Principi di linguistica teorica. Raccolta di testi inediti 8820730022, 9788820730024

Questi Principi di linguistica teorica, prima opera di Gustave Guillaume (1883-1960) tradotta in italiano, rappresentano

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Italian Pages 232 [230] Year 2000

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Indice
Presentazione
Nota alla Traduzione
Prefazione – di Roch Valin
Preliminari – di Gustave Guillaume
I. La problematica di una scienza del linguaggio
1. Il posto della linguistica tra le altre scienze
2. Il metodo di analisi
3. La tradizione linguistica
4. Scienza del linguaggio e teoria
II. Dalla problematica alla sistematica del linguaggio
III. Significante e significato
IV. L'atto di linguaggio
V. Linguaggio e sistema
1. Carattere sistematico della lingua
2. Carattere sistematico della parola
VI. Pensiero e linguaggio
A mo' di epilogo
Nota bio-bibliografica
Indice dei nomi
Quarta di copertina
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Principi di linguistica teorica. Raccolta di testi inediti
 8820730022, 9788820730024

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Quaderni del dipartimento di Filosofia e Politica Istituto Universitario Orientale Comitato di direzione: Mario Agrimi, Luigi Cortesi, Roberto Esposito, Paolo Lucentini Coordinamento editoriale: Maria Donzelli 21

Istituto Universitario Orientale Dipartimento di Filosofia e Politica

Gustave Guillaume

Principi di linguistica teorica Raccolta di testi inediti sotto la direzione di Roch Valin Presentazione di Arturo Martone Traduzione di Roberto Silvi Nota bio-bibliografica di Alberto Manco

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2000 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Luglio 2000 Guillaume, Gustave : Principi di linguistica teorica/Gustave Guillaume Quaderni del Dipartimento di Filosofia e Politica. Università degli Studi di Napoli «L’Orientale»

Napoli : Liguori, 2000 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 6093 - 9 1. Psicosistematica del linguaggio na III. Serie

2. Psicomeccanica del linguaggio I. Titolo II. Colla-

Aggiornamenti:

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10 9 8 7 6 5 4 3 2 1

Indice

XI Presentazione XXI Nota alla Traduzione 1 7

Prefazione di Roch Valin Preliminari di Gustave Guillaume

17 17

I.

LA PROBLEMATICA DI UNA SCIENZA DEL LINGUAGGIO 1. Il posto della linguistica tra le altre scienze L’oggetto della linguistica, 17. Logica e linguistica, 18.

20

2. Il metodo di analisi Osservazione delle esistenze di lingua, 20. Visibilità mentale e dicibilità, 22. L’intuizione, 25. Ipotesi di lavoro e teoria, 27. La prova in materia scientifica, 30.

31

3. La tradizione linguistica La grammatica generale, 31. Abuso della logica, 32. Abuso della grammatica storica, 35. La lingua e la sua storia, 37. Una lacuna dell’analisi saussuriana, 39. Grammatica comparata e psicosistematica, 45.

49

4. Scienza del linguaggio e teoria Teoria: un comprendere portato al superlativo, 49. La lingua è in sé una teoria, 51. Il pregiudizio dell’ordine nella costruzione della scienza, 52.

55

II. DALLA

PROBLEMATICA ALLA SISTEMATICA DEL LINGUAGGIO

Il postulato della semplicità, 55. La psicosistematica: definizione e metodo, 57. Psicosistematica e psicomeccanica, 58. Particolarizzazione e generalizzazione nella costruzione del linguaggio, 60. La legge di non-ricorrenza, 62. Sistema e diacronia dei sistemi, 64. Causazione continua del linguaggio: proposte e trasformate, 73. Problemi di rappresentazione e stati di lingua, 75. Linguaggio e pensiero silenzioso, 76. 77

III. SIGNIFICANTE

E SIGNIFICATO

Una dualità fondamentale: il fisico e il mentale, 77. Relazione fisicismo-mentalismo e significanza, 78. Interiorizzazione ed esteriorizzazione nel linguaggio,

80. Convenienza del significante al significato, 81. Legge della psicosemiologia: la sufficienza espressiva, 82. Adattamento reciproco tra psichico e fisico, 84. Morfologia negativa: articolo zero, 85. 87

IV. L’ATTO

DI LINGUAGGIO

Natura dell’atto di linguaggio, 87. Cronologia operativa dell’atto di linguaggio, 91. L’istituito e l’improvvisato nel linguaggio: espressione ed espressività, 93. Posto della frase nel linguaggio, 98. Unità di potenza e unità di effetto: la parola e la frase, 100. Antecedenza della lingua: il suo carattere di previsione, 101. Dal pensabile al pensato: lingua e discorso, 103. Universalità del rapporto rappresentazione-espressione, 106. Carattere condizionante del fatto di lingua, 109. 113 V. LINGUAGGIO

E SISTEMA

113

1. Carattere sistematico della lingua Una legge valida per ogni sistema, 113. Difficoltà legate allo studio di sistemi linguistici, 113. La lingua come sistema dei sistemi, 114. L’istituito e il nonistituito nel linguaggio, 115. Sistema e non-sistema nella lingua, 117. Problema della filiazione storica dei sistemi e del loro rinnovamento, 119.

120

2. Carattere sistematico della parola Scoperta del sistema: tecnica di analisi appropriata, 120. Genesi della parola: materia e forma, 122. Operazioni costruttrici della parola: discernimento e intendimento, 125. Meccanismo di costruzione della parola nelle lingue indoeuropee, 127. Morfologia e genesi della parola, 129. Un operatore di struttura: il tensore binario radicale, 132. Un determinante della specie della parola: l’incidenza, 133. Incidenza interna e incidenza esterna, 136. Sistema della parola e sistema dell’articolo, 138. Potenzialità e realtà nel linguaggio, 144.

149 VI. PENSIERO

E LINGUAGGIO

Linguaggio e operatività, 149. Substrato operativo di ogni sistema linguistico, 150. Linguaggio e dicibilità: dall’indicibile al dicibile, 151. Stati strutturali del linguaggio e storia dell’intelletto umano, 155. Funzione umanizzante del linguaggio: linguistica e antropologia, 157. Il linguaggio come riduttore della turbolenza mentale, 163. Specificità della lucidità umana, 164. Causazione reciproca del pensiero e del linguaggio, 165. Pensiero comune e pensiero colto, 166. 169 A

MO’ DI EPILOGO

Linguaggio e curiosità scientifica, 169. Linguaggio, matematica e linguistica, 171. Il linguaggio, l’uomo e l’universo, 174. Linguaggio e pensiero comune, 182. 189 Nota bio-bibliografica 199 INDICE

DEI

NOMI

Principi di linguistica teorica

Presentazione (*)

Si je savais ce que sera la grande oeuvre dramatique de demain, je la ferais. (H. Bergson) Il faut du temps pour penser et pour parler comme il faut du temps pour marcher. (G. Guillaume)

1. Un pensiero dominante percorre la «psicomeccanica»1 di Gustave Guillaume [G.G.], il pensiero del tempo. La sua «linguistica teori(*) Le brevi osservazioni che faranno da presentazione a questo testo di G.G., il primo in lingua italiana (e del quale è in uscita una traduzione tedesca), non si discosteranno da un andamento deliberatamente introduttivo, tale da poter cioè, o almeno così ci si augura, mettere il lettore anche colto, non però a giorno delle teorie guillaumiane, in condizione di proseguire per suo conto eventuali letture successive di testi del linguista francese (di cui alla Nota bio-bibliografica al presente vol., a cui si rinvierà anche nel corso di questa Presentazione, citando i testi di G.G. secondo la numerazione di quella Nota, con l’aggiunta del n.di pagina: i rinvii alle pagine dei testi compresi fra [12] e [29] della menzionata Nota si riferiscono alla edizione dei medesimi nel vol. di G.G., Langage et science du langage, Paris, Librairie A.-G. Nizet – Québec, Presses de l’Université Laval, 1964). Le citazioni da testi o articoli di G.G. sono stati ovviamente tradotti per l’occasione. Per una visione d’insieme, in lingua italiana, della psicomeccanica guillaumiana, e con interventi più speciÞci e mirati, si rinvia alla sezione di «Studi FilosoÞci» (XIX, 1996), su GUSTAVE GUILLAUME E LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO (Atti del Seminario internazionale, Napoli 30 nov.-1 dic. 1995) con i seguenti contributi: A. Jacob, Gustave Guillaume: Vers une philosophie du langage?; D. Jervolino, Perché Guillaume?; A.Martone, Fra Guillaume e Benveniste. Considerazioni in margine al Presente non-temporale; R. Silvi, Un esempio di Psicomeccanica applicata. Quattro casi di analisi comparata di errori commessi da studenti di italiano lingua straniera; M. Stanzione, Psicosistematica e metodologia operativa: elementi per un confronto. Per uno studio dettagliato, ma non privo al medesimo tempo di una visione d’insieme della linguistica guillaumiana, cfr: R. Lowe, Introduction à la psychomécanique du language, 1999 (dattil. inedito gentilmente messo a disposizione dall’A.) Torna qui gradito ringraziare, anche a nome del traduttore e dell’estensore della Nota bibliografica, il prof. Ronald Lowe per la disponibilità mostrata nell’aver accolto e dato risposta ai quesiti che di volta in volta si venivano affacciando nel corso del lavoro. Sempre possibili imprecisioni terminologiche e/o bibliograÞche saranno invece da considerare, evidentemente, a carico esclusivo della équipe italiana. 1 Questa denominazione di «psicomeccanica», in quanto denominazione riassuntiva della linguistica guillaumiana, viene a condividere la medesima importanza della denominazione di

XII Principi di linguistica teorica

ca», o appunto «psicomeccanica del linguaggio» sarà una linguistica in cui questa dimensione della temporalità giocherà uno, se non proprio il ruolo centrale: In ogni questione linguistica che ha da fare col tempo, è importante distinguere fra il movimento del tempo nel pensiero, e il movimento del pensiero nel tempo. Il pensiero è il luogo di deÞnizione del tempo, ma il tempo è il luogo di azione del pensiero2 .

Più propriamente, dunque, la temporalità di cui fa oggetto la psicomeccanica guillaumiana, sarà la temporalità linguistica, quella che la «langue», termine saussuriano ripensato da G.G. in maniera originale, viene articolando. Oltre al «tempo dell’universo» e all’«esperienza vissuta» del tempo, che restano per deÞnizione fuori da una loro articolazione linguistica, ed anche perciò dall’interesse di G.G., la temporalità che la psicomeccanica verrà articolando sarà allora tanto quella offerta dalle «rappresentazioni mentali», che sono un «fatto permanente della lingua», quanto quella proposta dalle più esplicite «espressioni linguistiche», che sono un «fatto momentaneo del discorso»3 . Ed è per questo che, dopo il suo studio di esordio sull’ar«psicosistematica», venendo G.G. a designare con questi due termini, ovviamente, due diversi aspetti di essa. Circa la loro relazione, così egli afferma: «La psicosistematica non studia i rapporti tra lingua e pensiero ma i meccanismi, deÞniti e costruiti, che il pensiero possiede per mettere in opera un’intercettazione di se stesso, meccanismi di cui la lingua offre una riproduzione fedele. [...] Ora, questi mezzi che il pensiero possiede per afferrare se stesso nella sua propria attività – qualunque essa sia – presentano [...] un carattere meccanico. Ci troviamo in presenza di psicomeccanismi il cui principio costruttivo è la ricerca di una comoda capacità di intercettazione, ma anche la ricerca, nel sistema, di una intercettazione istituita, di una economia superiore che procuri questa comoda capacità» (in questo vol., p. 59). 2 [27], 60. Come viene fatto osservare in A.Joly-A.Boone, Dictionnaire terminologique de la systématique du langage, Paris, L’Harmattan 1996 (e citando da alcuni inediti di G.G.) «Alcuni anni dopo [la pubblicazione di Temps et verbe], due fatti di carattere generale sarebbero intervenuti: 1. - La visualizzazione oggettiva e fondamentale del tempo, secondo un cinetismo discendente: il tempo viene, oggettivamente, percepito come in fuga, secondo un movimento irreversibile [...], in direzione del passato. 2. - La visualizzazione soggettiva [...] secondo un cinetismo ascendente: quello che fa del tempo il campo aperto dinanzi all’essere umano, afÞnché questi vi inscriva la propria attività» (p. 421). 3 Cfr. [23], 208. Su questa importante distinzione categoriale «langue»/«discours», anch’essa di evidente ispirazione saussuriana (sia pure, per quanto concerne il linguista gine-

Presentazione XIII

ticolo4 , G.G. verrà concentrando la più estesa attenzione al sistema dei «tempi verbali» di una lingua, in questo caso quella del francese moderno, i quali forgiano una «immagine del tempo», così come, al medesimo tempo, si ritroveranno ad essere da questa medesima immagine forgiati. Ora, mentre la rappresentazione mentale consente un accesso alle operazioni della langue, l’espressione linguistica occuperà invece lo spazio del discours – trovandosi la prima ad essere deÞnita come «una divisione, in numero Þnito di termini, dell’interezza del pensabile», e il secondo «uno sviluppo senza limiti del pensato che può essere prodotto a partire dal pensabile linguisticamente diviso. La Þnitezza sta dalla parte della lingua; l’inÞnitezza da quella del discorso»5. Inoltre, per la rappresentazione mentale, la sola che propriamente gli interessi, Guillaume verrà proponendo in tutta coerenza con i presupposti della sua ricerca un approccio «sincronico», capace di delineare un’architettura che non sia: quella resa oggetto di una ricerca storica, attraverso tentativi e approssimazioni, lungo l’asse della successività, ma quella che riesce e che delinea un risultato lungo l’asse degli stati6.

Le operazioni della lingua, dunque (quelle del discorso essendo ritenute come subordinate alle precedenti)7 , andranno ricostruite lungo vrino, in termini essenzialmente di «langue»-«parole»), è opportuno aver presente anche il seguente passaggio: «La lingua è un sistema di rappresentazioni; il discorso una utilizzazione, ai Þni dell’espressione, del sistema di rappresentazione in sé della lingua. [...] La rappresentazione del tempo è una costruzione architettonica ediÞcata dal pensiero nel più profondo di se stesso, e che non ha altri obiettivi se non quello di riuscirvi, di farne un’opera coerente, in corrispondenza con l’esperienza che lo spirito umano ha del tempo in relazione a una certa epoca di civiltà. [...] Ma per quanto sia modiÞcata da un idioma a un altro la rappresentazione architettonica del tempo, il discorso, i cui Þni hanno qualcosa di costante, ne ottiene una espressione relativa a delle opposizioni, una delle cui caratteristiche è quella di ripetersi universalmente, facendo salva la sola condizione che non vi sia troppa differenza sul piano del livello di civiltà raggiunto» ([23], 208-9). 4 Cfr. [4]. 5 [21], 185. 6 [22], 210. 7 Come chiarisce lo stesso G.G., l’attenzione verso questo «asse degli stati», ovvero gli «atti di rappresentazione» della lingua, segna il vero e proprio approdo a quello che a partire

XIV

Principi di linguistica teorica

questo «asse degli stati», che assume una conÞgurazione latitudinale (o «trasversale»), cioè appunto sincronica; mentre l’«asse delle successività» assumerà una conÞgurazione longitudinale, cioè diacronica: la prima dovrà mostrare la rappresentazione nella mente dell’immaginetempo (Guillaume la chiamerà «cronogenesi»), e la seconda mostrerà la fissazione di tale immagine (e sarà chiamata «cronotesi»). Il loro intersecarsi darà luogo alla figura 1: 2. Quale sarà dunque l’oggetto della «psicomeccanica del linguaggio» guillaumiana? Fra i molteplici passaggi che descrivono i compiti da Temps et verbe, costituirà l’atteggiamento di una «sistematica», a fronte di una precedente «problematica» del linguaggio. Così infatti G.G. si esprime:« Non si trattava più, per noi, di pórci nella transizione lingua-discorso, ma di vedere ciò che era istituito come lingua: cioè non l’opera momentanea del discorso a partire dal non-momentaneo che è la lingua costruita (permanente), già costruita, ma l’opera stessa che la costruzione della lingua rappresenta nella mente. [...] Allo studio degli atti di espressione, costruttori del discorso, si è sostituito lo studio degli atti di rappresentazione, costruttori della lingua. Questo cambiamento della mia posizione di studio risale, approssimativamente, al 1928»; in questo vol., p. 10). Secondo una felice sintesi che ricapitola sulle proprietà sia della lingua che del discorso, avremo allora che: LA LANGUE 1. correspond, dans la réalité phénoménologique du langage humain; au language puissanciel; 2. se présente en position de condition par rapport à l’acte de langage; 3. a une existence continue dans le temps; 4. est une réalité permanente; 5. est un résultat de glossogénie; 6. est le résultat d’un ouvrage collectif; 7. se consturit par visée généralisante. LE DISCOURS 1. correspond, dans la réalité phénoménologique du langage humain, au langage effectif; 2. se présente en position de conséquence par rapport à l’acte de langage; 3. a une existence discontinue dans le temps; 4. est une réalité momentanée; 5. est un résultat de praxéogénie; 6. est le résultat d’un ouvrage individuel; 7. se construit par visée particularisante. (Cfr. R. Lowe, Introduction à la psychomécanique du langage, cit., p. 37).

Presentazione XV figura 1 Primo stato di costruzione dell’immagine-tempo

II Latitudine: temporale (Modo Congiuntivo Tempo in FIERI)

Secondo stato di costruzione dell’immagine-tempo

III Latitudine: (Modo Indicativo Tempo in ESSE) 8

Terzo stato di costruzione dell’immagine-tempo

in longitudine:

operaz. costruttrice

I Latitudine: (Modo Nominale Tempo in POSSE)



e le Þnalità cui essa è chiamata a aderire, mi pare che il seguente, che conclude Temps et verbe, rappresenti in maniera particolarmente efÞcace sia gli uni che le altre: [...] l’ambito della mente [de l’esprit] [...] non è quello del pensiero pensato, in cui le cose si presentano come concepite e già formate, ma quello, più profondo, e in certo modo preesistente, 8 Cfr. [21], 186. A chiarimento di questa rappresentazione e della nozione di «sincronia», affatto centrale nella prospettiva psicomeccanica, egli afferma:«Questa operazione di rappresentazione, già compiuta nel momento in cui interviene l’atto di espressione, si sviluppa lungo un asse longitudinale, e la intercettazione [saisie] avviene lungo degli assi di intersezione trasversali. Il meccanismo al quale obbedisce nel caso speciÞco la mente umana [l’esprit humain] è quello di una longitudine operativa, che è costruttrice, e di latitudini risultative, che segnano lo stato di avanzamento dell’operazione costruttrice intrapresa e sviluppata longitudinalmente» ([21], 185-86); e in altro luogo:«La distinzione fra i due assi, quello longitudinale delle successività (o della diacronia), e quello trasversale degli stati (o della sincronia) appartiene a Ferdinand de Saussure [...]. Sarà da osservare che quel che si proÞla lungo l’asse degli stati non sarà la formazione stessa della lingua, ma le riuscite successive di questa formazione. Della lingua non conosciamo altro che quel che in noi è giunto a un risultato. Quel che non è giunto a un risultato sfugge alla intercettazione, e non raggiunge l’asse degli stati» ([22], 210).

XVI

Principi di linguistica teorica

del pensiero pensante, in cui le cose, ancora in formazione, non hanno ancora abbastanza corporeità perché la memoria possa impregnarsene. [...] la novità di questo libro deriva dal fatto che in esso si fa chiaramente distinzione fra questi due ambiti, che si ritrovano separati l’uno dall’altro dal linguaggio stesso che, per così dire, erige una barriera fra di loro. Non appena si dia espressione linguistica, quel che ci si trova dinanzi è un pensiero pensato; mentre il pensiero pensante, che ha creato questo pensiero pensato, è ormai Þnito, morto. E il linguista che dovesse arrestarsi alle sole risorse di una osservazione diretta, arriverebbe sempre troppo tardi per averne percezione9 .

E dunque il tempo, ancora lui, è chiamato a protagonista di questa relazione, sempre a rischio di impercettibilità, nel senso almeno di una «percezione diretta», fra un «già-stato» e un «da-essere»: fra questi due «stati» del pensiero, o della «concepibilità» delle cose, il linguaggio, o meglio il «discorso», al quale si deve propriamente la saisie10 temporale, giocherà ogni volta il ruolo di condurre il «pensiero 9 [5], 133-34. Su questa impegnativa relazione fra il «pensante» e il «pensato», si tenga presente anche la seguente osservazione, che viene però convocata a porre la relazione fra «signiÞcato» e «signiÞcante»: «Il linguaggio fisicizza, se possiamo dire così, il mentale. Il mentale fa appello, nel caso del linguaggio, al Þsico che lo farà divenire sensibile, tramite la visione o l’audizione, ricorrendo cioè ad un mezzo sensoriale il cui ruolo, limitato, è di produrre una rappresentazione Þsicizzata del mentale, rappresentazione che non sarà mai un’immagine realmente fedele del mentale, al quale non fa altro che adattarvisi» (in questo vol., p. 77). 10 Questo termine, che in Temps et verbe non è ancora pienamente elaborato, e sulle cui difÞcoltà di traduzione si rinvia alla Nota alla Traduzione a questo vol., designa la intersezione da parte di una operazione psichica che abbia per scopo di cogliere, afferrare quel che è stato di volta in volta costruito. In tale termine agisce dunque una duplice signiÞcazione: quella di «punto d’incontro», o di «intersezione» di due piani diversi (solitamente quello in cui la lingua intercetta il pensiero), ma anche, e secondo il signiÞcato più abituale, quella di «afferrare» il risultato di quella intersezione. Valga al riguardo la seguente e molto esplicita precisazione di G.G.: «[Il pensiero] esiste in noi, si agita in noi, indipendentemente dalla lingua; ma è solo con la saisie linguistica di cui saremo capaci, che il pensiero diviene lucido e, come fosse rißesso in uno specchio, diviene in noi un oggetto degno di considerazione. [...] E sarà la saisie che il pensiero opera di sé, a conferirgli la sua potenza. Un pensiero che non cogliesse bene se stesso [qui ne se saisirait] in se stesso, sarebbe di certo ancora un pensiero, ma un pensiero impotente. E però, sarebbe ancora pensiero un pensiero impotente? Si potrebbe separare un pensiero dalla sua potenza?» (G.G., Leçons de linguistique 1948-49, s. C, vol. 3 («Grammaire particulière du français et grammaire générale»), Paris, Librairie Klincksieck-Québec, Presses de l’Université Laval, 1973, pp.230-31).

Presentazione XVII

pensante» a «pensiero pensato», e con ciò di rendere il primo propriamente «passato» (ovvero «Þnito, morto»), senza che per questo, tuttavia, il secondo esaurisca del tutto la pensabilità del «da-essere», il quale, una volta che sarà reso discorsivo, e sarà dunque pensato, diverrà anch’esso «pensiero pensato», e così via di seguito. Questo tempo di concepibilità delle cose, a guardarlo più ravvicinatamente, sarà da Guillaume denominato «tempo operativo», quello propriamente impiegato e richiesto dal pensiero per la produzione del discorso, ma la cui durata, intervallata com’è fra un «già-stato» e un «da-essere», sfugge a ogni percezione da parte del pensiero: è un tempo, come si potrebbe anche dire, la cui durata è per gran parte «inconsapevole»11 , essendo la nostra «consapevolezza» dedita soltanto a quel tempo necessario all’articolazione propriamente linguistica, ovvero a scandire o pronunciare le parole di una o più frasi12. Questo tempo operativo, rappresentato eloquentemente dalla citazione in esergo a questa Presentazione, verrà così a trovarsi per così dire impresso nella costruzione discorsiva effettivamente prodotta, e potrà, a partire da queste tracce impressive, essere percepito, sia pure non direttamente, dal locutore, il quale, da quanto avrà egli stesso effettivamente detto, potrà valutare se ciò corrisponderà o meno a quel che cercava o si proponeva di dire. 3. Ora, se per il locutore questo cammino a ritroso dal detto al dicibile potrà compiersi o meno, a seconda delle sue inclinazioni momentanee, esso costituirà invece il percorso obbligato del linguista, 11 Il termine inconscient, che designa in francese tanto l’«inconscio» (cioè come sostantivo, ad es. nell’accezione di J. Lacan de «l’inconscient structuré comme un langage»), quanto una qualunque e perciò generica prestazione o attività umane, di cui saremmo appunto inconscients (e dunque come aggettivo), designerà, almeno in questa Presentazione, la seconda delle due signiÞcazioni, e sarà perciò tradotto, ad evitare inopportuni fraintendimenti, come «inconsapevole» (e laddove dovesse occorrere come sostantivo, avendo esso valenza comunque diversa da quella avuta in psicoanalisi, sarà tradotto, analogamente, come «inconsapevolezza»). È invece appena il caso di avvertire che nei Principi, vi sono diverse occorrenze in cui il termine inconscient (sost.), dato il contesto, è stato tradotto correttamente come «inconscio». 12 Fra la «lingua» e il «discorso», occorrerebbe far menzione, almeno, dell’«atto di linguaggio», quale sorta di interfaccia fra la prima e il secondo. È questo l’intervallo temporale, affatto inconsapevole, in cui si compirebbe la effettuazione di «quel che si voleva dire», e che

XVIII Principi di linguistica teorica

almeno di quello nell’accezione guillaumiana del termine: esso varrà a ricostruire quelle condizioni operative (sul piano della lingua) che si resero efÞcaci in vista proprio di quella, e non di un’altra, produzione discorsiva. Perché possa darsi questo cammino a ritroso, il linguista dovrà appunto abbandonare l’abito intellettuale di una ricerca guidata dalla percezione diretta dei «fatti» (siano essi quelli offerti dal corpus puro e semplice di una lingua, o quelli attinenti alle scelte o preferenze stilistiche del locutore), un abito cioè esclusivamente descrittivo, e dovrà invece assumere quello di una pura concepibilità, sorretta e guidata da «intuizione» e «immaginazione», di quanto venga reso da lui oggetto degno di osservazione. Un esempio di quest’ordine di concepibilità viene da Guillaume mostrato a proposito del modo «quasi-nominale», le cui forme verbali sono quelle dell’inÞnito, del participio «presente» e del participio «passato», la cui relazione, o «il cui asse di successività» si dispiega quando venga assunto, appunto, quell’abito intellettuale della «concepibilità». In particolare, dunque, Guillaume farà osservare che ciascuna di queste forme verbali articolerà una «durata» temporale, ma ciascuna in modo diverso, anche se questa articolazione sarà sempre la stessa in ognuna di esse. Mentre l’inÞnito propone un evento la cui durata

ha come risultato il «detto terminale», o appunto il «discorso», secondo quanto mostrato in figura 2, che riproduce una schematizzazione presente in R. Lowe, Introduction, cit., p. 38: figura 2 ACTE

DE LANGAGE

DISCOURS



M1

#

# dit nul



M2 ▼

LANGUE

dire puissanciel

#

dire en cours ▼

dire effectif

# dit partiel

# M3

dit à venir

dit terminal

#

Presentazione XIX

è concepita come «possibile», il participio presente propone un evento la cui durata è concepita come «ancora in corso», e il participio passato, inÞne, proporrà l’immagine di un evento la cui durata è concepita come «compiuta». Quel che Guillaume non mancherà di osservare, è il fatto che questa concepibilità, di cui il parlante stesso reca testimonianza attraverso l’impiego di queste tre forme (le quali la presentano invero sempre come già concepita), sarà affatto «generale» sia perché queste forme si deÞniscono come tali indipendentemente da ogni riferimento alla forma pronominale, immancabile invece negli altri modi verbali, ma anche perché esse sono indipendenti dal riferimento a quella temporalità che viene articolata dai tempi di quegli altri modi verbali13. Questo esempio, scelto tra gli altri per la sua intuitiva semplicità, può fornire qualche indicazione, sia pure ridotta all’essenziale, circa il procedimento della psicomeccanica guillaumiana. La quale risolverà in termini di concepibilità, appunto, sia la formazione della «parola» in generale (e dunque dell’«articolo», del «sostantivo» e dell’«aggettivo» in particolare), sia quella della «frase». Dovunque getti il suo sguardo, il teorico della lingua, in questa accezione guillaumiana, dovrà saper insomma risolvere in termini temporali e di rappresentazione mentale, o appunto di concepibilità, gli oggetti che si danno a vedere nel «discorso», ma che ben prima di questo, la «lingua» è venuta elaborando. E pur essendosi la linguistica guillaumiana dedicata ex professo alla testualità e alle occorrenze linguistiche del «francese moderno», essa condividerà, coerentemente con la sua impostazione dichiaratamente «sincronica», l’ambizione di potersi estendere ben oltre questi conÞni geograÞcamente deÞniti: Presentata in questi termini, [la tesi sostenuta in quest’opera] è ricalcata strettamente a partire da ciò che avviene nella lingua francese moderna. Ma in fondo, mutatis mutandis, essa vale per 13 Per quanto concerne il modo dell’inÞnito, ad es., il parlante mostra la medesima «concezione» di una durata «possibile» sia proferendo «Essa doveva partire molto presto», sia «Io devo partire molto presto», sia «Voi dovrete partire molto presto»; ciò che varrà naturalmente anche per le altre due forme del participio presente e del participio passato, la cui durata sarà concepita nel primo caso come appunto «ancora in corso», e nel secondo caso come «compiuta».

XX Principi di linguistica teorica

ogni epoca e per ogni lingua. [...] Quanto più una lingua verrà analizzata nella sua astrazione, tanto più essa sarà in grado di fornire delle basi stabili alla linguistica psicologica comparativa. L’astratto è uno, il concreto molteplice14 .

Napoli, aprile 2000

14

[5], 12-13.

Nota alla Traduzione

Una breve Nota del traduttore per parlare delle innumerevoli difficoltà che questo testo ha presentato. Cominciamo con una banalità, un’affermazione da molti ribadita in diversi modi, ma quasi mai accettata fino in fondo nelle sue implicazioni più profonde e generali. Ogni avvenimento può sempre essere osservato in due modi diversi, negativo o positivo. Dipende dalla propensione caratteriale del soggetto che osserva, dalla sua maggiore o minore tendenza a essere ottimista o pessimista. È la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Anche la pubblicazione di questo libro si presterà, quindi, a questa duplice lettura. Se accentuiamo l’aspetto negativo, quello ipercritico, troveremo mille falle a questo libro. Innanzitutto puntualizzeremo che è di difficile lettura e a volte anche di difficile interpretazione. Difficoltà accresciuta dal fatto che si tratta di una scelta di appunti scritti da Guillaume in vista delle lezioni da lui tenute in più di vent’anni di insegnamento e ricerca, all’École pratique des Hautes Études di Parigi, lezioni da recitare quindi oralmente, per cui non siamo certo in presenza di un testo organicamente concepito al fine di essere letto. Ma subito potremo controbilanciare questa critica sottolineando che la sua eterogeneità ci offre in contropartita un panorama della teoria sviluppata da G. Guillaume, ingiustamente trascurato, e in Italia addirittura ignorato, nell’ormai vasto insieme di linguisti che hanno seguito le orme di F. de Saussure. Altri testi di Guillaume, scritti direttamente da lui, offrono un

XXII Principi di linguistica teorica

maggior approfondimento degli argomenti qui affrontati e mettono meglio in luce i meccanismi in gioco nella costruzione della lingua e di conseguenza dell’insieme del linguaggio. Temps et verbe, Langage et science du langage, Le problème de l’article et sa solution dans la langue française o L’architectonique du temps dans les langues classiques sono testi fondamentali di questo autore che al più presto meriterebbero di esser fatti conoscere al pubblico italiano. Questo libro, il primo di quest’autore pubblicato in Italia, offre però la possibilità di capire, almeno in grandi linee, il piano di ricerche che Guillaume in tanti anni ha disegnato, in un work in progress portato avanti insieme ai suoi ‘uditori’ più fedeli. Per quanto riguarda la mia traduzione, le difficoltà che il testo mi ha presentato cominciano proprio qui, una volta cioè decisa l’utilità di avere un’edizione italiana dei Principes de linguistique théorique. È stato, infatti, innanzitutto necessario affrontare la complessità dell’organizzazione delle frasi in cui l’autore presenta le sue lezioni. Nel francese moderno, forse ancor più che nell’italiano moderno, si tende a scrivere con frasi brevi, dalle strutture sintattiche semplici e, per quanto possibile, di immediata comprensione. Mi sono invece trovato a far fronte a un testo che alle abituali difficoltà di uno stile accademico, somma la complessità di concetti espressi con numerosi neologismi, quasi sempre necessari data l’assoluta novità delle problematiche affrontate. Inoltre, al naturale stile «allocutivo» di Guillaume, come lui stesso lo ha definito, si aggiunge la complessità di frasi lunghe, infarcite di digressioni, delle quali a volte solo a fatica si stabilisce il percorso logico. Il difficile è stato proprio mantenersi fedeli, quanto più possibile, al testo originale. D’altra parte, la ‘religiosità’ seguita dai collaboratori del Fondo G. Guillaume dell’Università Laval del Québec, nel riportare in nota alcune varianti, consistenti in annotazioni o digressioni fatte dallo stesso Guillaume, mi ha spinto a non allontanarmi mai, o quasi, dall’originale e ad evitare l’adozione di termini più usuali di quelli incontrati, a discapito anche di quella che mi sarebbe sembrata una esposizione più lineare dei concetti. Ho preferito lasciare per chi legge, o per lo specialista che ne vorrà dare una spiegazione, il compito di interpretare quanto scritto e superare le asperità del testo.

Nota alla Traduzione XXIII

Ma faccio qualche esempio, per uscire dalle nebbie dell’enunciazione dei principi. Prendiamo un paragrafo di pagina 122 del testo originale, che resta nei limiti della trattazione di teorie generali: « Je viens de dire optimum. Il faut entendre par là: le meilleur qui puisse être, en l’état de facture, atteint à l’époque considérée, dans une civilisation considérée, par la langue. L’optimum, celui après lequel le mieux serait de l’impossible, ne se laisse pas concevoir. Il se dérobe dans la perspective, et sa limite de fuite est le moment, auquel les analystes ne se sont peut-être pas assez intéressés, où, le possible demeurant, la probabilité de sa surrection est nulle – c’est-à-dire très superlativement improbable ». In questo caso la complessità del paragrafo non è eccessiva. Per gli incisi, presenti un po’ ovunque, un semplice riposizionamento delle componenti delle frasi può bastare a rendere più chiara l’esposizione del pensiero. Nell’ultima frase, tuttavia, a questa parziale difficoltà si aggiungono forme estremamente contratte [Il se dérobe en perspective....], o iperboliche, con un uso particolare di termini comuni [...c’est-à-dire très superlativement improbable] e ancora vengono introdotti termini a dir poco inusuali [surrection]. O ancora a pagina 190: «La partie du discours est, dans le mot, une universalisation intégrante qui le clôt, et qui dans tous les cas représente – l’universalisation étant devenue indépassable - une opposition de la vision universelle à elle-même ». Qui è la stessa complessità concettuale che rende difficile la comprensione della frase, nella quale l’autore cerca una formula quanto più possibile sintetica che esprima al meglio la sua idea. In entrambi i casi la mia scelta è stata quella della massima fedeltà al testo. Infatti troveremo rispettivamente: «Ho detto ottimale. Bisogna intendere questa parola come: il migliore che possa esistere nello stato di fattura raggiunto dal linguaggio, all’epoca considerata e per un determinato grado di civiltà. L’ottimale, quello dopo il quale sarebbe impossibile avere qualcosa di migliore, non si lascia immaginare. In prospettiva si sottrae, e il suo limite di fuga, al quale gli analisti non sono forse abbastanza interessati, è il momento in cui la probabilità della sua comparsa è di fatto nulla, cioè superlativamente improbabile, pur restando possibile» (pp. 77-78).

XXIV

Principi di linguistica teorica

E più avanti: «Nella parola, la parte del discorso è una universalizzazione integrante che racchiude la parola, e che rappresenta sempre - essendo l’universalizzazione divenuta insuperabile - una opposizione della visione universale con se stessa» (pp. 123-24). Il termine ‘parola’ è stato qui ripetuto perché il corrispettivo francese, mot, è di genere maschile e nella frase originaria non si creano ambiguità, cosa possibile in italiano se usassimo il solo pronome. Queste, tuttavia, restano nel campo delle difficoltà usuali che un traduttore incontra nella traduzione di un testo complesso. Quello che è invece meno facile da trattare è il lessico quando questo è, non solo dotto o ricercato, ma oggetto di sperimentazione e innovazione, relativamente a concetti nuovi o a uno stile discorsivo peculiare all’autore. Annie Boone e André Joly, hanno fatto un grosso e interessantissimo lavoro sul lessico guillaumiano arrivando ad elaborare un Dictionnaire terminologique de la systématique du langage (Paris, L’Harmattan 1996, DTSL) dove sono repertoriati circa 400 termini e concetti utilizzati da Guillaume nel corso delle sue lezioni e dell’elaborazione della sua teoria. Nella premessa, che i due autori hanno messo a introduzione di questo fondamentale lavoro, in cui con precisione enunciano la definizione di ogni termine e sviluppano i concetti di Guillaume sulla base della totalità dei suoi scritti finora editi, possiamo leggere :«Guillaume est réputé, à tort ou à raison pour l’hermétisme de sa terminologie […]. Il utilise peu de néologismes et, parmi ceux-ci, certains sont des hapax. En réalité la difficulté vient en partie de ce qu’il a recours à la terminologie traditionnelle pour exprimer des idées nouvelles, en tout cas des idées différentes de ce à quoi on est en générale accoutumé. De là certaines ambiguités pour un lecteur rapide» (p. 7). Guillaume usa diversi termini ‘normalmente’ dotti e di uso più corrente in testi filosofici che in quelli linguistici, come sorite («sorite», termine filosofico sinonimo di polisillogismo), o presi in prestito da altre discipline, come symphyse («sinfisi», termine anatomico indicante un’articolazione tra due ossa), synapse («sinapsi», termine anatomico indicante il punto di congiunzione tra due nervi o tra un nervo e un muscolo) o ancora integrale, différenciel, vecteur («integrale», «differenziale», «vettore»), presi tutti dal linguaggio matematico.

Nota alla Traduzione XXV

La creatività di Guillaume si esprime, inoltre, nella creazione o nell’adattamento di termini finalizzati a significare qualcosa di specifico, ad esempio successivité, extensité, tensité, discussive, tutti tradotti cercando di rispettare la loro forma originaria: «succesività», «convenienza», «estensità», «tensità», «discussiva». Questo considerando che in francese parole come succession, pertinence, extensibilité, discursif, esistono. Come degli hapax, cioè termini che nell’economia del nostro testo troviamo usati una sola volta, possono invece essere considerati idéité, che ho preferito tradurre con il più comune «idealità», così come s’alentir e alentissement che ho tradotto con «rallentare» e «rallentamento», o la voce verbale s’exponente, che ho addirittura tralasciato di tradurre perché non avrebbe aggiunto nulla alla comprensibilità della frase in cui era inserita. Bisogna seguire Guillaume in questa sua creatività lessicale, in questo suo giocare con le parole, che sempre, come sono create o presentate, rispecchiano un senso profondo, presente nel pensiero, ma non ancora espresso, seguendo quel percorso, che ha egli stesso tanto chiaramente illustrato, dalla visibilità mentale alla dicibilità verbale e al dire terminale. La cosa risulterà ancora più evidente nelle numerose coppie oppositive utilizzate da Guillaume, che guardano più alla contrapposizione anche formale e alla loro assonanza fonetica che non alla loro effettiva esistenza nel linguaggio comune. Troveremo così le coppie: proposée/trasformée, physisme/mentalisme, implicité/explicité, variance/invariance, intension/extension, minimé/maximé e quelle che danno loro un modello di paragone costante nel doppio movimento fondatore della stessa lingua: universalisation/singularisation o generalisation/particularisation. Anche in questo caso il principio di fedeltà al testo è stato quello che mi ha guidato e troveremo dunque: «proposta/trasformata», «fisicismo/mentalismo», «implicitato/esplicitato», «varianza/invarianza», «intensione/estensione», «minimizzato/massimizzato», «universalizzazione/singolarizzazione», «generalizzazione/particolarizzazione». Anche se, ad esempio, esiste «variazione» e «invariabilità», «fisico» o «mentale», e non si può «implicitare» qualcosa mentre la si può «esplicitare», mi sarebbe parso di tradire o banalizzare l’originale comportandomi diversamente.

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Principi di linguistica teorica

Delle coppie oppositive trattate, una mi sembra particolarmente importante ed è discernement/entendement, doppio processo della mente che Guillaume pone all’origine della genesi della parola. In questo caso il problema principale è stato presentato dalla parola entendement, il cui corrispondente omeofono italiano (cioè con suono simile anche se non uguale) è «intendimento», che nell’accezione comune indica una intenzione piuttosto che delle capacità intellettive (come nel caso, ad es., del celebre Essais sur l’entendement humain di J. Locke, la cui traduzione francese così traduce, a sua volta, il termine ingl. understanding). Solo in forme piuttosto arcaiche (come ad es.: «il brano è accompagnato da note che ne facilitano l’intendimento»), questo termine ha il senso di «comprensione». Ho preferito tuttavia mantenere il termine «intendimento», oltre che per le ragioni precedentemente esposte, anche perché Guillaume vuole piuttosto indicare un processo, una operazione della mente umana che dal «discernimento» di un semantema porta alla sua forma finale nel discorso. Non di «intelletto» bisognerebbe, dunque, parlare ma semmai di «intellezione» o di «operazione intellettiva», perdendo così ogni effetto di assonanza. Quando Guillaume parla dell’entendement final di marcher, di marchant e di marché, vuole appunto sottolineare più l’intenzione, la capacità di prevedere l’effetto finale che la parola avrà nel discorso, scegliendo attraverso l’operazione di entendement la sua collocazione nella categoria verbale o in quella nominale, pur mantenendo tale operazione sostanzialmente inalterato il portato rispettivo del significato delle due parole che nell’esempio fatto resta lo stesso. Nel DTSL tra le altre cose, si può leggere a proposito di questa coppia oppositiva: «Dans la systématique du mot des langues indo-européennes, le discernement est l’opération première de production de la matière notionelle, qui constitue la ‘base de mot’, par opposition à l’entendement, qui est l’opération seconde de production de la forme saisie. Le discernement est aussi appelé idéogénèse et l’entendement, morphogénèse» (ad vocem). Tuttavia, Guillaume usa entendement anche per indicare l’«intelletto», il «pensiero» e a volte le «capacità raziocinanti» dell’uomo. In questo caso, e quando mi sembrava maggiormente necessario farlo, ho preferito ricorrere esplicitamente a traduzioni diverse dal termine usualmente qui adottato di «intendimento», proponendo di volta in volta una interpretazione del

Nota alla Traduzione XXVII

pensiero del linguista. Il lavoro del traduttore è quello di rendere al meglio il pensiero di un autore, senza doverlo però interpretare oltre misura per non incorrere in facili errori. Per concludere, vorrei parlare di due termini fondamentali della linguistica guillaumiana: il primo è basiale, il secondo, e soprattutto, è saisie, con il corrispettivo verbo saisir. Vorrei dunque soffermarmi un attimo su di essi. In italiano ho preferito lasciare inalterato il termine basiale, usando la stessa grafia del francese. La mia ‘traduzione’ è consistita nell’accogliere nel nostro lessico questo termine nella sua invarianza. In effetti, anche in francese la parola è un neologismo, almeno rispetto alle nostre conoscenze, ma il senso che Guillaume ha voluto darle si afferra facilmente. Lo spazio semantico coperto dalla parola basiale sarà talvolta quello di «di base», altrove quello di «fondamentale». Ho preferito quindi introdurre anche in italiano questo neologismo, pensando che possa conservare nella nostra lingua le stesse potenzialità semantiche che ha in francese. Nel caso di saisie, la questione è più complessa perché riguarda l’uso di un termine esistente, ma impiegato in una delle sue accezioni (e in francese ci verrebbe di dire saisies) più particolari, cioè quella di «intercettazione», derivante da un uso abbastanza ristretto che si potrebbe fare del verbo saisir inteso nel senso dell’italiano «intercettare». Di questa accezione di saisie, invano cercheremmo traccia in un dizionario francese, ma nel testo si capisce chiaramente che Guillaume usa questa parola come sinonimo di «intercettazione». Si veda ad es. la seguente occorrenza: «Tout, en effet, dans la langue est procès. Et les résultats qu’on constate sont, si j’ose dire, une sorte de tromp-l’oeil. Il n’y a pas de substantif: il y a dans la langue une substantivation, plus ou moins tôt interceptée. Il n’y a pas d’adjectif, il y a une adjectivation plus ou moins avancée en elle-même au moment où l’esprit la saisit [...]» (p. 224). E ciò toglie ogni dubbio sul senso che Guillaume attribuisce al verbo saisir e al suo corrispettivo sostantivale. Tuttavia, talvolta troveremo per il verbo anche il senso ad esso più abituale di «afferrare» o «cogliere», e per saisie, dunque, quello di «accezione» o «presa». Tutto questo fa parte dello sguardo critico portato al testo. Ma

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per concludere con una nota positiva, vorrei osservare che nonostante la sua complessità questo libro ci dà l’opportunità di avvicinarci ad uno dei pensatori più profondi succedutisi a Saussure. In esso possiamo trovare gli strumenti che Guillaume ci ha forniti per affrontare e comprendere, secondo me nel migliore dei modi finora conosciuti, il mistero della lingua e della capacità che l’uomo ha di cogliere in se stesso il suo pensiero. È un mistero che solo la lettura di questo e degli altri testi di Guillaume di cui, come ripetiamo, non possiamo non augurarci che vengano prima o poi tradotti in italiano, ci danno la possibilità di penetrare. Vorrei infine ringraziare il prof. Alvaro Rocchetti, dell’Université «Paris III» de la Sorbonne Nouvelle di Parigi, che mi ha dato l’opportunità di conoscere questo grande linguista e di comprendere le interessantissime utilizzazioni che possono farsi delle sue teorie anche nella ricerca applicata alla lingua italiana. Ringrazio inoltre il prof. Arturo Martone del Dipartimento di Filosofia e Politica dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, che ha afferrato l’importanza e l’interesse del pensiero guillaumiano nel quadro linguistico attuale, favorendo la possibilità a questo testo di essere pubblicato e fornendo autorevolezza accademica al testo italiano con una necessaria e utile supervisione del lavoro di traduzione da me fatto. Per ciò che riguarda infine l’apparato critico, è opportuno segnalare che le Note dei curatori dell’edizione francese sono numerate, quelle del traduttore sono invece indicate da uno o più asterischi. Le parentesi quadre segnalano nel testo sempre un intervento del traduttore.

