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Italian Pages 154 [166] Year 2016
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GENO PAMPALON!I
POESIA, POLITICA E FIO~RI Sc:ritti su Adriano Olivetti
"Per Olivetti la giustizia sociale era runica forma di progresso ammissibile e impl' cava la possibili à per tutti di fruire della bellezza. Mai eredità ideale eosì ricca fu
abbandona~a
in modo altrettanto totale"
IWI:zJONtl DI COMUNITA
Ognuno puo suonare ~enz.a timore e senz.a esi taz.ione
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VIA JERVIS
l contributi fondamentali per conoscere da vicino il cuore dell'impresa di Adriano Olivetti. Via Jervis, secondo Le Corbusier "la strada più bella del mondo".
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Gena Pampaloni GENO PAMPALONI (1918-2001) Considerato tra i maggiori intellettuali e critici letterari del dopoguerra, Geno Pampaloni fu per dodici anni responsabile dei servizi culturali alla Olivetti e segretario personale di Adriano. Alla sua vastissima produzione di saggistica letteraria affiancò la collaborazione con i principali quotidiani e riviste italiane.
GENO PAMPALONI
POESIA, POLITICA E FIORI SCRITTI SU ADRIANO OLIVETTI
Edizioni di Comunità
PREMESSA
Sono qui raccolti gli articoli che in un ventennio mi è occorso di scrivere su Adriano Olivetti: il primo risale alle ultime settimane della sua vita ed era stato da lui accolto come prefazione al suo volume Città dell'uomo, l'ultimo è un capitoletto delle "Memorie inattuali" che scrivo di tanto in tanto nei ritagli di tempo con l'illusione di farne un libro. Sono articoli occasionali nel senso più modesto del termine; vale a dire occasionati da ricorrenze, stimoli di cronaca, curiosità di direttori di giornali. Sono articoli giornalistici, caratterizzati quindi dalla fretta, dalle limitazioni di spazio, dalla ripetitività e in generale dall'accantonamento del rigore che sono propri del lavoro giornalistico. Perché dunque non mi sono sottratto all'iniziativa di questa ripubblicazione, se sono pienamente consapevole dell'esiguità culturale del mio contributo? Per alcune ragioni soggettive e una, forse, oggettiva. Tra le prime porrei il desiderio di non opporre un rifiuto
agli amici della Fondazione Olivetti e delle Edizioni di Comunità, e di adempiere a un dovere di presenza tra di loro, nel momento in cui si apprestano a ricordare il ventesimo anniversario della morte di Adriano Olivetti. E vi porrei anche il piacere di dare un'ultima e generale testimonianza. Gli scritti qui raccolti, riletti oggi, mostrano qualche oscillazione di giudizio, abbastanza comprensibile dati gli eventi che dalla seconda metà degli anni Cinquanta (dall'incubazione del centrosinistra e della distensione internazionale) si sono succeduti in Italia e nel mondo. L 'interpretazione del mio stesso passato può essere stata via via influenzata dall'interpretazione che ero indotto a dare di ciò che via via accadeva. Così come pecca in organicità e 1n approfondimento, questo libretto può essere qua e là colto in peccato di incoerenza. Ma verso il pensiero, l'opera e la figura di Adriano Olivetti conferma in ogni pagina la fedeltà e il senso di un'esperienza né tradita né dimenticata. La ragione che spero oggettiva è che, con tutte le possibili lacune, si tratta di un documento di innegabile autenticità, di un documento di "prima generazione", se è lecito usare qui questo termine apostolico; e potrà essere utile in quanto tale, fatta la giusta tara alle mie inadeguatezze, agli studiosi e ai politici che vorranno ripercorrere la storia e il significato, non valutati sinora
nel giusto merito, del Movimento Comunità. È mia ferma opinione che il disegno olivettiano di un nuovo rapporto tra società e politica abbia tutt'altro che esaurito la sua razionale forza di indicazione e la sua carica di futuro. In questo caso anche una pur modesta memoria di vita, qual è quella che qui si offre, può illuminare il cammino nel tempo di "un'idea di vita". Agosto 1980
Felici coloro che costruiranno la città dell'uomo. Charles Péguy
UN'IDEA DI VITA
Via Jervis a Ivrea è una v1a che, per molte ore del giorno, conserva un aspetto quieto, di appartato angolo di provincia. Percorre i duri selci grigi, per attraversarla, qualche operaio o qualche impiegata, affacciandosi di tra le macchine silenziose ai parcheggi, o una fila di giovani allievi della scuola di fabbrica, con la vivace macchia blu delle tute, trasferendosi da un'aula a un esercizio di officina. Il cielo che si rispecchia sulle ininterrotte mura di vetro della fabbrica sembra darle una dimensione più chiara e senza limiti, in uno spazio in cui il battere sordo delle macchine che vibrano nei grandi saloni riverbera sulla via un ronzio familiare e senza mistero, come di una calma navigazione: e l'uomo della pesa conversa con il guardiano, davanti a un cancello secondario, aspettando l'arrivo degli autocarri. Dall'altro lato, lungo l'opposto marciapiede, un portico leggero e una distesa teoria di bianche terrazze si contrappongono ai precisi volumi della fabbrica: è l'edificio dei Servizi sociali. In
fondo alla via, si intravede ancora un breve orizzonte di cielo e di verde, e d'inverno l'alba si infiamma sui gioghi lucenti e nevosi delle montagne. La via prende nome da un uomo che lavorò nella fabbrica e probabilmente vi aveva trovato una sua verità di doveri, di amicizie e di gioia, così come la trovò poi, al momento dovuto, nella Resistenza, nella silenziosa prigionia e nella morte: il suo ultimo, breve messaggio fu scritto con il sangue. Il basso, ormai proverbiale edificio di mattoni rossi, ave ebbe la sua prima sede la fabbrica di macchine per scrivere, rievoca l'inizio del secolo e la patriarcale figura del fondatore della Società; e ancora vivono quelli che ricordano i campi di grano che digradavano dal bosco di Monte Navale e verdeggiavano al sole là dove ora si allineano le complesse attrezzature industriali. La via sembra non aver rifiutato del tutto questa sua antica memoria umana, quando la imboccano, percorrendo per l'intera sua fronte la prestigiosa roccaforte della tecnica, nota in tutto il mondo, i camioncini, i tricicli, i vecchi furgoni che segnano il traffico di Ivrea con la sua periferia, o i festosi pullman che accompagnano a scuola i bambini delle ville e dei casolari nascosti nella vicina campagna. Questa è la via nella quale sorgono gli stabilimenti Olivetti, cresciuti in un cinquantennio di conquistato progresso: nonostante l'ansia di perfezione che li ha
