuesto miembro de la familia de los Escipiones extrapolándolo del poema de Propercio. Si se tratara del cónsul suffectus de 38 a.C., como también se había conjeturado y ahora parece la opción más probable, sería sin duda un L. Cornelius Lentulus, que parecería convenir a nuestro caso.9 7 PIR2, C 1475 (E. Groag), donde no se duda de que pertenezca a la familia de los Scipiones y se señala que quizás pueda ser la hija de un Publius Cornelius, posiblemente Scipio, cónsul del año 38 a.C. Cfr. ahora PIR2, S 274, donde se dan nuevos datos sobre la identificación de este personaje. 8 PIR2, S 274 (K. Wachtel). Se ha creido que Escribonia era hermana del cónsul del 34 a.C., Lucius Scribonius Libo (PIR2, S 264 a cargo de K. Wachtel), suegro y valedor de Sexto Pompeyo, razón por la cual el matrimonio en el año 40 a.C. reforzó la posición política inestable del joven Octaviano, ésta es la hipótesis aceptada por Fedeli et alii 2015, 1269, de aquí también dependería su breve duración de un año. Sobre esta alianza véase ahora Rohr Vio 2016, esp. 55-57, para el matrimonio con Escribonia y su ruptura. Otro punto de vista en Scheid
1975, esp. 357-365, ha querido demostrar convincentemente que era hija de este personaje y no su hermana como se había supuesto anteriormente, lo que tampoco resta importancia política al matrimonio con Octaviano; véase ahora Canas 2009, esp. 205-208, y 210, Stemma 6, donde vuelve a aparecer como hermanastra 20 años más joven de L. Scribonius Libo, consul del 34 a.C., después de un análisis de las hipótesis anteriores. Además Coutelle 2015, 966.
Cfr. Syme 1986, esp. el capítulo “The Last Scipiones”, 244-254. Scribonia era hija de una Sentia y de L. Scribonius Libo, la inscripción CIL VI,31276 = ILS 8892 nos da el nombre de ambos progenitores: Sentia Lib[onis] / mater Scr[iboniae] / Caes(aris), cfr. Syme 1986, 264 y nota 66. Cfr. asimismo Scheid 1976, donde hace un exhaustivo análisis de las teorías al respecto del segundo matrimonio de Scribonia; 486-488, y se inclina finalmente por el cónsul suffectus del año 35 a.C., 490, que como ahora sabemos no resulta posible, aunque ve viable que se trate del cónsul del 38 a.C., 489. Cfr. el comentario de Hutchinson 2006, 243, que se inclina claramente por el cónsul del año 38 a.C. Además, con un cuidado análisis de los matrimonios sucesivos e hipótesis algo distintas Hemelrijk 1999, esp. 239 nota 71 y 267 nota 48. Para los Sentii y la importancia del matrimonio de Scribonia con Octaviano cfr. Pistellato 2015, 60-65 y esp. 73, para el valor estratégico del matrimonio, que contaba con el consenso de Marco Antonio, y 79 y 110, para la importancia de este lazo efímero para la vinculación de Octaviano con Gaius Sentius Saturninus. 9 PIR2, C 1437 y C 1395 (E. Groag), donde piensa que pudo mediar incluso una adopción entre Lentuli y Scipiones, lo que daría lugar a la ambigüedad en la denominación. Cfr. ahora PIR2, S 274, sobre la dificultad de ver quién pudo ser el padre de Cornelia y marido de Escribonia.
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Resulta, sin embargo, todavía ilustrativo para la complejidad de la cuestión, ya que no responde a la realidad de la información actual, lo que se desprende del stemma propuesto anteriormente por sir Ronald Syme,10 el cual demuestra en cierta manera la amplitud del problema, puesto que en su caso propone como padre de Cornelia al cónsul sufecto del 35 a.C., al que denomina dubitativamente P. Cornelius (Scipio?), hipótesis que no parece posible a la vista de los últimos datos que nos muestran que se trata de un Cornelius Dolabella.11 Lo mismo parece suceder con la propuesta de E.F. Leon de un primer matrimonio con Cornelio Lentulo Marcelino cónsul del año 56 a.C. del cual habría nacido un Cornelio Marcelino, al que nos referiremos a continuación, y de un segundo matrimonio con un Cornelius Scipio, probablemente el cónsul del 38 a.C., del cual serían fruto el cónsul del año 16 a.C. y la Cornelia que nos ocupa; Julia sería evidentemente la consecuencia del tercer matrimonio con Octaviano.12 Los hijos habidos por Escribonia en este caso serían cuatro y no tres, lo que en principio entraría en contradicción con el testimonio suetoniano.13 Un hecho parece cierto: Cornelia fue hermana en principio, si creemos a Suetonio, por parte de ambos progenitores, de un Cornelius (Lentulus) Marcellinus,14 que conocemos a través de una inscripción urbana que menciona a este último junto a su madre, que es denominada en Scribonia Caesaris en función de su tercer y último matrimonio.15 El cónsul del 16 a.C. Publius
10 Cfr. Syme 1986, 246-247, para su hipótesis sobre el padre de Cornelia, que no pudo ser el consul suffectus del año 35 d.C., como proponía; además véase el stemma XX, referente a los matrimonios de Escribonia. Cfr. de nuevo PIR2, S 274. 11 Véase por ejemplo Tansey 2000, esp. 266 y nota 8 con bibliografía anterior y las conclusiones en 270-271. La información deriva de AE 1991, 894, los denominados Fasti Tauromenitani. 12 Leon 1951. 13 Suet., Aug. 62,2: mox Scriboniam in matrimonium accepit nuptam ante duobus consularibus ex altero etiam matrem. Citamos siguiendo la edición de Ailloud 1931, 113. 14 PIR2, C 1395 (E. Groag). 15 CIL VI,26033 = AE 2008, 84: Libertorum et / familiae / Scriboniae
Caesar(is) / et Corneli Marcell(i) / f(ilii) eius / [in fr(onte)] p(edes) XXXII / [in ag]r(o) p(edes) XX.
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Cornelius Scipio,16 propuesto también generalmente como posible hermano de Cornelia, no podría ahora aceptarse como tal, si tenemos en cuenta la onomástica del cónsul del año 38 a.C. o incluso la ahora conocida del cónsul del 35 a.C., ambos anteriormente sugeridos como presuntos padres de ambos. No obstante, a pesar de estos datos, el verso 65 de la elegía que tratamos ha sido seguido siendo considerado como alusivo a este personaje en algunos comentarios, aunque últimamente, con razón, se ha pensado en el cónsul del año 18 a.C., Publius Cornelius Lentulus Marcellinus,17 como el hermano aludido por Cornelia. Este hecho implicaría sin duda de nuevo la cuestión de quién sería el padre de Cornelia y de que éste no fuera directamente en su onomástica un Scipio. Scribonia, su madre, se casó tres veces y sabemos con seguridad que sólo tuvo hijos con dos de sus maridos, es decir, el segundo y Octaviano, al decir de Suetonio,18 por consiguiente es probable que el origen escipiónico del que se jactará Cornelia se refiera al parentesco bien probado de los Cornelii Lepidi con los Scipiones,19 ya que Gnaeus Cornelius Lentulus Marcellinus, cónsul del 56 a.C.,20 padre del cónsul sufecto del 38 a.C., Lucius Cornelius Lentulus (Marcellinus), que fue posiblemente el primer marido de Scribonia, era hijo de una Cornelia, hija a su vez de cónsul del 16 PIR2, C 1438 (E. Groag). Parece que este personaje fue el padre del Scipio que cometió adulterio con Iulia hija de Augusto y Escribonia, nacida el 39 a.C., según nos cuenta Veleyo Patérculo en Vell., 2,100,5 cfr. PIR2, C 1435 (E. Groag). 17 Broughton 1986, 69. Fedeli et alii 2015, 1268-1270, donde señalan que el año del consulado de Publio Cornelio Léntulo Marcelino, 18 a.C. sería el mismo año de la lex Iulia de maritandis ordinibus pero que si se piensa que el verso 68 se refiere a la lex Iulia de adulteriis, la datación en el año 16 a.C. sería más conveniente, aunque se hacen eco también de nuevas hipótesis que sitúan esta última lex en el 17 a.C. y en p. 1356, continúan decantándose por el cónsul del 16 a.C. con el argumento que si se datara en el 18 a.C. no sería cronológicamente la última elegía de Propercio y aducen de nuevo que el verso 48 no podría en este caso aludir a la lex Iulia de adulteriis, que es posterior a esta fecha; sin embargo los argumentos prosopográficos seguros aconsejan separarse de esta alternativa, como ya hemos visto. Coutelle 2015, 971, duda entre los dos posibles cónsules el del 18 y el del 16 a.C. pero se inclina siguiendo a J. Scheid por el primero; en pp. 281-284, se refiere a la importancia de las leyes sobre el matrimonio en la elegía; además Hutchinson 2006, 243, en el mismo sentido. 18 Cfr. nota 13. 19 Cfr. Syme 1986, stemma XIX. 20 Cfr. Broughton 1968 a, 540.
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año 111 a.C., Publius Cornelius Scipio Nasica,21 lo cual, por consiguiente no entraría en contradicción, e incluso justificaría, lo que que la Cornelia de la elegía que nos ocupa afirma al referirse a su linaje. Los datos, sin embargo, no son del todo seguros y la ascendencia escipiónica de Cornelia depende en la realidad fundamentalmente de la elegía del propio Propercio, 4, 11, 29-30. La indicación en el stemma de los Scribonii en la forma Cornelius quidam para el segundo marido de Escribonia y, por consiguiente, padre de sus dos primeros hijos quedaría más que justificado, si se quisiera adoptar una posición quizás excesivamente prudente 22 y no se quisiera aceptar ahora la única posibilidad verosímil por el momento de Lucius Cornelius Lentulus (Marcellinus), cónsul del 38 a.C., que sería a su vez padre del cónsul del 18 a.C. Publius Cornelius Lentulus Marcellinus, hermano, por consiguiente, de la Cornelia del epicedio. No entraremos en la cuestión sobre si es necesario desplazar los versos 65-66: Vidimus et fratrem sellam geminasse curulem / consule quo, fausto tempore, rapta soror o incluso considerarlos una interpolación como opina Hutchinson,23 coincidimos con los que consideran que no hay razón para ello y que, aunque por su contenido y estructura parece una glosa que pudiera haberse introducido en una sucesiva copia del texto para precisarlo, su contenido y su ubicación no parecen presentar dificultad insuperable alguna, 21 Broughton 1968 b, 207. Para el origen escipiónico cfr. también Hutchinson 2006, 230-232, esp. 231. 22 El stemma está recogido en PIR2, S 266 (M. Heil, K. Wachtel). En contraste A. Groag en PIR2 C, stemma entre las pp. 328-329, señala al cónsul del año 38 a.C. como posible marido de Scribonia con el nombre (P.) Cornelius (Scipio?). 23 Hutchinson 2006, 2, donde señala que el libro IV no pudo aparecer antes del 16 a.C. y que en todo caso el consulado del hermano sería el 18 a.C. Señala este autor en p. 3 que 4, 11, 65-66 son “probably spurious”, y en su comentario, p. 243, se hace eco de las dos posibilidades las dos posibilidades, el cónsul del 18 a.C. o el del 16, pero cree más posible que se trate del del 18 a.C., aunque lo considera una interpolación reciente para rellenar datos históricos, cfr. la p. 57 de su edicón, y recuerda que Hübner lo eliminó y que Koppiers desplazó antes del verso 61, y que Heyworth lo hizó a su vez antes del 37. Coutelle 2015, 118 y 970972, cree que los versos son originales y que no resulta necesario desplazarlos. En el mismo sentido Fedeli 1965, 256; sin embargo ahora Fedeli et alii 2015, 1266, los desplazan a continuación del verso 60 y antes de 61, además pp. 13521357, para el comentario con un elenco de las distintas posiciones en que los editores han situado estos versos, esp. 1354-1355.
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incluso de identificación del personaje a la vista de cuanto acabamos de exponer. Cornelia fue entregada en matrimonio a Paullus Aemilius Lepidus cónsul sufecto del año 34 a.C.,24 que fue quien completó la famosa basilica Aemilia en el foro romano en el mismo año de su consulado y quien también la reconstruyó, con la ayuda del propio Augusto y sus amigos, después del incendio del año 14 a.C. 25 Antes de su fallecimiento Cornelia había ya tenido tres hijos de su marido. A la muerte de ésta, Paulo Emilio Lépido contrajo segundas nupcias con Claudia Marcella minor, hija de Octavia, la hermana de Augusto, y de C. Claudius Marcellus, cónsul del año 50 a.C., de la que quizás tuvo un hijo.26 Dejándo al margen todas estas indispensables puntualizaciones prosopográficas, algunos elementos parecen seguros el primero de ellos es que sea quien sea el personaje que fue padre de Cornelia perteneció seguramente en alguna medida al tronco de la familia de los Escipiones, lo afirma el texto de Propercio y no hay elementos para dejar de suponerlo. La madre fue sin duda la Scribonia de la familia de los Scribonii Libones que después contraería terceras nupcias con Octaviano y daría a luz a la única hija de éste, Iulia, que en consecuencia es la hermanastra de la propia Cornelia, que el texto properciano se cuida muy bien de hacer notar.
El prestigio familiar de una matrona El matrimonio de Cornelia con el colaborador y amigo de Augusto, Paulo Emilio Lépido, debió de reforzar los vínculos con la domus de Augusto de quien era en realidad también hijastra, que por medio de su matrimonio se acercaba conjuntamente a los Cornelii Scipiones y a los Aemilii Paulli, ya emparentados entre sí PIR2, A 373 (A. Groag). Sobre el esplendor de los Aemilii cfr. el capítulo “Rome and the Resplendent Aemilii” en Wiseman 1998, con un útil cuadro genealógico p. 115, que no refleja la situación que estudiamos. 26 PIR2, C 1103 (A. Stein). El hijo probable sería Paullus Aemilius Regillus, quaestor de Tiberio, cfr. PIR2, A 396 (A. Groag), aunque el hecho no es seguro. Cfr. para este matrimonio, Syme 1986, stemma III y IV; Syme 1939, 378 y 422, véase además el stemma IV para los Aemilii Lepidi, que no se corresponde con la información actualmente aceptada. Además Hallett 1985, esp. 83, para este entramado de relaciones. 24
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por adopción entre otros numerosos vínculos.27 El hecho de que Paulo Emilio Lépido después de la muerte prematura de Cornelia se case con una sobrina de Augusto, hija de su hermana Octavia, viene a confirmar esta voluntad de formar un núcleo familiar aristocrático amplio que es lo que persigue la política matrimonial de Augusto, como se ha demostrado hasta la saciedad. Esta intención se demuestra también por el hecho de que el hijo de Paulo Emilio Lépido y Cornelia, L. Aemilius Paullus, cónsul del año 1 d.C., se casará con Iulia nieta de Augusto e hija de Marco Vipsanio Agripa y de Julia, la hija del príncipe habida con Escribonia, es decir que resultaban nietos de una misma abuela: Escribonia. Sentadas estas premisas, véamos como se reflejan estas circunstancias en la elegía de Propercio dirigida a Paulo Emilio Lépido a continuación de la muerte de Cornelia.28 La elegía se inicia como un carmen funerario de los que tantos ejemplos tenemos en los carmina Latina epigraphica, 4, 11, 1: Desine, Paulle, meum lacrimis urgere sepulcrum.29 El elogio de carácter funerario y epigráfico que inspira el poema es claro, 27 Cfr. para estas cuestiones Weigel, esp. 183-185, para el matrimonio de Cornelia con Paullus Aemilius Lepidus y el favor de Octaviano. En este sentido también Fedeli 2014, esp. 407-408, 411-412 y 414; Günther 2006, esp. 395. Además Eck 2014, esp. 11-12, donde considera también que su hermano, Cornelius Scipio, fue el cónsul del 16 a.C.; puede verse además Weeber 1977, donde en p. 240 define sintéticamente y con acierto que el epicedio es una “anschauliche und wirklichkeitsnahe Einführung in das Leben und Denken einer römischen Aristokratin”. 28 Sobre la descripción de personajes femeninos cfr. Codoñer 2008, 51-54 para Cornelia y esp. 53-54, en las que se centra en la laus y el triumphus femenino a través de la virtus matronal. Además, es útil el punto de vista de Wyke 2002, 108-114, que analiza correctamente los temas literarios en especial el mundo subterraneo en la elegía de claras resonancias virgilianas, y señala también, 113-114, que paradójicamente la matrona Cornelia se empareja con la meretrix Cynthia, en 4, 7, en su discurso en el que ambas declaran su devoción a un solo hombre, se sitúan a la par de las heroinas de los mitos o de la historia y dictan instrucciones para después de su muerte. Newman 1997, 311, precisa: “Eventually Cynthia had to be dropped back into the mime (IV.8) from wich she came. His final elegy celebrates quite a different sort of woman: et serie fulcite genus (IV. 11. 69)”. Cfr. además Curran 1968 y Lange 1979, esp. 340 para la antítesis entre ambos personajes. 29 Seguimos para el texto la edición de Fedeli 19942 (la primera edición es de 1984), 275-283; tenemos además en cuenta la edición de Viarre 2005, 161165 y la de Tovar – Belfiore Mártire 1963, 230-242. Para el texto de esta elegía cfr. Butrica 1984, 197-201.
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sirviéndose además del recurso corriente de que sea parlante, es decir puesto en boca del difunto.30 El planteamiento de la grandeza familiar de Cornelia es expresado claramente, aunque enmascarado en el tópico de la muerte que iguala a todos, 4, 11, 12-13: quid mihi coniugium Paulli, quid currus avorum / profuit aut famae pignora tantae meae?, para llegar a la conclusión, 4, 11, 14: non minus immitis habuit Cornelia Parcas.31 No obstante el desarrollo del tema se produce en 4, 11, 30-42.32 si cui fama fuit per avita tropaea decori, Afra Numantinos regna loquuntur avos: alterna maternos exaequat turba Libones et domus est titulis utraque fulta suis. mox, ubi iam facibus cessit praetexta maritis, vinxit et acceptas altera vitta comas, iungor, Paulle, tuo sic discessura cubili, in lapide hoc uni nupta fuisse legar. testor maiorum cineres, tibi, Roma, colendos, sub quorum titulis, Africa, tunsa iaces, et, Persen proavi stimulantem pectus Achilli, quique tuas proavo fregit Achille domos, me neque censurae legem mollise neque ulla labe mea vestros erubuisse focos.
Evidentemente la referencia los Escipiones es clara 33 y son igualados en su gloria a los maternos Libones, la alianza matrimonial con Paulo Emilio Lépido es también recordada. El recuerdo de este último hecho viene a constituir casi un elemento en cierta forma redundante, ya que es bien sabido que el segundo Africano 30 Hay que rendir aquí homenaje a la sagacidad de E. Hübner que en dos sucesivos trabajos penetró en los valores Rambaux características epigráficas de esta elegía, así: Hübner 1877, esp. 105-107 para aproximaciones epigráficas directas; Hübner 1878, esp. 425-426 sobre la condición de stolata femina. Reitzenstein 1970, 13-18 (415-420). Cfr. últimamente Coutelle 2015, 285-288, para el epicedio como laudatio funebris y sus paralelos. 31 Cfr. además Fedeli et alii 2015, 1297-1301; para los paralelos literarios también Coutelle 2015, 938-939. 32 Cfr. ahora el comentario en Fedeli et alii 2015, 1321-1337; Coutelle 2015, 949-959. 33 Cfr. para Prop., 4,11,29-30, Syme 1986, 246. Además Butler – Barber 1964, 382-383. Cfr. además Fedeli et alii 2015, 1280-1282.
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y después Numantino, Publio Cornelio Escipión Emiliano, era en realidad el segundo hijo de Lucio Emilio Paulo, que fue adoptado por el primer Africano, y, por lo tanto, era legalmente hermano de Cornelia, madre de los Gracos, con cuya hija Sempronia se casó, siempre dentro del círculo elitista de los Escipiones. En los versos 39-40, un controvertido pasaje que parece que con las alusiones a Perseo y a Aquiles se quiera remontar al antepasado común de Cornelia y de su marido, Lucius Aemilius Paullus el vencedor de Pidna.34 La conclusión de esta exhibición del esplendor de un linaje es clara: si Africa e Hispania, Carhago y los reinos de África y Numantia, son los testigos de una gloria familiar; Roma, a la que Cornelia apostrofa, debe reverenciar a los Escipiones cuyos títulos África yace aplastada. La referencia a los cognomina o agnomina honoris de la familia de los Cornelii Scipiones es patente a los ojos de quien lea u oiga el poema, los apelativos de Africanus o Numantinus no pueden menos que venirle a la mente. La argumentación escipiónica no puede ser más clara y Propercio se hace eco seguramente de una realidad de orgullo familiar, que a buen seguro acompañaba a las mujeres de esta familia, y que, como creemos que ha sido bien probado, llega a ser tachada de superbia en el caso de Cornelia Gracchorum mater, y parece haber manchado tambien a su hija Sempronia en lo que podría ser considerado un exemplum a contrario. La mención a la censura, 4, 11, 41, podría 34 Cfr. para este personaje Broughton 1968 a, 433-434.Una traducción aceptable en Tovar – Belfiore Mártire 1963, 239. Cfr. para estas alusiones familiares Camps 1965, 159-160; Flach 2011, 280-281, y sobre todo Hutchinson 2006, 239. Newman 1997, 416-417, demuestra como estas afirmaciones y descripciones del brillante linaje de Cornelia responden al lenguaje del propio Propercio. Además Reitzenstein 1970, 32-33 (434-435); Fedeli et alii 2015, 1332-1334; Coutelle 2015, 955-957. Para el texto cfr. Formicola 2011, esp. 44 y 51-53. Braccesi 1973, 6 para el contenido del elogio augusteo de Aemilius Paullus (elog. 81) y De viris ill. 56. 1-35, que podrían demostrar fundadamente la existencia de una clara tradición en el recuerdo de la victoria sobre Perseo, viva en época augustea, además, Chaplin 2000, 172 y nota 18, donde indica que, aunque el templo de Mars Ultor fue dedicado en el 2 a.C., el foro podía ser frecuentado antes y los exempla clarissimorum virorum, que contenía podían ser conocidos entre ellos el de Paulo Emilio, que mencionaba a Perseo, lo cual tendría indudable trascendencia al precisar el contexto del discurso de Cornelia. Cfr. para Perseo, por ejemplo, la narración de Diodoro Sículo, 30,22,19-23.
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ser una alusión a la ejercida en el año 22 a.C. por su marido, aunque en este caso parece poco probable, dado el contexto, aunque se referirá a ella claramente en 4, 11, 67, al dirigirse a su hija.35 Evidentemente, en admonición a Roma y secundariamente a África, parece darse una cierta soberbia que quizás sobrepasaría los límites de la pudicitia con los que parece vestirse el conjunto, no podemos en este caso más que pensar que Propercio debió de mimetizar un comportamiento sin atisbo alguno de crítica, aunque quizás el público de su tiempo pudieran leer entre líneas una alusión no positiva, o simplemente los versos propercianos evocaran quizás en algunos la parte negativa de las damas de la familia de los Escipiones.36 Aunque, como se ha notado, en los versos 47-48 se defienden claramente los ideales de la clase a la que pertenece Cornelia: mi natura dedit leges a sanguine ductas, / nec possis melior iudicis ese melior.37 De la intencionalidad positiva de Propercio parece que no puede haber duda, ya que son especialmente comprometidos los versos que siguen y que aluden al propio Augusto,38 por lo que una insinuación negativa podría haber sido desvelada fácilmente y supondría un claro peligro para el poeta en una elegía dirigida al marido de la difunta en el que se atrevía a mencionar los sentimientos del príncipe, 4, 11, 55-60: 39
35 Cfr. Viarre 2005, 228, nota 953. Un resumen de la carrera de este personaje en Syme 1986, 246. 36 Cfr. por ejemplo Mayer 2014 a; además, Mayer 2014 b con bibliografía; Beness – Hillard 2013. Una lectura positiva en Corradi 1946, 21, 29 y 31-34 por ejemplo, así como de su hija, cfr. 34-35, y en López 1998, 97-121, esp. 113-114. Una panorámica de las cuestiones que afectan a Cornelia, madre de los Gracos en Carcopino 1967 (la primera edición es de 1928; la segunda lleva un útil apéndice para ponerla al día hasta el momento), 47-83, donde encuadra su figura en la historia y leyenda de los Escipiones que circula casi desde su mismo momento, pero se refuerza en el s. I a.C. Una visión crítica y más moderna de la cuestión en Bandelli 1972. 37 Cfr. Hubbard 1974, 147; Fedeli et alii 2015, 1341-1342. 38 Cfr. Barchiesi 1994, 273-274, para la importancia de este hecho para los Fasti de Ovidio que ve el libro cuarto de Propercio como precursor de su obra; Reitzenstein 1970, 40-42 (442-444). Hay que añadir Grimal 1952, esp. 437-439 y 449. 39 Cfr. Fedeli et alii 2015, 1347-1352; Coutelle 2015, 966-968. Fedeli 2014, 417, valora con singular precisión el valor de estas lágrimas en el contexto de la elegía.
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ec te, dulce caput, mater Scribonia, laesi: in me mutatum quid nisi fata velis? maternis laudor lacrimis urbisque querelis, defensa et gemitu Caesaris ossa mea. ille sua nata dignam vixisse sororem increpat, et lacrimas vidimus ire deo.
Desfilan en estos versos la figura de su madre Escribonia, la figura de su hermanastra Julia e incluso al mismo Augusto, cuya tristeza el poeta no tiene embozo en recordar, aprovechando también la ocasión para mencionar la naturaleza divina del príncipe.40 El recuerdo de la fertilidad, puede también leerse en clave escipiónica y podemos pensar de nuevo en la figura de Cornelia Gracchorum mater y su proverbial fecundidad, 4, 11, 61-62: 41 et tamen emerui generosos vestis honores, / nec mea de sterili facta rapina domo, y también en la altiva aseveración de 4, 11, 71-72: haec est feminei merces extrema triumphi, / laudat ubi emeritum libera fama rogum.42 El poema sigue a continuación con el tono e incluso los temas de un carmen funerario 43 para cerrarse en una forma sorprendente, con palabras ante el tribunal de los inferi que recuerdan un alegato 40 Viarre 2005, 228, nota 955, constatando que Julia y Cornelia eran hermanas por parte de madre y mencionando Suet., Aug. 63, comenta: “On peut se demander sans mauvaise fois si elles se ressemblaient; mais en 16, Julie n’a encore que 23 ans”. Para la figura de Augusto en Propercio cfr. Cresci Marrone 2008, esp. 175, para la presencia de Augusto con el nombre de Caesar 22 veces y 178 para el gemitus Caesaris, Prop., 4,11,58, donde propone una gestión del luto público en este caso como sugiere Fraschetti 1990, 42-131. Para los rituales funerarios representados en Propercio véase de forma general Pellegrino 2004. Sobre una posible alusión tambienén al ius auxilii del príncipe en este pasaje Cicerale 1978, 33 y nota 31. Cfr. además Hübner 1878, 424, recogiendo la opinión de E. Herzog. Cfr. además sobre la reacción emotiva del príncipe Fedeli et alii 2015, 132-133 (P. Fedeli) y 1351-1352; Coutelle 2015, 967. 41 Coutelle 2015, 968-969. 42 Naturalmente la forma torum sería una lectio facilior en este punto, aceptada por muchos editores entre los cuales R. Hanslik en su edición Teubneriana, Hanslik 1979, 192. En favor de rogum Hübner 1877, 102. Coutelle 2015, 975976, que opone con razón rogum a triumphi. Cfr. además para el texto Formicola 2011, 61, que cree insostenibile rogum y vuelve a la lectura torum. 43 Sobre el carácter de aparente carmen funerario, impregnado de reminiscencias virgilianas, en el que Cornelia es representada como patronus de sí misma, ipsa loquor pro me, IV, 27, véase Graverini 2016, esp. 347-351.
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jurídico,44 y acabar de nuevo con un recuerdo de los antepasados que puede traer a la mente, al menos al lector actual, el famoso Sueño de Escipión ciceroniano 45 y dan de nuevo una pincelada de orgullo familiar al discurso que quiere poner en boca de Cornelia la elegía, 4, 11, 99-102: 46 causa perorata est. Flentes, me surgite, testes, dum pretium vitae grata rependit humus. moribus et caelum patuit: sim digna merendo, cuius honoratis ossa vehantur avis.47
Desde un punto de vista formal el poema entra dentro de los parámetros propercianos y su tratamiento del tema y el sentimiento de la muerte 48 y se da incluso en él un factor estilístico extraordinario ya que Cornelia se presenta como un substituto del propio poeta en su formulación 49 y resulta un excelente exponente del gusto que presenta su producción por los parlamentos y su desarrollo retórico, como no ha dejado de ponerse en evidencia.50 44 Este hecho ha sido excelentemente puesto de relieve por Lowrie 2008, 168-171, donde analiza con detenimiento la argumentación de la difunta ante sus jueces de ultratumba. Sobre el carácter de alegato ante un tribunal de la argumentación de Cornelia ha insistido también Galletier 1922, 55, que aduce Prop., 4,11,19, e insiste, dando ejemplos, en la influencia de esta elegía en la poesia funeraria a partir del momento augusteo, p. 90, y en la vigencia de los tópicos utilizados en el epicedio de Cornelia, p. 130. Además Coutelle 2005, 574-578. 45 Véase para los Escipiones, el Scipio de Enio y el peso del Somnium Scipionis: Newman 1997, 330-332. Además Fedeli et alii 2015, 1408-1409 y Coutelle 2005, 575-576. 46 En general Fedeli et alii 2015, 1402-1410, y Coutelle 2005, 578, que propone ver una especie de “paraklausityron” a la puerta de los infiernos; además Coutelle 2015, 987-989. 47 Hübner 1877, 103, se inclina también por avis, discutendo las posibilidades de equis y aquis. Formicola 2011, 45 y 64, señala que la conjetura avis de Heinsius es sustentada por epic. Drusi 330, inter honoratos expicietur avos., aunque quizás fuera mejor 162: neque ad veteres conditus ibis avos, que resulta mantener un destino opuesto con una expresión muy parecida. 48 Cfr. Boucher 1965, 68 y 80-83. Señala Hubbard 1974, 87, el paralelismo entre el epicedio de Cornelia y el de Marcelo en Prop., 3,18. Cfr. además Grimal 1986, 468, donde destaca que el tema de la muerte es uno de los temas mayores de la poesía properciana y se refiere también al caso del epicedio de Cornelia. 49 Así Coutelle 2005, 574-575. 50 Cfr. Keith 2008, 30, donde señala la predilección del poetas por los “speeches” y en p. 114 afirma que esta elegía: “describes her exemplary word propriety in distinctly Augustan terms”, al referirse a Cornelia.
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No perdamos, sin embargo, de vista el contenido cargado de orgullo de los dos último versos citados donde Cornelia se responde a sí misma, determinando el veredicto.51
Sobre la posible reminiscencia tácita de Cornelia, Gracchorum mater Llegados a este punto y vista la coherencia probada del poema con las intenciones poéticas de Propercio y por consiguiente el gran cuidado en su composición, no podemos hacer otra cosa que constatar en el planteamiento y desarrollo de este exemplum de virtud femenina 52 una gran ausencia, al mismo tiempo quizás que una implícita presencia: el precedente de Cornelia Gracchorum mater; de aquí nuestor título provocador: ¿un silencio culpable? Se trata sin duda de un personaje que debió estar en la mente de todos los que conocieron la elegía de Propercio y que el poe ta voluntariamente silencia, aunque no deje de permitir leer entre líneas la existencia de este nexo en las palabras que pone en la boca de Cornelia y en la actitud colmada de orgullo familiar de la misma que se aproxima a la que la tradición atribuye a la hija del primer Africano. Un estudio reciente de É. Coutelle ha puesto de relieve la posible relación entre ambas Corneliae y cree que sea la recuperación de Cornelia, madre de los Gracos, por parte de Augusto así como la elegía properciana sobre la figura de Cornelia Paulli Aemilii entran dentro de un mismo programa concertado.53 Por más que se hayan señalado paralelismos entre las cartas atribuidas a Cornelia Gracchorum y el discurso de la Cornelia properciana y los ecos léxicos que se identifican, los resultados no nos parecen concluyentes.54 Deberemos quizás concordar en el 51 En favor de la lectura aquis por avis se muestra Newman 1997, 150151. La lectura aquis fue mantenida por R. Hanslik en su edición Teubneriana, Hanslik 1979, 193; por nuestra parte seguimos la edición de P. Fedeli citada en la nota 28. 52 Cfr. Coutelle 2015, 289-290, para la Cornelia properciana como modelo de virtudes de una esposa y los personajes susceptibles de ser puestos en paralelo a su caso. 53 Coutelle 2015, 290-293, para el exemplum de Cornelia, madre de los Gracos. 54 Cfr. Coutelle 2015, 291. Hay que constatar que la forma desine aducida,
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hecho de que la imagen de la Cornelia virtuosa es al menos en parte una construcción posterior vistas las sombras que sobre ella arrojan algunas fuentes, especialmente Apiano de Alejandría, Bell. civ. 1, 20 que llega a explicitar que era sospechosa junto con su hija Sempronia de la infausta muerte de Escipión Emiliano,55 evidentemente la cronología de la obra de Apiano, autor que nace seguramente en el reinado de Domiciano, nos lleva al siglo II d.C.56 Resulta evidente que la reconstrucción de la imagen de Cornelia tarda en consolidarse y lo hace quizás en un momento posterior al período en el que se coloca el epicedio de Cornelia, aunque Coutelle refuerce su argumentación señalando que la intención política de equiparar la imagen de Octavia y Cornelia, mediante la colocación de una estatua de esta última en la porticus que lleva el nombre de la primera, le parece evidente y que se trataría en su opinión de una manipulación histórica destinada a una restauración moral preconizada por el nuevo régimen y sería también un claro ejemplo de la voluntad de situar la imagen de las mujeres de la casa imperial Octavia y Livia en el espacio urbano.57 No cabe duda que este último aspecto está probado, pero lo que no queda claro e incluso, a partir del razonamiento expuesto, resulta más oscuro es el seguimiento de una teórica voluntad política de equiparar ambas Cornelias, que no parece estar en la mente del poeta, ya que como el mismo Coutelle muestra son muy importantes las diferencias de actitud entre ambas e incluso si tenemos en cuenta el ejemplo de Alcestis que se sacrifica por Admeto, tenemos como constata el ejemplo contrario de Cornelia y Sempronio Graco, como señaló ya en la misma antigüedad Valerio Máximo, 4, 6, 1.58 No nos cabe duda que Propercio conoce todos estos entresijos, pero tampoco podemos dudar de que aunque real, resulta irrelevante como indicador por su frecuencia en los carmina funerarios. 55 Cfr. el comentario de Gabba 1967, 63-64, con el elenco de todas las fuentes. Nótese que Liv., Per. 59,16-17, que sólo menciona a Sempronia, y Plut., Rom. 27,5, se inclina por el suicidio o la muerte natural. Plut., C. Gracchi 10 = frag. 4 de la vita de Scipio Africanus (ed. Sandbach 1967, 14), para las marcas sospechosas en el cadáver. 56 Gabba 1967, VII-XIV. 57 Coutelle 2015, 292. 58 Cfr. Coutelle 2015, 292-293. Tambien lo hace Plutarco en sus Mulierum virtutes, Moralia 243.