Prefazione di Roch Valin

La raccolta che oggi pubblichiamo è costituita da un insieme di testi inediti tratti dall’insegnamento di Gustave Guillaume all’École pratique des Hautes Études della Sorbona, tra il 1938 e il 1960. L’idea, che ci ha subito affascinato, ci è stata suggerita dal nostro collaboratore ed amico, Walter Hirtle, e la sua realizzazione ha potuto rapidamente essere portata a buon fine grazie allo zelo infaticabile della nostra ex assistente C. Veyrat, all’epoca segretaria archivista del Fondo Gustave Guillaume, che si incaricò di trovare il numero sufficiente di lettori e di distribuire i compiti. Questi Principi di linguistica teorica sono, dunque, il frutto di una collaborazione molto ampia, senza la quale non avrebbero potuto vedere la luce, se non fra molto tempo ancora. Teniamo a manifestare, quindi, la nostra più sincera gratitudine a tutti i collaboratori, dei quali si troverà la lista alla fine di questa prefazione. Dopo averne fatto una prima scelta, l’insieme dei testi fu sottoposto alla lettura e al parere di Maurice Molho e Gérard Moignet, entrambi professori alla Sorbona, che accettarono volentieri di procedere ai tagli necessari e di trovare per ogni estratto un titolo, immaginando un ordine di presentazione. Il nostro compito specifico, peraltro molto gradito, è consistito essenzialmente nel riprendere i testi scelti alla fine di questa cernita e, con l’aiuto delle preziose indicazioni dei nostri due colleghi, stabilire la progressione definitiva dei capitoli del libro, a volte spostando, sopprimendo o aggiungendo, a volte ritagliando, in modo leggermente diverso, i testi che ci erano stati presentati. Il risultato è stato la raccolta che abbiamo sotto i nostri occhi.

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La scelta e la disposizione dei testi sono state condizionate da una duplice preoccupazione: da una parte, non presentare niente al lettore che supponesse una conoscenza precedente dei modi di vedere e delle teorie dell’autore, e, dall’altra, fornirgli una chiara visione delle linee di forza che innervano questi punti di vista e teorie. Siamo stati così portati a mettere fianco a fianco testi separati da un lungo intervallo di tempo e ad eliminare tutti quelli che avrebbero portato il lettore in settori della teoria nei quali, separata dal suo contesto, la spiegazione di un dettaglio, magari anche molto significativo, avrebbe rischiato di perdere ogni valore probante e perfino ogni plausibilità. Concepita per un lettore non guillaumiano, e anche non linguista, questo mosaico di testi, ineguali in ampiezza e scritti in periodi molto diversi, dovrebbe, se lo scopo voluto è stato raggiunto, non tanto iniziare il lettore al contenuto della teoria, quanto illustrare, per grandi ma chiare linee, i principi sui quali si fonda quella linguistica nuova, di cui l’autore di Temps et verbe è stato il creatore. Nel corso della preparazione del presente testo abbiamo pensato, ovviamente, anche ai lettori della collezione degli inediti di G. Guillaume, di cui sarà pubblicato presto il terzo volume. Considerando coloro che non hanno la possibilità di venire personalmente al Fondo Gustave Guillaume per consultarne gli inediti, e in attesa di una pubblicazione accessibile alla consultazione, ci siamo detti che la presente raccolta sarebbe stata per loro l’occasione di avere in anticipo un panorama d’insieme dei fondamenti e dei principi della teoria, senza dover attendere che questo insieme si disegnasse, con sufficiente chiarezza, dinanzi ai loro occhi, attraverso i richiami occasionali che ne vengono fatti nelle lezioni e conferenze. In questo modo, le pagine che leggeremo, pur non essendo un vero e proprio vademecum della linguistica guillaumiana, costituiranno, nondimeno, un comodo riassunto dei principi sui quali essa si fonda, riassunto grazie al quale potremo percepire, senza difficoltà, la grande coerenza dei modi di vedere e delle intuizioni dell’autore. Questa coerenza la vedremo del resto trasparire già solo alla semplice lettura dell’indice generale. Analogamente, non appena avremo gettato uno sguardo sull’insieme dei testi pubblicati, vedremo apparire un’importante verità riguardante il linguaggio e la scienza del linguaggio: non essendo il linguag-

Prefazione 3

gio un oggetto di indagine scientifica simile agli altri, è inevitabile che anche la scienza di cui è oggetto abbia le sembianze di una scienza non del tutto simile alle altre, cosa di cui un osservatore attento dovrà convincersi una volta per tutte. Per questo motivo, ad esempio, nessuno ha il potere di impedire, come è stato intuito e detto da alcuni pensatori del passato che non avevano i mezzi per dimostrarlo, che il linguaggio influenzi nella sua esistenza e nel suo divenire le sorti del pensiero comune, cioè del pensiero logico di una collettività umana, colto al suo livello più basso, e prima di ogni arricchimento culturale, e costringa, contemporaneamente, il pensiero scientifico, in difficoltà nello spiegare il linguaggio, a rispettare, nel suo processo analitico, gli imperativi imposti dalla banalità (o semplicità?) stessa dell’oggetto preso in esame. D’altra parte, e in tutta banalità, e anche in questo caso il linguista non può farci nulla, il linguaggio è una delle componenti fondamentali del fenomeno umano. Una teoria del linguaggio che, per quanto grande sia la difficoltà dell’impresa, non riesca a inserire il suo oggetto in questo quadro fenomenologico generale, e a descriverne, in questo stesso quadro, tutti gli aspetti, viene meno al suo compito, ne sia cosciente o meno il suo osservatore. E poiché un sistema esplicativo spiega sempre qualcosa, potremo allora spiegare alcune cose che riguardano il linguaggio, ma non spiegheremo la specificità di quella cosa che, tra tutte le altre, è il linguaggio. Il lettore di queste pagine inedite di G. Guillaume non potrà non avvertire, come incorporata dappertutto nella trama stessa del pensiero dell’autore, questa dimensione antropologica – in realtà, converrebbe piuttosto chiamarla antropogenetica – che conferisce al linguaggio umano la sua specificità nell’insieme dei linguaggi osservabili. Allo stesso modo, man mano che procederà nella lettura, non gli sfuggiranno le esigenze teoriche che ne derivano per l’edificazione di una scienza vera e completa del linguaggio – das Wahr ist das Ganze. La giustapposizione di testi, separati tra loro nel tempo da un lungo intervallo, permetterà di rendersi conto che queste esigenze non sono cambiate nel pensiero dell’autore e che fino alla fine, ma presenti sempre più chiaramente, hanno regolato continuamente il cammino dello studioso e guidato la progressione continua del suo pensiero

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nella medesima direzione, e questo è un criterio importante nell’elaborazione di una teoria. Infatti, una volta trovati i suoi punti di partenza, una teoria continua, si approfondisce e si generalizza seguendo una progressione che offre l’immagine, percepibile solo a posteriori, di un vero e proprio tropismo, e di questo la storia delle scienze fisicomatematiche ci offre oggi numerosi e illustri esempi. Insieme ad altri criteri che qui non evochiamo, è questa polarizzazione di un procedimento analitico, questa obbedienza segreta di uno spirito scientifico a degli imperativi nascosti (realtà la cui esistenza viene dimostrata ma che non si mostra mai) che ci fa riconoscere, sempre a posteriori e solo quando i primi elementi di prova sono già comparsi, la potenza intuitiva di uno spirito, vale a dire quello che, quando ancora si accettava l’ineguaglianza potenziale dei cervelli, era chiamato genio. Fortuna o sfortuna – l’uomo non si è mai preoccupato di farne la distinzione – Gustave Guillaume appartiene alla categoria dei grandi intuitivi, da sempre esposti alla contraddizione e alla riluttanza di coloro che hanno troppa fretta e reclamano subito prove e dimostrazioni, senza neanche immaginare che, a volte, le possibilità di prove possono sopravvenire soltanto molto tempo dopo aver percepito la verità. Potremmo ricordarci, a questo proposito, la frase di Meillet, spesso citata da G. Guillaume: «La scienza vive di prove e non di verità». Il fatto è incontestabile. Non è tuttavia meno vero che la scienza ha bisogno di cominciare, in qualche modo, a esistere e deve cercare e trovare la propria strada, per poter in seguito progredire e diventare adulta. Ora queste strade sono necessariamente nascoste. Perduto nella grande nebbia della sua ignoranza, il ricercatore deve rassegnarsi a non poter vedere più in là del palmo della sua mano. Sola risorsa, in questa nebbia luminescente ma opaca, è l’immaginazione, cioè il ricorso a una facoltà capace di rappresentarsi, nell’invisibile, il tracciato logico di un cammino da seguire – o, se si vuole, la direzione da prendere –, tracciato di cui converrà in seguito riconoscere la materializzazione nei mille tours, détours et retours 1 imposti dalla progressione 1

La formula, usata in un altro contesto, è di Guillaume.

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lenta e prudente della pratica. Le buone guide si riconoscono dalla sicurezza del loro senso d’orientamento. Nella ricerca della verità scientifica, gli intuitivi sono le guide. Come riconoscere questo dono che hanno di indovinare, nell’invisibile, i sentieri logici che in un secondo momento il ragionamento dovrà seguire, passo dopo passo, a fatica, nell’elaborazione delle dimostrazioni che conducono, alla fine, alla prova dell’esattezza delle intuizioni di partenza? Senza dubbio, c’è bisogno, anche in questo caso, soprattutto quando una scienza è ai suoi primi passi, di un minimo di intuizione, cioè di quella sensazione oscura che la verità debba stare da questa parte e non da un’altra. Non vi sono regole che ci possano evitare il rischio di sbagliarci. Si pensi alle angosce di Pasteur, una certa sera, al capezzale del bambino da lui vaccinato contro la rabbia! Chi davvero sa, cioè il ricercatore fortunato che trova, è colui che sa credere con maggior convinzione di non sbagliarsi sull’oggetto del suo credo o della sua fede. «Il fatto curioso», faceva notare un giorno qualcuno, «è che sono sempre gli stessi quelli che trovano». «Piuttosto,», gli fu risposto, «sarebbe strano che succedesse il contrario». Bisogna concluderne che sulla bocca o sotto la penna di un intuitivo, tutto sia verità? Ci mancherebbe! Vi sono, nuovo mistero, dei momenti felici, oseremmo dire ispirati se fosse possibile, e dei momenti in cui le capacità si ottundono. Così vediamo, curiosamente, l’andamento della scoperta scientifica somigliare stranamente a quello delle arti. Si somigliano, non meno curiosamente, la qualità della gioia provata di fronte al risultato di una grande scoperta, o alla dimostrazione che vi conduce, e quella avvertita di fronte ad una bella poesia o ad un bel quadro. La sensazione del vero nella scienza potrebbe dunque, in definitiva, non essere altro che una forma – l’applicazione a un oggetto astratto – del senso estetico? Questo è stato sostenuto da grandi uomini di scienza. Tuttavia, indipendentemente dai rapporti, ancora così poco conosciuti, tra l’Arte e la Scienza, non si può negare che le grandi opere scientifiche hanno spesso una bellezza formale incontestabile, bellezza inerente, nei casi privilegiati, non solo alla sostanza teorica evocata, ma all’eleganza del linguaggio nel quale è esposta, sia esso matematico o d’altra natura. In una recensione dei due primi volumi delle Leçons de

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linguistique de Gustave Guillaume, H. Mitterand scriveva, il 3 dicembre del 1971, nella sezione linguistica della rivista «Nouvelles Littéraires», quanto segue: Prima ancora di discuterne la dottrina, vorrei sottolineare che queste lezioni hanno una loro validità in molti altri campi che esulano da quello specifico della linguistica a causa della probità professionale e della coerenza dialettica e scientifica espressa e della qualità letteraria della loro esposizione. Ognuno dei due volumi copre un anno d’insegnamento condotto in ragione di un’ora alla settimana. Gli editori non hanno avuto, sostanzialmente, altro compito che quello di riprodurre un manoscritto, completato e datato, settimana dopo settimana. Il testo di ogni lezione era interamente scritto in anticipo in uno stile che lascia tutto il posto utile alle ripetizioni, ai richiami, alle domande dell’insegnamento parlato, ma che, attraverso la sua densità ed eleganza, rivela uno scrittore oltre che un uomo di scienza. In ogni caso, sono rari quei maestri il cui discorso didattico può passare in questo modo, senza mediazione né trasformazione, allo stato di libro.

Ci resta ora il gradito compito di ringraziare tutti quelli che, con l’impegno che hanno potuto fornire, hanno collaborato alla realizzazione della presente raccolta. Sono già stati menzionati G. Moignet et M. Molho, insieme a C. Veyrat e a W. Hirtle. Hanno partecipato alla scelta dei testi A. Vassant, S. Bégin, C. Veyrat insieme a J.-P. Béland, A. Bougaïeff, J. Gallup, W. Hirtle, D. Leflem, G. Plante, T. Skaletz, J. Soltész e J.-J. Vassant. Per il precedente, e più arduo lavoro, che è stato quello di decifrare i testi manoscritti, hanno partecipato – insieme alla maggior parte delle persone precedentemente citate – M. Joly, F. Soltész, T. Labonté, M. Létourneau, J. Aunia, Y. Bernier, L. Boisvert, G. Ferland, J.C. Guillamondéguy, E. Halter, A. Joly, T. Lavoie, R. Lesage, D. Poulin, J. Ouellet, Y. Saint-Gelais, Y. Sirois et J. Thibault. Che tutti, collettivamente e individualmente, possano ricevere qui, ciascuno secondo i suoi meriti, l’espressione della nostra profonda gratitudine. Québec, aprile 1972

Preliminari di Gustave Guillaume

La scienza si basa sull’intuizione che il mondo delle apparenze parli di cose nascoste, di cui sono l’immagine ma che non coincidono con esse. L’intuizione è che il disordine apparente dei fatti linguistici ricopra un ordine segreto, nascosto, «meraviglioso». Il termine non è mio ma del grande Meillet, che ha scritto: «La lingua forma un sistema dove tutto è correlato ed ha una disposizione di un rigore meraviglioso». Quest’intuizione ha guidato, e continua a guidare, gli studi fatti finora. L’oggetto della mia ricerca sarà quindi scoprire il sistema che è la lingua e la disposizione della sua architettura. Insegno qui dal 1938 e gli uditori che seguono il mio insegnamento fin dall’inizio, e ce ne sono, sanno cos’è stata la lenta scoperta di quest’architettura e quali mezzi di osservazione e di analisi sono stati necessari per riuscirvi. Sanno quali sono stati i nostri tentennamenti nei giorni infelici, e ce ne sono stati, e quale è stata la progressione rigorosa della nostra analisi nei giorni felici. A questo proposito devo ringraziare i miei vecchi uditori per la pazienza con la quale mi hanno seguito quando avanzavo a tentoni nelle grandi nebbie della ricerca: le scoperte riuscite dei giorni felici hanno giustificato la loro pazienza. A lungo andare, passando attraverso fasi alterne di buona e cattiva sorte, è sopraggiunta una grande chiarezza d’idee, e sono ormai lontani i tempi in cui percepivamo confusamente, seppure con grande certezza di intuizione, che la lingua è un sistema, senza sapere cosa fosse, nel suo interno, questo sistema. E sarebbe una storia non troppo

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esaltante quella dei passi, anche di quelli falsi, che ci hanno portato a scoprire l’interno di questo sistema. L’idea e l’intuizione che la lingua fosse un sistema di sistemi si sono affacciate abbastanza presto, e da esse è derivata una maggiore facilità per il nostro studio. Lasciando da parte l’idea del sistema totale che integra, ci siamo impegnati nella conoscenza di alcuni sistemi contenuti, rivestiti di una semiologia che ne denunciava con tratti visibili l’esistenza. Abbastanza stranamente, e tuttavia per ragioni profonde, non afferrate al momento, la mia attenzione si è focalizzata, all’inizio, sul sistema dell’articolo. E ora, ricordando queste prime ricerche, il termine sistema mi sembra improprio. Non mi sono occupato del sistema, ma piuttosto del problema dell’articolo. Ho considerato in primo luogo, a ragion veduta – mi faccio il complimento da solo – ho considerato in primo luogo – e, diciamo la verità, non era molto difficile da fare, ma era utile e finanche prezioso – che poiché l’articolo è nato tardivamente e indipendentemente in numerose lingue, la sua comparsa fosse la soluzione di un problema, latente nella mente, che andava risolto: la soluzione patente di un problema latente. E sotto la soluzione patente, dichiarata dalla lingua, che cosa ho visto? Il problema esplicitamente posto. E quando a 36 anni di distanza rivedo il libro che ho scritto allora*, libro che d’altronde non è invecchiato molto, vi trovo soprattutto una spiegazione del problema dell’articolo. E cioè che, cosa in definitiva di un’enorme banalità, sotto l’effetto c’è la potenza, e che di conseguenza, seguendo il dipanamento del sorite delle banalità necessarie, un elemento di lingua, come il sostantivo, esiste in potenza prima di esistere in effetto. Di modo che il soggetto parlante, nel momento in cui è pensante-parlante, coglie quest’elemento di lingua in potenza e lo porta all’effetto. C’è, in questo caso, per lui un’operazione di transizione obbligata e il problema è di riuscire a realizzarla. In quanto obbligata, quest’operazione è dunque sempre realizzata, ma c’è stato bisogno di molto tempo prima di individuare * Trattasi de Le problème de l’article et sa solution dans la langue française, Paris, Hachette, 1919 [riediz. a cura di R. Valin, Paris, Libr. A.-G. Nizet-Québec, Presses de l’Université Laval, 1975].

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il modo esatto per riuscire a farlo. Per molto tempo il modo di riuscire in questa operazione di transizione è stato lasciato a categorie linguistiche, tra le quali quelle del numero, del genere e del caso, che avevano anche altre funzioni, e al numero era affidato il ruolo principale. Poi, ad un certo punto, queste categorie, appesantite da funzioni diverse, si sono alleggerite di quella che è la transizione dal nome in potenza al nome in effetto. La conseguenza di questo alleggerimento è stata l’invenzione della categoria dell’articolo. Il mio libro sull’articolo non giunge ad una visione chiara di questa operazione di alleggerimento. Questa visione l’ho avuta soltanto molto più tardi quando, nel quadro non più di una problematica ma di una sistematica del linguaggio, sono stato portato a cercare la posizione rispettiva di due categorie, quella del numero e dell’articolo, e a dimostrare che quest’ultima riproduce il meccanismo (la forma di meccanismo) della prima. A quel punto, e solo a quel punto, ho saputo cosa fosse il sistema dell’articolo. Ci tengo a distinguere bene questi due diversi momenti della scoperta. Il primo appartiene ad una problematica del linguaggio più che ad una psicosistematica. Esso consiste in questo: l’articolo esiste e appare indipendentemente, senza reciproche influenze, in numerosi idiomi. Esso è dunque la soluzione di un problema. Quale? L’ho già detto: il sostantivo esiste in potenza nella mente del locutore prima di assumervi una forma effettiva. Il caso di questa problematica rispecchia, d’altra parte, l’intero problema della relazione lingua-discorso. La lingua esiste in noi in permanenza, prima di ogni atto di espressione. Parlo, mi esprimo a partire dalla lingua. La mia parola, il mio discorso appartengono a ciò che è momentaneo; la lingua, invece, appartiene in me al non-momentaneo, a ciò che è permanente. C’è quindi un problema generale della transizione lingua-discorso, di cui il problema dell’articolo, da me chiarito, è solo un caso particolare adatto a farne risaltare la generalità. I miei uditori più fedeli sanno quali sono stati i miei studi in relazione al problema della transizione lingua-discorso. E oggi posso solo far appello ai loro vecchi ricordi in merito. Una gran parte delle mie ricerche si sono collocate nel quadro del fenomeno di transizione della produzione del discorso a partire dalla lingua. Qualche anno più

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tardi, avendomi probabilmente letto, alcuni colleghi hanno riconosciuto l’importanza di questo problema e hanno visto, in ogni atto del discorso, un’attualizzazione dei contributi della lingua. La parola attualizzazione è stata proposta da me, e utilizzata con costanza, molto prima che fosse ripresa da Bally. E da nessun’altra parte, l’attualizzazione della lingua, necessaria per produrre il discorso, è stata spiegata meglio che nel mio testo sull’articolo. Dunque, per molto tempo l’orizzonte dei nostri studi è stato quello di una problematica. Tutto ciò che accade nel discorso è conseguenza dei problemi posti dalla lingua, dalla virtualità della lingua. Poi, senza che ne avessimo avuto una chiara coscienza (l’intuizione scientifica, fenomeno misterioso, ci guidava), è venuto il momento in cui, tralasciando la problematica in favore della sistematica, abbiamo guardato le cose da un punto di vista diverso. Non si trattava più, per noi, di porci nella transizione lingua-discorso, ma di vedere ciò che era istituito come lingua: cioè non l’opera momentanea del discorso a partire dal non-momentaneo che è la lingua costruita (permanente), già costruita, ma l’opera stessa che la costruzione della lingua rappresenta nella mente. Tutti i nostri studi di questi ultimi anni hanno avuto questo oggetto. Allo studio degli atti di espressione, costruttori del discorso, si è sostituito lo studio degli atti di rappresentazione, costruttori della lingua. Questo cambiamento della mia posizione di studio risale, approssimativamente, al 1928. In Temps et Verbe, che risale al 1930* e segna l’inizio del nostro studio degli atti di rappresentazione, ci siamo interessati ad un atto di rappresentazione di grande interesse, quello della rappresentazione del tempo. Questa rappresentazione si concretizza, dal punto di vista semiologico, nella coniugazione del verbo, che molto semplicemente, come abbiamo dimostrato, riflette i momenti successivi di quest’atto considerevole di rappresentazione. Già in Temps et Verbe viene espressa l’idea che il tempo è costruito a immagine dello spazio a n dimensioni; che ha la sua profondità, rappresentata dalla successività dei modi, la sua larghezza e la sua altezza * Temps et Verbe, Paris, Libr. H. Champion, 1929 [riediz. con L’architectonique du temps dans les langues classiques, Paris, Libr. H. Champion, 1970].

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rappresentate dal sistema temporale. E in quell’opera viene fornita la dimostrazione di questa costruzione del tempo ad immagine dello spazio. Ma sarà solo più tardi che si manifesta nelle nostre lezioni il principio secondo il quale il tempo non si può rappresentare a partire da se stesso, e prende in prestito la sua rappresentazione, là dove essa ha luogo, dagli strumenti spaziali. Di modo che le rappresentazioni del tempo, chiamate nel nostro testo «cronogenesi» e «cronotesi» – quest’ultima essendo una sezione trasversale della prima – sono, in effetti, una spazializzazione del tempo. Ora, questa è un’operazione che la mente umana può compiere o non compiere in se stessa. E laddove non la compia, il tempo, non rappresentabile a partire da se stesso, non ha rappresentazione. Dico: non ha rappresentazione. Questo non significa che non ha esistenza nel pensiero umano, ma che vi esiste solo a titolo di esperienza. Abbiamo, così, potuto scrivere questa frase: la mente umana è fatta in modo tale da avere l’esperienza del tempo senza averne la rappresentazione (che la mente umana deve, quindi, inventare e che sarà una spazializzazione, essendo la rappresentabilità una qualità portata dallo spazio che è il solo a detenerla). Le ragioni di questa proprietà della rappresentabilità da parte dello spazio sono state studiate più tardi durante i nostri corsi, ma questa parte del nostro insegnamento è inedita. Nel nostro testo L’architectonique du temps dans les langues classiques, pubblicato a Copenaghen, è stata studiata la spazializzazione del tempo nelle lingue classiche, in particolare nel latino e greco classico. E questo studio è di gran lunga superiore a quello fatto in Temps et Verbe, benché nel loro contenuto principale essi si accordino. La differenza è, essenzialmente, che in Temps et Verbe viene riconosciuto che il tempo si presenta costruito come lo spazio a n dimensioni, mentre in L’architectonique du temps viene stabilito che il tempo, non rappresentabile a partire da se stesso, prende in prestito dei mezzi di rappresentazione dallo spazio, ed è ricoperto da una rappresentazione spaziale, in assenza della quale lo conosceremmo solo come esperienza: ciò che equivarrebbe a non conoscerlo affatto. E qui interviene, nel corso generale dei nostri studi, il principio che la lingua nasce da una conversione dell’esperienza, da cui la mente

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umana evade in una rappresentazione, nella quale si stabilisce. Esiste un momento in cui l’esperienza dello spazio è già promossa a rappresentazione, mentre l’esperienza del tempo non ha avuto il beneficio di questa promozione. Il tempo in queste lingue non è rappresentato, che è come dire che non è spazializzato. Queste lingue non hanno cronogenesi, non hanno coniugazioni. Ho dedicato molto tempo allo studio della spazializzazione del tempo, e ho potuto mostrarne il meccanismo che, universalmente, non è uno ma molti. C’è una spazializzazione del tempo trimorfa (passato, presente e futuro), che è quella del greco classico, del latino e delle lingue romanze, e una spazializzazione dimorfa che è quella delle lingue germaniche (passato e presente estensivo). Nei miei lavori, ho descritto la spazializzazione trimorfa ma ho un po’ trascurato di descrivere la spazializzazione dimorfa. Questo perché è solo di recente che ho visto con chiarezza l’origine della loro differenza. Quest’anno avrò l’occasione di parlarne e di dimostrare che la rappresentazione del tempo è differente solo perché la rappresentazione dello spazio è differente. Il principio affermato è che ad una rappresentazione di uno spazio, di una esperienza di spazio A, corrisponde una rappresentazione di tempo A’, e ad una rappresentazione di spazio B, una rappresentazione di tempo B’. Questa dimostrazione sarà, quest’anno, un nuovo contributo alla psicosistematica del linguaggio. Una spazializzazione originale del tempo è stata la spazializzazione slava, che è quella dimorfa delle lingue germaniche, con la differenza che la spazializzazione del tempo nel quale si colloca il verbo, prende in prestito i suoi strumenti dalla spazializzazione del tempo collocato nel verbo. Una figura aiuterà a fissare le idee:

tempo esterno

tempo interno A

tempo esterno B

verbo

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La spazializzazione del tempo interno viene in aiuto alla spazializzazione esterna. Al pari delle lingue germaniche, lo slavo conosce solo due epoche, il passato e il presente estensivo, ma si è dotato di un futuro, senza ricorrere all’ausiliare (non esiste una flessione di futuro), servendosi di strumenti presi dalla rappresentazione dell’aspetto, che è quella del tempo interno al verbo, il tempo implicato. Mi è capitato di rammaricarmi, nella mia carriera di linguista, di aver dedicato tanto tempo allo studio del sistema di rappresentazione del tempo, e di aver trascurato lo studio, di più grande portata, della condizione generale di definizione dei sistemi linguistici. Ho cominciato questo studio scoprendo uno stesso meccanismo interno di formazione sotto il sistema della categoria del numero e sotto quello dell’articolo, poi sotto quello della rappresentazione binaria dell’universo (universo-spazio e universo-tempo), base delle parti del discorso. Questo mi ha portato all’idea, sufficientemente verificata per essere presentata, che la lingua è un sistema periferico di intercettazione (saisie)* del pensabile, e questo sistema integra in se stesso, circoscrivendoli, dei sistemi più ristretti, diversamente limitati, ciascuno dei quali ne riproduce la forma generale. La sintesi attuale dei nostri studi è data dalla seguente appercezione: [la lingua è] un sistema periferico il cui interno, per quanto concerne la sua forma generale, è fatto di iterazioni di se stesso. La mia visione della lingua è dunque quella di un sistema di sistemi, con questa precisazione: il sistema generale contenente e i sistemi meno generali contenuti non differiscono quanto alla forma generale, essendo le differenze piuttosto di sostanza o di limitazione. Nel quadro di questa visione, già l’anno scorso, ho parlato di insieme psicosistematico della lingua, ed è in questo stesso quadro che proseguiranno gli studi di quest’anno, i quali ci hanno portato a vedere meglio che in precedenza, a vedere sempre meglio, la dipendenza * Della parola saisie, termine fondamentale del lessico guillaumiano, come già detto nella Nota alla Traduzione di questo vol., abbiamo dato quasi esclusivamente quest’unica traduzione: «intercettazione». Molto raramente troveremo nel testo come suo equivalente anche: «accezione» o «percezione». Per la corrispondente forma verbale saisir, abbiamo invece utilizzato più frequentemente, secondo i contesti: «afferrare», «cogliere», «intercettare», «percepire».

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reciproca del sistema integrante della lingua e dei sistemi integrati. Sto terminando in questi giorni un libro1, in cui apparirà chiaramente cosa sono state, in seno al sistema integrante costituito dalla lingua, la definizione e l’individuazione dei sistemi di cui essa è il sistema di collegamento e di integrazione. Una idea direttrice che conduce a questo libro è che il tutto della lingua è all’origine delle sue parti costitutive. Ci fu il tutto – che era il caos, l’inorganizzato – e la creazione consistette nel separare, discriminare, organizzare, nel dichiarare sempre più la propria organizzazione. Questo conferisce alla linguistica il carattere di una scienza di discriminazione, di una scienza che opera per contrasti. Un’asserzione, dalla quale trarremo un grande profitto quest’anno nelle ricerche di cui tratteremo, è che noi sappiamo pensare solo per contrasti. Mostreremo, in particolare, che il contrasto tra lo spazio e il tempo è l’ultimo dei contrasti ricreati per pensare, quando il pensiero, risalendo alle origini di se stesso, vi incontra il non-contrasto che è non pensabile. Ragion per cui la rappresentazione di universo vuoto sfugge al non-contrasto. Terminerò rassicurando i miei uditori che non esiste niente di confuso nei miei lavori; che non si tratta di non so quale groviglio di impressioni sovrasensibili dietro il quale si nasconderebbe uno spirito incline alla metafisica, uno spirito al quale piacerebbe perdersi nelle nebbie della metafisica, ma si tratta, molto più semplicemente, della scoperta della realtà, dietro la realtà delle apparenze, della scoperta della vera realtà, di cui le apparenze sono l’involucro. Questi studi hanno una bellezza austera che meriterebbe un’attenzione maggiore di quanto non abbiano ottenuto finora. E se non l’hanno ottenuta non è perché siano stati criticati, ma perché non sono stati criticati, per il semplice motivo che, a meno di non essere 1 Questo libro, di cui è stata trovata una redazione molto avanzata, figura nel catalogo degli inediti con il titolo: Essai de mécanique intuitionnelle. Espace et temps en pensée commune et dans les structures de langue. Siamo riusciti, nonostante le difficoltà della scrittura, a stendere una prima trascrizione di questo saggio, che è uno dei più curiosi che G. Guillaume abbia scritto. Le analisi e le intuizioni che vi si trovano aprono delle prospettive inattese sulle due categorie dell’intelletto rappresentate dallo spazio e dal tempo. Filosofi e scienziati vi troveranno materia per una riflessione rinnovata sui problemi affrontati.

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degli impostori, non li si può criticare senza averne prima seguito la progressione rigorosa. Ora questa, con mio gran dispiacere, è una fatica alla quale non ci si vuole sobbarcare. Che venga un giorno in cui molti studiosi, in grado di farlo e capaci nell’analisi, affrontino questo compito di correzione di un’opera compiuta, e la linguistica vedrà allora aprirsi davanti a sé una prospettiva la cui magnificenza, non ho timore a dirlo, è attualmente vista soltanto da pochi. Per capire ciò che ho compiuto (che è ora compiuto), lo scoglio per un teorico come me, è la necessità di dipanare il sorite delle condizioni di struttura del linguaggio, il quale, prima che le cose diventino chiare, dovrà essere dipanato a lungo. Due sono le possibilità che possono presentarsi: o i miei nuovi uditori – che lo sanno nel profondo di loro stessi – sono curiosi di conoscere solo il lato apparente del linguaggio, e in questo caso io li annoierei parlando loro di cose che non li incuriosiscono e alle quali, di conseguenza, non si interessano (e questo mi metterebbe a disagio), oppure essi sono davvero curiosi di conoscere quello che c’è dietro le apparenze linguistiche e il meccanismo – quello cioè dell’intendimento umano – di cui sono il riflesso, e allora lo studio che cominceremo insieme attirerà per sempre la loro attenzione. Prima di dedicarmi una parte del loro tempo, si domandino, quindi, in piena coscienza, di cosa è fatta (che cos’è) la loro autentica curiosità. I più curiosi saranno gli amici di domani. (Lezione inaugurale dell’anno 1952-1953)

I. La problematica di una scienza del linguaggio

1. Il posto della linguistica tra le altre scienze L’oggetto della linguistica La matematica più astratta, fornisce all’uomo strumenti per capire meglio. La linguistica più elevata non può che rivelargli strumenti di comprensione di cui già dispone e dei quali non farà miglior uso conoscendoli o ignorandoli. Quindi la linguistica, la grammatica scientifica, è una scienza che non fornisce all’uomo nessuna forza nuova. Gli permette solo di capire meglio lo stato e la natura della potenza che l’intelletto possiede in un dato momento, senza che questa potenza ne venga, per questa ragione, minimamente accresciuta. In sintesi, essere linguista non serve a niente. La linguistica è, tra tutte le scienze, la meno pragmatica. D’altra parte è anche quella che introduce in modo più avanzato, alla conoscenza dei mezzi con i quali il nostro pensiero riesce a cogliere con chiarezza i suoi stessi modi di funzionamento. Ma, lo ripeto, conoscere questi strumenti, distinguerli, non accresce in niente la nostra potenza di pensiero, né la capacità di esprimerlo. I mezzi che la lingua ci offre a questo scopo, non saranno solo per questo meglio utilizzabili da noi. Lo sforzo che abbiamo intrapreso per vederli è, in fondo, uno sforzo inutile, perché la mente non ne otterrà nessuna nuova acquisizione di potenza, ma solo la comprensione dei meccanismi grazie ai quali il pensiero possiede la capacità di auto-percepirsi e dei quali la lingua, sottolineiamolo bene, è l’unica espressione, l’unico monumento. La letteratura, presa nel suo insieme, è un monumento la cui edi-

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ficazione rappresenta l’esercizio della potenza del pensiero che si manifesta attraverso degli effetti, le opere letterarie. Quanto alla potenza stessa di pensare, alla potenza che possiede la mente di cogliere in se stessa i suoi propri movimenti, il solo monumento che ne abbiamo è la lingua. Non ne esistono altri. E non ne possono esistere altri. Qui risiede ciò che conferisce alla linguistica quella posizione così particolare nella gerarchia delle scienze. La linguistica è una scienza che si interessa ad un oggetto assolutamente singolare, che non ha nulla di analogo nell’universo. (Lezione del 13 gennaio 1944)

Logica e linguistica Devo rispondere a una domanda posta da un uditore, uno dei miei più amabili tormentatori, che vuol sapere da me che differenza esiste tra la coerenza, proprietà riconosciuta al mio insegnamento del linguaggio, e la logica, proprietà di cui il mio insegnamento non tratta mai, per così dire, o tratta solo in maniera succinta, finendo così per ridurre l’idea della logica a quella della coerenza. Mi è capitato di parlare di logica costruttiva in un caso specifico. Ma la logica costruttiva non è niente di più che l’accesso alla coerenza. L’uditore, che una volta di più mi interrogava in una conversazione privata intorno alla logica e alla coerenza, rilevò nelle mie lezioni una tendenza crescente a evitare la desinenza -logia e a preferirle, a sostituirle, la desinenza -genia. Un tempo dicevo, come tutti, morfologia e ontologia del linguaggio. Ora dico più spesso e meglio, se giudico bene, morfogenia e ontogenia. Secondo me, -logia porta con sé un riferimento implicito alla logica e -genia un riferimento implicito alla sola coerenza. Resta da stabilire come io intenda la differenza tra logica e coerenza. Direi innanzitutto, come anticipazione, che il linguista non deve interessarsi della logica del linguaggio, materia del filosofo, ma della sua sola coerenza. Il linguista segue, nei limiti delle sue possibilità,

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la creazione coerente e continua del linguaggio, e non perde di vista quest’orizzonte di riferimento. L’orizzonte – la linea – della logica non è in questione nei suoi lavori. Il linguista è un uomo molto piccolo paragonato alla grandezza del filosofo. L’oggetto del linguista è costituito dalle ragioni delle cose così come le fa apparire la lenta, continua progressione della loro creazione. L’oggetto del filosofo è di porre in rapporto questa progressione continua con le condizioni di un suo maggiore rigore, di un rigore insuperabile. La logica è l’immaginario di un modo di essere delle cose che sembra non tener conto degli incidenti di percorso e degli impedimenti che le cose, proprio perché sono delle cose e non solo delle idee, comportano. A questo proposito cito, a memoria, Leibniz: «Le cose si ostacolano tra loro, le idee no». Che le cose si ostacolino non vuol dire che il loro modo di essere, pur tenendo nel giusto conto gli ostacoli, sia meno ordinato: è questa la coerenza. Che le idee non si ostacolino affatto, permette loro un modo di essere ordinato – immaginario – che esclude gli incidenti di percorso, dove tutto si compie, dall’inizio alla fine, secondo la migliore economia. Eviterò di usare la consueta verbosità in materia, dicendo che la logica è l’idealità* della linea retta, l’immaginario della linea retta. Nessun incidente di percorso da Parigi a Roma, nessuna svolta, nessun aggiramento di ostacoli: solo un viaggio in linea retta che non sarebbe divertente. La logica: un immaginario di semplicità. Non so, in effetti, cosa sarebbe il linguaggio costruito seguendo il tracciato di quest’immaginario. Non posso saperlo, un tale linguaggio non esiste. Quello che so è che il linguaggio osservabile non segue questo tracciato. Il tracciato che segue è quello della coerenza, in cui vengono osservati incidenti di percorso, incidenti mentali, orali o di scrittura. La coerenza procede passo dopo passo, tenendo conto del terreno e dei movimenti che questo impone di compiere per andare avanti. Il cammino a tornanti che conduce alla sommità di una montagna è coerente: non è logico, benché abbia la sua logica1. Il cammino logico non è a tornanti. Questo cammino è, con il suo rigore, qualcosa * Nel testo francese è usato il termine idèité. 1 A margine: Si può parlare di una logica della coerenza, ma significherebbe parlare della coerenza stessa.

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di immaginario, mentre le cose esistono. Il cammino logico esiste come tale nell’immaginazione e il cammino a tornanti fa, in definitiva, ciò che il primo farebbe se esistesse. Avendo seguito, nella continuità del linguaggio, un tratto di strada a tornanti ostacolato dalle cose e dai loro impedimenti, si potrebbe quindi sempre ricondurlo mentalmente al cammino immaginario di una ragione [che procede] in linea retta, e spiegare la strada seguita per coerenza riducendola alla strada logica, nei fatti non seguita, benché alla fine il risultato si presenti come se fosse stata seguita2. Le cose si ostacolano, le idee no. Se voi cosificate, disporrete soltanto dei cammini della coerenza; se idealizzate, senza cosificare, avrete davanti i cammini della logica. Così la logica impone al giudizio il cammino diritto. La coerenza impone una progressione ordinata che non segue questo cammino diritto, lungo il quale gli impedimenti delle cose sarebbero, caso immaginario, ridotti a zero. Mi scuso vivamente con i miei uditori per queste considerazioni che mi hanno indotto a portare i miei passi di linguista sul terreno del filosofo, mentre le mie vittorie di linguista sono di non averlo mai fatto, di essere restato nel campo dell’ordine reale della coerenza e di non aver mai preso in considerazione l’ordine della logica. (Lezione del 6 dicembre 1956)

2. Il metodo di analisi Osservazione delle esistenze di lingua Il metodo che consiglio in linguistica, e in generale in ogni campo di indagine intellettiva, è l’osservazione attenta del concreto resa sempre più acuta da una continua e profonda riflessione. Secondo me è dall’associazione, in ogni proporzione utile, di queste due forze della mente – l’osservazione e la riflessione – che può risultare una comprensione sempre più approfondita dell’universo, con il quale sa2 A margine: È su questo come se che la teoria deve porre l’accento. Identità in teleologia, differenza nel percorso.

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remo anche in contatto forzato e permanente, ma dal quale abbiamo la facoltà, infinitamente preziosa, di fare astrazione per osservarlo meglio in noi stessi e rapportarlo meglio alla nostra ragione, alle sue necessità che, in definitiva, sono la manifestazione dei limiti della nostra mente. Nel caso della linguistica, l’universo con il quale entreremo in contatto è un universo interiore: l’universo del pensabile, quello che le nostre rappresentazioni costituiscono in noi. Quest’interiorità aumenta di molto le difficoltà dell’osservazione: è, infatti, difficile cogliere con esattezza ciò che avviene nel profondo di noi stessi. La difficoltà proviene, in gran parte, dal fatto che arriviamo sempre in ritardo per osservare. Se vogliamo osservare un atto di linguaggio, possiamo farlo solo quando quest’atto è compiuto, e questo vuol dire che non abbiamo osservato l’atto, il processo stesso dell’atto, ma soltanto il suo risultato. Non è sufficiente. La difficoltà di osservazione, già considerevole quando si tratta di un atto di linguaggio come, per esempio, la costruzione di una frase, diventa ancora maggiore quando si tratti di osservare un fatto non di linguaggio ma di lingua. Un fatto di linguaggio3 è qualcosa che noi compiamo nel momento del bisogno e in maniera, generalmente, volontaria, di modo che sappiamo, se non chiaramente ciò che abbiamo compiuto, almeno ciò a cui tendeva la nostra azione mentale. Un fatto di lingua è cosa del tutto diversa a causa della sua differente posizione nell’animo umano: rappresenta un processo psichico che ha avuto luogo in noi in un momento precedente indeterminato, di cui non abbiamo il minimo ricordo. Chi saprebbe dire, infatti, quando e attraverso quali operazioni di pensiero la mente ha acquisito la distinzione del nome e del verbo, quella dell’articolo e del pronome, quella dei diversi articoli oppure delle diverse forme temporali, a qualunque specie esse appartengano? Tutte queste acquisizioni, che non sono delle creazioni ma delle eredità, appartengono al passato della mente, che non ha conservato nessun ricordo né del momento né della maniera nella quale sono state da essa prodotte. La mente è a questo 3 Intendere in questo caso, rispetto alla terminologia successiva dell’autore, un «fatto di discorso».

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riguardo completamente ignorante. Stando così le cose, i fatti della lingua sarebbero destinati a rimanere dei fatti misteriosi, impenetrabili, se nella stessa lingua, nella disposizione e nella composizione degli esseri che la compongono, non vi fossero iscritte, a tratti visibili, le operazioni del pensiero, trascorse ormai da un tempo che non si lascia quantificare, alle quali gli esseri di lingua devono la loro esistenza. Uno dei compiti del linguista è, quindi, quello di osservare da molto vicino, aiutandosi con la riflessione profonda, per meglio vedere in che modo si sono costituite le esistenze di lingua [les êtres de langue] che, negli idiomi evoluti a cui siamo abituati, hanno preso tutte la forma di parole [mots]. La grande lezione della grammatica storica, quella che ha esercitato la sua attrazione su numerose generazioni di studiosi, è che le esistenze di lingua non hanno né una natura né una forma costanti, ma sono soggette a mutare nel tempo. Niente, in definitiva, può essere più interessante della conoscenza di questa mutazione. Ma, per ben vederla, per distinguerne tutti gli elementi e tutte le conseguenze, bisogna aver imparato a osservare una di queste esistenze a un certo momento della sua esistenza, indipendentemente da quel che avrebbe potuto essere in precedenza e che potrebbe diventare in seguito. La grammatica descrittiva consiste in quest’osservazione delle esistenze di lingua, considerate rispetto ad un unico momento del loro essere. L’osservazione esatta di una di queste esistenze non è una cosa facile, anche se ci limitiamo a considerarla relativamente a questo unico momento, ed esige un addestramento specifico, precisamente quello che noi stiamo facendo qui assieme. (Lezione del 27 gennaio 1944)

Visibilità mentale e dicibilità Un tratto caratteristico della psicolinguistica è di non poter progredire senza fare ricorso a degli schemi figurativi. Il consiglio di Leibniz è: pensare in figure. Si pone il problema di sapere perché accade questo. Risposta: per comodità. Una figura fa vedere un sistema di

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relazioni meglio delle parole. E dal momento in cui, con Saussure, ammettiamo che la lingua è un sistema, la rappresentazione grafica schematica è preferibile. Ma per quanto possa essere valida, questa ragione non spiega tutto. E se approfondiamo il problema, scopriamo – e la scoperta è importante – che l’economia del linguaggio consiste nel tradurre in dicibilità dei meccanismi dei quali portiamo in noi, già in precedenza, la visibilità. L’economia del linguaggio risiede in questa traduzione. La struttura della lingua è, nel profondo di noi stessi, una visibilità mentale che il linguaggio traduce, limitandosi a quanto è necessario e sufficiente, in dicibilità mentale, poi in dicibilità orale o di scrittura, poi effettivamente in un dire parlato o scritto. Le tappe sono: visibilità mentale



dicibilità mentale



dicibilità orale o di scrittura



dire effettivo



detto terminale

Della visibilità mentale il locutore non si preoccupa, la dicibilità gli basta, solo questa gli interessa. Così il locutore ignora che, a monte della dicibilità ch’egli utilizza, ha sede, una visibilità mentale, di cui la dicibilità mentale è una traduzione. E una traduzione che può essere ritradotta in visibilità mentale. Gli schemi che utilizza la psicosistematica rappresentano questa ritraduzione. Questi schemi non sono solo un artificio di analisi, ma coinvolgono – perdonatemi l’audacia – una realtà profonda. Lo schema rappresentativo della realtà dell’articolo: U1

tensione I

tensione II

⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯→ S ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯→ U2 (articolo uno)

(1) (2)

(articolo il, lo)

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è molto precisamente la riproduzione in visibilità basiale* della dicibilità mentale di cui dispone il linguaggio umano, dicibilità che è a sua volta una traduzione economica della visibilità basiale. Sèguito delle operazioni. Vedo in me – con gli occhi della mente – un meccanismo strutturale: visibilità basiale. Per servirmene in linguaggio, la risolvo, la muto in dicibilità mentale, e di là in dicibilità orale o di scrittura. Queste mutazioni sono opera del locutore che va verso l’utile, verso il necessario sufficiente. Opera del ricercatore, del linguista analista – rara avis – è la serie delle contromutazioni. Il linguista strutturalista deve saper mutare la dicibilità fisica (orale o di scrittura) in dicibilità mentale e la dicibilità mentale in visibilità mentale incettiva (cerchiamo una parola per il momento iniziale delle cose). Lo studio che abbraccia l’insieme della struttura del linguaggio, al quale mi dedico dinanzi a voi, è una ritraduzione in visibilità della dicibilità prodotta nel linguaggio per traduzione di visibilità profonda. Assistiamo in questo caso all’opposizione, molto importante, tra le forze vive di interiorizzazione, responsabili della visibilità degli atti mentali che presiedono, e le forze vive di esteriorizzazione, responsabili della traduzione della visibilità di interiorizzazione in dicibilità di esteriorizzazione. La ritraduzione della dicibilità, la sola conosciuta dal locutore, in visibilità, da lui ignorata, benché la possieda nel profondo di se stesso, è in linguistica strutturale il lavoro scientifico da compiere. È quello che facciamo qui. Ecco, quindi, spiegati i nostri schemi e l’impossibilità di assolvere al nostro compito senza farvi ricorso. (Lezione del 17 gennaio 1957) * Come già detto nella Nota alla Traduzione a questo vol., abbiamo preferito lasciare inalterato il termine «basiale». In francese la parola si scrive allo stesso modo, e la nostra ‘traduzione’ è consistita nell’accogliere nel nostro lessico questo termine nella sua invarianza. In effetti, anche in francese la parola è un neologismo, almeno rispetto alle nostre conoscenze. Di essa, però, si afferra facilmente il senso che Guillaume ha voluto darle. Abbiamo dunque preferito introdurre anche in italiamo questo neologismo, che può conservare nella nostra lingua le stesse potenzialità semantiche che ha in francese. Nel caso della frase attuale, il senso di «basiale» è quello di «di base», ovvero un sinonimo di «mentale» («visibilità basiale» = «visi-bilità mentale»), più avanti sarà quello di «fondamentale». Lasciamo al lettore il piacere di apprezzaree i giochi di parola di cui Guillaume si serve.