disegnati, essi non impongono una presenza esclusiva, intimidatoria, sembrano addirittura nascondere le migliaia di lavoratori che li abitano e che nell'ora dell'uscita si riversano nella via come una ribollente fiumana; ma, al contrario, si inseriscono ancora in un paesaggio naturale e in una vicenda umana. Ecco il quadro ave va collocato il puntuale disegno teorico dello "Stato delle Comunità" che Adriano Olivetti ha elaborato quando si apriva sull'Europa il secondo, torbido dopoguerra, colmo di angoscia almeno quanto di speranza; ed è un quadro da cui con sensibile cura, con una discrezione che sfiora il pudore, è stato allontanato il colossale, l'abnorme e ogni astratta retorica. Diceva Gropius: «Ogni razionalizzazione ha un senso se agisce per rendere la vita più ricca», e calza come una definizione per esprimere, appunto, il "senso" dell'opera di Olivetti. Di questa via, il lettore ritroverà qualche aspetto tra le pagine di questo volume, nei discorsi ai lavoratori, e coglierà un particolare accento di affetto e di intimità nelle parole in cui l'idea di Comunità s'incarna nella storia recente della regione di Ivrea, il Canavese. In questo stesso volume, troverà pagine di timbro tutto diverso, consapevoli sintesi di questioni che investono nel profondo la nostra cultura, illuminati e vasti piani d'azione, schemi funzionali di organi di Stato tracciati con attento, puntiglioso tecnicismo, con
intransigenza
razionale.
Sono
gli
aspetti
di
una
personalità creativa, che si alimenta e si integra di momenti diversi, e trova la sua coerenza in una proposta "totale" di organizzazione della società. Ma le immagini della sua "piccola patria", la misura con la quale ha costruito giorno per giorno le sensibili testimonianze della sua opera, sono per Adriano Olivetti assai di più che episodi al margine, pause sentimentali; sono al contrario
cenn1
rivelatori
di
una
profonda,
inconfondibile matrice spirituale da cui il suo pensiero trae ispirazione. La "città dell'uomo" non è per lui disegno teorico, schema di una utopia: fa parte, nelle forme frastagliate e imperfette che sono proprie di ogni cosa umana, della sua biografia. Questo terzo volume di Adriano Olivetti è un libro di "occasioni": i discorsi e gli articoli che lo compongono sono stati infatti suggeriti naturalmente, nel giro di qualche anno, dagli episodi direi quotidiani della sua attività. N on è quindi espressione retorica, ma letterale, il dire che si tratta sostanzialmente di un libro per gran parte "vissuto": esso si riallaccia idealmente al primo capitolo di Società Stato Comunità, a quegli Appunti
per la storia di una fabbrica che rimangono un capitolo esemplare nella storia delle forze economiche e sociali italiane di questo secolo. N o n ha, né vuole avere, il rigore teorico, la sicurezza analitica, il lucido, creativo
disegno di un nuovo ordine che contraddistingue il volume fondamentale del nostro autore, L 'ordine politico delle Comunità; ma ne è piuttosto la conferma, la verifica, attraverso una ricerca documentata da una multiforme esperienza: l'organizzazione industriale, la lotta politica, la definizione di un programma d'azione. Ne viene a queste pagine un più di sofferto calore umano, e una precisa, concreta dimensione politica.
Forse mai come in questa raccolta si può ora cogliere così perfettamente, negli scritti di Olivetti, il senso profondo del suo pensiero e della sua azione pubblica: "politica" è per lui la ricerca, la definizione e la creazione vitale di un rapporto organico e armonioso tra società e Stato, essendo lo Stato soprattutto lo strumento organizzativo, l'espressione istituzionale delle forze, delle volontà, delle capacità, della ricchezza morale delle persone che costituiscono i gruppi sociali, la collettività. La società, secondo una concezione intimamente religiosa dell'Olivetti, è nell'ordine dello spirituale, lo Stato nell'ordine dell'utile (della strumentazione pratica, della rappresentanza funzionale): politica è la forma del loro rapporto, ricerca dell'ottimo, equilibrio continuamente rinnovantesi dei loro contrasti; al limite armonia e verità espressiva della società nelle sue istituzioni. Si può osservare come Olivetti abbia eluso, o meglio
ancora non s1 s1a di proposito posto, il problema del "potere", che è invece al centro del dibattito politico da un secolo in qua: e, a livello provinciale, nella quotidiana battaglia dei politici empirici, tiene quasi da solo il campo; forse questo può rendere ragione di certi limiti della sua fortuna politica, di una certa sua inattualità contingente, della relativa negligenza con cui il mondo politico italiano (con assai maggiore interesse, invece, quello internazionale) abbia accolto il suo pensiero. Tuttavia non è da dire così semplicemente che si tratta, nell'utopia olivettiana e comunitaria, del mondo di dopodomani. N on è detta l'ultima parola. Il mondo va in fretta, istituti e strutture che sembravano intangibili appaiono percorsi da pericolose e profonde incrinature, il mondo liberale del grande pensiero dell'Ottocento e, in Italia, del pre-fascismo, è un lontano ricordo; e d'altro lato può darsi che tra l'incerto mondo attuale e il "salto qualitativo" marxista si sia posta, ostacolo catastrofico e provvidenziale, la minaccia invalicabile della guerra atomica. Esistono, pesanti, sempre più urgenti, sempre meno tollerabili, i problemi dell'oggi. Tutta la società occidentale, e, per quel che ne sappiamo, almeno una parte di quella orientale, si travagliano alla ricerca di un esito. E, accanto a questa nuova inquietudine, il nostro paese porta su di sé i segni dolenti di piaghe secolari, che il trascorrere del tempo inasprisce ed esaspera.