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evita un recuerdo directo y explícito de la madre de los Gracos. Suponer que la glorificación de ambas Corneliae pueda ser puesta en paralelo en un programa político, como hace Coutelle, nos parece quizás adentrarse demasiado en la afirmación de una suposición de manipulación histórica compleja sin más que tenues indicios, que el silencio del poeta en parte incluso desmentiría. En suma, el único dato seguro es el silencio de Propercio. Recordemos respecto a la presencia de Cornelia Gracchorum mater que una pretendida imagen de la misma habría sido puesta en un pedestal hallado en la zona de la porticus Octaviae, el cual testimoniaría la existencia de una estatua sedente atribuida a este personaje que había sido transladado desde la porticus Metelli,59 y que llevaba el texto siguiente: 60 Cornelia Africani f(ilia) / Gracchorum, y en un texto situado en la parte superior y paleográficamente más reciente: Opus Tisicratis. La erección en su nueva ubicación de esta estatua no ha dejado de ponerse en relación con el hecho de que la madre de los Gracos fuera una antepasada de la esposa de Paulo Emilio y que Augusto quisiera honrar así a sus hijastros, los hijos de Escribonia y muy especialmente a la virtuosa Cornelia; 61 como se ha hecho notar está conjetura resulta insuficiente para la explicación del hecho,62 que algunos, como hemos visto ya en el caso de Coutelle,63 consideran de mayor alcance. La posible utilización política por parte del príncipe para crear un precedente sobre el cual honrar a Livia y Octavia parece más
59 Cfr. sobre este monumento y sus sucesivas vicisitudes, LTUR IV, s.v. Porticus Octavia y Porticus Octaviae, 141-145 (A. Viscogliosi), esp. 145, para la estatua de bronce de Cornelia, que está documentada con anterioridad en la porticus Metelli, cfr. ibidem, s.v. Porticus Metelli, 130-132 (A. Viscogliosi), esp. 132. 60 CIL VI,31610 = 10043b = ILS 68 = ILLRP 336 = InscrIt 3, 72. Se conserva en Roma en el Museo Capitolino. Cfr. Coarelli 1996, trabajo que continúa siendo indispensable. Cfr. además para el estudio de la estatua perdida y del pedestal, Kajava 1989; Ruck 2004; Hemelrijk 2005, esp. 311-314, que acepta el reempleo de una antigua estatua griega de divinidad, siguiendo las hipótesis de B. Ruck. Además Mayer 2014 a, 658-662. 61 Cfr. Hallett 1985, 82-83. 62 Hemelrijk 1999, 66-67 y 267 nota 48; esp. 67, donde cree que Cornelia, madre de los Gracos, servirá en la propaganda augustea como modelo de la mujer aristócrata coetánea. 63 Cfr. notas 57 y 58.
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probable, aunque no pasa de ser una conjetura afortunada por el momento.64
La fama de Cornelia, Gracchorum mater, y su posible eco en el silencio de Propercio Debemos para nuestro objeto continuar deteniéndonos en el personaje de Cornelia, madre de los Gracos,65 y veremos cómo Juvenal la describe, casi caricaturiza, en una forma que puede, a la vista de la elegía de Propercio que estudiamos, resultarnos muy familiar en la descripción del orgullo de su linaje que demuestra el personaje. La interpretación de este orgullo por parte de Juvenal en cierto modo constituye una visión opuesta o al menos un contrapunto de lo que Propercio quiere que representen las palabras de Cornelia, esposa de Paulo Emilio Lépido en su epicedio. En el caso de Juvenal se trata de la fama negativa que de una forma u otra persigue a buena parte de las mujeres cultas en época romana, en esta ocasión especialmente exacerbada: 66 Malo Venusinam quam te, Cornelia, mater Gracchorum, si cum magnis virtutibus adfers grande supercilium et numeras in dote triumphos. tolle tuum, precor, Hannibalem, victumque Syphacem in castris et cum tota Carthagine migra.
No podemos dejar de mencionar la existencia en Roma de una extensa leyenda y anecdotario sobre los Escipiones, que circula 64 En época reciente, diversas contribuciones, especialmente a partir del trabajo de Hemelrijk 2005, han despertado el interés por la cuestión relacionando la estatua de Cornelia y su translación con el ius imaginum concedido a Livia y Octavia en el 35 a.C. y la dedicación de porticus a ambas; así Valentini 2011, esp. 202-203; Cenerini 2013, esp. 108-109; Cenerini 2016, esp. 26-27. Véase también para las implicaciones del probable senadoconsulto del 35 a.C., que mencionaría Casio Dión, y su consecuente autorización para erigir sendas estatuas a Octavia y Livia, seguido por otro del 9 a.C. respecto a los honores de Livia, Flory 1993, esp. 290-293, para la estatua de Cornelia, como precedente. 65 Para una biografía a grandes rasgos positiva cfr. Dixon 2007; Richlin 2014, 104, 112, para las cartas y 333 nota 1; Jallet-Huant 2012, 100-105; para la tradición negativa, tan antigua como la positiva, Mayer 2014 a; alude también a la tradición negativa junto a la positiva Vidén 1993, 152, para contraste entre ambas tradiciones, p. 158. 66 Iuv., 6,167-171, seguimos la edición de Willis 1997.
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fundamentalmente en ambiente escolar, en forma más o menos orgánica, y que constituye un buen recurso retórico desde casi el momento mismo de los hechos que se recogen y que en autores como Cicerón han ocupado un lugar muy importante, dicha leyenda no siempre es positiva y los argumentos se presentan en ocasiones a contrario.67 Dicho esto, si prestamos atención veremos que en resumidas cuentas la Cornelia de Propercio presenta los mismos trazos de orgullo, interpretado como superbia en Juvenal, que caracterizaban según la tradición su ilustre antepasada, pero vistos en forma positiva.68 Visión favorable que podemos encontrar respecto a la ilustre antepasada de la Cornelia properciana también por ejemplo en Valerio Máximo, que se hace eco de la famosa anécdota sobre el orgullo maternal de la misma (4, 4 proem.): 69 Maxima ornamenta esse matronis liberos apud Pomponium Rufum Collectorum libro sic invenimus. Cornelia Gracchorum mater cum Campana matrona apud illam hospita ormamenta sua pulcherrima illius seculi ostenderet, traxit eam sermone dum e schola redirent liberi et: “Haec, inquit, ornamenta sunt mea”.
O bien podemos recordar que en su condición de madre de los Gracos y de hija del Africano será loada por Séneca en su Ad Marciam de consolatione (16,3): Ex una tibi familia duas Cornelias dabo: primam Scipionis filiam, Gracchorum matrem. Duodecim illa partus totidem funeribus recognovit. Et de ceteris facile est, quos nec editos nec amissos civitas sensit: Tiberium Gracchum et Caium Gracchum, quos etiam qui bonos viros negaverit, magnos fatebitur, et occisos vidit et insepultos. Consolantibus tamen miseramque dicentibus: “nunquam, inquit, non felicem me dicam, quae Gracchos peperi”.70
Cfr. los trabajos citados en la nota 37. Además Mayer 2016 a. Cfr. Dixon 2007, 49-59 Cfr. además Mayer 2014 b, 30-35, para la visión positiva. 69 Citado según la edición de Combès1997, 33. 70 Seguimos la edición de Haase 1881, 125. Sobre los exempla femeninos de Séneca cfr. Vidén 1993, 108-139, esp. 131-132. 67
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Séneca recoge además, acto seguido, la entereza de otra Cornelia (16, 4): Cornelia Livi Drusi clarissimum iuvenem inlustris ingenii, vadentem per Gracchana vestigia inperfectis tot rogationibus intra penates interemptum suos, amiserat incerto caedis auctore. Tamen et acerbam mortem filii et inultam tam magno animo tulit quam ipse leges tulerat.
La tradición positiva resulta también clara. Deberemos convenir, sin duda además en que la descripción de Propercio del carácter y del comportamiento de una Cornelia de la familia de los Escipiones es realista y bien logrado. No nos atreveríamos, sin embargo, a proponer un paralelismo entre los consejos que da la esposa de Paulo Emilio a sus tres hijos, dos varones y una hembra, curiosamente el mismo número y distribución de los que sobrevivieron para la primera Cornelia, y el criticado intervencionismo de Cornelia, hija del primer Africano, respecto a los suyos.71 Los consejos que recoge la elegía de Propercio están cargados de buen sentido y reflejan tan sólo la energía de una matrona romana 72 y la capacidad de sobreponerse a las aciagas circunstancias, muy lejos de la intervención de carácter ideológico y político de la madre de los Gracos. Hemos de destacar, sin embargo, que estos rasgos de soberbia y al mismo tiempo la participación en la vida pública a través de sus hijos son la parte, quizás más benevola, de la leyenda negra que corre pareja con la consideración de ejemplo de virtud de la madre de los Gracos, aunque la intervención potente y a veces airada en la actividad de sus hijos son uno de los elementos más notables. No puede pasarse por alto como no ha dejado de notarse tampoco que la presencia de un intervencionismo del mismo tipo parece 71 Cfr. para el intervencionismo de la madre de los Gracos, Mayer 2014 b, 27-37. Cfr. además para el elemento positivo en la educación en la sanctitas y la verecundia comentando los ejemplos de Cornelia, madre de los Gracos, Aurelia, madre de César y Atia madre de Augusto en la obra de Tácito, dial. 28,6, Bonjour 1975, 433. Véase también Hallett 2004. Además Beness – Hillard 2013, 62-65. 72 Pueden también ser útiles para algunos aspectos las agudas notas de Shackleton Bailey 1967, 263-267 y 315-316, para esta elegía, y esp. 266-267, para los consejos de Cornelia a su hijos, y concretamente para 4, 11, 87 que pone en relación con Publilio Siro 8: ames parentem, si aequus est: si aliter feras.
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también afectado la fama de Atia, madre del propio Augusto y que esto no fue considerado positivo de forma generalizada.73 Recordemos para ello el Dialogus de oratoribus atribuido a Tácito (28, 6): 74 Ac non studia modo curasque, sed remissiones etiam lususque puerorum sanctitate quadam ac verecundia temperabat. Sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam Caesaris, sic Atiam Augusti [matrem] praefuisse educationibus ac produxisse principes liberos accepimus.
La tradición negativa no ahorró a Scribonia madre de Cornelia. Basta recordar las razones para el divorcio con la misma aducidas, al decir de Suetonio, por el mismo Augusto: Cum hac quoque divortium fecit “pertaesus”, ut scribit, “morum perversitatem eius”, ac statim Liviam Drusillam matrimonio Tiberi Neronis et quidem praegnantem abduxit.75
El contraste entre la virtud de la hija frente a la aparente liviandad de la madre, la cual consiguió que el príncipe se sintiera pertaesus a su lado, resulta más que evidente, aunque haya que constatar que es éste el único documento que refiere el hecho, aunque en principio podamos no dudar de la veracidad del testimonio. Una razón más por parte del poeta para no añadir otros paralelos que pudieran resultar problemáticos o suscitar reminiscencias negativas, si creemos en la veracidad de la causa del divorcio de Escribonia. La virtud autoafirmada de la hija y la pietas no desmentida hacia la madre se confortarían mútuamente y evidentemente dar un paso más hubiera sido abrir el camino a nuevas hilaciones que en modo alguno podían convenir al objetivo del poeta en su consolatio. 73 Al respecto cfr. Mayer 2016 b, donde se pone de relieve la tradición negativa sobre Atia en función de su influencia en el momento mismo de la toma del poder del joven Octaviano. 74 Citamos según la edición de Goelzer 1967. 75 Suet., Aug. 62,2, citamos siguiendo la ed. de Ailloud 1931, 113. Cfr. además desde un punto de vista literario resulta especialmente útil la edición de De Blasi – Ferrero 2003, 532-533, que cree que era hermana de Lucio Escribonio Libón suegro de Sexto Pompeyo, hijo de Pompeyo Magno; Fluss 1921; Flory 1988, para la separación provocada por parte del príncipe entre Livia y su marido. No traeremos a colación aquí Sen. De beneficiis 6, 32, 1-2, para su hija Iulia, cfr. De Blasi – Ferrero 2003, 585-587.
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A modo de conclusión Hechas estas puntualizaciones, véamos qué puede revelar para las intenciones del poema de Propercio la cuestión que nos ocupa. La coherencia de esta elegía y de las palabras de Cornelia con las ideas conservadoras de Augusto es evidente.76 Se ha señalado que el poeta parece haber aceptado completamente los extremos de esta posición y hecho suya esta forma de exhibición de carácter aristocrático de virtudes matronales como ejemplo de una nueva moralidad pública, como una consigna del nuevo regimen a la sociedad romana.77 Todo esto puede ser aceptado, en principio, sin excesivas reservas. Cabe, no obstante, seguir insistiendo sobre la razón por la cual no se menciona el ejemplo de entereza y el paralelo más evidente, que podemos suponer que ennoblecería todavía más la actitud de Cornelia: el ser digna sucesora de su ilustre antepasada la madre de los Gracos. Descartamos de entrada la explicación que puede parecer más común: el paralelo era tan conocido que resultaría trivial en el poema de Propercio. No consideramos tampoco un segundo factor posible: que al tratarse de un exemplum femenino menoscabaría con su precedente la imagen de entereza moral única de la Cornelia properciana. En nuestra opinión la cuestión es otra para este silencio y creemos que podemos proponer dos respuestas a esta cuestión, que incluso, si se quiere, se pueden reducir a una sola. La primera podría tener una razón fundamentalmente política: los Gracos 76 Cfr. por ejemplo Bonamente 2004, esp. 65-69, para el valor de Prop. 4, 11. Puede complementarse la visión histórica de los Propertii de Assisi con Boldrighini 2014. En general Forni 1986. Si volvemos a la ideología augustea notemos que Sullivan 1976, 8, 44, y 46 y nota 27, insiste con razón en el hecho de que el libro cuarto de Propercio está datado por esta elegía y concretamente por el consulado del hermano de Cornelia, lo que implicaría que deberíamos situar en este momento como mínimo la adecuación completa del poeta al pensamiento oficial. Véase ahora Ledentu 2016; Günther 2012, esp. 43-45. No podemos pensar que exista una relación de patronato del príncipe en favor de Propercio cfr. Wiseman 1982, y White 1982, y esp. Gold 1982. 77 Para la evolución del pensamiento de Propercio en relación al matrimonio cfr. Catanzaro 1986, esp. 185-186, para la “rivalutazione del matrimonio”; Fedeli 1986, 134, para la propaganda augustea. Sobre la legislación de Augusto sobre el matrimonio, cfr. Ferrero Raditsa 1980, esp. 295-297 y 310-319. En relación con la legislación augustea sitúa tambien este epicedio Lilja 1965, 235-237, glosando los tópicos del discurso de Cornelia; últimamente Fedeli 2014, 416-417.
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representan posiciones revolucionarias que, aunque ya muy lejanas e incluso en parte elaboradas posteriormente, representan un claro desafio al senado romano y a la clase dirigente, se trata de unos criterios que nacen de la misma oligarquía de familias que dominaban la república y son por consiguiente un exemplum que no puede ser considerado positivo para las intenciones en apariencia conservadoras y respetuosas de la tradición que pretende tener Augusto. No olvidemos además el peso de Cornelia en la educación, formación política y, quizás, en las decisiones de sus hijos, si creemos a Apiano incluso en la perduración de la obra de los mismos. La leyenda de los Escipiones, y con ellos la de los Gracos, compilativa y acumulativa y desarrollada en forma orgánica casi desde los mismos hechos, contenía todos estos elementos y su utilización retórica y, más aún, poética podía comportar riesgos en momentos como los que tocó vivir a Propercio. La segunda respuesta puede ser todavía más probable y en cierta manera, como hemos avanzado, concomitante con la anterior: la leyenda peyorativa sobre Cornelia, madre de los Gracos, y, subsidiariamente, la que circulaba sobre Atia, madre de Augusto, tendría ya una amplia resonancia, como demostraran las fuentes algo más tarde, y probablemente sería preferible no hacer referencia a la madre de los Gracos en función de esta ambigüedad. Naturalmente el poeta habla en el epicedio por boca de Cornelia Paulli Aemilii, que aún manteniendo el supercillium, por utilizar el término de Juvenal, evidente de los Escipiones no se referirá al exemplum de su ilustre antepasada, salvaguardando así la integridad del poeta. Recordemos la afirmación atribuida a Augusto en los Apophthegmata Caesaris Augusti /: Ésti kai sigés akindynon géras”, y también cómo Horacio en carm. 3, 2, 25 parece hacerse eco de ella: est et fideli tuta silentio / merces.
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Abstracts Nuestra contribución intenta analizar las razones por las que en Propercio 4, 11 no se menciona la figura de Cornelia, madre de los Gracos, en su epicedio de Cornelia esposa de Paulo Emilio e hijastra de Augusto. El elogio fúnebre contenido en la llamada regina elegiarum quiso evitar quizás esta figura en razón de la fama ambigua que rodeaba en la tradición a la hija de Escipión el Africano, de quien sin embargo la Cornelia properciana se declara orgullosamente descendiente. Keywords: Propercio, Elegía, Literatura romana, Escipión, Paulo Aemilio, Augusto, Escribonia, Cornelia madre de los Gracos. Our contribution tries to analyse the reasons by which in Propercio 4, 11 there is no mention of the figure of Cornelia, mother of the Gracchi, in his Cornelia’s epicedius, the Paullus Aemilius’ wife and Augustus’ stepdaughter. The funereal praise contained in the so-called regina elegiarum probably wanted to avoid this figure due to the ambiguous reputation that was surrounding in the tradition the daughter of Scipio Africanus, of whom nevertheless the Cornelia of Propertius declares herself proudly a descendant. Keywords: Propetius, Elegy, Roman Literature, Scipio, Paullus Aemilius, Augustus, Scribonia, Cornelia mother of the Gracchi.
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PAOLA PINOTTI
DA PROPERZIO A MASSIMIANO
La ricezione di Properzio in Massimiano, un autore che la maggior parte della critica concorda nel situare nel VI secolo,1 dovrebbe confermare la vitalità della tradizione elegiaca nel tardo-antico: cercheremo di verificare in che modo e in quale misura si possa parlare di Properzio in Massimiano, rivedendo le affermazioni degli studiosi che dal secolo scorso hanno dedicato parte delle loro analisi ai rapporti tra i due poeti.2 Sarà utile, però, in via preliminare, ripresentare i dati fondamentali su Massimiano, di cui ci eravamo occupati nel convegno promosso da questa Accademia nel 1988, intitolato Tredici secoli di elegia latina. L’autore, di cui ci è giunto un corpus di 686 versi in metro elegiaco,3 fornisce scarsissime notizie biografi Con l’eccezione degli studi di C. Ratkowitsch, 1986 e 1990 (età carolingia). Lekusch 1894 aveva fornito un diligente repertorio dei rapporti di Massimiano con gli augustei, in cui sporadicamente compare Properzio (del resto il titolo del contributo precisava «besonders zu Ovid»). Alfonsi 1942 esamina alcuni passi derivati ex antiquis poetis in Boezio e Massimiano. Troviamo alcuni rimandi specifici nelle due pagine che Merone 1950, 335 s. dedica a «Massimiano Tibullo e Properzio». Enk nei Prolegomena all’edizione del Monobiblos del 1946 riproduce e integra la lista della Teubneriana di Hosius, a cui si aggiungono alcuni suggerimenti di Shackleton Bailey in Mnemosyne del 1952, 325. Più recenti sono l’indice (Q uellenapparat) in Sandquist 1999, 184 ss. (peraltro incompleto), l’indice dei passi in Schneider 2003 e soprattutto l’utilissima sezione dei loci similes nella Concordantia in Maximianum edita da Paolo Mastandrea nel 1995, 125 ss. 3 Prevale negli studi più recenti la tendenza (già presente nel commento di Spaltenstein) a considerare l’opera di Massimiano come un carmen continuum e non una successione di sei elegie: cfr. Sandquist 1999, Schneider 2003, e una sintesi del problema in Franzoi 2014, 71 ss., che assume la stessa posizione. 1 2
10.1484/M.SPL-EB.5.115921
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P. PINOTTI
che (origine italica: 5, 5 Etruscae gentis alumnum; vita e carriera forense a Roma; partecipazione ad un’ambasceria all’imperatore d’Oriente; rapporto di amicizia, in gioventù, con il più anziano Boezio); il dato più appariscente nel suo lungo monologo elegiaco è la vecchiaia, che condiziona e ossessiona il poeta, determinando una visione del mondo, della vita, dell’amore sub specie senectutis; rimane comunque la singolarità di una «first person love poetry» 4 che è quasi totalmente assente nella tarda antichità, e che è inevitabilmente da ricondurre all’intertestualità con i modelli degli elegiaci augustei. Ricordiamo come Massimiano presenti nel suo corpus una pluralità di figure femminili, dall’antica amante Licoride che nella II elegia lo disprezza perchè invecchiato, ad Aquilina, amore giovanile rievocato nella III elegia, alla danzatrice Candida che lo affascina nella IV elegia, alla Graia puella che nella V è, con le sue avances, la causa scatenante dell’impotenza del poeta.5 Ora al lettore della cosiddetta prima elegia massimianea, una lunga e lamentosa deprecatio senectutis, si presenta già nel terzo distico quello che è sembrato a molti critici un promettente esempio di intertestualità con il modello properziano : Max. 1, 1-6 Aemula quid cessas finem properare senectus? Cur et in hoc fesso corpore tarda venis? Solve precor miseram tali de carcere vitam: mors est iam requies, vivere poena mihi. Ma per esempio Alessandro Fo 1986, 14 avanzava su questa lettura unitaria dubbi condivisibili, che ora sono in parte riformulati da Anna Maria Wasyl 2011, 117 (ma cfr. 159 s.). In realtà i manoscritti presentano notevoli oscillazioni nel fissare i confini tra le singole elegie, e la partizione in sei componimenti si è affermata a partire dall’edizione a stampa di Pomponio Gaurico nel 1502 (che peraltro attribuiva l’opera a Cornelio Gallo: sulla falsa attribuzione umanistica si veda l’ultima e documentata messa a punto di Linda Spinazzé, premessa all’edizione Franzoi 2014, 50 ss.) Continueremo comunque a citare Massimiano con la numerazione delle singole elegie, canonizzata dalle storiche edizioni di Baehrens, Petschenig, Webster e Prada, e ripresa da Spaltenstein, Guardalben, Goldlust, e utilizzeremo il testo fissato da Guardalben (salvo singoli casi segnalati di volta in volta). 4 Cfr. Roberts 2010, 90. Sulla ‘conversione’ in chiave cristiana del l’elegia erotica, in autori tardo-antichi come Venanzio Fortunato, cfr. Consolino 1997, 399 ss. 5 Ovviamente questa pluralità di puellae differenzia il poe ta da Properzio (e in parte da Tibullo).
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DA PROPERZIO A MASSIMIANO
Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri; hoc quoque quod superest languor et horror habet. Prop. 1, 12, 11 Non sum ego qui fueram: mutat via longa puellas.
Il poeta augusteo lamentava la volubilità di Cinzia con la topica opposizione presente / passato, espressa dall’alternanza del piuccheperfetto dopo il presente, là dove in prosa ci si poteva attendere un imperfetto o un perfetto: il condizionamento metrico detta spesso la sostituzione del piuccheperfetto agli altri tempi.6 Ma anche Orazio, nella prima ode del quarto libro, ostentando una renuntiatio amoris presto smentita dalla comparsa di Ligurino, affermava in modo sintatticamente più ortodosso (ma condizionato dallo schema prosodico del gliconeo, in una strofe del sistema ascepiadeo quarto) non sum qualis eram bonae / sub regno Cinarae (carm. 4, 1, 3-4). Ovidio in un verso dei Tristia (3, 11, 25) esce dallo schema del servitium amoris e riadatta la formula rimproverando un nemico che lo tormenta nel suo esilio: 7 Non sum ego quod fueram. Q uid inanem proteris umbram? E nel farlo combina e sfrutta un’altra esternazione di Properzio annientato da Amore in 2, 12, 20 non ego, sed tenuis vapulat umbra mea. Il nostro trova nei modelli una formulazione consona alla sua forma mentis, che costruisce tutto il corpus sugli stilemi del l’antitesi, dell’ossimoro, dell’opposizione dei concetti: 8 quindi trasforma innanzitutto la Stimmung erotica di Properzio e Orazio, e dà un giro di vite anche al lamento ovidiano (c’è chi ha visto nel suo distico una «inattesa allusione epigrafica»): 9 vira verso l’anticipazione dell’equazione vecchiaia = morte che è uno dei suoi temi prediletti (periit pars maxima nostri), e chiude il distico Hofmann Szantyr 1965, 320 s. Si veda il puntuale commento di Luck, ad loc. 8 Su queste caratteristiche dell’usus scribendi massimianeo cfr. Pinotti 1989, 198 ss. con la bibliografia sugli studi precedenti; nuovi contributi all’analisi stilistica in Wasyl 2011, passim, e specialmente nel commento di Franzoi. 9 Agozzino ad loc., anche in base a CE 1559, 15 Bücheler quod fueram non sum, sed rursum ero quod modo non sum e (Sen.) epigr.38, 4 Zurli (53, 4 Prato) nunc pars optima me mei reliquit. Altri loci similes epigrafici in Webster 1900, 75 e Leotta 1989, 81 ss. 6 7
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con la coppia omoteleutica languor et horror che è di per sé eloquente. Ma nell’incipit dell’esametro, eliminando ego di Properzio e Ovidio, e con questo la sinalefe, ottiene una maggiore incisività fonica, che fa risaltare l’opposizione temporale sum / fueram, con i due verbi in evidenza prima della pentemimere, e con i dattili quī fŭĕrām pĕrĭit ritrae l’incalzare della morte espresso dal verbo pereo. La ripresa massimianea dell’ipotesto piacerà poi, come è noto, al Foscolo, in un sonetto giovanile, databile al 1800: Non son chi fui; perì di noi gran parte: questo che avanza è sol languore e pianto
(sonetto 2, 1-2)
che sceglie di opporre presente a perfetto (necessità metrica anche qui) e per il resto parafrasa quasi letteralmente il distico. Va ricordato che negli esametri di Ovidio e di Massimiano è presente una variante quod, sulla quale gli editori prendono posizioni diverse: in Properzio, in cui la paradosis è concorde su qui, Burman voleva correggere in quod 10 in base al verso ovidiano, non trovando però seguaci; in Ovidio tristia Luck stampa quod ma nel commento dichiara di preferire qui.11 In Massimiano Spaltenstein sceglieva qui (messo in dubbio da Baehrens in apparato, in base alla lezione del solo Florentinus 1224), così come già Wernsdorf, Petschenig, Webster, Prada e Agozzino, poi Guardalben, e più recentemente Schneider 2003 e Franzoi 2014, mentre la sola Sandquist 1999 preferisce quod 12 ; leggendo qui fui si evidenzia meglio l’antitesi tra l’uomo di un tempo e il relitto presente, hoc …quod superest. Per quanto riguarda poi il secondo emistichio massimianeo, periit pars maxima nostri, la iunctura pars maxima è presente tanto in Virgilio (georg. 2, 40; Aen. 7, 686; 11, 214) quanto in Orazio 10 Si veda l’apparato della Teubneriana di Fedeli ad loc.e il relativo commento, in cui si mantiene qui anche in base a Massimiano e ad un passo di Cic. epist. 7, 3, 4 (citato da Enk e Shackleton Bailey) vetus est enim, ubi non sis qui fueris, non esse cur velis vivere, forse citazione di una tragedia arcaica. 11 Oltre a ricordare i loci paralleli di Properzio e Massimiano, Luck riflette sul fatto che Ovidio «vor der Verbannung ein quidam war, und erst nachher ein quiddam oder quoddam wurde». 12 Va ricordata anche la varia lectio del pentametro, habet /habent, su cui si veda la difesa del singolare in Schetter 1970, 97 e il commento di Franzoi ad loc.
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sat. 2, 3, 82 e soprattutto nell’Ovidio elegiaco come in quello esametrico (ars 3, 229; trist. 1, 5, 79; met. 2, 672; 6, 380), e tutta la clausola del verso riecheggia trist.5, 9, 15 pars maxima nostros. Per il pentametro, sia hoc quoque quod, sia horror habet riprodu cono espressioni ovidiane.13 Ma, tornando all’intertestualità fra gli emistichi iniziali citati, appare evidente che non si può considerare Properzio l’ipotesto di Massimiano, o quantomeno non il solo ipotesto, in presenza del verso di Ov. trist. 3, 11, 25: al massimo, se si legge non sum ego quod nei Tristia, si può ipotizzare nel nostro autore una modifica del passo del suo auctor prediletto Ovidio, in base a non sum ego qui del poeta di Assisi. E questa provvisoria conclusione può estendersi alla maggior parte dei loci similes che, secondo i vari commentatori, apparen tano Massimiano a Properzio: un’attenta consultazione del mate riale fornito dalla Concordanza curata da Mastandrea evidenzia come, a fronte di paralleli con la poesia ovidiana segnalati pratica mente ad ogni verso, i rimandi all’elegiaco umbro siano non più di una settantina (su 686 versi); ma di questi meno di trenta sono quelli che non presentano contemporaneamente un rimando anche ad Ovidio. In sostanza la koiné elegiaca rivive nei versi massimianei con accenti prevalentemente ovidiani e non properziani, benché si possano isolare alcuni sporadici casi in cui il tardo elegiaco mette a frutto i distici di Properzio, realizzando particolari effetti di oppositio in imitando o comunque di mutamento radicale di Stimmung. Vediamone alcuni, escludendo a priori l’analisi dettagliata di quegli echi di formule e iuncturae che sembrano rimaste nell’orecchio e nella penna di un attento lettore del l’elegia augustea, anche grazie alla posizione in incipit o in explicit di esametro o pentametro: farei rientrare in questa categoria clausole come et aura nocet pulsa sono(s) pulchra puella nocte fenestra(e) putaret amor
di Prop. 2, 4,12 vs. Max. 1, 242 di Prop. 4, 2, 8 vs. Max. 4, 10 di Prop. 2, 26, 21 vs. Max. 4, 14 di Prop. 3, 20, 29 vs. Max. 5, 9 (-as) di Prop. 3, 24, 6 vs. Max. 5, 74 putetur amor
Si vedano in dettaglio i Loci similes nella Concordanza di Mastandrea.
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oppure incipit come: nonne fuit (mel)ius di Max. 2, 19 vs. Prop. 1, 17, 15 n. f. levius; 2, 25, 11 satius a quantum di Max. 5,29 vs. Prop. 2, 21, 1 (Ov. o q. oppure heu q.)
Si tratta di vere e proprie cellule foniche impresse nella memoria poetica di un conoscitore di elegie, il quale probabilmente in modo quasi inconsapevole compone versi che le riecheggiano (e rispetto a questi casi di echi properziani, quelli ovidiani presentano una frequenza ben più alta); il fenomeno rientra in quello più generale dell’imitatio in età tardo-antica,14 in cui tessere sottratte a testi classici vengono rimontate a caso per somiglianza metrico-verbale. Ma qua e là Properzio sembra costituire un ipotesto più ‘pesante’ di Ovidio, e genera rivisitazioni più significative nella poesia massimianea: per esempio Prop. 1, 11, 23 tu mihi sola domus, tu Cynthia, sola parentes, ribadito nel distico finale di 2, 7, 19 tu mihi sola places, placeam tibi, Cynthia, solus è più determinante della citazione testuale di Ov. ars 1, 42 (tu mihi sola places) per l’esametro di Massimiano 1, 55 tu me sola tibi subdis, miseranda senectus, che con poliptoto e allitterazione sembra riprodurre, in un contesto di accentuato patetismo, gli stilemi properziani; alla passione esclusiva di Properzio per la puella subentra il dominio esclusivo della vecchiaia sull’autore. Sempre nella prima elegia di Massimiano, il rimprovero alla Terra matrigna che non accoglie gli infelici mortali, quid miseros variis prodest suspendere poenis? (1, 233) sfrutta l’ammonimento properziano a Pontico di 1, 9, 9 quid tibi nunc misero prodest grave dicere carmen?, che era seguito dal celebre pentametro plus in amore valet Mimnermi versus Homero, un passo che aveva sicuramente un’altissima visibilità anche in età tardo-antica a causa della dichiarazione di poetica. Ancora nelle esternazioni properziane in ambito di poetica era presente la iunctura che ricorda la donna amata da Gallo: 2, 34, 91-92 et modo formosa quam multa Lycoride Gallus / mortuus inferna vulnera lavit aqua. Una iunctura che ritroviamo Si vedano le considerazioni di Mastandrea 2003-2004, 333 s., e quanto osservava Pasquali sulle «reminiscenze inconsapevoli» nel classico contributo sull’arte allusiva, 1968, II 275 ss. 14
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nell’incipit della seconda elegia di Massimiano En dilecta mihi nimium formosa Lycoris (2, 1), dove un’altra bella Licoride fa soffrire il poeta, ma respingendolo perché ormai vecchio, con il consueto stravolgimento delle situazioni erotiche in chiave senile (in quanto lei stessa è non minus alba capillis…): 15 alla tipica inaffidabilità elegiaca della puella di Gallo subentra ben altra motivazione. A volte un emistichio properziano trasmigra da un exemplum mitologico alle vicende autobiografiche di Massimiano: 2, 8, 36 tantus in erepto saevit amore dolor, riferito in Properzio alla violenta reazione di Achille per la perdita di Briseide, diventa in 3, 34 et sic permixto saevit amore dolor, applicandosi all’amore dei due ragazzi, il poeta giovane e Aquilina, e recuperando anche il topos dell’amore dolceamaro con il verbo permisceo. E uno dei rarissimi exempla che Massimiano trae dal mito (su questo aspetto torneremo tra breve) ricrea il parallelismo properziano tra le coppie Postumo – Galla e Ulisse – Penelope di 3, 12, 23 Postumus alter erit miranda coniuge Ulixes, riferendolo nell’elegia quinta al rapporto tra il poeta e la fin troppo seducente Graia puella: 5, 19-20 (25-26 Franzoi) illam Sirenis stupefactus cantibus aequans / efficior demens alter Ulixes ego. E, sempre a proposito delle attrattive della Graia puella, Massimiano non esita a riciclare da Prop. 4, 4, 53-54 te toga picta decet, non quem sine matris honore / nutrit inhumanae dura papilla lupae la iunctura dura papilla, nata dal disprezzo di Tarpea per Romolo, paragonato con l’amato Tazio, e la riusa nel più erotico dei contesti, per descrivere il fascino sensuale del corpo che lo seduce: 5, 27-28 urebant oculos stantes duraeque papillae / et quas astringens clauderet una manus. D’altra parte le doti non solo fisiche ma artistiche della Cinzia properziana, ammirate e cantate in 2, 3, 9 ss. nec me tam facies, quamvis sit candida, cepit /…/nec de more comae per levia colla fluentes /…/quantum quod posito formose saltat Iaccho / … et quantum Aeolio cum temptat carmina plectro / par Aganippeae ludere docta lyrae, sembrano il modello più presente a Massi Ricordiamo come questa apertura della seconda elegia aveva contribuito a legittimare la falsa attribuzione a Cornelio Gallo del corpus massimianeo: v. supra n. 3. 15
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miano per la descrizione delle arti seduttive della protagonista nella V elegia, 17 ss. docta loqui digitis et carmina fingere docta / et responsuram sollecitare lyram, puella veramente docta oltre che dotata di Graia ars; inoltre anche un’altra presenza femminile dell’elegia massimianea, la danzatrice della quarta elegia, mutua da Cinzia non solo il candore della facies, da cui prende il nome (4, 7, virgo fuit, species dederat cui candida nomen / Candida), ma anche l’abilità nella danza: 4, 15 hanc ego saltantem subito correptus amavi, anche se nel suo ritratto si fondono numerosi altri modelli, facendone una quintessenza del fascino femminile ele giaco.16 Del resto è comprensibile che la personalità e il fascino di Cinzia, tante volte descritti nei distici properziani, rimanessero impressi nel lettore tardo-antico più delle evanescenti figure tibulliane di Delia e Nemesi, o delle molteplici ma sfuggenti facce della Corinna di Ovidio. Ora proprio l’elegia dell’ambasceria in Oriente offre l’occasione per esaminare il ruolo della mitologia nel corpus di Massimiano, a confronto con la funzione esemplare del mito in Properzio, su cui moltissimo si è scritto,17 un ruolo spesso misconosciuto o negato dai critici: 18 per esempio Alfonsi 1942, 344 s., ricordando la funzione di «nobilitazione ideale e di monumentalizzazione» assunta dal mito nella poesia ellenistica e negli elegiaci, afferma «qui il mito scompare» e vede un significato ironico, di scherno, in alcuni passi della V elegia. Boano 1949, 210 s. parla di «indifferenza per il mito»; Spaltenstein 1977, 52 liquida la «mythologie» in poche righe (ma è più dettagliato nel commento ai passi); anche un interprete sensibile e informato come Fo 1987, 364 afferma che Massimiano «accantona interamente l’elemento del mito», e gli fa eco Gagliardi 1988, 36 sottolineando l’assenza o l’inconsistenza del mito (nella I elegia). 16 Cfr. i passi citati da Franzoi ad loc., ai quali si possono aggiungere la Copa e i Priapea ricordati da Consolino 1997, 383; sul motivo si veda già Alfonsi 1942, 91 s. 17 Basterà rimandare agli Atti del Convegno dedicato proprio alle figure del mito in Properzio da questa Accademia nel 2014, e anche alla tematica trattata in un precedente convegno del 2002, Properzio tra storia arte mito. 18 Heege 1893, 11 forniva un breve elenco, così come Dapunt 1949, 170 (limitato alle occorrenze di nomi propri, mitologici e non).