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L’intuizione Sull’intuizione: « Non conosciamo la verità solo attraverso la ragione, ma anche con il cuore; è in questo modo che conosciamo i primi principi, e il ragionamento, che non vi prende parte, cerca invano di combatterli... Ed è su queste conoscenze del cuore e dell’istinto che la ragione deve appoggiarsi, e fondare tutto il suo discorso». Lo studioso moderno non pretende di capire in che cosa consiste e in quali condizioni può agire l’intuizione. Le definizioni che ne dà restano, nella maggioranza dei casi, negative. Le verità matematiche, dice, non sono né conseguenza di fatti sperimentali, né risultati di costruzioni o deduzioni logiche. È, quindi, da supporre un modo di appercezione che non si confonda né con l’esperienza dei sensi né con il ragionamento. In alcuni momenti, aggiunge, abbiamo coscienza di praticare questo modo di appercezione (nel lavoro della scoperta) e costatiamo che non somiglia affatto alla conoscenza dimostrativa. Sforzandoci di isolarlo, riusciamo a distinguerne qualche carattere; tuttavia, dobbiamo riconoscere che esso resta misterioso e che, affermando la realtà del metodo, il matematico pone un problema in più al filosofo, piuttosto che aiutarlo a risolverne uno. L’intuizione: l’inevitabile credo. Quel credo che fa a meno di ogni ragionamento. La sua varianza storica in funzione dell’allontanamento dalla condizione primitiva. L’inevitabile credo negli accadimenti umani successivi. Il credo del molto primitivo. Il credo dello studioso moderno. Le incertezze del credo. L’intuizione di incertezze. Il poeta: Arianna mi manca e io non ho il suo filo. E il mio oscuro appetito – oscuro per la troppa chiarezza incidente – delle luci del giorno. Le proiezioni di questi credo nelle opere umane: nell’arte, nella poesia, nelle religioni e, infine – ma sarebbe meglio dire prima di tutto – nel linguaggio. Nel linguaggio umano, più che in ogni altro luogo, si registrano questi credo inevitabili che, ai miei occhi, costituiscono l’intuizione umana. Lungi da me la pretesa di elucidarne il mistero. Ma, in ogni caso, come linguista, come strutturalista, come psicosistematico del linguaggio, come osservatore della psicosemiologia, dispongo del miglior documento di cui si possa disporre per lo studio dell’intuizione

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e di questa meccanica molto fine, che percepiamo a livello istintivo e che chiamo meccanica intuizionale, che è l’operatore della struttura delle lingue e che è uno specchio fedele della sua attività. Le operazioni della meccanica intuizionale sono tutte inconsapevoli. Inconsapevolezza e intuizione hanno la stessa natura e l’efficienza delle operazioni di meccanica intuizionale, attestate dalle strutture di lingua che ne fanno vedere il risultato, recano una testimonianza incontestabile dell’esistenza in noi di un ordine di attività, di cui non abbiamo il governo e il cui obiettivo non è di accrescere il nostro sapere, ma di accrescere la nostra lucidità senza la quale l’acquisizione del sapere sarebbe impossibile. Non posso evitare di scorgere nel gioco delle operazioni di meccanica intuizionale qualcosa che ha dei legami stretti con l’istinto di conservazione. Ma ciò che si tratta di conservare, di salvaguardare – ed è questo che ne determina la specificità nella materia trattata – è l’umana potenza del pensiero, verso e contro tutto nelle peggiori condizioni. Vedo nell’intuizione, nelle sue operazioni motu proprio, di cui, per fortuna, le strutture di lingua sono il riflesso, una successione di azioni il cui scopo è quella salvaguardia, tante volte compromessa dallo stesso comportamento del pensiero che va o si precipita, come saremmo tentati di dire, incontro a quanto ne sancirebbe la sconfitta, se l’operazione di salvaguardia non andasse ogni volta a buon fine. C’è in queste parole qualcosa di evocativo che non dispiace. Vediamo chiaramente la mente umana abbandonata all’istinto della sua conservazione, cioè alla salvaguardia della sua lucidità. E, stabilendo una correlazione interessante, possiamo distinguere gli uomini con grandi conoscenze dagli uomini con una grande lucidità. Accade che siano le stesse persone a riunire insieme queste due qualità, e questo dev’essere un bene; ma una cosa ancora più bella e ancora migliore è che l’uomo con conoscenze limitate può anche essere uomo di grande lucidità. Napoleone, che sapeva pensare, appare, in diverse circostanze, preoccupato di questa congiunzione di sapere e di lucidità e, regolarmente, è portato a dare alla lucidità un maggior peso che al sapere, qualunque esso sia. Questa lucidità superiore, per tutto quello che cerca e nella quale crede più che in qualsiasi altra cosa, la chiama, con stile napoleonico, il giusto sentimento delle cose.

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L’animo umano corre il rischio di perdere la sua lucidità nella circostanza mentale in cui incontra in se stesso l’infinito. In questo momento esso ha bisogno, in certo senso in extremis, di operare in se stesso un’anastasi, una resurrezione della lucidità espirante. Straordinariamente privilegiato a questo riguardo, il linguista può seguire come un avvenimento osservabile l’anastasi in questione, incisa nella struttura del linguaggio. (Lezione del 14 febbraio 1957).

Ipotesi di lavoro e teoria Cuoco si diventa, rosticciere si nasce. Allo stesso modo mi sembra, per esperienza personale, che storici si diventa ma teorici si nasce. Per fortuna, o per sfortuna, io sono nato teorico. Le attrattive della teoria sono per me il fatto che essa sostituisce ad un vedere, che è quello dei fatti, un comprendere che conduce ad un vedere superiore, che è nell’ordine della comprensione4. A mio avviso, comprendere è teorizzare all’imum, per quanto poco si comprenda. Il massimo del comprendere è una buona teoria5. Una teoria, ogni teoria, va incontro ai fatti. E l’incontro dei fatti è il momento critico di una teoria. E tuttavia, può non essere sufficiente che una teoria sia in accordo con i fatti perché venga dichiarata giusta. Una teoria può essere infatti costruita a partire dai fatti per spiegarli. E, per spiegare gli stessi fatti, può accadere che vengano costruite delle teorie differenti la cui differenza può giungere fino alla inconciliabilità, l’una escludendo l’altra. Costruire una teoria a partire dai fatti, per spiegare i fatti, significa, per un verso, mettere il fatto, l’esempio, in posizione di protagonista e, per l’altro verso, in

4 Variante: E la teoria è per me la sostituzione di un vedere che è nell’ordine della constatazione, con un vedere superiore che è nell’ordine della comprensione. 5 In nota: Quando si tratta della lingua, bisogna distinguere accuratamente tra le teorie che ne possiamo fare e la teoria che essa è.

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posizione di antagonista6. Così sono costruite le teorie fondate su ciò che chiamiamo ipotesi di lavoro7. In rappresentazione grafica: la teoria

i fatti osservati

immaginario

i fatti giustificativi per la cui giustificazione è stata costruita la teoria.

(ipotesi di lavoro)8

Il circuito va dai fatti osservati ai fatti osservati, passando per un’ipotesi esplicativa. Il fatto protagonista è anche antagonista. Le teorie di questa specie non valgono granché in linguistica. Se ne può costruire un numero anche troppo elevato per gli stessi fatti. Per questo, essendo un teorico per tendenza naturale, grazie a Dio o al diavolo (i pareri sono contrastanti), mi sono sempre astenuto dall’edificare teorie di questo tipo. La teoria, superlativo del comprendere, per essere di mio gradimento, deve soddisfare alle seguenti condizioni formali: andare, certo, incontro ai fatti in posizione antagonista, partendo, però, non dal fatto ma da un’esigenza assoluta, inevitabile, e procedendo da esigenza assoluta in esigenza assoluta fino a incontrare i fatti. La protagonista della teoria sarà, allora, una certa esigenza assoluta, presa in considerazione inizialmente, e l’antagonista sarà il fatto, incontrato quando la teoria, come dice l’Apostolo, «ha corso la sua corsa»9. Questo cursus10 della teoria non è possibile ovunque. Lo considero possibile in linguistica e, più in generale, in tutto quanto è un’opera costruita in termini di pensiero. Ed è questo il caso della lingua e del linguaggio, opere costruite nel pensiero prima di essere opere fatte di segni. 6

In sovrascritto: Conferire ai fatti due funzioni. A margine: Di cui Meillet non voleva che si avesse la superstizione. 8 A margine: Le ipotesi di lavoro moltiplicano le teorie e i teorici. 9 A margine: È saggio, è giusto lasciargliela correre. 10 Variante cancellata: Questa configurazione formale. 7

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Lo schema di una buona teoria linguistica è lineare. Esigenza basiale. l’inevitabile (in posizione di protagonista e quanto più vicino possibile all’intuizione elementare)

i fatti antagonisti (alla fine del cursus)

La validità di una teoria, in questo caso, ha due radici: il suo legame di partenza all’inevitabile, che è già molto pur essendo poco, e poi l’incontro dei fatti11. In altre parole, la duplice prova di una partenza corretta e di un arrivo che convalidi la giustezza della partenza. Tengo a dire che, se si vuole usare un buon metodo, bisogna lasciare a una teoria il compito di giungere ai fatti, e alla prova della sua esattezza attraverso i fatti, motu proprio – attraverso un movimento che le è proprio proprio, con i mezzi che le sono propri – seguendo la strada che si è scelta, strada che si manifesta nella sua progressione e nella partenza presa; e si commetterebbe un grave errore, deragliamento e catastrofe, nel caso in cui, nel mentre la teoria, in pieno processo di sivluppo, sta per incontrare i fatti dei quali provoca una specie di creazione mentale, si gettassero di traverso sul cammino della teoria i fatti a cui essa si interessa, presentandoli in modo avulso dal cammino teorico intrapreso, di cui non si terrebbe affatto conto. Bisogna lasciare ad una teoria il compito della spiegazione che ha cominciato ed evitare, con cura e tatto, di sostituire all’improvviso alla spiegazione cominciata, a partire da un determinato punto di partenza scelto, una spiegazione estranea al cammino da lei seguito in funzione di questa partenza. Meillet, che aveva il dono di saper scegliere le parole giuste, chiamava questo modo di fare il tatto della

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In nota: E tra i due, la sua lenta e rigorosa progressione.

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docilità provvisoria. Bisogna lasciare ad una teoria le possibilità di un incontro felice con i fatti attraverso i suoi propri mezzi. (Lezione del 7 febbraio 1957)

La prova in materia scientifica All’inizio del secolo scorso, ci si abbandonava volentieri all’impressione, o se si preferisce, alla sensazione istintiva, che la lingua riposasse su distinzioni di carattere metafisico e questa sensazione che si aveva della natura profonda della lingua non era affatto falsa. Sfortunatamente, i linguisti-filosofi dell’epoca, non sapendo coniugare nella giusta proporzione l’osservazione sottile dei fatti e la riflessione astratta profonda, non riuscirono a vedere chiaramente in cosa consistesse l’armatura metafisica del linguaggio e, non scoprendone la vera sostanza, si persero tra le nuvole e, molto spesso, afferrarono solo vento. Fu così che delle menti di qualità, amanti della terra ferma, si stancarono e, con critiche fondate, gettarono un gran discredito su delle posizioni che rappresentavano un pregiudizio fondato, che aveva il solo torto di non potere, o di non sapere, farne scaturire, senza possibili contestazioni, la fondatezza intuita. «La scienza non vive di verità, vive di prove». Questo pensiero di Meillet è di una profonda giustezza; ma non deve far perdere di vista che la mente umana scorge la verità molto tempo prima di poterla provare; essa è fatta così, specie in coloro nei quali raggiunge la sua maggiore acutezza di percezione. La scienza vive di prove e non di verità non provate, ciò è incontestabile; ma al di là della scienza che sa dare delle prove, esiste uno stato precedente di scienza, una specie di prescienza, la cui caratteristica è proprio quella di afferrare la verità da molto lontano, da così lontano che in quel momento non è ancora possibile accedere alla prova. Sarò forse criticato per il fatto di sostenere tali discorsi, ma vi sono spinto dalle richieste di prove convincenti, formulate in casi che non mi interessano personalmente, in cui la natura stessa delle cose fa sì che, per molto tempo, la prova sia difficile da trovare, o almeno lo sia parzialmente, e in cui, se si vuole fare una valutazione corretta, conviene prendere in considerazione la

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facoltà che alcune persone hanno di percepire la verità prima che le prove possano essere trovate e attraverso le condizioni che più si oppongono alla loro produzione. Mi sento ancor più a mio agio nel fare questi discorsi, in quanto finora non ho mai avuto bisogno di invocare a mio favore l’esistenza di verità intraviste che non potessero essere provate: infatti, sono sempre riuscito a produrre, finora, una prova, almeno parziale ma valida, delle tesi teoriche che propongo. Tuttavia, ho spesso intravisto la verità molto prima di essere capace di provarla. Mi è del resto accaduto anche di mettere la mano all’improvviso sulla prova di una verità che mai prima di quel momento avevo supposto. Anzi, nella pratica è questo ciò che mi accade più spesso. Vedo prima la prova e poi la verità. Questa è la mia inclinazione. (Lezione del 3 febbraio 1944)

3. La tradizione linguistica La grammatica generale L’antica grammatica generale, in auge nel diciottesimo secolo, e alla quale si torna a far riferimento, malauguratamente, solo dopo che Ferdinand de Saussure ha ridato lustro alla grammatica descrittiva, si era cacciata in un errore, quello di vedere nello stato di struttura di idiomi molto evoluti l’effetto di distinzioni obbligate inerenti al pensiero umano, che non avrebbe potuto farne a meno, secondo quanto si credeva allora, senza peraltro poterlo realmente provare. Ora, uno studio più esteso, nello spazio e nel tempo, del linguaggio umano, cioè delle lingue del mondo di cui esista una testimonianza, che ammontano a diverse migliaia, ha mostrato che le distinzioni menzionate, che erano considerate generali e necessarie come quella, ad esempio, del nome e del verbo, non appartenevano a tutte le lingue e, nello stato in cui riusciamo a percepirle, si ritrovavano solo nel ristretto numero di idiomi molto evoluti. Anche qui, nelle mie lezioni relative allo stato di definizione della parola [mot], alla psicosistematica della parola, è stato dimostrato che questa, allo stato in cui i francesi e più in gene-

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rale gli europei la conoscono, è un prodotto tardivo dell’evoluzione del linguaggio. Ci sono degli idiomi, e sono molto numerosi, in cui la parola è tutt’altra cosa rispetto a ciò che noi abbiamo l’abitudine di considerare con questo termine. Al punto che, in realtà, è un abuso in cui talvolta incorriamo, considerare sul pianno formale l’equivalenza tra la parola cinese e quella francese. I confronti di carattere sintattico, basati sul postulato di un’eguaglianza formale tra la parola cinese e quella francese, non reggono. Un tale confronto sintattico è possibile o accettabile solo tra idiomi che comportino uno stato della parola, se non del tutto simile, almeno sottomesso agli stessi grandi principi costruttivi. Questo principio, che abbiamo appena enunciato, è molto spesso perso di vista e maldestramente infranto. Che i fatti di grammatica generale sfuggano ad un osservazione più attenta man mano che questa si allarga e si approfondisce, non significa che i fatti in questione siano inesistenti. Questa fuga evidenzia solo che bisogna cercare i fatti di grammatica generale là dove si trovano davvero: cosa che è stata, finora, trascurata, benché negli ultimi anni dei progressi, non molto grandi ma sensibili, ai quali il nostro insegnamento non è rimasto estraneo, siano stati fatti da molte parti in questa direzione, un tempo misconosciuta, anzi completamente ignorata. (Lezione del 21 novembre 1947)

Abuso della logica La questione che affronterò adesso brevemente riguarderà l’analisi che i logici hanno fatto della parte del discorso chiamata verbo, considerata nel suo impiego predicativo. Costoro insegnano che un verbo in funzione di predicato esprime, nel pensiero, l’affermazione dell’esistenza di un soggetto, la quale viene completata da un attributo. In je marche [io cammino*] bisognerebbe vedere, analiticamente: je suis * Metteremo tra parentesi la traduzione in italiano di alcuni degli esempi presenti nel testo. Abbiamo dovuto necessariamente lasciarli nella loro forma originale per una loro migliore leggibilità.

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marchant [io sono camminante]. E sarebbe così per tutti i verbi. I miei uditori, almeno quelli che hanno una qualche esperienza del mio pensiero, sanno già che questa spiegazione a me sembra assolutamente superflua e, per di più, inesatta, visto che, con la scusa di un’analisi logica, essa si pone completamente fuori dalla realtà della lingua. Infatti, se diciamo: il marche [egli cammina], e non il est marchant [è camminante], ciò significa che pensiamo logicamente, e che non abbiamo nessun’idea che il verbo sarebbe meglio penetrato, meglio analizzato logicamente, se dicessimo con una perifrasi: il est marchant. La questione sollevata da questo piccolo problema, abbastanza specioso, di analisi logica presenta l’interesse di richiamare l’attenzione sul possibile contenuto semantico della categoria verbale. La categoria del verbo, in una lingua come il francese, è costituita dall’incidenza di tutta la semantesi nella persona ordinale. Ora, da un certo punto di vista, che è stato peraltro adottato da alcune lingue, il verbo potrebbe ridursi al solo rapporto del soggetto con la nozione generale del verbo, a prescindere dalla natura specifica di quest’ultimo. Si capisce che in una lingua così costituita i verbi sarebbero molto pochi: sarebbero necessari solo quelli di cui avesse bisogno il soggetto per rapportarsi alla nozione generale del verbo. Ne conseguirebbe che la categoria del verbo, ridotta ad un piccolo numero di verbi estremamente astratti (dei quali i nostri ausiliari danno un esempio molto tangibile), sarebbe una categoria quasi completamente formale, che comprenderebbe solo una piccolissima parte della semantesi, quella più generale, poiché tutto il resto sarebbe affidato al piano nominale. Questa situazione si presenterebbe in francese se, invece di formare il verbo come lo formiamo senza ricorrere ad una perifrasi che si vuole analitica e logica, dicessimo abitualmenteio je suis marchant invece di je marche. La categoria verbale si troverebbe ridotta ipso facto al solo verbo «essere» e tutti gli altri verbi finirebbero, in una forma aggettivale, nel piano del nome. Ma questa è un’eventualità che la lingua francese non ha mai preso in considerazione: la semantesi, in francese, ha costantemente avuto la tendenza a dividersi ugualmente tra le due categorie, quella nominale e quella verbale. Quindi, quando i logici ci propongono di analizzare je marche per mezzo della perifrasi je suis marchant, non fanno altro che

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spostare la semantesi e attribuirle una posizione che il francese si è ben guardato dall’adottare, posizione inconciliabile con la sistematica – stavo per dire con la logica – del francese. I logici, nel caso specifico, sembrano considerare, senza rendersene ben conto, che il vero posto della semantesi è nel piano nominale e che l’analisi logica del verbo consiste, non senza chiedersi la ragione di ciò, a riportarvelo. Ora, la verità è che sarebbe evidentemente logico, da un certo punto di vista, avere nella lingua tutta la semantesi dal lato nominale e ridurre il verbo alle parole-supporto indispensabili all’introduzione della semantesi nel piano verbale, quando sopraggiunge il discorso; ma la verità è anche che è altrettanto logico, e forse perfino più logico, collocare in parti uguali la semantesi nei due piani, nominale e verbale, e questo ha come positiva conseguenza, tra l’altro, di avere in ogni categoria una semantesi più strettamente connessa alla sua natura. Si eviterebbe così l’operazione, di convenienza molto dubbia, consistente nell’imporre al discorso una continua trasposizione di elementi nominali, come il participio, nel piano verbale, dove dovrebbero trovare dei verbisupporto, in numero ristretto e costruiti in modo speciale per offrire loro l’assetto verbale, extranominale, di cui hanno bisogno. La conclusione che sembra imporsi, a seguito di queste considerazioni, è che l’analisi del verbo come un verbo di affermazione del soggetto, completato da una forma extraverbale che ha il ruolo di attributo, è un giochetto sprovvisto di ogni valore intellettivo e che ha il difetto grave, nel caso del francese, di disconoscere la vera sistematizzazione della lingua. Uno degli scopi sistematici del francese è, senza dubbio, la pari rappresentazione della semantesi nei due piani opposti della lingua: il piano nominale e quello verbale. Questa pari rappresentazione della semantesi nei due piani della lingua riflette la logica del francese, la quale, al pari del latino da cui l’ha ereditata, è una logica di simmetria12. La parola «logica», nel campo della sistematizzazione linguistica, non significa praticamente niente; invece, la parola «simmetria», che ho appena utilizzato, significa molto, come 12 Frase cancellata: Non esiste una logica che trascenda la diversa organizzazione interna delle lingue, ma tante logiche per ogni lingua.

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ho avuto più volte occasione di dimostrare, occasione che si rinnoverà prossimamente quando affronterò lo studio dettagliato, che non ho ancora fatto qui alla «École», del sistema delle forme verbali del francese, che hanno ereditato dal latino una simmetria molto grande, attualmente inesistente al di fuori delle lingue romanze. (Lezione del 27 gennaio 1944)

Abuso della grammatica storica Non è certo dar prova di un’ingiusta severità verso la grammatica storica se le si rimprovera un interesse troppo esclusivo per ciò che riguarda il sopraggiungere degli apporti intervenuti nel corso del tempo e un’eccessiva mancanza di interesse verso le relazioni stabilitesi tra questi stessi apporti, storicamente sopraggiunti e conservati al fine di una loro sistematizzazione. Questa grave mancanza di interesse verso le relazioni sistematiche istituitesi tra i vari apporti storici, è la ragione per cui la grammatica storica, che ha coltivato a lungo l’illusione di spiegare tutto nel campo del linguaggio, in realtà non ha spiegato niente: ha soltanto, e non è poco, raccontato delle cose che riguardavano il linguaggio. La grammatica storica tradizionale è soprattutto narrativa. Se vogliamo descrivere uno stato di lingua, si esce fuori dalla narrazione storica e, lo si voglia o meno, si perviene ad esaminare le cose dal punto di vista di una relazione sistematica istituita istantaneamente, staticamente, tra apporti storici fortuiti, in se stessi irrazionali, ma razionalizzati attraverso l’integrazione con il sistema della lingua. Per il fatto di non allontanarsi, o di allontanarsi molto poco, dall’ambito delle considerazioni sugli apporti intervenuti nel corso del tempo, le spiegazioni della grammatica storica sono molto spesso insufficienti. Facciamo un esempio, per rendere più evidente questo difetto, prendendo in considerazione quella parolina che in grammatica è chiamata articolo. La grammatica storica, al capitolo dell’articolo, insegna che l’articolo risale ad un dimostrativo latino, il cui senso dimostrativo si è indebolito ed è diventato, nel francese moderno, un

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segno che introduce regolarmente il nome. Del valore di questo segno, del ruolo che svolge, della sua necessità psichica, non viene detto nulla o quasi, e le cose dette sono poco significative. Si vede nell’articolo un determinante del nome (e con quest’approccio la grammatica storica già si allontana dal suo asse proprio, per accedere a quello della grammatica sistematica). Da qui i termini, ancora utilizzati, di articolo determinativo e indeterminativo. Un nome preceduto dall’articolo le [il, lo] sarebbe un nome determinato, mentre un nome preceduto dall’articolo un [un, uno] sarebbe indeterminato. Niente di più vago, anzi, niente di più vuoto. Si gioca con delle parole che la mente, per tradizione, accetta acriticamente, ma che non corrispondono a niente di reale, che non ci fanno capire niente del processo psichico al quale l’articolo deve la sua esistenza, di quel processo che ne costituisce la ragion d’essere. In mancanza di una spiegazione che riesca a darci queste delucidazioni – al di sotto di questo livello di comprensione, ogni altra spiegazione sarebbe insufficiente – e per dare una parvenza di giustificazione dell’uso costante dell’articolo prima del nome, siamo portati ad invocare l’abitudine: avremmo preso l’abitudine di mettere l’articolo davanti al nome e questa abitudine si sarebbe diffusa. In altre parole, ad un’abitudine – perché, senza dubbio, tale fu quella di non mettere l’articolo prima del nome – ne sarebbe succeduta un’altra, nuova e di segno contrario. E di questa originaria abitudine a non mettere l’articolo resterebbe qualcosa, e sarebbe questa la spiegazione dei diversi casi presenti nel discorso di nomi privi di articolo. Non vale neppure la pena soffermarsi a considerare spiegazioni di questo tipo. La loro miseria annoia. Qualche grammatico, tralasciando deliberatamente il problema della natura propria dell’articolo, si è soffermato soprattutto sul fatto secondario che l’articolo è, grazie alla sua forma variabile, un indice semiologico del genere, nei casi in cui il genere del nome non ha segni evidenti: la chaise, le canapé [la sedia, il divano]. La miseria di queste spiegazioni fa una certa pena. E siamo sorpresi nel vederle instancabilmente ripetute, non solo nei testi di grammatica destinati all’insegnamento dei bambini, ma anche in quelli che aspirano ad ambizioni più elevate. L’insistenza con la quale tali spiegazioni, che in realtà non

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spiegano nulla, vengono ripetute dappertutto, è dovuta al fatto che i grammatici si rifiutano ostinatamente di distogliere la loro attenzione dall’asse degli apporti storici al linguaggio, al fine di rivolgerla, invece, verso quello dei rapporti sistematici. L’abitudine di usare l’articolo è un apporto della storia, e questo apporto, in quanto tale, avrebbe potuto non sedimentarsi, cioè avremmo potuto non prenderne l’abitudine. Se l’apporto, costituito dall’abitudine di far precedere il nome dall’articolo, si è consolidato è perché ha soddisfatto a delle condizioni di rapporto che trovavano posto, e un posto di prim’ordine, nel sistema della lingua. Il problema è, quindi, di scoprire nel sistema della lingua, che cosa giustifichi il ruolo, costantemente affidato all’articolo, di introduttore del nome. Porsi in questo modo il problema dell’articolo, significa dar prova di una curiosità radicalmente nuova alla quale gli storici della lingua, ipnotizzati dalle sole considerazioni rivolte alle sue evoluzioni storiche, sono rimasti generalmente estranei. (Lezione del 13 febbraio 1948)

La lingua e la sua storia (...) Questo mi spinge, incidentalmente, a prendere esplicitamente posizione nella controversia, nata da quando è comparso, nel 1916, il Corso di linguistica generale di Saussure, circa la possibilità, e persino la necessità, di eliminare la diacronia – cioè la considerazione storica – dalla grammatica descrittiva. Agli occhi di F. de Saussure, la lingua è, momento dopo momento, una sincronia di rapporti, un sistema che trova in se stesso, nelle proprie leggi di assemblaggio, le ragioni della sua esistenza. La considerevole parte di verità, contenuta in questo modo di vedere, ha assicurato, su questo punto, alla dottrina di Saussure una grande eco e vasti consensi. È stato percepito nettamente e con forza che il soggetto parlante possiede in se stesso – e questo è vero – il sistema della sua lingua così com’è, e che lo possiede solo così com’è, indipendentemente dagli stati superati, abbandonati, trasformati.

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Ma dopo quest’approvazione molto ampia degli esordi, non si è fatta attendere una qualche riserva da parte dei linguisti più avvertiti. Nella pratica, è apparso subito difficile costituire una buona grammatica descrittiva utilizzando la sola sincronia senza fare mai appello, sia pure discretamente, alla diacronia, alla storia. Certo, vi sono questioni di primaria importanza in cui è possibile evitare questo richiamo: la questione del tempo, per esempio, in numerose lingue; ma ve ne sono altre in cui evitare questo richiamo è impossibile, se si vogliono spiegare esaurientemente i fatti. Osservando quanto detto, siamo portati a chiederci perché certe questioni grammaticali richiedono considerazioni diacroniche, mentre altre non le richiedono e, anzi, spesso ricavano un beneficio dalla loro esclusione. Nelle lingue, vi sono cose che si spiegano meglio considerandole nel loro stato attuale anziché risalendo ai loro stati antichi scomparsi. La risposta alla domanda che ho appena posto non è facile. A ben vedere, però, la soluzione risiede nel distinguere i problemi che hanno completamente attraversato la soluzione, al di là della quale si reiterano, e che, in questo modo, sono diventati indipendenti da essa, dai problemi la cui reiterazione si presenta prima che questo attraversamento, che avrebbe comportato la loro indipendenza, sia avvenuto completamente. I primi, divenuti indipendenti dal loro passato per superamento, saranno soggetti ad una spiegazione che non dovrà, nemmeno lei, essere storica, mentre i secondi, ancora legati al loro passato storico, passato che non hanno affatto superato o interamente attraversato, dovranno essere spiegati con ragioni tratte in parte dalla storia. In altri termini, vi sono dei problemi sufficientemente indipendenti dalle loro soluzioni passate per essere considerati intrinsecamente, senza risalire alle soluzioni precedenti che hanno ricevuto e che li hanno esplicitati. Ma non tutti i problemi raggiungono una tale autonomia. Un certo numero di essi non ha attraversato le soluzioni precedenti in modo tanto completo che la loro reiterazione ne sia divenuta indipendente. In questo caso, bisogna tener conto, nella considerazione dei fatti linguistici corrispondenti, di questa non completa liberazione dal passato storico, dalla diacronia, di cui i suddetti

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problemi restano intrinsecamente, più o meno, tributari. Ne consegue che la spiegazione, per essere vera, cioè conforme alla realtà, dovrà, in questi casi, restare sufficientemente storica. In conclusione, il linguista che si propone di descrivere una lingua, potrà farlo senza richiamarsi alla spiegazione storica quando i fatti che sta esaminando sono la soluzione di problemi che, nell’attraversamento da loro compiuto delle soluzioni precedenti, si sono resi indipendenti da queste soluzioni. E dovrà, invece, richiamarsi, nella misura necessaria, alla spiegazione storica quando i fatti considerati sono la soluzione di problemi, che un passaggio incompleto attraverso le loro soluzioni precedenti, non ha reso realmente indipendenti da queste soluzioni. Ho ritenuto utile dire queste cose per dissipare gli scrupoli di coloro che, e ce ne sono, imbevuti della dottrina di Saussure, si rimproverano di non poter spiegare i fatti della lingua in maniera puramente descrittiva, senza far intervenire, a volte, un po’ di grammatica storica. (Lezione dell’11 dicembre 1941)

Una lacuna dell’analisi saussuriana Qualcun’altro prima di noi aveva già fatto notare che uno dei meriti abbastanza particolari del Corso di linguistica generale di F. de Saussure fu, senz’altro, il suo opportunismo. All’epoca in cui comparve questo testo diventato quasi immediatamente celebre, la dottrina dominante in linguistica era, se possiamo esprimerci così, essenzialmente storica. Ci si aspettava dalla storia, e dalla risalita nel tempo permessa dal metodo comparativo, la spiegazione di ogni cosa. Evidentemente, questa era un’illusione, ma quest’illusione, quand’anche ce se ne fosse resi conto, a priori, attraverso un ragionamento semplicemente più attento, era ancora, quando comparve il Corso di linguistica generale, la incrollabile convinzione, se non assolutamente di tutti, almeno della maggior parte dei linguisti e filologi. E ciò che aggravava la situazione scientifica, francamente non buona e

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della quale nessuno vedeva o voleva vedere i difetti (dovuti al punto di vista adottato), era che l’attenzione dei linguisti era rivolta quasi esclusivamente verso la parola [parole], venendo distolta dalla lingua [langue], che è altra cosa; fatto che sarebbe spettato a F. de Saussure aver messo bene in luce. Tralascio, tra gli errori dell’epoca, quello consistente nel non separare, nel non considerare distinte ed eterogenee, le operazioni mentali dalle quali deriva la costruzione momentanea del discorso e quelle da cui deriva la costruzione della lingua. Quest’errore, le cui conseguenze sono gravi, è persistito anche dopo che il libro di F. de Saussure ebbe prodotto l’effetto che ci si poteva aspettare ed ebbe avuto il successo che ebbe. Del resto, questo successo è stato soprattutto un successo di grande stima, un successo teorico. Le idee generali di Saussure sono state accolte ed è stata riconosciuta e ammirata la loro esattezza, ma di fatto poche cose sono state modificate negli studi linguistici. E i tentativi di spiegazione di uno stato di lingua sul solo asse degli stati, cioè, secondo la terminologia saussuriana, in sincronia, non sono, per ragioni diverse, veramente riusciti. Le considerazioni che ho appena fatto sulla situazione scientifica esistente nel momento in cui comparve il testo di F. de Saussure mostrano la necessità, in quel periodo, di un intervento destinato a operarne un aggiustamento. Ora, un tale intervento, per essere operativo, doveva venire da un maestro con un seguito nel mondo scientifico, un maestro già coperto di gloria. Se fosse venuto, quand’anche in forme elevate, da un uomo poco conosciuto e rimasto con tutta la sua scienza nell’oscurità, non avrebbe avuto, nell’immediato, il benché minimo effetto per mancanza di risonanza. Non basta dire delle cose importanti, è necessario che a dirle sia una persona importante. Le persone importanti farebbero bene ad informarsi sufficientemente sulle cose importanti da dire. In ogni caso la reputazione dell’autore, nel caso che ci interessa, ha aiutato enormemente la causa. Ma questa causa sarebbe stata meno felicemente aiutata se F. de Saussure, nella battaglia che intraprendeva, non avesse avuto la precauzione, per quanto rivoluzionario fosse il suo modo di pensare, di avanzare soltanto idee che non si scontravano troppo frontalmente con le idee vigenti. È questa moderazione

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nell’attacco, e la preoccupazione costante, in ogni pagina del testo, di non accrescere l’opposizione alle nuove idee avanzate, che è stato chiamato l’opportunismo di F. de Saussure. Vi sono cose che il maestro avrebbe certamente detto se, volendo trovare un’accoglienza favorevole, quel dato momento non glielo avesse impedito. Può non essere inutile capire in cosa è consistito, in effetti, quest’opportunismo di Saussure, di cui mi sono reso conto molto presto e che altri hanno segnalato. F. de Saussure distingue tra linguaggio, lingua e parola e pone la seguente equazione per lui fondamentale: linguaggio = lingua + parola

equazione che dev’essere interpretata secondo una relazione che fa del linguaggio il tutto, l’integrale, di una successività*, quella che va dalla lingua alla parola: dalla lingua, presente in permanenza dentro di noi allo stato potenziale, alla parola, presente dentro di noi, in alcuni momenti, allo stato di effetto. Questa interpretazione, da me formulata, non si trova nel libro di F. de Saussure, ma, anche se non vi compare esplicitamente in nessuna sua parte, è dappertutto implicata. Nel libro, visto il suo tenore d’insieme, essa è qualcosa di implicito. Mantenere implicita una spiegazione più approfondita di quella presentata esplicitamente è un segno di opportunismo, e il testo deve a questo, se non un successo maggiore, almeno una minore resistenza verso la nuova dottrina nascente. Il linguaggio è davvero, come indicato da F. de Saussure, un tutto relativo a due componenti: la lingua e la parola. E questo potrebbe essere rappresentato, prima di una critica serrata della relazione saussuriana, nel modo seguente: linguaggio

* Nel testo francese è usato il termine successivité.



parola

+ lingua

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Presentata in questa forma, la questione capitale trattata si chiarisce e, poiché si chiarisce, la formula di Saussure: linguaggio = lingua + parola

lascia trasparire i suoi difetti. Un fattore di cui la formula saussuriana non tiene conto, e che in ogni problema linguistico bisogna aver ben presente, è il fattore tempo. Il linguaggio, nella sua totalità o interezza, ingloba una successività: quella del passaggio dalla lingua, presente in permanenza nel soggetto parlante (quindi al di là di ogni momentaneità), alla parola [parole], presente in lui solo in determinati momenti, più o meno distanziati nel tempo. Di questa successività, che complica il problema, il testo di Saussure, opportunamente, non parla. Se Saussure l’avesse presa in considerazione, sarebbe stato portato a una visione più complessa e più vera delle cose, che però non sarebbe piaciuta ad un certo semplicismo, naturale presso gli storici, che consiste nel vedere solo le spiegazioni diacroniche, del conseguente attraverso l’antecedente. Lo schema molto semplice, da cui non si discostano i fedeli della scienza storica, è il seguente: antecedente

(constatato, attestato)

trattamento regolare

(osservato)

risultato conseguente

(generato dal trattamento e anche lui constatato, attestato).





Dopo di che, non resta che continuare ad applicare lo stesso schema intellettivo, sia per risalire nel tempo verso le origini, sia, al contrario, per discendere dalle origini verso la successione storica. La sola vera difficoltà del metodo consiste nel delimitare, tra l’antecedente e il conseguente, un intervallo di tempo portatore di un trattamento di differenziazione regolare. Gli storici hanno del resto capito bene che in generale conveniva restringere quest’intervallo, per ottenere un maggior rigore teorico: un trattamento regolare riconosciuto – regola-

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rità alla quale abusivamente si conferisce il titolo di legge – è valido, in quanto tale (come regolare), solo entro limiti abbastanza ristretti. Nei lavori storici, succede spesso, e questo è causa di molte difficoltà, che i limiti in questione vengano scelti male. È utile aggiungiungere che la scelta di questi limiti non dipende da nessun altro fattore se non dalla precisione di osservazione dello storico. Non è condizionata da nient’altro. Dopo queste critiche allo schema intellettivo della grammatica storica, ritorno alla formula saussuriana della relazione esistente tra i tre termini: linguaggio, lingua e parola. Se vi aggiungiamo il fattore della successività tra lingua e parola, questa relazione diventa:

linguaggio



parola

lingua

Il soggetto parlante trova in se stesso la lingua pronta per l’uso, a disposizione, e se ne serve per parlare, passando, transitando dalla lingua alla parola. Ma qui la teoria esposta incontra un ostacolo. Il soggetto parlante, nel momento dell’espressione, passa in effetti proprio dalla lingua alla parola, cioè dalla lingua alla parola effettiva, momentanea, quella che si ascolta, che ha un’esistenza fisica. Ma questa transizione dalla lingua alla parola, in realtà, e questo Saussure non lo ha notato, non è altro che il passaggio dalla parola virtuale, indissolubilmente legata allo psichismo della lingua, alla parola attuale, effettiva e fisica. La parola virtuale, legata alla lingua e facente parte integrante di questa, è una parola non fisica, silenziosa, che lo psichismo delle unità di lingua porta con sé. È facile rendersi conto della realtà di questa parola non fisica. Ogni nozione di lingua comporta l’idea del o dei suoni significanti, ma solo l’idea di questo o di questi suoni, non la loro realtà. Ne consegue – e la scienza parziale, interna alla linguistica, chiama-

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Principi di linguistica teorica

ta fonologia, non ha altro fondamento che questo – che la parola-idea, facente parte della lingua, è altra cosa dalla parola effettiva, che ne è una materializzazione. E qui ritroviamo una relazione a noi già nota, e cioè che la molteplicità appartiene all’effetto mentre l’unità relativa appartiene alla potenza. Alla parola ideale, che è una per definizione, si oppone l’immensa diversità della parola effettiva, che varia a seconda dei soggetti parlanti e, anche in relazione a uno stesso soggetto parlante, secondo le circostanze della parola. Tenuto conto di quanto appena detto, lo schema saussuriano, più complicato di quello iniziale, ma più vero, diventa:

linguaggio



discorso

lingua

{

parola effettiva (parola fisica materializzata) psichismo soggiacente

{

parola-idea, (parola non fisica) psichismo soggiacente

Secondo la rappresentazione di questo schema di analisi, il linguaggio integra la successività che va dalla lingua al discorso e, nella lingua come nel discorso, c’è legame e congruenza tra un fatto di parola e un fatto di pensiero. Con delle differenze che è tuttavia importante rilevare e sottolineare. Nella lingua, a livello della lingua, il legame psichismo-parola è un legame ideale, secondo il quale la dimensione fisica, che è in sé la parola, non esce da quella psichica. A livello della lingua, la parola, passata allo stato non fisico, è uno psichismo di se stessa. Nel discorso, a livello del discorso, le cose cambiano di aspetto: il legame psichismo-parola, pur restando certamente ancora ideale, a causa della conservazione di ciò che è stato, diventa però un legame secondo il quale la dimensione fisica, che è la parola in sé, si presenta nella sua concretezza, materializzata e quindi, per quanto la riguarda, come uscita fuori dalla condizione psichica di partenza. A livello del

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discorso la parola ha preso corpo, è diventata realtà: esiste fisicamente, e non è più soltanto uno psichismo di se stessa. La parola non revoca lo psichismo di se stessa che pure è stata, ma lo realizza, gli dà una materialità sensibile, indispensabile al linguaggio se questo non resta interiore. Come possiamo agevolmente comprendere, quindi, una cosa è la parola a livello profondo della lingua altra cosa essa è a livello superficiale del discorso. Non fisica, a livello della lingua, diventa fisica a livello del discorso, se questo non resta interiore. Questa trasformazione è la sola che si debba constatare nel corso dell’operazione del linguaggio quando si tratta della parola, che nel linguaggio rappresenta il significante. (Lezione del 20 febbraio 1948).

Grammatica comparata e psicosistematica (...) Cercherò di mostrare come avviene la transizione dall’osservazione semiologica della grammatica comparata tradizionale all’osservazione psicosistematica di una grammatica comparativa futura, la cui concezione apre le strade dell’avvenire che, arditamente, i ricercatori di domani prenderanno13. Per far ciò, non partirò dai fonemi, ma da uno stato di linguaggio dove la lingua si compone già di parole integralmente costruite, stato che anteriorizza, lascia dietro di sé, le parole della seconda area del linguaggio 14 di cui una caratteristica, del resto non valida per tutte, è di essere delle parole la cui costruzione, non integralmente compiuta in lingua, si completa durante il passaggio, nel transitus, dalla lingua al discorso. Le lingue indoeuropee, sin dai periodi più antichi, si presentano nella forma di lingue composte da parole la cui costruzione 13

A margine: Una scienza ha la sua osservabilità. Credo che un giorno mi si riconoscerà il merito di aver aumentato, considerevolmente, l’osservabilità della linguistica. 14 Termine che designa, nella teoria inedita delle aree glossogeniche, quelle lingue la cui tipologia è attestata negli idiomi semitici antichi e moderni.