Occorre ripensarli alla luce della storia in progresso, alla luce della forza interna dell'uomo, moderno ed eterno, contadino e interplanetario: alla luce di un ordine umano. «Prima di essere una istituzione teorica, la Comunità fu vita ... ». Ecco come un'eccezionale esperienza qual è quella di Adriano Olivetti (di industriale, di urbanista, di studioso, di operatore sociale, di leader di gruppi culturali e politici) diviene naturalmente un'eccezionale testimonianza politica. Ed ecco come questi scritti di diversa natura si riconducono a unità. Una delle chiavi che questo testo ci offre per arrivare a comprenderne a fondo il significato si trova, a nostro parere, nell'identificazione che Olivetti opera tra il Consolatore annunciato da Cristo secondo il Vangelo di S. Giovanni e lo spirito della Scienza. È il punto nel quale più si tende l'arco che corre tra i due poli della personalità di Olivetti: l'intima, e addirittura misticheggiante, inclinazione religiosa, e la sua piena responsabilità di uomo moderno. Si ha qui, mi sembra, lo spunto di una concezione ottimistica e quasi trionfale della storia, la profonda fede in un ordine di pace e di fratellanza. Olivetti non si nasconde il pericolo dell'impoverimento spirituale, dei guasti morali che l'acquisizione superficiale e impropria dei mezzi di civiltà può recare alla società e a quei valori che
dovrebbero essere peculiari di una civiltà cristiana; ma li considera errori di un sistema che può essere corretto e si rifiuta di accettarli - come fanno certi più retrivi cattolici - come l'orma del disordine. Egli immette il progresso in una sorta di catarsi cristiana, in una vicenda provvidenziale di riscatto umano: egli non guarda alla scienza, al rigore tutto terreno dei suoi strumenti, come al piccone demolitore delle tradizioni,
dei valori
elementari, del sentimento dell'assoluto che è proprio della morale religiosa; ma, al contrario, identifica il cammino della scienza con quello della verità, le sue conquiste con un'approssimazione a uno stato di liberazione dal dolore, sì che il suo trionfo risplende di una luce di carità. Non è, questo, più che un cenno. Ma, al di là del significato letterale, esso ci appalesa tuttavia come al di sotto del sostanziale ottimismo del pensiero di Olivetti, della sua razionale, e moderna, volontà e capacità di riformatore, vi sia il sentimento drammatico di una lacerazione grave nel cuore dell'uomo e nel suo destino, l'allarme per una crisi giunta ai limiti dell'irreparabile, l'urgenza verso una sintesi ardua e definitiva. Ci spiega, per esempio, l'insistenza di un tema che corre lungo tutta l'opera di Olivetti come una vena profonda: la conciliazione tra mondo materiale e mondo spirituale. È da qui che scaturiscono, come da un'unica sorgente,
molti dei suoi atteggiamenti: la considerazione della giustizia come la forma istituzionale della carità; la distinzione, sullo stesso piano di legittimità, del lavoro e della cultura nell'ordine democratico; la stessa definizione di urbanistica come estetica applicata (e cioè come conciliazione raggiunta); l'identità tra mezzi e fini nell'azione politica; la certezza che una collettività esiste come unità sociale soltanto quando vi sia nei suoi membri la consapevolezza di un fine comune; l'appello continuo ai valori della persona, che è corpo e anima, bisogno e forza, cellula sociale e valore irripetibile, transeunte e immortale, limite terreno e fiamma provvidenziale. Si ritrovano in questo tema (che ricorre assai più di frequente, in varie forme, di quanto qui per brevità abbiamo indicato e che è probabilmente il tema fondamentale di questo libro) molti degli elementi che arricchiscono la formazione culturale dell'autore. Direi che Olivetti è rimasto fedele sostanzialmente a quel filone del cattolicesimo francese contemporaneo che da Mounier arriva sino alla Weil (essendogli invece estranea l'enfasi lirica di Péguy). Ma la frequentazione con il pensiero anglosassone, e soprattutto con la vasta letteratura di scienze sociali americana, non è stata senza influenze: da un lato i possibili residui "utopistici" sono stati bruciati, mentre per converso si è potenziata in lui
la concreta volontà riformista, sì che nel suo pensiero (e nello sviluppo, parallelo, del Movimento Comunità) si può notare un progressivo rafforzarsi dell'accento programmatico e un attenuarsi dell'intransigenza istituzionale; dall'altro lato, senza che egli rimanesse affascinato dal momento socio logico dell'azione politica, pure si è venuta articolando nella sua opera una concreta strumentazione metodologica che è, oggi, una delle precipue caratteristiche dei gruppi di lavoro che fanno capo ad Adriano Olivetti. È altresì da considerare, a questo punto, l'influenza che ha esercitato nella formazione culturale di Olivetti la ricca vena del pensiero politico federalista; ad esempio, la fermezza e lo slancio con cui i comunitari hanno aderito all'idea europeista e non hanno mai messo in secondo piano la necessità di sviluppare, s1n dall'organizzazione degli ordinamenti nazionali, una tematica pienamente federalista. E questo elemento di federalismo integrale è uno dei dati più moderni dell'atteggiamento comunitario. In conclusione, la pos1z1one olivettiana, centrata sul tema dell'armonizzazione delle forze della scienza, della tecnica e della cultura con i superiori fini spirituali, è venuta di fatto a mettersi in parallelo, piuttosto che con la violenza libertaria e l'appassionata protesta di Mounier e di «Esprit», con l'opera d'ideale mediazione