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Più articolate risultano le osservazioni di Consolino 1997, 388 ss. e di Wasyl 2011, 151 ss., che non casualmente si concentrano sulla V elegia: è qui infatti che si addensa la maggior parte del materiale mitologico rielaborato da Massimiano; tuttavia non sembra che venga messo adeguatamente in rilievo come il mito in Massimiano perda quella funzione pragmatica, quello scopo protrettico a cui hanno fatto l’abitudine i lettori dei praeceptores amoris Properzio e Ovidio. Massimiano non usa l’elegia come «werbende Dichtung» 19 per conquistare la puella, né tantomeno si prefigge come scopo di ammaestrare i lettori con exempla mitologici finalizzati a rendere appunto esemplari e utili le proprie analoghe vicende amorose.20 Vediamo Prop. 3, 12, 23 Postumus alter erit miranda coniuge Ulixes in rapporto con Max. 5, 20 e con tutto il passo 19-22; 39-46 21 Illam Sirenis, stupefactus cantibus, aequans efficior demens alter Ulixes ego; et quia non poteram tantas evadere moles, nescius in scopulos et vada caeca feror. […] Subcubui, fateor, Graiae tunc nescius artis, subcubui Tusca simplicitate senex. Q ua defensa suo superata est Hectore Troia, unum non poterat fraus superare senem? Muneris iniuncti curam studiumque reliqui deditus imperiis, saeve Cupido, tuis. Nec memorare pudet tali me vulnere victum: subditus his flammis Iuppiter ipse fuit.
Q ui il poeta dapprima si presenta come un secondo Ulisse (con la iunctura ripresa, come abbiamo visto, dall’elegia properziana di Postumo e Galla), ma, non contento dell’oppositio in imitando rispetto al modello, in cui l’alter Ulixes usciva indenne dal pericolo Si riprende la nota formulazione di Stroh 1971. Si vedano gli studi di Bollo Testa 1981 e soprattutto Gazich 1995; altra bibliografia sul tema in Pinotti 2016, 109 ss. 21 Sull’ordine molto discusso dei versi da 22 a 54 accettiamo la proposta di Fo 1986-87, 104 ss.: 1-30; 39-50; 31-38; 51-54. Si veda una sintesi del problema e delle scelte degli editori in Guardalben ad loc. e in Franzoi ad 37-44. 19 20
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delle Sirene (Sirenum surdo remige adisse lacus, Prop. 3, 12, 34), si qualifica stupefactus, demens e nescius, con tre epiteti che formano un singolare ossimoro accanto al nome dell’eroe versutus per antonomasia.22 La successiva opposizione tra la proverbiale Graia ars e la Tusca simplicitas è resa più patetica dall’anafora di subcubui (5, 39-40) e contribuisce all’assurda esemplarità di questo alter Ulixes, vittima dell’astuzia greca di cui era sempre stato il più illustre rappresentante; 23 il distico prepara poi il successivo «excursus mitologico».24 L’exemplum tratto dalla guerra di Troia è introdotto nel primo esametro (41) da un anacronismo, giustamente rilevato da Spaltenstein ad loc.: infatti la città, quando è superata dalla fraus del cavallo, non poteva più essere difesa da un Ettore già precedentemente ucciso da Achille. Massimiano sembra farsi prendere la mano dalle reminiscenze epiche assemblandole confusamente, senza curarsi della verosimiglianza né della cronologia dei fatti, ma badando solo a prolungare l’analogia tra la propria sconfitta e quella delle vittime della perfidia greca. Segue al v. 44 l’apostrofe al dio Cupido, in cui il convenzionale epiteto saevus, frequentemente associato alle divinità dell’amore,25 in iunctura con il vocativo Cupido è ancora una volta espressione ovidiana di am. 1, 1, 5.26 Nel pentametro 46 (52 Franzoi) fa la sua comparsa il re del l’Olimpo, a cui ora il poeta si paragona per giustificare la sua sconfitta (definita con il materiale più topico e arcisfruttato, con le metafore della ferita e della fiamma d’amore): il nesso Iuppiter ipse è attestato già in Lucil. V 218 Mariotti, in Catull. 64, 26, in Aen. 9, 128, nell’Appendix e nelle Metamorfosi sempre in clausola
22 Il raro epiteto stupefactus sembra riservato solo a testi epici e tragici, da Virgilio in poi (oltre all’epillio di Aristeo). 23 Alcuni studiosi vedono nell’accentuazione della perfidia greca una traccia della ellenofobia anti-bizantina presente negli ambienti italici e alla corte di Teo dorico: Mauger-Plichon 1999, 373 ss.; Mastandrea 2003-2004, 334. 24 Cfr. Franzoi ad loc. 25 Per es. Hor. carm. 1, 19, 1 e 4, 1, 5 mater saeva Cupidinum. 26 Cfr. Thes. Onom. II s.v. Cupido, 747, 54 ss.: la iunctura, già in Repos. 176, è anche in Carm.de aegr. Perd. (sulla cronologia rispetto a Massimiano cfr. Wasyl 2011, 141). Si veda Mc Keown ad am. 1, 1, 5.
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di esametro,27 mentre si presenta nella stessa sede metrica del pentametro massimianeo non solo nell’Ovidio elegiaco, ma ben tre volte in Properzio (2, 7, 4; 2, 26c, 42; 4, 6, 14): un nuovo caso di cellula metrica trasmigrata dall’elegia augustea al nostro poeta, con la funzione di legittimare e nobilitare la sua resa all’amore, avvicinandosi almeno in questo caso ad una tipologia di discorso non infrequente nell’elegia properziana. Segue nell’elegia la defaillance sessuale di Massimiano, che scatena la reazione della Graia puella, prima occupata in vani tentativi di ‘rianimazione’, poi, dal v. 87 al 104, impegnata nel celebre inno alla mentula, che mutua stilemi e lessico dal linguaggio precatorio, a cominciare dal Du-Stil; 28 un breve scambio di battute con il poeta fa erompere la collera della donna, che, dopo aver affermato enigmaticamente e sentenziosamente non fleo privatum sed generale chaos (v. 110),29 si lancia nella laus mentulae, che si estende fino al v. 152, un distico prima della conclusione dell’elegia. In questa aretalogia, scandita dai mezzi retorici consueti, compare ai vv. 141-144, marcato dall’ennesima anafora del pronome di seconda persona, un nuovo passo di contenuto mitologico Tu mihi saepe feri commendas corda tyranni, sanguineus per te Mars quoque mitis erit. Tu post exstinctos debellatosque Gigantes excutis irato tela trisulca Iovi
in cui il sanguineus Mars e l’iratus Iuppiter cedono al potere cosmico dell’eros: convenzionali (ma non properziani) sono gli epiteti delle due divinità e i tela trisulca.30 Appare invece inedito 27 Cfr. Mastandrea 1995 ad loc.: Aen. 12, 725 in incipit, 7, 110 …Iuppiter ipse monebat. Stranamente sfuggono a Franzoi le occorrenze properziane. 28 Contributi dedicati specificamente al l’inno della Graia puella, interpretato in chiave parodica, sono in Kleinknecht 1937=1967, 195 ss., Ramirez de Verger 1984, 50 ss.; contrario a questa chiave di lettura è Fo 1987, 350 ss.; cfr. anche Wasyl 2011, 152 ss. 29 Cfr. Franzoi ad loc. per i rapporti con Lucrezio e Ovidio. 30 L’ipotesto più determinante appare una volta di più Ov. am. 2, 5, 51-52 (cfr. Mc Keown ad loc.) dove erano i baci della puella ad avere la capacità di disarmare le folgori del dio: dalla stanza da letto di Ovidio si passa ad una prospettiva cosmica… Sulle occorrenze poetiche del nesso allitterante tela trisulca si veda Bömer ad met. 2, 848-849.
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il collegamento tra gli amori di Giove e la Gigantomachia,31 un tema peraltro favorito dai poeti augustei, sia come oggetto di recusationes (come in Prop. 2, 1, 19-20 e Hor. carm. 2, 12, 6-9), sia come narrazione assunta ad emblema della poesia epica (come in Hor. carm. 3, 4). Ma non mancavano a Massimiano modelli più recenti, come la Gigantomachia scritta in greco da Claudiano (e quella incompiuta in latino).32 La menzione della mitica lotta tra dei e giganti esalta qui il potere universale dell’eros che disinnesca perfino la collera del dio reduce dall’epico scontro: la battaglia è descritta nell’esametro 143 con un hysteron proteron, post exstinctos debellatosque Gigantes, che non ha mancato di suscitare le critiche dei commentatori: 33 una volta di più Massimiano, nel suo riuso del materiale mitico, sembra attento a creare effetti retorici e ad istituire parallelismi di situazioni, più che a rispettare la cronologia e la logica.34 L’unico altro passo che presenta un addensarsi di rimandi alla mitologia si trova nella prima elegia, ai vv. 185-190, e di nuovo, come nel caso delle scene omeriche di 5, 19 e 5, 41 s., la capacità inventiva del poeta sembra essere stimolata quando il paragone coinvolge la sua persona e le sue esperienze.35 Q uid mihi divitiae, quarum si dempseris usum, quamvis largus opum, semper egenus ero? Immo etiam poena est partis incumbere rebus, quas cum possideas est violare nefas. Non aliter sitiens vicinas Tantalus undas captat et appositis abstinet ora cibis. Efficior custos rerum magis ipse mearum conservans aliis, quae periere mihi; sicut in auricomis dependens plurimus hortis pervigil observat non sua poma draco. L’osservazione è di Spaltenstein ad loc. Cfr. l’edizione di M.L. Ricci 2001. 33 V. Franzoi ad loc. 34 Sull’iconografia della lotta tra dei e giganti e in particolare sulle folgori a tre punte come armi di Giove cfr. LIMC IV 1, 245 ss.; ibidem 193 ss. 35 Non ci soffermiamo su 1, 43-44, cessit et ipse pater Bacchus stupuitque bibentem / et, qui cuncta solet vincere, victus abit, in cui l’apparizione a sorpresa del dio del vino aumente l’auto-referenzialità della poesia massimianea, concentrata solo sulla persona del poeta: qui si scomoda la divinità per confermare la resistenza all’alcol dell’autore! 31 32
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Q ui due distici introducono il tema delle ricchezze che il vecchio possiede senza poterle utilizzare.36 Alla riflessione si collega, introdotto dalla litote non aliter al v. 185, l’exemplum mitologico con il supplizio di Tantalo, a cui segue, dopo due versi di raccordo, una inedita similitudine (sicut…) che presta una psicologia al drago custode del giardino delle Esperidi. Q uesto Tantalo di Massimiano, che captat undas, in una azione eternamente incompiuta (conativa per Spaltenstein) espressa del verbo frequentativo, si comporta in modo conforme alla tradizione e alle fonti letterarie e iconografiche; 37 in Properzio l’exemplum della sua sete insaziata viene messo in relazione con le sofferenze dell’amante nel II libro (2,1, 65-66; 2, 17, 5-6),38 ed elencato tra i supplizi dei dannati infernali in 4, 11, 24. Q uesta collocazione topica nell’Ade, fra i poeti latini, aveva illustri precedenti in Lucr. 3, 980-81 (limitato alla pena del sasso, e in funzione allegorica delle paure e delle pene degli uomini già prima della morte), e nell’Averno virgiliano (Aen. 6, 601, un passo altamente problematico); 39 più convenzionale, e senza valore esemplare, la presenza di Tantalo assetato fra i dannati in Tib. 1, 3, 77-78, ma una o più punizioni dell’eroe e in particolare la sete sono temi prediletti dai poeti da Omero in poi.40 Massimiano, come sempre, strumentalizza il mito secondo i suoi fini, e ne fa, in modo inedito, un simbolo della frustrazione che tormenta il vecchio di fronte alle divitiae inutilizzate; in questa scelta si conforma alla tradizione mitologica che sottolineava la ricchezza del re di Frigia, ma mescola inaspettatamente le carte nel pentametro, in cui Tantalo abstinet ora cibis, atteggiamento che presuppone una volontarietà nell’astinenza, 36 Tema non nuovo, per esempio cfr. Hor. epist. 1, 5, 12; carm. 3, 14, 21 ss.: v. Spaltenstein ad 1, 181; Franzoi ad 1,181-184. 37 Per le fonti del mito cfr. Martina s.v. Tantalo in EV V, 32-34; LIMC VII 1, 839 ss.; tre erano le pene infernali, il masso incombente, la sete, la fame, descritte in un famoso dipinto di Polignoto, ma le riprese letterarie spesso ne menzionano solo una o due, con preferenza per la sete ; anche l’iconografia, più comune in ambiente romano rispetto alla Grecia, predilige la rappresentazione del dannato immerso nell’acqua, a volte sovrastato da un albero ricco di frutti irraggiungibili. 38 Cfr. il commento di Fedeli ai due passi. 39 Su cui si vedano Norden 1927, ad loc., e Martina s.v. Tantalo, EV V, 32-34. 40 Una lista parziale in Roscher V 79 ss. , in Smith ad Tib. 1, 3, 77-78, e in LIMC VII 1, 859 ss.
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del tutto fuori luogo per un dannato alla pena infernale: Spaltenstein è l’unico commentatore a porsi il problema, e parlando di «surenchére» dell’immagine suggerisce che in questo modo si stabilirebbe una più compiuta analogia fra Tantalo e l’avaro che di proposito si priva dei suoi beni: Massimiano insomma altererebbe un’altra volta i dati del mito per finalizzare l’exemplum al suo scopo.41 La struttura comparativa del discorso prosegue nel distico successivo, 187-88, in cui è protagonista l’autore stesso, che si presenta con efficior…ipse, ricorrendo alla stessa forma passiva del verbo che aveva introdotto in 5, 20 la sua identificazione con Ulisse (efficior demens alter Ulixes ego) e, pochi versi prima (5, 14 efficior potius tunc miserandus ego) aveva descritto il rovesciamento per il quale colui che commiserava la puella era diventato a sua volta degno di compassione: la diatesi passiva sembra sottolineare il fatto che il poeta è vittima impotente di reazioni psicologiche che non riesce a controllare.42 Infine la similitudine mitologica paragona Massimiano al serpente che, nel giardino delle Esperidi, sorveglia le mele d’oro. Q ui l’immedesimazione del poeta con il mitico mostro presta all’animale un inedito stupore nel contemplare non sua poma, come il vecchio avaro che custodisce ricchezze che non gli appartengono più perché inutilizzabili.43 Il passo è poi caratterizzato da scelte lessicali ricercate: il serpente è pervigil e condivide il raro epiteto con un altro dei custodes fabulosi,44 il drago posto a guardia del Vello d’Oro: su questa agget Spaltenstein ad 1, 186 (1546). A meno che non si veda a monte del l’atteggiamento di Tantalo un’eco di passi come la catabasi descritta da Boeth. cons. 3, 12, 36-37, dove al canto di Orfeo …longa site perditus / spernit flumina Tantalus. 42 Sul l’atteggiamento passivo di Massimiano si vedano le osservazioni di Wedeck 1952, 493 e di Fo 1986-87, n. 56. 43 La iunctura non sua poma proviene dalle Georgiche 2, 82, dove era riferita alla meraviglia dell’albero di fronte ai frutti dell’innesto: la personificazione passa dal mondo vegetale a quello fantastico del mito; cfr. Franzoi ad loc. e Wasyl 2011, 131 s. 44 Thes. X 1, 1872, 62 ss. Anche in Properzio il nostro serpente faceva una breve comparsa, là dove in 2, 24 c, 26 il poeta elenca le fatiche di Ercole che il rivale dovrebbe affrontare: et tibi ab Hesperio mala dracone ferat, ma certamente non costituisce il modello di Massimiano, così come non sembra l’ipotesto dominante nemmeno Ovidio, che in met. 4, 621-662 – cfr. Bömer ad loc. – nel giardino delle Esperidi non ambienta l’arrivo di Ercole che uccide il drago, ma introduce Perseo che con l’Egida trasforma Atlante in monte: non mancano né 41
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tivazione sembrano influire soprattutto Virgilio e l’esegesi virgiliana antica, perché ad Aen. 4, 484 e 486 sacerdos / Hesperidum templi custos, epulasque draconi / quae dabat… Servio per due volte parla di un pervigil draco, (ma ricordiamo anche Sen. Herc.f. 531532 cum somno dederit pervigiles genas / pomis divitibus praepositus draco).45 D’altra parte l’insonnia cronica che caratterizza il favoloso animale è una caratteristica comune anche ad un personaggio elegiaco, l’exclusus amator che veglia alla porta della donna cantando il suo paraklausithyron; quindi non meraviglia ritrovare in Massimiano 5, 9 pervigil riferito alla Graia puella, che nel già ricordato rovesciamento dei ruoli canta una serenata notturna sotto la finestra del poeta; e il verbo pervigilare descrive proprio l’atteggiamento del komastés in Prop. 1, 16, 40; ma anche questa volta non manca la ripresa ovidiana di am. 1, 9, 7.46 Tornando al draco, l’epiteto plurimus è variamente spiegato dai commentatori: per Schetter alluderebbe alla mostruosa lunghezza del serpente, per Spaltenstein alla presenza di più teste, spiegazione che non coglie nel segno perché nell’iconografia di età romana il draco ha sempre una testa sola; 47 quanto a dependens, è da scartare la congettura banalizzante di Baehrens se tendens, così come la proposta di Schetter, che vuole accogliere pendentia dai recentiores, motivando la scelta con il fatto che l’iconografia più diffusa mostrerebbe il serpente che sale verso la cima dell’albero.48 le mele d’oro né il drago, ma solo come accessori della scena; peraltro pervigil nel l’idioletto ovidiano è spesso attribuito al drago della Colchide: cfr. Spaltenstein ad Max. 1, 190. 45 Il nesso verrà poi ripreso da Ennodio e da Isidoro. Cfr. la ricchissima nota di Pease ad Aen. 4, 484 e ss. Altri draghi della mitologia sono invece immersi nel sopore, come il Fafner wagneriano (proveniente dalla mitologia nordica) che sarà risvegliato da Siegfried. 46 Cfr. il commento di Mc Keown ad am.1, 6, 44. 47 Cfr. Schetter 1970, 75; Spaltenstein ad loc.; LIMC VI 1, 179. 48 Per la verità le testimonianze iconografiche di ambito romano mostrano il serpente arrotolato sull’albero ma non appiccicato, con il muso che sporge: si veda spec. LIMC VI 2, 83, figura I 19 (coppa di età augustea), e I 20 (affresco del IV d.C.), illustrati ibidem in VI 1, 178. Ricordiamo le analoghe raffigurazioni del serpente nel biblico Giardino dell’Eden. Dal punto di vista lessicale, dependeo – Thes. V 1, 567 ss. – è di uso rarissimo de personis: il Thes. in effetti registra solo un passo accostabile al nostro, Claud. rapt Pros.. 3, 339-340 Gigantum/ tergora dependent, come spoglie appese ad un albero nel bosco sacro dell’Etna.
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In realtà poma pendentia sarebbe di una piattezza unica, mentre il serpente che si sporge dall’alto di un ramo, magari dondolando minaccioso, aggiunge visività e movimento alla scena, in cui un tocco di colore e di preziosità è dato dall’epiteto auricomis (hortis) che riprende il rarissimo composto virgiliano, usato per il ramo d’oro in Aen. 6, 141; 49 e poco importa che a rigor di logica l’oro sia dei frutti e non degli horti. Volendo trarre le conclusioni in base ai testi discussi, il ricorso agli exempla o comunque alla mitologia appare estremamente limitato ma non assente nel corpus di Massimiano, e si concentra in alcuni passi con una funzione non conativa e dinamica, di ammaestramento ai lettori, ma in forma negativa, di comparazione statica fra situazioni e atteggiamenti dell’autore e figure mitiche; parlare di antimodello non è appropriato in quanto è assente l’atteggiamento erotodidascalico del poeta, a differenza dei suoi predecessori, gli elegiaci augustei, Properzio in particolare. Certo la ripresa dei temi mitologici non è il punto di forza della poesia di Massimiano, che trova gli accenti più incisivi e riusciti nell’impietosa descrizione della senectus, dipinta con tratti di realismo e di espressionismo ai quali si potrebbe accostare la rappresentazione della lena Acanthis in Prop. 4, 5: ma non è legittimo istituire un rapporto bi-univoco fra i due poeti, perché appare ben più determinante l’intertestualità con gli Epodi oraziani, con certi macabri episodi delle Metamorfosi 50 o con lo spietato quadro della vecchiaia nella X satira di Giovenale.51 Nella pluralità di ipotesti classici, imperiali e anche tardo-antichi, quasi mai è privilegiato il modello properziano, e spesso, là dove è riconoscibile, è obliterato dall’intermediazione dell’auctor per eccellenza di Massimiano, cioè Ovidio. E comunque il poeta «parla una lingua morta» 52 senza più condividere l’ideologia degli elegiaci augustei: né l’otium, che 49 Modellato sui composti greci in –κομος (κρυσόκομος), per il quale Norden 1927 ad loc. ipotizza una derivazione dalla lexis tragica di Ennio o comunque di un arcaico; sarà poi ripreso solo dagli epici di età imperiale (Valerio Flacco e Silio per chiome e simili, e da Macr. Sat. 5, 14, 8 per rami): cfr. Thes. II 1494, 17 ss. 50 V. Pinotti 1995, II 162 ss. per gli episodi di Esone e Pelia nella storia di Medea. 51 V. Cuccioli-Giardina 1995, II 43 ss. per Iuv. 10, 188-288. 52 Pinotti 1989, 195.
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rifiuta impegnandosi nel Foro e nell’ambasceria in Oriente, né il servitium amoris, al quale sostituisce la mancanza di iniziativa nei confronti di Aquilina e di Candida, o addirittura la passività di fronte all’intraprendenza della Graia puella, né la missione del poeta erotodidaskalos, da lui trasformata in un ripiegamento su se stesso e le proprie disgrazie Ne risulta un’elegia snaturata, stravolta in chiave senile. E se, giunti alla fine della lettura del corpus di Massimiano, rileggiamo il distico di 1, 5-6, da cui eravamo partiti, saremmo tentati di concludere che la voce narrante in quei versi non è solo quella del poeta, ma la voce della poesia elegiaca, che non è più ciò che era: restano solo languor et horror e colei che parla è sopravvissuta a se stessa.
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Abstracts Il corpus delle elegie di Massimiano riprende e rielabora la tradizione elegiaca augustea. Tuttavia l’auctor per eccellenza di Max. è Ovidio e non Properzio: i loci similes properziani segnalati dai commentatori sono numericamente esigui a confronto con quelli ovidiani, e comunque passano spesso attraverso le riprese di Ovidio. Solo raramente l’ipotesto properziano ha ricadute più significative, per es. nella rappresentazione delle doti artistiche di Candida e della Graia puella in Max. 4 e 5, mutuate da quelle di Cinzia. Inoltre il ricorso al mito (limitato ma non assente in Max., benché trascurato dai critici) perde la funzione conativa e protrettica che assumeva nei praeceptores amoris Properzio e Ovidio. Gli exempla mitologici si concentrano nell’elegia 5, 39-46 e 141-144, e nell’elegia 1, 185-190: il poeta riusa il materiale mitico senza curarsi di cronolo332
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gia e verosimiglianza, al solo scopo di creare parallelismi con la propria condizione infelice e di costruire effetti retorici. La ripresa della mitologia non è uno dei punti di forza di Max., che trova gli accenti migliori nel realismo espressionistico con il quale ritrae la senectus. The elegiac corpus of Maximianus is deeply rooted in the great Augustan models, but his auctor par excellence is Ovid, not Propertius: most of the few loci similes between Prop. and Max. pointed out in the commentaries look to be borrowed through Ovid. The propertian hypotext is only seldom more meaningful, for ex. in the picture of the artistic skills owned by Candida and the Graia puella (elegy 4 and 5), inspired by Cynthia’s portrait. Moreover, the use of mythological similes (restricted but not absent, though disregarded by scholars) loses in Max. the protreptic aim which was a trademark of the praeceptores amoris Prop. and Ovid. The mythological exempla gather in elegy 5 (39-46; 141-144) and 1 (185-190), where the poet rewrites myths without taking care of chronology and likeliness; his only purpose is drawing parallels with his unhappy condition and creating rhetorical devices. Rewriting of myth is not the best outcome in Max., who is more successful in the expressionistic picture of the senectus.
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APOLLINEO E DIONISIACO NEL VIAGGIO FINALE DI PROPERZIO “Se la mia selezione appare più essenziale, è perché questi scrittori rappresentano lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo” Harold Bloom The Daemon Knows (2016)
Diversi, eppur funzionali ad un unico principio Esaminando la varia carriera e destino degli ‘eroi culturali’ della mitologia greca, che hanno percorso in lungo e in largo il mondo per affermare i propri diritti, liberare l’umanità dai mostri che la affliggevano e ascendere al ruolo di dei, possiamo riconoscere in Dioniso una figura compiutamente realizzata, ma atipica. K. Kerényi, a cui dobbiamo un memorabile Dioniso,1 lo definisce nel titolo ‘archetipo della vita indistruttibile’, Urbild des unzerstörbaren Lebens, per il carattere contraddittorio della sua natura che sente la vita (ζωή) nel momento critico del suo traboccare, quando il godimento si connette con la distruzione e la morte. Dio dell’estasi e del terrore, della ferocia e della liberazione, Dioniso rappresenta la follia trasgressiva dell’umanità, e in particolare della donna, che sotto gli effetti del vino e della danza sfrenata costituisce il secondo indispensabile elemento del dramma. Q uesto quadro è stato convalidato dai grandi pensatori ispirati dal dionisismo tra la fine del XIX e il XX secolo (J.J. Bachofen; F. Nietzsche; W.F. Otto; E. Rohde), depurandosi delle scorie delle varie ideologie attraversate, per giungere fino a noi che possiamo stilare l’inventario delle acquisizioni conseguite: le tavolette di Pilo in scrittura lineare B con il nome del dio (PY Xa 102) attestano che non era giunto dal Nord, la Tracia, come si era supposto, ma dal culto del Toro cretese, al centro del Mediterraneo, 1 Mi sono avvalso della versione italiana dell’edizione a cura di M. Kerényi, Milano 1992, Adelphi.
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e soprattutto non come espressione avventizia, ma come prodotto omologato della civiltà micenea. L’idea del carattere ‘dirom pente’ del dionisismo non dipende quindi da una successione di tempi e cronologie, perché allora sarebbe da intendersi piuttosto come ‘irrompente’, quasi un barbaro giunto sulla scena, ma come l’espressione del potere ‘trasgressivo’ del dio pronto a soggiogare alla sua legge esseri umani, generi e ceti sociali, popoli e divinità, in particolare a Delfi, sede per lui antichissima, dove era del pari venerato con il dio luminoso dell’equilibrio e della razionalità, quell’Apollo celebrato dal Winckelmann nella statua del Belvedere come quintessenza dell’armonia e che un esegeta contemporaneo definisce come «la crudeltà del bello».2 Q ui, dove l’ombelico in pietra, l’omphalos di Delfi, indica il collegamento tra il mondo terrestre e quello sotterraneo e dove la narcosi delle esalazioni 3 è stata considerata la causa che riesce a realizzare la sintesi degli ossimori risuonano rispettivamente i nomi di Peana e Ditirambo per invocare le due divinità. Sul rapporto che intercorre tra il peana di Apollo e il ditirambo di Dioniso Plutarco parla apertamente perché la «differenza di sonorità tra i due periodi dell’anno doveva attirare l’attenzione di tutti».4 Così riferisce in De E apud Delphos a 388e-389c sotto forma di conversazione che ebbe luogo nel 67 d.C. tra Ammonio e altri sapienti, in occasione della visita di Nerone in Grecia, che: «Cantano a Dioniso i ditirambi, canti colmi di passione e frenetici di contorcimenti (παθῶν μεστὰ καὶ μεταβολῆς πλάνην τινὰ καὶ διαφόρησιν ἐχούσης), che esprimono il vagabondaggio e lo sviamento. Ond’è che Eschilo dice μιξοβόαν πρέπει διθύραμβον ὁμαρτεῖν σύγκωμον Διονύσῳ. Ad Apollo, invece, è dedicato il peana, musica ordinata e sapiente (τεταγμένην καὶ σώφρονα μοῦσαν). Mentre Apollo è rappresentato, in pitture e sculture, immune da vecchiezza ed eternamente giovane, Dioniso, invece, si presenta in molteplici aspetti e forme. Insomma, Apollo è considerato uguale, ordinato, attento, puro; Dioniso, per contro, disuguale e irregolare con una punta di scherzo, d’insolenza, di serietà e di follia, è invo Ieranò 2011, 109. Per una valutazione del problema fisico attinente le esalazioni cfr. Scott 2015, 18 ss. 4 Kerényi 1992, 206. 2
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cato: εὔιον ὀρσιγύναικα μαινομέναις Διόνυσον ἀνθέοντα τιμαῖς. Così è colto l’elemento caratteristico e proprio dell’una e dell’altra trasformazione dell’unico dio. La durata dei periodi di tali trasformazioni non è uguale: ma la durata di quel che chiamano abbondanza (κόρον) è maggiore; la durata della sterilità (χρησμοσύνης) è minore. Perciò qui si serba tale rapporto per cui cantano ai sacrifici il peana nella maggior parte dell’anno; ma, al cominciare dell’inverno, svegliano il ditirambo e fanno tacere il peana per tre mesi e invocano Dioniso in luogo di Apollo».5 Dal punto di vista filosofico Plutarco è convinto dell’unicità del dio che dà i responsi, anche se riceve vari onomastici (389a), mentre dal punto di vista mitico l’intervento di Dioniso si giustifica con l’assenza di Apollo partito per le terre degli Iperborei,6 nei mesi invernali. È allora che Dioniso prende il suo posto e sveglia il ditirambo, ma probabilmente il cambio allude a un diverso computo dei cicli praticato dalle poleis. Della presenza di due stili constrastanti siamo informati da un frammento dello storico Filocoro agli inizi del IV secolo: non sempre, al momento delle libazione, si intonava un ditirambo, ma solo quando si invocava Dioniso, cioè in occasione dell’ubriachezza (ἐν οἴνῳ καὶ μέθῃ), mentre per Apollo il rituale era calmo e ordinato (μεθ ’ἡσυχίας καὶ τάξεως).7
Nietzsche e Bacchilide L’opposizione tra l’apollineo e il dionisiaco, così come venne nettamente intesa in epoca moderna nella storia della cultura artistica e letteraria, è quindi figlia del XVIII secolo con Winckelmann e gli enciclopedisti per essere poi rimeditata da Friedrich Schelling e i fratelli Friedrich e August Schlegel fino a divenire la chiave di volta del sistema interpretativo della tragedia greca in Nietzsche che scrisse nel 1870 Die dionysische Weltanschauung, La traduzione che ho seguito è quella di V. Cilento, Firenze 1962. Popolazione mitica collocata nel Nord e prediletta da Apollo, che conosceva la strada per raggiungerla nel periodo invernale: Pind. Pyth. 10, 49-56. Q uesto secondo la tradizione delfica, mentre secondo un’altra tradizione Apollo soggiornava presso quel popolo ogni diciannove anni, cfr. Angeli Bernardini 19982, 630. Per una storicizzazione del mito cfr. Bridgman 2005. 7 FrGHist. 328 fr. 172. 5
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rimasto postumo e due anni dopo nel 1872 pubblicò il più noto Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik. La tesi del libro muove da due archetipi della natura umana, l’idea di luminosità e di equilibrio da un lato e di oscurità e di sfrenatezza dall’altro, e la relativa traduzione in forma di sistemi musicali. Nietzsche li considerava un paradigma oppositivo tramite il quale si articola il sublime tragico e comico in opposizione ai generi dichiaratamente assoggettati al dominio di Apollo, quali vengono considerati l’epica e la lirica nella letteratura e la scultura nell’arte. Q uesta teoria subì la stroncatura di Wilamowitz in una nota polemica contro Rohde e la stessa affinità con la tetralogia di Richard Wagner L’anello del Nibelungo (1848-1874), ritenuto essere riuscito a fondere insieme il mito germanico con la musica greca, sarà successivamente smentita da Nietzsche che la considerò espressione di musica decadente, e tuttavia i testi musicali scritti da lui stesso risultano non rappresentabili.8 Attualmente tuttavia la tesi nicciana gode di una sorta di revival negli ambiti statunitense e britannico (che risentono anche dell’influenza di Walter Pater 9) soprattutto per quanto riguarda la confluenza dell’apollineo col dionisiaco nell’opera di Virgilio. Così Fiachra Mac Góráin intende dimostrare come il «ApolloDionysus paradigm» vada considerato «a useful heuristic tool in reading Virgil» proprio per la «particular relationship» 10 che il poeta mantovano istituisce tra questi ed evidenzia in generale come il mondo greco soprattutto, ma anche quello romano, abbiano contribuito alla percezione retorica e filosofica di questo rapporto che sembra procedere «from a blend of strong or weak contrast and complementarity to close alignment». Cucchiarelli nel commento alle Egloghe ha posto in evidenza come in questa opera, composta nel periodo triumvirale, vale a dire alla fine degli anni 40, il primo posto spetti proprio a Apollo e Dioniso accomunati nel ruolo che li celebra come divinità da cui ha preso forma Scappini 2011, 37. Mac Góráin 2012/13, 193-194 che ricorda come Pater abbia pubblicato qualche anno dopo i due saggi di Nietzsche A Study of Dionysus: the Spiritual Form of Fire and Dew, «quite indipendently» dal filosofo tedesco. Ma la IslerKerényi 2001, 235 osserva che la polarità tra apollineo e dionisiaco era nell’aria nella mitologia naturalistica del XIX secolo. 10 Mac Góráin 2012/13, 191. 8
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l’eidos bucolico,11 come già era in Teocrito, ma con l’aggiunta amplificata del riconoscimento del ruolo di Cesare che per primo avrebbe introdotto i riti di Bacco a Roma, così come dice Servio.12 Se infatti valutiamo le egloghe centrali, dalla quarta alla settima, ci imbattiamo in numerose indicazioni di oggetti di culto e simboli, che non si sa se attribuire ad Apollo o a Dioniso. Anche nella composizione dell’Eneide si dovrà fare i conti con il diverso e ‘sublime’ stile dell’epos, che sa usare sia il modo ‘ingenuo’ di Omero, la cui cifra costante è l’apollineo, sia quello ‘sentimentale’ e ‘patetico’ presente in due grandi scene dionisiache, quali sono quella di Didone abbandonata e di Amata delusa per le quali occorre chiamare la mediazione della tragedia, in particolare la Medea e le Baccanti di Euripide. Anche Properzio si era posto il problema su come si potesse adeguare l’elegia ad un tipo di poesia non solo erotica, ma di più elevati traguardi; nel suo caso aveva a disposizione la lirica greca della fine del VI e degli inizi del V secolo (Stesicoro, Pindaro, Bacchilide, Simonide) che può essere considerata un elemento di congiunzione tra i generi tramite la trascrizione del discorso narrativo epico in una performance che include musica, danza e verso lirico. Il XVII ditirambo di Bacchilide della raccolta scoperta nel l’Ottocento risulta particolarmente importante ai fini di questa indagine perché il poeta di Ceo, servendosi della flessibilità e della circolarità del genere, ha voluto celebrare un evento politico del massimo rilievo quale fu il sorgere della potenza marittima ateniese dopo Salamina in concomitanza con la lega delio-attica del 478/477. In questo ditirambo Properzio potrebbe aver trovato lo stimolo per glorificare del pari il dominio sui mari di Augusto nato anche esso con la vittoria di Azio sulla flotta egiziana di Cleopatra e Antonio. Il fatto mitico è presto detto: Minosse durante il ritorno dal viaggio da Atene a Creta, intrapreso per esigere i giovani ostaggi da offrire in sacrificio al Minotauro, sfiora con la mano impaziente per i doni di Cipride il volto di Eribea, che prorompe in Cucchiarelli 2012, 281-282. Serv. ad. Ecl. 5,29: hoc aperte ad Caesarem pertinet, quem constat primum sacra Liberi patris transtulisse Romam. 11
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una invocazione al re della sua patria. Il fatto suscita l’indignazione di Teseo anche lui presente sulla nave, che accusa il re di non governare più secondo giustizia l’ardore del suo animo e gli intima ἴσχε μεγάλαυχον ἥρως βίαν. La tracotanza del gesto di Minosse nasce dalla consapevolezza di essere figlio di Zeus, ma Teseo che gli rinnova l’invito a comportarsi con il dovuto controllo (σὺ δὲ βαρεῖαν κάτεχε μῆτιν) gli ricorda la propria origine da Poseidone. La competizione tra i due ha quindi avuto inizio, ma quando il sovrano cretese getta in mare l’anello come segno della superiorità che convalida il suo potere, Teseo si tuffa per riprenderlo. I delfini lo accompagnano alla reggia paterna – vv. 97-100 φέρον δὲ δελφῖνες ἐν ἁλιναιέται μέγαν θοῶς Θησέα πατρὸς ἱππίου δόμον – dove riceve le congratulazioni di Anfitrite e dalla quale ottiene in dono un grembiule di porpora e una ghirlanda con cui attesta la sconfitta di Minosse e il suo dominio sul mare.13 Il passaggio della talassocrazia ad Atene ha ricevuto la conferma divina. Nel contesto di questo racconto è possibile cogliere alcuni motivi che si riferiscono all’attività di Apollo, come l’impiego della voce παιάνιξαν che viene a concludere la parte narrativa del poema con la citazione del canto che gli è proprio e la contigua invocazione Δάλιε, ma soprattutto emerge il ricordo delle «epiphanic births» di Artemide e Apollo accompagnate dal grido di gioia degli dei dell’Olimpo (v. 127 ὠλόλυξαν); altri tratti, tuttavia, del racconto appaiono «distinctively Dionysiac»: 14 in dettaglio è notissimo tutto il contesto marino con il tuffo con il suo complesso valore antropologico. Non c’è motivo per contestare l’appartenenza per gli Alessandrini del carme ai Ditirambi. La scorta amichevole dei delfini presenti nel settimo inno omerico dove Dioniso, catturato dai pirati tirreni, si libera miracolosamente dai lacci e trasforma in delfini i suoi persecutori è connessa con la mito-storia del salvataggio di Arione narrata da Erodoto (1,23-24), alla quale anche Properzio accennerà in due occasioni. Inoltre la presenza delle Nereidi e di altre più sottili allusioni ci inducono a pensare che nel delineare l’eroico exploit di Teseo 13 Si è notato da parte di alcuni che nel testo non si fa più alcun accenno all’anello, ma il suo recupero sarebbe stato una antiklimax rispetto ai doni divini che fanno di Teseo un uomo nuovo, cfr. Giuseppetti 2015, 86 e n. 68. 14 Fearn 2013, 147.