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è completata, cosa che ne facilita di molto lo studio. In queste lingue, la parola aggiunge, per giustapposizione longitudinale, ad una radice una morfologia. Lo schema è il seguente: radice + morfologia

parte del discorso

È la morfologia aggiunta che, essendo generalizzante, porta la parola fino alla parte del discorso, realizzando una universalizzazione finale specificata dal suo intero contenuto. Questa composizione della parola, nelle lingue indoeuropee, è psicosistematica, nei termini in cui l’abbiamo presentata, ma l’osservazione che ne è stata proposta nel lavoro del linguista è stata, al principio, semiologica. Circa mezzo secolo fa, l’aggancio dell’osservazione semiologica, attraverso lo strumento ordinario della grammatica comparata, all’osservazione psicosistematica, alla quale avrei presto deciso di dedicare tutta una vita, è stato per me quanto spiegherò adesso. Consideriamo la corrispondenza ben conosciuta tra le parole: avestico sanscrito armeno inglese albanese tedesco russo greco latino gotico irlandese

barami bhàrâmi berem bear birni gebären beru pherô fero baira berim

porto porto porto portare voi apportate portare prima di mettere al mondo prendo porto porto porto porto

Questa corrispondenza ci mostra un fatto degno di attenzione, la conservazione in tutte le parole citate della consonante assiale r, che assolve la funzione di separazione tra la radice e la morfologia posposta, che ne rappresenta un trattamento strutturale. La consonante assiale separa l’ideazione nozionale legata al gruppo fonematico di base *bher da una ideazione transnozionale, scaturita contemporaneamente, in proporzioni variabili da un idioma all’altro, dall’eredità

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e dalla ricostruzione, non solo semiologica e fisica, ma mentale e non fisica. Quest’osservazione conduce a uno studio speciale di ciò che, nell’ideazione transnozionale, è costruzione e ricostruzione mentale psicosistematica. E conduce, altresì, a mantenere il legame di questa ricostruzione psicosistematica mentale con la disposizione nella lingua dei segni atti a renderla percepibile, cioè atti ad esteriorizzare, mediante la loro fisicità, l’interiorità non fisica di un sistema morfologico. Questo lavoro può essere cominciato e portato a buon fine in qualsiasi lingua indoeuropea e, sul piano semiologico, porta regolarmente a mettere in evidenza, quando si tratta del verbo e indipendentemente da esso, l’importanza in semiologia strutturale della consonante assiale, importanza a cui questa consonante deve la sua quasi costanza nelle corrispondenze tra le parole che abbiamo poc’anzi citato. Essendo un principiante in grammatica comparata e in grammatica di ogni specie, ho quindi prestato una grande attenzione alla consonante assiale. E da qui è derivato un certo numero di scoperte di reale interesse. Ho potuto così dimostrare che, da un punto di vista semiologico, l’intera coniugazione del verbo francese si basa sul trattamento, conservatore in linea di principio, della consonante assiale, che interviene dappertutto tra tema radicale e flessione udibile. La mancanza della consonante assiale, di cui c’è sistematicamente bisogno, non è ammessa davanti ad una flessione udibile, ed è restituita dappertutto se, maltrattata, dovesse mancare. Ecco degli esempi. Presente dell’infinito LIRE [leggere], dove è rappresentata dalla r, la sua presenza non compare nelle forme non future di coniugazione del verbo. Davanti a desinenze udibili, la consonante assiale è restituita, mediante (fonologia) di sistema, nella forma di una s: nous lisons, ils lisent, ils lisaient [leggiamo, leggono, leggevano]. In RENDRE [rendere], la consonante assiale d è conservata in tutta la coniugazione. La regolarità è perfetta. In PRENDRE [prendere], la consonante assiale d, conservata all’infinito, non lo è nelle forme di coniugazione. Non si dice nous prendons, benché abbia sentito un bambino produrre questa costruzione per dicibilità mentale personale, poiché non l’aveva mai sentita. Ne ho sentiti parecchi dire, per conservazione della con-

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sonante assiale, mouru, il est mouru. Questi errori infantili rivelano il lavoro del bambino per ritrovare, a partire da ciò che sente, i processi costruttivi della lingua. È un lavoro di divinazione. Il bambino sa la lingua quando ne conosce la meccanica costruttrice e sa servirsene, e quando, per servirsene, ne ha riconosciuto il legame con una meccanica mentale non fisica, poiché i segni intervengono solo per esteriorizzarne l’interiorità. A questo proposito, è molto importante osservare che il linguaggio, tranne i segni incaricati di esteriorizzare il mentalismo non fisico, non lascia penetrare in lui niente di fisico. I fatti linguistici, all’infuori di quelli semiologici, sono non fisici, qualitativi, ed è a questo che dobbiamo la riduzione del rapporto universo-uomo, i cui termini limitativi evocano delle grandezze fisiche, alla sua replica non fisica: il rapporto universale-singolare, fondamentale nella struttura della lingua (...). La scoperta del ruolo della consonante assiale e delle conseguenze derivanti dalla sua restituzione, continuamente effettuata, mi hanno messo in presenza di una semiologia abbastanza sottilmente congegnata e tale da rivelarmi, senza che io dovessi fare un grande sforzo, la psicosistematica di cui esteriorizza l’interiorità, prestando alla dicibilità mentale fisicamente inesistente una dicibilità fisica di esteriorizzazione. Una volta intrapresa questa strada, la mia strada («Non c’è nessun vicino che le dà ombra», mi diceva un saggio e rimpianto collega), non ho dovuto far altro che lasciarmi guidare da ciò su cui mi istruivano i fatti, che me la facevano non soltanto vedere, ma anche capire. La psicosemiologia tende ad essere un calco riuscito della psicosistematica. Nelle lingue più evolute il risultato è notevole. E bisogna solo osservare bene la psicosemiologia per percepire, al di sotto, la psicosistematica che essa ricopre. A questo punto, l’interesse per la psicosistematica supera a tal punto il possibile interesse per la constatazione delle apparenze sensibili, che sembra prevalere su tutto. (...) Nelle lingue vi sono due orologerie: l’orologeria psicosistematica, che riguarda esclusivamente l’opera costruita nel pensiero che è la lingua, e l’orologeria psicosemiologica, della quale la grammatica comparata insegna i rudimenti, ma niente di più, perché possiamo vedere bene, nella sua realtà, l’orologeria psicosemiologica solo se

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vediamo, al di sotto di essa, l’orologeria psicosistematica di cui tende, è questo il suo scopo, ad essere un calco fisico. Reciprocamente, non vediamo bene l’orologeria psicosistematica se non vediamo, al di sopra di essa, l’orologeria psicosemiologica che la ricopre. Ciò che apprendiamo per l’una ci aiuta a capire l’altra. (Lezione del 21 marzo 1957)

4. Scienza del linguaggio e teoria Teoria: un comprendere portato al superlativo (...) Ho appena usato la parola teoria. Teorizzare, nel mio insegnamento significa comprendere al più alto livello. La teoria è il superlativo del comprendere. Da qui il bisogno di completare teoricamente la comprensione che si ha delle cose. Gli ingegneri, ad esempio, sono soddisfatti della comprensione che hanno dei fatti dei quali si servono solo quando ne hanno elaborato una teoria fondata, in generale, sulla matematica. La teoria, le teorie sono per i linguisti oggetto di grande diffidenza. Vi vedono una tendenza, che loro biasimano spesso, a lanciarsi nell’astratto, nella finzione dell’astratto, e, contemporaneamente, ad abbandonare i cari orizzonti del concreto da dove l’inquietudine scientifica è bandita. Non si rendono conto che il concreto si vede, ma non si comprende. Per comprendere, per quanto poco lo si voglia fare, c’è bisogno della mediazione del ragionamento astratto. Sarebbe giusto dire che non si può vedere senza nessuna comprensione, e dichiarare quindi che il grande vedere, il vedere di potenza sovrana, è quello che emana, spesso all’improvviso, da una potente comprensione. L’atteggiamento costante del linguista deve consistere in una ricerca continua di un vedere immanente ad una grande comprensione. Il Corso di linguistica generale di F. de Saussure insegna, a giusta ragione, senza però farlo vedere dimostrativamente, che la lingua è un sistema. Ma un sistema esiste solo per lo sguardo di chi lo comprende. Per chi non lo comprende e non ne vede che i costituenti apparenti,

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che sono l’oggetto del vedere di constatazione, questo sistema non esiste15. Il linguista appassionato dell’osservazione diretta e ben risoluto a vedere tutto attraverso la constatazione, evitando con cura di sostituire al vedere di constatazione un vedere di comprensione, potrebbe avere l’impressione, gradevole per alcuni a causa della sua vastità sui generis, che la lingua è un immenso disordine, un immenso non-sistema, in cui la mente disorientata non sa orizzontarsi e in cui, secondo lui, è pura follia volersi ritrovare, essendo caratteristica del disordine quella di non ammettere la comprensione. Il vedere di comprensione, ottenuto alla fine in linguistica, suppone un andare e venire ripetuto dal vedere al comprendere, dal comprendere al vedere e dal vedere al comprendere. Il movimento è quello di un’oscillazione e si potrebbe figurare come segue: vedere 1

comprendere 1

vedere 2

comprendere 2

vedere 3

comprendere 3

vedere 4

comprendere 4

e così di seguito, indefinitamente. Dal vedere 1 al vedere 4, non c’è differenza quanto alla materialità delle cose viste, ma c’è differenza quanto al comprendere che la loro vista provoca e al vedere di comprensione che ne risulta. La leggenda della mela di Newton è a questo riguardo suggestiva. Tutti avevano visto delle mele cadere e avevano capito un po’ perché cadono. Per Newton, però, questo comprendere così parziale diventò all’improvviso un grande comprendere e il vedere di comprensione che ne risultò, fu il meccanismo della gravitazione universale. Vedere di comprensione che non è meno capace di provocare un nuovo potente comprendere, dal quale risulterà un 15

In sovrascritto: Possibile incontrare dei sistemi senza vederli.

La problematica di una scienza del linguaggio 51

vedere superiore al vedere newtoniano. Così procede la scienza. È il suo unico modo di avanzare. L’esperienza, che è un vedere, ha valore solo se il vedere che essa è genera un comprendere fino a quel momento non ottenuto. L’attività scientifica è in extenso un’oscillazione dal vedere a un comprendere che trascende il vedere, e da questo comprendere a un vedere adeguato a quel comprendere. È lecito rimproverare alla linguistica tradizionale, senza temere di essere ingiusti, la sua eccessiva propensione a limitarsi al vedere di constatazione, senza troppo cercare di sostituirgli un vedere di alta e potente comprensione. Questa tendenza della linguistica16, che la porta a vedere più che a comprendere, si è concretizzata, nei lavori dei linguisti, in un’investigazione delle conseguenze più che delle condizioni. Da qui lo studio perseguito con perseveranza – stavo per dire con ostinazione – degli atti di espressione e la negligenza quasi totale di uno studio relativo agli atti preliminari di rappresentazione. (Lezione del 29 novembre 1956)

La lingua è in sé una teoria Questa seconda conferenza del giovedì – meno seguita della prima, e ne sono dispiaciuto, perché tra le due è la più adatta, e di parecchio, a risvegliare le vocazioni linguistiche – è la mia conferenza di ricerca. In essa espongo, nei loro diversi movimenti, a volte esitanti sulla direzione da prendere, il procedimento seguito dal mio pensiero per scoprire la verità delle cose che nelle lingue è dissimulata sotto le apparenze. I risultati acquisiti finora nei diversi settori della lingua provano che questa verità è un ordine. È un ordine perché la lingua è in sé una teoria, qualcosa che di conseguenza si presta alla teorizzazione. Forse non si sa abbastanza bene che cos’è una teoria. Una teoria non è mai altro che la conoscenza del rapporto di subordinazione esistente

16

A margine: Tendenza che si è accentuata.

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tra un gran numero di fatti particolari e un ristretto numero di fatti generali dominanti (la ristrettezza può ridursi all’unità). Ora, una lingua è esattamente questo: tutti i fatti particolari, contingenti, fortuiti, nati dal caso, ai quali essa deve apparentemente la sua esistenza, dipendono, senza che possiamo accorgercene a prima vista, da un piccolo numero di fatti generali sovrani, che, pur essendo meno visibili dei fatti particolari, costituiscono tuttavia i fatti strutturali essenziali, quelli che, di conseguenza, ci sarebbe tutto l’interesse a conoscere per primi, e che invece sono quelli che in generale, proprio perché sono poco visibili a priori, vengono ignorati più a lungo. Nei testi di grammatica storica e di grammatica comparata, il raggruppamento o accumulo dei fatti particolari esposti sarebbe molto differente se si avesse un quadro chiaro del ristretto numero dei fatti sovrani da cui quelli dipendono. Sarebbe abbastanza corretto affermare, se la formula non apparisse un po’ strana, che il pensiero si è dotato di una lingua teorizzando se stesso, attraverso una specie di teorizzazione naturale. Le teorie che il pensiero ha edificato naturalmente, da solo, non sono iscritte, se non di riflesso, nel discorso; quindi, non è lì che bisogna cercarle; queste teorie si trovano ad una maggiore profondità del pensiero, si trovano nella lingua. I fatti sovrani dai quali dipende la moltitudine dei fatti particolari, con l’aiuto dei quali la lingua si è venuta creando, non sono numerosi e, di epoca in epoca, constatiamo che sono sempre gli stessi, purché si prenda la precauzione di non passare da un ambito linguistico ad un altro. (Lezione del 16 dicembre 1943)

Il pregiudizio dell’ordine nella costruzione della scienza (...) Questa sistematica è, ovviamente, esattamente tracciata dalle forme delle lingue germaniche; ma il disegno che queste forme ne danno ha sede negli angoli più nascosti del pensiero, nell’inconscio; i soggetti che parlano una lingua germanica lo vivono, se ne servono, fa quasi parte della loro struttura organica, ma non potremmo dire che lo

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conoscono. Lo ignorano e non hanno bisogno di conoscerlo per servirsene. Il compito del linguista e del grammatico (il nostro compito) è di ritrovare questo disegno, questo schema sistematico, lasciandoci guidare dall’osservazione sottile dei fatti – del mondo così come il pensiero lo trova – e, bisogna ammetterlo, da un certo pregiudizio relativo a un ordine che regna tra i fatti, un ordine da scoprire. Questo pregiudizio tenace, intuitivo, le cui origini psichiche sono fortemente oscure, è il grande stimulus della ricerca scientifica. Laddove non esiste, la ricerca scientifica si assopisce. Nella ricerca scientifica la mente è messa in condizione di potenza dal bisogno che ha di darsi delle rappresentazioni dell’universo che soddisfino a determinate condizioni estetiche, non appena essa si occupi del modo in cui tale universo è costruito. Quando studiamo, come facciamo in questo luogo, questo o quel sistema temporale, siamo guidati dall’idea che in esso regna un ordine piacevole da contemplare, e l’esperienza mostra che a questo riguardo non ci sbagliamo affatto. Non appena ha scorto quest’ordine, la mente si preoccupa di scoprirne il principio; e del principio scoperto, o anche solo intravisto di lontano, supposto, se ne serve per ricostruire, pezzo dopo pezzo, l’edificio a cui si interessa e del quale aspira ad afferrare, in maniera analitica e contemporaneamente sintetica, la coerenza nella cui esistenza crede. Senza questa credenza radicata nella mente umana, che l’universo è, in definitiva, coerente, nessuna ricerca attiva e prolungata sarebbe possibile. Constatare che il mondo è così come lo troviamo non porta a niente. La scienza comincia con la scoperta analitica di un universo che ha dei segreti che non si manifestano immediatamente, che non sono immediatamente percepibili da una semplice e diretta osservazione. (Lezione del 16 dicembre 1943, serie B)

II. Dalla problematica alla sistematica del linguaggio

Il postulato della semplicità Una curiosità tipicamente linguistica, una curiosità di livello superiore, che una considerazione limitata ai soli apporti storici renderebbe impossibile, concerne la natura propria delle operazioni di pensiero sulle quali si fonda, sulle quali si appoggia, la costruzione della lingua. Questo è, come si può immediatamente capire, un problema fondamentale della linguistica strutturale. Possiamo supporre che le operazioni fondatrici, alle quali la lingua deve la sua struttura, siano molto diversificate. E in questo caso, quello cioè in cui questa ipotesi fosse ammessa, la lingua, senza per questo cessare di essere un sistema, sarebbe un sistema estremamente ridondante, di una complicazione lussureggiante. Ci sarebbe allora da spiegare, e la spiegazione non potrebbe essere evitata, come la mente di ognuno, anche dell’uomo più semplice, abbia il potere di tenere in sé, pronto per l’uso e a disposizione, un sistema così complicato e il cui sviluppo naturale non condurrebbe in nessun modo verso la semplicità. Un’altra ipotesi, che sembra più ragionevole a priori, è che le operazioni fondatrici sulle quali riposa la struttura della lingua non siano molto numerose, diversificate tra loro e di una lussureggiante complessità, ma al contrario, poco numerose, il meno possibile diversificate e solo quanto all’essenziale, e, per dirla tutta, di una sorprendente innata uniformità. Questo spiegherebbe come l’opera costruita, costituita dalla lingua, sia leggera da portare nel pensiero di ognuno, e che l’uomo più semplice vi riesca.

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Principi di linguistica teorica

Questa questione, che costituisce, lo ripeto, un problema fondamentale della linguistica strutturale, questa questione della natura delle operazioni fondatrici della lingua è stata a lungo, per anni, al centro della nostra osservazione, e da questa osservazione prolungata, sostenuta da una meditazione coerente, è scaturita la convinzione che le operazioni fondatrici della lingua sono, essenzialmente, delle operazioni semplici, estremamente semplici, e poco numerose, continuamente riprodotte a partire dai loro propri risultati, e la cui natura è di essere quelle stesse alle quali il pensiero umano deve la sua potenza. Queste operazioni primordiali, alle quali il pensiero umano deve la sua potenza, sono anche quelle a cui la lingua deve fondamentalmente la sua struttura. Tenuto conto di quanto detto finora, ciò vuol dire che i rapporti intervenuti e che intervengono tra gli apporti della storia nella costruzione della lingua, sono rapporti dettati da operazioni primordiali di pensiero di competenza dell’intenzione di potenza, sono cioè le stesse operazioni alle quali il pensiero deve la sua potenza operativa, acquistando così uno spessore maggiore. Per la scoperta di queste operazioni fondatrici – ed è in questi termini che ad un certo punto della mia carriera scientifica mi sono dovuto porre il problema – per la scoperta delle operazioni fondatrici della lingua, una questione da porsi, e che mi sono posto, è stata, quindi, quella di sapere quali operazioni primordiali sono indispensabili al pensiero per operare, indispensabili al punto che, se per ipotesi ne fosse privato, la sua potenza verrebbe immediatamente a mancare. Avendo posto questa domanda a noi stessi – cosa che ci ha spinti a intraprendere diverse direzioni di ricerca per potervi rispondere con cognizione di causa – siamo stati abbastanza rapidamente portati all’idea che le operazioni fondatrici sulle quali si basa la struttura della lingua, sono quelle dovute al meccanismo dell’estensione, sviluppate sia nel senso appunto dell’estensione stessa, in direzione del più ampio, e al limite dell’universale, sia in senso contrario, in direzione del più ristretto, e al limite del singolare. La particolare eleganza di questa idea non poteva non sedurci: il ricercatore è guidato nella sua ricerca dal carattere di eleganza che può attribuire alle sue idee nascenti. Una volta acquisita quest’idea, ci si è proposti di verificarne la supposta esattezza attraverso un esame metodico dei grandi fatti di lingua.

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Il risultato di quest’esame è stato che i fatti non hanno in alcun modo smentito la nostra idea, secondo cui le operazioni fondatrici della lingua, estremamente semplici, appartengano al meccanismo dell’estensione, che presenta una china che può essere sia risalita che assecondata. Il seguito di questo esame è stato, poi, che i fatti portano alla veridicità dell’idea in questione una testimonianza che ne è una totale conferma. E non sono solo i fatti sopravvenuti storicamente presto, ma quelli storicamente tardivi, come la sopravvenienza dell’articolo nelle lingue evolute, a fornire, con un certo fragore, questa testimonianza di carattere probatorio. (Lezione del 29 febbraio 1948)

La psicosistematica: definizione e metodo La distinzione, fatta qui continuamente, tra lingua e discorso permette una visione dei fatti linguistici di gran lunga superiore a quella abituale della grammatica tradizionale. La lingua rappresenta in noi quanto è istituito a partire dal quale e con gli strumenti del quale parliamo. La parola, quando è pronunciata, e già quando viene preparata ad esserlo, trova in noi la lingua precostruita. Nel suo insieme, la lingua è una grande opera costruita secondo una legge generale che è quella della coerenza delle sue parti all’interno della totalità. E questa grande opera costruita, coerente, che proprio grazie alla sua coerenza forma un sistema, si suddivide, come mostra l’esperienza, in diverse altre opere parziali interiormente coerenti, che costituiscono dei sistemi integrati all’interno del sistema globale che li integra. Questi sistemi parziali integrati, che sono a loro volta, come ogni sistema, integranti nei confronti delle loro parti costitutive, hanno una propria unità che rende ognuno un intero analizzabile in maniera separata. In questo modo, in francese il sistema del nome è un intero, e nello stesso modo lo è il sistema del verbo. Il compito del linguista di lingua, compito molto particolare, è di ricostituire, così come esistono nel profondo del pensiero, i grandi sistemi della lingua, in quanto sistema globale costruito, prima che si

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Principi di linguistica teorica

faccia espressamente ricorso a una delle forme di cui questi sistemi sono il contenitore. L’esperienza mostra che la lingua è un sistema di sistemi. Questa ricostituzione dei sistemi, di cui si compone la lingua, costituisce una branca speciale e nuova della scienza del linguaggio che chiamiamo psicosistematica, ed essa dispone di una tecnica appropriata, in via di perfezionamento, alla quale è stato dato il nome di linguistica di posizione. L’essenziale di questa tecnica consiste nel rappresentarsi ogni fenomeno linguistico sotto l’aspetto primario del suo sviluppo longitudinale e nel farne l’analisi con il medesimo procedimento usato dal pensiero, attraverso tagli trasversali portati lungo l’asse dello sviluppo longitudinale. Per qualsiasi questione trattata, la tecnica in questione resta la stessa. Il fenomeno linguistico considerato è rappresentato da una linea vettrice che ne raffigura lo sviluppo longitudinale e l’intercettazione analitica di questo sviluppo è ottenuta tracciando dei tagli trasversali di intercettazione, o se si vuole, di sospensione, trasversalmente alla linea vettrice rappresentativa del fenomeno nella sua globalità. (Lezione del 9 gennaio 1948)

Psicosistematica e psicomeccanica Una questione che ha preoccupato, senza molti risultati, i filosofi è quella dello stretto legame che unisce la lingua al pensiero. Alcuni di loro hanno identificato il pensiero con la lingua e hanno creduto quest’ultima inseparabile dal primo. Ma la verità su questo tipo di rapporto è sensibilmente diversa. E per ben comprendere questa verità, bisogna distinguere tra il pensiero propriamente detto e la potenza che ha quest’ultimo di percepire se stesso. Le due cose, distinte di per sé, non devono essere confuse. La lingua è assolutamente indipendente dal pensiero ma tende a identificarsi con la potenza che ha il pensiero di percepire in se stesso la sua propria attività, qualunque essa sia. Il pensiero è libero, completamente libero, infinito nel suo divenire attivamente libero, ma i mezzi

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 59

di cui dispone per operare la sua stessa intercettazione sono sistematizzati e organizzati in numero ristretto. Di questi mezzi la lingua, nella sua struttura, offre un’immagine fedele. Ciò che l’osservatore attento scopre nella lingua, considerata in sé, al suo proprio livello, sono i meccanismi che il pensiero mette in opera per afferrare se stesso. Lo studio sistematico di questi meccanismi costituisce una branca nuova della linguistica da noi chiamata psicosistematica del linguaggio. La psicosistematica non studia i rapporti tra lingua e pensiero ma i meccanismi, definiti e costruiti, che il pensiero possiede per mettere in opera un’intercettazione di se stesso, meccanismi di cui la lingua offre una riproduzione fedele. E ciò risulta chiaro quando si consideri che la primissima necessità dell’atto di espressione è che il pensiero abbia acquisito la potenza di cogliere se stesso. Senza questa intercettazione di se stesso da parte del pensiero non c’è espressione possibile. In definitiva, la lingua appare come l’insieme dei mezzi che il pensiero ha sistematizzato e istituito in sé per dare a se stesso la possibilità permanente di operare un’intercettazione rapida e chiara, se possibile immediata, di ciò che si sviluppa all’interno di se stesso, qualunque sia il procedimento che vi si sviluppa e qualunque ne sia l’oggetto. Lo studio della lingua, nella sua parte formale, psicosistematica, non ci introduce, come è stato supposto a torto, alla conoscenza del pensiero e delle sue pratiche, ma ad una conoscenza di un altro ordine, che è quella dei mezzi che il pensiero ha inventato, nel corso del tempo, allo scopo di operare un’intercettazione, quasi immediata, di ciò che si produce al suo interno. Ora, questi mezzi che il pensiero possiede per afferrare se stesso nella sua propria attività – qualunque essa sia – presentano, e avremo occasione di constatarlo, un carattere meccanico. Ci troviamo in presenza di psicomeccanismi il cui principio costruttivo è la ricerca di una comoda capacità di intercettazione, ma anche la ricerca, nel sistema, di una intercettazione istituita, di una economia superiore che procuri questa comoda capacità. (Lezione del 28 novembre 1947)

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Principi di linguistica teorica

Particolarizzazione e generalizzazione nella costruzione del linguaggio I miei studi hanno avuto, successivamente, come oggetto il tempo linguistico nella sua espressione e rappresentazione, la teoria delle parti del discorso, la teoria della parola, la teoria particolare del nome, la teoria particolare del verbo, l’ausiliarità, e in tutti questi studi l’idea direttrice è stata, esplicitamente o implicitamente, la distinzione, la cui importanza si è via via accresciuta ai miei occhi, tra l’intenzione di potenza, creatrice della lingua, e l’intenzione di effetto, creatrice del discorso. Questa distinzione fra le due intenzioni domina, ne abbiamo acquisito la certezza, l’intera scienza del linguaggio. Sono delle intenzioni eterogenee, ma che, nonostante la loro eterogeneità, si accordano, in quanto l’intenzione di effetto riprende nel suo risultato finale ciò che l’intenzione di potenza ha saputo produrre. Ma quest’accordo è solo un accordo pragmatico in vista di un risultato pratico, e non impedisce in alcun modo che l’intenzione di potenza si serva di operazioni di pensiero che sono di una natura del tutto differente da quelle utilizzate dall’intenzione di effetto. Le operazioni di pensiero di cui si serve l’intenzione di potenza sono essenziali e poco numerose: sono quelle stesse a cui il pensiero deve la sua potenza. La più importante di queste operazioni, essenziali e potenziali, è quella relativa al doppio movimento della mente in direzione del singolare e dell’universale, cioè, e con una maggiore generalizzazione, in direzione del ristretto e dell’ampio. L’esperienza mostra che questo doppio movimento tra i limiti costituiti dal singolare, ristretto, e dall’universale, ampio, è alla base di tutto quel che la lingua ha costruito al suo interno. Infatti, questo doppio movimento si ritrova dappertutto sotto forme che, il più delle volte, lo nascondono molto poco. Per esempio, esso appare fondamentale e nettamente visibile nella categoria del numero e in quella dell’articolo. Si lascia osservare anche, benché un po’ mascherato dall’operazione congiunta della spazializzazione del tempo, in tutta la sistematica verbo-temporale, nella quale si passa continuamente dal tempo ristretto, il presente, al tempo ampio delle epoche passate e future, in altre parole da una finitudine ad una infinitudine temporale. Lo stesso

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 61

doppio movimento è alla base di tutta la sistematica della parola, e la base della teoria delle parti del discorso, legata alla teoria della parola, ne è ugualmente segnata. Infine – e quest’argomento è diventato, momentaneamente, l'argomento della mia seconda lezione del giovedì – anche la stessa distinzione fra nome e verbo, che ricopre, in fondo, la distinzione tra l’universo-spazio e l’universo-tempo, sembra avere la sua origine nella successività secondo la quale la mente passa da un’infinitudine di partenza alla finitudine, e dalla finitudine ad una infinitudine finale. L’infinitudine di partenza è lo spazio, l’infinitudine finale è il tempo. La separazione fra tempo e spazio non è, come potremmo a torto supporre, una distinzione di grammatica generale, ma una distinzione di grammatica particolare; ci sono infatti numerose lingue nelle quali questa distinzione non esiste. Anche l’esistenza della categoria dell’articolo è un fatto di grammatica particolare, visto che ci sono delle lingue senza articolo, così come la rappresentazione del tempo resta un fatto di grammatica particolare, a causa della sua diversità da un idioma all’altro. In questo modo, poco a poco, tutto ciò che potremmo immaginare come facente parte della grammatica generale si rivela appartenere alla grammatica particolare. Che cosa resta, quindi, dopo queste numerose sottrazioni, alla grammatica generale? Poca cosa, senza dubbio, ma delle cose di un’importanza fondamentale, le più importanti delle quali sono: 1. il linguaggio totalizza una intenzione di potenza, il cui risultato finale è la lingua, e una intenzione di effetto, il cui risultato finale è il discorso; 2. l’intenzione di potenza si serve, per costruire la lingua, di operazioni del suo stesso ordine, cioè quelle di potenza, del tutto primordiali, alle quali il pensiero deve le sue capacità. Le operazioni di pensiero, alle quali la mente umana deve la sua potenza, sono le stesse che essa utilizza nel costruire la lingua, poiché la costruzione della lingua appartiene all’intenzione di potenza. Al primo posto fra le operazioni di potenza alle quali la lingua deve la sua struttura, bisogna porre la successività alternante nell’animo umano fra il movimento generalizzante in direzione dell’universale,

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Principi di linguistica teorica

all’opposto del singolare, e il movimento particolareggiante in direzione del singolare, all’opposto dell’universale: ossia, più in generale – e secondo una formula che potremmo definire, con termine matematico, formula canonica – verso il più ampio, all’opposto del più ristretto, oppure verso il più ristretto, all’opposto del più ampio. Con una generalizzazione ancora maggiore, scopriamo il principio, appartenente alla più alta grammatica generale, secondo il quale il pensiero, nel costruire la lingua, iscrive la sua azione costruttrice entro limiti che si dà secondo il problema da risolvere e, tra questi limiti, si concede la libertà di un movimento nei due sensi. (Lezione del 13 febbraio 1948)

La legge di non-ricorrenza Un altro importante principio è il seguente: un rapporto A-B, qualunque esso sia, deve soddisfare alla condizione di interezza quando interviene in un atto di intellezione che mira ad istituirlo. Ma affinché la condizione di interezza sia soddisfatta, c’è bisogno di un percorso nei due sensi, nella forma di una rappresentazione aggiuntiva che non riporti al punto di partenza: chiamiamo questa legge, peraltro molto importante, legge di non-ricorrenza. Bisognerà, quindi, evitare una rappresentazione del tipo: A

B = 1/2 rapporto

ma anche una rappresentazione come: A1

B1

A2

B2

che riporta al punto di partenza, alla posizione di partenza, e annulla il rapporto:

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 63 A

B

A

B

}

=0

e adottare una successività aggiuntiva:

A1

B1

|

B2

A2

che addiziona senza ricorrenza, senza ritorno indietro, i due percorsi AB e BA. Si noterà che questa esposizione delle cose è temporale, non spaziale. Si prenda, ad esempio, il tragitto Parigi-Versailles e ritorno. Nello spazio, il ritorno mi riporta a Parigi, posizione di partenza. La posizione di ritorno sarà quindi identica a quella di partenza. Ma nel tempo, essendo il tragitto di n minuti, la posizione di ritorno non coincide con quella di partenza. Sono due posizioni diverse. È una posizione nuova e non rinnovabile. Nello spazio: ritorno possibile. Nel tempo: ritorno impossibile. Quest’esposizione temporale è quella che costituisce la struttura delle lingue. E poiché l’intenzione ha come limiti obbligati il singolare e l’universale, si avrà una partenza dal singolare o dall’universale e, il percorso seguente, attraverso percorsi consecutivi nei due sensi, [sarà] senza ricorrenza: 1) S1

U1

|

U2

S2

S2

U2

oppure: 2) U1

S1

|

(Lezione del 4 gennaio 1952)

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Principi di linguistica teorica

Sistema e diacronia dei sistemi (...) Ho usato parecchie volte di seguito la parola sistema. È una parola che non riscuote un uguale successo presso tutti i linguisti i quali, relativamente all’accettazione del suo impiego, si dividono in due campi. Ce ne sono alcuni, il cui numero è in aumento, che nutrono un pregiudizio favorevole nei suoi confronti e ammettono che la linguistica possa un giorno strutturarsi in scienza teorica, grazie ad un osservazione sottile dei fatti, sempre più raffinata e resa penetrante attraverso una riflessione profonda. La parola sistema è invece accolta con freddezza, e con una riserva più o meno tenace, da parte di quei nostri colleghi che, a causa della paura, oggi perfettamente ingiustificata, di vedere la linguistica ricadere negli errori della vecchia grammatica generale, sono portati a negare alla scienza del linguaggio il diritto di uscire dall’ambito quasi esclusivamente descrittivo e classificatorio, nel quale si è sviluppata sin dal momento, di capitale importanza per la sua storia, della scoperta del sanscrito. A partire da questo momento, situato alla fine del diciottesimo secolo, la grammatica storica e comparata detronizza la grammatica generale, e il metodo sperimentale si sostituisce a quello deduttivo. Affrettiamoci a precisare che questo cambiamento fu tra i più felici. Diventando una scienza geografica e storica fondata sul confronto, la linguistica ha scelto la sola strada che poteva portarla al successo. Il solo torto che ha avuto in seguito è consistito in un eccesso di positivismo che l’ha resa esageratamente diffidente nei confronti della riflessione astratta e le ha fatto trascurare quanto il suo opportuno intervento fornisce, in potenza e acutezza, all’osservazione del concreto. La linguistica storica e comparata tradizionale, quella che si pratica da più di un secolo, ha voluto conoscere solo i fatti. Ha diffidato del ragionamento, ritenuto responsabile di averla già deviata dalla sua strada. Ma la conseguenza piuttosto inattesa e assai curiosa di questa diffidenza, è stata che molti fatti, e per giunta i più importanti, come avremo occasione di osservare durante gli studi che proseguiremo insieme, sono stati ignorati. I fatti che hanno attratto e trattenuto la sua attenzione sono sempre stati i fatti più visibili, che erano, senza un

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 65

grande lavoro di pensiero, oggetto dell’osservazione diretta. Ci sono, però, altri fatti non meno attivi, non meno reali – anzi ancora più attivi e più reali – che non vengono raggiunti da quest’osservazione diretta perché mancano di visibilità immediata. La linguistica storica e comparata ha per molto tempo ignorato questi fatti abbastanza segreti, e comincia appena a scoprirli. Noi, da parte nostra, ne abbiamo portati alla luce un certo numero. Lo stadio di eccessivo positivismo ha fatto della linguistica una scienza che, se continuasse sulla stessa strada, rischierebbe di non essere altro che un catalogo di fatti, di cui sarebbe impossibile abbracciare il meccanismo d’insieme e discernere le leggi di assemblaggio. Questo stadio sembra attualmente superato. E numerosi linguisti hanno cominciato delle ricerche allo scopo di svelare i fatti più nascosti della storia del linguaggio che, cosa notevole, sono tutti, sin dal principio, dei fatti generali di pensiero, inerenti al pensiero umano, da cui i fatti più particolari e più concreti, ai quali le lingue sembrano dovere a prima vista la loro intera esistenza, restano dipendenti e ad essi strettamente sottomessi. Si tratta, quindi, di fatti sovrani e sono precisamente questi ad essere stati ignorati. Una teoria, in qualunque settore della scienza si definisca, non è nient’altro che un rapporto stabilito tra un fatto generale, o il minor numero di fatti generali possibile, e i fatti particolari che ne dipendono. È l’affermazione di sovranità di un fatto su altri fatti. Questo rapporto, di sovranità da un lato, e di dipendenza dall’altro, una volta osservato, si lascia comprendere sempre meglio, e con la riflessione, in seguito ad un esame più attento, può apparire, e anche essere, differente da quello che avevamo creduto all’inizio. Conseguirà da ciò un rinnovamento della teoria. Le teorie sono instabili per il fatto che la scoperta della dipendenza del particolare dal generale non è mai completa, non può essere completa. Un certo fatto generale, che era sembrato avere sotto la sua dipendenza una molteplicità di fatti particolari connessi, può all’improvviso rivelarsi esso stesso un fatto particolare, sottomesso ad un fatto più generale ancora ignorato fino ad allora. L’instabilità delle teorie non deve essere giudicata negativamente. È solo il segno evidente della loro capacità di progredire e di beneficiare continua-

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Principi di linguistica teorica

mente di nuovi dati forniti dall’osservazione oppure di quelli, non meno preziosi e troppo a lungo trascurati in linguistica, forniti dalla riflessione astratta, prenda essa o meno una forma matematica. Le scienze più elevate, nella gerarchia delle scienze, sono quelle che, in ogni proporzione utile, sanno utilizzare meglio e più correntemente l’attenta osservazione del concreto e la speculazione astratta. Se la linguistica trova maggiori difficoltà per definire le sue teorie rispetto a molte altre scienze di osservazione, ciò dipende dal fatto che, nell’universo fisico, il rapporto esistente tra i fatti particolari, visibili e dominati, e i fatti generali, segreti e dominanti, è stabile, sia stato scoperto o meno un tale rapporto, mentre nel linguaggio lo stesso rapporto è in continuo cambiamento. Una teoria linguistica fa dunque molta fatica a diventare una teoria del tutto generale. È soggetta a rappresentare solo un certo stato momentaneo del rapporto costantemente istituito, ma continuamente diversificato, che si stabilisce tra i fatti particolari, contingenti, intervenuti nella costruzione della lingua, e i fatti generali, sovrani, che mantengono questi fatti particolari sotto la loro dipendenza. Se aggiungiamo a questo, a questo rinnovamento del rapporto esistente oggettivamente, realmente, nella stessa lingua, tra i fatti particolari sottomessi e i fatti generali regnanti (rapporto che non è altro, in realtà, che il sistema stesso della lingua), se aggiungiamo che questo rapporto, variabile di per sé, può, inoltre, essere stato osservato imprecisamente, si capiscono, allora, le difficoltà che, in linguistica, presenta l’elaborazione di una teoria di grande portata. Nel caso di un fisico di fronte all’universo, siamo in presenza di un osservatore, più o meno capace di vedere in modo corretto, e di un sistema universale invariabile, stabile. Il solo incidente che possa capitare ad un fisico è di non capire il sistema che osserva. In linguistica non è la stessa cosa: la variazione intrinseca del sistema accresce la difficoltà di un’osservazione esatta. Questa difficoltà diventa molto sensibile nel caso in cui si operi su di un ampio lasso di tempo1. In questo caso, infatti, l’oggetto da osservare non è più un 1

Frase cancellata: E un teorico che miri al generale non potrebbe astenersi dal farlo.

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 67

sistema, ma una consecuzione sistematica di sistemi, che si succedono e si sostituiscono l’uno all’altro nel tempo. Il sistema universale osservato dal fisico, che costui abbia di esso una chiara comprensione o meno, è un essere oggettivo, costante. Poiché il sistema della lingua, che si offre all’osservazione del linguista, è oggettivamente un essere mutevole, incostante, la teoria in linguistica dovrà presentarsi nella forma di una teoria storica. Il teorico, in linguistica, non può non essere uno storico2. In pratica, il teorico diventa, a causa della natura del suo oggetto di analisi, lo storico dei fatti nascosti più generali. Lo storico non teorico, percepisce invece solo i fatti più evidenti che cadono sotto l’attenzione della semplice osservazione diretta e che, in generale, saranno tutti dei fatti particolari e fortuiti. Uno dei compiti attuali della linguistica è quello di identificare nelle lingue i differenti sistemi di cui ciascuna di loro si compone (poiché essa stessa forma un sistema di sistemi), e di stabilire tra i sistemi identificati una filiazione che, nel caso più favorevole, sarà storica; e in quello meno favorevole, quando la filiazione storica è indeterminata per inesistenza o assenza di documenti, sarà una filiazione obbligata, necessaria, e per dirla tutta, extrasociale, semplicemente umana. Un aspetto teorico da non perdere mai di vista nello studio dei sistemi di cui si compone una lingua, è che lo stato interno di una lingua deriva sempre da una eredità trasmessa sì dal passato, ma organizzata, momento dopo momento, dal pensiero umano in funzione delle sue proprie necessità, delle sue leggi, che si esplicitano in presenza dell’eredità ricevuta. La lingua è contemporaneamente, ad ogni istante, un’eredità del passato e un’organizzazione umana e trascendentale dell’eredità ricevuta. Ritroviamo in questo caso, a ben riflettere, e con parole differenti che fanno progredire nella conoscenza più profonda delle cose, la distinzione, divenuta celebre, tra la diacronia e la sincronia, introdotta da F. de Saussure nel Corso di linguistica generale. La linguistica diacro-

2 Frase cancellata: Egli è soprattutto, insieme allo storico del visibile (più o meno contingente), lo storico dell’invisibile (necessario).