tra cattolicesimo e mondo moderno che è propna di Maritain. Si potrebbe, anzi, forse dire, se si potesse rimanere per un attimo sul piano strettamente culturale, che l'opera teorica di Olivetti è la strumentazione a livello economico-sociale-istituzionale, e cioè politico, della difesa della democrazia compiuta da Maritain: o addirittura che tale opera è la dimensione laica della democrazia com'è definita dal cattolico Maritain. Gli elementi comunque che concorrono a formare la proposta comunitaria formulata da Olivetti sono troppo complessi per essere qui analizzati compiutamente (si pensi per esempio all'integrazione che egli postula tra libertà-democrazia da un lato e autorità-aristocrazia dall'altro lato, integrazione che è fondamentale per comprendere gli ideali di armonia, la suggestione pitagorica della sua ideale costruzione politica, e al tempo stesso risponde alle esigenze antiche e moderne di ogni efficiente convivenza organizzata); ci basterà qui avere accennato rapidamente a qualche criterio interpretativo essenziale. La natura "occasionale" e testimoniale di questa raccolta di scritti è all'origine della varietà e ricchezza tematica del volume. E tuttavia non c'è dubbio alcuno che ne risulti alla fine un discorso politico organico e profondamente responsabile, che traccia un quadro straordinariamente realistico delle difficoltà in cui si
dibatte oggi, inadeguata a risolverle, la nostra classe politica. Il discorso trae origine, come è naturale, dall'esperienza canavesana e dall'intuizione centrale dell'Olivetti: la Comunità come cellula primaria dell'organizzazione dello Stato, come fonte del potere. Non si tratta soltanto, è bene chiarirlo, di una concezione amministrativa, come di un semplice strumento di autonomia locale, o, peggio, di decentramento amministrativo, anche se, come tutte le idee feconde, può trovare immediatamente un'applicazione di questo tipo, 1n direzione anticentralistica, antiburocratica, sollecitatrice delle fresche energie della periferia: ma essenzialmente, «essendo fondata su una entità naturale, si trasforma poi in un organo economico e via via in un mezzo di affermazione morale e spirituale». La Comunità è dunque - secondo Olivetti- divisione amministrativopolitica, unità economica, coes1one spirituale, espressione compiuta del radicamento dell'uomo al paesaggio e al tema della sua vita. A un simile vigoroso, unitario ideale si riferisce ogni altro momento del discorso politico olivettiano: l'architettura non sarà più, come oggi indicano tante delle sue manifestazioni, forma penosa di uno sradicamento spirituale, estraneità ai bisogni profondi dell'uomo (o, al contrario, "demagogico omaggio al folklore") quando avrà
individuato il suo nuovo, vero committente nella Comunità, «per la quale mondo spirituale e mondo materiale si riconciliano ad unità, onde l'architetto è chiamato, destinato a darle il volto nuovo, inconfondibile»; la stessa urbanistica (si legga il capitolo "Urbanistica e libertà locali", uno dei più felici e rivelatori di tutto il libro) che trova il suo adeguato strumento d'azione nel piano regionale, rischia di esprimersi in un disegno astratto e autoritario se non appoggia in concreto il suo sforzo razionale di coordinamento 1n una «ricostituzione culturale nell'ambito della regione», che può attuarsi soltanto in una misura umana e democratica, la piccola provincia, la Comunità; lo stesso decentramento industriale, «strumento di difesa dell'uomo» poiché «riconduce l'uomo alla terra e ristabilisce un'economia mista, un nuovo equilibrio tra l'agricoltura e l'industria, il solo capace di ridare all'uomo la perduta armonia», può aver luogo con efficacia soltanto se si garantiscono in concreto, con un serio impegno di pianificazione, le condizioni di uno sviluppo coordinato di quelle comunità nelle quali si vuole operare per ricostituirne le capacità economiche insufficienti. Questi concetti sono variamente ripresi (ed è la parte più singolare e toccante del libro, certo la più suggestiva e nuova dal punto di vista dei "generi letterari") nei
"discorsi ai lavoratori". Quando Olivetti prospetta a1 suoi operai il «bivio inevitabile» al quale l'Europa, «socialmente immobile nella sua disordinata attesa», va incontro, tra conservazione e progresso; quando si pone, di fronte ad altri operai, la domanda al tempo stesso inquietante e responsabile: «Può l'industria darsi dei fini?»; e si risponde che «la nostra società crede nei valori spirituali, crede nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede infine che gli ideali di giustizia non possono essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro»; quando infine, toccando qui probabilmente il vertice della sua ansia umana, prospetta l'ideale di «creare un'impresa di tipo nuovo di là dal socialismo e dal capitalismo»; ci sembra evidente che il timbro eccezionale di queste parole sia legittimato dalla consapevolezza di essere egli, in quelle circostanze, più che un capitano d'industria, il formulatore di un'ideologia e il leader di una Comunità. Il secondo gruppo di questi scritti è di natura più squisitamente e immediatamente politica. Il Saggio
preliminare intorno al salto dalla dittatura alla libertà è il nucleo di un saggio più ampio, che ci auguriamo venga portato a compimento, sul dimensionamento, in termini di libertà, di una società organizzata secondo il partito unico.