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Bacchilide possa aver valorizzato le imprese di Dioniso. «I will suggest that the song’s complementary use of both overtly Apolline (‘paianic’) and more subtle Dionysiac (dithyrambic’) features not only signals the poem’s flexible circular choral credentials, but also in fact underwrites the force of the imperial narrative that the poem drives along».15
Emulazione e rivalità nella poesia elegiaca di Properzio C’è da chiedersi se un testo come questo qui esaminato, ed altri di simile fattura, a noi purtroppo ignoti, possano essere stati di stimolo a giustificare la mutazione di argomento e di stile delle elegie del quarto libro composte da Properzio nel periodo della sua maturità. La solenne gravità della scena sulla tolda del l’imbarcazione cretese calza a pennello con la fulminea decisione di Febo di fermarsi a protezione di Augusto in forma di triplice fiamma “si fermò sulla nave di Augusto e risplendette qual fiamma improvvisa, tre volte piegata in guisa d’obliqua saetta” (astitit Augusti puppim super, et nova flamma / luxit in obliquam ter sinuata facem: 4,6,29-30). Per Properzio si è trattato di un evento che riprende la scena dell’Eneide, dove appare in primo piano Augusto, ma allo stesso tempo le conferisce “caratteri di novità nei confronti del modello”.16 Vedremo adesso se nell’ambiente culturale del momento si imponeva l’ineluttabilità di tale passaggio. Nel periodo tra la fine anni 20 e il 16 a.C., durante il quale sappiamo essere state composte le elegie del IV libro, la situazione appare radicalmente modificata tanto dal punto di vista politico che culturale rispetto a quella dell’inizio del decennio, quando la battaglia di Azio del 31 con la sconfitta di Antonio aveva determinato la formazione del principato augusteo. La guerra aveva finito per transitare nella memoria collettiva dal presente al passato prossimo e poi essere sublimata in un passato leggendario e simbolico che aveva nella Roma attuale di oro e di marmo la sua Fearn 2013, 135. Fedeli nel commento all’elegia 2015, 846 mette in evidenza il carattere tanto straordinario quanto inatteso del fenomeno. 15
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tangibile attestazione. Il fatto che si fosse dissolto il prestigio di Mecenate coinvolto suo malgrado nella vicenda del fratello della moglie, la congiura di Murena, che fosse nel 19 morto Virgilio, il grande modello di poesia esametrica (bucolica, didascalica ed epica) e nello stesso anno fosse scomparso Tibullo, sola altra voce della elegia, aveva portato in primo piano, consolidata e accresciuta, la fama di Orazio,17 cui il princeps aveva affidato nel 17 il compito di celebrare i ludi saeculares con un’ode in strofe saffiche. L’inno composto in quella circostanza per un coro di adolescenti aveva proiettato Orazio, poco propenso alla poesia elegiaca e forse poco favorevole a Properzio umanamente, al di fuori del ristretto ambito del circolo culturale e del collegium poetarum per raggiungere la celebrità del vates al vertice della vita culturale dell’impero. Nessuno aveva mai conseguito un tale successo. Merito delle due divinità palatine – dirà Orazio nella 4,6 –, in particolare Apollo, che appare all’inizio del carme con la faccia del dio guerriero e poi come protettore della sua arte (v. 27 Dauniae defende decus Camenae). Nel rievocare la scena della sua istruzione musicale (vv. 35-36 Lesbium servate pedem meique / pollicis ictum) una giovane andata sposa (ma il singolare è collettivo) ricorda quel momento come avesse acquisito il profilo di eternità bastante a garantire il ‘sigillo’ della gloria poetica, vv. 41-44 ego dis amicum, / saeculo festas referente luces, / reddidi carmen docilis modorum / vatis Horati. E merito certamente di Augusto, al quale Orazio dedicherà un vero e proprio inno cletico nella 4,5, pur cercando anche qui la fusione 18 della propria identità con quella del popolo romano tramite la prima persona plurale. Nessun riscontro in questa ode a Dioniso, ma vengono citati altri eroi culturali come i Dioscuri e Ercole della cui valorizzazione esemplare non c’è da dubitare sicché possiamo supporre che l’immagine conclusiva dei vv. 38-40 integro / sicci mane die, dicimus uvidi, / cum sol Oceano subest alluda alla divisione della giornata tra l’apollinea solarità del lavoro e la bacchica ebbrezza del simposio notturno. 17 Il quadro storico e culturale è quello presupposto da Fedeli (intr.) 2015, 120-124. 18 Fedeli – Ciccarelli 2008, 293.
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La scelta di Orazio si era rivolta alla lirica (corale) tramite la tecnica del πινδαρίζειν che pur negata a 4,2 si nota tuttavia nel l’intero libro quarto. Essa è rappresentata dalla inusuale traiectio delle forme, dalla lunghezza dei periodi soprattutto nei riferimenti mitici e storici, dalla vistosità delle metafore e da altri fenomeni di straniamento; 19 nella 4,9 la celebrazione della sua poesia come immortale segue il confronto tra Omero da un lato come modello della poesia epica e i lirici, tra cui Pindaro e le Ceae … Camenae, sotto la cui denominazione può celarsi anche Bacchilide oltre a Simonide, perché entrambi erano nati nell’isola di Ceo. Forse cogliamo nell’ambiguità del luogo 20 per altro notissimo un impulso dispettoso e astioso nei confronti del poeta che, proclamandosi il Callimaco umbro, o addirittura romano, maneggiava situazioni più grandi di lui. Il fascino e l’enigma della situazione, come ha visto Paolo Fedeli, si colloca in questa peculiare contingenza di Orazio e Properzio che compongono entrambi un quarto libro di carmina o di elegi che rappresenta uno scarto rispetto alla poetica precedente e un accostamento sempre maggiore nei loro progetti ad Augusto. Nel proporsi di questa singolare gara non conosciamo purtroppo che approssimativamente e per indizi il tempo di scrittura dei testi singoli e delle pubblicazioni delle rispettive opere, ma, tenuto presente il breve periodo in cui queste si realizzarono, possiamo ritenere che l’influenza fosse reciproca. Spingersi oltre non è possibile tenuto conto della pluralità delle cause ignote che hanno determinato l’attuale condizione dell’ultimo liber di Properzio.
La caratteristiche di ‘originalità’ del quarto libro Una risposta di Properzio alla poetica del carmen saeculare era necessaria non fosse altro che per dissolvere «il ridicolo» 21 (v. 21 risus eram) con il quale il poeta aveva insistito ostinatamente a parlare della sua storia d’amore elegiaca dal momento in cui gli occhi di Cinzia lo avevano preso fino alla dissoluzione del legame Fedeli (intr.) 2008, 29-35 e n. 38. Fedeli – Ciccarelli 2008, 414. Va ricordato inoltre che in Bacch. 17 Ceo è citata come luogo di provenienza dei cori in onore del dio. 21 Fedeli (intr.) 2015, 65. 19
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a 3,24: nonostante la promessa di tornare libero facendo intervenire maghe, amici, viaggi e di porre un punto fermo e definitivo alle alterne vicende del servitium amoris, la cui conclusione era stata procrastinata di elegia in elegia fino alla fine del terzo libro. Lì termina definitivamente la sua carriera di praeceptor amoris; il suo amore è stato minato dalla caducità di tutto ciò che lo circonda e prende forma un progetto nuovo posto sotto il segno dell’appoggio congiunto di Apollo e Dioniso. Properzio si è chiuso nel silenzio a partire grosso modo dal l’anno 23, quando l’epicedio di Marcello a 3,18 è l’ultima elegia databile nel terzo libro. Con il nuovo stile di 4,1 intende ora giocare una carta di grande novità guardando al ditirambo e agli esempi di poesia drammatica: lo interessa il punto di vista formale come performance di due cori, ma anzitutto la capacità di esprimere in contrasto la voce del poeta e quella di un contradittore, come Horos. Alcuni studiosi contemporanei hanno osservato il carattere di «palimpsestic site» che ha assunto la rivisitazione del passato e lo hanno interpretato come uno spazio di «betweenness» che si frappone come «third» tra i canti del l’amore e quelli di guerra.22 Più semplicemente,23 mettendo in primo piano Properzio si può dire: lo scenario è divenuto un iter, un viaggio 24 narrativo che dal passato arriva al presente, e ad esso ritorna, con il lettore che dovrà passare per la porta della memoria per raggiungere quella ‘Hall of Fame’ dove si succedono gli esempi memorabili che hanno costellato la storia di Roma dalle origini fino al momento attuale. Parteciperà il lettore quindi alle celebrazioni di luoghi e di tempi vetusti secondo un progetto la cui idea risiede nella mente del poeta.25 Non ha rinunciato tuttavia Properzio al richiamo alla passata personale peripezia articolando il testo in due parti, con lui che si apre a questa nuova poetica ed Horos che lo riconduce paradossalmente al suo vecchio Debrohun 2003, 27-28. Ricordo che nell’articolo 1973, 45 definii «di mezzo» lo stile dei Fasti ovidiani. 24 Labate 2010, 158 e n. 1 ha notato come i luoghi dove avvennero gli eventi del libro quarto siano circoscritti al centro di Roma «che lo sguardo proemiale aveva panoramicamente abbracciato». 25 Si può immaginare come un passaggio dal Trionfo della Morte al Trionfo della Fama, come nota Hutchinson 2006, 12. 22
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destino di poeta elegiaco. Forse la poetica del ditirambo come esempio di costruzione ad anello può avere avuto un suo peso nella scelta del poeta umbro di ritornare alla fine della elegia sul motivo da cui aveva preso le distanze. Al tempo stesso il motivo di coner disponere moenia pio versu raffigura Properzio che si ferma qui e lì nel tentativo di mettere insieme “le tante Storie delle Mura di Roma”, analogamente a quanto aveva fatto la sorella di Gallo con le ossa del suo congiunto. Con questo gesto di pietas verso la storia di Roma e la ri-scrittura del suo personale destino, che non doveva essere sfuggito al condottiero del Bellum Perusinum, egli riusciva ad adeguarsi alle scelte della lirica greca del secolo V e a quelle della poetica eziologica di Callimaco, ai poeti bevitori di vino e a quelli bevitori d’acqua: in sintesi Properzio era riuscito a trovare un punto di vista nuovo con cui raffigurare il mondo a lui circostante e quello interiore.26 Q uello che distacca il quarto libro dai primi tre è la relativa semplicità con la quale Properzio trascende il suo temperamento possessivo per accedere ad un superiore umanesimo come nella elegia VII, quando Cinzia proclama il suo eterno diritto nei confronti dell’amato, mox sola tenebo, con cui si riscattano la passione e i dissidi di cinque anni. Si può così spiegare la facilità con la quale Ovidio ha potuto iniziare i suoi Fasti con il distico della proposizione: Tempora cum causis Latium digesta per annum / lapsaque sub terras ortaque signa canam accennando ai due temi dell’argomento, i tempi romani e le stelle di Arato, senza ulteriori giustificazioni. Properzio aveva spalancato la via per una poesia diversa con le ultime parole che pronucia a 4,1,69 sacra diesque canam et cognomina prisca locorum tanto che possiamo considerare l’invito del poeta di Sulmona alla lettura di questo genere di elegi una normalizzazione di un motivo di Properzio.27 Non sembra fossero motivi letterari, ma piuttosto politici la causa che indusse Properzio a mostrarsi prudente nell’evocare l’aiuto e la protezione di Dioniso. Guardiamo gli altri poeti del circolo. La scelta di Virgilio è costretta a tener conto delle vicissi Fedeli (intr.) 2015, 81. Chiara testimonianza di novità è la posticipazione del programma a metà elegia rispetto all’inizio immediato dei Fasti per Debrohun 2003, 33. 26
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tudini di quegli anni in cui tanto Ottaviano quanto Marco Antonio si erano prestati vicendevolmente a scelte di propaganda o di contro-propaganda incentrate sull’identità divina dei loro atti e su quanto era stato compiuto da Apollo e Dioniso in favore del popolo romano. Pur essendo tentati di immaginare un mondo binario in cui l’Apollo di Augusto sta agli antipodi del Dioniso di Marco Antonio è necessario procedere con cautela per il periodo degli anni fino ad Azio, quando il successo di Ottaviano era divenuto stabile e definitivo. Negli horti Caesaris sappiamo era stato eretto un santuario a Dioniso; dopo l’attentato del 44 Apollo era ritenuto favorire la parte dei Cesaricidi e della aristocrazia romana in base al criterio tradizionalista che vedeva invece Cesare e i suoi populares essere devoti al culto di Bacco e mirare all’introduzione di nuovi riti dionisiaci. Lo stesso si può dire per Antonio che entra in Efeso come nuovo Dioniso nel 41 ed intensifica la sua identificazione negli anni 39-37, mentre la propensione per il bere offrì ai suoi avversari un valido motivo per considerarlo un seguace del dio nella sua luce deteriore, tanto da spingerlo a comporre un pamphlet giustificativo De sua ebrietate. Tuttavia l’icona dell’ubriacone gli restò attaccata stabilmente: Plutarco ha scritto nella Vita di Antonio a 75 come Dioniso avesse lasciato al suo destino lo sconfitto e la ‘sua’ (di Antonio) Alessandria che aveva eletto a immagine del potere regale; un corteo rumoroso di satiri e baccanti attraversando la città la notte precedente la sua presa avrebbe rotto infatti la profonda quiete. La menzione di Plutarco della propaganda anti-antoniana resterà attiva fino al XX secolo nel suo involucro dionisiaco, quando Costantino Kavafis rivivrà come autenticamente sua 28 la scena in una delle sue più note poesie Il dio abbandona Antonio scandita dall’immagine ricorrente di Alessandria che dilegua (την, τὴν Ἀλεξάνδρεια ποὺ φεύγει col verbo in terza persona che nel finale è sostituito dalla seconda ποὺ χάνεις). Fu proprio allora, negli anni prossimi ad Azio, che Ottaviano contrappose il suo culto di Apollo alla «Dionysosverehrung und -imitation» del rivale. Un periodo di stasi era indispensabile, almeno se si vuol credere alla difficoltà di integrarsi nel circolo da parte del poeta umbro. Mentre Orazio era riuscito Keeley 1976, 77-78.
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nel tentativo di riportare Bacco tra gli eroi culturali nelle odi romane (3,3), a Dioniso Properzio riserva i ruoli di dio del vino, che talvolta sembra arrivare alla irruenza del komastes, come a 1,3 oppure ad una innocua e tutto sommato pacifica ebbrezza (2,15). Properzio risulta essere stato lui pure partecipe della svolta raggiunta nella letteratura latina da Virgilio con la realizzazione di un grande poema epico tale da gareggiare con Omero: Nescio quid maius nascitur Iliade proclama a 2,34. Lui però in quel momento crede ancora nell’amore di Cinzia che lo allinea nella schiera degli elegiaci erotici e se la prende con un Linceo, che ha osato alzar le mani sulla donna che lui gli aveva affidato fiducioso della sua amicizia. Certo a sua scusante Linceo, dietro il quale pare stia Vario, poteva addurre l’ebbrezza che lo aveva colto, ma, nonostante l’intervento di Dioniso, non faceva bella figura nella scena accusato da Properzio di essere un poeta durus, incapace di ottenere il successo di pubblico, che invece lui aveva conseguito. Le conclusioni cui arriviamo leggendo i versi 6,76-77 del quarto libro sono illuminanti: “ecciti la Musa l’ispirazione ai poeti sdraiati a convito: o Bacco, suoli esser fecondo per il tuo Febo” ingenium potis irritet Musa poetis / Bacche, soles Phoebo fertilis esse tuo. Properzio in questa elegia che, grazie alla sua posizione di centralità, funge da dittico per l’intero libro celebra la vittoria di Augusto ad Azio guidata dall’appoggio di Apollo; ma dopo che pochi versi prima ha proclamato bella satis cecini: citharam iam poscit Apollo / victor et ad placidos exuit arma choros? sembra riconoscere che entrambe le divinità favoriscono la funzione poetica. Mentre quella di Apollo è determinante come generico spirito poetico, quella di Bacco è specifica e robusta, tanto più ora che i poeti «non sono aquae potores, alla maniera callimachea, ma vini potores».29 Non credo che qui sia da scorgere un allontanamento dalle scelte callimachee alle quali Properzio aveva legato il suo nome e la sua fama. Anzi, tutt’altro! Come nel distico della 4,1,61-62 (Ennius hirsuta cingat sua dicta corona: / mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua) l’intervento di Dioniso pone un limite all’epica, rappresentata da Ennio. Scegliere la sua nuova 29 Cfr. Fedeli 2015, 889: «encomiastici e bellici sono tutti i loro argomenti di canto, che esigono un’ispirazione robusta, quale soltanto il vino può dare».
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poesia, che mette insieme l’eziologia, il ricordo degli amori del passato e la varietà esistenziale del presente significa nella fattispecie che dopo che è risuonato il canto di guerra per settanta versi (bella satis cecini), ora Properzio sente l’opportunità di immergersi nell’atmosfera mollis di un convito, dove Bacco è solito esser fertilis ‘produttivo’ verso/per i doni di Apollo. Il termine fertilis – attributo con analogo valore in Orazio 2,6,19 – è una parola-chiave in quanto allusivo della straordinaria fecondità naturale che possedeva l’aura arcaica del dio greco proveniente dalla terra e come tale implica che esso sia da intendersi in senso attivo ‘che rende fecondi’ piuttosto che passivo ‘che è fecondo’. Si intenderà la poikilia, la versatilità poetica, che pone come scelta la sostenutezza della parola,30 il carattere ‘vibrante’ del distico e gode, come è naturale, dell’appoggio di Apollo come primo cantore. Si delinea un quadro dell’ispirazione dove la primazia temporale spetta ad Apollo – ed infatti la poesia epica è venuta per prima con Omero e con Ennio –, ma dove con Dioniso è possibile conseguire quella ideale equivalenza tra tutto quanto può definirsi non-epos.
Il dio etrusco Vertumno tra Bacco e Apollo Un’ulteriore, definitiva prova di come Properzio riesca nel libro IV a muoversi tra Apollo e Bacco la troviamo nella seconda elegia, dove i ruoli divini appartengono entrambi alla capacità metamorfica di appropriazione che è specifica del dio etrusco Vertumno. L’intercambiabilità tra i due dei è apertamente proclamata ai vv. 31-32 “Cingimi il capo con la mitra e mi approprierò del l’aspetto di Iacco; assumerò quello di Febo, se solo mi darai il plettro” Cinge caput mitra, speciem furabor Iacchi; / furabor Phoebi, si modo plectra dabis. La mutazione governa anche il mondo celeste, dal momento che l’idea di metamorfosi riguarda non solo gli elementi naturali, le classi sociali e le attività connesse, ma anche gli stessi dei. È sufficiente infatti cambiare gli attributi (insignia) che siamo soliti riferire alla persona del dio, nella fattispecie il copricapo d’origine frigia tipico degli uomini di bassa estrazione, e il plet Landolfi 2017.
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tro che è una sineddoche per la lira, solenne e armoniosa, perché Vertumno cambi le sembianze.31 A questo punto però rischiamo di perdere il conto sul numero delle divinità che intervengono nel processo: è un unico dio che muta aspetto, oppure addirittura tre dei si avvicendano alternativamente? 32 La posizione di Vertumno è superiore a quella di Bacco e Apollo, oppure è soltanto quella di un abile trasformista che li imita? Q uesto distico, comunque, funge da klimax estrema in una serie di passaggi attraverso i quali appare il principio dinamico che regna nell’universo e la dote di essere cangiante di momento in momento. È un pensiero metonimico quello che Properzio pare qui esporre: il riuscire a trasformarsi in tutte le forme (v. 47 formas unus vertebar in omnes) implica che ognuna partecipi dell’essenza, ovvero sia inclusa nel tutto. Nel complesso delle sue scelte Vertumno si dimostra eccellente (decorus) in tutto proprio perché la sua forma ne include ognuna e quindi ci appare come sovrano del l’onnipotenza. La pluralità sfocia come conseguenza nell’unità e al tempo stesso le è di fondamento. Da dove nei suoi studi a Properzio sia giunto questo concetto è difficile da stabilirsi vista l’incertezza delle fonti: la concezione pitagorica passa tra le Metamorfosi di Ovidio ed a 15,169-171 il filosofo dichiara utque novis facilis signatur cera figuris / nec manet, ut fuerat, nec formas servat easdem, / sed tamen ipsa eadem. Segnaliamo in aggiunta le omeomerie di Anassagora riemerse tramite il pensiero aristotelico nella critica di Lucrezio, le teorie astrologiche ‘caldee’, cioè mesopotamiche, il rigido determinismo degli Etruschi, nato per classificare / interpretare la casualità del fenomenico. Le alternative delle forme non possono essere realmente polari, quindi in antitesi esclusiva tra di loro come se tertium non datur, ma piuttosto attengono ad una sfera complessa di quadri variabili del reale con effetti talvolta grotteschi. Hanno ragione 31 Il distico verrà ripreso poco dopo da Ovidio in Ep. Sapph. 23-24 sume fidem et pharetram: fies manifestus Apollo; / accedant capiti cornua: Bacchus eris, cfr. Ciccarelli 2015, 461. 32 Bettini 2015, 12 apre infatti il suo saggio con l’interrogativo: «Come fa una sola statua ad avere in se stessa tante forme?», tanto più che la statua rappresentava per gli antichi un grado di staticità maggiore della mimica dell’essere umano.
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quanti dinanzi a questo sfoggio di rapido intrattenimento dicono di assistere ad uno spettacolo di mini-scene del tipo ‘siparietto’ teatrale, oppure di slides da proiettare in sequenza. Assomigliano all’assetto didascalico dei paranatellonta astra nel quinto libro di Manilio, cioè gli oroscopi relativi alle levate e i tramonti nel l’anno sidereo di costellazioni extra-zodiacali contemporanee con lo Zodiaco. Anche in Orazio troviamo qualcosa del genere, ma si tratta di un gioco letterario-retorico che la Priamel varia di scena in scena; nel poema degli Astronomica questa successione risulta stabilita dalle leggi eterne del fatum che governa il moto delle stelle fisse, qui in Properzio a determinarla è soltanto l’ispirazione di Vertumno persona loquens, dietro il quale pare nascondersi la fede nell’abilità divinatoria di un popolo cui lo stesso Properzio appartiene (v. 49 et tu, Roma, meis tribuisti praemia Tuscis).
Il terzo libro come accessus alla comprensione del quarto Già nel libro terzo tuttavia è possibile rinvenire le tracce di questo lento, ma impegnativo passaggio. L’elegia 3,17, della quale ricordiamo la brillante interpretazione fattane da Luciano Landolfi nel passato convegno, costituisce un invito a Dioniso perché consenta al poeta di dormire, dissolvendo il mal d’amore (tu vitium ex animo dilue, Bacche, meo) che lo perseguita e che Properzio descrive con tonalità troppo autentiche per non avere un fondo di realtà (semper enim vacuos nox sobria torquet amantis, / spesque timorque animos versat utroque modo). Bacco è qui ancora prevalentemente il dio del vino che inebria e fa dimenticare la propria condizione sicché Properzio promette in contraccambio di dedicarsi alla viticultura seguendone con cura scrupolosa le disposizioni. Si tratta di un’invocazione contrattuale che pare commisurata all’oblio tanto concupito (quod si … accersitus erit somnus in ossa mea). Sospinto da questo afflato verrà indotto a celebrare la nascita e le gesta del dio tra il cielo e i confini della terra Pindarico …ore: questo è un punto importante perché siamo usciti dalla sfera della poesia innodica per entrare in quella del ditirambo.33 Ed è suggestiva la conclusione con tono smorzato dei vv. 41-42 33 Cfr. Cairns 1972, 97: «Romans poets wrote ordinary hymns to Dionysus which they probably classified with a fair degree of accuracy as dithyrambs».
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tu modo servitio vacuum me siste superbo, / atque hoc sollicitum vince sopore caput che richiama ad un tempo la voluttà di libertà e l’esplicita dichiarazione di umiltà del verso iniziale. Ricordando a Bacco ancora una volta l’impegno di liberarlo dall’altera schiavitù impostagli e di avvolgere nel sonno la sua mente sofferente si pongono le basi per una poesia differente. Ben distante era stato il contesto di 2,30 con Cinzia che, fattasi abitatrice dei monti coperti di muschio, sta con le Sorores cioè le Muse mentre, aggrappate agli scogli, cantano le avventure di Giove; qui la scena fa da preludio all’apparizione di Bacco al centro con il tirso che ispira la poesia (docta cuspide). Il motivo del vino puro che induce al sonno liberatore dalla sofferenza aveva segnato quello che dobbiamo considerare l’intertesto di Properzio, almeno al tempo della 3,17, intendo l’esordio di Tibullo 1,2: “Versa vino puro e placa con questo i recenti dolori, perché il sonno si impadronisca degli occhi di chi è stanco” Adde merum vinoque novos compesce dolores, / occupet ut fessi lumina vestra sopor. La volontà di Tibullo mira qui a raggiungere l’ottenebramento della vista ovvero proprio la condizione di Properzio che si era innamorato di Cinzia tramite il suo sguardo che l’aveva catturato e che ora, al momento della rottura definitiva, accusava di falsità. Un altro accenno alla rivisitazione di Tibullo da parte di Properzio credo sia l’ipse seram vitis di 3,17,15 che corrisponde a 1,1,7 ipse seram teneras maturo tempore vites con ancora una volta il rovesciamento del topos, visto che i gesti di Tibullo conducono Properzio non al vagheggiamento dell’amore rustico, ma al rifiuto tout court dell’amore e alla sostituzione di Venere con Bacco in funzione di Ersatz di divinità protettrice. Tibullo faceva parte del circolo letterario di Messalla, che come è noto preferiva mantenere una posizione equidistante tra Marco Antonio e Ottaviano, e la devozione al suo patronus lo aveva indotto a celebrare Dioniso anche nel periodo in cui maggiore era stata l’esposizione della figura di Marco Antonio; così nell’elegia 1,7 troviamo un’ampia digressione su Osiride (vv. 29-42), probabilmente non gradita a Ottaviano, in cui c’è l’associazione tra le due divinità come forza fecondatrice della natura.34 Dobbiamo Alfonsi 1968, 475-476.
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perciò acquisire consapevolezza dei rispettivi ruoli a partire dal l’elegia 1,4, dove Apollo e Dioniso sono indicati con i loro profili efebici, cfr. v. 37 solis aeterna est Baccho Phoeboque iuventas, nel segno di un nuovo ordine per arrivare fino all’Osiride, che invece qui funge da eroe culturale del popolo d’Egitto, cui gli agricoltori guardano commossi. Il riferimento al triumviro non sfuggiva a nessuno, dato che sin dalla conquista dei Lagidi c’era stata l’identificazione con il dio greco. Proprio l’Egitto aveva fornito la sua coppia divina Iside / Osiride come icona delle nozze tra Antonio e Cleopatra.35 Pure il libro terzo costituisce un libro di sorprese essendo la situazione non ancora stabilizzata. Q ui, infatti, dopo che nella prima elegia Properzio ha lasciato intravvedere la formula di una poesia di maggior solennità, che ritiene convenirgli per la protezione del Lycio deo, cioè Apollo, nonostante proclami il rifiuto di una dura corona di miti epici, esemplificati in Omero, per la gloria d’amore, nella seconda vediamo apparire la coppia di Apollo e Dioniso affiancati nel garantirgli il successo femminile: “Dovrei dunque stupirmi se, col favor di Bacco e d’Apollo, una turba di donne venera le mie parole? ”Miremur, nobis et Baccho et Apolline dextro, / turba puellarum si mea verba colit ? (3,2,9-10). La lucida consequenzialità della conclusione espressa come spesso in forma interrogativa, che allude alla partecipazione di puellae ai simposi, rappresenta il momento di cooperazione tra vino e poesia d’amore nel far grande Properzio che avevamo trovato a 2,34,57 ut regnem mixtas inter conviva puellas. Il pensiero assumerà carattere istituzionale nella terza dove Apollo, dopo aver ammonito il poeta, gli mostra una grotta verdeggiante per le pietruzze incastonate. Lì fa mostra di sé una statua di Sileno, con la quale si introduce al culto di Dioniso, cui attengono alcuni elementi del mito e con il quale si intende sicuramente il vino, capace di conferire ai poeti l’ispirazione che Apollo dà con l’acqua della fonte Castalia.36 Potrebbe anche trattarsi di un’ispirazione più robusta. Il sogno di Properzio oscilla tra l’associazione e la contrapposizione tra 35 Plut. Vita Ant. 26 parla del l’unione di Afrodite e Dioniso “per il bene dell’Asia”. 36 Fedeli 1985, 138-143.
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i due liquidi tanto che nei versi finali di questa elegia, dove fa la sua comparsa Calliope, la Musa profetizza come Properzio canterà gli ebria signa nocturnae fugae rievocando il paraklausithyron degli amanti infelici – immediatamente dopo bagna a mo’ di iniziazione le sue labbra lymphis petitis a fonte. La situazione tra i due amanti appare tuttavia nel terzo libro deteriorarsi inesorabilmente; la pienezza dell’amor sincerus ‘limpido, puro’ quale è quella, che aveva fatto esclamare a Properzio O me felicem ! o nox mihi candida ! et o tu / lectule deliciis facte beate meis (2,15,1-2) è passata in una meditazione sul nostro destino di uomini costruiti con l’argilla di Prometeo e destinati ad una via non lineare e tortuosa nel comportamento (3,5,9-10 corpora disponens mentem non vidit in arte: / recta animi primum debuit esse via). Sembra trattarsi di un proemio filosofico dietro il quale si celano altri motivi di dissidio tra i due: si comincia in questa stessa elegia con il desiderio di dedicarsi alla scienza quando sarà divenuto vecchio (ibid. v. 23 atque ubi iam Venerem gravis interceperit aetas), si viene trascinati in una sollecitazione allo schiavo Ligdamo perché racconti la verità sul comportamento della sua padrona (3,6), si rievoca una rissa tra Cinzia e Properzio conclusasi con il lancio di oggetti verso il malcapitato poeta (3,8). La serie si interrompe nella atmosfera festosa, ma piuttosto ingessata della festa di compleanno della amata (3,10) per riprendere con nuove accuse rivolte alle donne in generale incolpate di avidità e di lusso sfrenato e a Cinzia in particolare per la sua gelosia e il comportamento crudele verso la schiava Licinna (3,15) e per l’intero anno di separazione imposto in conseguenza di un discidium (3,16,9-10 peccaram semel, et totum sum pulsus in annum: / in me mansuetas non habet illa manus). Ecco apparire in tale contesto con la 3,17 la sorprendente inversione e le movenze del ditirambo: l’invocazione a Bacco come dio del vino non lo immagina più come cooperatore di Venere definita insana, ma piuttosto come il supremo ed implacabile avversario perché con il sonno narcotizza la sofferenza (curarumque tuo fit medicina mero). A 2, 5, in occasione di un litigio, Properzio aveva dichiarato di non aver mai divelto la porta della casa di Cinzia e compiuto su di lei degli atti di violenza perché “Che sia uno zotico, dal capo mai coronato di edera, a ricercare sì turpi battaglie!”, rusticus haec aliquis tam turpia proelia quae353
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rat, / cuius non hederae circumiere caput (vv. 25-26); per lui, infatti, valgono le norme di un simposio con misura, così come è stato pensato da Bacco, o almeno dalla parte maschile del suo personaggio. Ora troviamo un’immagine pressoché identica a 3,24,29-30 “Addio, ormai, soglia stillante lacrime per le mie parole! Addio, porta, malgrado tutto non abbattuta dalle mie mari irate!” limina iam nostris valeant lacrimantia verbis / nec tamen irata ianua fracta manu in cui si rinuncia per sempre ai comportamenti da komastes per la scoperta di altri valori da attribuire al dio del vino. Una stagione della vita di Properzio si è conclusa e un’altra se ne è aperta. Grazie alle elegie del libro terzo in cui compare Dioniso siamo tuttavia in grado di valutare un momento importante della sua evoluzione.