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Principi di linguistica teorica

nica coglie le cose longitudinalmente nel tempo che le fa cambiare, le perturba, le disorganizza, e che distruggerebbe senza l’intervento di una forza organizzatrice contraria. La linguistica sincronica le coglie per tagli trasversali, non nel loro movimento di disorganizzazione, ma in quello opposto di organizzazione, di sistematizzazione, che determina la loro interdipendenza assoggettandole alle leggi più profonde del pensiero umano. Nel pensiero di Saussure, le due immagini dominanti sono quelle del tempo che scorre e dell’istante che si ferma e immobilizza. Lo schema del suo modo di vedere è il seguente: Tempo Istante

1-



2-



3-



4-

Questo modo di vedere, che è profondo, resta un po’ sommario nel caso specifico. La sistematizzazione, messa in rapporto da Saussure con ogni istante immobilizzato nella marcia longitudinale del tempo, non è infatti istantanea. Questa sistematizzazione ha richiesto, richiede e, essendo mutevole, richiederà del tempo, come il processo inverso di disorganizzazione a partire dal quale essa opera. In una lingua, infatti, l’organizzazione sistematica si effettua insieme alla disorganizzazione che, ad ogni istante, la lingua eredita. In realtà, ci troviamo in presenza di due forze dirette in senso contrario e che si incontrano, l’una discendente, disorganizzatrice, e l’altra ascendente, organizzatrice. Il sistema organizzato risulta dal fatto che la forza discendente di disorganizzazione viene dispiegara dalla forza ascendente organizzatrice. E l’immagine più adatta alla rappresentazione dell’interazione fra la diacronia rappresentativa di disorganizzazione e la (diacronia) rappresentativa di organizzazione, dovrebbe essere la seguente:

(disorganizzatrice)

diacronia 1

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 69

(organizzatrice)

diacronia 2

sincronia sistematica

L’organizzazione, il sistema, appare nel punto di risalita e di equilibrio relativo, di equilibrio dinamico, dei due impulsi. Vi sarebbe molto da meditare su questa figura e sul gioco complesso che indica. Dei due impulsi presenti, quello discendente di disorganizzazione e quello ascendente di organizzazione, è il primo, apparentemente, che conserva costantemente una posizione di vantaggio. Si può osservare, in effetti, lo stato di lingua acquisito superarsi incessantemente da solo. Ma questo vantaggio accordato all’impulso disorganizzatore è, in fondo, illusorio, poiché uno stato di lingua acquisito si supera da solo, unicamente per obbedire di nuovo, e più completamente, alla potenza organizzatrice ascendente, essendo quest’ultima tanto più operante quanto più incontra tardivamente nella storia della lingua la potenza disorganizzatrice discendente. Si può facilmente arguire, infatti, che la potenza organizzatrice avrà poco da fare se la potenza disorganizzatrice ha fatto poco. La storia conferma questo dato. Le grandi sistematizzazioni linguistiche sono concomi-

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Principi di linguistica teorica

tanti alle grandi confusioni. Ciò spiega, d’altra parte, il fatto che la sistematizzazione delle lingue evolute avrà la meglio, per alcune qualità di analisi, sulla sistematizzazione delle lingue meno avanzate, più antiche o più arcaiche. Un’idea sulla quale dobbiamo rammaricarci che il genio di F. de Saussure non si sia soffermato, cosa che rende incompleta la sua visione dell’interazione delle forze che intervengono nella formazione delle lingue, è che ogni sistema sincronico deriva da un sistema precedente altrettanto rigoroso, benché differente. Se si fosse soffermato su quest’idea, confermata dai dati dell’osservazione, avrebbe riconosciuto che non c’è solo una diacronia, una storia concreta dei fatti linguistici considerati isolatamente, indipendentemente dal sistema di cui sono parte integrante, ma anche una diacronia, una storia, dei sistemi, o se si preferisce, una diacronia delle sincronie. Poiché, e qui debbo trasgredire leggermente il pensiero di Saussure, non ci troviamo mai soltanto in presenza di un sistema, ma sempre in presenza di un rifacimento virtualmente intrapreso del sistema acquisito. Il rifacimento è tuttavia, nella maggior parte dei casi, così debolmente intrapreso che il sistema può essere fissato, istantaneizzato, e descritto come se fosse un essere stabile. È questa diacronia degli stati sincronici che dovrebbe costituire, secondo noi, il contesto generale della storia della lingua. Il quadro che ne viene fornito dalle grammatiche storiche è incompleto, molto spesso quasi inesistente, a causa del fatto che queste grammatiche sottacciono la storia delle esistenze di lingua, senza dubbio astratte ma reali, che costituiscono, in ogni dato istante, il sistema della lingua, che esse non vedono chiaramente. I fatti particolari di una lingua formano, ad ogni istante, un sistema. Questi fatti cambiano. Possono cambiare senza che il sistema vari. Numerosi sono i cambiamenti fonetici o semantici che si producono all’interno di un sistema senza modificarne per niente il meccanismo: abbiamo visto delle lingue cambiare di vocabolario senza cambiare di sistema. Potremmo parlare il francese con parole inglesi. Un certo snobismo lo fa qualche volta. Il cambiamento è, in questo caso, di scarsa o inesistente portata. I cambiamenti più importanti, o più interessanti, sono quelli che provocano, o che accompagnano, un

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 71

cambiamento di sistema. In questo caso, senza perdere di vista la storia dei fatti particolari, concreti, conviene considerare contemporaneamente la storia astratta del sistema stesso, che non è quella dei suoi supporti materiali, ma quella del rapporto che si stabilisce tra di loro; in altre parole, non la storia delle cose legate, ma quella del loro legame, della loro coerenza. Questa storia non occupa nessun posto definito, e nemmeno apprezzabile, nella grammatica storica tradizionale, alla quale conviene rivolgere non già il rimprovero, come ha fatto Saussure, di essere stata troppo esclusivamente storica, ma, al contrario, di non esserlo stata abbastanza. Per adempiere completamente al suo compito, la grammatica storica deve poter arricchirsi ancora di numerosi capitoli consacrati alla storia dei sistemi grammaticali, invece di limitarsi, quasi esclusivamente, a quella individuale delle forme di cui si compongono questi sistemi. Inoltre le due storie, quella delle forme che compongono il sistema e quella del sistema stesso (in quanto entità astratta, espressione della coerenza delle forme esistenti), si chiariscono reciprocamente, e il vero storico della lingua sarebbe, lo ripeto, colui che fosse in grado di abbracciare con un solo sguardo i cambiamenti concreti che riguardano le forme e quelli astratti, meno apparenti, che riguardano l’essere sistematico che costituisce il loro assemblaggio secondo le leggi permanenti del pensiero umano. Vorremmo poter dare alla storia del linguaggio, con forme isolate e sistemi di forme, una rappresentazione figurativa capace di indicarne bene il cammino. Il che presenta delle difficoltà. Bisognerebbe preventivamente porre delle convenzioni relative ai tipi di cambiamento che possono essere raggiunti dalle forme che compongono i sistemi. La difficoltà di costruire un diagramma rappresentativo obbliga a limitarsi alla descrizione possibile secondo i mezzi ordinari del linguaggio. Da una parte, il sistema può rimanere stabile, con delle forme che cambiano al suo interno solo nell’aspetto esteriore. È un caso frequente. La storia del sistema, per tutto il tempo in cui le cose restano in questi termini, è nulla. Esiste solo quella delle forme che lo compongono. D’altra parte il sistema può variare, senza che le

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Principi di linguistica teorica

forme abbiano cambiato d’aspetto esteriore. Basta che queste non occupino più lo stesso posto nel sistema. Il cambiamento di posizione di una forma all’interno di un sistema corrisponde quasi sempre a un cambiamento sistematico di una certa importanza. È così che lo spagnolo ha potuto ereditare dal latino delle forme verbali in -ra che non occupano più la posizione sistematica che avevano nel latino. Il cambiamento di posizione è, in questo caso, il fatto importante e, per capirlo bene, è necessario aver acquisito una chiara visione del processo di trasformazione del sistema. Bisogna, quindi, elaborare una diacronia sistematica, o, più semplicemente, fare la storia di quell’essere astratto, non direttamente visibile, costituito dal sistema. Può anche accadere, ma è raro, che una forma prenda nel sistema la posizione di un’altra forma, che, a sua volta, prenderà esattamente la posizione di quella che la sostituisce. In questo caso il sistema astratto non è cambiato. Il cambiamento, limitato alla sua espressione concreta, è in realtà nullo. Non ho adesso il tempo di indicare tutti i casi possibili e quelli che possono risultare dall’interferenza di casi differenti. La nozione principale, che comunque bisogna ricordare, è che nella lingua si producono dei cambiamenti che non influiscono sul sistema, indifferenti al sistema, così come, al contrario, si realizzano dei cambiamenti legati al suo mutamento. Questi due tipi di cambiamenti non devono essere confusi né trattati, da una buona grammatica storica, allo stesso modo. Una lunga esperienza delle questioni linguistiche più ardue ci ha mostrato che non potremo rappresentarci con esattezza il cambiamento delle cose nella lingua, se non sapremo distinguere sotto i cambiamenti apparenti, che catturano inizialmente l’attenzione, i cambiamenti profondi sopravvenuti nello stato di sistema della lingua. È così che per ben comprendere ciò che è successo dal latino al francese nella storia del verbo, bisogna poter evocare, in modo chiaro, il sistema verbale del latino e opporgli il sistema verbale del francese. Vedremo, allora, quella che è stata la trasformazione del sistema e ne potremo fare la storia aiutandoci con quella, più visibile, delle forme che lo compongono. (Lezione dell’11 novembre 1943)

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Causazione continua del linguaggio: proposte e trasformate La causazione del linguaggio è una causazione continua, una sistematica causatrice operante incessantemente, che ab initio produce un causato costruito numero 1, interiormente sistematizzato, all’interno del quale la sistematizzazione causatrice continua ad operare, provocando un causato costruito numero 2, trattamento differenziato del causato costruito 1. All’interno di questo causato costruito 2, la sistematica causatrice continua ad operare e l’effetto di continuazione è di provocare, trattamento del causato costruito 2, un causato costruito numero 3, causato costruito all’interno del quale la sistematica causatrice continua ad operare e il suo effetto è di provocare un causato costruito numero 4, che avrà il destino dei causati costruiti precedentemente edificati. La causazione si perpetua così di causato costruito in causato costruito indefinitamente, dove ‘indefinitamente’ vuol dire, in questo caso: finché non si è spenta la possibilità di produrre in questo modo un causato costruito differente dal causato costruito precedente. La possibilità di differenziazione in perpetuo rinnovamento non aumenta ma diminuisce: la differenziazione rallenta*. C’è un avvicinamento asintotico ad un limite in cui la possibilità di differenziazione sarebbe seguita dall’impossibilità di differenziare. In altri termini, la differenziazione del causato costruito rallenta al punto di avvicinare, senza raggiungerlo espressamente, il limite di estinzione. Nella vicinanza di questo limite la possibilità di differenziazione è salvaguardata ma la probabilità di differenziazione si allontana. La differenziazione per causati costruiti successivi, attualmente operante in francese, è lenta: è un movimento sotto forma di movimento, la cui forma di movimento porta con sé un grande rallentamento. La possibilità di differenziazione è mantenuta, ma la probabilità di differenziazione si allontana. Questa relazione possibile-probabile è ciò che caratterizza la morfologia del francese moderno. Volendo rappresentare graficamente la glossogenia – indicando con C la sistematica * Nel testo francese è usato il verbo s’alentir. Questa voce verbale è stata tradotta con «rallentare», che è sembrata la parola morfologicamente e semanticamente ad essa più vicina.

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Principi di linguistica teorica

causatrice iniziale, con Cc 1, Cc 2, Cc 3, i causati costruiti successivi, e con la lettera greca Δ il trattamento di differenziazione – potremmo tracciare lo schema seguente: C ⎯→ [Cc 1] ⎯→ [Cc 2 ] ⎯→ [Cc 3 ]... ⎯→ [Cc n-1] Δ Cc1

Δ Cc2

Δ Ccn–2

In Cc2, si ha un trattamento differenziante di Cc1, in Cc3 un trattamento differenziante di Cc2 e così via... (non mi dilungo su ciò). La filiazione dei causati costruiti successivi si presenta, ad ogni momento, come la risoluzione di una proposta precedente in una trasformata susseguente. Se ρ indica la proposta e ρ' la trasformata, una successività glossogenica, la cui forma generale di progressione sarà: [ρ]

[ ρ' ]

nell’applicazione al francese, potrà essere rappresentata come segue: [ρ] francese antico (proposta della trasformata ρ')

[ ρ' ] francese moderno (trasformata della proposta ρ)

A partire da queste considerazioni, per il linguista, osservatore del francese e più in generale del divenire del linguaggio, esistono due atteggiamenti di osservazione possibili: un atteggiamento non retrospettivo, secondo il quale l’osservazione è concentrata solo sulla trasformata, e un atteggiamento retrospettivo, per il quale l’osservazione risale dalla trasformata alla proposta. Al primo atteggiamento corrisponde una visione dello stato attuale della lingua francese, al secondo una visione comparativa sia di questo stato che di quello anteriore, vale a dire del francese antico, in altri termini una visione comparativa della trasformata ρ' e della proposta ρ. Il francese antico è la proposta della trasformata che è, di questa proposta, il francese attuale; allo stesso modo il francese attuale può es-

Dalla problematica alla sistematica del linguaggio 75

sere considerato, per anticipazione, come la proposta di una trasformata futura, non ancora sopraggiunta come tale. L’aspetto del fenomeno sarà in figura, il seguente: proposta

trasformata

proposta

trasformata

proposta

trasformata

proposta

Il fondamentum del Corso di linguistica generale è la distinzione saussuriana tra la sincronia e la diacronia. La distinzione creata con questi due termini greci non è nient’altro che quella tra uno studio del linguaggio, specificamente riservato alla trasformata, e uno studio del linguaggio amplificato, esteso comparativamente alla proposta. Limitare lo studio alla trasformata, è collocarsi nella sincronia. Estendere lo studio alla proposta significa collocarsi nella diacronia. Il francese antico è la proposta del francese moderno che di questa proposta è la trasformata. (Lezione del 15 gennaio 1959)

Problemi di rappresentazione e stati di lingua In linguistica è sempre la soluzione acquisita che pone davanti alla mente il problema da risolvere. Una soluzione linguistica, cioè uno stato di lingua, qualunque esso sia, comporta un duplice effetto: da un lato risolve dei problemi di rappresentazione posti alla mente, e dall’altro, attraverso le soluzioni acquisite, ripropone alla mente i problemi risolti, che restano, tuttavia, risolti sempre in maniera insufficiente.

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Principi di linguistica teorica

La soluzione, in linguistica, non è solo una soluzione, ma è anche un nuovo modo di riformulare il problema già risolto. Ciò spiega la natura infinita del divenire linguistico. Una soluzione, per quanto elegante e riuscita, porterà con sé una nuova posizione del problema, e questo richiederà un nuovo tentativo di soluzione. E questo accade indefinitamente. (Lezione del 5 dicembre 1947)

Linguaggio e pensiero silenzioso (...) Un punto sul quale vorrei, in quest’ordine di idee, richiamare l’attenzione terminando, è che nella lingua non sono solo iscritti i bisogni del pensiero in istanza immediata di espressione, ma anche quelli che potremmo chiamare i bisogni del pensiero silenzioso occupato, al di là dell’atto effettivo di linguaggio, a guardare in se stesso e a scoprire metodi migliori per cogliere ciò che vi accade. Abbiamo commesso l’errore di mettere in rapporto, in maniera troppo stretta, la costruzione della lingua con ciò che accade durante l’atto di linguaggio; la verità, a mio avvviso, e ne faccio un principio del mio insegnamento, è che la lingua si crea in noi certamente attraverso l’esercizio, ma anche, in parte, al di fuori dell’esercizio, durante questo grande sogno continuo, dal quale non escono mai gli uomini pensanti, che sono in realtà tutti gli uomini, o almeno la maggior parte di loro. Credo che la parte più profonda della lingua sia molto più tributaria di questo grande sogno continuo del pensiero umano che non dell’esercizio diretto dell’atto di linguaggio, il quale utilizza, in una gran quantità di casi, materiali scoperti al di fuori di lui da un pensiero che si raccoglie e ricerca silenziosamente se stesso. La componente metafisica delle lingue, così visibile nello studio che facciamo dei grandi sistemi linguistici, è in gran parte l’espressione di un lavoro continuo di pensiero che va molto al di là dei momenti relativamente brevi nei quali la capacità di parlare, che condividiamo con altri, si esercita effettivamente. (Lezione del 3 febbraio 1944)

III. Significante e significato

Una dualità fondamentale: il fisico e il mentale Ci si spiega secondo quanto abbiamo saputo comprendere. Si comprende secondo quanto abbiamo saputo osservare. E questo significa che in definitiva spieghiamo solo secondo quanto siamo stati capaci di osservare. Ora, l’osservazione, nella scienza del linguaggio, deve riguardare, per essere completa, il visibile fisico, cioè l’immediato visibile, e successivamente il mentalmente visibile, cioè il non fisicamente visibile, che nel linguaggio è ricoperto dal visibile fisico. Di tutte le relazioni e correlazioni che intervengono nel linguaggio e nella scienza osservatrice del linguaggio, la più importante, e la più trascurata, quella di cui si tiene meno conto, è la relazione tra fisico e mentale. Il linguaggio fisicizza, se possiamo dire così, il mentale. Il mentale fa appello, nel caso del linguaggio, al fisico che lo farà divenire sensibile, tramite la visione o l’audizione, ricorrendo cioè ad un mezzo sensoriale il cui ruolo, limitato, è di produrre una rappresentazione fisicizzata del mentale, rappresentazione che non sarà mai un’immagine realmente fedele del mentale, al quale non fa altro che adattarsi. Il linguaggio umano è, nel corso della sua lunga storia strutturale e architetturale, una ricerca continua, una causazione continua, di questo adattamento ottimale. Ho detto ottimale. Bisogna intendere questa parola come il migliore che possa esistere nello stato di fattura raggiunto dal linguaggio, all’epoca considerata e per un determinato grado di civiltà. L’ottimale, quello dopo il quale sarebbe impossibile avere qualcosa di migliore, non si

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Principi di linguistica teorica

lascia immaginare. In prospettiva si sottrae, e il suo limite di fuga, al quale gli analisti non sono forse abbastanza interessati, è il momento in cui la probabilità della sua comparsa è di fatto nulla, cioè superlativamente improbabile, pur restando possibile. (Lezione del 22 gennaio 1959)

Relazione fisicismo*-mentalismo e significanza (...) Il principio al quale si riferisce la mia osservazione sulle sinapsi di declinazione, è che i casi di declinazione rappresentano l’iscrizione, con segni riconosciuti come convenienti, di impressioni fugaci provviste di un importante potere di concrezione che le fa combinare mentalmente tra di loro per assumere forme di segni capaci di significarne la combinazione mentale. Siamo poco inclini a rappresentarci la formazione della lingua con i tratti di una derivazione lineare etimologica, e molto propensi a vedervi una concrezione continua di impressioni fugaci sospese ad elementi formatori la cui agglutinazione rappresenta l’aspetto fisico della concrezione mentale sopravvenuta. Le parole di una lingua sono per noi, per mentalismo, una serie di impressioni più o meno fugaci, provviste di un potere di concrezione che le fa saldare le une alle altre, e per fisicismo, una serie di elementi formatori corrispondenti, ai quali sono connesse queste impressioni. Il tragitto seguito per questa costruzione del vocabolo non è, però, quello espressamente considerato dalla scienza etimologica. La scienza etimologica paragona la genesi delle parole a un tragitto lineare sul quale le parole sembrano nascere, l’una dopo l’altra, per semplice derivazione. Essa non paragona questa genesi a un tragitto lungo il quale si formano dei legami, delle concrezioni successive di impressioni mentali fugaci unite a degli elementi formatori che ne rappresentano l’aspetto fisico. Da qui traggono origine certe difficoltà d’ordine esplicativo relative alla filiazione mentale dei sensi e anche * Nel testo francese è usato il termine physisme.

Significante e significato 79

alla filiazione fisica dei trattamenti fonici intervenuti, le quali filiazioni restano, l’una e l’altra, congetturali più di quanto non si creda. L’osservazione, in grammatica comparata tradizionale, è stata rivolta quasi esclusivamente verso il fisicismo del vocabolo. Non è stata osservata la relazione, capitale nella struttura e nell’architettura del linguaggio umano, tra fisicismo e mentalismo. Di questa relazione non osservata, non viene né riconosciuto né visto il cambiamento, poiché manca una comprensione penetrante che lo faccia vedere. Basta riflettere un po’ sull’argomento per giungere all’idea che sarebbe possibile una grammatica comparativa che osservi sia i mutamenti delle apparenze fisiche del linguaggio, sia quelli della relazione fra queste apparenze fisiche e il mentalismo, sul quale si sovrappone il fisicismo. Questa grammatica comparativa è quella del futuro, quella dei linguisti che prenderanno arditamente le strade dell’avvenire. Il fatto strano è che tutti gli sforzi attuali tendono, a quanto pare, a ritardarne la venuta. Del linguaggio, del quale la significanza è l’attributo necessario, ci si impegna a non voler considerare che il fisicismo, insignificante se non ricopre un mentalismo causatore di significanza. La sola posizione adeguata allo studio del linguaggio è quella che vede in esso dappertutto la diade fisicismo-mentalismo e sa seguirne la distribuzione tra diadi parziali fisicismo-mentalismo, le principali delle quali, trovandosi al più alto livello della distribuzione, sono in francese le parti del discorso. La storia strutturale e architetturale del linguaggio, per ogni momento in cui si prenda in considerazione la distribuzione della diade fisicismo-mentalismo, è la condizione sine qua non di esistenza di ogni linguaggio, tra le varie diadi parziali che formano ognuna un sistema all’interno del sistema unitario più generale costituito dalla lingua. Una lingua, ogni lingua, appare così come un sistema che soddisfa alla condizione di unicità e che interiorizza dei sistemi parziali, più o meno numerosi, nel sistema globale che ne è il contenitore. Una caratteristica del sistema globale è di non essere il contenuto di un sistema più estensivo e di non avere esteriorità. Una lingua sembra inoltre fatta dei sottosistemi che ogni sistema parziale interiorizza. In francese abbiamo il sistema del nome e quello del verbo e, all’interno di quello del nome, i sottosistemi del nome-

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Principi di linguistica teorica

sostantivo e dell’aggettivo; e allo stesso modo, all’interno di quello del verbo, i sottosistemi delle costruzioni impersonali (paranominali) e delle costruzioni personali. Bisogna esser passati dall’intero sistematico della lingua ai sistemi e sottosistemi che costituiscono quest’intero e bisogna aver capito che cos’è in esso la filiazione mentale, denunciata da una filiazione fisica corrispondente, per avere una visione completa di ciò che è una data lingua. Operare questo passaggio, senza mai cessare di comprendere quale filiazione di movimenti e di forme di movimento ne segni il cammino in ogni idioma osservato, è il compito del linguista. (Lezione del 22 gennaio 1959)

Interiorizzazione ed esteriorizzazione nel linguaggio La linguistica ha finora perpetrato l’errore di tendere eccessivamente all’osservazione dei mezzi fisici di esteriorizzazione del linguaggio e di non occuparsi abbastanza dell’osservazione dei mezzi non fisici, mentali, di interiorizzazione, mentre i due ordini di mezzi progrediscono per equipollenza reciproca. La sinfisi dei due mezzi, mai perturbata nel soggetto parlante, ma perturbata, e in modi molto diversi, nel soggetto parlante patologico, non ha mai attratto direttamente l’attenzione dei linguisti. È un meccanismo che, proprio in quanto meccanismo, è stato ignorato. Nessun linguista ha detto a se stesso: al linguaggio che vedo esteriorizzarsi con segni fisici, corrisponde regolarmente l’equivalente di un linguaggio che si interiorizza con mezzi mentali. Ciò vuol dire che l’errore perpetrato dalla linguistica tradizionale è stato quello di non vedere, con gli occhi della mente, che sono quelli della comprensione, che il più piccolo passo fatto nel senso dell’interiorizzazione implica un uguale passo nel senso dell’esteriorizzazione, e quindi ciò che sappiamo sui mezzi di esteriorizzazione del linguaggio ci istruisce su quelli che sono stati gli strumenti mentali di interiorizzazione. Ed è grazie a questo che può essere edificata una vera e propria scienza del linguaggio.

Significante e significato 81

L’obiettivo di queste lezioni continua ad essere la ricerca o la scoperta, al di sotto dei mezzi di esteriorizzazione del linguaggio, dei corrispettivi mezzi di interiorizzazione, dei quali essi sono in qualche modo, per chi sappia interrogarli (dicendo loro fermamente: Rispondi), il riflesso. Non vorrei essere frainteso: quando incontro, in francese, un segno (il mezzo di esteriorizzazione) come l’articolo, ad esempio, mi devo chiedere di quale interiorizzazione sia esso l’agente di esteriorizzazione. Il processo di interiorizzazione è esclusivamente mentale; quello di esteriorizzazione è, invece, una mutazione del mentale in fisico. Potremmo dire altrettanto di qualunque altro fatto di lingua osservabile, dotato quindi di strumenti di esteriorizzazione, senza dover modificare nulla in questa formulazione. (Lezione del 28 novembre 1957)

Convenienza* del significante 1 al significato Un vasto argomento: il rapporto significante-significato. Questo rapporto è di convenienza. Legge: la convenienza non sarà mai troppa. Le due specie di convenienza: a) materiale b) formale. La convenienza materiale sarà che il significante, da solo, per la sua stessa materialità, comporti un significato. Nessun bisogno di convenzioni linguistiche. Non è in questa direzione che si è prodotta la costruzione delle lingue.

* Nel testo francese è usato il termine convenance. 1 Pur avendo deciso, con un ritorno al senso tradizionale, di chiamare segno quello che Saussure chiama significante, Guillaume utilizza, di tanto in tanto, come in questo caso, la terminologia saussuriana.

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La convenienza del significante al significato non si basa sulla sua materialità ma su condizioni di adattamento di natura del tutto differente. Problema della psicosemiologia: un’idea non può inventarsi un segno che le convenga, ma è possibile trovare, nella semiologia esistente, un segno che possa esserle adattato e che, non essendo stato fatto apposta per lei, le è conveniente solo a causa della perdita della sua vecchia convenienza. Si procede così. Qui risiede la ragione dell’arbitrarietà del segno linguistico. La sua invenzione è una perdita intrinseca di convenienza a favore di una nuova convenienza fondata su questa perdita. (Lezione del 22 febbraio 1952)

Legge della psicosemiologia: la sufficienza espressiva Nel campo del sistema semiologico regna la libertà. Tutto va bene, tutto conviene purché si riesca a significare a sufficienza. La legge costruttiva è qui unicamente quella della giusta sufficienza. E per la scelta degli strumenti, dal momento che sono sufficienti, abbiamo la più grande libertà. Questo spiega la diversità, ad esempio, delle coniugazioni verbali e il gran numero di verbi la cui coniugazione si presenta apparentemente irregolare. Questa diversità, queste apparenti anomalie, sono una conseguenza della libertà che regna in semiologia, libertà dovuta alla richiesta fatta agli strumenti semiologici che è solo quella di riuscire, come che siano, a significare abbastanza. Nel campo della semiologia, bisogna quindi aspettarsi delle combinazioni di mezzi significativi curiose e inattese. La semiologia ci mette ovunque in presenza di una ricchezza estrema di invenzioni combinatorie. Guardando le cose a volo d’uccello, secondo la prospettiva storica, scopriamo in semiologia una ricerca continua di mezzi significativi validi in modo sempre più ampio. I mezzi inferiori, da questo punto di vista, sono sostituiti da mezzi più estensivi validi in un campo linguistico più ampio. Questa sostituzione non impedisce che sopravvivano, accanto agli

Significante e significato 83

strumenti più estensivi, degli strumenti provvisti di una minore estensività. Questa sopravvivenza di mezzi di un’estensività insufficiente, e che per questa ragione hanno perso nella lingua il loro potere di propagazione, è rappresentata da quelle che vengono chiamate le forme forti. Le forme deboli sono invece quelle che hanno conservato nella lingua un potere di propagazione. Sul piano psichico, invece, il discorso è diverso. In questo caso non siamo in presenza di significanti, che possono essere tanto diversi ed eterogenei, purché significhino a sufficienza, ma siamo in presenza del significato che deve, nella parte formale della lingua, essere il più unico possibile, e quindi deve aver acquisito una coerenza sistematica. L’unità sistematica è acquisita, in campo psichico, molto prima che sia ottenuta una unità corrispondente in campo semiologico. Così nella categoria del verbo, in francese, il sistema verbo-temporale di rappresentazione del tempo ha assunto, sul piano psichico, un’unità che possiamo considerare perfetta. Sul piano verbale, non vi sono psichicamente, come accade per gli idiomi meno evoluti, diversi sistemi ognuno dei quali si attribuisca una parte, più o meno importante, della categoria verbale. Vi è invece un unico sistema che ricopre l’intera categoria verbale, e non che lascia niente di questa al di fuori di se stesso, in un altro sistema. Ma sul piano semiologico, benché vi si riconosca potentemente la tendenza a una coerenza sistematica crescente, manca ancora molto affinché questa stessa unità sia raggiunta. Constatiamo così l’esistenza di semiologie diverse che operano, suppletivamente, l’una accanto all’altra, sul piano del verbo. Da qui la molteplicità delle coniugazioni e le numerose irregolarità che si aggiungono a questa molteplicità2. 2

Passaggio cancellato: A fianco, per esempio, del preterito definito della coniugazione in er, je marchai, tu marchas, il marcha, nous marchâmes, vous marchâtes, ils marchèrent, che si richiama per svilupparsi a degli elementi formatori presi in prestito da forme diverse, si avranno, nella coniugazione in r non dominante, dei preteriti definiti a tema in i o in u, la cui coniugazione presenta, quanto ai mezzi prescelti, una più grande uniformità. Si paragoni la coniugazione-parzialmente tematica, con tema in a solo per le persone doppie-di march-ai, march-as, march-a, march-a-(s)mes, march-a-(s)tes, march-èrent, con la coniugazione, tematica in tutte le persone, di voul-u-s, voul-u-s, voul-u-t, voul-u-(s)mes, voul-u-(s)tes, voul-u-rent. Il sistema semiologico è, in tutti gli idiomi, un sistema molto libero.

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Sarà possibile comprendere tutto quello che separa la sistematizzazione semiologica dalla sistematizzazione psichica se si tiene presente che la legge dominante, dal punto di vista della sistematizzazione psichica, è quella della più grande coerenza possibile, mentre dal punto di vista della sistematizzazione semiologica, la legge dominante è quella della migliore sufficienza espressiva. Il bisogno di coerenza passa in questo caso in secondo piano, e la coerenza può essere sempre sacrificata senza danno, purché la sufficienza espressiva ne tragga beneficio. Occorre aggiungere che anche in semiologia vediamo istituirsi la coerenza; ma questo non dipende direttamente dalla semiologia e dalle sue specifiche necessità, che sono di altra natura, ma dal fatto che la semiologia, per essere operante, deve sposare e riprodurre sufficientemente lo psichismo, e deve quindi tendere a ripetere in se stessa e con buona approssimazione la coerenza presente a livello psichico. (Lezione del 19 dicembre 1947)

Adattamento reciproco tra psichico e fisico Ad un linguista piace seguire, nei particolari, questi piccoli fatti di costruzione sistematica perché illustrano, in modo sorprendente, la legge generale della congruenza, sempre mantenuta nella struttura del linguaggio, tra lo psichico e il fisico. Certo, tutta l’organizzazione del sistema grammaticale del verbo francese è fondata su variazioni foniche di natura fisica, spiegabili direttamente sul solo piano fonetico. Ma se l’osserviamo più da vicino, ci accorgeremo che queste variazioni di ordine fonetico sono state sempre accompagnate da corrispondenti fenomeni psichici la cui essenza, la cui natura profonda, è di tradurre l’adattamento, più o meno contingente, tra lo psichico e il fisico. Il suddetto adattamento è un adattamento più o meno reciproco: in numerosi casi, l’accidente permette alla costruzione fonetica di adattarsi quasi direttamente alla costruzione psichica. È quel che accade [in francese] nel rapporto fra l’imperfetto e il condizionale. In altri casi, in cui si resta più legati alla base storica, dove le cose sono

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piuttosto continuate che rifatte, si constata, invece, un adattamento molto preciso e sottile della costruzione psichica alla costruzione fisica, cioè fonetica. È il caso, ad esempio, di marchèrent [camminarono]. La formazione psichica della forma, senza togliere nulla alla sua propria intenzione, ha saputo adattarsi a delle variazioni fonetiche che le erano estranee e in definitiva, attraverso percorsi aperti dall’occasione, la simmetria molto profonda del futuro con l’aoristo è riuscita a manifestarsi in modo chiaro, perfino in un caso in cui sembrava quasi impossibile metterla in evidenza. In francese, la simmetria dell’aoristo col futuro fa eccezione, in modo molto marcato, solo nelle persone doppie. Il fatto si spiega evidentemente, e molto bene, in modo fonetico; ma anche qui, se sottoponiamo il fenomeno ad analisi, scopriremo il processo di adattamento dello psichico al fisico. La persona doppia è, in francese e generalmente nella lingua, un essere a parte, che ha le sue peculiari condizioni di esistenza. Non si possono applicare a questa persona le stesse norme che regolano la persona semplice (...) (Lezione del 16 aprile 1942)

Morfologia negativa: articolo zero Il giorno in cui sarà fatta la storia dell’articolo zero nella lingua francese, ci si accorgerà che è stato soprattutto un articolo di morfologia negativa, un articolo, per così dire, critico, tale cioè da individuare, in un dato caso, il difetto espressivo degli altri articoli e da sostituirsi a loro, non tanto per dire ciò che ha da dire, che non è niente, essendo un’assenza, quanto per evitare che sia detto ciò che, nel caso considerato, gli altri articoli direbbero indebitamente. Ho avuto sempre l’impressione che nelle lingue non si era prestata sufficiente attenzione all’esistenza di una morfologia, e perfino di una sintassi, negativa, fondata non tanto sull’attrazione della mente per una forma quanto sulla sua avversione verso le altre forme. E alcuni studi abbastanza approfonditi mi hanno ora fatto anche intravedere che ci sarebbero delle lingue – le più difficili da analizzare nelle loro

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sfumature morfologiche – in cui la morfologia sarebbe più negativa che positiva. Il valore di una forma consiste in queste lingue non tanto in ciò che essa significa quanto in tutto ciò che vuole non significare. Questa impressione di morfologia essenzialmente negativa è diventata in me molto persistente nello studio del verbo nelle lingue semitiche. In queste lingue, ad esempio, è molto raro che si tratti di indicare positivamente un tempo, poiché esse non posseggono dei tempi corrispondenti ai nostri (che siano cioè davvero dei tempi). Ciò di cui, invece si tratta sempre, è di non indicare una situazione temporale in difformità da ciò che intendiamo esprimere nella circostanza data. È a forza di evitare da ogni parte la discordanza, che la concordanza finisce per stabilirsi, concordanza che resta nella prospettiva delle discordanze evitate. L’interesse per l’articolo zero, oltre a quanto ne ho mostrato dal punto di vista sistematico, e che basterebbe da solo a farne ampiamente una delle esistenze di lingua degna della massima attenzione, consiste inoltre nel fatto di permetterci di seguire in una lingua moderna di cui abbiamo un’esatta percezione, che è cosa preziosa, il cammino sinuoso di questa morfologia negativa, essenzialmente critica, di cui ho appena indicato l’esistenza; una morfologia da cui, per di più, nessuna lingua è esente, anche se sembra aver incontrato il favore particolare di alcune.

IV. L’atto di linguaggio

Natura dell’atto di linguaggio L’atto di linguaggio non comincia esattamente con l’emissione di parole destinate a esprimere il pensiero, ma con un’operazione soggiacente, o se si vuole sussidente, che è il richiamo che il pensiero, in istanza di espressione, indirizza alla lingua, permanentemente posseduta dalla mente. Questo possesso permanente dispensa la mente, ed è in questo, non lo si dimentichi mai, la funzione principale di ogni idioma, dal dover immaginare dei mezzi d’espressione che sarebbero dei mezzi di fortuna, o piuttosto di sfortuna, nel momento del bisogno. Il meccanismo di questo richiamo e della risposta che viene immediatamente fornita, con una rapidità che non può non sorprendere chiunque si dia la pena di riflettere su questo punto, è una cosa di cui ci è molto difficile, anzi, a dire il vero, impossibile penetrare completamente il segreto. Se potessimo vedere chiaramente ciò che succede in noi stessi nei momenti immediatamente precedenti l’atto di linguaggio, momenti che ne costituiscono in un certo senso la fase preparatoria o fase di tensione, alla quale succederanno – prendendo a prestito i termini di un’analisi del tutto generale proposta da Bergson – il momento di avviamento e la fase d’impulso; se la nostra mente fosse capace di distinguere quanto succede in se stessa a queste grandi profondità, noi avremmo allora delle conoscenze linguistiche di un’importanza capitale che ci sono precluse, e una moltitudine di problemi non risolti, o molto controversi, sarebbero per noi una cosa chiara, tanto chiara quanto ci è facile l’atto con il quale passiamo dal pensiero alla sua espressione per il tramite della parola.

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Principi di linguistica teorica

Non abbiamo accesso, o almeno non un accesso diretto, alle operazioni di pensiero che precedono in noi l’avvio dell’atto di linguaggio, e di conseguenza è la parte essenziale di quest’atto che si sottrae alla nostra investigazione. L’atto di linguaggio è un atto di cui noi siamo capaci di osservare solo l’ultimo istante: i momenti iniziali, quelli cioè durante i quali si stabilisce il contatto tra il pensiero in istanza di espressione e la lingua, di cui la mente ha il possesso permanente, non sono dei momenti direttamente osservabili e noi possiamo conoscerne solo ciò che permette il concepimento di una interpretazione analitica del loro concatenarsi, interpretazione che procede, da un lato, dall’esame di quanto accade nel discorso e, dall’altro, da ciò che si è fissato nella lingua sotto forma di semantemi, morfemi e sistemi. I semantemi e i morfemi sono delle esistenze di lingua che la linguistica tradizionale è in grado di osservare; e questo perché sono delle esistenze, in qualche modo corporee, rappresentate nella lingua da un significante, il cui ruolo è di trasportarle nel discorso quando ce n’è bisogno. L’atto di linguaggio – nelle nostre lingue evolute che l’hanno sfoltito, alleggerito di molte cose, che ne hanno fatto un atto leggero, rapido – consiste in gran parte nel trasportare dalla lingua al discorso i semantemi e i morfemi ai quali il pensiero ricorre per esprimersi. Questo trasporto esige che i semantemi e i morfemi abbiano nella lingua un significante, cioè un frammento di parola legato a ciò che essi significano, al significato che costituiscono nel pensiero. La funzione generale dei morfemi è di sussumere, per irradiazione, delle serie intere più o meno estese di semantemi. Un fatto che la linguistica tradizionale non ha preso in considerazione, è che i morfemi sono parte integrante dei sistemi e che, prima di poter cogliere un morfema con cognizione di causa, il pensiero in corso di espressione ha bisogno di vederlo all’interno del sistema di cui fa parte e nel quale, a causa della sua posizione, assume il suo valore. Sicché l’impiego di una sola forma verbale suppone una rapida evocazione dell’intero sistema della coniugazione del verbo. Il sistema della coniugazione rapidamente evocato – l’operazione è così rapida e profonda che non ne abbiamo per niente coscienza – espone allo stesso modo tutte le forme che contiene, che integra, che cioè riunisce in sé in virtù di un atto di definizione a cui deve la sua esistenza nella mente. Ed è tra

L’atto di linguaggio 89

queste forme, esposte tutte insieme nel sistema e, in qualche modo, l’una accanto all’altra, e anche l’una al di sotto dell’altra quando il sistema abbia tre dimensioni, che il pensiero in corso di espressione ne sceglie, per motivi contingenti, una di loro giudicata più conveniente, per una espressione fine ed esatta di ciò che si vuole esprimere. La scelta di una forma tra quelle che il sistema presenta tutte insieme, cosa che permette di averne con un solo sguardo una visione totale, sinottica, è un’operazione che, come tutte le operazioni di linguaggio, richiede del tempo, un tempo concreto, vissuto, brevissimo ma reale, e questo tempo è diminuito di molto dalla qualità del sistema a cui queste forme appartengono. Come tesi generale possiamo dire che la rapidità con la quale troviamo la forma più conveniente al discorso dipende dallo stato di costruzione del sistema e dalle posizioni che le diverse forme vi occupano, le quali, ciascuna in se stessa, ne costituiscono il valore essenziale. Un sistema con delle forme elegantemente disposte, e che si seguono bene in uno stesso atto costruttivo, facilita la scoperta della forma richiesta dall’atto di espressione del discorso. Un tale sistema rende questa scoperta più rapida e più sicura. Va da sé che se il sistema fosse mal costruito o insufficientemente sviluppato, ovvero non costituisse, nella sua totalità, un atto unico di integrazione delle forme che lo compongono, la ricerca della forma in accordo con l’intenzione momentanea del discorso prenderebbe un tempo maggiore e non presenterebbe lo stesso carattere di pulizia e di giustezza. In totale assenza di un sistema capace di integrare le forme contenute nella lingua, la scoperta della forma più conveniente sarebbe non solo difficile, ma impossibile, perché è in sistema e soltanto nel sistema che le forme hanno un proprio valore che le designa in anticipo per tale o talaltro valore di impiego riservato loro dal discorso. Un errore da evitare, e che degli ottimi linguisti hanno spesso corso il rischio di commettere, o forse hanno anche commesso, sarebbe quello di ritenere che le forme non abbiano un valore proprio ma che lo acquisiscano solo con l’impiego che il discorso ne fa. Ragionare così sarebbe ammettere che ciò che non significa niente in sé, assumerebbe un significato nella sua applicazione. Un ragionamento del genere non regge, perché non si capisce su che cosa si regolerebbe il pensiero per applicare qualcosa che non significherebbe niente di per

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sé: un’applicazione a livello della significazione* non è possibile che a partire da una significazione data in precedenza; una significazione zero non ha applicazioni possibili. Nel sistema ciò che si trova al grado zero è il valore d’uso della forma, il quale valore si determinerà nel discorso e non altrove. Invece, ciò che si trova ad un grado compiuto, è il valore dentro il sistema, il quale preesiste al valore d’uso ed è dovuto al fatto che ogni forma rappresenta nel sistema un momento originale della sua costruzione psichica, più precisamente ancora dell’atto di definizione unico, omogeneo, rappresentata da questa costruzione. Così, nel sistema del tempo, ogni forma che lo compone, modo o tempo che sia, è parzialmente rappresentativa di un atto omogeneo, la costruzione architetturale dell’immagine tempo, la cui forma esprime un certo momento più o meno distante dagli altri secondo la successività costruttiva del sistema. Non ci stancheremo di sottolineare mai abbastanza che il valore di una forma dentro il sistema è totalmente acquisita nella lingua, mentre il valore d’uso resta completamente da acquisire. Il ruolo della lingua è di offrire al discorso, attraverso le forme presentate in sistema, la possibilità di una varietà più o meno grande di valori d’uso. Il valore di una forma in sistema è permissiva nel luogo dei suoi valori d’uso nel discorso. La morfologia si è finora interessata, in modo quasi esclusivo, al valore d’uso delle forme e si è interamente, o quasi del tutto, disinteressata di considerare il valore delle forme in sistema: è un punto di vista che non è stato preso in considerazione, un punto di vista di cui la maggior parte dei nostri colleghi ha ignorato l’esistenza e l’importanza. E se la morfologia ha ignorato che le forme prima di assumere un valore d’uso nel discorso, avevano, come permanente nella lingua, un valore in sistema, è perché la linguistica ha di fatto ignorato i sistemi. Dal punto di vista della gerarchia della forma, quella che si sviluppa a partire dal singolare in direzione dell’universale, la linguistica si è * Nel testo francese è usato il termine signification sul quale il Dictionnaire terminologique de la systématique du langage (DTSL) così si esprime: «Questo termine è usato da Guillaume con valore dinamico (processo di produzione del senso) o con valore statico (senso prodotto). Solo il contesto permette di comprendere il modo in cui esso è stato impiegato».

L’atto di linguaggio 91

fermata ai morfemi che sussumono delle serie di semantemi; ma non è andata fino al livello superiore dei sistemi che sussumono e integrano delle serie più o meno estese di morfemi. A questo blocco prematuro della linguistica in se stessa, in un punto di se stessa che la lascia a metà strada delle sue possibilità, la linguistica deve il carattere abbastanza deludente che le è stato rimproverato da eccellenti studiosi e, dopo tanti stupefacenti successi nella risalita nel tempo e nella scoperta delle origini, è ancora questo blocco ad essere responsabile di averci lasciato, tutto sommato, molto poco istruiti sulla vera natura della lingua e sulle leggi essenziali che regolano il suo psichismo di formazione. È mia convinzione assoluta che alla linguistica basterebbe impegnarsi con decisione sul cammino aperto dallo studio dei sistemi, per farle perdere questo carattere di scienza incompleta, che lascia fuori dalla sua indagine delle questioni d’ordine psichico. Una critica esigente ma illuminata non smetterà mai di chiederle di chiarirle e di risolverle, ritenendo che sono questioni di sua competenza, e che la linguistica viene meno alla sua vocazione quando ne declini lo studio. L’osservazione mostra che tutte queste importanti questioni di cui la linguistica ha declinato lo studio, appartengono allo studio dei sistemi e che, di conseguenza, il compito attuale ed urgente della scienza del linguaggio è di orientare le sue ricerche nella direzione seguita qui, dove, prima di ogni esame del valore d’uso di una forma, ci prendiamo cura di ricostruire, preventivamente, il sistema di cui essa è parte integrante e dove prende il suo valore essenziale, valore che preesiste nella mente – senza potercene rendere conto direttamente (non abbiamo un accesso diretto a queste operazioni profonde) – ad ogni valore d’uso attestato nel discorso. (Lezione del 27 aprile 1944)

Cronologia operativa dell’atto di linguaggio L’atto di linguaggio, considerato nel suo insieme, comporta una cronologia interiore che ne rappresenta in grandi linee il sistema generale. Questa cronologia lo suddivide in due tempi:

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Principi di linguistica teorica

della frase

costruttrice

di pensiero

momentaneità

operazione

della parola

assenza di momentaneità

costruttrice

Piano di potenza. Produzione della parola (unità di potenza) di pensiero

{ {

Piano di effetto. Produzione della frase (unità d’effetto)

operazione

fatto di discorso

{

fatto di lingua

L’atto di linguaggio nel suo insieme

A. un tempo iniziale di potenza, che va dagli elementi di formazione della parola [mot] alla parola costruita; B. un tempo finale d’effetto, che va dalla parola alla frase, cioè dall’unità potenziale all’unità effettiva (in pratica, dalle parole al pensiero formulato). Ora, mentre le operazioni di pensiero del secondo tempo B. sono sottoposte alla osservazione cosciente del soggetto parlante, le operazioni di pensiero del tempo A., più profonde, non possono in alcun modo essere oggetto di tale osservazione cosciente, che interviene troppo tardi per distinguerle, in un momento in cui nella mente esse sono già un fatto compiuto, un fatto superato. In altre parole, di fronte a delle parole già costruite nella mente del soggetto parlante, la frase, nello psicomeccanismo del linguaggio, si presenta come un’opera da costruire. In modo che, temporalmente, le parole rappresentano delle costruzioni compiute, passate, superate, mentre le frasi si presentano come delle opere possibili da intraprendere. Mutatis mutandis, la distinzione è tra il compiuto e l’incompiuto, o, se si vuole, tra il passato e il futuro. Si può quindi vedere, attraverso ciò che abbiamo appena detto, quanto appaiano complessi i fatti linguistici, e questa complessità, sulla quale abbiamo richiamato l’attenzione, mettendone in luce uno dei suoi lati più interessanti, può, limitandoci a ciò che abbiamo appena detto, essere riassunto nello schema seguente, facile da ricordare:

L’atto di linguaggio 93

Uno degli errori, uno dei passi falsi, della scienza grammaticale è stato quello di non aver marcato chiaramente la distinzione tra le operazioni di pensiero che si compiono, sul piano di potenza, attraverso la costruzione di un’unità di potenza – che, nelle nostre lingue evolute, è una parola – e le operazioni di pensiero, più facilmente percepibili, che si compiono più tardi e momentaneamente, sul piano dell’effetto, attraverso la costruzione di una frase, cioè di un discorso limitato, le cui condizioni di costruzione e di limitazione fanno parte della lingua, e che in altri termini, appartengono alle operazioni di pensiero predeterminate in permanenza sul piano di potenza. (Lezione del 21 novembre 1947)

L’istituito e l’improvvisato nel linguaggio: espressione ed espressività L’istituito al quale il linguaggio, l’atto di linguaggio, fa appello è la lingua. Là dove per una qualsiasi ragione l’istituito è carente, l’atto di linguaggio, per quanto la carenza sia sensibile, ricorre, nell’immediato, agli strumenti del suo ordine, che sono puramente espressivi e non stabiliscono, con segni differenti, delle differenze nozionali. Infatti, stabilire sotto segni diversi delle differenze nozionali, significherebbe costruire, nell’istituito, una lingua. Finché il pensiero si esprime senza questo ricorso all’istituito, mediante i soli strumenti dell’improvvisazione del linguaggio, non c’è bisogno che, con segni distinti, la differenza delle nozioni venga stabilita. Con ciò si vede che il linguaggio, nel suo insieme, comporta il ricorso a due tipi di strumenti: – quelli tardivi appartenenti all’improvvisato; – quelli precoci appartenenti all’istituito. Ora, la storia generale del linguaggio si fonda interamente su un processo psichico che è consistito nell’aumentare gli strumenti precoci in modo da dover chiedere meno agli strumenti tardivi. Tutta l’economia generale della storia del linguaggio risiede in questo. L’atto di linguaggio tende a chiedere sempre meno a se stesso,

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Principi di linguistica teorica

e ciò che chiede in meno a se stesso è quanto la lingua gli offre di precostruito, e di cui esso deve improvvisare solo l’uso, ma non tutto l’uso, bensì quanto può esservi in quest’uso di singolare o di effimero, perché l’uso generale sistematico è parte integrante dell’istituito. All’origine, l’atto di linguaggio, in assenza di una lingua istituita, deve fare tutto, deve significare tutto con degli strumenti suoi propri, estranei all’istituito. L’espressività è allora la sua sola e insufficiente risorsa. Questo caso è approssimativamente quello di una persona che deve comunicare con un’altra di cui non conosca il linguaggio, la lingua. Dovrà allora ricorrere, nell’immediato, alle risorse, molto precarie, del linguaggio improvvisato. Man mano, però, che ci si allontani dalle origini nella storia generale del linguaggio, lo sviluppo dell’istituito alleggerisce l’atto di linguaggio di una parte del suo compito e, in questo modo, riduce di altrettanto ciò che doveva essere richiesto all’improvvisato. Questa parte richiesta all’improvvisato non è scomparsa ma, invece di incaricarsi del contenuto stesso dell’atto di linguaggio, che per tradursi nel nostro idioma possiede le risorse della lingua, agisce solo sulle modalità espressive che rendono questo contenuto, nella misura in cui la lingua, con tutto l’istituito che possiede in se stessa, non riesce a essere sufficiente. Una caratteristica essenziale del discorso, nei nostri idiomi evoluti, è che la parte richiesta all’improvvisato è piccola rispetto a quanto è richiesto all’istituito, cioè alla lingua. La richiesta a cui la lingua offre una risposta costituisce, nella nostra terminologia, l’espressione. La richiesta a cui la lingua non offre una risposta e a cui, di conseguenza, l’atto di linguaggio deve sopperire con i suoi strumenti appartenenti all’ambito dell’improvvisato, costituisce l’espressività. Quindi un atto di linguaggio deve essere considerato, nelle nostre lingue, come una somma di espressione e di espressività. Volendo adoperare una formula, secondo quanto abbiamo fatto tante volte, un atto di linguaggio preso nella sua interezza può scriversi: espressione + espressività = 1