Il tema è affascinante; sono pagine che anticipano (danno per scontata) la fine della guerra fredda, e pongono in termini di creativa speranza i problemi della coesistenza. Del resto Olivetti aveva già nel 1944 definito il suo disegno politico-istituzionale come le «garanzie di libertà in uno Stato socialista», e aveva scartato a priori l'ipotesi di una frattura manichea, sul terreno politico, tra Oriente e Occidente. E, in realtà, tutto il senso politico della proposta comunitaria lo si coglie veramente se la si considera ideologicamente predisposta a risolvere i problemi strutturali non tanto di una società liberale, quanto di una società post-fascista e, possiamo aggiungere, di una società post -comunista, che abbia acquisito dalla dura esperienza dittatoriale la virtù cristiana della tolleranza. Olivetti è qui - come alcuni si chiedono - in pericoloso anticipo sui tempi, postula in ipotesi un fatto (la coesistenza tra Occidente e Oriente, oltre che come competizione, come confronto di sistemi, osmosi, via a una sintesi nuova) impossibile a verificarsi,
trascura
troppo
apertamente
i blocchi
militari, i rapporti di forza, le politiche di potenza? È difficile rispondere. Quello che è certo è che il vecchio Stato parlamentare rivela ogni giorno di più la sua sostanziale incapacità a esprimere la piena e concreta cittadinanza politica per quei sempre più vasti gruppi sociali che irrimediabilmente ne avanzano l'esigenza; e
rivela altresì la sua sostanziale incapacità a controllare, a favore della collettività, gli immensi problemi posti dalla rapida trasformazione dei mezzi di produzione. Si inseriscono a questo punto i capitoli finali del libro: a) la proposta di introdurre il concetto di funzione politica nel sistema attuale di rappresentanza politica, con la realizzazione del disposto costituzionale sulle regioni, la distinzione funzionale tra Camera e Senato, il rafforzamento dell'esecutivo nel confronti delle inessenziali fluttuazioni delle maggioranze parlamentari, pur nel rispetto delle sostanziali garanzie democratiche (proposte, occorre dirlo, che la nostra situazione politica è oggi di fatto impreparata a ricevere, ancorché l'esistenza della difficoltà sia chiara a tutti, e le altre varie contromisure avanzate eludano il centro della questione); b) le proposte di un Piano organico per il Mezzogiorno, che segna, nello sviluppo della posizione politica di Olivetti, un punto di conclusione e di arrivo, giacché riunisce gli spunti critici rivolti al disordine e all'empirismo dell'azione di promozione economica dei governi italiani dalla liberazione a oggi, con la concreta creatività, ideologica e operativa, di cui questo libro, e la sua vita, sono testimonianza. C'è, infine, un ultimo aspetto da considerare. Si è detto all'inizio come queste pagine aiutino a ricostruire insieme un pensiero e una biografia: più di ogni altro
volume di Olivetti, questa Città dell'uomo è scritta in prima persona. Come si colloca, in questo quadro, il Movimento Comunità, che nel capitolo Il cammino
della Comunità è rappresentato nel suo momento di maggior slancio organizzativo e collettivo? Dobbiamo considerarlo oggi come uno dei capitoli della vita di un uomo, consegnato a illustrare come una lunga didascalia la storia di un'idea, o come un'esperienza tuttora valida, ricca di un apprezzabile significato politico? Preliminarmente occorre rispondere che, come ogni esperienza che abbia impegnato per anni, in una lotta spesso difficile, insieme di difesa e di costruttiva affermazione, migliaia di uomini, esso ha un valore morale inalienabile, tanto più che tale impegno era volto (e ragionevolmente si può dire che abbia conseguito non pochi dei suoi obiettivi) a un'azione di promozione sociale e popolare. Si può, allora, arrivare ad ammettere questo: che le condizioni della lotta politica attuale hanno costretto il Movimento a scendere in un campo che non era il suo, a differenziarsi dai partiti sostanzialmente nei fini ma solo parzialmente nei mezzi: e che tali mezzi partitici non sono stati né chiaramente respinti né chiaramente accettati, essendo mancata al Movimento o la intera intransigenza della fedeltà ideologica, o la intera spregiudicatezza della rissa politica.