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Abstracts Scopo di questa relazione sta nella ricerca di una voce dionisiaca nel libro finale di Properzio che pare aggiungersi e rafforzare quella del culto di Apollo Palatino che i poeti augustei hanno in genere interpre355
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tato come espressione dell’opera del principe nel governo del mondo. Il meccanismo che fa da referente al pairing delle due divinità presenta alcuni tratti di novità che vanno presi in considerazione, tanto più alla luce del recente commento al libro quarto. L’ultimo periodo di Properzio coincide con il trionfo della innografia pindarica di Orazio. Properzio scrive quindi un nuovo tipo di elegie in cui appaiono alcuni elementi dell’ispirazione dionisiaca e del ditirambo, ai quali aveva già cominciato a guardare nel libro terzo. This paper aims to search for the Dionysiac voice in Propertius’ final book, which appears to be included in order to reinforce the one connected with the cult of Palatine Apollo, which all the Augustan poets interpreted as symbolizing the rule of the world by the princeps. The pairing of the two gods should be seen as a pattern revealing new concepts and ideas and deserving additional attention in the light of the recent commentary to book four. Propertius’ last period coincides with Horace’ Pindaric hymnography. Propertius’ intent is to create a new genre of elegiac poetry, in which both Dionysiac inspiration and dithyrambic lyric may be recognized. Some poems of book three anticipate the accessus to this new trend.
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COSMOLOGIA E COSMOGONIA FRA REPUBBLICA E PRINCIPATO. Q UALCHE APPROFONDIMENTO SU PROPERZIO III, 5 *
(1) La poetologia è onnipresente tra i poeti neoterici e i loro suc cessori di epoca augustea. Rientrano nelle formulazioni piuttosto esplicite non solo dichiarazioni programmatiche su temi, forme e modelli, ma anche modi di prendere le distanze. Accanto a decise espressioni di disapprovazione – si pensi alle drastiche esterna zioni di Catullo a proposito degli Annali di Volusio 1 e, per Pro perzio, al confronto con la poesia epica di Pontico 2 – si trovano evasive prese di distanza: il poeta si dichiara inadatto alle grandi forme poetiche. Esempi che accompagnano queste dichiarazioni consentono l’integrazione della ‘grande poesia’, e del relativo con tenuto, nella più piccola: un esperimento generico che consente al poeta di estendere i limiti del genere letterario e quindi di ridefi nirli e superarli.3 Un esempio di questo procedimento è l’elegia III 5 di Pro perzio: 4 Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea. nec tamen inviso pectus mihi carpitur auro, nec bibit e gemma divite nostra sitis, * Traduzione dal tedesco a cura di Silvia Nocentini. 1 Catullo 36 e 95. 2 Properzio I 7 e I 9 o II 34. 3 Utili i termini ‘host genre’ e ‘guest genre’ secondo Harrison 2007, 1-33. Cfr. anche Tatum 2000, 407-408 (per Properzio II 20). 4 Testo di Properzio secondo Fedeli 1980; 1985; 2005, così anche le tradu zioni (in parte modificate) di II e III. Per il v. 39 la congettura di Lobeck (tor menta) nocentum è giustificata attraverso Lucano VI 695 Poenaeque nocentum (cfr. VI 799: turba nocens). 10.1484/M.SPL-EB.5.115923
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5 nec mihi mille iugis Campania pinguis aratur, nec miser aera paro clade, Corinthe, tua. o prima infelix fingenti terra Prometheo! ille parum caute pectoris egit opus. corpora disponens mentem non vidit in arte: 10 recta animi primum debuit esse via. nunc maris in tantum vento iactamur et hostem quaerimus atque armis nectimus arma nova. haud ullas portabis opes Acherontis ad undas, nudus at inferna[s], stulte, vehere rate[s]. 15 victor cum victis pariter miscebitur umbris: consule cum Mario, capte Iugurtha, sedes. Lydus Dulichio non distat Croesus ab Iro: optima mors, Parcae quae venit acta die. me iuvet in prima coluisse Helicona iuventa 20 Musarumque choris implicuisse manus: me iuvet et multo mentem vincire Lyaeo et caput in verna semper habere rosa. atque ubi iam Venerem gravis interceperit aetas, sparserit et nigras alba senecta comas, 25 tum mihi naturae libeat perdiscere mores, quis deus hanc mundi temperet arte domum, qua venit exoriens, qua deficit, unde coactis cornibus in plenum menstrua luna redit, unde salo superant venti, quid flamine captet 30 Eurus, et in nubes unde perennis aqua, sit ventura dies mundi quae subruat arces, purpureus pluvias cur bibit arcus aquas, aut cur Perrhaebi tremuere cacumina Pindi, solis et atratis luxerit orbis equis, 35 cur serus versare boves et plaustra Bootes, Pleiadum spisso cur coit igne chorus, curve suos finis altum non exeat aequor, plenus et in partis quattuor annus eat, sub terris sint iura deum et tormenta nocentum, 40 Tisiphones atro si furit angue caput, aut Alcmaeoniae furiae aut ieiunia Phinei, num rota, num scopuli, num sitis inter aquas, num tribus infernum custodit faucibus antrum Cerberus, et Tityo iugera pauca novem, 45 an ficta in miseras descendit fabula gentis, et timor haud ultra quam rogus esse potest. exitus hic vitae superest mihi: vos, quibus arma grata magis, Crassi signa referte domum! 358
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Amore è dio di pace; alla pace rendiamo omaggio noi amanti; le mie dure battaglie sono con la mia donna. E tuttavia il mio cuore non è tormentato da cupidigia dell’oro a me odioso, né, quando ho sete, bevo da coppe riccamente tempestate di gemme, né per me la ferace Campania è arata da mille coppie di buoi [5] né, dissennato, mi procuro bronzi ottenuti dalla tua rovina, Corinto. O argilla primeva, infausta a Prometeo che ti modellò! Egli fu poco accorto nel forgiare il cuore umano. Mentre metteva in ordine il corpo, non si preoccupò della mente nel porre in atto la sua arte. In primo luogo bisognava che fosse diritta la via dell’animo. [10] Di conseguenza siamo battuti dal vento in così vasto spazio di mare e andiamo in cerca di un nemico e intrecciamo le armi con nuove armi. Nessuna ricchezza tu recherai sino alle onde dell’Acheronte, ma nudo sarai trasportato dalla barca infernale. Il vincitore e le ombre dei vinti si mescoleranno in condizione d’uguaglianza; [15] accanto al console Mario siedi tu, o prigioniero Giugurta. Creso di Lidia non è lontano dal dulichio Iro; la morte migliore è quella che giunge nel giorno fissato dalla Parca. A me piaccia l’aver frequentato l’Elicona nella prima giovinezza e l’aver intrecciato le mani nelle danze delle Muse. [20] A me piaccia avvincere la mente d’abbondante Lieo e aver sempre sul capo rose di primavera. E quando ormai il peso degli anni mi avrà tolto i piaceri di Venere e la canuta vecchiaia avrà spruzzato di bianco le mie nere chiome, allora mi sia gradito apprendere alla perfezione le leggi della natura, [25] quale dio regoli con tale arte la dimora del mondo; come la luna sorga, come tramonti; perché, unite le corna, ritorni ogni mese al suo aspetto pieno; perché in alto mare i venti spadroneggino, che cosa Euro con i suoi soffi voglia catturare e donde acqua perenne vada alle nuvole; [30] se verrà il giorno che demolirà la rocca del mondo, perché l’arco dagli splendidi colori attinga l’acqua piovana; o perché siano solite tremare le vette del Perrebio Pindo e il disco del sole prenda il lutto, quando i suoi cavalli sono ricoperti da un nero manto; perché Boote continui tardi nell’anno a girare i suoi buoi e il suo carro; [35] perché il coro delle Pleiadi si concentri in denso fuoco; o perché il mare profondo non esca fuori dai suoi confini e l’anno pieno percorra quattro stagioni; se sotto terra esistano giurisdizione divina e tormenti per i rei, se il capo di Tisifone infurii con i suoi tetri serpenti; [40] se esistano le furie di Alcmeone o i digiuni di Fineo, la ruota, i macigni, la sete nel mezzo dell’acqua; se Cerbero dalle tre fauci sorvegli l’antro infernale e se per Tizio persino nove iugeri siano 359
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pochi; o se sia una leggenda frutto d’invenzione quella che è penetrata fra le misere genti [45] e il timore non possa oltrepassare il rogo funebre. Q uesta è la conclusione della vita che m’attende. Voi, ai quali sono piú care le armi, riportate in patria le insegne di Crasso!
Si può facilmente notare come l’elegia lavori su due opposizioni capitali: da una parte tra guerra e amore,5 dall’altra tra gioventù e vecchiaia.6 L’implicita correlazione di questo doppio contrasto è costituita dalla reciproca appartenenza di amore e gioventù. Di conseguenza, logicamente anche vecchiaia e guerra si corrispondono,7 sebbene meno nel senso di una pratica attuale e più come programma poetico: la poesia d’amore in gioventù, la poesia bellica, come l’epos eroico o panegirico, nella vecchiaia. Così l’aveva formulato il poeta nell’elegia II 10 (7-8): 8 Aetas prima canat Veneres, extrema tumultus: bella canam, quando scripta puella mea est. L’età giovane canti gli amori, l’estrema le guerre: canterò le guerre, poiché ho già celebrato la mia donna.
Ma non è nemmeno ancora pronto per una poesia didascalica nella tradizione esiodea (v. 25-26): Nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontis, sed modo Permessi flumine lavit Amor. La mia poesia finora non conosce neppure le fonti di Ascra, ma Amore l’ha irrorato solo con l’acqua del Permesso. Cresci Marrone 2014 offre una panoramica sulla tematica della guerra in Properzio, con particolare riferimento alla contrapposizione con la poesia d’amore. 6 Sul topos delle età della vita cfr. anche Mader 2003 e Kayachev 2013, che basandosi su una possibile allusione a Filodemo ritiene che la poetica di questi fu fondamentale per Properzio e oltre fino a tutti i poeti di età tardo-repubblicana e augustea, che fanno uso di questa topica (Kayachev 2013, 417). Ma proprio il fatto che si tratta di topica depone a sfavore di questa ipotesi. Inoltre le citazioni proposte da Kayachev, per cui sono plausibili certi collegamenti intertestuali, spesso non sono congruenti alla tematica. 7 Cfr. anche Syndikus 2010, 233. 8 Cfr. Fedeli 1985, 189; Stahl 155-162 offre una lettura d’indirizzo pragmatico. Problematica l’interpretazione di extrema aetas come semplice ‘maturity’ proposta da Mader 2003, 123 (similmente Fedeli 2005, 317-318); essa corrisponde piuttosto a exitus … vitae in III 5, 47. 5
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I versi di chiusura sono concepiti come un effetto inaspettato e amplificatore: in contrasto con la semplice recusatio dei versi iniziali l’epos eroico-panegirico viene alla fine doppiamente rimandato. Infatti il chiarissimo rimando a Virgilio, Ecloga 6, 64-73 9 (e di conseguenza infine a Gallo) 10 difficilmente ammetterà una interpretazione del linguaggio simbolico diversa da quella corrispondente al passo a cui si allude: il Permessus simboleggia l’elegia d’amore, Ascra la poesia eziologica 11 o la poesia didascalica in genere.12 Nemmeno questa in II 10 è possibile al poeta 13 – né, tantomeno, l’epos eroico-panegirico.14
9 Per la formulazione cfr. anche Georgica II 175-176: ingredior sanctos ausus recludere fontes / Ascraeumque cano Romana per oppida carmen (Álvarez Hernández 1997, 118); certamente qui manca il riferimento poetologico essenziale al Permessos. 10 Cfr. Cucchiarelli – Traina 2012, 357-364 con riferimenti bibliografici. 11 Ciò risulta chiaramente da Grynei nemoris … origo (Ecloga VI 72). 12 Così Virgilio, Georgica II 176 e Properzio II 34, 77-78, relativamente a Georgica; meno evidente certamente (in particolare rispetto all’Ecloga VI e a Properzio II 10 con il Permessos come contrario) Properzio II 13, 4 (cfr. ora anche Landolfi 2014, 106-107), ma con il chiaro abbandono della tematica della guerra o politica, come anche delle aspettative di una Cynthia stupita, alla quale appunto appartiene l’elegia d’amore (cfr. Fedeli 2005, 366-372). In considerazione di ciò è poco plausibile che per Properzio II 10 si possa pensare a diverse varianti del l’epica come fa Tatum 2000 (principalmente 399.402-405), che interpreta in questo senso il plurale fontes (che però è poco pregnante, come mostrano Lucrezio I 924 = IV 2 e Virgilio, Georgica II 175-176; cfr. su questo anche Álvarez Hernández 2010, 76-77) o ad un epos bellico come fa Cairns 2006, 332-333; anche un’elegia encomiastica (così Álvarez Hernández 2014, 268) sarebbe allo stesso tempo da immaginarsi come didascalica o eziologica. Cfr. anche Landolfi 2014, 102 con la nota 126. 13 Q uesta amplificazione è essenziale: nondum etiam qui non è la stessa cosa del semplice nondum (così Camps 1966, 111, seguito da Tatum 2000, 406 con nota 44 e Cairns 2006, 331-332; contrario giustamente Stahl 1985, 345-346 e Lyne 1998, 28 nota 44). Ciò vale anche per il passo giustificativo presentato da Camps, Properzio I 9, 17 (con il verso seguente): necdum etiam palles, vero nec tangeris igni: haec est venturi prima favilla mali = Non sei ancora nemmeno né pallido, né toccato dal vero fuoco, questa è la prima scintilla del male futuro. Implicito anche in Virgilio, Georgica II 539: necdum etiam audierant inflari classica: non avevano ancora nemmeno sentito suonare le trombe di guerra (tantomeno avevano avuto esperienza della guerra). Nessuno dei due passi è presente nell’elenco di Cairns 2006, 332 nota 34. 14 I versi di chiusura quindi – contrariamente all’interpretazione spesso proposta (esplicitamente per esempio ancora in Landolfi 2014, 103 con rimandi bibliografici) – non si riferiscono allo stesso tipo di poesia indicato dai versi di apertura.
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Properzio riprende il doppio indirizzo presente in II 10 anche nella coppia di poesie III 4 e III 5,15 distribuendo i due aspetti in elegie complementari. Allora, mentre Properzio in III 4, come in II 10, delinea il tema della guerra in forma di panegirico di Augusto, per prendere alla fine le distanze riguardo alla persona del poeta,16 lo riveste in III 5 con il topos della razzìa, che egli esplicitamente rifiuta.17 Per la vecchiaia, invece, egli non prospetta nessun epos eroico,18 ma un’opera di filosofia naturale.19 Così, II 10, 25-26 è non solo ripreso, ma anche superato: 20 la poesia didascalica non solo rinvia di nuovo l’epica bellica, ma si mette addirittura al suo posto; 21 la topica della poesia eroico-panegirica come attività riservata agli anni della vecchiaia 22 è sostituita con la topica della filosofia come occupazione più adeguata.23 A tal riguardo si può parlare di una recusatio in due fasi o doppia: al posto della poe sia bellica, prima viene la poesia d’amore, poi, nella vecchiaia, la filosofia naturale. Oltre che le sole scienze naturali pure l’opera dell’anziano poeta comprenderà anche la questione dell’aldilà. Si riprende perciò il motivo dell’oltretomba, che nella prima parte del poema era collegato alla guerra (v. 13-18), derivandone così un ulteriore momento di unità interna. Analogamente, nella parte dedicata
15 Cfr. Fedeli 1985, 174-176.201-202; Álvarez Hernández 1997, 242; Conte 2000. All’annuncio di passare, dopo la fine della poesia d’amore nella vecchiaia, alla filosofia naturale, si confà anche la dichiarazione indirizzata a Lynceus in II 34, 51-54, che nelle faccende amorose essa sia inutile; cfr. anche Tibullo II 4, 15-18. 16 Cfr. però anche le annotazioni di Breed 2010 sulle allusioni alla tematica della guerra civile nelle poesie dei libri I e II. 17 Stahl 1985, 195-205 evidenzia il riferimento alla politica attuale. 18 Mader 2003, 126 vede qui il ‘distinctive polemical point’; cfr. anche 127 con unlteriori rimandi. 19 Come sottolinea Stahl 1985, 202, perdiscere … naturae mores non deve necessariamente intendersi come riferito alla composizione di poesia filosofica. Tuttavia, come dichiarazione programmatica del poeta, la formulazione suggerisce una tale interpretazione. 20 Cfr. anche Steidle 1962, 137-138. 21 Cfr. anche Álvarez Hernández 1997, 243 e Mader 2003, 127 con altri riferimenti bibliografici. 22 Cfr. i rimandi a Virgilio, Eclogae IV 53-54 e VIII 7-10 ma anche Georgica III 10.40.46 in Álvarez Hernández 1997, 130; si aggiunga anche Giovenale 8, 169170 (Mader 2003, 119). 23 Cfr. Kayachev 2013. Mader 2003 non distingue i due topoi.
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alla guerra, il mito di Prometeo sulla creazione dell’uomo (v. 7-10) prelude alle spiegazioni scientifiche dei fenomeni naturali.24 (2) La poesia inizia con un rimando all’elegia immediatamente precedente (Properzio III 4, 1): Arma deus Caesar dites meditatur ad Indos. Il divino Cesare progetta di portar guerra agli Indi opulenti.
Inconfondibile, però, è anche la presenza di Tibullo I 1 in sottofondo, il programmatico rifiuto della vita militare per l’acquisto di grandi ricchezze (Tibullo I 1, 1-6): 25 Divitias alius fulvo sibi congerat auro et teneat culti iugera multa soli, quem labor assiduus vicino terreat hoste, Martia cui somnos classica pulsa fugent: 5 me mea paupertas vita traducat inerti dum meus assiduo luceat igne focus. Accumuli altri per sé ricchezze di biondo oro e possieda molti iugeri di terreno coltivato, e lo spaventi la continua preoccupazione per l’avvicinarsi del nemico, e le trombe di guerra col loro suono gli tolgano il sonno. Ma io possa condurre una vita tranquilla nella mia povertà, [5] purché nel mio focolare splenda assiduamente la fiamma.
Q uesto rifiuto è un motivo ricorrente in Tibullo, un leitmotiv, alla cui importanza corrisponde l’impiego nel l’apertura del l’ultima elegia del primo libro che ne sottolinea la composizione (Tibullo I 10, 1-10): 26 Q uis fuit horrendos primus qui protulit enses? quam ferus et vere ferreus ille fuit! tunc caedes hominum generi tunc proelia nata, tum brevior dirae mortis aperta via est.
24 Ulteriori particolarità sono il lemma arte v. 9 e v. 26 o le definizioni di grandi pianure nel v. 5 nec mihi mille iugis Campania pinguis aratur e nell’interro gativo v. 44 … et Tityo iugera pauca novem. 25 Testo di Tibullo secondo Maltby 2002, traduzione di Namia 1973. 26 Cfr. per esempio Steidle 1962, 102-109.
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5 an nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra vertimus in saevas quod dedit ille feras? divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt faginus astabat cum scyphus ante dapes. non arces non vallus erat, somnumque petebat 10 securus varias dux gregis inter oves. Chi fu colui il quale inventò per primo le terribili spade? Q uanto feroce e veramente dal cuore di ferro egli fu! Allora nacquero stragi per il genere umano, allora nacqero guerre, allora si aprì una via più breve per la morte crudele. O forse quell’infelice non ebbe alcuna colpa, e noi volgiamo a nostro [5] danno ciò che egli inventò contro le fiere crudeli? Q uesta è colpa del ricco oro; non vi furono guerre quando una coppa di faggio stava dinanzi alle vivande. Non vi erano rocche né trincee; e il duce del gregge si abbandonava tranquillo tra le variopinte pecore.
Il mito delle età del mondo e della colpa originale in Tibullo viene trasferito da Properzio al mito della creazione imperfetta dell’uomo da parte di Prometeo. Inoltre, viene in mente il contemporaneo discorso sulla decadenza, come si trova per esempio in Sallustio, al quale allude Giugurta al verso 16. Mentre però Sallustio rammenta la conquista di Cartagine come l’inizio della decadenza, in Cicerone, De re publica II 7, si trova l’accostamento di Cartagine e Corinto come città che vanno in rovina a causa della loro decadenza. Q uando Properzio si riferisce a Corinto, si richiama quindi ad un’altra versione del discorso sulla decadenza e si rifà così alla topica del tema. Anche il contrasto delle armi e dell’amore (associato alla pace) è espresso in Tibullo I 10 negli ultimi versi (65-68): Sed manibus qui saevus erit, scutumque sudemque is gerat et miti sit procul a Venere. at nobis, Pax alma, veni spicamque teneto, perfluat et pomis candidus ante sinus. Ma chi userà crudelmente le mani, porti scudo e pertica, [65] e stia lontano dalla mite Venere. Ma vieni a noi, o Pace alma, e reca una spiga, e ti trabocchi davanti il candido grembo di frutti.
Simile la chiusa di Tibullo I 1 (v. 71-78): 364
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Iam subrepet iners aetas neque amare decebit dicere nec cano blanditias capite. nunc levis est tractanda Venus dum frangere postes non pudet et rixas inseruisse iuvat. 75 hic ego dux milesque bonus. vos, signa tubaeque, ite procul; cupidis vulnera ferte viris, ferte et opes: ego conposito securus acervo dites despiciam despiciamque famem. Tra poco si insinuerà l’età inerte, e non sarà più conveniente amare né sussurrarsi dolci parole col capo canuto. Ora bisogna curare gli amori spienserati, ora che non è vergognoso abbattere le porte e piace intrecciare risse. In questo io sono un buon capitano e un buon soldato: voi, insegne e trombe di guerra, [75] andate lontano, procurate ferite agli uomini ambiziosi, e portate anche ricchezze; io tranquillo, composto il mio mucchio, mi riderò dei ricchi, mi riderò della fame.
Q ui si trova anche il motivo della vecchiaia, che pone fine all’amore, come in Properzio, versi 23-24.27 Persino la tematica della morte, che Tibullo (I 1, 59-70) tratteggia in toni sentimentali subito prima del passo appena citato,28 sembra ripresa dalla descrizione dell’oltretomba in Properzio (v. 39-46).29 Di fronte a questa estesa consonanza stupisce come, finora, Tibullo I 1 e I 10 siano stati trascurati come modelli intertestuali per Properzio.30 Tuttavia, nel confronto salta all’occhio anche una differenza: mentre Tibullo sviluppa un programma di vita della persona elegiaca, nel quale gioca un ruolo centrale il semplice stile di vita campestre,31 Properzio delinea un discorso poetologico, per il quale non è lo stile di vita campestre, bensì la corrispondente Indicato da D’Elia 1953, 169. Breve trattazione in I 10, 35-38. 29 Il motivo dell’oltretomba ricorda ancora molto Tibullo I 3, 67-80; questo può comunque esser ampiamente debitore della topica tradizionale (Houghton ravvisa delle somiglianze tra Tibullo e Lucrezio III 978-1023, sulle quali si veda qui subito sotto). La formulazione della domanda in Properzio si può intendere come riferimento critico. 30 Cfr. anche la panoramica di orientamento bibliografico di Dimundo 2002, 310-314; brevi cenni perlomeno in Belling 1897, 369-370, Steidle 1962, 138 e Syndikus 2010, 236-237. 31 Cfr. anche Steidle 1962 e Neumeister 2011. 27 28
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poesia didascalica di Virgilio a rappresentare un importante punto di riferimento.32 Con la prefigurazione della poesia didascalica natural-filosofica Properzio allude a due modelli letterari: Virgilio 33 e Lucrezio. Come l’elegista, anche il poeta di Mantova aveva abbozzato il progetto di una poesia didascalica natural-filosofica, Georgica II 475-494: 34 4 75 480 485 490
Me vero primum dulces ante omnia Musae, quarum sacra fero ingenti percussus amore, accipiant caelique vias et sidera monstrent, defectus solis varios lunaeque labores; unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant, quid tantum Oceano properent se tingere soles hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet. sin has ne possim naturae accedere partis frigidus obstiterit circum praecordia sanguis, rura mihi et rigui placeant in vallibus amnes, flumina amem silvasque inglorius. o ubi campi Spercheosque et virginibus bacchata Lacaenis Taygeta! o qui me gelidis convallibus Haemi sistat, et ingenti ramorum protegat umbra! felix qui potuit rerum cognoscere causas atque metus omnis et inexorabile fatum subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari:
32 Properzio riprende qui lo schema dei quattro modelli di vita: φιλοχρήματος v. 3-13, φιλήδονος v. 19-22; φιλόσοφος v. 23-46; φιλότιμος v. 47-48. 33 Cfr. anche i commenti di Fedeli 1985 e Heyworth – Morwood 2011. 34 Testo secondo l’edizione Mynors 1990, traduzione di Carena 1971. Sul passo di Virgilio citato si diffonde ampiamente Marchetta 2013, 139-379 (con ricca documentazione sulla ricerca); per ulteriori riferimenti a Virgilio (e Lucrezio) cfr. il dettagliato studio di Gigante Lanzara 128-132. In particolare è importante il rimando al contesto del passo virgiliano, rilevato da Álvarez Hernández 1997, 242-243 e Syndikus 2010, 233, Georgica II 461-466 (o meglio 458-474, includendo le parti che fanno da cornice; sulle quali cfr. anche Marchetta 2013, 47-137) e 495-512 (cfr. il sintagma gemma bibat in Georgica II 506 con il nec bibit e gemma di Properzio III 5, 4 e gli Ephyreiaque aera in Georgica II 464 con nec … aera paro clade Corinthe tua; sul testo di Virgilio Marchetta 389401), rifiuto del l’ambizione politico-guerresca in parte dal colorito satirico (si veda anche sopra p. 364 per il discorso sulla decadenza). Il modello qui evocato fa sembrare il ragionamento di Properzio ancora più convincente; in lui come in Virgilio si dispiega un inquadramento di impronta etica (sebbene in conclusione solo un distico) intorno al passo sui temi scientifici.
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fortunatus et ille deos qui novit agrestis Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores. Prima, su tutte le cose io vorrei che le dolci Muse, [475] di cui porto i sacri simboli per l’amore intenso che me ne ha trafitto mi assecondassero, i corsi delle stelle nel cielo mostrandomi, gli eclissi del sole, variamente prodotti, i travagli della luna, le cause dei terremoti, la forza che gonfia in alto i mari infrangendo le dighe, per farli di nuovo tornare nei propri confini; [480] la cagione della fretta eccessiva del sole a tingersi nell’Oceano durante i giorni invernali o gli ostacoli che rallentano le pigre notti. Ma se di giungere a queste parti del regno della natura m’impedirà il raffreddarsi intorno al cuore del sangue, le campagne mi appaghino e i corsi d’acqua nelle valli, [485] i fiumi io ami e le selve, senza gloria. Oh dove i campi e lo Spercheo, e, percorso dal baccanale delle vergine lacene, il Taigeto! oh chi nelle fosche convalli dell’Emo mi deporrà, con gli ampi rami coprendomi d’ombra! Felice chi riuscì a conoscere le cause delle cose, [490] ma ogni timore e il destino inesorabile calcò sotto i piedi, e il fragore dell’avido Acheronte. Fortunato anche colui che gli dèi conobbe delle campagne: Pan e Silvano vecchietto e le ninfe sorelle.
Il tema della poe sia didascalica natural-filosofica è qui solamente abbozzato e riporta in chiusura – al modo di una recusatio all’interno del genere didattico 35 – al tema georgico. La connessione con Lucrezio è particolarmente significativa, non tanto per il riferimento al contenuto cosmologico, quanto anche per il tema della paura: la spiegazione della natura condotta da Lucrezio punta esplicitamente alla liberazione dalla paura irrazionale, degli dei e della morte, e realizza così un obiettivo fondamentale della filosofia epicurea.36 Il tema, che si assomma in Properzio, della descrizione e spiegazione dell’oltretomba, si riallaccia, attraverso il breve cenno in Georgica II 492, direttamente a Lucrezio, che risolve psicologicamente i tormenti del Tartaro Cfr. anche Gale 2000, 42. Cfr. Κύριαι δόξαι XI e Ep. ad Erodoto 76-80; conformemente si possono mettere insieme diverse teorie sulla natura per dimostrare che è inutile supporre un intervento divino (cfr. anche Pyth. 86 e Erler 1994, 145). Tuttavia ci può anche essere un eccesso di interesse. Non è però un corpo estraneo la domanda sull’esistenza di punizioni nell’oltretomba, (contrariamente a ciò che Syndikus 2010, 232-233 pensa). 35
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e li spiega come allegorie dei turbamenti del l’anima umana 37 (III 978-1023). Properzio così supera non solo nella formulazione, che non ripiega sulla vita campestre come argomento più umile,38 ma anche nella tematica l’imitazione lucreziana di Virgilio 39 e certamente non come fine a se stessa, bensì in modo che sia costitutiva, come abbiamo visto, per la struttura tematica dell’elegia III 5.40 Il rifiuto del soggetto bellico diventa perciò vieppiù significativo.41 (3) Il poema didascalico di Lucrezio, il De rerum natura in sei libri, è l’opera più significativa della sua epoca nel campo della filosofia naturale. I temi della cosmologia e della cosmogonia, del l’astronomia e della meteorologia, intesi nel senso antico come scienza dei fenomeni tra terra e cielo sotto la luna, trovano ampio interesse anche presso altri autori, che in parte dedicano loro intere opere,42 in parte li inseriscono in contesti diversi, non di rado vere e proprie perle, come nel caso, in un certo senso, di Virgilio e Properzio.43 Nelle pagine seguenti farò una rapida rassegna generale sulle più importanti teorie cosmologiche e, in particolare, sulla cosmogonia del primo secolo avanti Cristo, l’età della tarda Repubblica e dell’inizio del Principato. Poiché proprio in questo si distinguono le idee sulla filosofia naturale (e la scienza) delle diverse scuole, che offrono un quadro di riferimento per le argomentazioni di Properzio. Ci sono tre correnti filosofiche con le loro specifiche idee, l’epicureismo, lo stoicismo e il platonismo, a cui si aggiungono Heyworth – Morwood 2011, 143 pensano anche all’opera perduta di Vario Rufo De morte. 38 Q uesta omissione deve forse essere intesa come una presa di distanza da Tibullo? 39 Cfr. anche l’allusione, più stretta rispetto a Virgilio, di Properzio a Lucrezio I 924-927 = IV 2-5; su questo anche Conte 2000. 40 III 5, 39-46 in corrispondenza di III 5, 13-18 (con il lemma Acheron in v. 17, come in Georgica II 492); si veda sopra p. 362-363. 41 Cfr. anche Courtney 1969, 70-72. 42 Cfr. per esempio le rielaborazioni di Arato da parte di Cicerone e Varro Atacino. 43 Cfr. anche La Penna 1995 sul catalogo poetico di temi filosofici. Sarebbero da citare anche Virgilio, Aen. I 742-746, dopo Properzio anche Orazio, Ep. I 12, 16-20 (‘a witty parody’ per La Penna 1995, 326; indirizzata a Properzio ?) e Ovidio, Met. XV 66-72. 37
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riferimenti ad Aristotele e soprattutto le conoscenze dossografiche di alcuni presocratici etc.44 Il De natura deorum di Cicerone riveste un ruolo significativo come fonte, in quanto verte sull’essenza degli dei e, tra le altre cose, sulla loro influenza sul cosmo e sulla sua formazione.45 Nei tre libri parlano l’epicureo Velleio, lo stoico Balbo e l’accademico Cotta. Nello stesso ordine presenteremo le tre scuole qui di seguito,46 cominciando con l’epicureismo,47 con riferimento da una parte al Velleio 48 di Cicerone e alla contro-risposta di Cotta,49 che però non portano molto frutto, dall’altra parte prima di tutto a Lucrezio, in quanto il più significativo rappresentante quanto meno dell’epicureismo con interessi cosmologici presente a Roma alla metà del primo secolo avanti Cristo.50 Nello spazio infinito si muovono 51 all’infinito molti atomi, le più piccole parti della materia, che non sono ulteriormente divisibili. Lo spazio non è interamente occupato dagli atomi, ma tra di loro esistono spazi vuoti; soltanto così è possibile il movimento. Gli atomi hanno diverse forme, ma il numero delle varianti è limitato.52 Inoltre essi possiedono pesi diversi, che, seppur minimi, conferiscono loro il movimento verso il basso. Negli spazi vuoti essi cadono con velocità uguale, perché soltanto l’opposizione di un altro atomo potrebbe frenarli. Tuttavia si può giungere anche a piccolissime deviazioni dalla traiettoria; Lucre44 Sedley 2009, 36 osserva: „a rounded philosophical education was expected to include a basic training in all the major schools.“ 45 Cfr. anche il breve capitolo sulla filosofia naturale in Lucullus 116-128. Sulle discussioni di Cicerone intorno all’epicureismo cfr. Maso 2015, specialmente sulla fisica e la cosmologia 47-80. 46 Il discorso di Velleio a questo proposito contiene un’ampia parte dossografica (I 25-41) con distorsioni polemiche. Cfr. su questo McKirahan 1996. 47 Breve ed istruttivo Erler 1994, 139-145 come anche Taub 2009. Su Lucrezio cfr. anche Beretta 188-206. 48 I 53. 49 I 65-70.73. 50 Filodemo a Ercolano e i suoi seguaci romani non mostrano di avere nessun interesse particolare per la filosofia naturale, cfr. Sedley 2009, 35-36. Al contrario di costoro, secondo Sedley 2009, 39-41, è possibile vedere in Lucrezio il rappresentante di uno specifico epicureismo italico. 51 Sul movimento degli atomi in Lucrezio II 62-332 cfr. Fowler 2002, 143406. 52 Ep. ad Erodoto 42.