Ricordiamo che l’espressione rappresenta il ricorso all’istituito, e l’espressività il ricorso all’improvvisato, essendo gli strumenti propri

L’atto di linguaggio 95

all’atto di linguaggio appartenenti al campo dell’improvvisato (non istituito), mentre quelli propri alla lingua appartengono al campo del non improvvisato, dell’istituito. Il mio modo allocutivo di parlare fa parte, in senso generale, dell’improvvisato. Vi sono mille modi di dire, con le stesse parole, le cose più semplici. Questa maniera allocutiva, che costituisce l’espressività dell’atto di linguaggio, si aggiunge al suo contenuto espresso, reso con strumenti di lingua appartenenti all’istituito. L’espressività dell’atto di linguaggio è capace di far variare considerevolmente, in certe lingue, la significazione che possono avere nel discorso alcuni vocaboli votati all’espressività. Si pensi alla diversità di senso e di valore di certe parole in diversi idiomi meridionali, come, ad esempio, in spagnolo. L’espressività che si innesta in abbondanza sull’espressione, diventa quasi tutto. Penso in particolare al quiero spagnolo, la cui diversità di senso è indeterminabile. La formula: espressione + espressività = 1

è di grande importanza, allorché si tratti di capire bene quel che succede in sintassi. La sintassi si avvantaggia di quanto l’espressività perde in favore dell’espressione, che diventa qui quasi tutto. La sintassi risente invece di quel che l’espressività acquista a detrimento dell’espressione. Con un livello minimo di espressività e una sintassi molto sviluppata diremo Stasera al teatro dell’opera ci sarà una rappresentazione di gala, e con maggiore espressività e una sintassi ridotta sul piano verbale, avremo Al teatro dell’opera, stasera, grande rappresentazione di gala. In generale, possiamo dire che, nei nostri idiomi, ciò che si acquista in espressività si perde in espressione e, quindi, in sintassi. Le frasi senza verbo, peraltro innumerevoli e di ogni specie, sono delle frasi in cui l’espressività prende il posto dello sviluppo sintattico che il verbo porta con sé. Una espressività abbastanza intensa basta a fare di una parola, di una sola parola, una frase. Ad esempio: Silenzio! o Lavagna! Ma appena ritiriamo l’espressività non ci sarà più, in questo caso, una frase. Nelle esclamazioni Silenzio! o Lavagna!, la frase deriva dal fatto che alla parola

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Principi di linguistica teorica

usata si è aggiunta una forte espressività vettrice. In assenza di questa espressività conduttrice la parola non farebbe frase. La formula: espressione + espressività = 1

comporta tutte le variazioni che vanno da un minimo di espressività raggiunta a favore dell’espressione, a un massimo di espressività ottenuta a spese dell’espressione: ciò che si acquista in espressività viene perso in espressione e viceversa. Al suo punto limite, nel linguaggio si incontra l’interiezione, rappresentativa di un’espressività che ha, come si potrebbe dire, divorato e abolito l’espressione. Una interiezione è una frase il cui vettore non è il verbo, ma il movimento espressivo, portato al suo massimo livello. Nello psicomeccanismo del linguaggio, il movimento espressivo è una variabile che un’analisi corretta deve tenere nel giusto conto. Il movimento espressivo è, in senso generale, suppletivo nei confronti dell’espressione: in ogni situazione, le aggiunge ciò che può mancarle, tenuto conto dell’intenzione [visée] di discorso, e se può essere utile, il movimento espressivo, sviluppandosi e considerata l’intenzione di discorso, sottrae all’espressione il di più che l’appesantirebbe, essendo poi questa sottrazione compensata da un aumento di espressività. Il rapporto avversativo che abbiamo appena indicato tra espressione ed espressività è un fatto profondo di grammatica generale. All’inizio, all’epoca del linguaggio improvvisato, l’espressività era tutto, l’espressione niente. Attualmente, nella lingua della buona società che cura le parole, l’espressività è poco, e l’espressione quasi tutto. La lingua popolare, o ordinaria, reagisce a detrimento dell’espressione e a beneficio dell’espressività (...) (...) Nella storia generale del linguaggio, l’espressività è primaria e l’espressione secondaria. Ogni idioma, quindi, considerato ad una data epoca, rappresenta un certo abbandono di espressività che viene sostituita da una creazione compensativa di espressione, l’espressività essendo in sé nell’ordine dell’improvvisato e l’espressione in quello dell’istituito. Sarebbe del resto altrettanto giusto affermare che ogni idioma, considerato a una data epoca, rappresenta l’invenzione di

L’atto di linguaggio 97

mezzi di espressione che riducono della stessa quantità la richiesta rivolta ai mezzi di espressività. Nella successività dell’atto di linguaggio, gli strumenti di espressività sono tardivi, inventati tardivamente nell’atto di linguaggio stesso dal quale non si distaccano, e con il quale formano un corpo inseparabile. I mezzi di espressione sono precoci, preiscritti nella lingua, nell’istituito che è la lingua, prima dell’intervento dell’atto di linguaggio, che li trova a disposizione, pronti all’uso. In linea generale, possiamo affermare che l’espressione, nelle nostre lingue, divora, per così dire, l’espressività. I mezzi di espressività appartengono, infatti, al linguaggio e diventano, attraverso l’uso, attraverso un uso che li codifica, che li istituisce, dei mezzi di espressione. Nella misura in cui un mezzo di espressività si istituisce, diventa mezzo di lingua, mezzo di espressione. L’esatta misura dell’istituzione e di ciò che essa conserva in sé ancora del campo dell’improvvisato è spesso difficile da determinare. L’appartenenza piena alla lingua è raggiunta dalle nozioni sotto forma di segni rappresentativi. L’appartenenza alla lingua è, invece, meno completa là dove ciò che la lingua fissa in sé consiste nel modo di usare i segni. Vi sono modi molto rigidi di usare i segni, che i segni recano con sé, e che come loro fanno parte della lingua. Questa è la sintassi di espressione, alla quale si aggiunge una sintassi meno istituita, benché istituita in opposizione, che è la sintassi di espressività. L’osservanza della sintassi d’espressione ci fa dire Pietro arriva. La preponderanza data alla sintassi di espressività ci farà dire Arriva Pietro. Ciò che viene chiamato l’ordine grammaticale delle parole riguarda la sintassi di espressione, completamente istituita, e non è più osservata se ci si richiama a una sintassi avversativa di espressività. Si deve quindi mettere a tacere la sintassi di espressività per porre l’esistenza, in una lingua come il francese, di un ordine grammaticale molto rigoroso delle parole. Una difficoltà di carattere dottrinario, più ancora che teorico, è di sapere a che livello sono istituite in lingua le sintassi di espressività alle quali si ricorre là dove, sul piano espressivo, la sintassi di piena istituzione si presenta insufficiente. Nel suo insieme, la lingua si compone di tutto l’istituito. Ma bi-

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Principi di linguistica teorica

sogna tener conto del fatto che, nell’istituzione, vi sono diversi livelli e che quando vi è più istituzione si scende a livello di lingua, mentre con meno istituzione si risale a livello di linguaggio. Il più istituito è, sempre e dovunque, il meno espressivo, il meno provvisto di espressività. La ricerca dell’espressività conduce così, sempre e dovunque, a evadere, in modo più o meno accentuato, dall’istituito profondo e banale, e attraverso quest’evasione che, di frequente, s’istituisce a sua volta come mezzo di lingua, la ricerca dell’espressività porta a complicare l’istituito provocando un aumento degli strumenti che gli appartengono. (Lezione del 7 maggio 1948)

Posto della frase nel linguaggio Un principio del mio insegnamento, spesso richiamato nelle mie lezioni, è l’affermazione che ci si esprime a partire dal rappresentato. È un principio costante che non appartiene all’ontogenia* del linguaggio ma alla sua prasseogenia**. Al punto in cui le nostre lingue moderne sono giunte nella costruzione del linguaggio, abbiamo il privilegio di poter facilmente verificare l’esattezza di questo principio che ho appena enunciato. Basta un esame di quello che succede in noi stessi, del nostro vissuto mentale. Quando abbiamo qualcosa da dire – e in linguistica bisogna sempre riportarsi al dire, obiettivo costante del linguaggio – quando abbiamo dunque qualcosa da dire, cerchiamo in noi, nel rappresentato che vi si trova in permanenza, le * Nel testo francese è usato il termine ontogénie. Nel DTSL troviamo: «L’ontogenia del linguaggio rappresenta le condizioni di grandezza e di forma alle quali questo deve soddisfare per esistere. L’ontogenia (parola ispirata all’ontologia del filosofo Maurice Blondel) fornisce dunque la definizione esistenziale del linguaggio». ** Nel testo francese è usato il termine praxéogénie. Nel DTSL troviamo: «La prasseogenia del linguaggio rappresenta le condizioni di utilità alle quali il linguaggio deve soddisfare per assolvere al compito che ci si aspetta da esso. La prasseogenia (parola ispirata al termine prasseologia del filosofo Maurice Blondel) fornisce così la definizione funzionale del linguaggio».

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parole per dirlo, le quali arrivano più o meno facilmente. Come ha scritto un poeta ben aduso al ragionamento: «Ciò che concepiamo chiaramente si enuncia altrettanto chiaramente, e le parole per dirlo arrivano facilmente». Boileau non dubita – e noi neppure – che ci richiamiamo alle parole [mots], unità di potenza della lingua appartenenti al rappresentato, per costruire delle frasi, unità d’effetto del discorso appartenenti all’espresso. Questo è un fenomeno che possiamo constatare attraverso l’esame di quello che accade in noi. Ci si sarebbe potuti fermare qui, e sarebbe stato del tutto ragionevole, giudicando la realtà linguistica a partire da quel che si sa essere in vita all’epoca linguistica attuale. Ma non è stato così. Come per il medico di Molière, si è cambiato tutto e scompigliato tutta questa fisiologia mentale osservabile, e si è imposta l’idea che pensiamo mediante delle frasi e che non bisogna occuparsi delle parole. E a questo proposito, ci si è mostrati molto insistenti, senza tuttavia riuscire a non insegnare la lingua mediante le parole in essa racchiuse. La frase, è stato insegnato, sarebbe la sola realtà del linguaggio. Contro quest’opinione, resta il fatto che devo andare a cercare in me delle parole precedentemente costruite, per costruire le frasi destinate a dire ciò che voglio dire, e che parlare è fare questo. Dichiarare che la frase è la sola realtà del linguaggio, significa stranamente, a causa del bisogno di considerare le cose dal loro punto di arrivo, dalla conseguenza e non dalla condizione, ritornare all’epoca del primo distanziamento dalla primitività, quando il linguaggio per operare, per rappresentare ed esprimere, disponeva di una sola area, la sua area iniziale1, e doveva di conseguenza accettare una certa interferenza fra l’atto di espressione e l’atto di rappresentazione. (Lezione del 20 dicembre 1956)

1

Allusione alla teoria delle aree glossogeniche, evocate precedentemente (Cfr. Parte I, Cap. 3, «Grammatica comparata e psicosistematica», nota 15), ma non introdotta nella presente raccolta.

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Principi di linguistica teorica

Unità di potenza e unità di effetto: la parola e la frase Un principio del mio insegnamento, un vecchio principio, è che ci si esprime a partire dal rappresentato. Il rappresentato è la lingua e gli atti di rappresentazione che la costituiscono sono rappresentati da una unità di potenza chiamata «parola» [mot]. L’espresso è il discorso e gli atti di espressione che lo costituiscono, ciascuno ad uno stato finito, hanno come termine una unità di effetto qualificata. La frase, nelle lingue a noi familiari, è un assemblaggio che raggruppa, e non che agglutina, diverse unità di potenza (le quali sono già sostanza linguistica formale) in una forma dovuta alla istantaneità di una intercettazione che ha anticipato l’intercettazione frastica, ossia l’intercettazione lessicale, dalla quale procede e risulta la parola. L’intercettazione lessicale, che è la prima intercettazione formale, è contemporaneamente raggruppante e agglutinante. Gli elementi radicali formatori che sono oggetto della intercettazione radicale, si raggruppano e si agglutinano. Sono degli elementi tenuti sotto una forma primaria, promotrice delle unità di potenza del linguaggio. L’intercettazione frastica, che è la seconda intercettazione formale promotrice dell’unità d’effetto costituita dalla frase, nella quale si riuniranno delle unità di potenza, è solo raggruppante2. L’intercettazione frastica, ridotta al suo proprium, è una intercettazione, in una forma non votata all’istituzione, di forme già istituite che sono quelle sottoposte alla sostanza della parola e che emanano dall’intercettazione lessicale, [ormai] chiusa quando interviene l’intercettazione frastica. È dall’intercettazione lessicale che derivano parole come: Le | homme | est | mortel

[Lo | uomo | è | mortale]

in quanto unità di potenza della lingua. È dalla intercettazione frastica, assemblaggio di unità di potenza, di parole, che deriva la frase L’homme est mortel. La somma delle intercettazioni lessicali di sostanza, operate in se stessa dalla mente umana, costituisce la lingua. Il numero di queste 2

A margine, al di sopra di questa frase: Una legge generale del linguaggio.

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intercettazioni lessicali è finito. È quello che offrirebbe un dizionario in cui non mancasse alcuna parola della lingua. In ognuno di noi si trova la somma delle parole in nostro possesso. La somma delle intercettazioni frastiche, che sono delle intercettazioni di unità di potenza, forma il discorso. Il numero delle intercettazioni frastiche non è finito. Si può fare un dizionario dei termini di cui la lingua è il contenitore, ma non possiamo fare un dizionario delle frasi rese possibili dalla scelta e dall’uso di questi termini. Una caratteristica della lingua è di appartenere al campo dell’istituito, mentre la caratteristica del discorso è di essere nell’ordine del non-istituito. Sul piano del discorso si afferma la libertà, contraria all’istituzione; su quello della lingua si afferma la non libertà conforme all’istituzione. Una frase che si istituisce nella mente, che cessa di appartenere all’effimero, diventa un termine della lingua. In francese esistono delle piccole frasi diventate, per istituzione, delle parole: on-dit [si dice], qu’en dira-t-on? [cosa si dirà?], m’as-tu vu? [mi hai visto?], ecc. Nelle lingue antiche e arcaiche come il sanscrito, si trovano delle frasi lunghe, ridotte per mezzo di un’istituzione che è una sottrazione di instabilità, allo stato di nome, e che testimoniano in se stesse di condizioni particolari di congiunzione, di saldatura degli elementi formatori (...) (Lezione del 29 novembre 1956)

Antecedenza della lingua: il suo carattere di previsione Il movimento di pensiero che consiste nell’entrare in se stesso per rendersi conto di che cos’è una lingua, di cui si abbia un possesso ereditario, come nel caso della lingua materna, non è un movimento naturale della mente umana. La tendenza naturale della mente è di servirsi della lingua per esprimere un pensiero che vogliamo comunicare agli altri, o anche solo semplicemente renderlo chiaro a noi stessi. E bisogna, in un certo senso, orientare il pensiero in direzione opposta a quella della sua progressione naturale, in modo da interessarsi alle operazioni mentali che hanno presieduto alla costruzione della lingua, che è importante non confondere mai con il discorso.

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Principi di linguistica teorica

Il discorso risponde ad una intenzione [visée] di effetto: intraprendere un’operazione di discorso significa, evidentemente, voler agire, produrre un effetto su qualcuno. In assenza di una tale intenzione, non c’è discorso: il pensiero resta, per così dire, silenzioso. Silenzio che non significa per il pensiero il non possedimento della lingua, ma semplicemente che questa è lasciata momentaneamente a riposo in fondo alla mente, dove abita e dove la troviamo in ogni momento, interamente compiuta, interamente costruita, e pronta a farsi utilizzare, nell’immediato, assolvendo ai compiti che ci aspettiamo dal suo possesso. Un fatto che non si deve mai perdere di vista in linguistica è che la lingua esiste in noi, e in tutta la sua pienezza, anche quando non parliamo, o quando non pensiamo neanche di parlare. La lingua è per definizione preesistente all’atto di linguaggio. L’atto di linguaggio si inserisce tra la lingua, che è costruita in noi ed è un’eredità ricevuta sin dalla nascita da parte di coloro con cui abbiamo vissuto, e il discorso, da noi formulato, a un momento determinato, con i mezzi che la lingua tiene in permanenza a nostra disposizione. In modo astratto ma molto preciso, dobbiamo prendere in considerazione il fatto che la lingua ha sede in noi, nel pensiero, su un piano profondo che è un piano di potenza, mentre il discorso non ha sede nel profondo del nostro pensiero, di ciò che è nell’ordine del permanente, e non sfugge alla momentaneità, ma, al contrario, consiste in una costruzione alla quale procediamo sul momento e sotto l’impulso del bisogno, quando abbiamo qualcosa da dire. Il discorso sembra dunque appartenere al piano dell’effetto. Analiticamente, la lingua e il discorso non sono, nel pensiero, delle costruzioni dai tempi uguali. La lingua costituisce in noi un passato, un già compiuto; il discorso, invece, rappresenta quanto compiremo in effetto, con i mezzi che la lingua ci fornisce, istituita in noi, e la cui istituzione è concomitante alla formazione stessa della nostra mente. Questa differenza di posizione della lingua e del discorso nel pensiero, il quale essendo riuscito a creare la prima in sé, se ne serve per costruire il secondo quando è momentaneamente utile, è importante averla sempre presente quando analizziamo una qualsiasi questione linguistica. Essa ci fa comprendere quel che il pensiero si aspetta dalla

L’atto di linguaggio 103

lingua e dal discorso. Dalla lingua il pensiero si aspetta di avere la potenza e la facilità di espressione, mentre dal discorso non si aspetta altro che un uso appropriato degli strumenti di potenza e semplicità messi a sua disposizione dalla lingua. Affinché la lingua fornisca al pensiero la potenza e la semplicità di espressione, essa deve essere capace di prevedere sistematicamente i suoi bisogni in tutti gli innumerevoli casi di espressione che si possono presentare, per quanto differenti questi siano tra loro. Sarebbe quindi ragionevole affermare che la lingua è, nel fondo del pensiero, l’istituzione e il deposito di un sistema di previsione. (Lezione del 13 gennaio 1944)

Dal pensabile al pensato: lingua e discorso Gli apporti storici sono, nella lingua, in posizione di materia. La lingua è, invece, rispetto a questi in posizione di forma. La lingua è la forma di rapporto, di relazione, che gli apporti storici assimilati hanno assunto in essa. Essa non esiste che in questa condizione di forma. Nel caso in cui non fosse una somma di rapporti istituiti tra gli apporti storici assimilati, la lingua non avrebbe esistenza. Apporti storici non assunti in rapporti d’ordine e di sistema non costituirebbero una lingua. Non potremmo servircene per esprimere il pensiero. Perché quello che l’espressione del pensiero chiede alla lingua è di essere, in anticipo, una rappresentazione generale del pensabile, in altri termini, uno stato di rappresentazione della visione universale. Una distinzione semplice ma importante, che si impone in questo caso, è quella tra il pensabile e il pensato. L’espressione si riferisce al pensato: quello che si esprime è quanto abbiamo pensato. E il luogo di espressione è il discorso. Nel discorso troviamo il pensiero in espressione. Quanto alla rappresentazione, che è altra cosa rispetto all’espressione, questa si riferisce esclusivamente al pensabile. Essa lo divide, lo suddivide, l’organizza interiormente, insomma lo sistematizza, e il risultato di queste molteplici operazioni, del resto tutte sistematizzanti, è la lingua. Nella lingua si trovano risolti dei problemi

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di rappresentazione, non di espressione. Questi, di un ordine diverso, sono riservati al discorso. La differenza d’ordine risiede essenzialmente nel fatto che il discorso ha per materia il pensato, materia d’espressione, mentre la lingua ha per materia il pensabile, materia di rappresentazione. Il discorso è una forma assunta come espressione dal pensato; la lingua è una forma assunta come rappresentazione dal pensabile. La lingua che abita in me, della quale posseggo potenza e semplicità d’espressione, è una rappresentazione integrale del pensabile dovuta ad una particolare sistematizzazione interiore. Essa offre al mio sguardo, nell’immediato e indipendentemente da ogni momentaneità singolare, un’immagine totale di tutto ciò che si lascia pensare ma che, pensabile e solo pensabile, non è ancora pensato. Altra cosa è il discorso. La sua previa condizione di esistenza è che il soggetto parlante, cioè il soggetto pensante attivo, abbia costruito in lui, momentaneamente, del pensato, servendosi del pensabile di cui può disporre in permanenza e di cui la lingua, nello spirito del soggetto parlante, è una rappresentazione integrale, sistematizzata dall’interno. La costruzione del pensato a partire dal pensabile è un’operazione che suppone e comporta necessariamente il discorso; ora, tra il pensato e il pensabile, tra il pensato destinato all’espressione e il pensabile destinato alla sola rappresentazione, ci sono numerose differenze essenziali. Il pensabile è tutto il pensiero in potenza. È un potenziale integrale. Il pensabile, anticipatamente, deve soddisfare ad ogni pensiero che vorremmo produrre in effetto. In pratica, la lingua che fissa in sé tramite sistematizzazione il pensabile, deve essere in condizione di permettere l’espressione di qualunque pensiero. Questo stato integrale di potenza è una proprietà della lingua, proprietà che non si trova altrove. È assente dal discorso, che accoglie in sé solo il pensato, costruito a partire dal pensabile, e che è sempre e soltanto una frazione di quanto quest’ultimo permette. Perché vettorialmente – la rappresentazione vettoriale è spesso comoda in linguistica – il pensabile ha davanti a sé ogni pensiero, qualunque ne sia la natura, mentre il pensato ha dietro di sé il pensabile di cui, in ogni caso, ha per sé utilizzato solo una parte, quella di cui ha bisogno.

L’atto di linguaggio 105

Così, nel passaggio dal pensabile di rappresentazione che è la lingua al pensato di espressione che è il discorso, c’è la transizione dall’integrale al differenziale, dal tutto di potenza – dato in una sola volta al pensiero umano – alla parte di effetto prodotta nel momento stretto del bisogno e asservita alla momentaneità. Questa relazione del tutto di potenza costituito dalla lingua con la parte di effetto che non produce discorso, è una relazione avvertita da tutti. Tutti percepiscono immediatamente che il pensiero è più ristretto del pensabile e che ciò che abbiamo pensato, ciò che pensiamo, aggiungendovi anche tutto quel che penseremo, non sarà mai equivalente al pensabile, pienamente integrante – per potenza – rispetto al pensato, per quanto esteso possa essere questo per moltiplicazione. Riflettendo ancora un po’ intorno alla relazione pensabile-pensato, si scopre che se nella mente il pensabile ha un integrale, che è la lingua, il pensato non ha nella mente alcun integrale. Chi potrebbe accogliere, integrare, nella propria mente tutto il pensato che non è finito? Perché se abbiamo pensato, penseremo ancora. Ma, per quanto a lungo e profondamente si pensi, non si potrà mai uscire, tramite il pensiero effettivo, fuori dal pensabile di potenza. Differenti gli uni dagli altri, i pensieri in espressione si susseguiranno senza mai smettere di appartenere, nella loro differenza, al pensabile di rappresentazione che potenzialmente li integra. Questo è, un integrale della loro illimitata differenza, sul piano dell’effetto. Il contenuto della lingua, data in una volta alla mente umana, è la totalità del pensabile, non in un stato di espressione, ma di rappresentazione sistematica. E il contenuto del discorso è, per prelevamento differenziale, una parte del pensabile utilizzata per la produzione del pensato effettivo. Nella mente umana, il regime del pensato è la differenza; il regime del pensabile è l’integrazione. Ora, questi due regimi in opposizione sono rispettivamente quello del discorso e quello della lingua. Nel discorso sopravvengono dei pensieri momentanei, singolari, differenti gli uni dagli altri, e da cui ci si aspetta differenza e non identità. Nella lingua niente sopravviene: tutto è dato in una volta, e il dono, fatto in una volta, è il pensabile, il pensabile organizzato interiormente, in altri termini, il pensabile in sistematizzazione.

106

Principi di linguistica teorica

Nella teoria generale che sviluppo, tengo molto alla distinzione dei termini espressione e rappresentazione. La lingua in sé non esprime niente: essa rappresenta, è rappresentazione. L’espressione appartiene al solo discorso, che esprime partendo dal rappresentato, e con gli strumenti che il rappresentato offre. Molta confusione è stata prodotta in linguistica e grammatica perché non è stata sottolineata con forza la differenza tra l’espressione, fatto generale del discorso, e la rappresentazione, fatto generale della lingua. (Lezione del 12 marzo 1948)

Universalità del rapporto rappresentazione-espressione Il titolo di questa lezione – rappresentazione ed espressione nel sistema grammaticale della lingua francese – molto importante in se stesso, contiene, nella disciplina che ci interessa, l’enunciato di un fatto umano assieme a quello di un fatto sociale. Il fatto umano è il rapporto rappresentazione-espressione. Questo fatto, in campo linguistico, riguarda tutte le epoche, tutte le età, tutte le società e socialità. Questo vuol dire che il linguaggio parlato si trova, dappertutto e sempre, in presenza del problema di un equilibrio rappresentazione-espressione. Si tratta di fare la lingua con gli strumenti degli atti di rappresentazione, e di fare il discorso con gli strumenti degli atti di espressione. Il rapporto obbligato – se deve esservi linguaggio umano parlato (il linguaggio parlato dall’uomo) – tra rappresentazione ed espressione è una relazione umana, mentre la realizzazione di questo rapporto, secondo una certa proporzione (poiché intervengono delle condizioni obbligate nel rapporto rappresentare-esprimere), è un fatto sociale. Si è tanto insistito sull’aspetto sociale della lingua e tanto trascurato l’aspetto umano, che mi sembra utile fermarmi un po’ più a lungo su questa differenza da sottolineare fortemente. Una lingua come il francese ha stabilito un certo equilibrio – l’equilibrio francese – tra rappresentazione e espressione. Il francese ha un suo modo di risolvere l’equazione:

L’atto di linguaggio 107 rappresentazione + espressione = 1

dove 1 è il simbolo dell’intero, di tutto il linguaggio parlato. Dichiariamo subito che il francese, lingua molto evoluta, ha risolto elegantemente il problema. Questa soluzione elegante è, in questo caso, il fatto sociale. Ma il problema vero, la necessità di porlo, se non di risolverlo, è il fatto umano. Il principio umano è: solo a partire dal rappresentato è possibile esprimere. La necessità di avere innanzitutto una rappresentazione, prima di produrre l’espressione, è qualcosa di universale nello spazio e nel tempo. È un fatto subsociale. Al fatto sociale corrisponde una certa relatività reciproca, variabile secondo le epoche, della rappresentazione e dell’espressione. Sarebbe un fatto sociale non avere alcuna rappresentazione, mettere cioè al posto della rappresentazione uno stato di linguaggio parlato che sarebbe una rappresentazione carente che ha al suo posto l’esperienza. In altre parole, sarebbe un fatto sociale dover rendere quello che vogliamo significare partendo da un rapporto del genere: rappresentazione= 0 esperienza

=x

}

+ espressione = 1

In questa ipotesi, poiché è la rappresentazione che fa la lingua, bisognerebbe parlare senza avere in sé inscritta una lingua, partendo direttamente dall’esperienza delle cose. Questa situazione sarebbe quella dell’animale. Vi sarebbe linguaggio, ma non un linguaggio umano parlato. Il momento di transizione tra l’animalità e l’umanità è quello in cui la base dell’espressione si fa rappresentazione superando, così, la semplice esperienza. L’uomo porta in sé il germe della rappresentazione, e i grandi progressi del pensiero determinano tutti un progresso della rappresentazione. L’aritmetica basiale è rappresentazione a partire dall’esperienza del numero. L’algebra è rappresentazione superiore a partire dalla rappresentazione numerica. Il progresso si iscrive su una curva che rappresenta un abbandono dell’esperienza, la quale si lascia

108

Principi di linguistica teorica

sostituire, con profitti e perdite, dalla rappresentazione. Così inteso, il progresso è un fatto umano. Ma dal momento in cui si stabilisce una relatività reciproca determinata tra la rappresentazione e l’espressione, abbiamo a che fare con il sociale. In altri termini, il fatto umano è: rappresentazione (– x) + espressione (– y)

}

=1

rappresentazione (= a) + espressione (= a’)

}

=1

e il fatto sociale:

Il punto teorico da mettere bene in luce, è che per spiegare il sociale, nella disciplina che ci interessa, bisogna partire dall’umano. Bisogna sapere che il linguaggio parlato è un tutto: rappresentazione + espressione. E ciò necessariamente, prima cioè di valutare la proporzione sociale dei termini che intervengono. Ieri dicevo, ponendomi dal punto di vista sociale, che la lingua era in noi nell’ordine dell’istituito e il discorso in quello del non-istituito. C’è discorso solo per effetto della non-istituzione. L’istituzione, se coprisse la totalità del linguaggio, mi renderebbe muto: tutto sarebbe detto, non vi sarebbe più niente da dire. La relazione: rappresentazione (=1) + espressione (= 0)

}

=1

è un’impossibilità, un immaginario che, come molti immaginari, è utile per ragionare bene proprio in quanto condizione limite. Un’altra impossibilità – radicale, non finale – sarebbe la relazione: rappresentazione (= 0) + espressione (= 1)

}

=1

L’atto di linguaggio 109

Situazione di tortura: parlare senza avere una lingua in sé, senza possedere le rappresentazioni della lingua. La tortura animale, da cui la rappresentazione – fatto umano – sviluppandosi socialmente, ci affranca. I miei uditori si renderanno conto dell’importanza rivestita dagli argomenti qui trattati in ogni sorta di ambito, compreso quello patologico. Alcuni studi sull’afasia, se sono ben fatti – la circospezione è d’obbligo in questo caso –, conducono all’idea che certe afasie sarebbero essenzialmente un disturbo della rappresentazione, e spesso di una parte della rappresentazione che sfuggirebbe, essendo evanescente. Vi sarebbero dei buchi, dei buchi sistematici, nella rappresentazione: da cui delle afasie sistematiche. Un caso di afasia è quello di essere nell’impossibilità di sostantivare, pur rimanendo integra la possibilità di aggettivare. La ingiunzione patologica sarebbe dunque quella di dare comunque espressione a un pensiero, almeno quello non completamente colpito, per il tramite di aggettivi e verbi non ancorati a un sostantivo di supporto. (Lezione del 23 novembre 1951)

Carattere condizionante del fatto di lingua Un paradigma grammaticale, quello della coniugazione ad esempio, ci mette in presenza di un numero, non troppo esteso, di casi formali di rappresentazione. La rappresentazione corrispondente ad ogni forma, per ogni caso formale, è una. La sua unicità è assoluta, ma questa rappresentazione una ha istituito la sua unicità secondo un meccanismo interiore che permette, a partire dalla rappresentazione una, di ottenere migliaia di effetti diversi, la cui diversità può andare fino alla significazione dei contrari. Per fissare le idee prenderò l’esempio di un imperfetto indicativo nella lingua francese. Vi è, nella rappresentazione, l’idea di un compimento che si è già risolto, più o meno, in compiuto. La formula di analisi corrispondente alla rappresentazione è: compiuto + compimento = 1 (positivo) (prospettivo)

110

Principi di linguistica teorica

Ora, in questa formula, che rappresenta l’imperfetto, il rapporto compiuto-compimento non è quantificato, e nel discorso noi giochiamo liberamente sulla variazione permessa. Questo gioco ci permette di aumentare o diminuire a volontà il quantum di compiuto. Da qui degli imperfetti (che, davanti al compimento, pongono un compiuto esteso, sostanziale, che ha una durata, come ad esempio nel caso di Pierre marchait [Pietro camminava], e degli imperfetti che oppongono al compimento un compiuto non esteso, che non ha ancora durata, come ad esempio in Le lendemain Pierre arrivait [Pietro arrivava l’indomani], dove arrivait porta con sé l’idea dell’immediato, della cosa che interrompe il corso degli eventi e prefigura qualcosa di inatteso – prefigurazione inesistente se avessi detto: arriva [arrivò], che non è interiormente prospettivo, ma aprospettivo. Infatti arriva, preterito definito, è una forma il cui contenuto è in extenso compimento, senza risoluzione alcuna in compiuto. Una narrazione al preterito definito evoca una sequenza di compimenti. Quando il compimento opera, anche se di poco, la sua risoluzione in compiuto, si avrà l’imperfetto. Per l’imperfetto abbiamo, quindi, una condizione invariante di rappresentazione che è: compiuto (grande o piccolo quanto si voglia)

+

compimento = 1 (prospettivo)

Se il compiuto è ridotto al minimo, vicinissimo alla nullità, esso continuerà ad esistere ancora nella rappresentazione, ma la sua esistenza è così poca cosa che abbiamo un imperfetto in equivalenza molto ravvicinata al preterito definito, con il quale è, grammaticalmente, se non stilisticamente, intercambiabile. Sono padronissimo di dire: Le lendemain Pierre arrivait e Le lendemain Pierre arriva La sfumatura è impercettibile. In rappresentazione avremo, quindi, una condizione formale:

L’atto di linguaggio 111 compiuto + compimento (positivo) (prospettivo)

e, in espressione, la libertà di quantificare il compiuto a proprio piacimento. L’imperfetto fissa una condizione formale di rappresentazione. È un fatto di lingua. Nel discorso, la condizione rispettata gioca tra i limiti della sua non trasgressione. In discorso tutto è permesso ad un imperfetto, tranne di trasgredire la condizione di cui è immagine, che istituisce la presenza del compiuto davanti al compimento, ma non stabilisce quale quantità di compiuto si presenterà davanti al compimento. Questo non è istituito. Ma noi sappiamo che il non-istituito prende corpo nel discorso. Ciò significa che, successivamente, avremo: – l’imperfetto di lingua costituito da una qualsiasi quantità di compiuto + compimento; – l’imperfetto di discorso, costituito da una data quantità di compiuto + compimento. Da qui l’esistenza di due modi di studiare l’imperfetto. O di studiarlo soltanto in discorso, nella frase espressa, e allora non si avrà un valore dell’imperfetto, ma mille valori, ed invano si tenterà di ridurre i mille valori ad uno di essi ritenuto basiale, perché, in tal caso, ci areniamo immancabilmente sulla constatazione delle differenze, e tanto più ci areniamo quanto meglio riusciamo a distinguere le differenze, le quali possono assumere valori estremi; oppure di studiarlo principalmente in lingua, per la condizione sistematica invariante che vi rappresenta, cioè: compiuto (senza quantificazione)

+

compimento

e subordinatamente in discorso, dove vediamo prodursi, molto liberamente, tutte le quantificazioni possibili del compiuto, con tutte le variazioni di effetto di senso che tali variazioni quantitative provocano. La forma è data in lingua. Le variazioni quantitative, da questa permesse, saranno riservate al discorso. Non sono istituite. Sono libere,

112

Principi di linguistica teorica

come lo stesso discorso che istituisce la forma – solo la forma – che l’imperfetto non può trasgredire, e che non trasgredisce quando passa per tutte le quantità di compiuto permesse dalla sua presenza formale nell’imperfetto. Mi sono servito di un fatto semplice per dimostrare ciò che separa il fatto di lingua, che è rappresentazione formale istituita, dal fatto di discorso che è funzionamento libero dell’istituito, il quale non trasgredisce la sua definizione – non la trasgredisce mai – ma le lascia completa libertà di gioco interno. (Lezione del 23 novembre 1951)

V. Linguaggio e sistema

1. Carattere sistematico della lingua Una legge valida per ogni sistema Una caratteristica comune ad ogni forma di sistema è di essere uno per legge dominante, e parecchi interiormente per posizioni incluse. Non c’è sistema che interiormente sia una cosa sola. L’idea di sistema comporta obbligatoriamente quello di binarietà. Ci vogliono almeno due al di dentro perché ci sia sistema. (Lezione del 7 dicembre 1951)

Difficoltà legate allo studio di sistemi linguistici I sistemi sono delle esistenze di lingua la cui realtà è tanto grande quanto quella delle forme che le rappresentano, e se non ne è stato fatto finora lo studio, ciò è dovuto unicamente al fatto che questa realtà, così importante, è una realtà astratta, relativa non alla consistenza sensibile di una delle esistenze di lingua, ma al legame sistematico di un numero più o meno grande di tali esistenze che assumono insieme l’espressione di una somma finita di rapporti complessi, assoggettati alla duplice legge di coerenza e di relatività reciproca da cui le lingue, nella costruzione che fanno dei loro sistemi, non si allontanano mai. È evidente che lo studio di esistenze astratte, che consistono solo in esistenze di rapporti, sia meno accessibile di quello di esistenze con-

114

Principi di linguistica teorica

crete provviste di un’esistenza diversa da quella consistente nell’ordine che lo spirito impone nel fondo di se stesso alle proprie rappresentazioni. È opportuno aggiungere che lo studio dei sistemi non ci allontana in alcun modo dalla considerazione dei fatti, ma ci conduce solo ad allargare la nozione di fatto linguistico e a considerare che la dipendenza sistematica di due forme, o di un numero maggiore di forme, è un fatto di lingua tanto quanto l’esistenza stessa di queste due forme. (Lezione del 10 febbraio 1944)

La lingua come sistema dei sistemi La lingua, ogni lingua, è nel suo insieme un grande sistema di una rigorosa coerenza, che si compone di parecchi sistemi collegati tra loro da rapporti di dipendenza sistematica che, nel loro assemblaggio, formano un tutto unico. Presentandosi così le cose in generale, una difficoltà della linguistica psicosistematica – quella che si propone il solo studio delle esistenze di lingua astratte, delle esistenze di pura relazione che costituiscono i sistemi – è quella di identificare i differenti sistemi di cui si compone una lingua in seno al grande sistema da essa formato, che in fondo non è altro che la sistematizzazione reciprocamente relativa di sistemi parziali i quali sono riusciti ad individualizzarsi in essa. La lingua è un intero sistematico che abbraccia l’intera complessità del pensabile e si compone di sistemi ognuno dei quali si rapporta ad una sola parte, definita, del pensabile. Questi sistemi parziali hanno la tendenza ad individualizzarsi e a costituire degli interi facenti parte integrante dell’intero totale più vasto costituito dalla lingua. La loro definizione di intero nell’intero di cui fanno parte è più o meno rigorosa, e il linguista teorico non deve mai perdere di vista che se i differenti sistemi di cui è composta una lingua tendono, come abbiamo appena detto, ad individualizzarsi in essa, essi tendono anche a mantenere tra loro un legame di carattere continuo che permette di passare dall’uno all’altro quasi impercettibilmente. Una lingua è una costruzione antinomica che si propone di raggiungere continuamente

Linguaggio e sistema 115

dei fini contrari. Perché una frase abbia un senso, ad esempio, è necessario che le parole si lascino distinguere, ma è necessario anche che, per un breve istante, la loro distinzione si annulli. Nella loro struttura interna le lingue tendono, universalmente, a distribuire il sistema integrante da esse costituito tra diversi sistemi integrati, i quali formano ognuno, nel tutto contenente, un intero distinto; simultaneamente, però, esse obbediscono nella loro costruzione a uno scopo contrario: quello di separare il meno possibile i sistemi integrati. Queste due tendenze antinomiche – tendenza alla separazione dei sistemi e alla identificazione di ciascuno di loro come intero, e tendenza contraria al mantenimento di un legame stretto e quasi continuo tra di loro – sono in perpetua ricerca di un equilibrio soddisfacente, che è in generale elegantemente ottenuto nelle lingue molto evolute, soprattutto in quelle che appartengono a società con un elevato grado di civiltà. (Lezione del 2 marzo 1944)

L’istituito e il non-istituito nel linguaggio Il principio1 sul quale si basa, per quanto riguarda la sua tecnica, la psicosistematica del linguaggio, è che il pensiero ha un solo modo di conoscere se stesso ed è quello di considerare dei tagli trasversali di ciò che accade al suo interno. Il principio vale per ogni struttura formale della lingua, cioè per tutte le forme trasferibili a idee diverse, tramite il gioco di un’alternanza che non esce da un sistema chiuso. Prendiamo, ad esempio, le forme della coniugazione: esse costituiscono un sistema chiuso, e il soggetto parlante, in presenza di questo sistema che riesce a percepire d’un sol colpo nella sua totalità, sceglie tra le forme che il sistema contiene in numero finito, quella che meglio conviene alla intenzione [visée] del discorso: cioè quella che è maggiormente in sintonia con ciò che il soggetto vuole esprimere. La scelta viene fatta tra un numero finito 1

A margine: Principio di struttura è anche principio di analisi.

116

Principi di linguistica teorica

di forme, mai molto grande, in modo che se, per ipotesi, vengono prese successivamente tutte le forme l’una dopo l’altra, arriva presto il momento in cui bisogna riprendere una forma già presa. Potremmo dire che l’alternanza avviene in circuito chiuso. Molte volte, in discussioni accanite tra linguisti, è stata dibattuta la questione di sapere se una lingua è o non è un sistema. Questa questione viene risolta e chiusa se si accetta il principio che vi è sistema nel caso in cui le forme si alternano in circuito chiuso, e assenza di sistema o non-sistema, quando, nell’istituito che è la lingua, le forme si alternano in un circuito aperto. È un sistema quello del numero nelle nostre lingue, che hanno due numeri: il singolare e il plurale. È un sistema quello del genere che, in francese, conta due generi: il maschile e il femminile. Vi è sistema perché l’alternanza delle forme, che sono solo due, avviene in circuito chiuso. I casi di declinazione, in latino, formano un sistema, visto che l’alternanza avviene in circuito chiuso. Quando invece le nozioni si susseguono le une alle altre in circuito aperto, allora non vi è sistema. Consideriamo ad esempio le idee particolari che costituiscono il contenuto delle parti del discorso. Queste sono sostituibili l’una con l’altra, senza che il campo di sostituzione si chiuda definitivamente. Sotto forma del sostantivo, posso iscrivere un numero molto elevato di nozioni e liberamente, se voglio, posso aumentare questo numero senza incontrare limiti posti in intellectu. Diverso invece è il caso delle parti del discorso. Il numero di queste è piccolo, finito, e l’alternanza si fa in circuito chiuso. Vi è sistema. Le controversie su questo punto, continuamente risorgenti, sono per noi risolte da questa spiegazione che ci fa vedere nell’istituito, che è la lingua, il sistema e il non-sistema, il libero e il non-libero. L’applicazione che abbiamo fatto la volta scorsa della tecnica dei tagli trasversali, ci ha portato a suddividere la relazione pensiero-linguaggio, che è oggetto della scienza del linguaggio, in due parti: l’istituito, che è la lingua, e il non-istituito, che è il discorso. Diciamo subito che non esiste sistema al di fuori dell’istituito; e non si obietti che la frase – appartenente al discorso – è comunque un sistema. Perché il sistema della frase è parte integrante della lingua. Ciò che rende possibile la frase non è il sistema, ma l’esercizio del sistema e la libera e momentanea scelta delle idee che la frase evocherà. Questa libera scelta

Linguaggio e sistema 117

non è sistematicamente condizionata, e se le condizioni sistematiche che costituiscono il sistema della frase sono in numero finito (senza possibile accrescimento), l’esercizio del sistema offre delle possibilità consequenziali o combinatorie, che oltrepassano ampiamente di numero le condizioni sistematiche. Appartiene al discorso, per quanto possa essere libero, l’esercizio del sistema. Determinazione delicata. Il sistema regola il suo esercizio e l’esercizio si istituisce. (Lezione del 6 dicembre 1951)

Sistema e non-sistema nella lingua Una caratteristica importante delle lingue, ognuna delle quali è in toto nell’ordine dell’istituito, è l’istituzione in sé, contemporaneamente e senza mutuo pregiudizio, della libertà e della legge, del non-sistema e del sistema. In un certo senso l’istituzione si porta sistematicamente sui due lati, segue le due tendenze, quella che la conduce a contenere un circuito di ideazione aperto e quella dei circuiti chiusi d’ideazione. La lingua, in quanto istituito, è in toto sistematica, ma la sua sistematizzazione comprende: l’istituzione del libero (non-sistematico e non-determinato in circuito aperto), e l’istituzione del non-libero (sistematico e determinato in circuito chiuso). Il libero non-sistematico si sottoscrive al non-libero sistematico. Il non-libero sistematico ci mette in presenza di una sistematizzazione compiuta, il libero nonsistematico di una sistematizzazione non compiuta. La morfologia di una lingua è l’istituzione in se stessa di circuiti chiusi di ideazione. Se mi limitassi sempre e dovunque ai circuiti aperti, la lingua sarebbe senza morfologia. Per fissare meglio le idee, supponiamo che il francese contenga solo delle idee particolari sostituibili le une alle altre liberamente: sarebbe una lingua senza alcuna morfologia. Non è così, evidentemente, e nella lingua, tramite la struttura della lingua, si sono determinati dei circuiti chiusi di ideazione che portano delle nozioni intercambiabili e che soddisfano ad una stessa condizione generale di trasferibilità. Sono questi circuiti che costituiscono i sistemi nella lingua. Le grammatiche ordinarie li rappresentano con dei paradigmi.