Si deve tuttavia, a questo punto, precisare che soltanto nella parte effimera della sua azione il Movimento Comunità può avere assunto in apparenza atteggiamenti di partito. Il nucleo sostanziale della polemica contro i partiti, contro la loro funzione sclerotizzante l'espressione delle volontà collettive, contro la loro funzione di produttori di una burocrazia politica connaturata fatalmente, per intima connessione, alla difesa di interessi (o di ideali) sezionali e quindi non comunitari, rimane più che mai valido; e del pari rimane più che mai valida l'idea centrale del Movimento Comunità di una rappresentanza politica comunitaria, fondata sulle strutture primarie della società e sulle fondamentali funzioni politiche. Oggi la situazione in Italia è arrivata vicino ai limiti di rottura: nell'interno stesso dei partiti si differenziano altri veri sottopartiti con un loro specifico sottoapparato, ed è corrente nel linguaggio della cronaca politica l'affermare che il gruppo di sinistra di un partito di destra si è spostato alla sinistra della destra di un partito di sinistra, o viceversa; queste sovrapposizioni non avrebbero nulla di male (a parte i valori di chiarezza), ma il fatto è che sempre di più il partito è considerato come un mondo a sé, un'astratta macchina per l'esercizio o la conquista del potere, ave si assumono o si declinano responsabilità che hanno perduto ogni ragionevole nesso con il
mandato, ancorché generico, ricevuto dal corpo elettorale; ave gruppi che riescono, in base a misteriose intese, a determinare il formarsi di una maggioranza di partito, decidono l'orientamento di scelte che interessano il destino dell'intera collettività. L 'idea di Comunità per cui la divisione, o meglio la dialettica eterna, tra conservazione e progresso passa all'interno di ogni ordine funzionale della società (e si misurerebbero perciò sul terreno concreto dell'economia, dell'urbanistica, dell'educazione e via dicendo, in una sequenza che sale organicamente dalla Comunità alla Regione e allo Stato) è un'idea a nostro giudizio di per sé inconciliabile con la ideologia da cui i partiti hanno tratto vita e che ne informa la prassi e il costume. E ciononostante, una tale impostazione assolutamente nonpartitica (che è uno degli aspetti più misconosciuti del realismo olivettiano, quello più spesso scambiato per utopia) non ha impedito l'abito mentale democratico, tollerante, aperto al dialogo con tutte le forze politiche degne di questo nome che è stato proprio del Movimento Comunità, del complesso mondo culturale di cui esso era naturale punto di riferimento, e dello stesso atteggiamento personale di Olivetti, che non può dirsi mecenatesco soltanto perché profondamente impegnato. E si deve infine aggiungere che tutto il significato della pur recente tradizione comunitaria si è trovato da
qualche anno a coincidere con una pos1z1one la cu1 esigenza, anche in puri termini di schieramento, appariva e appare indilazionabile: quella posizione (di ammodernamento delle strutture statali, di pianificazione democratica, di articolazione delle autonomie a ogni livello) sulla quale, soltanto, sarà possibile alle forze politiche cattoliche approfondire il dialogo con un diverso settore di forze popolari, dialogo che garantirebbe al tempo stesso un più rapido progresso sociale e una più stabile pace religiosa. Se dunque il Movimento Comunità si è inserito politicamente 1n questo processo, con un suo preciso orientamento, la giustificazione sussisteva, e sussiste. Comunque sia di ciò, i problemi che Olivetti poneva negli anni scorsi erano e rimangono tremendamente reali: rafforzamento delle autonomie locali, rappresentanza organica delle forze culturali, equilibrio città-campagna, lotta al disordine urbanistico, decentramento industriale, partecipazione operaia ai fini dell'industria, piano organico di promozione economica delle zone sottosviluppate, verso il pieno impiego e il risanamento del Mezzogiorno e delle Isole, funzionalità del Parlamento, distinzione di compiti tra Camera e Senato, stabilità dell'esecutivo di fronte allo spurio potere dei partiti, istituzione delle Regioni per la preparazione di un più largo ricambio della classe
politica e contro 1 pericoli delle esasperaz1on1 separatistiche ... ; e tutto ciò non in termini di angusto nazionalismo, ma secondo una visione unitaria di un mondo coordinato a un superiore livello. Non è, questo elenco, il sommario di un manifesto elettorale. È il risultato di una meditata e responsabile scelta, un contributo e un impegno (di profondo valore morale per l'uomo che lo offre, di alta qualificazione tecnica per l'esperienza da cui scaturisce, di vasta portata politica per il quadro istituzionale in cui si inserisce) verso quel programma di riforma spirituale e sociale di cui il nostro paese (e il nostro tempo) abbisognano. Novembre 1959=
~
Un'idea di vita è apparso per la prima volta come prefazione alla 18 edizione di Città dell'uomo (1960) ed è attualmente compreso nella nuova edizione dell'opera (Edizioni di Comunità, 2015).
UN ANNO ALL'UNRRA-CASAS
Unrra-Casas è un nome assai familiare per i comunitari. Per Adriano Olivetti costituì, attorno al 1950, la prima esperienza concreta del mondo politico romano: molti di noi vi sono passati, con alterno successo ma sempre senza indifferenza: altri amici, come Quaroni, vi hanno firmato opere che rimangono tra le più significative della loro carriera. Quando nel giugno 1959 Olivetti entrò a far parte, con il suo voto favorevole, della maggioranza del governo Fanfani, fallito un suo primo tentativo di dar vita a un nuovo ente (1-Res) che attuasse «programmi di coordinamento su base intercomunale o subregionale al fine di migliorare le condizioni culturali, sociali ed economiche, sollecitare e valorizzare le energie locali, elevare il livello di vita delle popolazioni», volse subito la sua attenzione all'Unrra-Casas per riprendere il lavoro interrotto, e inserire l'attività edilizia per i ceti meno abbienti, cui l'Unrra-Casas era dedita, in un più complesso quadro di promozione sociale ed economica