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zio adopera l’espressione clinamen (II 292) come anche i verbi inclinare (II 243) e declinare (II 221.250,253,259), Cicerone parla di declinare (I 69) e inclinatio (I 73).53 Proprio qui sta un punto essenziale per la critica formulata dalle scuole di pensiero concorrenti,54 poiché non è facile capire quale potrebbe essere la causa alla base di tali deviazioni.55 Q uestione anche discussa nella ricerca.56 Epicuro sembra ricondurre la deviazione ad un impulso proprio dell’atomo, che viene interpretato come una sorta di movimento spontaneo.57 In Lucrezio viene spiegato attraverso il libero arbitrio umano (l’uomo, compresa l’anima, sono costituiti per Epicuro da atomi): siccome gli impulsi umani non possono essere spiegati soltanto attraverso un’azione dal di fuori, allora deve esistere una spontaneità negli uomini, che può essere originata soltanto dagli atomi, che sono i loro elementi costitutivi.58 Allo stesso modo può essere attribuito agli atomi già negli spazi vuoti un libero impulso proprio. La ricerca della causa è sbagliata: è proprio questo impulso una delle due cause del movimento degli atomi, accanto al loro peso.59 A causa della deviazione dalla traiettoria prestabilita si giunge alla collisione degli atomi, che, a causa della loro forma, possono agganciarsi l’uno all’altro. Perciò può prodursi una reazione a catena, che porta all’accumularsi della massa necessaria ad originare un cosmo e questo non accade una volta sola, bensì in diversi punti dell’infinito spazio e in corrispondenza di diversi punti temporali, in modo tale che coesistono, uno accanto all’altro, infiniti
Sulla terminologia cfr. Schmidt 2007, 24 con le note 10-11. Cfr. Schmidt 2007, 52-61 e Maso 2015, 59-80 sulle dichiarazioni di Cicerone in diversi scritti. 55 Cfr. Schmidt 2007, 21: „Diese Arbeit gilt einem der schwierigsten Probleme der epikureischen Physik, der Lehre von der spontanen Abweichung der Atome von ihrer geradlinigen Flugbahn.“ 56 Cfr. Schmidt 2007, 64-76, specialmente sull’ipotesi che si tratti di un’espan sione tarda del sistema epicureico. 57 Da Schmidt 2007, 98-99 inteso come una forma di vita. 58 Cfr. Fowler 2002, 407-427, Schmidt 2007, 71-73.125-137 e Maso 2015, 64-65 con nota 27 (qui anche la bibliografia). 59 Schmidt 2007, 43-44. Sulla spontaneità cfr. anche Johnson 2013, che tuttavia non dimostra di conoscere Schmidt. 53 54
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mondi.60 I singoli mondi consistono di agglomerazioni di atomi e assimilano continuamente altri atomi dallo spazio infinito. Nello stesso tempo si assiste ad una fuga costante di atomi che si separano di nuovo. Alla fine il cosmo perde più atomi di quanti ne assimili e si dissolve di nuovo.61 Gli atomi aggregati in un cosmo prendono forma secondo le leggi di natura esistenti; perciò sono possibili diverse forme di un cosmo,62 non solo quindi la forma sferica, ma anche l’ovale, la triangolare e così via.63 All’interno di ogni associazione di atomi riveste una certa importanza il loro peso: gli atomi più pesanti si aggregano in basso, i più leggeri in alto. Siccome tutti gli atomi sono collegati l’uno all’altro, essi formano una struttura chiusa dotata di una certa stabilità, anche quando intervengono ulteriori flussi di atomi in uscita o in entrata. La forma del nostro mondo viene determinata dall’arco del cielo e dalla terra, che è piatta. Poiché il movimento originario degli atomi assume una direzione dall’alto verso il basso, gli abitanti di una terra sferica, che si trovassero nella parte inferiore, dovrebbero sperimentare un movimento di caduta contrario a quello degli uomini che fossero sulla parte superiore. Una tale possibilità è empiricamente impossibile.64 Sia la formazione sia la forma del cosmo, come anche fenomeni quali il corso delle stelle,65 il cambiamento delle stagioni, il tempo, comprese le tempeste e altre catastrofi naturali sono da interpretare come accadimenti
60 Che questi siano da immaginare come relativamente piccoli (in confronto ai modelli del cosmo come universo), è rilevato da Furley 1996, 124. 61 Ep. ad Erodoto 73. 62 Ep. ad Erodoto 74. 63 Pyth. 88. Rimane da chiarire cosa significhi la presenza di forme triangolari (e quindi bidimensionali) accanto a forme tridimensionali. Forse si tratta solo di una frecciata polemica contro l’idea platonica secondo la quale la forma sferica del cosmo corrisponde al dodecaedro come il più simile alla sfera fra i «corpi platonici» (le cui superfici sono triangoli o poligoni da essi originati) secondo il Timeo 53 c 4 – 57 d 6 (vedi anche sotto p. 376)? 64 Cfr. Ep. ad Erodoto 60 e in particolare Lucrezio I 1052-1064; inoltre Furley 1996 e Salemme 2010, 61 con la nota 49; 63. 65 Sulla negazione dell’idea che le stelle si muovano con regolarità matematica, con le implicazioni teologiche che vi sono connesse, cfr. Sedley 1976. I corpi celesti non sono esseri viventi; Lucrezio V 476 scrive ut corpora viva. Sull’astro nomia in Lucrezio cfr. anche Kany-Turpin 1996, 230-236.
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che rientrano nelle leggi naturali.66 Né per la creazione né per la guida e la conservazione del mondo è necessario l’intervento divino; l’inno a Venere, con il quale Lucrezio apre la sua opera, celebra in un’allegoria poetica un principio astratto di vita, natura e piacere.67 Di certo Epicuro non nega l’esistenza degli dei, al contrario, la dà per scontata e vede in essi un ideale anche per la vita umana, al quale si addice una venerazione corrispondente. È proprio la beata spensieratezza delle loro vite che esclude per Epicuro che essi possano prendersi cura della creazione del mondo o della sua guida. Su questo si pone in radicale contrasto lo stoicismo, le cui idee su cosmologia e cosmogonia prenderemo ora in considerazione.68 Comunque in tutto il primo secolo avanti Cristo non c’è nessun esponente dello stoicismo nella cultura latina la cui importanza possa essere messa a confronto con quella di Lucrezio; 69 il Balbo di Cicerone si occupa, è vero, di questioni cosmologiche, ma non stanno al centro dei suoi ragionamenti; essi contengono pur sempre una prova cosmologica dell’esistenza della divinità (II 15-22) e la tesi secondo la quale il calore è ciò che permea e di conseguenza anima ogni sostanza e va messo in relazione con il divino come istanza-guida, che si manifesta in particolare nel l’etere (II 23-39). A ciò si aggiungono le affermazioni sull’ordinato movimento degli astri, dai quali deriva la loro divinità (II 42-44). Da parte greca sarebbe da ricordare come contemporaneo Posidonio, i cui scritti però si trovano solo in frammenti, che sulla questione della formazione del mondo sono poco utili. Ancora di più che nel caso dell’epicureismo bisogna perciò riferirsi ai fondatori della scuola, cioè Zenone, Crisippo e Cleante. Essenziale per la filosofia naturale stoica è la complementarietà di un principio attivo e di uno passivo nella materia o sostanza originaria. La materia passiva è modellata dal principio attivo 66 Cfr. anche Salemme 2010, 77-78. Schmidt 2007, 139-152 ritiene che la negazione di una finalità nella formazione del mondo sia coerente con la concezione di una finalità, che consiste in una sorta di desiderio di piacere degli atomi. 67 Cfr. Schmidt 2007, 153-159 e Asmis 2015 (che non pare conoscere Schmidt). 68 Breve ed istruttivo Lapidge 1978; cfr. anche White 2003, che tematizza in maniera più incisiva le fonti. 69 Cfr. inoltre anche le osservazioni di Lapidge 1978, 162.184-185.
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ad essa inerente, che ha la funzione di intelletto divino; questo è descritto non solo come dio, ma anche come natura. Perciò il cosmo stesso è vivente e divino e forma una creatura vivente unica, la cui coerenza (interna) non si spezza mai e all’interno della quale non esiste il vuoto. Anche gli uomini e le loro vite vi sono inclusi, cosicché lo stoicismo rappresenta un rigoroso determinismo. L’aspetto divino è esso stesso materiale e viene descritto in parte come fuoco, in parte come pneuma (da Crisippo in poi). Il fuoco divino tuttavia non è da mettere sullo stesso piano dell’elemento fuoco: anzi viene distinto da questo in quanto fuoco che crea (πῦρ τεχνικόν – fuoco artefice), che con il suo calore dà vita al cosmo. La parte passiva della materia è vista come elemento umido, senza il quale non può esistere la vita.70 L’idea dello pneuma comprende un ulteriore elemento che è importante per la vita: il respiro. Lo pneuma è, in quanto a ciò, tra fuoco e aria.71 Vi è collegata l’idea di una tensione interna che tiene insieme la creatura. L’efficacia e la qualità dello pneuma sono pertanto differenziati: dalla semplice stabilità nelle formazioni rocciose e così via, passando dalla vita vegetativa delle piante fino agli animali, che hanno immaginazione ed istinti, per arrivare all’uomo e a dio, entrambi dotati d’intelletto.72 La cessazione di questa tensione è la morte; questo non vale solo per le singole creature, ma anche per il cosmo nel suo insieme, al punto che il suo nascere e morire può essere interpretato come l’apparire o lo scomparire della tensione interna. La materia si trasforma perciò di nuovo nel suo stato originario indifferenziato. Solitamente questo declino del mondo viene rappresentato come conflagrazione cosmica, quindi il suo risultato come fuoco primigenio; rimane pertanto oscuro il rapporto con l’elemento umido della materia originaria.73 Q uesto processo di nascita e morte si
Lapidge 1978, 165-166. L’esatta relazione tra il fuoco cosmico e lo pneuma cosmico non è chiarissima (Lapidge 1978, 169). Eppure è forse possibile concepire entrambi come aspetti sostanzialmente identici, ma complementari, del Dio immanente: spetterebbe così al fuoco la parte metodicamente formativa, allo pneuma la parte vivificante. In questa maniera si comprenderebbe anche il fatto che Cleante riconduce al fuoco la tensione del cosmo (Lapidge 1978, 173). 72 Lapidge 1978, 171. 73 Cfr. Lapidge 1978, 182-183. Diventa inoltre complementare l’immagine 70
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ripete in continuazione, cosicché ad un cosmo ne segue un altro o, più precisamente: lo stesso cosmo si rinnova ogni volta da sé stesso. Ogni cosmogonia è in tutto simile alla precedente (e ad ognuna delle più antiche e delle future): l’intelletto divino infatti opera con un elevatissimo grado di razionalità, facendo in modo che tutti i mondi e i loro cicli si corrispondano esattamente, ivi compresa la determinazione della vita e delle azioni umane. D’altra parte non c’è nessun altro mondo parallelo al cosmo di volta in volta esistente, anzi non c’è niente.74 L’aspetto passivo della materia primigenia si differenzia attraverso l’azione del principio attivo in primo luogo nei quattro elementi, a cui corrispondono qualità caratterizzanti. Perciò rimangono possibili le mutazioni: l’acqua corrente può raffreddarsi al punto tale da solidificarsi in ghiaccio e formare un certo tipo di terra. Oppure può evaporare a causa del calore e divenire in qualche maniera aria; infine questa può riscaldarsi e quindi divenire sempre più fine e sottile, così da trasformarsi in fuoco. Per la cosmogonia l’unità di questa materia si plasma fino a divenire sfera celeste, che esternamente contiene il cielo delle stelle fisse e i pianeti in sfere concentriche. Nel mezzo, intesa come centro di gravità, si trova la terra, l’elemento più pesante. Essa è di forma sferica e, poiché si trova nel centro di attrazione, gli uomini possono anche vivere in parti opposte (in qualche misura sopra o sotto). In relazione al suo peso specifico l’acqua si trova sulla superficie terrestre, al di sopra l’aria, e più in alto ancora il fuoco, che arriva fino alla luna. Oltre questa zona si trova l’etere, come quinto elemento secondo il modello aristotelico; 75 esso è il fuoco generante, che si trova in cielo in pura forma e permea e si intreccia con tutto il resto.76 Perciò il cielo è considerato divino; in particolare ciò vale per i corpi celesti che si muovono secondo una regola (cioè razionalmente), sotto ai quali svolge la funzione di guida dei corpi presenti nel mondo il sole, quando non l’etere come tale della fine del mondo come diluvio, senza che se ne dia una sintesi plausibile, cfr. Seneca, Nat. quaest. III 27-28. 74 La tradizione dossografica fa pensare ad uno spazio vuoto, tuttavia Lapidge 1978, 177 lo ritiene un fraintendimento (intenzionale o meno). 75 Così Zenone secondo Lapidge 1978, 178-179. 76 Tuttavia si trova anche la più semplice equazione di etere e zona del fuoco, cfr. Cic., De nat. II 42.
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o la sua forma più pura. Anche il cambio delle stagioni e la partizione della terra in cinque zone climatiche, provocati ogni volta dal movimento dei corpi celesti, sono prove dell’amministrazione divina del cosmo. Come terzo modello è da citare quello platonico. Sebbene l’epicureismo e lo stoicismo siano le correnti di pensiero dominanti nel primo secolo avanti Cristo, tuttavia anche l’Accademia ha i suoi rappresentanti, e tra questi il più importante scrittore di opere filosofiche in lingua latina (insieme a Lucrezio): Marco Tullio Cicerone. In effetti Cicerone è da ascrivere alla corrente scettica e non alla linea dogmatica del platonismo. Q uesto influisce anche sul De natura deorum, poiché da una parte l’accademico Cotta dichiara un dubbio: egli contesta infatti che la coerenza interna della natura sarebbe la dimostrazione dell’opera divina (III 28), e che il mondo potrebbe essere eterno, poiché ogni corpo fisico è caduco e mortale (III 29-32).77 Ma, d’altra parte, egli non fornisce alcun modello. Invece la traduzione di Cicerone del Timeo tiene presente gli insegnamenti cosmologici di Platone, sui quali darò alcuni accenni adesso.78 Fondante è la distinzione tra il campo dell’essere e quello del divenire. Il primo è accessibile al solo pensiero, il secondo alle percezioni sensoriali. Ad esso appartiene anche il cosmo. Dal momento che ogni divenire esiste a seguito di una causa, anche il cosmo deve avere una causa. Il suo creatore è dio, che è in sé buono e in base a ciò vuole che tutto il resto sia il più possibile buono. Perciò plasma, sul modello dell’Essere, il Visibile, che egli rinviene in uno stato di moto disordinato. Così si presuppone una pluralità di principi. Da una parte è la materia che sta alla base del cosmo e viene designata come il Visibile o come spazio o campo (il termine greco χώρα li definisce entrambi),79 dall’altra il demiurgo trascendente,80 che la plasma secondo il modello delle 77 Ulteriori argomenti: la caducità sarebbe conseguenza della facoltà di percezione attribuita al cosmo, III 32-34; una preferenza del fuoco sarebbe illogica, III 35-37. 78 Harrauer 2007 e soprattutto Schneeweiss 2011 vedono riferimenti al Timeo anche nelle affermazioni cosmologiche delle Metamorfosi di Ovidio. 79 Sulla problematica della materia nel Timeo cfr. Tornau 350-351, sui tre principi 358-359. 80 Cfr. Johansen 2004, 79-80.
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idee; già negli antichi commenti al Timeo è oggetto di discussione se queste rappresentino un principio a sé stante o se siano da identificare da ultimo con il demiurgo (come contenuto del suo pensiero). La metafora usata fa leva su due principi, uno paterno e creatore,81 l’altro materno e accogliente: il figlio generato dai due è il cosmo. Il cosmo però è soltanto una rappresentazione dell’essere e perciò imperfetta; ma, allo stesso tempo, esso è il più bello di tutti i generati. Tutto ciò che possiede intelletto e anima è migliore di ciò che non li possiede. Q uindi anche il cosmo è animato e possiede un intelletto; di conseguenza è esso stesso un dio.82 Inoltre egli contiene tutta la vita, perché altrimenti potrebbe essere ancora migliore. Ne consegue che può esistere anche solo un cosmo. La regolarità e la razionalità della cosmogonia del Timeo si esprime attraverso l’orientamento a rapporti numerici e principi strutturali geometrici o stereometrici, sui quali vengono fondate non solo la forma sferica del mondo, ma anche la quadripartizione degli elementi, così come le loro specifiche qualità di base. Certo, gli elementi si presentano in varianti differenziate (ad esempio l’aria limpida o nebbiosa), ma, attraverso divisioni e nuove combinazioni dei loro componenti originari, che sono rappresentati come triangoli, possono trasformarsi l’uno nel l’altro. Nel momento in cui si dà forma alla materia, gli elementi hanno un proprio posto a seconda del loro peso specifico; poiché la forma sferica del mondo è data per scontata, non c’è più un sopra e un sotto in senso assoluto, ma solo in senso relativo con riferimento al centro e alla periferia. La terra si trova al centro come elemento più pesante, visto che ciò che è pesante tende verso quello che è pesante.83 Essa è ricoperta in parte di acqua, sulla quale si trova l’aria e infine sopra a tutto la zona del fuoco celeste, divisa in sette sfere di pianeti, che sono racchiuse dalla sfera delle stelle fisse, grazie al moto delle quali si origina il tempo e quindi l’anno, i mesi, il giorno e la notte. 81 In Tim. 50c7-d3 la funzione paterna-creatrice è attribuita alle idee; il Demiurgo o è visto come identico a queste o piuttosto sono le idee a corrispondere al seme paterno che si trova nel bambino – diversamente dal padre stesso. Cfr. comunque anche la discussione in Johansen 2004, 81-83. 82 Tim. 34b8, 92c7. 83 Tim. 63e3-7.
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Per dar vita al cosmo il demiurgo crea l’anima del mondo, la cui divisione in otto parti è ispirata alle sfere celesti (sette pianeti e il cielo delle stelle fisse) e la cui forma come due cerchi inclinati l’uno nell’altro, come li descrive Platone, è modellata sulla combinazione dell’equatore celeste con la fascia dello zodiaco. Essa avvolge e contemporaneamente permea il cosmo. Le singole zone del mondo sono abitate da forme di vita, la terra dagli animali, l’acqua dai pesci, l’aria dagli uccelli, prima però il cielo dagli dei astrali. A questi (come agli altri dei, la cui origine e localizzazione viene lasciata aperta) spetta animare e gestire il resto del cosmo, sebbene le singole anime vengano create dal demiurgo, o, più precisamente, la parte immortale delle anime umane.84 L’assegnazione dei corpi, cominciando dalle stelle e così via fino prima all’uomo, poi alla donna, per scender alla fauna, corrisponde al comportamento umano, che si ripercuote in maniera corrispondente sulle migrazioni delle anime di corpo in corpo. Il cosmo è certamente creato e, secondo i principi della logica platonica, sarebbe perciò anche mortale, ma, per volontà del dio creatore, è immortale.85 Già nell’antichità era discusso il modo in cui dovesse essere interpretato il racconto della creazione del mondo nel Timeo: come racconto di un fatto avvenuto in un tempo preciso o come narrazione didattica ai fini della comprensione di una determinata struttura. In ogni caso l’immortalità del mondo rimane una caratteristica della cosmologia platonica. (4) Sin qui una breve rassegna delle idee cosmologiche e, soprattutto, cosmogoniche, che è da ritenere fossero ben note a Roma al tempo di Properzio. È evidente che non abbiamo potuto spiegare ogni particolarità, né i problemi della ricerca, né, tantomeno, le modificazioni presenti nei singoli autori all’interno delle diverse scuole o forme di sincretismo. Ma questi dati possono essere sufficienti a fornire informazioni di base relative al nostro contesto. Poiché essi evidenziano che un’esatta attribuzione dei temi trattati in Properzio è comunque difficilmente possibile, come mostra uno sguardo al testo (v. 25-46). Mentre la parola-chiave natura (v. 25) fa pensare prima di tutto a Lucrezio, lo fa molto Tim. 41d4-42a3, 69c5-8. Tim 41a7-b6; formulato in maniera generica e applicato agli dei minori.
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di meno il quis deus (v. 26),86 sebbene la formulazione interrogativa consentirebbe anche la risposta epicurea nullus.87 Ma arte (v. 26) 88 rimanda piuttosto al demiurgo platonico o allo stoico πῦρ τεχνικόν. Le questioni astronomiche rimandano alla fondamentale opposizione tra Epicuro da una parte e dall’altra i Platonici e gli Stoici, mentre la questione sulla fine del mondo (v. 31) fa pensare ad una synkrisis tra le tesi platoniche sull’eternità, il concetto di ciclicità nello stoicismo e l’insegnamento epicureico di un contingente nascere e morire del mondo. La maggior parte delle altre questioni riguardano i vari aspetti del cielo, dal punto di vista astronomico ed astrologico, che suscitano stupore in diverse maniere: accanto ai movimenti regolari delle stelle stanno fenomeni come l’arcobaleno o eventi percepiti come minacciosi, quali il terremoto o l’eclissi solare. Anche a questo riguardo i filosofi naturali manifestano diversi orientamenti; ma torna soprattutto alla mente Epicuro, per cui è importante la spiegazione naturale dei fenomeni potenzialmente preoccupanti, visto che egli vuole escludere un intervento divino e conseguentemente bandire la causa della paura degli dei. Con la questione sull’esistenza e sul l’essenza dell’oltretomba (v. 39-46) si abbandona una vera e propria prospettiva cosmologica, anche se la localizzazione sub terris apparentemente vi si collega.89 Anche questo tema rende impossibile un’attribuzione chiara. Per lo stoicismo le anime sono mortali e l’oltretomba un mito, così come per Epicuro; però è importante per lui liberare gli uomini dalla paura delle pene dell’aldilà e di conseguenza rendere il tema significativo, come si dimostra anche nella spiegazione che si trova in Lucrezio III 978-1023.90 Per Platone infine il giudizio ultraterreno sulle anime immortali è alla base della sua psicologia e della sua etica, anche se non sareb Escluso troppo categoricamente da La Penna 1995, 316. La domanda quindi non è una dimostrazione dell’incapacità per la filosofia naturale, come Heyworth – Morwood 2011, 141 intendono. 88 Heyworth – Morwood 2011 sospettano che sia un luogo corrotto; dubbio superfluo come anche quello su hanc mundi … domum: ‘questo mondo in cui noi viviamo’ (non: ‘the adjacent part of the universe, whether the earth or Europe’). 89 Cfr. la localizzazione cosmologica dell’oltretomba in Virgilio, Georgica I 242-243. 90 Cfr. anche il commento in Kenney 22014, 209-218, con cenni allo spe cifico carattere letterario di questo mito. 86
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bero da prendere alla lettera le immagini di Properzio già citate. Cicerone da parte sua respinge categoricamente tali timori del l’aldilà.91 Il prevedibile rifiuto delle rappresentazioni mitologiche sarebbe sin qui conciliabile con le tre correnti filosofiche citate, mentre la particolareggiata tematizzazione può essere accostata ad una synkrisis in particolare di Platone e Epicuro, o anche solamente ad interessi epicurei.92 Perfino la presa di distanza finale dall’attività bellica (in cui l’accenno alle insegne di Crasso certamente viene in appoggio alle tendenze della politica estera del l’epoca) 93 si può interpretare, su questo sfondo, in riferimento all’atarassia come fine dell’epicurea osservazione della natura, e allo stesso tempo come richiamo dell’epicureico λάθε βιώσας; tuttavia il poeta elegiaco non può essere considerato un rappresentante dell’ideale di vita epicureico.94 Per la comprensione della lista delle istanze filosofiche però, non è per nulla sufficiente cercare di attribuire i singoli temi e le singole posizioni a specifiche tendenze della filosofia.95 Possiamo aggiungere, in particolare, due aspetti. Da una parte stupisce l’inserimento della questione della rovina del mondo tra i due temi complementari delle nuvole e dell’arcobaleno (visto che le nuvole hanno l’acqua perché essa raggiunge il cielo proprio tramite l’arcobaleno, v. 30-32); 96 ne deriva come conseguenza una certa arbitrarietà della questione e sorge il dubbio sulla serietà dell’interesse verso la filosofia naturale. Dall’altra parte esiste un significativo contrasto nei riguardi del passaggio in Georgica II 475-482, che, come abbiamo visto, rappresenta il modello più vicino per il catalogo in Properzio. Esso è composto in maniera Tusc. I 48. In entrambi casi il punto centrale è l’etica; con questo si riprenderebbe l’impronta morale della prima parte della poesia (óptica ‘filosófica’, Álvarez Hernández 1997, 240-241), presente certamente anche nella parte finale, che chiude il cerchio attraverso i suoi chiari riferimenti; cfr. anche Stahl 1985, 189212. 93 Cfr. anche Álvarez Hernández 1997, 240. 94 Sulla questione dell’epicureismo in Properzio III 5 cfr. le brevi osservazioni in Ferraro 2010, 201-202 (con ulteriori dati). Kayachev 2013 considera Properzio come un ‘imperfect Epicurean’, ma egli sarebbe naturalmente in ogni caso anche uno stoico o un platonico imperfetto. 95 Cfr. anche Syndikus 2010, 233-234. 96 Cfr. Fedeli 1985, 194-195. 91
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assai più sobria (anche in confronto al tema georgico indicato come alternativa), mentre in Properzio la descrizione dell’eclissi solare insinua in qualche modo che la causa possa essere il lutto del sole (luxerit, v. 34, è in questo senso ambiguo) 97 e perciò fa pensare piuttosto alla sua reazione all’assassinio di Giulio Cesare in Georgica I 466-468. In generale per Properzio le personificazioni sono caratteristiche tali per cui i fenomeni astronomici e le figure mitiche diventano indistinguibili 98 e perciò richiamano direttamente la lista delle descrizioni mitiche dell’oltretomba. Il catalogo delle questioni filosofiche diventa in questo modo quasi indistinguibile da un catalogo di episodi mitici e ne condivide il carattere epidittico.99 Si trasforma in un puro fenomeno letterario, con il quale il poeta doctus sfida il suo lettore non solo sul terreno della conoscenza mitologica, ma anche su quello della filosofia naturale.100 Q uesto rapporto ludico con la filosofia naturale sottolinea il carattere della poesia come una recusatio in più fasi: Infatti, non solo il rifiuto momentaneo del tema bellico a favore della poesia amorosa è una recusatio di primo ordine, come l’annuncio di una futura poesia filosofica al posto di quella bellica è una recusatio di secondo ordine, che la supera; ma, a causa della sua forma giocosamente epidittica,101 questo annuncio mina la sua stessa credibilità,102 nel rinnovare allo stesso tempo il rifiuto della poesia bellica come ultima parola. Perciò si rivela addirittura come recusatio di terzo ordine, che, tramite il suo effetto di approfondimento, manifesta tanto più espressamente il rifiuto della poesia bellica.103
Cfr. Fedeli 1985, 195 con rimando a ThLL VII 2 col. 1692, 73; 1692, 22-23. 98 Eurus in v. 29-30, Bootes in v. 35, Pleiadum … chorus in v. 36. 99 Cfr. anche Ferraro 2010, 207 sulla mancanza di un interesse sistematico. 100 E naturalmente sul piano letterario; si veda sopra nota 34. 101 A ciò concorre anche quello che Mader 2003, 127 definisce ‘hyperinflation of cosmological and related topics’. 102 Cfr. anche Conte 2000 sui riferimenti scherzosi a Lucrezio IV, 1-17, che hanno il medesimo effetto. 103 Ringrazio Arturo Álvarez per la sua attenta lettura del manoscritto e i suoi suggerimenti. 97
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Abstracts L’elegia III 5 di Properzio è una complessa recusatio con rimandi intratestuali a II 10 e intertestuali a Tibullo e Virgilio. L’elegia II 10 è di per sé una recusatio a due stadi che definisce il giovane poeta d’amore non solo incapace di innalzarsi alla poesia bellica, rimandandola alla vecchiaia, ma anche al genere intermedio della poesia didattica, per il momento ancora fuori dalle sue possibilità. L’elegia III 5 riprende l’opposizione di guerra e amore (elaborata con forti allusioni a Tibullo I 1 e I 10); associando, però, amore e giovinezza, non combina invece vecchiaia e guerra, ma vecchiaia e filosofia naturale (come tema della poesia didattica). Così sviluppa ancora la struttura a due stadi dell’elegia II 10: la poesia bellica già non è più procrastinata alla vecchiaia, ma scartata completamente, mentre viene rinviata la poesia sulla filosofia naturale (le formulazioni rimandano alla recusatio in Virgilio, Georgiche II nella quale il poeta si dichiara incapace della tematica elevatissima di Lucrezio). Una panoramica delle teorie cosmologiche delle scuole filosofiche del tempo, però, evidenzia che l’approccio di Properzio è non solo eclettico e disorganico, ma anche ludico e epidittico soprattutto per il passaggio alla mitologia. Così viene minata la serietà del progetto filosofico, con il risultato di proporre una recusatio di terzo grado. Propertius III 5 is a complex recusatio, referring intra-textually to II 10 and inter-textually to Tibullus and Virgil. Propertius II 10 is itself a two-stage recusatio, declaring that the young love-poet is incapable of composing not only in the high genre of martial poetry, which is appropriately deferred until old age, but even in the intermediate genre of didactic poetry, which for the moment, it is still impossible to write. III 5 takes up the opposition of war and love (elaborated with strong allusions to Tibullus I 1 and I 10), but, while linking love to youth, it does not coordinate old age and war, but rather old age with natural philosophy (as a topic for didactic poetry), thus further developing the two-stage structure of II 10: martial poetry is no longer deferred until old age, but completely dismissed, whereas poetry on natural philosophy is itself postponed (the wording reminds us of the recusatio in Virgil, Georgics II, where the poet declares himself incompetent to write on topics of Lucretian loftiness). An overview of cosmological theories of the contemporaneous philosophical schools, however, reveals that Propertius’ approach is not only eclectic and non-systematic, but even playful and epideictic, lapsing into the mythological. Thus, the seriousness of the philosophical project is undermined, which amounts yet a third stage of recusatio.
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ECHI DEGLI INTERVENTI AUGUSTEI SUL SENATO NEL Q UARTO LIBRO DELLE ELEGIE DI PROPERZIO (4.1.11-14)
1. È nei versi di apertura dell’Elegia proemiale del suo libro IV che Properzio inserisce, coerentemente con lo spirito del libro stesso, l’unico esplicito richiamo presente nella sua opera ad una realtà istituzionale romana: il Senato.1 Il poeta introduce non senza solennità uno straniero immaginario 2 nella Roma maxima, quella augustea; 3 guida il suo sguardo sulla città come appare ora: i templi sontuosi, la curia superba e splendente con i senatori in toga pretesta, i teatri forniti di vela e profumati di croco; 4 al contempo, in uno scarto cronologico (e concettuale), richiama dal passato quei luoghi e i suoi abitanti e li ritrae nella rustica semplicità del tempo antico (vv. 1-16).5 Paolo Fedeli osservava a proposito di questi versi: «Non a caso, inoltre, lo sguardo si sposta subito dopo gli aurea templa sulla Curia e sui senatori antichi e contemporanei: poiché il Senato è il simbolo della persistenza dei valori repubblicani, ci si rende conto che nel tessere l’elogio del programma edilizio di Augusto, il poeta ha messo in luce, oltre al suo rispetto dei valori religiosi tradizionali (l’architettura sacrale) anche quelli della continuità fra ideologia imperiale e antichi valori repubblicani».6 Egli coglieva, dunque, proprio nel 1 Il richiamo ai comizi è contenuto, come si vedrà, nella immagine dei Q uirites convocati in assemblea (v.13), cfr. Fedeli 2015, 185. 2 Sull’hospes, ivi, 160; 162-164. 3 Ivi, 74-75; in particolare sul rapporto tra la trasformazione di Roma e quella del ruolo del poeta, 79; sul confronto tra la passeggiata dell’hospes guidato dal poe ta e quella di Evandro condotto da Enea nel libro VIII dell’Eneide, 160. 4 Per una descrizione dettagliata dei luoghi evocati nei versi, ivi, 166-189. 5 Ivi, 151-152; 171-174. 6 Ivi, 130-131.
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riferimento al Senato l’intenzione di Properzio di leggere la storia augustea in continuità con quella repubblicana: non certo quella recente, delle guerre civili, ma quella antica. Il motivo della continuità con i valori degli antenati, e anzi il ripristino dei costumi dei maiores ormai caduti in disuso, è il centro della ideologia augustea; 7 un recupero che, è noto, non è contemplazione nostalgica o rimpianto sentimentale del tempo andato, bensì disposizione attiva: una strategia di ristrutturazione del futuro politico e istituzionale di Roma, dopo le guerre civili, da parte di Augusto, coerente con la mentalità romana tradizionale.8 Lungo questa linea si inseriscono i versi di Properzio; come si riferiva poc’anzi, con il richiamo agli aurea templa del l’età di Augusto e alle strutture della vita religiosa antica, Properzio coglieva non soltanto il riferimento alla politica edilizia del principe, e al suo impatto simbolico nella architettura della città, ma anche alla sua politica religiosa e, più in generale, al suo intero disegno ideologico.9 Una riflessione equivalente richiede pertanto il riferimento al Senato e ai senatori evocati in connessione con la Curia Iulia ai versi 11-14, tanto più che la composizione di questo IV libro delle Elegie è contemporanea ad una fase cruciale degli interventi augustei di revisione dell’ordinamento e della composizione del Senato: la sua stesura si colloca, infatti, entro il 16 a.C.10 Ottaviano già dal 29 a.C. aveva avviato la sua azione di riordino del Senato che avrebbe concluso successivamente, nel 9 a.C., con la lex Iulia de senatu habendo,11 la prima legge che disciplinava 7 Lo osserva a distanza di tempo anche Tac., Ann. 4.16: (…) ita medendum senatus decreto aut lege, sicut Augustus quaedam ex horrida illa antiquitate ad praesentem usum flexisset. 8 La stessa è espressa da Properzio, che resta estraneo ai toni della rievocazione nostalgica e sottolinea piuttosto la piena continuità tra la Roma delle origini e quella restaurata da Augusto, Gazich 1997, 308; 314, con il quale concorda Fedeli 2015, 152-155. 9 Ivi, 154-155. 10 Ivi, 66-67. 11 La natura giuridica di questo provvedimento è dibattuta: Chastagnol 1990, 159, pensava ad un senatoconsulto; Willems 1883, 144, 166, 223; Talbert 1984a, 55-63, e recentemente Bonnefond Coudry 1989, 256 e Ead. 2007, ritengono che si tratti di una lex; Bonnefond cita a riguardo l’uso da parte di Cassio Dione di νόμος (55.3.1), διενομοθήτεσε (55.3.2) ἐνομοθῆτεσεν (55.4.1) e di lex da parte di Seneca (braev. Vitae 20.4), Plinio Il Giovane (ep. 5.13.5; 8.14.9; 8.14.20) e Aulo Gellio (4.10.1), il quale però non esplicita il richiamo alla Iulia, sebbene
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sistematicamente le procedure di funzionamento del Senato, fino ad allora orientate dalla sola consuetudine.12 Nei vent’anni in cui queste operazioni si svolsero non mancarono manifestazioni di tensione e di aperta ostilità nei confronti del principe da parte di quei senatori che ne avversarono le decisioni.13 In questo quadro converrà pertanto interrogarsi sugli eventuali riverberi di questa fase e delle sue dinamiche nei versi properziani che richiamano il Senato e sul ruolo che a questi versi il poeta attribuiva. Sarà necessario, dunque, illustrare preliminarmente alcuni noti passaggi fondamentali del percorso augusteo in materia di Senato. 2. Un famoso passo della Vita di Augusto di Svetonio (35) riassume l’intervento del principe, partendo dalle condizioni del Senato all’indomani di Azio: Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos uulgus uocabat ad modum pristinum et splendorem redegit duabus lectionibus.
Rispetto ad un Senatus ormai snaturato dalle cooptazioni convulse verificatesi durante le guerre civili e divenuto ormai una massa (contava più di mille membri) scomposta e senza volto, Ottaviano nel 29 a.C., nel suo più generale disegno di restitutio
faccia riferimento ad uno degli aspetti disciplinati dalla legge, ossia il ius primae sententiae per le questioni relative a faccende importanti (cfr. infra). S’intende che il potere in virtù del quale Augusto si fece promotore del provvedimento ne fa tecnicamente un plebiscito. 12 La legge doveva naturalmente comprendere numerosi altri temi, oltre a quelli restituiti dalle fonti. Per Talbert 1984a, 55-63; Id. 1984b, 222-224 e 488, la legge costituì uno sforzo innovativo di normalizzazione delle procedure di funzionamento del Senato fino a quel momento legate alla consuetudine; la sua novità era questa, piuttosto che la proposta di forme procedurali diverse dal passato; sulla legge cfr. la scheda di Bonnefond Coudry 2007; sulla storia degli studi intorno alla legge Giulia, sul tema dell’assenteismo, dunque sulle relazioni tra Augusto e senato, cfr. (con ampia bibliografia) Scott Perry 2014, 48-64. 13 Cfr. Chastagnol 1980, 468; 475-476, che sottolinea anche la durezza delle misure augustee; Id. 1992, 56, evidenzia che gli atteggiamenti ostili, manifestati soprattutto dai giovani del l’aristocrazia senatoria, esprimevano profonda delusione per la forma che le istituzioni tradizionali stavano assumendo «trop affadie à leurs yeux».