118

Principi di linguistica teorica

In termini forse qualitativamente migliori, potremmo dire che la lingua istituisce in se stessa, sotto forma di una ideazione non-libera e sistematicamente condizionata, una ideazione libera il cui condizionamento resta indeterminato, non acquisito, sistematicamente indeterminato. L’ideazione sistematica non-libera opera in circuito chiuso, cioè in un circuito di forme trasferibili all’interno di uno stesso campo linguistico (ci mette di fronte all’obbligo di optare tra una serie di diversità, in numero finito, ad esempio: 3 modi, 2 aspetti, 15 forme verbali)2. L’ideazione libera, non-sistematica, opera in circuito aperto e rappresenta la libera attività della mente con una sistematizzazione negativa la cui legge non è quella di questa stessa attività, che resta senza leggi, ma quella di un’attività seconda del pensiero, che non è creazione di idee, ma l’attività che il pensiero determina in se stesso in vista dell’intercettazione della propria attività operata da se stesso. Da una parte, quindi, attività non-sistematica di produzione di idee libere, e dall’altra parte, attività sistematica dell’intercettazione di quanto è stato prodotto. Nella struttura della lingua dovremo, dunque, distinguere due cose che avvengono nel pensiero, e cioè: il pensiero in attività operativa e poi ancora il pensiero stesso in attività di intercettazione della sua propria attività. La sistematizzazione non riguarda il pensiero in attività operativa, in attività libera, ma l’attività di intercettazione del pensiero da parte di se stesso. Bisogna infatti fare attenzione a non dimenticare (poiché si tratta di una verità fondamentale), che il pensiero esiste rispetto a se stesso solo in quanto è capace di percepire se stesso, e in quanto è dunque capace di distinguere in sé i suoi diversi momenti di attività. Questa percezione [saisie] si identifica con la rappresentazione: essa è la stessa cosa della rappresentazione. (Lezione del 30 novembre 1951)

2

A margine: Di fronte alla materia, obbligo di optare tra forme di intercettazione.

Linguaggio e sistema 119

Problema della filiazione storica dei sistemi e del loro rinnovamento (...) La storia del sistema spazio-temporale delle lingue indoeuropee mostra un andamento che non è stato ancora messo bene in luce. Un sistema si istituisce sulla base di principi primordiali inerenti alla mente umana. Questo sistema, una volta istituito, persiste producendo le conseguenze dovute alla sua natura, conseguenze che il sistema, in un lasso di tempo più o meno lungo, porta ad un certo grado di sviluppo, fino a poter raggiungere livelli massimi, in periodi linguisticamente non perturbati. Ora, il sistema che si sviluppa in questo modo e che chiede solo di potersi completare, è soggetto ad incontrare delle circostanze storiche che lo sbriciolano e ne provocano la distruzione, riducendolo a un sistema passato annullato, e divenendo, per perdita di valore psichico, come un qualcosa che non sia mai esistito. Da qui la necessità, per ricostruire, di non rivolgersi a questo passato decaduto, e di ripartire, in assenza di un’altra base, da principi costruttivi iscritti permanentemente nel profondo del pensiero umano, principi a cui le costruzioni fatte in precedenza hanno fornito una visione relativamente chiara e, allo stesso tempo, una certa esperienza delle combinazioni costruttrici che possono risultare da una loro adeguata interpretazione. Per comprendere con sufficiente precisione la storia dei sistemi successivamente adottati dalle lingue indoeuropee, è necessario rendersi conto che la fine di un sistema istituito provoca il ritorno ad una situazione che non tiene conto di ciò che è stato costruito precedentemente e costituisce, in un certo senso, una nuova partenza, una risalita della mente a dei fatti di pensiero primordiali, già utilizzati mille volte nelle sistematizzazioni realizzate in epoche anteriori. Questo annullamento psichico del già costruito, annullamento che può in alcuni casi diventare quasi totale, è un fenomeno che complica la storia dei sistemi. Ci mette, infatti, di fronte a veri e propri nuovi inizi della costruzione sistematica, tante volte cominciata nel passato e tante volte riuscita. Se ne deduce che, in queste condizioni, sarebbe particolarmente difficile derivare dall’esame dei sistemi un’idea sufficientemente esatta della loro filiazione storica, che a dire il vero viene interrotta ogni volta che un sistema, crollando, provoca, per la

120

Principi di linguistica teorica

sua ricostruzione, il ritorno a principi primordiali, esistenti sin dalle origini più lontane3. (Lezione del 27 gennaio 1944)

2. Carattere sistematico della parola Scoperta del sistema: tecnica di analisi appropriata La parola, in qualunque idioma, costituisce un sistema. La scoperta di questo sistema, cioè del meccanismo costruttivo della parola, riguarda la psicosistematica del linguaggio e la tecnica, molto particolare, che questa nuova parte della scienza del linguaggio si è creata. Lo studio del meccanismo costruttivo della parola nelle lingue indoeuropee fornisce un’idea di cosa sia questa tecnica alla quale abbiamo dato il nome di linguistica di posizione. Nell’applicazione di questa tecnica, infatti, si tratta sempre di rappresentarsi vettorialmente, per così dire, un fenomeno linguistico, cioè di riportarne il dinamismo a un cinetismo vettore, di cui si ha una conoscenza interna per mezzo di tagli trasversali praticati in successione. Questi tagli marcano, nel cinetismo vettore, una serie di posizioni assunte. Da qui, la denominazione giustificata di linguistica di posizione, che nella nostra terminologia viene riservata alla tecnica che utilizza continuamente la psicosistematica. Ricorrendo ai metodi della linguistica di posizione, abbiamo potuto scoprire che cos’è il sistema della parola, non solo nelle lingue indoeuropee, ma, in modo più ampio, nell’universalità delle lingue. Il metodo chiamato linguistica di posizione produce, ovunque lo si applichi, dei risultati notevoli, ed ha il merito di una grande uniformità. 3

Passaggio cancellato: Secondo le lingue, la costruzione elevata partendo da questi principi primordiali, ai quali siamo costretti a ritornare ogni volta che il sistema costruito precedentemente non riesce ad assicurare la sua conservazione, rappresenta uno sviluppo più o meno grande dei suddetti principi ed è questo forse il migliore indizio che abbiamo della loro rispettiva antichità storica.

Linguaggio e sistema 121

Avendo meditato su questo argomento, e sapendo che le operazioni primordiali del pensiero sono l’universalizzazione e la singolarizzazione in successività continuamente alternante, nel caso della parola delle lingue evolute abbiamo potuto riconoscere che la parola è fondata su una particolarizzazione alla quale corrisponde una universalizzazione conclusiva. Da qui lo schema per linee vettrici: Particolarizzazione

Universalizzazione

Questo schema rappresenta l’attività del pensiero che opera in se stesso una intercettazione di quest’attività per il tramite, il solo di cui esso disponga, di tagli trasversali alle linee vettrici. Al primo taglio, che interviene trasversalmente alla prima azione particolarizzatrice, corrisponde la base della parola. Ai tagli successivi, che interessano la seconda operazione, quella universalizzatrice, corrispondono le forme vettrici aggiunte alla base della parola. Un ultimo taglio finale fornirà infine la parte del discorso. Schematicamente, in un modo che mostra bene cosa sia essenzialmente la linguistica di posizione, avremo quanto segue: Particolarizzazione

1o taglio (risultato: parte materiale della parola)

Universalizzazione

tagli transmateriali successivi (risultato: le forme vettrici)

taglio finale: (risultato: la parte del discorso)

Non esiste problema linguistico che non sia chiarito, quasi sempre in modo notevole, nel momento in cui riusciamo a concepirlo in una forma tale da potergli applicare la speciale tecnica analitica costituita dalla linguistica di posizione. La più grande difficoltà che si incontra nell’applicazione di tale tecnica – che, lo ripeto, è uniforme – è quella

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Principi di linguistica teorica

di scoprire la forma vettoriale primordiale del fenomeno considerato. Così, nel caso della parola, occorreva innanzitutto aver riconosciuto che la parola per costruirsi utilizza, nelle lingue evolute, un duplice processo: di particolarizzazione e di generalizzazione. La conclusione o chiusura della parola è riservata alla operazione generalizzatrice di pensiero la quale, essendo un’operazione seconda e finale, fornisce alla parola la sua forma generale: la parte del discorso. Una volta riconosciuta la forma vettoriale primordiale del fenomeno, il resto non presenta più grandi difficoltà: si giunge facilmente alla scoperta di ciò che producono, a seconda delle esistenze di lingua considerate, i tagli trasversali del loro cinetismo vettore. (Lezione del 12 dicembre 1947)

Genesi della parola: materia e forma (...) Finora, non si era riconosciuto che il rapporto tra forma e materia è un rapporto d’ordine, di consecuzione, e nient’altro. La materia è data dal primo movimento della mente per allontanarsi da uno dei suoi limiti invalicabili, e cioè il singolare o l’universale; la forma, invece, è data dal secondo movimento della mente per ritornare alla sua posizione di partenza. Ne consegue che la forma sarà nell’ordine dell’universalizzazione in una lingua che genera i suoi vocaboli a partire dall’universale, da cui comincia con l’allontanarsi, e al quale ritorna quando, attraverso quest’allontanamento, ha ottenuto la particolarizzazione di senso di cui ha bisogno. È questo il caso delle lingue evolute alle quali siamo abituati. La nostra mente, giunta ad un certo grado di potenza astratta, parte dall’universale, si dirige verso il singolare, si ferma lungo la strada al punto di particolarizzazione voluto, e fa seguire questa battuta d’arresto da un ritorno all’universale. È questo ritorno a costituire la forma. Il primo movimento, antecedente, di partenza dall’universale in direzione del singolare, genera la materia. Figurativamente le cose

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si presentano nel modo seguente4: Singolare

Materia

Universale

Forma

La sovrapposizione dei due movimenti direzionali è sensibile, al punto da essere direttamente constatabile in un qualunque semantema del francese. Prendiamo ad esempio il semantema chose [cosa], di senso molto generale. Esso rappresenta, sul fronte della materia un allontanamento minimo dall’universale, seguito da un ritorno, rappresentativo della forma, al punto di partenza. Figurativamente: Singolare

cosa

Universale Materia

Forma

4 Nelle tre figure che seguono, sono stranamente rappresentati i soli movimenti, non essendo riportato nel tempo operativo il loro ordine sistematico di apparizione. Il brano precedente ci invita a comprendere che la seconda operazione (forma) viene innescata al punto di intercettazione della prima.

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Principi di linguistica teorica

Per una parola meno generale, la parola homme [uomo] per esempio, lo schema sarebbe: Singolare

uomo

Universale Materia

Forma

Il movimento generatore della materia è quello che conferisce alla parola, nelle nostre lingue, il suo contenuto significativo iniziale; il movimento generatore della forma è quello che conferisce alla parola in finem il suo carattere di parte del discorso. Nella parola, la parte del discorso è una universalizzazione integrante che chiude la parola, e che rappresenta sempre – essendo l’universalizzazione divenuta insuperabile – una opposizione della visione universale con se stessa. Si giunge così dinanzi alla visione universale insuperabile, che non potremo opporre a niente di susseguente nel movimento che vi ci porta, che vi ci conduce. Resta allora la sola risorsa – non ve ne sono altre – di mettere la visione universale in opposizione con se stessa, lasciandole contemporaneamente la sua universalità. Il risultato sarà una curiosa dicotomia della visione universale che riveste nella mente la forma di due universi antinomici: l’universo-spazio e l’universo-tempo. Ritornerò, per i miei nuovi uditori, sui movimenti di pensiero creatori di questa dicotomia. Le parole delle nostre lingue, nel movimento generatore di forma che le riconduce all’universale da cui ci si è prima allontanati, approdano all’universo-tempo oppure all’universo-spazio. Quando approdano all’universo-spazio esse sono dei nomi; quando approdano all’universo-tempo saranno dei verbi. Nel caso in cui approdano all’universotempo, prendono in finem il segno di categorie di rappresentazione concernenti il tempo, e cioè il modo e il tempo, e in seguito la persona

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ordinale, quella che si declina e cambia di grado. Queste categorie di rappresentazione – modo, tempo e persona ordinale – sono i determinanti apparenti del verbo. Non appena questi determinanti appaiono, la parola sarà un verbo. Nel caso in cui le parole del francese approdano all’universo-spazio, esse prenderanno il segno di categorie di rappresentazione spaziale, e cioè la persona non ordinale (o delocutiva) di terzo grado, il numero, il genere e il caso (che indica in anticipo la o le funzioni di cui la parola è capace direttamente nella frase, senza intervento di una preposizione). (Lezione del 25 novembre 1943)

Operazioni costruttrici della parola: discernimento e intendimento* A partire da un certo momento della loro evoluzione, le lingue hanno avuto universalmente la tendenza a marcare al loro interno la distinzione, sempre più formale e categorica, tra nome e verbo. Questa distinzione linguistica è strettamente legata alla distinzione noologica tra spazio e tempo. Benché la questione sia un argomento profondo di linguistica generale, qualche breve spiegazione potrà valere a metterlo in luce. Ogni semantema è la risultante di due operazioni di pensiero con due finalità opposte: una operazione di discernimento e una di intendimento. L’operazione di discernimento tende ad astrarre il particolare dall’universale: a questa operazione il semantema deve la sua identificabilità. L’identificazione del semantema è funzione di questa operazione astrattiva che estrae il particolare dall’universale. Nel caso di una difficoltà mentale ad eseguire questa operazione primaria – ed è necessario, in linguistica generale, considerare una tale ipotesi – il semantema giungerebbe difficilmente a identificarsi. Una tale diffi* Nel testo francese sono usati i termini discernement e entendement. Nel DTSL troviamo: «Nella sistematica della parola delle lingue indoeuropee il discernement è l’operazione prima di produzione della materia nozionale, che costituisce la ‘base della parola’, per opposizione all’entendement, che è l’operazione seconda di produzione della forma di intercettazione. Il discernimento è anche chiamato ideogenesi e l’intendimento morfogenesi ».

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coltà, se mai è esistita alle origini, è stata superata in ogni caso molto presto, e le nostre lingue testimoniano nel loro lessico della potenza che ha acquisito la mente umana di astrarre dall’universalità del pensabile ogni nozione che desidera poter considerare individualmente. Astrarre il particolare dall’universale, discernere astrattivamente una nozione sottratta dalla massa del pensabile, al fine di consideratla distintamente, è dunque una operazione che la mente umana è attualmente in grado di compiere con facilità e potenza. Questa operazione di discernimento, nelle nostre lingue evolute, viene seguita automaticamente da un’operazione inversa che ne è, in un certo senso, la replica. Il particolare estratto dall’universale viene ricondotto all’universale. Questa seconda operazione non è un’operazione di discernimento che punta a identificare il semantema; non è nemmeno un’operazione di antidiscernimento che abbia lo scopo di disidentificarlo o di disfare, per conseguenza, quello che è stato fatto; è un’operazione di un altro tipo: un’operazione di intendimento che, pur lasciando al semantema l’identificazione che ha acquisito, ha lo scopo di suscitarne nella mente, nell’intelletto, una categorizzazione il più possibile generale, non particolare, e che sarà espressa dalla parte del discorso. Per ottenere questa categorizzazione, che per raggiungere il suo scopo deve essere il più generale o il meno particolare possibile, siamo indotti a ricercare una opposizione che non sia quella tra particolare e universale, ma quella dell’universale con se stesso. Si tratta di opporre l’universale a se stesso attraverso due modi di intendimento differenti, che si escludono reciprocamente, in altre parole, antinomici. Questi due modi di intendimento – la cui genesi mentale resta un’operazione di fatto abbastanza misteriosa, e che ha provocato a più riprese la riflessione dei più profondi filosofi – questi due modi di intendimento antinomici dell’universo sono lo spazio e il tempo. Di conseguenza, possiamo definire il verbo come una parola il cui intendimento si compie nel tempo; e il nome come una parola il cui intendimento si compie al di fuori del tempo, e quindi nello spazio, intendendo per spazio tutto ciò che non è tempo. Ogni semantema di una lingua evoluta è dunque una nozione che, attraverso un’operazione di discernimento, si separa dall’universale,

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e attraverso un’operazione di intendimento – che non ritorna su ciò che il discernimento ha compiuto (questo è un punto importante) – fa ritorno all’universale. Abbiamo quindi come origine psichica della parola, un universo pieno che contiene il particolare da astrarre, e come termine psichico della parola, un universo vuoto, a cui è stato sottratto il particolare. L’universo pieno originale è un universo internamente determinato da ciò che contiene di particolare. L’universo finale sarà un universo che, essendo privo di nozioni, non può essere determinato che in relazione a se stesso. Questa determinazione, cominciata in condizioni puramente formali – essendo l’universo concepito come privo di materia determinabile – termina con l’antinomia universo-tempo e universo-spazio5, antinomia su cui si basa, essenzialmente, la separazione fra nome e verbo. (Lezione del 19 febbraio 1942)

Meccanismo di costruzione della parola nelle lingue indoeuropee (...) Queste leggi consistono nel fatto che la particolarizzazione e la generalizzazione interferiscono tra di loro nella parte prima e materiale della parola, senza che in questa parte prima materiale la generalizzazione possa mai pervenire all’intero, diventare una totalità che approdi all’universale. Infatti, con la particolarizzazione si sviluppa, nella parte iniziale e materiale della parola, una universalizzazione portata il più lontano possibile, ma che, in ogni caso, deve necessariamente restare inferiore alla particolarizzazione, sotto la quale quella universalizzazione si sviluppa. Nel caso di uguaglianza, infatti, la stessa particolarizzazione svanirebbe. In altri termini la base della parola perderebbe la sua esistenza. Nel caso che stiamo trattando, la formula corrispondente alla costruzione della parola nella sua parte iniziale materiale, formula che è 5

A margine: Astrarre l’universale dall’universale.

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bene tenere sempre presente, sarà la seguente: Particolarizzazione =1 –––––––––––––––––––––––––––––– Universalizzazione soggiacente = 1 – q

In altre parole, l’universalizzazione soggiacente, l’universalizzazione sussunta dalla particolarizzazione, deve soddisfare, dovunque e sempre, alla condizione: universalizzazione < particolarizzazione

Così, quando si completa la parte iniziale e materiale della parola, la particolarizzazione si presenta completata, intera, mentre l’universalizzazione soggiacente si presenta incompleta, incompiuta: per compiersi le manca una continuazione, che per realizzarsi cerca dei supporti e li trova nelle operazioni vettrici che conducono alla parte del discorso. Le operazioni vettrici che conducono alla parte del discorso sono, nel sistema della parola, rappresentative di quanto l’universalizzazione ha dovuto allontanarsi da se stessa per non divorare, per non distruggere con la sua azione avversativa, la particolarizzazione iniziata. Consideriamo, quindi, schematicamente, quanto scriverò alla lavagna per meglio fissare le idee: Particolarizzazione

=1

Universalizzazione involuta

= 1–q

Universalizzazione complementare =q Supporto: forme vettrici aggiunte alla BASE DELLA PAROLA

BASE DELLA PAROLA

PARTE DEL DISCORSO

In modo che, in definitiva, una volta costruita la parola, viene soddisfatta una duplice condizione d’integrità che interessa tanto il

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cinetismo particolarizzatore quanto il cinetismo universalizzatore, e cioè: Parte materiale della parola

Parte formale della parola

particolarizzazione = 1 universalizzazione = 1 – q

+q=1

Questa duplice condizione di integrità, secondo la quale ad una particolarizzazione completa deve corrispondere, nel sistema totale della parola, una universalizzazione egualmente completa, è nella parola delle lingue indoeuropee universalmente rispettata. Essa è soddisfatta dappertutto. (Lezione del 12 dicembre 1947)

Morfologia e genesi della parola Tra le due operazioni, quella iniziale di discernimento, produttrice della base della parola, e quella finale di intendimento, produttrice della parte del discorso che chiude la parola, si inseriscono alcune operazioni mediatrici che hanno lo scopo principale di portare l’universalizzazione finale cercata fino al suo termine. Quindi, in modo schematico, la struttura della parola, ovvero il sistema della parola nelle nostre lingue evolute (poiché la parola è in essa un sistema), si può rappresentare così: Discernimento iniziale BASE

DELLA

PAROLA

(idea particolare)

Operazioni mediatrici MORFOLOGIA DELLA PAROLA

Intendimento finale PARTE

DEL

DISCORSO

(universalizzazione finale integrante)

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Principi di linguistica teorica

Le operazioni mediatrici che prendono in carico la transizione tra il discernimento iniziale, che fornisce alla parola la sua materia, e l’intendimento finale, dal quale la parola riceve la sua forma generale, sono delle operazioni indispensabili, senza le quali la parola non potrebbe costruirsi, e di questo diremo in seguito le ragioni. Per il momento ci limiteremo a constatare sperimentalmente la loro esistenza in tutte le lingue composte di parole. Queste operazioni mediatrici inserite tra la base della parola e la parte del discorso, alla quale conducono, consistono universalmente in indicazioni grammaticali che costituiscono la parte formale, quella morfologica, della parola. A questo proposito, meritano di essere presentate alcune osservazioni davvero interessanti in materia. Le operazioni mediatrici che portano la parola dalla base della parola alla parte del discorso, come è riconosciuto unanimemente dai grammatici, sono operazioni formali, ma non costituiscono la forma della parola: il loro effetto è soltanto quello di condurre la parola alla forma costituita dalla parte del discorso. Ne consegue che in materia di forme conviene marcare la distinzione tra le forme finali e conclusive, che costituiscono le parti del discorso, e le forme mediatrici e vettrici, sulle quali il pensiero si appoggia nel suo cammino verso la forma finale. Le indicazioni grammaticali di genere, di numero, di caso o di persona, nel caso del nome, le indicazioni di modo, di tempo, di persona, nel caso del verbo, sono, nella lingua in cui si incorporano alla parola, rappresentative delle forme mediatrici e vettrici incaricate di portare la parola alla sua conclusione formale assoluta. Tali indicazioni preparano questa conclusione, ma non sono questa conclusione, che è costituita, come sappiamo, dalla parte del discorso. Della parte del discorso diremo che è una forma conclusiva. Questa distinzione delle forme vettrici preconclusive e della forma conclusiva della parola è importante, perché ci permette una nuova schematizzazione pratica della genesi formatrice della parola. Questa schematizzazione è la seguente:

Linguaggio e sistema 131

MATERIA

(base della parola)

+

FORME

FORMA

VETTRICI

CONCLUSIVA

preconclusive

(parte del discorso)

Le forme vettrici preconclusive, oltre alla loro significazione propria, significano nella parola, attraverso la loro posizione, un allontanamento dalla materia in direzione della forma. Fare questa constatazione significa riconoscere, implicitamente, che esse si tengono nella parola al di qua della forma pura, che è la forma finale. In altri termini, significa riconoscere che, per quanto siano formali, le forme vettrici preconclusive che la parola incorpora, conservano in sé qualcosa di materiale, di preformale. Di assolutamente formale, senza niente di materiale in sé, c’è solo la parte del discorso, conclusiva rispetto alla parola di cui essa interrompe lo sviluppo. Questo ha, sul piano semiologico, delle conseguenze sulle quali conviene fermare l’attenzione. Le forme vettrici preconclusive, non essendo completamente prive di materia contenuta, sono soggette ad avere nella lingua una rappresentazione materiale, un segno rappresentativo, un marchio. Il genere, il numero, la persona, il modo, il tempo, in una lingua come il francese, sono resi da un segno materiale. Non è la stessa cosa, nel caso della forma conclusiva costituita dalla parte del discorso. La parte del discorso non ha segni rappresentativi propri, in francese come in altre lingue. Per stabilirli nella mente in ultima istanza, quando la parola è completata, essa ha dei determinanti in seguito ai quali la parte del discorso compare, e dei quali è corretto dire che ne suscitano la sopravvenienza; è opportuno però insistere sul fatto che la parte del discorso non è materialmente rappresentata. Essa non si produce esplicitamente, attraverso dei segni propri, ma implicitamente, al termine di una serie di vettori determinanti che ne provocano insieme la sopravvenienza ma che, né separatamente né riuniti, la rappresentano. (Lezione del 5 dicembre 1947)

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Principi di linguistica teorica

Un operatore di struttura: il tensore binario radicale (...) Per completare l’analisi bisogna solo sapere in cosa consista il meccanismo di potenza della mente umana. Si tratta di una conoscenza che, in attesa di poter progredire sul piano analitico, possiamo ottenere a priori, senza eccedere nell’interpretazione, attraverso i mezzi ordinari della riflessione. A questo scopo, partiremo dall’idea, evidentemente fondata, che il pensiero trae la sua potenza dalla capacità che ha di particolarizzare e generalizzare. Privato di questa duplice attitudine, che costituisce un’unità (un’unità internamente binaria), il pensiero umano sarebbe privo di forze e inoperante. Ora, se di queste due operazioni, particolarizzazione e generalizzazione, dalle quali il pensiero trae la sua potenza, consideriamo astrattivamente solo quanto esse comportano di meccanico, queste si ridurranno a due movimenti di pensiero, uno che va dall’ampio verso il ristretto (inerente alla particolarizzazione) e l’altro che va dal ristretto verso l’ampio (inerente alla generalizzazione). Una riduzione astrattiva che riportasse questi movimenti alla simbologia aritmetica, rappresenterebbe la particolarizzazione come un movimento che va dal più al meno e la generalizzazione come un movimento che va dal meno al più. Il meccanismo di potenza del pensiero è l’addizione senza ricorrenze, senza ritorni indietro, di due tensioni: una tensione I che chiude, e progredisce dall’ampio al ristretto, e una tensione II che apre ad infinitum, e progredisce dal ristretto all’ampio. Figurativamente avremo: ristretto tensione I ampio 1

tensione II ampio 2

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A questo meccanismo di potenza, in questo lavoro, abbiamo dato il nome pienamente giustificato di «tensore binario radicale» 6. (Estratto da un inedito incompiuto, Essai de mécanique intuitionelle. Data approssimativa, 1951).

Un determinante della specie della parola: l’incidenza Una parola provvista di una significazione materiale, una parola che è un semantema, non contiene solo delle indicazioni relative alla sua significazione fondamentale: essa contiene anche delle indicazioni relative all’impiego a cui si destina, a quello più o meno limitato che prevede per se stessa, ed è nel campo di questa previsione che la parola si delimita e determina la propria specie. La parola si limita limitando in sé il destino che si attribuisce in previsione. Prendiamo ad esempio, per meglio fissare le idee su questo punto capitale, l’infinito del verbo marcher [camminare]. Esso ha una significazione che è quella di un’azione, di un processo; ma facciamo ben attenzione: questa è solo una piccola parte di ciò che contiene in sé. Il suo potere di contenere, il suo potere di enessia*, si estende infatti a tutto ciò a cui si destina7. Un verbo all’infinito come marcher comincia col prevedere il suo intendimento nel tempo, e questa previsione si traduce, tramite la sua appartenenza, ad un modo che indica la sua attitudine a prendere il segno del tempo. Questo modo è, in questo caso, l’infinito. Materialmente, l’idea è la stessa in marche [cammino o cammina] e in marcher, con la differenza che marcher prevede una coniugazione temporale che marche, invece, pur avendo la stessa comprensione, ha appunto la 6 Questo tensore è spesso facilmente riconoscibile nelle lingue indoeuropee (in particolare nell’articolo e nel numero, come pure nella forma generale della parola). * Nel testo francese è usato il termine énexie. Nel DTSL troviamo: «Termine forgiato da Guillaume a partire dal verbo greco eneksô (“conservare”, “detenere”), per designare un fenomeno di trattenimento». 7 Frase cancellata: Comporta una previsione limitata ad alcune applicazioni, e contemporaneamente comporta l’esclusione in forma di previsione delle altre applicazioni, estranee a quelle di cui contiene la previsione positiva.

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particolarità di escludere. Da un certo punto di vista, quindi, marcher è ben lontano dall’essere equivalente a marche. La previsione inclusa nelle due parole non è la stessa rispetto alla facoltà di prendere il segno del tempo. Questa facoltà è inesistente per marche, ed è invece molto sviluppata per marcher. Ma la previsione d’effetto o, se si preferisce, di impiego che è collegata ad una parola, non riguarda solo la possibilità che la parola si concede di farsi alla fine ascoltare nel tempo o nello spazio, ma riguarda anche le altre modalità di applicazione tra le quali figura quella che io chiamo l’incidenza in sé o al di fuori di sé. È una proprietà che i grammatici finora, e bisogna dolersene, non hanno mai rilevato: eppure si tratta di una di quelle proprietà che contribuiscono più direttamente a determinare la specie della parola. È del tutto evidente che il sostantivo e l’aggettivo, che insieme costituiscono la parte del discorso chiamata «nome», si distinguono tra loro per un diverso meccanismo di incidenza. La caratteristica dell’aggettivo è di non essere incidente a se stesso, ma ad un supporto di cui non importa la previsione concreta. L’aggettivo profond [profondo], ad esempio, potrà dirsi di ogni tipo di supporto al quale il discorso lo renderà incidente in modo momentaneo, perché tutto ciò che produce il discorso è legato alla momentaneità; così come tutto ciò che appartiene alla lingua sfugge alla momentaneità. Il fatto di lingua è dotato di permanenza. Il fatto di discorso è un’utilizzazione momentanea di ciò che la lingua contiene in termini di permanenza e di capacità di previsione. Per quanto riguarda l’aggettivo profond, e in generale ogni altro aggettivo, questo implica a titolo permanente la previsione di una incidenza a qualcosa di diverso da sé; ed è questo che ne fa, in buona misura, un aggettivo. La parola profondeur [profondità], che è un sostantivo, offre invece, a titolo permanente, la previsione di un’incidenza che non andrà al di là di quello che la parola significa, o per dirla nei termini così precisi di scuola, al di là di quello che essa connota. Il verbo marcher, nella forma dell’infinito, è una forma del verbo che prevede, in modo permanente, l’incidenza del verbo a quello che significa e, di conseguenza, un’incidenza identica a quella del sostantivo. È questa identità di incidenza che permette di considerare l’infinito come la forma nominale del verbo. Quando dico: La marche me fatigue [la camminata mi stanca], marche è un semantema che non

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è detto da un altro semantema, rappresentato da un nome o da un pronome, ma che si dice da solo, fornendo così contemporaneamente l’apporto di una significazione e il supporto della significazione portata. Per una parola, qualunque essa sia, il fatto di poter, per la significazione che porta, trovare un supporto senza dover uscire da questa significazione, in altri termini, il fatto di non trasferire la sua significazione a un supporto preso al di fuori di se stessa, è sufficiente perché essa si presenti sotto l’aspetto di un sostantivo. Quando dico: Le vrai seul est aimable [solo il vero è da amare], la parola vrai porta una significazione, e questa significazione portata trova un supporto senza che vi sia bisogno per la mente di portarsi fuori di essa. La conseguenza è che la parola vrai diventa nell’uso un sostantivo. Quando dico: Un saint trouve sa joie dans la pauvreté [un santo trova la sua gioia nella povertà], ottengo ancora un sostantivo, partendo da una parola che è un aggettivo, perché faccio in modo di darle un supporto senza uscire fuori da ciò che significa. Ma questa volta il supporto trovato, nell’ambito di quello che la parola saint connota, cioè significa, non è quello di una estensione dell’idea a tutto ciò che essa abbraccia, ma di un’antiestensione, di una singolarizzazione che le dà come assetto una ristretta immagine individuale. Analogamente, si può affermare che un aggettivo è una parola che, nella lingua, fa prevedere la sua incidenza ad un supporto preso al di fuori di ciò che significa, ma che eventualmente, nell’uso che il discorso ne fa, può trovarsi un supporto senza uscire da quello che significa, e in questo caso, automaticamente, l’aggettivo diventa sostantivo. La marche me fatigue et Marcher me fatigue sono due frasi che ci mostrano una parola che trova il suo supporto nell’idea che essa esprime, che essa porta. Ma vi è questa differenza: la parola marche scarta a priori ogni intendimento finale nel tempo che le conferirebbe il potere di prenderne il segno, mentre marcher, non meno incidente di marche ad un supporto appartenente alla propria significazione, presenta invece questa capacità di annunciare, di prevedere per se stessa un intendimento finale nel tempo, di cui si prepara ad assumere il segno. Dall’infinito al sostantivo, c’è dunque identità se si considerano le cose dal solo punto di vista dell’incidenza, che in entrambi i casi è interna alla significazione, ma c’è differenza per quanto riguarda

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Principi di linguistica teorica

l’intendimento finale della parola che per marche si opera al di fuori del tempo e per marcher nel tempo. Questa differenza è di un’importanza tale da impedire all’infinito di rientrare nella categoria nominale. L’infinito resta una posizione presa dalla mente nella categoria verbale di cui, all’uscita immediata dalla categoria nominale, esso rappresenta l’apertura. (Lezione del 13 gennaio 1944)

Incidenza interna e incidenza esterna E nell’incidenza interna che il sostantivo si distingue dall’aggettivo, la cui incidenza è esterna alla significazione portata dalla parola. Servirsi, ad esempio dell’aggettivo beau [bello], significa fare appello a ciò che significa, non a proposito di un essere che questa significazione comprende, ma a proposito di un essere che questa significazione non comprende e per la cui designazione questa significazione è in sé inoperante. Da ciò deriva la possibilità di qualificare con l’aggettivo beau ogni specie di essere, senza limitazione sensibile: un beau travail, un beau livre, un beau paysage, un homme beau, ecc. [un bel lavoro, un bel libro un bel paesaggio, un uomo bello]. Che l’incidenza di beau sia esterna alla significazione stessa di beau, è messo in perfetta evidenza da questa facilità di trasferimento a dei supporti tanto diversi fra loro. Un tale trasferimento a supporti di ogni tipo è impossibile nel caso di un sostantivo, la cui capacità di applicazione, l’attitudine incidenziale, non esce al di fuori della significazione portata. Uomo può dirsi solo per gli esseri appartenenti alla collettività che questa parola sussume. L’incidenza non esce fuori dalla collettività sussunta. Del resto, basta fare in modo che l’aggettivo beau abbia la sua incidenza a ciò che significa, e sia concepito nei soli limiti di questa incidenza, affinché d’un sol colpo ci si trovi in presenza di un sostantivo. In termini più generali, con l’aggettivo il supporto possibile supera l’apporto; con il sostantivo questo superamento è impossibile. Nell’esempio Le beau est un second visage du vrai [il bello è un secondo aspetto del vero], beau è una riapplicazione dell’apporto di beau a se

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stesso. L’apporto è diventato supporto: in questo caso, beau non è più sentito come incidente ad ogni tipo di essere, per incidenza esterna, ma incidente, per incidenza interna, alla propria significazione. In ogni parola, qualunque essa sia, possiamo quindi distinguere due operazioni di pensiero consecutive e legate: a. l’apporto di significazione; b. il trasferimento della significazione apportata ad un supporto, e per quanto riguarda questa seconda operazione, si possono verificare due casi: 1. quello in cui il supporto si trova compreso nella significazione apportata; 2. quello in cui il supporto non si trova compreso nella significazione apportata. La persona è in fondo, dovunque e sempre, il supporto al quale è riferita la significazione portata dalla parola. E una parola porta con sé la nozione di persona logica solo nella misura in cui la significazione portata reca con sé un riferimento al supporto. È il riferimento al supporto che fa la persona, la persona logica. Questo vuol dire che la persona logica è presente nel sostantivo e può essere considerata assente nell’aggettivo. Infatti, con il sostantivo c’è apporto di significazione e la significazione portata trattiene l’incidenza, cioè l’applicazione al supporto, nei limiti che sono quelli dell’apporto, dal quale non si esce. Analiticamente, abbiamo dunque a che fare con un termine che, provvisoriamente, costituisce una relazione tra apporto e supporto, con la presenza del supporto che porta con sé quella della persona. Con l’aggettivo, come accade con il sostantivo, c’è un apporto di significazione, ma rispetto a questo apporto, la ricerca del supporto resta incondizionata. L’aggettivo può essere detto, incondizionatamente, per ogni tipo di supporto. Se ne conclude, senza tema di smentita, che l’aggettivo non porta con sé nessuna determinazione di supporto, e conseguentemente nessuna determinazione di persona logica. Partendo da questi ragionamenti e corroborati quanto alla loro giustezza dall’uso di questi due tipi di parole, siamo portati a vedere nel sostantivo una parola che soddisfa alla seguente condizione:

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Principi di linguistica teorica apporto significativo

––––––––––––––––––––––––––––––––––– persona logica positivizzata

e nell’aggettivo, una parola che soddisfa a quest’altra condizione: apporto significativo

––––––––––––––––––––––––––––––––––– persona logica negativizzata

Nell’aggettivo non c’è condizione di supporto: ce n’è una nel sostantivo. (Lezione del 4 giugno 1948).

Sistema della parola e sistema dell’articolo Il nome-articolo è una parte del discorso storicamente tardiva. Il che è comprensibile: l’articolo termina l’endogenia delle parti del discorso, che è storica (duratura, più o meno lenta o più o meno rapida) prima di essere sistematica (istantanea nel pensiero del soggetto parlante). Ritroviamo in questo caso la distinzione tra tempo storico e tempo operativo. Quest’ultimo porta la proiezione, su dimensioni piane omogenee, di un processo iniziato precedentemente e condotto su dimensioni eterogenee e profonde. L’operazione si manifesta, alla fine, come risultato, come un risultato che riproduce, istantaneizzandolo, il sistema operativo. Il tempo detto tempo operativo, in linguistica strutturale psicosistematica, è quello che porta questa manifestazione di una certa complessità. Questa comprende in sé dei processi che troveranno qui la loro manifestazione. La complessità del fenomeno linguistico, poiché implica in ciò che viene risolto la ripetizione dei processi di risoluzione, è di ostacolo ad una descrizione sintetica del fenomeno e costringe a presentarlo in momenti successivi di se stesso e in momenti di questi momenti, presentati attraverso profili. Vi è qui tutta una geometria di proiezione, in compimento nel profondo del pensiero umano, che fa parte della

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meccanica intuizionale di cui le strutture di lingua, che la riproducono al loro interno, sono in qualche modo lo specchio. Non ne sapremmo niente se non sapessimo vederla qui. Ora, di questa geometria intuizionale il linguaggio (motu proprio va verso l’utile, verso il necessario sufficiente) non ci dà una visibilità radicale, ma la traduzione di questa visibilità in dicibilità. Il soggetto parlante non ha bisogno di saper dire il meccanismo del verbo, quello dei modi e dei tempi: gli è risparmiata la fatica di farlo vedere. L’economia del linguaggio – che tale è davvero – richiede numerose riflessioni che, quando saranno espresse, avranno un carattere di grande novità. Il linguaggio presuppone l’intercettazione, attraverso la visione mentale, di un’attività mentale; ma di questa visione il linguaggio ha la necessità di produrre soltanto una dicibilità efficiente nella quale tradurre quella visione e che spetta al linguista, per spiegarne l’efficienza, ritradurre nella sua visibilità radicale. È compito del linguista, ed è anche il suo merito oltre che il suo strumento scientifico, ritradurre – saper ritradurre – in visibilità, sotto l’aspetto di figure esplicative, ciò che il linguaggio esprime direttamente solo come dicibilità efficiente, senza l’intervento dell’analisi. Leggendolo, sembra proprio che Leibniz sia stato sensibile a questa differenza tra il mentale visibile, o primo, e il mentale dicibile, o secondo, l’unico riscontrabile nel linguaggio umano. Da qui il suo prezioso consiglio, di pensare in figure. «Le cose si ostacolano, le idee non si ostacolano affatto». Le figure sono ancora delle cose, ma esse sono qualcosa di meno dei segni che il linguaggio usa per l’esteriorizzazione della sua interiorità. Pensare in figure significa attenuare fortemente l’ostacolo delle cose. Ma la figura corretta di cui si ha bisogno richiede, per essere evocata, una mediazione controllata, condotta con sottile rigore. Il rischio di costruire false figure è fondato. Rischio che diminuisce sensibilmente quando si sia costretti a partire, nella costruzione di figure, da punti di vista elementari, di grande semplicità e che esprimono esigenze di grande plausibilità. La psicosistematica del linguaggio ha una sua validità sia per i risultati positivi ottenuti che per la qualità dei suoi punti di partenza radicati in ciò che è del tutto plausibile, nel plausibile fuori discussione: ad esempio nel fatto che l’uomo abita l’universo e, di conseguenza,

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senza rompere la catena delle plausibilità, nel fatto che appartiene all’universo all’interno del quale abita, e che conquistarvi la propria autonomia significa appartenere meno all’universo, mentre fare l’universo significa, in proporzione, appartenergli di più. Per far questo lo strumento è di opporre all’universo in cui l’uomo abita, un universo che abita in lui, di cui l’uomo pensante è divenuto il luogo. Quest’universo è la lingua, fatta di idee guardanti, trasformabili in idee guardate. L’articolo è un agente motore di questa trasformazione secondo la quale il virtuale che guarda è promosso alla realtà del guardato. L’articolo è nel linguaggio umano una piccola parola realizzatrice, il cui non-impiego sarà di conseguenza un fattore di non-realizzazione. Di prove – la scienza non vive di verità, ma di prove – possono esserne facilmente prodotte in francese, lingua molto sistematizzata dall’interno, straordinariamente sistematizzata, cosa che ne rende prezioso lo studio in linguistica strutturale. Le lingue poco sistematizzate ci forniscono poche informazioni su quanto può la sistematica linguistica: paragonate alle lingue molto sistematizzate, esse ci istruiscono su quello che le lingue accolgono in sé in termini di non-sistematizzazione. La sistematizzazione linguistica è osservabile ai massimi livelli nelle grandi lingue moderne di origine indoeuropea e questo conferisce loro un interesse particolare in linguistica strutturale. A questo proposito bisognerà ricordare che non è il meno sistematizzato che spiega il più sistematizzato, ma il più sistematizzato che spiega il meno sistematizzato (...). Dicevo prima che l’articolo è un realizzatore e avanzavo la ipotesi di una prova facile e immediata a sostegno di questo. Eccola. Pas et point [passo e punto] sono delle cose molto piccole, delle parole collettrici di un’impressione di piccolezza. Esempio: Vous n’avez avancé que d’un pas [avete progredito solo di un passo], cioè di pochissimo, di un pochissimo di cui, nonostante la sua piccolezza, viene affermata la realtà, grazie all’articolo: un pas, una distanza, molto poco reale tra due punti consecutivi molto vicini. Al limite si tratta di una realtà precaria. Se tolgo l’articolo realizzatore, questa realtà precaria, di cui l’articolo consente la conservazione, sparisce. Contemporaneamente, il sostantivo pas diventa, per mutazione mentale sistematica, una negazione. Esempio: Vous n’avez pas avancé [non avete progredito]. Oppure ancora, per un richiamo

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supplementare che denuncia l’assenza della piccola quantità reale, si avrà: Vous n’avancez pas d’un pas [non avete pogredito di un passo]. Ciò che abbiamo detto per pas vale ne varietur per il suo corrispettivo, per la sua replica mentale costituita dalla parola point, come per altre parole di uso meno frequente, che portano con sé l’idea di piccolezza al limite della grandezza decrescente. Le parole pas e point rappresentano non tanto la piccolezza fissata, quanto la grandezza decrescente, di cui l’articolo, se è applicato loro, sospende la decrescenza e ne fa una piccolezza fissata. Esempio: Il n’y faut ajouter qu’un point; Il n’y faut point ajouter [bisogna aggiungervi solo un nonnulla; non bisogna aggiungervi niente]. Un’altra parola che, a causa della sua insufficienza qualitativa e non quantitativa, ha bisogno dell’articolo per evocare una realtà, è la parola personne. Esempio: Une personne est venue qui vous a demandé; Personne n’est venu; Personne ne vous a demandé [è venuta una persona a chiedere di lei; non è venuto nessuno; nessuno ha chiesto di lei]. Non è difficile ricostituire il processo psicosistematico in questione. Essendo debole la sua potenza designativa, la parola personne significa n’importe qui [chiunque, una persona qualunque] sottoposta però al processo di concretizzazione che è prodotto dall’articolo. Tolto l’articolo, la parola significherà sempre n’importe qui ma nella irrealtà, significherà cioè personne [nessuno]. Assistiamo a dei giochi sottili di quantità di movimento, che hanno non poche similitudini con i giochi di quantità di movimento osservabili in fisica. L’articolo deve la sua potenza realizzatrice al fatto che, privato della sostanza nominale, ha conservato in sé il cinetismo del nome. Il nome è una combinazione di movimento, grandezza e forma. Il diagramma che ne illustra la combinazione è quello che scriverò alla lavagna, non trascurando niente di ciò che lo costituisce: Sostanza materia (l’idea di base del nome) U1

Sostanza forma (le indicazioni di numero, di genere, ecc.) 1

Tensione I (singolarizzante)

S2

U2 Tensione II (universalizzante)

come risultato: la forma nominale

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Questo risultato della forma nominale procede e risulta dalla sostanza-forma che vi ci conduce e che, conducendo a tale forma, ne è serialmente il determinante, grazie alle indicazioni grammaticali che enuncia. La forma nominale risulta da questo movimento che va verso la definizione di una forma e che è l’effetto di una serie di indicazioni grammaticali che agiscono serialmente in quanto tali. D’altra parte le stesse indicazioni grammaticali appartenenti alla sostanza formale sono una per una individualmente complementari alla materia nominale, della quale sono degli attributi: ne dicono il numero, il genere, ecc. Tuttavia, le indicazioni grammaticali possono essere complementari alla materia nominale solo in quanto questa esiste. Se quindi elimino la materia nominale, il loro ruolo di attributi di questa cesserà di esistere, e la sostanza formale conserverà solo il suo ruolo seriale di determinante della forma nominale. Un grafico che volesse tener conto dei due ruoli della sostanza formale, potrebbe ricondurla a due linee vettrici differenti e sovrapposte: una linea indicherebbe l’accesso alla categoria nominale e una linea sottostante indicherebbe il ruolo di complementarità, rispetto alla materia nominale, assegnato alle indicazioni di numero, genere, funzione. Avremmo così in figura, per la sostanza formale:

sostanzaforma

(1) determinante seriale della categoria nominale

(2) complementarità della sostanza materiale8

Stabilito questo, se tolgo dal nome la sostanza-materia generata in tensione I, da U1 a S1, non si pone più la questione di una complementarità di questa materia e la linea (2) della sostanza-forma svanisce. Resta la sola linea (1) che, slegata dalla sua relazione, e a causa della 8

A margine: Due livelli (il livello sostanza, il livello forma).