di comunità depresse. Il decreto di nomina di Olivetti a vicepresidente porta la data del 9 gennaio 1959, alla vigilia oramai della crisi del governo Fanfani: la presa di possesso effettiva avvenne, dopo lo scambio delle consegne con il vicepresidente uscente sen. Spagnolli, il 19 aprile. La mattina del 20 fui nominato direttore dei Servizi e sono rimasto in quell'incarico per circa un anno: la separazione, dopo la morte di Olivetti, fu consensuale e urbana, anche se non priva di qualche amarezza. L'anno dell'Unrra è stato tuttavia per me un anno di grande rilievo. Ho imparato molte cose, non solo sull'edilizia popolare, sul servizio sociale di quartiere e di comunità, ma anche sul funzionamento, sui compiti e sulle difficoltà delle amministrazioni dello Stato, pur essendo l'Unrra un osservatorio minuscolo e periferico. Mi sembra quindi utile riassumere qui le considerazioni che ho potuto fare vivendole giorno per giorno; indicare i problemi aperti e le conclusioni che potrebbero trarsi dalla mia modesta esperienza. La situazione istituzionale dell'Unrra-Casas (Comitato amministrativo soccorso ai senzatetto) è oltremodo confusa. Ente privo di personalità giuridica, in quanto, all'origine, sezione tecnica dell'Amministrazione Aiuti Internazionali, è tuttavia esplicitamente nominato in diverse leggi, ha proprietà di beni immobili, e vive di un
bilancio autonomo. N e è presidente il ministro dei Lavori pubblici, ma il vicepresidente, cui ne è affidata l'effettiva responsabilità, è nominato, almeno formalmente, dall' AAI. Il personale è inquadrato e dipende disciplinarmente dall' AAI, ma nei quadri alti moltissimi sono gli incaricati, sull'assunzione dei quali il ministro dei Lavori pubblici esercita un severo controllo; e di fatto l'attività tecnica fa capo al ministero, l'attività sociale all' AAI. Il bilancio è autonomo, è approvato dal ministro, ma sottoposto a revisione da parte dell' AAI: e comunque è costantemente deficitario, poiché grava su di esso il personale e l'attività del servizio sociale, che evidentemente compare soltanto nelle "uscite", ma che, d'altra parte, contribuisce a formare quella che è la più antica e valida caratteristica dell'Unrra: di essere cioè un ente che accompagna un'attività edilizia con un'opera di assistenza sociale e tecnica a favore dei suoi assegnatari. Il problema della definizione dell'autonomia dell'Unrra è vivo da tempo; ma tali e tante sono le difficoltà (patrimoniali, di inquadramento del personale, di bilancio), che la soluzione potrà trovarsi soltanto dopo che sia stata definita in modo chiaro una prec1sa qualificazione dell'attività dell'ente. In queste condizioni, è comprensibile come Olivetti, forzando la sua natura impaziente, si muovesse nei primi mesi con grande cautela. Non solo non portò con sé le
schiere, temute, degli "olivettiani", ma intese subito assicurarsi la collaborazione, e la corresponsabilità, della Giunta esecutiva, che egli presiedeva, formata da due rappresentanti del ministero dei Lavori pubblici (due direttori generali) e da due rappresentanti dell' AAI (uno dei quali era il suo predecessore sen. Spagnolli); fu redatto infatti per prima cosa e fatto approvare un regolamento della Giunta che ne stabiliva poteri e funzionamento, anche in relazione con i poteri del vero consiglio d'amministrazione dell'ente, il Comitato cioè presieduto dal ministro. Una simile prudenza si rivelò saggezza. Fu ben presto chiaro che l'arrivo di Olivetti in un'amministrazione statale non era una festa governativa. Alcune proposte o richieste avanzate anche a scopo di sondaggio (al ministro Togni: un contributo straordinario una tantum per costituire un più qualificato corpo di consulenti; al ministro Pastore: il finanziamento triennale di un programma di «sviluppo di comunità» in Abruzzo, ave già opera il gruppo di assistenti sociali dell'Unrra impegnato nel cosiddetto progetto pilota; ai ministri Pastore e Medici: lo schema di progetto di una Città degli Studi Industria Tecnica Arte nel Meridione; al presidente Segni, ministro dell'Interno: la richiesta di considerare come spese assistenziali erogate e quindi considerarle a carico della direzione Assistenza
pubblica del suo ministero - le somme non nscosse dall'Unrra per canoni di affitto di quegli assegnatari ex senzatetto di cui si potesse documentare che la morosità era involontaria e dovuta soltanto a estremo bisogno) rimasero senza esito alcuno. Il ministro Togni avocò a sé il diritto, mai esercitato sino allora, di ratificare gli incarichi di progettazione architettonica a professionisti: l'incarico a un gruppo capeggiato dall' arch. Rogers, proposto da Olivetti nell'estate del1959, è stato affidato dopo un'attesa di otto mesi. Si potrebbero citare altri episodi di questa modesta guerriglia: ma non ci vuole molta fantasia per immaginarli. Per brevità dirò che fu ben presto evidente una cosa: la volontà politica, forse presente in Fanfani, di rendere l'Unrra uno strumento operante, moderno, aggressivo di situazioni stagnanti, non esisteva più. Il bilancio dell'ente, rigido perché deficitario, non permetteva evasioni dalla ordinaria amministrazione. Il dono governativo della vicepresidenza dell'Unrra-Casas al rappresentante di Comunità si dimostrava, come mi avvenne di dire una volta, una scatola vuota. La storia dell'Unrra-Casas si era articolata, prima del nostro arrivo, pressappoco in tre periodi. Il primo risale all'immediato dopoguerra, prende rilievo dalla figura ascetica e autoritaria dell'ing. Bongioannini, ed è il periodo delle riparazioni, dell'emergenza, vissuto ancora