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rei publicae,14 promosse la prima lectio senatus dopo quella del 50 a.C.; la concluderà nel 28 a.C. In quell’occasione Ottaviano assumerà il titolo di princeps Senatus, mentre l’assemblea senatoria sarà ridotta di duecento membri. È del 18 a.C. la seconda lectio dalla quale il numero dei senatori risulterà ridotto a seicento, sebbene i propositi di Augusto fossero quelli di raggiungere il numero di trecento. Seguirono a queste, altre due lectiones, una nell’11 a.C. e, infine, un’ultima, successiva alla lex Iulia de senatu habendo, nel 4 a.C.15 La progressiva riduzione del numero dei senatori fu resa possibile, soprattutto a partire dal 18 a.C, dal ricorso a misure restrittive; 16 sono note tra quelle di lunga durata le disposizioni che modificarono e regolamentarono i requisiti di accesso al Senato: l’istituzione tra il 18 e il 16 a.C. di un censo minimo, fissato prima del 13 a.C. ad un milione di sesterzi; 17 l’introduzione del criterio di ereditarietà (riferito a figli e nipoti di senatori); la questura come magistratura di ingresso e, al contempo, la diminuzione del numero dei questori da 40 a 20 e la riduzione dell’età richiesta per accedere alla carica da 30 a 25 anni; infine la clausola che i senatori risiedessero a Roma.18 Sono i resoconti di Svetonio (Aug. 35) e Cassio Dione (55.3.1-5) a tramandare le informazioni più dettagliate intorno alle novità augustee: da entrambi trapela come prioritario l’obiettivo di ridare al Senato un ruolo consapevole e attivo.19 Svetonio, dopo Per il valore di restitutio, Todisco 2007, 341-358; Mantovani 2008, 5-54. Chastagnol 1980, 472-474; la terza lectio nell’11 a.C. diede vita ad un nuovo albo di senatori (C.D. 54.35.1); andrà precisato che la quarta lectio, del 4 a.C., fu gestita da triumviri nominati da Augusto. 16 La prima lectio fu condotta da Ottaviano e Agrippa insieme; tra i senatori che lasciarono il Senato 50 lo fecero volontariamente, 150 furono indotti; per la seconda Augusto designò 30 senatori tra i più meritevoli e impose a ciascuno di loro di nominare cinque membri (uno sorteggiato); procedette, dunque, alla stessa maniera con i sessanta così individuati. Le procedure tuttavia si incepparono, sicché egli stesso, in prima persona, acquisì il controllo delle operazioni. Cfr. Chastagnol 1980, 467; per la durezza della misura del 18, Talbert 1984a, 57. 17 Ivi, 467, ritiene che ciò accadde prima che Augusto partisse alla volta delle Gallie, della Germania e delle Spagne. 18 Cfr. Chastagnol 1980, 465-468; Talbert 1984a, 55-63. 19 Ivi, 465, ritiene che essi seguano entrambi Plinio il Vecchio; le due versioni mostrano aspetti coincidenti, sebbene organizzati secondo uno schema differente. 14 15
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aver introdotto l’argomento, riferisce le lectiones di Augusto e il clima in cui furono svolte.20 Per rendere più consapevole e dignitosa la partecipazione dei senatori, il princeps stabilì che ciascuno di loro prima dell’inizio della seduta, offrisse libagioni in onore della divinità alla quale era dedicato il tempio sede dell’assemblea; stabilì inoltre che fossero previste due riunioni al mese e che cadessero alle Calende e alle Idi; che a settembre e ad ottobre fossero tenuti a partecipare alle riunioni solo i senatori sorteggiati, pari al quorum necessario all’approvazione delle delibere; che fossero individuate, tramite estrazione a sorte, commissioni semestrali con le quali discutere anticipatamente gli argomenti prima di portarli al voto dell’assemblea generale del Senato. Infine, informa Svetonio che Augusto sulle questioni più importanti si riservò il diritto di scegliere a chi attribuire il ius primae sententiae, di modo che ciascuno potesse esprimere il proprio parere secondo la propria intenzione e non fosse tenuto ad assecondare le opinioni altrui.21 Q uanto a Cassio Dione (55.3.1-5), egli comincia direttamente dal calendario dei lavori del Senato, attribuendo alla mancanza di una indicazione specifica dei giorni destinati alle sedute la responsabilità dell’assenteismo dei senatori: ad essere prescelti sono le Idi e le Calende di ogni mese; si stabilisce che in quei giorni non si svolgessero altre riunioni, proprio per obbligare i convocati ad essere presenti nella Curia; è definito il quorum necessario per deliberare, differente a seconda dell’oggetto della discussione; sono aggravate le sanzioni per gli assenti; benché, ricorda Dione, essendo il loro numero molto elevato è previsto Cfr. infra. Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba (erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos uulgus uocabat) ad modum pristinum et splendorem redegit duabus lectionibus: prima ipsorum arbitratu, quo uir uirum legit, secunda suo et Agrippae (…) autem lecti probatique et religiosius et minore molestia senatoria munera fungerentur, sanxit, ut prius quam consideret quisque ture ac mero supplicaret apud aram eius dei, in cuius templo coiretur, et ne plus quam bis in mense legitimus senatus ageretur, Kalendis et Idibus, neue Septembri Octobriue mense ullos adesse alios necesse esset quam sorte ductos, per quorum numerum decreta confici possent; sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tractaret. sententias de maiore negotio non more atque ordine sed prout libuisset perrogabat, ut perinde quisque animum intenderet ac si censendum magis quam adsentiendum esset. 20
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che venga estratto a sorte colui da punire nella proporzione di uno ogni cinque assenti; si stabilisce inoltre di registrare su un albo tutti i senatori. Q ualora non si fossero verificate le condizioni stabilite, è detto che le decisioni del Senato avessero valore di auctoritates; soltanto in seguito, approvate queste decisioni secondo le procedure richieste, esse avrebbero assunto valore di senatoconsulto.22 L’obiettivo al quale gli interventi citati miravano, secondo la prospettiva dei rendiconti tramandati, è esplicitamente dichiarato: migliorare la partecipazione dei senatori alle sedute sia nel numero 23 sia nella qualità (Svet. Aug. 35: (…) et religiosius 24 et minore modestia senatoria munera fungerentur): si trattava di ridare vigore al Senato e ricondurlo allo splendore antico; un obiettivo dal forte valore simbolico in ambito politico-ideologico: 22 τοῦτο μὲν δὴ τοιοῦτόν ἐστιν, ὁ δ᾽ Αὔγουστος τάς τε τῆς γερουσίας ἕδρας ἐν ῥηταῖς ἡμέραις γίγνεσθαι ἐκέλευσεν (῾ἐπειδὴ γὰρ οὐδὲν πρότερον ἀκριβῶς περὶ αὐτῶν ἐτέτακτο καί τινες διὰ τοῦτο πολλάκις ὑστέριζον, δύο βουλὰς κατὰ μῆνα κυρίας ἀπέδειξεν, ὥστε ἐς αὐτὰς ἐπάναγκες, οὕς γε καὶ ὁ νόμος ἐκάλει, συμφοιτᾶν; καὶ ὅπως γε μηδ᾽ ἄλλη μηδεμία σκῆψις τῆς ἀπουσίας αὐτοῖς ὑπάρχῃ, προσέταξε μήτε δικαστήριον μήτ᾽ ἄλλο μηδὲν τῶν προσηκόντων σφίσιν ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ γίγνεσθαἰ), τόν τε ἀριθμὸν τὸν ἐς τὴν κύρωσιν τῶν δογμάτων ἀναγκαῖον καθ᾽ ἕκαστον εἶδος αὐτῶν, ὥς γε ἐν κεφαλαίοις εἰπεῖν, διενομοθέτησε, καὶ τὰ ζημιώματα τοῖς μὴ δι᾽ εὔλογόν τινα αἰτίαν τῆς συνεδρείας ἀπολειπομένοις ἐπηύξησεν. ἐπειδή τε πολλὰ τῶν τοιούτων ὑπὸ τοῦ πλήθους τῶν ὑπευθύνων ἀτιμώρητα εἴωθε γίγνεσθαι, κληροῦσθαί τε αὐτοὺς εἰ συχνοὶ τοῦτο ποιήσειαν, καὶ τὸν ἀεὶ πέμπτον λαχόντα ὀφλισκάνειν αὐτὰ ἐκέλευσε. τά τε ὀνόματα συμπάντων τῶν βουλευόντων ἐς λεύκωμα ἀναγράψας ἐξέθηκε· καὶ ἐξ ἐκείνου καὶ νῦν κατ᾽ἔτος τοῦτο ποιεῖται. ταῦτα μὲν ἐπὶ τῇ τῆς συμφοιτήσεως αὐτῶν ἀνάγκῃ ἔπραξεν· εἰ δ᾽ οὖν ποτε ἐκ συντυχίας τινὸς μὴ συλλεχθεῖεν ὅσους ἡ χρεία ἑκάστοτε ἐκάλει ῾πλὴν γὰρ ὅτι ὁσάκις ἂν αὐτὸς ὁ αὐτοκράτωρ παρῇ, ἔν γε ταῖς ἄλλαις ἡμέραις ἐς πάντα ὀλίγου τὸ τῶν ἀθροιζομένων πλῆθος καὶ τότε καὶ μετὰ ταῦτα ἀκριβῶς ἐξητάζετὀ, ἐβουλεύοντο μὲν καὶ ἥ γε γνώμη συνεγράφετο, οὐ μέντοι καὶ τέλος τι ὡς κεκυρωμένη ἐλάμβανεν, ἀλλὰ αὐκτώριτας ἐγίγνετο, ὅπως φανερὸν τὸ βούλημα αὐτῶν ᾖ. τοιοῦτον γάρ τι ἡ δύναμις τοῦ ὀνόματος τούτου δηλοῖ: ἑλληνίσαι γὰρ αὐτὸ καθάπαξ ἀδύνατόν ἐστι. τὸ δ᾽ αὐτὸ τοῦτο καὶ εἴ ποτε ἐν τόπῳ τινὶ μὴ νενομισμένῳ ἢ ἡμέρᾳ μὴ καθηκούσῃ, ἢ καὶ ἔξω νομίμου παραγγέλματος, ὑπὸ σπουδῆς ἠθροίσθησαν, ἢ καὶ ἐναντιωθέντων τινῶν δημάρχων τὸ μὲν δόγμα οὐκ ἠδυνήθη γενέσθαι, τὴν δὲ δὴ γνώμην σφῶν οὐχ ὑπέμενον ἀποκρυφθῆναι, ἐνομίζετο; καὶ αὐτῇ μετὰ ταῦτα καὶ ἡ κύρωσις κατὰ τὰ πάτρια ἐπήγετο καὶ ἡ ἐπίκλησιςἡ τοῦ δόγματος ἐπεφέρετο. τοῦτό τε οὖν ἰσχυρῶς ἐπὶ πλεῖστον τοῖς πάλαι τηρηθὲν ἐξίτηλον τρόπον τινὰ ἤδη γέγονε, καὶ τὸ τῶν στρατηγῶν· καὶ γὰρ ἐκεῖνοι ἀγανακτήσαντες ὅτι μηδεμίαν γνώμην, καίτοι τῶν δημάρχων προτετιμημένοι, ἐς τὴν βουλὴν ἐσέφερον, παρὰ μὲν τοῦ Αὐγούστου ἔλαβον αὐτὸ ποιεῖν, ὑπὸ δὲ δὴ τοῦ χρόνου ἀφῃρέθησαν. 23 Bonnefond Coudry 1990, 129-131; 145. 24 Per l’uso di religio, Luois 2010, 105, sebbene valga qui propriamente il valore di osservanza scrupolosa della ritualità.
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un Senato in buona salute, partecipato e libero,25 era la riprova della libertà ripristinata.26 A questa istanza se ne aggiungevano altre che avevano ricadute politiche e sociali.27 Disfunzioni nelle procedure della vita istituzionale del Senato con frequenti strappi alla tradizione e scarsa rappresentatività del l’assemblea si rintracciano diffusamente nella documentazione letteraria di I a.C., in testi di genere differente; 28 la situazione era avvertita nella sua pericolosità, trasversalmente, dalle partes in gioco. Alcune misure nel corso del I a.C. cercarono di intervenire a colpi di leggi a ripristinare consuetudini disattese nei meccanismi di funzionamento delle istituzioni.29 Q uanto all’assenteismo e al problema corrispettivo della concentrazione del potere decisionale nelle mani di pochi senatori, un caso esemplificativo di contrasto a questo comportamento, datato una sessantina di anni prima, il 67 a.C., vede protagonista uno dei tribuni della plebe di 25 In tal modo può interpretarsi la regolamentazione del ius primae sententia la quale prevede che per le questioni più importanti (maiore negotio), il convocante (nella fattispecie Augusto) scegliesse a suo piacimento chi interrogare per primo: si consentiva in tal modo a tutti di seguire il filo del proprio pensiero piuttosto che attenersi all’opinione del primo a parlare individuato more atque ordine (Cfr. Svet. Aug. 35.5; D.C. 55.34.1). Per Talbert 1984a, 55-57; Augusto riprendeva in effetti nelle sue riforme il disegno antico di funzionamento del senato e intendeva effettivamente proporne una rivitalizzazione e incentivare la discussione tra i senatori; della stessa opinione Bonnefond Coudry 1989, 792; Ead. 1995, 231-233; si veda anche Louis 2010, 298. Per una sintesi argomentata, Scott Perry 2014, 48-64. 26 Bonnefond Coudry 1989, 413-418, che cita, tra gli altri, efficacemente Cic., dom. 10; si ricordi, fuori dalla strategia oratoria, quanto riferisce Plinio il Giovane nella lettera scritta ad Aristone (Ep. 8.14): At nos iuuenes (..). Iidem prospeximus curiam, sed curiam trepidam et elinguem, cum dicere quod uelles periculosum, quod nolles miserum esset. Q uid tunc disci potuit, quid didicisse iuuit, cum senatus aut ad otium summum aut ad summum nefas uocaretur, et modo ludibrio modo dolori retentus numquam seria, tristia saepe censeret? Eadem mala iam senatores, iam participes malorum multos per annos uidimus tulimusque 27 Talbert 1984a, 55-56. 28 Cfr. anche Bonnefond Coudry 1989, passim; Moatti 1997, 34; 323-324 ntt. 22-23, Todisco, c.s. 29 Si tese a ripristinare consuetudini disattese in materia di procedure di funzionamento delle istituzioni attraverso la proposta di leggi; andranno così intese, tra le altre, la lex sulla solutio legibus del 67 a.C., la lex Pupia sui giorni di convocazione del Senato del 61 a.C. e, verosimilmente dello stesso anno, la lex Gabinia sul mese di febbraio come riservato alla ricezione delle ambascerie (cfr. Bonnefond Coudry 1989, 229-256; 333-346; Moatti 1997, 34; 323-324 ntt. 22-23 e ora Todisco c.s. con bibliografia); la lex Iulia de senatu habendo del 9 a.C. risponde alla stessa logica.
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quell’anno, Cornelio; in seguito a circostanze che la tradizione restituisce in maniera divergente, il tribuno intervenne per sanare il vulnus istituzionale creatosi in materia di solutio legibus; la facoltà di concederla spettava, infatti, tradizionalmente al popolo, mentre il Senato non solo se l’era arrogata, ma la gestiva in presenza di un pugno di senatori. Cornelio propose pertanto tramite plebiscito che le decisioni relative alla dispensa dal rispetto delle leggi fossero assunte in presenza di un numero di senatori pari almeno a 200 e che qualora qualcuno ne avesse fatto richiesta la decisione sarebbe poi passata all’assemblea popolare.30 L’assenteismo, che certo esprimeva una progressiva disaffezione del civis Romanus dalla vita pubblica,31 era anche un deciso strumento di ostruzionismo nella lotta politica di quegli anni,32 efficace sia ad indebolire la pregnanza delle decisioni del Senato,33 sia a bloccarne le delibere nel caso di temi per i quali fosse stato necessario un quorum di presenti.34
30 La tradizione intorno alle circostanze che condussero alla proposta di plebiscito è duplice: una risale al commento di Asconio alla ciceroniana pro Cornelio (57.8 C-59.2 C) cfr. Marshall 1985, 215-221; Lewis 2006, 262; l’altra è nella tradizione di Cassio Dione (3.38.1-40.2). Le differenze tra le due versioni riguardano le circostanze iniziali dell’azione di Cornelio e la sequenza dei fatti; Asconio rinvia l’inizio del contrasto tra il tribuno ed il Senato ad una relatio del tribuno in materia di prestiti ad interesse ai provinciali; per Cassio Dione la causa è una rogatio di Cornelio in materia di ambitus che inaspriva le pene esistenti, respinta dal Senato. Secondo Griffin 1973, 196-213, ad essere fededegna è la versione di Asconio che avrebbe integrato il testo di Cicerone con altre fonti e avrebbe seguito l’ordine della ricostruzione ciceroniana; così di recente anche Lewis 2006, 262; di opinione diversa McDonald 1929, 203; Kumaniecky 1970; Bonnefond Coudry 1990, 132-133, che propendono per la resa di Cassio Dione. Cfr. complessivamente e all’interno di una riflessione ampia sul quorum e sulle circostanze nelle quali è attestato (a partire da eventi di II a.C.), Bonnefond Coudry 1990, 132-133; per il quorum in età imperiale Chastagnol 1990, 153-162. 31 Pani 2011, 119-131, per la progressiva affermazione di una cultura “della delega”; per le ragioni addotte a giustificare le pratiche di assenteismo, Bonnefond Coudry 1990, 130; 146-149 che cita il moltiplicarsi delle quaestiones, dopo Silla, dunque delle sedute che richiedevano la presenza di senatori membri delle giurie; il desiderio di alcuni senatori di sottrarsi al controllo di quella parte di loro che controllava le decisioni collettive; una sorta di “resistenza passiva”. 32 Bonnefond Coudry 1989, 390-394. 33 Ivi, 413-421. 34 Bonnefond Coudry 1990, 135; sulle questioni relative al quorum mi riservo di ritornare in un contributo di prossima pubblicazione.
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Dagli scritti, anche di genere letterario diverso, di alcuni protagonisti della storia politico-culturale di I a.C. emerge che la crisi del Senato e dei senatori era anche avvertita (o comunicata) come una crisi di modelli comportamentali.35 Si propongono, pertanto, come risposta alla decadenza dei costumi del ceto dirigente modelli attinti dal passato: profili di senatori esemplari, i quali hanno tra le loro caratteristiche l’assiduità nel frequentare la curia, segno del loro interesse vigile per la res publica. In tal senso si può interpretare quanto Cicerone scrive nel de legibus (3.11) e che una decina d’anni dopo fa dichiarare ad un Catone ormai molto avanti in età (Cato maior 38): Venio in senatum frequens ultroue affero res multum et diu cogitatas. Negli stessi anni Varrone, in uno scritto di genere differente dal trattato filosofico ciceroniano, il de vita populi Romani, tramite il quale si sforza di entrare, a suo modo, nella storia del tempo,36 compie una operazione significativa intorno alla etimologia di curia contenuta nel quarto dei quattro libri che compongono l’opera; 37 egli, con una variazione rispetto alla etimologia dello stesso sostantivo nel de Lingua Latina (6.46), propone, verosimilmente nel II libro, in antitesi all’evidente degenerazione contemporanea (materia del libro IV), una definizione che si concentra attorno ad un senatore profondamente compreso nel suo ruolo e che vive col pensiero rivolto alla res publica per il cui bene cerca incessantemente soluzioni 38 (70R = 385S = 69P): 39 Itaque propter curam locus quoque quo suam quisque domo senator confert curia appellata. Si avverte, quindi, come si diceva, l’esigenza di proporre un esempio di senatore che trascorre – come l’enniano Servilio 35 Gabba 1979, 117-141; Talbert 1984a, 57, a proposito del basso profilo etico dei senatori su cui intervenne la riforma augustea: «the level of moral among senators was generally low». 36 Wiseman 2009, 128; Todisco 2017, 495-497. 37 L’opera è modellata sul Βίος Ἠλλάδος di Dicearco di Messina, della metà del IV secolo: la vita del popolo romano è ripercorsa attraverso usi, costumi, istituzioni, secondo una scansione cronologica che si estendeva dal periodo monarchico al più vicino passato, applicando appunto lo schema biologico delle età, cfr. Rawson 1985, p. 243; Purcell 2005, pp. 18-20. Per la ultima edizione del de vita populi Romani, Pittà 2015. 38 Todisco 2017, 489-497. 39 Il frammento è riferito nelle tre edizioni: Riposati 1939; Salvadori 2004; Pittà 2015.
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Gemino (Gell. 12.4) 40 – la gran parte della sua giornata tra il foro e il Senato, nel tentativo di rinsaldare l’auctoritas del Senato anche tramite una ridefinizione etica della figura del senatore.41 Intanto misure concrete dovevano essere vigenti, ma forse scarsamente applicate,42 già prima di quelle augustee per colpire gli assenteisti: il riferimento è alle multae e ai pignora. Se ne rinvengono testimonianze nelle fonti: nella prima Filippica Cicerone protesta contro Antonio, console, che ha minacciato di punire la sua assenza, infliggendogli come pena la distruzione della casa.43 Egli non contesta in questa circostanza l’utilizzo del pignus o della multa (lasciando intendere che la pratica fosse vigente), bensì la spropositata punizione minacciata da Antonio.44 Un riferimento esplicito a queste sanzioni si rintraccia in un passo ricavato da un libretto che si può definire di portata generale sul funzionamento del Senato, restituito dal libro XIV (al capitolo VII) delle Noctes Atticae di Aulo Gellio; esso riferisce in sintesi i temi e, in alcuni casi, i contenuti di uno scritto di Varrone dedicato al Senato: l’epistula o le epistulae ad Oppianum, confluita nel IV libro delle Epistolicae Q uaestiones. Si tratta della riscrittura in forma epistolare, redatta con ogni probabilità nella 40 (…) magnam cum lassus diei/ partem fuisset de summis rebus regundis / consilio indu foro lato sanctoque senatu. (…). 41 Bonnefond Coudry 1989, 424, riconduce la partecipazione alle categorie comportamentali del buon cittadino ossequiose del dettato etico e rivaluta l’apporto di Cicerone nella riproposizione di questi valori. 42 Talbert 1984a, 57; 1984b, 138. 43 Cic. Phil. 1.12: De supplicationibus referebatur, quo in genere senatores deesse non solent. Coguntur enim non pignoribus, sed eorum de quorum honore agitur gratia; quod idem fit, cum de triumpho refertur. Ita sine cura consules sunt ut paene liberum sit senatori non adesse. Q ui cum mihi mos notus esset cumque e via languerem et mihimet displicerem, misi pro amicitia qui hoc ei diceret. At ille vobis audientibus cum fabris se domum meam venturum esse dixit. Nimis iracunde hoc quidem et valde intemperanter. Cuius enim malefici tanta ista poena est ut dicere in hoc ordine auderet se publicis operis disturbaturum publice ex senatus sententia aedificatam domum? Q uis autem umquam tanto damno senatorem coegit? aut quid est ultra pignus aut multam? Q uod si scisset quam sententiam dicturus essem, remisisset aliquid profecto de severitate cogendi. Cfr. anche Plut., Vita di Pirro 18; Bonnefond Coudry 1989, 370. 44 Ivi, 366-368, riferisce casi di imposizione di multa già dal l’età decemvirale, ma naturalmente sottolineando anche la scarsa attendibilità della notizia (Liv. 3.38.12); infine cita il caso di Crasso nel 91 a.C. (Cic., or. 3.4); per Talbert 1984a, 57, dal II a.C. le sanzioni non erano applicate.
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seconda metà del 29 a.C. o al più agli inizi del 28,45 del più antico commentarius εἰσαγωγικός redatto da Varrone per il 70 a.C. su richiesta di Pompeo, che si accingeva a svolgere il suo primo mandato consolare. Era verosimilmente un manualetto agile che conteneva le modalità di convocazione e gestione delle sedute del Senato (Gell. 14.7.1-8 ex quo disceret quid facere dicereque deberet cum senatum consuleret); nessun supporto di questo tipo doveva essere in circolazione all’epoca 46 e Pompeo ne aveva necessità per fare fronte sia a questioni procedurali connesse alle sedute quanto politiche legate al suo mandato.47 A distanza di quarant’anni Varrone, andato perduto il suo scritto per Pompeo, tornò sullo stesso argomento.48 Tra i soggetti esaminati nello scritto, accanto alle relazioni tra magistrati e senato (diritto di convocazione; diritto di veto); ai luoghi e ai tempi delle convocazioni; all’ordine del giorno, alle modalità di voto, figurano in ultimo proprio le sanzioni per i senatori che pur essendo tenuti a partecipare sono assenti: Praeter haec de pìgnore quoque capiendo disserit deque multa dicenda senatori, qui, cum in senatum uenire deberet.49 Come per le altre materie trattate (il ius primae sententiae; i giorni in cui non fosse possibile convocare il senato),50 anche in questo capitoletto Varrone raccoglieva evidentemente una serie di misure e di costumi maturati a riguardo in quegli anni.51 Per la datazione, Todisco 2016, 479-488. Talbert 1984b, p. 223; Moatti 1997, 112 [= 2015, 135], nella prospettiva di una sistemazione delle conoscenze prima affidata all’apprendistato e alla memoria di famiglia. 47 Per un commento vedi ora Todisco 2016, 479-488; Ead. 2017, 49-60. 48 Eum librum commentarium, quem super ea re Pompeio fecerat, perisse Varro ait in litteris quas ad Oppianum dedit, quae sunt in libro epistolicarum quaestionum quarto, in quibus litteris, quoniam quae ante scripserat non comparebant, docet rursum multa ad eam rem ducentia. 49 Talbert 1984b, 138-139, in riferimento a questo passo riteneva che Varrone stesse qui, secondo la sua disposizione antiquaria, citando un vecchio provvedimento: la norma doveva esistere, ma la mancanza di attestazioni suggerirebbero che non fosse applicata; Bonnefond Coudry 1990, 150, considera che Varrone riferisse modalità in atto nel 70 a.C.; la datazione della epistula ad Oppianum al 29 inizi 28 a.C. induce a ritornare su questo aspetto, soprattutto alla luce del dibattito in merito che aveva animato gli anni che corrono fino al 29 a.C. 50 Per il ius primae sententiae, Todisco 2016, 484-486; Ead. 2017, 53-54; per i giorni, Todisco c.s. 51 Per questo tema, rinvio ad un contributo di prossima pubblicazione. 45
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Gli argomenti contenuti nel l’opuscolo varroniano erano quelli salienti per la definizione delle procedure di funzionamento dell’assemblea in tutte le sue manifestazioni; gli stessi temi dovevano essere presenti nella lex Iulia de senatu habendo; lo si desume anche delle sintesi che la tradizione letterarie ci ha trasmesso. Anche nella legge (come nello scritto di Varrone), per quanto è noto, il dettato si muove tra vetus e novus mos: evidentemente si raccoglieva il dibattito in corso su alcuni snodi procedurali e sui loro cambiamenti (si pensi al ius primae sententiae) e li si disciplinava.52 È verosimile che chi lavorò alla elaborazione della legge ebbe tra le mani lo scritto di Varrone contenuto nel libro IV delle Epistolicae Q uaestiones; 53 in questa fase, come ai tempi di Pompeo, esso doveva essere l’unico manualetto disponibile di ius senatorium (per adoperare la definizione successivamente elaborata da Plinio il Giovane Plin., epist 8.14).54 Alcuni indizi suggerirebbero che tra questi vi fosse proprio Ateio Capitone, giurista di spicco, considerato uno dei teorici del Principato augusteo.55 Egli stesso è poi autore di uno scritto de officio senatorio 56 (che si ipotizza potesse essere un libro dei suoi coniectanea) 57 nel quale ritorna su questi temi.58 Il ricorso di Pompeo alla sapienza antiquaria di Varrone nel 70 a.C. era giustificato dal vuoto che generava nella vita delle istituzioni a Roma la mancanza di regole scritte; non è inverosimile Talbert 1984a, 55-57, fa riferimento allo spirito antiquario della legge. La discussione proposta da Gellio 14.8, in merito alla liceità che il prefetto dell’urbe nominato in occasione delle Feriae latinae avesse facoltà di convocare il Senato (materia inserita da Gellio come argomento di apertura dell’estratto della lettera ad Oppiano) contiene elementi che potrebbero lasciar supporre che Ateio Capitone per certo avesse tra le mani l’Epistula ad Oppianum; la tradizione del testo e le scelte divergenti degli editori inducono a rinviare altrove un’approfondita discussione a riguardo. Talbert 1984b, 223, sulla eventuale relazione tra l’epistula e la legge. 54 Talbert 1984b, 223. 55 Pani 2003, 95; Id. 2010, 199. Su Ateio Capitone si veda Buongiorno 2016, 413-427, con amplissima bibliografia (nt. 2) e con riferimenti al suo ruolo durante il principato augusteo e poi tiberiano. 56 Uno scritto de senatu habendo è attribuito ad un enigmatico Nicostrato, sul quale cfr. Todisco 2016, 486 nt. 40. 57 Per Bonnefond Coudry 1989, p. 18, nt. 31, il de officio senatorio era un capitolo dei Coneictanea di Ateio Capitone. 58 E.g. Gell. 4.10.5, in merito alla deroga di Cesare rispetto a quanto stabilito dalla prassi in materia di ius primae sententiae. 52 53
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che con lo stesso spirito Varrone fosse tornato, di sua iniziativa o sollecitato da qualcuno, su questo tema, rispondendo ora come allora ad una istanza squisitamente politica: 59 la revisione del Senato aperta appunto da Ottaviano nel 29 a.C. e terminata ben oltre la morte di Varrone, con la lex Iulia de senatu habendo, che, come si è detto, fissava per legge procedure di funzionamento fino ad allora regolate dalla prassi. Le misure adottate da Augusto nei venti anni che corrono dalla prima lectio alla legge Giulia, come si ricordava, furono osteggiate da una parte dei senatori; Svetonio (Aug. 35) racconta le misure di sicurezza alle quali Augusto ricorse per tutelare la sua persona fisica: quo tempore existimatur lorica sub veste munitus ferroque cinctus praesedisse decem valentissimis senatorii ordinis amicis sellam suam circumstantibus. Cordus Cremutius scribit ne admissum quidem tunc quemquam senatorum nisi solum et praetemptato sinu. Ma la protesta, pare, si ripercosse soprattutto sul normale svolgimento della vita del Senato: si è ipotizzato che la crisi del reclutamento senatorio che afflisse gli anni che seguirono il 18 fu il risultato di una strategia di opposizione; 60 Augusto in qualche maniera fu costretto poi ad intervenire per ricomporre la situazione, anche mitigando alcune posizioni di partenza: si ricordi, tra le altre cose, rispetto a quanto stabilito nel 9 a.C., in materia di multae, che nel 17 a.C. egli aveva stabilito penalità per i senatori che giungessero alle sedute in ritardo e senza giustificazione (C.D. 54.18.3).61 In questo quadro un ruolo di rilievo fu affidato anche alla elabora59 Su questa linea Moatti 1997, 160 [= 2015, 165], che pone lo scritto di Varrone per Pompeo sulla linea di quelli per Cicerone e Sallustio per Cesare, ossia coerentemente a quanto Cicerone afferma nella sua epistola a Varrone nel 46 a.C. (ad fam. 9.2.5; cfr. McConnel 2014, 191. Bretone 1971, 17-18, colloca l’Isagogico di Varrone nello stesso genere di opere quali il liber de consulum potestate di Cincio Alimento e i libri de auspiciis di M.Valerio Messalla Rufo. 60 Chastagnol 1980, 468, evidenzia la crisi del reclutamento negli anni 1611 a.C. come conseguenza delle opposizioni maturate; mancavano figli di senatori per questura e vigintivirato (andrà evidenziato che per Chastagnol (470 e Id. 1992, 56) si trattò di un vero e proprio “sciopero” (grève); evidenti ripercussioni si ebbero anche in merito al reclutamento dei tribuni della plebe. I movimenti ebbero vita soprattutto in assenza di Augusto. Tuttavia neppure le misure del 13 a.C. furono sufficienti a recuperare la normalità. Per Talbert 1984a, 57, le ragioni della carenza di reclutabili erano anche un effetto della crisi sui patrimoni e sull’indice di natalità e mortalità. 61 Bonnefond Coudry 1990, 129-131; 151; Chastagnol 1990, 157-159.
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zione dei contesti della comunicazione attraverso i quali il progetto augusteo fu diffuso, qualunque fosse il suo ambito di applicazione; come si diceva agli inizi, fu centrale in questa costruzione, anche perché coerente con il progetto, la cultura de antiquitatibus.62 Se fu Varrone, finché fu in vita, ad essere interpellato, forse dal giovane Ottaviano o da uomini a lui prossimi, 63 successivamente un altro noto esperto di antichità, Verrio Flacco (de gramm. 17),64 fu attivo nel circolo dei personaggi prossimi al principe; di rango libertino, egli fu generosamente stipendiato da Augusto quale maestro da lui stesso preposto alla formazione dei suoi due nipoti, Gaio e Lucio Cesare, destinati a succedergli. In maniera diversa da Varrone (al quale si riferisce costantemente), per profilo sociale e biografia personale,65 Verrio Flacco, certamente privo dell’esperienza politica di Varrone, ma dotato di solida cultura antiquaria e ben addentrato nel programma augusteo, fornì il suo contributo al principe in qualità di “tecnico”, di esperto di antiquitates.66 In materia di Senato, si possono forse scorgere in alcune delle glosse da lui dedicate a questa assemblea e ai suoi membri tracce del tentativo di normalizzazione delle riforme augustee attraverso il loro radicamento nella tradizione dei maiores: 62 Sul ruolo delle antiquitates nei momenti di crisi e come riferimento per le pratiche istituzionali e non solo: Rawson 1985, 232-249; Wallace Hadrill 1997, 14-15; Stevenson 2004, 118-121; Pani 2006, 727-740; Glinister 2007, 11-32. 63 Rawson 1985, 247, ricorda che c’è chi ritiene che la restaurazione augu stea non avrebbe avuto luogo senza Varrone. 64 M. Verrius Flaccus libertinus docendi genere maxime claruit. Namque ad exercitanda discentium ingenia aequales inter se committere solebat, proposita non solum materia quam scriberent, sed et praemio quod victor auferret. Id erat liber aliquis antiquus, pulcher aut rarior. Q uare ab Augusto quoque nepotibus eius praeceptor electus, transiit in Palatium cum tota schola, verum ut ne quem amplius posthac discipulum reciperet; docuitque in atrio Catulinae domus, quae pars Palatii tunc erat, et centena sestertia in annum accepit. Decessit aetatis exactae sub Tiberio. Statuam habet Praeneste, in superiore fori parte circa hemicyclium, in quo fastos a se ordinatos et marmoreo parieti incisos publicarat. 65 Glinister 2007, 25, per il differente profilo di Verrio e Varrone che come L. Giulio Cesare, Appio Claudio Pulcro, M. Valerio Messalla erano membri della vecchi aristocrazia; Verrio viene dal nuovo mondo, affermatosi anche grazie al favore del princeps. I lavori di Verrio sarebbero pertanto legati all’agenda politica di Augusto. Si ritrovano tra le sue glosse temi augustei (diritto sacro), anche comune all’entourage degli intellettuali di corte, Capitone, Labeone, Veranio, Messalla. 66 Cfr. per il nome Augusto e il contributo degli antiquari, Todisco 2007, 441-462.