Linguaggio e sistema 143

identità delle indicazioni grammaticali portate, prende posizione come determinante di categoria al di fuori del sistema nominale, ridotto a meccanismo delle sue due tensioni: in questo modo diventa un nomearticolo. Poiché è possibile fare un conto esatto delle operazioni costruttrici che intervengono, avremo così, per la composizione interna dell’articolo, quanto segue: Tensione I U1

Tensione II 1

(assenza di sostanzamateria)

S2

U2

(assenza di sostanza-forma in complementarità della sostanza-materia – linea (2) –, ma sostanza formale conservata come determinante della categoria nominale – linea (1)).

L’articolo si trova con ciò ad essere costruito. Non manca niente e si capisce che, benché privo di sostanza, l’articolo porti con sé in fine l’apparenza formale del nome. La sostanza formale del nome è, nel nome-sostantivo, la semiologia di due cose: a. la complementarità della sostanza-materia, dichiarata singolare o plurale, maschile o femminile; b. la conduzione della parola alla categoria nominale (che è ciò per cui essa è nome). Nel nome-articolo, una volta conservata la sostanza del nome, non vi è più che la semiologia di una sola cosa, la seconda: quella del movimento che questa porta con sé in quanto accesso della parola alla categoria nominale. Bisogna aver analizzato questo meccanismo per comprendere davvero – e la linguistica insegnata qui è un vedere di comprensione – che il numero e il genere già indicati nel nome vengono di nuovo indicati nell’articolo, e per questo si stabilisce tra loro un accordo in numero e genere, accordo che non è quello di un aggettivo con il nome, ma di un sostantivo provvisto di sostanza con un altro sostantivo, l’articolo, privo di sostanza. Numerosi grammatici, tra i quali Grevisse in Le bon usage, preoccupati di una corretta classificazione delle parole secondo la loro specie,

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hanno commesso l’errore di tendere a vedere nell’articolo una sorta di aggettivo, sottomesso alle regole di accordo dell’aggettivo con il sostantivo. È una cattiva valutazione. L’articolo non aggettiva il nome: non ne indica alcuna qualità. E l’accordo che interviene tra l’articolo e il nome è, in relazione a quello dell’aggettivo con il nome, un accordo inverso. Non è l’articolo, infatti, che si dice del nome, ma il nome che si dice dell’articolo. Di questo fatto tutti hanno una percezione, e ciò si traduce, infatti, nella domanda quoi? [cosa?, che?], posta dopo l’articolo, nel caso in cui abbiamo sentito male il nome. La domanda quoi? viene formulata a volte anche quando il nome è un nome inusitato che il soggetto che ascolta ritiene di dover far ripetere, per bisogno di una maggior precisione. Mi è accaduto di dire: Il en resulte une chronothèse [ne risulta una cronotesi] e di sentirmi rispondere: une quoi? [una che?]. Davanti ad un nome che rifiutiamo di ammettere, porremo dopo l’articolo la domanda quoi?. Così, nel rapporto sostantivo-articolo bisognerebbe dire che è il sostantivo ad aggettivare l’articolo. La sostanza propria dell’articolo è una o l’altra delle due tensioni: ma in quanto tale una tensione non ha né numero né genere. Da ciò deriva che l’articolo enuncia un numero e un genere che non hanno relazione con il proprio contenuto e che esso richiama un contenuto che non ha, il quale appartiene al nome che viene annunciato dall’articolo. Questo meccanismo operativo attira l’attenzione per la sua elegante economia. Il numero e il genere dell’articolo – non contenendo quest’ultimo una sostanza che possa avere genere e numero – sono nel discorso, nella frase, il richiamo di una sostanza che sarà fornita dal nome-sostantivo. (Lezione del 7 marzo 1957).

Potenzialità e realtà nel linguaggio (...) Il linguaggio umano, appena esistito (la questione della sua origine non è in alcun modo presa in considerazione), scopre di avere due vocazioni, di cui una è di farsi lingua e l’altra di farsi discorso.

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Si fa lingua quando tende verso la potenza: si istituisce e in questo modo si svincola dalla condizione di momento; si fa discorso quando tende in direzione dell’effetto: si presenta allora non istituito, ma vincolato e assoggettato alla condizione di momento. Non svincolato dalla condizione di momento, e dunque come discorso, il linguaggio si presenta con l’aspetto di una realtà intermittente, alternativamente presente o assente, essendo l’assetto della rappresentazione, in questo caso, la discontinuità. Svincolato invece dalla condizione di momento, e dunque divenuto lingua, il linguaggio si presenta con l’aspetto di una potenzialità incessantemente presente, mai assente, essendo l’assetto della rappresentazione, in questo caso, la continuità. In linguistica strutturale nessuna condizione è più importante della condizione di momento: il permesso di soddisfarvi fa il discorso, la proibizione di soddisfarvi fa la lingua. Mentre il discorso limita la sua presenza ai momenti separati da intervalli irregolari più o meno estesi e segnati nell’estensività del tempo dall’intervento della parola (esterna e corporea o interna e incorporea), la lingua, dal canto suo, abita continuamente l’uomo pensante al quale – senza condizione di momento e senza poterne revocare la presenza in sé – porta dei mezzi per esprimere, se a lui sembra il caso, ciò che ha momentaneamente concepito. Il discorso deve alla sua discontinuità interna, al contrasto di presenza e assenza che comporta, la facoltà di rappresentare nell’uomo pensante un’attività volontaria, prodotta all’esterno di ciò che di non controllato esiste in natura, per quanto possa essergli all’inizio vicina. La lingua, invece, deve alla sua continuità interna, che esclude il contrasto di presenza e assenza, la facoltà di rappresentare nell’uomo pensante un’attività involontaria, trattenuta all’interno di ciò che di non controllato esiste in natura, per quanto possa essere pronta ad allontanarsene. Che sia lingua, nell’al di qua dell’apertura del cosciente, o discorso, nell’al di là di questa apertura, il linguaggio rileva nella mente umana una scienza della rappresentabilità che va, attraverso una creazione continua durata millenni, verso uno stato superiore di definizione, raggiunto storicamente dagli idiomi più diffusamente studiati. Questo studio mostra che la scienza della rappresentabilità è intenzionalmente

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aderente, tramite psicomeccanismi costruttori, a due postulati di rappresentazione, di cui uno è il fundamentum dell’ideazione nozionale e l’altro il fundamentum dell’ideazione di struttura. In questi idiomi, tutti già molto evoluti in epoche antiche, le due ideazioni, quella nozionale, primordiale, e quella strutturale, transprimordiale, si sovrappongono ed è impossibile, in greco antico come in francese, ad es., evocare la nozione «uomo», senza evocare allo stesso tempo la struttura di sostantivo. L’ideazione nozionale è un discernimento che, per quanto generali siano le idee concepite, ne fa vedere la singolarità e attribuisce loro, in un certo senso, un nome proprio: l’ideazione strutturale è invece un intendimento che, avendo trasceso il discernimento, conosce le idee concepite solo in quanto sono nell’universale. La sovrapposizione delle due ideazioni, la nozionale e la strutturale, obbligata e immediata nelle lingue indoeuropee, è obbligata ma assolutamente non immediata nelle lingue semitiche in cui un tempo separativo, quanto mai breve e quasi riducibile alla nullità, si iscrive tra l’ideazione nozionale significata dalla radice consonantica9 e l’ideazione di struttura significata dalla vocale morfologica, e complementarmente dagli affissi. Tale sovrapposizione delle suddette due ideazioni non è, tuttavia, una necessità del linguaggio ed esistono idiomi, edificati sulla base del solo postulato primordiale di rappresentazione in cui, come accade in cinese, l’ideazione nozionale basta per tutto. Nella ideazione di struttura, che in molti idiomi, imparentati o meno fra loro, si trova sovrapposta alla ideazione nozionale, si potrebbe fondatamente riconoscere un’algebra della rappresentazione linguistica che, paragonabile in questo all’algebra dei matematici, farebbe come quest’ultima capire molto e vedere poco (H. Poincaré). I postulati di rappresentazione, sulla base dei quali si identifica il linguaggio, sono stati individuati e raffigurati in un’altra lezione con linee e punti. Scaturiti da una discussione incessante e sottile sul rapporto inseparabile dalla visione delle cose, quello tra la grandezza

9 Nelle lingue semitiche la radice non può essere detta: può solo essere scritta. La portata storica e sistematica di questa osservazione non dovrebbe sfuggire.

Linguaggio e sistema 147

e la forma, questi postulati della rappresentazione linguistica, la cui specifica caratteristica è di preesistere nello spirito ad ogni iniziativa della ragione, sono più vicini all’intuizione e più semplici di quanto non siano, e non possano essere, quelli già più gravati di logica implicita, sui quali poggiano le geometrie del ragionamento (...). (da l’«Annuaire de l’École pratique des Hautes Études», 1955, pp. 53-55).

VI. Pensiero e linguaggio

Linguaggio e operatività Ai miei uditori non sarà sfuggito – e spero che questo non li abbia stancati – l’uniformità del metodo che utilizzo nell’analisi dei fatti grammaticali del francese. Il principio che governa le mie ricerche, sempre lo stesso e di un’assoluta monotonia, è che la lingua è composta da risultati dietro i quali si tratta di scoprire l’operazione di pensiero creatrice che rende ragione delle cose. In altre parole, la regola d’oro che guida qui i nostri lavori, è la conversione del risultato constatato in processo, in processo genetico. Così, al sostantivo che è nella lingua una cosa visibile, un risultato, abbiamo opposto il processo, necessario e antecedente, della sostantivazione; e all’aggettivo, anche lui visibile e anche lui ritenuto un risultato, il processo di aggettivazione. La chiarezza non trascurabile che abbiamo ottenuto sulla questione molto delicata dei rapporti di posizione e di senso tra aggettivo e sostantivo, è stata dovuta interamente alla pratica sistematica del metodo che consiste nel mutare il risultato in processo, un metodo affatto personale, che ha dato risultati positivi in numerose altre questioni (alcune di un’importanza capitale) e a cui, man mano che i nostri studi proseguono, accordiamo un credito sempre maggiore. Ci accade tuttavia, a volte, per la persistenza residuale di vecchie abitudini, di voler esaminare direttamente i fatti, i risultati, senza fare la fatica, spesso considerevole, di mutarli analiticamente in processi. Ma ogni volta ce ne pentiamo e ci rammarichiamo del tempo perduto.

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In effetti, tutto nella lingua è processo. E i risultati che constatiamo sono, se posso esprimermi così, una specie di trompe-l’oeil. Non esistono sostantivi: nella lingua esiste una sostantivazione intercettata più o meno presto. Non esistono aggettivi, esiste un’aggettivazione, più o meno avanzata in se stessa nel momento in cui la mente la intercetta. Non esistono parole, esiste una genesi straordinariamente complicata della parola [mot], una lessigenesi*. Non esiste il tempo, esiste un fenomeno di formazione dell’immagine-tempo – la cronogenesi – al quale bisogna risalire se si vuole capire qualcosa della sistemologia** dei modi e dei tempi del francese (...). (Lezione del 18 marzo 1943)

Substrato operativo di ogni sistema linguistico Con queste spiegazioni che ricapitolano cose già esposte, dando loro una più grande profondità, mi sono proposto soprattutto di mettere in luce, esaminando fatti particolari, due grandi principi costruttivi che voi adesso conoscete, e cioè: a. quello della potenza, cioè della possibilità, che il pensiero ha di intercettare, sezionare i suoi stessi processi, per prenderne dei profili; b. quello della persistenza nelle esistenze di lingua del carattere che esse conservano della loro origine psicosistematica. Questi due principi che riguardano la psicogenesi di tali esistenze sono, com’è ovvio, di una importanza capitale per il ricercatore. Quando dobbiamo spiegare un fenomeno linguistico, niente è più prezioso del sapere a priori che questo fenomeno potrebbe essere un * Nel testo francese è usato il termine lexigénèse. Nel DTSL troviamo: «Operazione di pensiero formatrice della parola. Il termine è usato da Guillaume come sinonimo di ontogenesi della parola». ** Nel testo francese è usato il termine systémologie. Nel DTSL troviamo: «Branca nuova della linguistica i cui nomi generali convenienti possono essere quelli di sistematica o sistemologia, entrambi adatti alla natura dell’obiettivo che essa si dà, cioè la conoscenza dei sistemi. […] Guillaume preferirà, alla fine, il nome “sistematica”».

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cronotesi

cronogenesi: potenza di formare il tempo cronotesi

cronotesi: esercizio di questa potenza

semplice profilo verticale di un fenomeno longitudinale in progressione sottostante. Partendo da qui, da questo principio analitico, sono riuscito a determinare, come origine universale dell’architettura linguistica del tempo, la cronogenesi, che è genesi della potenza di costruire il tempo – rinvio per questo al mio libro Temps et Verbe –, e la cronotesi, che è l’esercizio di questa potenza nel corso della sua acquisizione, un esercizio che corrisponde ogni volta ad una sezione caratteristica di questa acquisizione di potenza, sezione che ne fornisce un profilo, e ogni profilo così ottenuto per sezioni costituisce un modo. Tramite il modo si raggiunge una certa potenza già acquisita, potenza di costruire il tempo, che può non essere definitiva. I tempi del modo esprimono l’esercizio di questa potenza, nella misura in cui essa è acquisita. Graficamente:

Non meno prezioso è sapere a priori che una di queste esistenze di lingua, nata su un certo piano del pensiero, non potrà revocare in sé il carattere che detiene di questo piano e dovrà di conseguenza proseguire in esso, senza poterne fuoriuscire. (Lezione dell’11 dicembre 1941)

Linguaggio e dicibilità: dall’indicibile al dicibile Sapendo cos’è il linguaggio in relazione alle condizioni di grandezza e di forma che esso soddisfa in relazione alla sua definizione

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esistenziale, abbiamo ora bisogno, per averne una visione completa, di conoscere le condizioni di utilità che esso soddisfa, in relazione alla sua definizione funzionale, che in generale è la sola ad essere considerata. In altri termini, dopo averne determinato l’ontogenia in progressione nel tempo storico, dobbiamo riconoscerne la prasseogenia, formalmente identica a se stessa in ogni momento storico considerato, e il cambiamento di stato costruito che risulta da ciò di cui la prasseogenia dispone per il suo compimento in relazione ad una più o meno grande estensione ontogenica1. Mentre dal punto di vista esistenziale, le condizioni strutturali che il linguaggio soddisfa sono le stesse di tutti gli altri esseri di infinitudine, e segnatamente e più particolarmente le stesse del tempo, dal punto di vista funzionale, invece, le condizioni strutturali che il linguaggio soddisfa appartengono esclusivamente ad esso, poiché le condizioni prese qui in considerazione non sono quelle comuni ad ogni linguaggio, ma quelle del linguaggio umano, che è il solo ad essere studiato in linguistica. Quali sono queste condizioni? Esaminiamole nell’ordine della possibilità funzionale acquisita. Il linguaggio deve operare in sé tre mutazioni successive per raggiungere la completezza della sua funzione: 1. mutazione dell’indicibile in dicibile2; 2. mutazione del dicibile in dire; 3. mutazione del dire in detto finale. Prima mutazione: mutare l’indicibile in dicibile. Nell’al di qua di questa mutazione, non c’è linguaggio. L’indicibile non appartiene al linguaggio: questo si presenta increato. Il linguaggio umano suppone già compiuta la mutazione indicibile→dicibile. Diciamo subito che per il momento si tratta dell’acquisizione della dicibilità mentale, alla quale si aggiungeranno o seguiranno la dicibilità orale e la dicibilità scritturale, e la relazione di questa con quella. Dovremo ricordarci dell’esistenza nel linguaggio umano di queste tre dicibilità: la mentale, l’orale, la scritturale. Ci dovremo anche ricordare del fatto che delle 1

Variante cancellata: Di un’ontogenia più o meno avanzata in se stessa per trasformazione della sua virtualità in realtà. 2 A margine: La prima è permissiva verso gli altri.

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tre, due sono silenziose, quella mentale e quella scritturale, e questo le rende da un certo punto di vista congruenti tra loro. Delle tre, una sola non è silenziosa, quella orale (...)3. La distinzione tra dicibilità orale e dicibilità scritturale perde il suo interesse nelle lingue in cui si è pienamente istituito il fonetismo, cioè quel regime di dicibilità in cui la scrittura è solo la trascrizione della parola. Invece, nelle lingue non morfogeniche, le lingue fatte di caratteri, le due dicibilità coesistono fianco a fianco, ed è quella scritturale ad assicurarsi la preminenza. In cinese, il suono parlato denota la figura scritta. Ne consegue che il cinese scritto è capito da diverse centinaia di milioni di uomini, mentre il cinese parlato, a causa dell’instabilità della parola, è capito solo da collettività ristrette. La «caratteristica» di Leibniz4 avrebbe dovuto essere una scrittura letta da tutti gli esseri umani, un cinese universalizzato, che inoltre avrebbe dovuto avere le qualità delle lingue basate sulle parole, e con le quali abbiamo una certa familiarità. In questo caso, Leibniz sembra non aver compreso la difficoltà in tutta la sua portata. Ce ne possiamo rendere conto dal numero di segni scritti che bisognerebbe avere per scrivere, come è pensato nelle nostre lingue, il semplice gruppo des hommes. Servirebbe: per l’articolo: – un universalizzatore dell’estensità: de – un segno di estensità: le – un segno di plurale: s – un segno di genere: maschile – un segno di funzione: (il caso, che per il francese è unico ) – un segno d’insieme (quale parte del discorso) che abbia il valore del nostro articolo des; per il sostantivo: – un segno di nozione (molto figurativo); 3 4

A margine: Esistenza fisica più visibile. Preponderanza della fonetica. A margine: Scrivere direttamente le idee, preoccupazione di Leibniz.

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Principi di linguistica teorica

– dei segni di accordo con l’articolo: plurale, genere, funzione (cioè gli stessi segni); – un segno che abbia la valenza della parte del discorso chiamata nome-sostantivo. Tutta questa scrittura dovrebbe poi essere oggetto di un atto unico di intendimento. Il che sarebbe davvero impossibile. Il cinese, che ha creato una caratteristica, usa nella fattispecie un solo segno, invariante. Siamo quindi in presenza di una lingua dalla tipologia del tutto differente rispetto a quella delle nostre lingue. Questa tipologia, la cui caratteristica apparente è la non-morfogenia, è il perfectum delle lingue che non si sono allontanate, che non hanno saputo allontanarsi, o che, se si preferisce, hanno saputo non allontanarsi dall’area iniziale del linguaggio5. In altri termini, questa tipologia rappresenta la più grande perfezione della primitività conservata ed è il segno di un intendimento che ha portato al suo più alto grado di approfondimento la fase iniziale del linguaggio, invece di sostituire a questa fase iniziale la somma della fase iniziale e mediale. Il cinese rappresenta una specie di culmine di civiltà nel primitivismo conservato. Ci troviamo evidentemente in presenza di un successo, ma come vedremo in seguito, è un successo da cui non è più possibile uscire. Saussure e altri, prima di lui e dopo di lui, hanno scritto che la lingua è un sistema, volendo dire con questo che la sua organizzazione interna non è arbitraria, cioè qualcosa di non codificato. Non è detto di che tipo sia questo sistema. Cosa che ora sappiamo. È un sistema di tre forme di dicibilità: la mentale, l’orale e la scritturale, con la particolarità che l’orale ha avuto la tendenza ad essere niente di più che la trascrizione della dicibilità mentale e la scritturale niente di più che la trascrizione dell’orale. Nelle nostre lingue indoeuropee, di grande civilizzazione, la successività di queste tre dicibilità si è definita meglio. Ne consegue che, in un certo senso, sappiamo tutto delle nostre lingue quando riusciamo a penetrare la dicibilità mentale. È qui che risiede la lingua. È opportuno ora soffermarsi sul termine dicibilità mentale. Non può esservi dicibilità tramite segni, una dicibilità che sia dunque semiologica 5

Cfr. Parte I, Cap. 3, nota 15.

Pensiero e linguaggio 155

(orale o scritturale), se non in relazione a qualcosa di pensato, e di pensato non in un modo qualsiasi, liberamente, ma come è richiesto dal fatto che un segno possa collegarvisi. Questo modo di pensare costituisce la dicibilità mentale, mentre l’intervento di un segno ritenuto conveniente costituisce la dicibilità orale o scritturale, la dicibilità semiologica, anzi psicosemiologica, perché la scelta del segno ha le sue ragioni, il suo psichismo. Ritorno ora alla prima condizione funzionale soddisfatta dal linguaggio umano, la mutazione dell’indicibile in dicibile. Individualmente la conosciamo: è quella che incontriamo quando dobbiamo dire delle cose molto sottili, difficili da cogliere in noi stessi. Ma nella storia strutturale del linguaggio il termine indicibile ricopre qualcosa di diverso da ciò che è difficile a dirsi, visto che rappresenta ciò che c’era prima che il dicibile esistesse. Ma ciò che esisteva allora era l’esperienza umana, quella che l’uomo faceva della sua presenza nell’universo fisico. E quest’esperienza, per la sua vastità, per la sua incoerente diversità, per la sua molteplicità interna, non era rappresentabile e quindi non era dicibile. Era nell’ordine dell’indicibile. Il suo passare alla dicibilità fu la risoluzione della sua incoerente diversità in delle serie che sfociavano e convergevano verso una stessa rappresentazione. È facile fare degli esempi. Consideriamo l’esperienza arbre [albero]: è un’esperienza ripetuta, diversa, incoerente, che risolta in serie, porta alla rappresentazione arbre, alla dicibilità mentale arbre, e trovato un segno adatto, a una dicibilità orale corrispondente. (Lezione del 13 dicembre 1956)

Stati strutturali del linguaggio e storia dell’intelletto* umano Bisognerebbe scrivere un storia che non è mai stata iniziata: quella del pensiero umano, della sua condizione di potenza e di salvaguardia * La parola che nel testo francese corrisponde al termine «intelletto», e più avanti nel paragrafo troveremo anche «pensiero» o «capacità intellettive», è la stessa parola più volte incontrata: entendement. Qui però Guillaume non la contrappone direttamente a discernement

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della sua potenza. Di questa storia potenziale del pensiero umano, le strutture delle lingue sono un riflesso fedele. La troviamo iscritta con tratti nascosti in queste strutture che bisogna imparare a decifrare. Conviene aggiungere, e con questo termineremo, che la storia strutturale del linguaggio, rappresentata dalla sfilata storica degli stati strutturali del linguaggio, è l’unico documento di cui disponevamo per lo studio della storia potenziale del pensiero umano, il solo documento di questa storia non scritta. L’osservazione conferisce alla linguistica un’importanza particolare, una specie di preminenza nella storia approfondita delle scienze, che si appoggiano tutte a quella lucida prescienza, a quella prescienza esclusivamente potenziale che è, sul piano strutturale, il linguaggio. Questa prescienza non ci fornisce alcuna conoscenza positiva dell’universo, ma porta con sé uno sguardo sull’universo la cui penetrazione è cambiata di molto nel corso della lunga storia del pensiero umano (così come viene rappresentato nella storia delle strutture del linguaggio). Bisogna aggiungere, per evitare ogni fraintendimento, che le strutture del linguaggio non ci rivelano chiaramente la potenza del pensiero degli uomini di un luogo e di un’epoca dell’umanità, ma il livello di potenza al di sotto del quale il pensiero degli uomini, per quanto grossolano esso possa essere individualmente, non potrebbe scendere. Le strutture del linguaggio mettono in evidenza una civiltà spirituale comune ad una collettività umana, ad una data epoca, tutta una serie di condizioni di minima rispetto a ciò che in essa non potrebbe essere di grado ancora inferiore. Il pensiero indoeuropeo porta con sé un livello di potenza di minima al di sopra del quale esso può innalzarsi in un modo che possiamo immaginare e constatare, ma al di sotto del quale non può scendere. Allo stesso modo anche il pensiero cinese porta con sé un livello di intendimento al di sopra del quale esso può innalzarsi, in un modo che possiamo immaginare, ma al di sotto del quale non può scendere. ma ne fa un uso più strettamente filosofico, e quindi ne ho diversamente interpretato il significato. Nel DTSL leggiamo: «Entendement è usato a volte da Guillaume in un senso più filosofico, e non in opposizione a discernement. In contesti come entendement humain, entendement chinois, entendement indo-européen, etc., vuol significare il modo di apprendere i dati dell’esperienza e di trasformarli in rappresentazione linguistica».

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In questa impossibilità per il pensiero umano collettivo di scendere al di sotto di un certo livello storicamente raggiunto, scorgiamo una gerarchia profonda, il cui principio distintivo non è tanto il rifiuto agli uomini di un’ascesa individuale verso le vette del pensiero, quanto il rifiuto ad una intera collettività di uomini di una discesa al di sotto di un certo livello, che è lo stadio insuperabile nel cammino verso il basso. Per sapere a che livello minimo siamo nella storia dell’intelletto umano, non bisognerebbe chiedersi fin dove ci si possa innalzare, domanda che non troverebbe risposta nel documento costituito dalla storia strutturale delle lingue, ma piuttosto fin dove si possa scendere. La civiltà spirituale è, nella storia dell’intelletto umano, la risposta alla sottile domanda: quo non descendam? In altre parole, per fissare a grandi linee le idee, visto che le circostanze ipotizzate dovrebbero condurre ad un ritorno allo stato primitivo, la domanda potrebbe allora essere: a quel punto, quale primitivo, che genere di primitivo o di non-civilizzato ridiventerei? Mi affretto ad aggiungere che ritengo queste ultime considerazioni estranee al mio insegnamento, che consisterà esclusivamente nello scoprire, con una comprensione quanto più possibile potente, lo psicomeccanismo delle strutture del linguaggio di volta in volta raggiunte nel corso della storia strutturale del linguaggio. (Lezione del 29 novembre 1956)

Funzione umanizzante del linguaggio: linguistica e antropologia La linguistica aveva suscitato un’attesa: quella di conoscere meglio ciò che il linguaggio è in se stesso. Ci si aspettava questa conoscenza da una risalita in direzione delle origini. Questa risalita ci ha insegnato che ad uno stato del linguaggio corrisponde uno stato anteriore e che possiamo giustificare il susseguente partendo dall’antecedente. Ma in questo continuo passaggio dall’antecedente al susseguente nessuna luce viene fatta sulla natura del linguaggio umano. Potremmo perfino dire che il problema della natura del linguaggio si complica man mano che risaliamo, tramite l’osservazione storica, dal susseguente all’antecedente. Una risalita dal francese a una delle lingue

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indoeuropee, che sarebbe facilmente possibile con gli ordinari strumenti della grammatica comparata, non insegna nulla di pertinente sulla natura del linguaggio. E da questo punto di vista uno studioso del sanscrito non ne sa più di uno studioso del francese. Possiamo anzi affermare, senza esagerazione, che una certa penetrazione della natura del linguaggio è più accessibile, più facile, nel quadro di uno studio del francese che in quello di uno studio del sanscrito. Il fatto è abbastanza sorprendente per giustificare la conclusione che, dal sanscrito al francese, c’è stato cambiamento di sistema, nel senso che un tale cambiamento è stato un progresso in direzione di una sistematizzazione che si esplicita sempre meglio. Percepiamo così, molto grossolanamente e da un certo punto di vista, il senso della storia del linguaggio e quello di cui la scienza storica potrebbe essere la scoperta: il passaggio da quanto è implicitato in una costruzione coerente a ciò che è esplicitato a un livello superiore. Questo modo di vedere non costituisce una conquista importante. Ma è comunque un modo di vedere. Per quanto sia poco, per il linguista in cerca di un punto di partenza per il suo studio, di un buon punto di partenza, è già qualcosa che un avvicinamento alle origini, per le strade e con i mezzi dell’osservazione storica, ci metta in presenza di un sistema meno penetrato nel suo interno, meno dichiarato, meno esplicitato di quanto lo sarà in seguito. La conclusione è quella che comporta la risalita dal susseguente all’antecedente: questa risalita diventa poco a poco, per l’osservatore che osserva la sua propria opera (...)6. E questa conclusione si arricchisce dell’idea, che in questo caso è anche un piccolo progresso, secondo la quale il problema del linguaggio, il problema linguistico, viene di epoca in epoca esplicitato dalle soluzioni ch’esso si dà. Il problema è uno ed è posto alle origini, ma in una forma che non lo esplicita. Esso esiste ma manca il dato che lo potrebbe porre in maniera esplicita. E la storia del linguaggio è una progressione di soluzioni provvisorie verso il problema posto, ognuna delle quali rappresenta una posizione superiore attraverso ciò che viene esplicitato. 6 La frase è, a quanto pare, incompleta. A margine: Osservazione del linguaggio, osservazione della propria osservazione.

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La storia del linguaggio, e più in particolare quella della sua struttura (che è quella della sua sistematizzazione interna) è in definitiva quella di quanto viene di volta in volta esplicitato del problema linguistico. E non dobbiamo perdere di vista che se per esempio l’inglese, il tedesco, il francese, lo spagnolo rappresentano quattro soluzioni parallele del problema linguistico, di un problema comune a tutta l’umanità, ognuna di queste quattro lingue rappresenta una posizione che rende esplicito il problema e ne evoca una nuova soluzione. Si osserverà, inoltre, che la evocazione di nuove soluzioni è tanto meno pressante quanto più la soluzione realizzata appare riuscita. In altre parole, meglio sarà posto il problema più ritardata sarà l’apertura nel profondo della mente umana di una discussione inconsapevole che lo porterà a porsi in modo diverso e con i tratti di una soluzione sperimentale nuova. Devo aggiungere che il cammino del progresso che ho appena evocato è quello, del tutto banale, di un apprendistato. Per gli apprendisti fabbri uno dei problemi, e ho ascoltato con un certo profitto dei giovani apprendisti parlarne tra loro, è di imparare a limare correttamente per produrre delle superfici piane senza inclinare la lima. Si tratta di raggiungere una economia nell’ordine della dimensione. Ora, questo apprendistato avviene sperimentalmente. Al problema dato, l’apprendista fornisce una soluzione difettosa, generata dai suoi difetti e, partendo da questi, cioè dalla sua difettosità, il problema viene ad esser riproposto. Potremmo inserire facilmente, su questa osservazione esatta, una spiegazione del progresso più o meno rapido dell’apprendistato. Vi è sempre in questione la riuscita di una soluzione provvisoria che formuli il problema in maniera sufficientemente chiara affinché sia ottenuta una soluzione definitiva. Se l’apprendista fosse un filosofo, potrebbe seguire da vicino, con il ragionamento, il cammino di questo progresso. Se non lo fa è perché egli pensa con le dita, con le mani, con le posture del corpo, istintivamente, più che con la mente. Eppure, in questo lavoro sperimentale la mente è al lavoro, ma è un lavoro a metà7 7 Intendere in senso grammaticale: à la voix moyenne. Cfr. G. Guillaume, Langage et science du langage, pp. 127 e sgg.

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[au moyen], un lavoro in cui la mente governa le cose meno di quanto le cose non governino la mente. Il divenire umano è in gran parte costituito da questa attività della mente a metà: governo delle cose con una decisione della mente, la quale a sua volta sarà governata dalle cose. Ma il divenire umano è dovuto anche ad attività di puro ragionamento, trasferite quanto più direttamente è possibile sul piano della realtà sperimentale. Certo, i ponti sono stati costruiti edificando dei ponti, ma da questa scienza sperimentale della costruzione di ponti è nata una scienza teorica del costruire ponti che è quella dell’ingegnere8. Non esistono ingegneri linguisti e non esiste una scienza per costruire il linguaggio. Il linguaggio si costruisce per le strade e con i mezzi di una correzione sperimentale, di una sostituzione sperimentale di soluzioni meglio riuscite rispetto ad altre soluzioni già riuscite, e la soluzione prodotta avrà sempre il carattere di una posizione rinnovata del problema. Dicevo all’inizio che il problema linguistico, incessantemente posto all’uomo, passa da un meno di spiegazione a un più di spiegazione. L’osservazione storica del linguaggio ne fornisce la prova. All’inizio esiste un problema di visione, di sguardo. L’uomo abita l’universo: egli vede l’universo con gli occhi del corpo. Ma lo vede umanamente, può vederlo con sguardo umano solo se lo rivede in sé. Noi vediamo l’universo del fuori di me solo per il tramite della visione dell’universo che portiamo in noi. Questo tramite è inseparabile dallo sguardo umano. L’universo sottoposto allo sguardo umano è una visione dell’universo, quale scaturisce dal trattamento che sappiamo fare dell’universo che è in noi. In me c’è l’immagine uomo, che fa parte del mio universo interiore. Vedere un uomo, vederlo in quanto tale, umanamente, significa sottomettere questa immagine uomo, integrata nel mio universo mentale, ad un trattamento che ne farà l’equivalente di un’immagine appartenente al fuori di me. Afferro l’immagine in me e la porto davanti a me per guardarla, e questo movimento è (concorrente a) un trattamento di realizzazione9. Vedo sempre e soltanto attraverso l’interiorità mentale realizzata mentalmente. 8 9

A margine: La teoria trascende la pratica sperimentale. La lettura delle due parole tra parentesi è congetturale.

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Se al posto di questa visione del mentalmente realizzato, che ne esclude ogni altra, avessi la visione diretta del reale, non sarei un uomo. Abolire in un uomo la visione del reale per il tramite obbligato dell’immagine ch’egli porta in sé, sarebbe abolire l’uomo: sarebbe discendere dall’uomo all’animale. Sostituire in un animale la visione diretta del reale con una visione risultante dal trattamento di un’immagine che porterebbe in sé, sarebbe innalzare l’animale alla condizione di uomo, privarlo cioè della sua visione immediata dell’universo e sostituire a questa una visione mediata dal canale di una rappresentazione mentale precedente. Il possesso di uno stato conduce alla mancanza dell’altro. E il confronto tra i due stati suppone un ragionamento preliminare che rende concepibile tale confronto, ma che non consente di provarlo (anzi, non lo fa per niente vedere). Siamo passati dal campo della linguistica a quello della filosofia, col beneficio che questo passaggio comporta sia per il linguista che per il filosofo. Bisogna mettere all’attivo del dialogo tra il linguista e il filosofo i numerosi chiarimenti reciproci fra i loro saperi. Il dialogo comincia partendo dal linguaggio istituito. Principalmente il dialogo consiste nello stabilire che il linguaggio, con i propri mezzi che non sono di natura filosofica, ha riconosciuto e sistematizzato in se stesso delle relazioni che sono di competenza della filosofia quali l’universale e il singolare. Ma facendo questo, non dobbiamo perdere di vista che il linguaggio ci mette in presenza di una scoperta di tali relazioni filosofiche tramite strumenti che appartengono molto più all’antropologia che alla filosofia. Da qui, al di là del dialogo tra il filosofo e il linguista, si apre un dialogo tra il linguista e l’antropologo, al quale la linguistica è chiamata a contribuire molto e di più, mi sembra, rispetto al dialogo tra il filosofo e il linguista. In definitiva, i due dialoghi tovano corrispondenza, poiché il dialogo tra filosofo e linguista conduce a quello tra antropologo e linguista. Gli antropologi si interessano al divenire dell’uomo, a ciò che è stato questo divenire dalla sua più lontana condizione primitiva. Uno dei loro compiti è di individuarne le tappe, le fasi, e di analizzare a questo scopo i documenti che ne sono una testimonianza concreta: i monumenti lasciati, le abitudini alimentari, gli abiti, le condizioni dell’habitat, i materiali conosciuti, gli oggetti e gli strumenti fabbricati,

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i disegni prodotti, l’arte che traspare da tutte queste cose. Questa inchiesta documentaria porta a riconoscere la successione delle epoche che sono quelle della civiltà materiale, e a scoprire anche ciò che della civiltà ideale si trova rispecchiato in quella materiale: a. a livello morale (credenze, religioni, superstizioni, perché anche in questo è riconoscibile la successione delle epoche che riguardano la civilizzazione mentale); b. a livello fisiologico, dove l’osservazione è rivolta verso la conformazione fisica dell’uomo, secondo la testimonianza che ne danno i reperti di scheletri, conservati e datati con strumenti diversi; c. e infine – cosa che non è stata fatta per niente finora – a livello linguistico10. È alquanto sorprendente che tra tanti documenti esplorati sul divenire dell’uomo, un documento così prezioso come quello costituito dallo stato linguistico, dalla successione degli stati linguistici, non sia stato esplorato dal punto di vista antropologico e che non si sia giunti all’idea di una distribuzione del divenire umano in epoche linguistiche. La lacuna è considerevole e per colmarla si imporrà la necessità di esplorare, appunto, quel documento senza pari costituito dal linguaggio umano. Ciò può essere fatto solo dal linguista, che è l’unico a conoscere i fatti linguistici e la cui scienza consiste nel riconoscerli, nel riconoscere non soltanto quelli che le apparenze fanno vedere, ma anche quelli che le apparenze ricoprono e in un certo senso nascondono. È in via di creazione una linguistica che istruirà l’antropologo sulle epoche della civiltà mentale umana profonda: non quella rappresentata esplicitamente dalle idee vigenti nell’uomo pensante, in luoghi e tempi differenti, ma quella rappresentata dalla lucidità da lui acquisita. (Lezione del 23 maggio 1957)

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A margine: Epoca d’oro dell’antropologia

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Il linguaggio come riduttore della turbolenza mentale Il linguaggio umano esiste solo a partire dal momento in cui il vissuto sperimentale viene tramutato in rappresentazione (...): linguaggio animale

linguaggio umano

vissuto sperimentale e pensiero prescritto

rappresentazione e pensiero prescritto

In ogni pensiero si ha una cogitazione. Una cogitazione e dunque una turbolenza. La rappresentazione è una estinzione della turbolenza. E il pensare bene significa spegnere la turbolenza della cogitazione. In termini meccanici parleremmo di regolazione di tale turbolenza e dei mezzi di tale regolazione. Ma smorzare la turbolenza della cogitazione è compito della scrittura piuttosto che della parola. Incidentalmente, e a proposito della riforma dell’ortografia: l’ortografia difficile, con quanto ha di immotivato, conserva un valore educativo che consiste nello spegnere la turbolenza mentale. E non sono affatto sicuro che l’obiettivo dei nostri educatori sia proprio quest’operazione così importante. All’inizio, è attraverso una sufficiente estinzione originale della turbolenza della cogitazione mentale che si crea il linguaggio umano e in seguito anche la potenza del pensiero umano. E frenare la turbolenza è un fatto istintivo. Uno studio del linguaggio orientato in direzione delle origini deve tenere fortemente conto della scrittura e della sua preponderanza sociale sulla parola: la grandezza sociale di chi possiede la «scrittura», il katib, e il riflesso di questa grandezza sul libro, il kitab, «la cosa scritta», che ha conservato qualcosa del suo antico prestigio in una forma nuova come l’oggetto stampato. Il fenomeno profondo resta l’evasione dalla turbolenza. (Lezione del 4 aprile 1957)

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Specificità della lucidità umana Un pensiero che non sapesse a che punto della sua propria costruzione potenziale si trovi in se stesso, sarebbe un pensiero turbolento, in preda alla turbolenza mentale originale, a una turbolenza che il proprium del pensiero umano avrà accuratamente eliminato già da tempo. Al comportamento turbolento del pensiero si sostituisce, con il sorgere del linguaggio umano, il comportamento di un pensiero per il quale questa turbolenza non è più inevitabile, di un pensiero nel quale l’inevitabile è costituito da un certo allontanamento dalla turbolenza mentale originale, e alla quale non è più permesso all’uomo di ritornare. È questo divieto che costituisce l’uomo, privandolo, privando il suo pensiero, delle possibilità che comporta la turbolenza mentale originale, possibilità che restano invece un appannaggio dell’animale e che sono grandi. Quante cose l’animale sa che l’uomo non sa, né può sapere, non potendo nemmeno sapere quale sia il sapere che ne ha l’animale. La lucidità animale è quella, non trascesa, che porta con sé l’affinamento fisico della specie. Pesa su questa lucidità l’impossibilità di trascendere una finalità che è quella di questo affinamento, e i cui sentieri sono quelli dell’evoluzione della vita. Pesa sull’uomo, sulla lucidità umana, l’impossibilità di non trascendere la finalità di questo affinamento, ovvero di essere una lucidità che non parte dall’affinamento, ma solo da se stessa. Nell’universo è iniziata una corsa tra la lucidità minimizzata dell’animale, che gli viene apportata dall’affinamento della specie, e la lucidità deminimizzata dell’essere umano, che cerca la sua lucidità al di fuori di quest’affinamento, ormai trasceso, in un campo in cui egli non è più un sovrano assoluto. Poiché la sua lucidità dipende dal suo affinamento fisico non trasceso, l’animale appartiene corpo ed anima, per così dire, alle forze vitali dell’universo, all’interno delle quali è privo di autonomia. Poiché la sua lucidità dipende dal suo affinamento fisico trasceso, l’uomo, proporzionalmente a questa trascendenza, non appartiene più alle forze vitali dell’universo, all’interno delle quali e nei cui confronti ha conquistato una certa crescente ma non totale autonomia. In un insegnamento come questo, vorremmo tenerci al di fuori

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di queste questioni relative alla specificità del pensiero umano. Ma non possiamo farlo: la scienza del linguaggio ci riconduce ad esse, nonostante gli sforzi fatti per allontanarle. Ci riconduce ad esse perché essa non è conoscenza dell’universo fisico in cui vive l’uomo e di cui fa parte, ma conoscenza di un universo mentale che vive in lui, la lingua. Lo scontro vittorioso di questo universo mentale con l’universo in cui l’uomo abita, crea l’autonomia relativa dell’uomo in seno all’universo da lui stesso abitato. Potremmo parlare, senza abusare delle parole, dell’universo del fuori di me e dell’universo dell’in me, quello della lingua, e della loro continua collisione, del dramma incessante della loro collisione. Così, potremmo parlare a lungo degli esiti fisici di questa collisione e anche degli esiti non fisici della stessa collisione, dei quali la storia del linguaggio umano è una testimonianza; come pure del progresso costituito dagli esiti fisici e del progresso, di un tipo molto differente, costituito dagli esiti non fisici, cioè essenzialmente linguistici. Potremmo parlare a lungo della differente finalità di questi due progressi e del conflitto nato dal loro incontro. La letteratura, la filosofia e la scienza, senza saperlo, continuano a parlare, attraverso riferimenti impliciti, delle diverse finalità di questi due progressi. (Lezione dell’8 gennaio 1959)

Causazione reciproca del pensiero e del linguaggio In assenza del linguaggio che glielo comunica (ed è cosa essenziale per l’uomo pensante, che costruisce in sé il suo pensiero, che non esisterebbe11 se egli non lo costruisse), in assenza del linguaggio, l’uomo non saprebbe a che punto si trova nella costruzione di questo pensiero. Di epoca in epoca, di momento in momento, il linguaggio arreca all’uomo, costruttore del suo pensiero, lo spettacolo della costruzione compiuta. 11

Interpretare: come pensiero specificamente umano.

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A questo progresso di un’opera edificata, dal quale l’autore dell’opera attende la potenza per continuare a edificarla, si riferisce la brillante appercezione del rimpianto filosofo Delacroix secondo il quale «Il pensiero fa il linguaggio facendosi tramite il linguaggio». Delacroix non l’ha commentata. Lo faccio per lui. Ciò significa che, nell’opera fatta da se stesso, il pensiero comprende ciò che bisogna fare affinché esso, in costruzione di se stesso, non si fermi là dove il linguaggio gli dice di essere compiuto. Il processo di costruzione del pensiero in se stesso, dopo essere stato informato dal linguaggio su quanto è stato fatto e su quanto resta da fare – si trova così assicurato nella la sua prosecuzione. Il linguaggio porta al pensiero la potenza di salvaguardare la potenza acquisita, che è quella del suo stato costruito, e di accrescere questa potenza. Alla base di questa operazione e della sua particolarità, c’è la lucidità umana – la lucidità propria alla specie umana. (Lezione del 4 dicembre 1958)

Pensiero comune e pensiero colto (...) Se riflettiamo pacatamente e con serenità, bisogna ammettere che le grandi leggi della rappresentazione, che ci sono state date dalle scienze della geometria, della meccanica e della matematica, si sono realizzate nella lingua prima che in qualsiasi altro luogo, e che se non si fossero realizzate preventivamente nella lingua, luogo di nozioni con le quali pensiamo, non si sarebbero realizzate in nessun altro luogo. Ritroviamo qui il principio, enunciato più di una volta, secondo cui la lingua è la prescienza della scienza. Le speculazioni più sottili della scienza si basano sulle rappresentazioni sistematiche della lingua. Una storia del pensiero umano ha i suoi migliori punti di partenza negli stati costruiti del linguaggio, costituendone lo sfondo:

la linguistica scienza della costituzione delle possibilità linguistiche prescienza

possibilità linguistiche

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possibilità scientifiche

scienza

Questa scienza avanza dei postulati che vanno verso un’assiomatica. La costituzione di questa assiomatica corrisponde a una uscita dalla turbolenza. L’estinzione della turbolenza del pensiero è la base per la costituzione di belle lingue. Vi è qui una gerarchia e una serie di rivolte contro questa gerarchia. Lingue molto evolute: bellezza geometrica, meccanica. Minori turbolenze. E anche migliori strumenti di evasione dalla turbolenza. Al di sotto delle strutture di ragione non turbolente, si trova la turbolenza delle idee12. Merito delle lingue molto evolute. L’evoluzione è quella che avanza nel senso delle migliori condizioni profonde di rappresentazione. Il progresso segreto è quello di queste condizioni. Questo progresso si compie in noi man mano che ci allontaniamo dalla primitività, un allontanamento che sappiamo essere una occupazione crescente del divenire di vocazione del linguaggio, cioè un avvicinamento del momento in cui si potrà scrivere: divenire storico = divenire di vocazione, mentre attualmente possiamo solo scrivere: divenire storico < divenire di vocazione, benché ci si stia avvicinando all’uguaglianza e sia forse già giustificato scrivere: divenire storico