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così il ruolo diretto di Romolo nella cooptazione dei cento senatori (Verrio/Festo, s.v. patres, 289L) 67 potrebbe alludere all’in tervento diretto di Augusto sulla formazione del Senato nel 29 e poi nel 18; e il ricordo del reclutamento di plebei, espulsi i re, da parte del console P. Valerio data la inopia patriciorum e la necessità di raggiungere il numero di trecento senatori per il Senato (Verrio/Festo 304L, sub voce qui patres qui conscripti) 68 potrebbe fare da sostegno al reclutamento di equites in Senato per supplire alla carenza di senatori, attestato negli anni che precedono l’11 a.C., data della terza lectio senatus.69 Peraltro sin dagli esordi Ottaviano aveva trovato legittimazione alla sua linea politica nelle antiquitates: si pensi al contributo di Varrone in merito all’apoteosi cesariana.70 La costruzione della percezione delle riforme di Augusto come consolidamento e recupero della tradizione poggiarono dunque fortemente sul contributo degli intellettuali che si mossero nella prospettiva del principe e che fecero delle antiquitates uno strumento essenziale per la costruzione della percezione collettiva del principato e del suo disegno; 71 essi furono tanto più necessari quando più forti furono i movimenti di opposizione da fronteggiare. 3. I versi di Properzio sul Senato videro la luce proprio negli anni in cui Augusto attendeva al riordino della curia, anzi nella fase, Ma così, tra gli altri, anche Liv. 1.8.7. Q uo tempore regibus urbe expulsis, P. Valerius consul propter inopiam patriciorum ex plebe adlegit in numerum senatorum C et LX et IIII, ut expleret numerum senatorum trecentorum et duo genere appellaret [esse]. 69 Chastagnol 1980, 471-475, ricorda la mancanza di candidati per il tribunato nel 12 a.C. (secondo Cassio Dione 54.30.2 anche a causa dei poteri dei tribuni in quella fase), dunque successivamente alla morte di Agrippa, avvenuta nel marzo del 12 a.C., Augusto stabilisce che ogni magistrato in carica dovesse individuare un cavaliere tra coloro che possedevano un censo minimo di un milione di sesterzi ; tra questi le assemblee avrebbero dovuto scegliere i tribuni mancanti. Allo spirare della carica i tribuni così designati avrebbero avuto facoltà di entrare nell’ordo senatorio ovvero di restare in quello equestre (Svet., Aug. 40.1). La persistenza di uno stato di difficoltà nel reclutamento sarebbe per Chastagnol confermato anche nella lectio dell’11 a.C., dove si fece ricorso a senatori pedarii (Front., Aq. 99.4). 70 Todisco 2016, 494, nt. 35. 71 Si sviluppò in ogni contesto l’idea di segnare una continuità tra il nuovo corso augusteo e l’antico ordinamento; in questo spirito definito da Bretone 19822, 30 “compromesso augusteo” si mossero anche i giuristi. 67
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forse, di maggiore impatto politico che la proposta conobbe: gli anni a ridosso del 16 a.C. Essi non possono essere letti senza considerare queste circostanze: Curia, praetextoquae nunc nitet alta senatu,/ pellitos habuit, rustica corda, patres/Bucina cogebat priscos ad verba Q uirites:/ centum illi in prati saepe senatus erat.72
Come si diceva in apertura, il poeta 73 richiama superbamente la Curia, quella Iulia, inaugurata da Ottaviano nell’agosto del 29,74 che rifulge con i senatori vestiti in toga praetexta (v. 11), mentre sullo sfondo fa comparire i senatori antichi (rustica corda), vestiti di pelli di animali (v. 12). Il richiamo alla sensibilità rustica del passato romuleo ritorna al verso seguente, con i Q uirites prisci chiamati a raccolta dal suono della bucina. L’uso del sostantivo bucina 75 per la convocazione ad verba evoca quella fase in cui il popolamento di Roma era disperso attraverso le campagne; 76 il commento di Servio al verso 383 del secondo libro delle Georgiche restituisce una vivida testimonianza: compita ut Trebatio placet, locus ex pluribus partibus in se, vel in easdem partes ex se vias atque itinera dirigens, sive is cum ara, sive sine ara, sive sub tecto, sive sub divo sit, ubi pagani agrestes, bucina convocati, solent certa inire concilia (...). Servio spiega il sostantivo compita citando Trebazio Testa, giurisperita amico di Cesare, Ottaviano e Mecenate; nella descrizione Così Fedeli 2015, 183-184, con riferimento alla tradizione. Per un dettagliato e completo commento ivi, 183-186. 74 Ivi, 183 75 Cfr. ivi, 184-185, anche in riferimento all’errore generato nei manoscritti di Isidoro di sostituire ad verba con ad arma, indotto dall’attestazione della bucina per occasioni militari. 76 Così nella elaborazione letteraria; si ricordi a titolo esemplificativo: Cic., Cato maior 56: sed venio ad agricolas, ne a me ipso recedam. in agris erant tum senatores id est senes, siquidem aranti L. Q uinctio Cincinnato nuntiatum est eum dictatorem esse factum; (…). a villa in senatum arcessebatur et Curius et ceteri senes, ex quo qui eos arcessebant, viatores nominati sunt; ma anche Verrio/Festo, s.v. viatores, 509L. Spostandoci cronologicamente, ma senz’altro in riferimento all’elaborazione di materiale antiquario, si veda Svetonio, reg. 178.1.3, dove in riferimento alla natura insediativa del territorio dove poi sorse Roma (ubi nunc Roma est) sotto Picus Saturni filius riferisce: eo tempore ibi nec oppida, nec vici, sed passim habitaverunt); seguirono poi la fondazione di Lavinium da parte di Enea e di Albalonga da parte di Ascanio. 72 73
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la bucina è lo strumento adoperato per convocare in riunione (concilium) i pagani, ossia gli abitanti dei pagi rurali, i distretti di campagna nei quali il popolamento si distribuiva in maniera diffusa ovvero raccolto per villaggi.77 L’utilizzo properziano della bucina rimanda dunque alla convocazione dei Q uirites nel tempo in cui essi abitavano sparpagliati per la campagna, forse per i comizi centuriati; 78 siamo nella Roma antica, quella di Cincinnato, così evocata in questa forma nelle elaborazioni letterarie; 79 come i Q uirites anche i cento senatori che componevano il Senato romuleo sono chiamati a raccolta.80 Il luogo in cui convergono è un pratum, uno spazio privo, come lo sono i senatori pelliti, di segni distintivi del potere. Si apre, tuttavia, giunti a questo punto, una riconsiderazione, alla luce di quanto si è sopra documentato, proprio di questo passaggio nel verso properziano, e non soltanto rispetto ai suoi contenuti, ma, più radicalmente, al testo. Rispetto alla tradizione manoscritta 81 che restituiva al verso 14, in prato saepe, si è progressivamente imposta nelle più importanti e più recenti edizioni del testo, l’emendamento avanzato nel 1742 da Heinsius 82 77 Per i pagi, Capogrossi Colognesi 2002, 43-80; Tarpin 2002, 177-245; Todisco 2004, 175-183; Ead. 2011, 28-37; nella letteratura non tecnica, il pago è evocato principalmente come “luogo evenemenziale” una realtà, cioè, che si materializza e si identifica proprio in occasione degli eventi della vita pubblica; cfr. l’uso di buccinare da parte di Giulio Igino nelle sue Fabulae (274.20.4), per indicare la modalità di raccolta dei cittadini dispersi nella campagna in occasione di un funerale: (…) ob crudelitatem incolae regionem diffugerunt; tunc ille quia ex eorum decesserat, concha pertusa buccinavit et pagum convocavit (…). 78 In effetti, la modalità di convocazione di questa assemblea e il suo rapporto originario con la struttura militare si coniugano con la convocazione dei Q uirites tramite la bucina, appunto, come si diceva alla nt. 76 adoperata in contesti militari. Inoltre la collocazione in età monarchica della immagine induce a pensare ai comizi centuriati (data la convocazione meno estensiva dei comizi curiati) e data la costituzione successiva di comizi tributi e concilia plebis. Anche Fedeli 2015, 185, ritiene altresì probabile il riferimento ai comizi centuriati. 79 Cfr. supra. 80 Per il richiamo al senato romuleo dei cento, Fedeli 2015, 185, con richiamo alle fonti antiche. 81 Il verso è così anche in tradizione indiretta in una citazione di Lattanzio, Inst. Div. 2.14. Per le edizioni e lo studio della tradizione manoscritta dell’opera di Properzio, fino al 2000, Stok 2002, 21-69. 82 Heinsius 1742, 739. Diversamente non è stata accolta la correzione di erat in erant.
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di intendere saepe quale ablativo di saeps e correggere prato in prati: così Teubner (1979), LOEB (1990), Les Belles Lettres (2005), Oxoniensis (2007) e il monumentale commento al libro IV di Fedeli (2015).83 La fortuna moderna della congettura di Heinsius,84 che ha lasciato supporre un errore del copista, è stata verosimilmente indotta dalla difficoltà di spiegare convincentemente il valore di un saepe avverbio nel contesto del discorso: l’evidente raffronto tra l’evo antico e l’età di Augusto che Properzio sviluppava in questi versi, e in particolare in materia di Senato, rendeva inesplicabile la sottolineatura da parte del poeta del fatto che in passato i senatori si riunissero frequentemente, cioè saepe.85 Si accettava dunque come plausibile che qui Properzio stesse semmai indicando il luogo di convergenza dei senatori quale “spazio recintato”, cioè in prati saepe, alludendo anche, in seguito agli interventi da parte di Tullo Ostilio su curia e comitia. Un emendamento congetturale che progressivamente ha preso piede. Ebbene, la descrizione degli interventi augustei destinati al Senato fin qui proposta, insieme alla reazione senatoria, offrono invece fondati argomenti per ripristinare il saepe avver Ivi, 185-186, che ricorda Cic., Rep. 2.31; 4.4.13. Va infatti curiosamente segnalato che la quasi unanime accettazione della congettura nelle edizioni principali risale a tempi recenti; se ne segnalano alcuni indicativi casi per le edizioni LOEB, Oxoniensis e Les Belles Lettres. Le ultime edizioni delle Elegie proposte da questi editori, infatti, sono ritornate sul verso, accettando la congettura di Heinsius, a fronte dell’accettazione della tradizione manoscritta nelle edizioni precedenti: la pubblicazione LOEB (1912), a cura di H.E. Butler (che non cita N. Heinsius) proponeva, infatti fedelmente ai codici, la lezione in prato saepe, mentre la nuova edizione LOEB (1990), a cura di G.P. Goold, accetta a testo la congettura di Heinsius: in prati saepe; così l’Oxoniensis che nella prima pubblicazione (1953), a cura di E. A. Barber, riportava in prato saepe, mentre nel 2007, a cura di S.J. Heyworth, in prati saepe; ancora Les Belles Lettres che nel 1947, a cura di D. Paganelli, e nel 1968, a cura di Beyoncé proponevano in prati saepe, mentre nel più recente volume (2005) a cura di S. Viarre preferisce in prato saepe. Una storia diversa per le edizioni Teubner: nel 1979 H. Rudolph già accettava la congettura di Heinsius (in prati saepe), mentre nel 1984, Fedeli proponeva a testo (con ricco apparato in cui ricostruiva il dibattito in merito) la lezione dei manoscritti: in prato saepe. Lo stesso Fedeli nell’edizione BUR (1993) ancora conservava in prato saepe, per poi preferire nel 2015, non senza qualche argomentato interrogativo, la congettura di Heinsius in prati saepe. Per un completo e utile prospetto delle edizioni e dei commenti delle Elegie di Properzio, Fedeli 2015, 7-9. 85 Ivi 2015, 186. 83
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bio presente nella tradizione manoscritta (e riferito anche da Lattanzio) 86 che consentirebbe di recuperare l’intenzione poetica e politica di Properzio di alludere con l’avverbio alle frequenti convocazioni dell’assemblea del Senato nei tempi passati, a fronte della difficoltà contemporanea. In queste pagine si è ampiamento sottolineata la centralità riservata a contrastare l’assenteismo dei senatori alle sedute, alla loro resistenza ad una partecipazione attiva: problemi esistenti già prima di Augusto, ma che in questi anni si intensificarono e assunsero anche un preciso significato nei riguardi della politica del principe. Ma tutto fu vano ed egli stesso dovette ritornare sui suoi passi negli anni a venire. Prende corpo a questo punto il pregnante valore del saepe properziano, che richiamava la frequenza diligente da parte dei senatori delle sedute nella Roma di Romolo, depositando in quell’unica scelta avverbiale il messaggio che l’Autore destinava ai suoi lettori. I quattro versi dedicati alla vita istituzionale romana 87 e in particolare al Senato intervenivano dunque pienamente nel dibattito contemporaneo, assumendo una netta posizione rispetto al processo in corso: La Curia che ora superba risplende con il Senato in pretexta, un tempo ospitò senatori vestiti di pelli, animi semplici. La tromba convocava gli antichi Q uiriti nelle assemblee: il Senato era cento di loro, in un prato, riunito di frequente. Properzio segnava la distanza tra il senatore antico e quello contemporaneo e proiettava la riforma di Augusto all’indietro, nel l’orizzonte dei modelli etico-politici del passato. Coerentemente alla tradizione maturata anche all’ombra degli esperti de antiquitatibus, alla quale prima si accennava,88 egli richiamava i senatori Cfr. supra. Comitia e Senatus sono i due spazi della partecipazione politica, cfr. tra i molti, Cic. de off. 2.3; 3.2: Exstincto enim senatu deletisque iudiciis quid est quod dignum nobis aut in curia aut in foro agere possimus? decisivo pertanto il loro richiamo nel contesto della ricostruzione augustea proposto in questi versi. 88 Si potrebbe aggiungere a questi, ulteriori esempi di ritratti di senatori antichi ugualmente disposti verso la res publica: cfr. anche Valerio Massimo (2.2.6), in un confronto sempre aperto tra i perduti mores del presente e i severissima maiorum instituta: Antea senatus adsiduam stationem eo loci peragebat, qui hodieque senaculum appellatur, nec expectabat ut edicto contraheretur, sed inde citatus protinus in curiam veniebat , laddove i senatori di un tempo erano continuamente disponibili a riunirsi quando convocati, raccogliendo l’importanza del loro ruolo istituzionale per la salvaguardia della res publica. Cfr. Mason, Senacula 1987, 86
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contemporanei alla loro responsabilità istituzionale, evocando il modello dei senatori prisci: essi, in numero contenuto, disinte ressati ai segni del potere, dediti al loro ruolo senza limiti di tempo, costituivano il Senato; di contro i senatori contemporanei reclamavano per la riduzione della loro numerosità, sfoggiavano superbamente i segni del loro rango e si sottraevano al loro dovere di partecipare alle assemblee.89 Il progetto di Properzio di adesione al Principato trovava in questo libro,90 com’è stato esaustivamente dimostrato,91 una forma compiuta e ufficiale; si trattò della partecipazione del poeta a quella officina culturale che vide attivi numerosi altri intellettuali che operarono con convinzione alla costruzione del progetto augusteo: se ne ricava ancora una volta l’idea che il Principato augusteo fu l’esito di un vero e proprio laboratorio politico-culturale.
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Abstracts Nel testo si propone una riconsiderazione dei versi 11-14 del quarto libro delle Elegiae di Properzio, che hanno come tema Senato e senatori nella Roma antica e nella Roma augustea, nella prospettiva degli importanti interventi di riordino del Senato effettuati da Augusto, della elaborazione ideologica sottesa e delle reazioni che ne derivarono. In particolare si discute il verso 14, proponendo il recupero della lectio dei manoscritti. In this paper we reconsider the interpretation of Propertius 4.1.11-14 on the Senate, in the perspective of on the one hand the interventions made by Augustus to restore the Senate after the civil struggles on the other hand of the ideological construction behind these interventions and how they were received. We bestow special attention to the structure of the controversial verse 14 and we propose the recovery of the manuscript tradition.
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RIFLESSIONI CONCLUSIVE
In certe epoche la storia corre più velocemente, e trasformazioni radicali irrompono con violenza e rapidità, provocando un disordine che solo lentamente tende ad assestarsi in nuovi equilibri. Properzio fu direttamente coinvolto in uno di questi passaggi epocali, da vittima delle guerre civili, in cui la sua famiglia fu direttamente coinvolta assieme all’intera collettività umbra, a testimone privilegiato dell’assestamento del potere augusteo e della costruzione di un nuovo ordine. Q uesta considerazione non può che valorizzare la scelta del tema del presente convegno, e la proficuità della proposta, rivolta ai relatori, di utilizzare l’ottica prospettica di Properzio per scrutare il complesso trapasso dalla repubblica al principato. Le linee di fondo della biografia e della carriera poetica di Properzio, sullo sfondo delle vicende dell’epoca, sono state efficacemente ricostruite da Paolo Fedeli, in un intervento che ha offerto il quadro d’insieme in cui si collocano le riflessioni su aspetti specifici. A partire dalle ricerche di Bonamente sul rapporto di Properzio con i Volcacii e sul ruolo di questi ultimi nell’Umbria dell’epoca, Fedeli ha messo a fuoco il contesto patronale in cui Properzio sviluppa la propria vocazione elegiaca, sgombrando il campo da interpretazioni che assegnano alla scelta del genere elegiaco intenzioni ed implicazioni improbabili. L’analisi che Fedeli ha proposto delle cruciali elegie 1, 21-22, e in particolare degli intertesti odissiaco e virgiliano della 22, da una parte conferma l’inopportunità di interpretazioni “anti-augustee” che non tengano conto del contesto in cui Properzio operava, dall’altra mette in guardia dalla tentazione di proiettare in età augustea 10.1484/M.SPL-EB.5.115925
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modelli totalitari che sono propri del l’esperienza contemporanea. La compatibilità fra la scelta elegiaca e il quadro politico è evidenziata dal rapporto che Properzio nel primo libro intrattiene con Tullo, ed anche i libri successivi, che risentono del l’influenza di Mecenate, presuppongono una relativa autonomia delle scelte poetiche, nel cui ambito il poeta ebbe la possibilità di restare nell’ambito del genere, mantenendo un equilibrio fra i moduli costitutivi del genere elegiaco e i riferimenti al principe e alla realtà politica. Simmetricamente, Fedeli ha messo in guardia dall’enfatizzare l’allineamento alla politica augustea con cui è spesso caratterizzato il quarto libro, ed ha evidenziato invece il ruolo attivo e creativo esercitato da Properzio, come dagli altri poeti augustei, nell’ambito di un percorso che vedeva allontanato nel tempo il dramma della guerra perugina e che nella percezione collettiva aveva visto la vittoria di Azio come punto di svolta della nuova epoca che si stava aprendo. Sul genere elegiaco si è soffermato anche Gian Biagio Conte, che ha proposto una stimolante riflessione sull’atteggiamento di Virgilio e di Orazio nei confronti dei poeti elegiaci, a partire dall’analisi della decima ecloga e dell’epodo 11. Nel delineare le posizioni dei due autori, non solo delle loro strategie poetiche ma anche del diverso approccio estetico e culturale che i testi suggeriscono, Conte ha messo a fuoco in modo efficace alcuni tratti caratteristici del genere elegiaco e della sua collocazione nel panorama letterario dell’epoca, prendendo le distanza da forzature ed interpretazioni del tipo di quella di Veyne, il cui noto saggio ebbe il merito di rilanciare, negli anni in cui fu pubblicato, l’interesse per l’elegia properziana, ma che alimentò anche un’idea ambigua e fuorviante del carattere fittizio dell’amore elegiaco: meglio interpretabile, come ha dimostrato Conte, come rappresentazione di una situazione nevrotica, se si vuole anche delirante: una “creazione nevrotica” che presuppone un’esperienza non ludica della realtà. Un capitolo importante delle trasformazioni che interessano il passaggio dall’età repubblicana al principato augusteo è quello che riguarda le forme del patronato, una tematica che coinvolge direttamente l’attività di Properzio, iscritta fin dall’inizio nella rete dei rapporti patronali, per la protezione accordata al poe ta, nella prima fase della sua carriera, da Lucio Volcacio Tullo. 412
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Mario Citroni, studioso ben noto del fenomeno, ha analizzato il caso-Properzio in relazione al dibattuto problema del patronato dell’età augustea, che Peter White colloca in relativa continuità con quello dell’età repubblicana, mentre altri studiosi, da Syme a Canfora, tendono a rimarcare la novità che caratterizza il patronato imperiale. La vicenda di Properzio, che scrive sotto l’egida di Tullo quando già la presenza “culturale” di Mecenate e di Augusto era ben consolidata, conferma l’ipotesi di un’evoluzione graduale, e ad un quadro variegato fanno pensare anche i riferimenti di Properzio a singoli personaggi che Citroni ha analizzato in quest’ottica nel suo intervento. Il quarto libro delle Elegie è quello che in modo eclatante evidenzia il passaggio epocale e lo sviluppo che il progetto poetico properziano vive nella nuova temperie augustea. Non è casuale che una buona parte dei relatori si siano concentrati su questo libro: scritto fra il 20 e il 16 a.C., negli anni dell’assestamento maturo del regime augusto, esso è quello che maggiormente riflette le istanze politiche e storiche dell’epoca, assieme al coevo quarto libro delle Odi di Orazio. Ma c’è anche una ragione più contingente, credo, che ha spinto i relatori in questa direzione: la recente pubblicazione del commento curato da Paolo Fedeli, Rosalba Dimundo e Irma Ciccarelli (Nordhausen 2015), che ha al contempo fornito agli studiosi uno strumento prezioso ed aperto nuove prospettive di studio e ricerca. Lo sviluppo del complesso rapporto erotismo / matrimonio, che si intravvede nitidamente nella tessitura delle Elegie, è stato analizzato da Luciano Landolfi, che ha ricostruito con precisione il passaggio che porta dagli ambivalenti riferimenti al matrimonio che accompagnano la vicenda di Cinzia, alla svolta del quarto libro, soffermandosi in particolare sulle vicende di Licota e Aretusa (4,2), Paolo e Cornelia (4, 11), ma anche sulla complessa vicenda di Elia Galla (3.12), sulla quale ha proposto osservazioni preziose con la consueta finezza delle sue analisi stilistiche. Ne è emerso un lucido quadro delle antinomie che attaversano l’opera properziana, nella quale i monumenti dell’amore coniu gale proposti nel quarto libro fanno da contraltare alle tensioni che nei libri precedenti avevano caratterizzato il rapporto con l’istituzione matrimoniale. Nella nuova sistemazione, come ha osservato Landolfi, le nuove protagoniste femminili acquistano 413
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un ruolo paradigmatico e diventano il tramite degli effetti didascalici che nei libri precedenti scaturivano dalle esemplificazioni tratte dal mito. Un felice contrappunto dell’analisi che Landolfi ha dedicato alle figure femminili è stato offerto dalla relazione di Rosalba Dimundo, dedicata alle figure maschili del IV libro, Licota, Lucio Emilio Paolo ma anche Tito Tazio. La relazione ha ricostruito le loro diverse caratterizzazioni, dal soldato-marito Licota al «vedovo appagato» Paolo, tenendo conto del punto di vista femminile delle narrazioni, funzionale alla visuale comunque elegiaca adottata da Properzio. Se nei casi di Licota e Paolo la complementarietà comporta la proiezione sui partner maschili dei corrispettivi modelli comportamentali della tradizione romana, una dimensione più variegata è assunta dalla figura di Tazio, anche lui visto da una prospettiva femminile, quella di Tarpea, ma anomalo nella caratterizzazione in quanto anomalo è il ruolo della donna, che dal tradimento è spinta in una dimensione negativa, ma insieme anche elegiaca. La particolare situazione di questa coppia consente infatti all’autore di riproporre, pur nel nuovo contesto che caratterizza il quarto libro, moduli e tratti della narrazione più propriamente elegiaca. Di Cornelia, ma in una prospettiva ancorata al tessuto storico, si è occupato anche Marc Mayer I Olivé, che ha opportunamente riassunto i dati prosopografici degli intricati rapporti di Cornelia e di Emilio Paolo e si è interrogato sulle ragioni per le quali Properzio non abbia ritenuto opportuno menzionare nel l’elegia, come ci si sarebbe aspettati, l’omonima Cornelia madre dei Gracchi. A questo interrogativo il relatore ha dato una risposta equilibrata e plausibile, attenta alle implicazioni e alle risonanze che la vicenda della Cornelia di età repubblicana poteva avere nel contesto culturale augusteo. Ancora sul quarto libro si è soffermato Mario Lentano, rileggendo in chiave antropologica i versi d’apertura della 4, 1, nei quali è descritta la Roma delle origini. I riferimenti agli dei evidenziano il carattere civico della religione romana, per il quale Lentano ha rinviato opportunamente agli studi di Maurizio Bettini. Un punto di notevole interesse su cui la relazione si è soffermata è l’epiteto di advena riferito al Tevere (v. 8), che Lentano ha messo in relazione con l’interesse romano per i fondatori “stranieri”, 414
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
da Evandro ad Enea, con una significativa proiezione del dato geografico su quello mitico e religioso. L’analisi ha implicazioni di grande interesse per l’interpretazione complessiva del progetto etiologico del quarto libro, per il valore generale che assume l’ipotesi della “riscoperta” del passato dimenticato, quasi un “ritorno del rimosso”, che Lentano ha formulato sulla base del confronto con un passo di Cicerone. Un’ipotesi che coinvolge anche l’enigmatico 4, 1, 37, e che meriterà certamente un dibattito più approfondito di quello che è stato possibile svolgere in questa sede. Ritengo di grandissimo interesse la relazione di Carlo Santini, che ha affrontato un tema denso di implicazioni, non solo letterarie, quello del rapporto fra apollineo e dionisiaco. L’approccio adottato è di tipo poetologico, attento alle forme letterarie legate alle tradizioni mitiche, ma che tiene conto anche delle loro connotazioni politiche, in particolare della loro correlazione con l’ultima guerra civile, quella fra Ottaviano ed Antonio (ricostruita dal noto saggio di Zanker). A partire dalla ricostruzione della fortuna del ditirambo 17 di Bachillide, Santini ha analizzato la copresenza di Dioniso e Apollo nella rievocazione properziana di Azio (ad es. in 4, 6, 76-77), con una visuale che ha tenuto conto del coevo quarto libro delle Odi di Orazio e del precedente di Virgilio (sulla base dello stimolante contributo di Mac Góráin). L’equilibrio che Properzio stabilisce fra le due divinità e le relative proiezioni letterarie e culturali è verificabile non solo nell’elegia su Vertumno, nel quarto libro, ma anche nella 3, 17, che Santini ha definito un accessus alla comprensione del quarto libro: un’elegia dove Dioniso e il vino hanno un ruolo centrale, marcato dal forte intertesto tibulliano. Problemi di trasposizione poetica di tematiche filosofiche sono stati proposti anche da Helmut Seng, a partire dall’analisi di 3, 5, l’elegia in cui Properzio associa alla recusatio dell’epica il progetto di scrivere, in vecchiaia, un poema sulle origini del mondo. Seng ha passato in rassegna le posizioni cosmologiche delle diverse filosofie in auge in età augustea, Epicureismo, Stoici smo e Platonismo, ed ha osservato come esse si mescolano variamente nel tono epidittico dell’elegia, intervallate dalle riprese virgiliane e lucreziane. Una rielaborazione poetica che in ultima analisi potenzia la recusatio properziana, sancita dal riferimento finale al recupero delle insegne di Crasso. 415
F. STOK
Pur non inclusa programmaticamente nel tema del convegno, la filologia del testo properziano resta una dimensione ineludibile degli studi, affiorata anche quest’anno in diverso interventi, con proposte che vale la pena ricordare. Alcune notazioni le dobbiamo a Conte, che si è soffermato sull’oscillazione iuvat / iuvet a 3, 5, 21 (dove iuvat è garantito dall’intertesto lucreziano), e ha in modo convincente raccomandato la congettura solvi di Barber a 1, 17, 3 (un passo oggetto di attenzione anche da parte di Heyworth, che nell’edizione Oxoniense ha però preferito solvit di Madvig). Su alcuni problemi testuali si è soffermato anche Lentano, che ha ci confermato la difficoltà di risolvere il guasto di 4, 1, 8, per il quale anche il citato recente commento del libro IV ha optato per la crux, nell’impossibilità di scegliere con una qualche sicurezza fra le diverse proposte di emendazioni. Ma l’intervento più innovativo che abbiamo per questi aspetti sentito, è quello di Elisabetta Todisco, e lo definisco innovativo in quanto va in direzione contraria alle tendenze più recenti della critica testuale properziana, prospettando la conservazione di una lezione tradita, in prato saepe a 4, 1, 14, che nelle più recenti edizioni è stato emendata, sulla scorta di un intervento di Heinsius, in prati saepe. La proposta di conservazione deriva non dall’opzione conservatrice variamente criticata negli anni recenti, ma da una più attenta considerazione della documentazione storica relativa alla riforma del Senato operata da Augusto. La relatrice ha ricostruito in particolare le vicende dell’operetta varroniana relativa al funzionamento del Senato, e del suo impatto negli anni della riforma promossa da Augusto, e ha dimostrato che la ricostruzione storica rende sensata una lezione dei manoscritti che era stata giudicata quale esito di un trascorso testuale. È un caso che merita riflessione, anche al di là dello specifico problema testuale. L’attenzione alla fortuna e alla ricezione dell’opera properziana è ormai da tempo una costante nei convegni che si svolgono qui ad Assisi, ed anche in questa occasione abbiamo sentito due relazioni che rientrano in questo ambito di studi. Due relazioni solo apparentemente marginali rispetto al tema del convegno, in quanto esplorano la fortuna di Properzio in età imperiale, e quindi misurano la fruibilità della poesia elegiaca in un contesto che nell’età augustea conservava un punto di riferimento rile416
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
vante. Le poco studiate riprese di Properzio nell’epica dell’età flavia sono esplorate da Federica Bessone, che ci ha proposto preziosi sondaggi sull’opera di Stazio, non solo nella Tebaide e nel l’Achilleide, ma anche nelle Silvae. Di particolare interesse appare l’attenzione prestata alle riprese mediate da Ovidio, che rivelano una raffinata triangolazione poetica dagli effetti talora anche sorprendenti. Se in età flavia la memoria di Properzio è ancora forte e produttiva, nella tarda antichità essa tende ad indebolirsi, sovrastata dal maggior impatto di Ovidio. È la conclusione a cui è arrivata Paola Pinotti nella sua relazione su Massimiano, nella quale ha analizzato anche i pochi riferimenti mitologici del poeta, che nella loro sbiadita consistenza evidenziano un riuso lontano dal modello properziano, e più in generale testimoniano quella sorta di snaturamento senile dell’elegia che caratterizza, anche per la tematica che adotta, la composizione di questo poeta.
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Accademia Properziana del Subasio – Assisi www.accademiaproperziana.eu PROPERZIO TRA REPUBBLICA E PRINCIPATO XXI Convegno Internazionale (Assisi – Cannara, 30 maggio – 1° giugno 2016) Vincitori della selezione per n. 13 borse di studio per giovani studiosi “Roberto Manini 2016”
Bandini Giorgia – Urbino Battistella Chiara – Udine Briguglio Stefano – Pisa Cafagna Arcangela – Bari Dos Santos Lóio Ana Maria – Lisbona Furbetta Luciana – Roma Larosa Beatrice – Ginevra Longobardi Concetta – Napoli Mancini Alessio – Pisa Pipitone Giuseppe – Palermo Pittà Antonino – Pisa Rossetti Matteo – Milano Starnone Viola – Pisa
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L’ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO DI ASSISI
Atti dei Convegni internazionali su Properzio tenuti in Assisi 1. Colloquium Propertianum (Atti del I Convegno su Properzio, Assisi, 26-28 marzo 1976), a cura di M. Bigaroni e F. Santucci, Assisi 1977, pp. 132. 2. Colloquium Propertianum secundum (Atti del II Convegno su Properzio, Assisi, 9-11 novembre 1979), a cura di F. Santucci e S. Vivona, Assisi 1981, pp. 216. 3. Colloquium Propertianum tertium (Atti del III Convegno su Properzio, Assisi, 29-31 maggio 1981), a cura di S. Vivona, Assisi 1983, pp. 170. 4. Bimillenario della morte di Properzio (Atti del Convegno internazionale di Studi properziani, Roma - Assisi, 21-26 maggio 1985), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1986, pp. 364. 5. Assisi per il Bimillenario della morte di Properzio, in Atti Acca demia Properziana del Subasio, Serie VI, n. 12, Assisi 1986, pp. 224. 6. Properzio nella letteratura italiana (Atti del Convegno Nazionale, Assisi, 15-17 novembre 1985), a cura di S. Pasquazi, Roma 1987, pp. 236. 7. Tredici secoli di elegia latina (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 21-24 aprile 1988), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1989, pp. 368. 8. La favolistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 26-28 ottobre 1990), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1991, pp. 248.
9. La poesia cristiana latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 20-22 marzo 1992), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1993, pp. 336. 10. Commentatori e traduttori di Properzio dall’Umanesimo al Lachmann (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 28-30 ottobre 1994), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1996, pp. 406. 11. A confronto con Properzio (da Petrarca a Pound) (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 17-19 maggio 1996), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1998, pp. 188. 12. La poesia umanistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 15-17 maggio 1998), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1999, pp. 400. 13. Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 25-28 maggio 2000), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 2001. 14. Properzio tra storia arte mito (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 24-26 maggio 2002), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2002, pp. 282. 15. Properzio nel genere elegiaco: modelli, motivi, riflessi storici (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Perugia, 27-29 maggio 2004), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2005, pp. 506. 16. I personaggi dell’Elegia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 26-28 maggio 2006), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2007, pp. 476. 17. Tempo e spazio nella poesia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 23-25 maggio 2008), a cura di R. Cristofoli, C. Santini e F. Santucci, Assisi 2010, pp. 286. 18. Properzio fra tradizione e innovazione (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Spello 21-23 maggio 2010), a cura di R. Cristofoli, C. Santini e F. Santucci, Assisi 2012, pp. 286. 19. Properzio e l’età augustea. Cultura, storia, arte (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Perugia 25-27 maggio 2012), a cura di G. Bonamente, R. Cristofoli e C. Santini, Turnhout 2014, pp. 466. 20. Le figure del mito in Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Bevagna 30 maggio - 1 giugno 2014), a cura di G. Bonamente, R. Cristofoli e C. Santini, Turnhout 2016, pp. 441.
Volumi monografici P. Fedeli – G. Catanzaro – F. Santucci, Propertius. Codex Guelferbytanus Gudianus 224 olim Neapolitanus, Assisi 1985, pp. XIV, 150. P. Fedeli – P. Pinotti, Bibliografia properziana (1946-1983), in Atti Accademia Properziana del Subasio, Serie VI, n. 9, Assisi 1985, pp. 114. M. Buonocore, Properzio nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, prefazione di P. Fedeli, ed. a cura di G. Catanzaro, Assisi 1995, pp. 144. A. Álvarez Hernández, La poética latina de Propercio (Autobiografía artística del “Calímaco romano”), prefazione di P. Fedeli, Assisi 1997, pp. 340.
Traduzioni di Properzio Properzio, Libro I e antologia di Elegie, ed. bilingue latino-cinese, traduzione di Wang Huansheng, introd. C. Santini, Pechino 2000, pp. 208. Propercio, Elegias, ed. bilingue latino-portoghese, a cura A. A. Nascimento, Assisi – Lisbona 2002, pp. 476. Properzio, Elegie, traduzione in russo di A. Liubzhin, Mosca 2004, pp. 272. Horatio Caesar Roger Vella, Properzju Eleġiji, Assisi 2012, pp. 107.
Per informazioni www.accademiaproperziana.eu