quasi in clima di guerra: fu certamente ricco di attività e di opere; e le casette un po' arcaiche, circondate da orticelli e pollai, che l'Unrra disseminò in quegli anni per i villaggi e i borghi appenninici lungo la linea Gustav e la Gotica (non esisteva allora, in quei luoghi, speculazione edilizia, e molto era lo spazio a disposizione) indicano bene qual era, negli uomini della vecchia generazione, l'ideale ingenuo e generoso della nuova Italia post-fascista: idillica, borghigiana e rurale, fatta soprattutto di "tempo libero". Il secondo periodo, caratterizzato dall'alleanza, nella Giunta, tra l'americano Mr. Nadzo e l'ing. Olivetti, tentò di portare l'Unrra sul p1ano delle realizzazioni organiche, di passare dall'edilizia all'urbanistica: risalgono a tale periodo lo studio sociologico su Matera, coordinato dal Friedmann, il bellissimo villaggio di La Martella (più apprezzato, ahimé, dalla cultura internazionale che dai nostri enti di riforma), il suggestivo progetto di Porto Conte, in Sardegna, dovuto a Figini e Pollini (non realizzato), l'inizio del borgo rurale di Borgo Venusio, opera di Piccinato, da tempo realizzato ma non ancora occupato per la difficoltà di trovare ai futuri contadini assegnatari la terra da coltivare. Fu un periodo culturalmente molto importante, ma si perdette in un vicolo cieco, giacché fu impossibile coordinare l'azione dell'Unrra con quella degli altri organismi dello Stato che operavano sugli
stessi territori. Da questa espenenza scaturì chiara in Olivetti l'esigenza, perfettamente "storica" e per nulla "utopistica", di un ente il quale, su di un determinato territorio, fosse dotato del potere e degli strumenti operativi per intraprendere una azione di pianificazione e di promozione economico-sociale nel suo intero
ciclo, dallo studio dei nuov1 insediamenti, all'educazione e l'assistenza, alla concreta sollecitazione (e fors'anche con partecipazione finanziaria) di nuove attività economiche: una o più minuscole TV A italiane, capaci di coordinare, e non di subire, gli interventi delle innumerevoli delegazioni degli enti che operano, ognuno con i suoi bilanci, i suoi uomini, i suoi metodi, i suoi interessi, nel nostro povero Mezzogiorno. A tali soluzioni si arriverà, credo, fatalmente (già per il Piano di rinascita della Sardegna si sta discutendo, a quel che sembra, uno schema del genere); ma in ogni modo in quegli anni, e con l'Unrra-Casas, non ci si arrivò. Il terzo periodo infine, il periodo Spagnolli (egli ricopriva al tempo stesso le cariche di vicepresidente e di direttore dei Servizi), può definirsi il periodo dell'ordinaria amministrazione. Le difficoltà obiettive, è giusto riconoscerlo, erano molte e gravi: esauriti i fondi Erp che garantivano una relativa autonomia, gli stipendi livellati e mortificanti favorivano l'esodo dei migliori, l'indifferenza governativa non stimolava certamente la
ncerca di una nuova tematica di attività. La sopravvivenza dell'ente divenne il porro unum
necessanum, la difesa dei bilanci familiari dei dipendenti una giustificazione morale: assai di più, purtroppo, che il contributo al progresso dell'edilizia popolare e dell'urbanistica democratica. Fu moralizzato l'ambiente con l'allontanamento di molto personale superfluo o di dubbia correttezza; compresso il disavanzo; resi impeccabili la contabilità e lo scrupolo della gestione; tenuto vivo lo spirito di corpo; assicurata ai dipendenti la stabilità di una dignitosa miseria. Sono, queste, tradizionali virtù cattoliche, non tuttavia delle più creative o delle più tipiche di uno Stato moderno proiettato verso una politica produttivistica. La "scatola" era certamente pulita, ma vuota. L 'Unrra-Casas era entrata in alcune leggi della ricostruzione, la 408 Tupini, la 640 Romita per l'eliminazione delle case malsane, la 173 in favore dei profughi giuliani, la 83 per gli ultimi finanziamenti ai danneggiati di guerra, e produceva alcuni miliardi di costruzioni edilizie all'anno, affiancandosi, senza particolare qualificazione, agli altri enti per l'edilizia sovvenzionata: l'Ina-Casa, gli Istituti case popolari, l'Incis. Per la necessità di ottenere tali incarichi l'Unrra aveva abbandonato la sua originaria vocazione meridionalista e gli specifici interessi a favore delle zone depresse e aveva annacquato la sua
organizzazione in tutte le unioni italiane. La legislazione italiana sull'edilizia popolare è francamente manchevole, frammentaria, arida, discontinua, in ritardo di almeno dieci anni sulla situazione reale del paese: del tutto estranea sia alle esigenze urbanistiche necessarie a un ordine civile, sia ai problemi di vita di quelle popolazioni cui restituisce, come dicono, "un focolare cristiano»; e costituisce senza dubbio, al di là certo delle generose intenzioni del legislatore, un sostanziale contributo all'anarchia. Uno dei quartieri Unrra-Casas alla periferia di Roma, a San Basilio, fu affidato all'architetto Fiorentino, che svolse assai bene il suo compito e realizzò uno dei quartieri popolari più armoniosi e concreti che si possano vedere. Oggi quel quartiere è praticamente circondato da mostruosi palazzoni amorfi e multipiano, e finirà con il rimanere come nel fondo di un pozzo, al pari (è stato scritto) di «una piccola colonia calvinista capitata nel mezzo di Sodoma e Gomorra». Ma il calvinismo, prego credere, non c'entra se non per fiore letterario. Una delle molte battaglie perdute dall'urbanistica italiana è un minimo di coordinamento tra edilizia sovvenzionata ed edilizia privata, che invece nello Stato italiano sembrano appartenere a due emisferi non comunicanti. L'Unrra-Casas aveva poche armi per contrastare questo stato di cose, e vi si è adagiato. La direzione tecnica
dell'ente portava verso la mediocrità un gusto quas1 voluttuoso. L 'ufficio progetti, che bene o male produceva per quattro o cinque miliardi di case all'anno, comprendeva un unico architetto, assistito da un saltuario consulente: il confronto con l'impegno culturale dell'Ina-Casa era per noi schiacciante. I diversi tipi edilizi (non destinati, ragionevolmente, a rimanere nelle antologie dell'architettura moderna) venivano ripetuti nelle diverse regioni italiane, sotto l'assillo della fretta, senza alcuna ricerca di ambientamento paesistico o urbanistico. Il paesaggio, questa straordinaria ricchezza italiana, non entrava mai in primo piano nello studio del progetto. Per eccesso di zelo, ci si teneva largamente al di sotto dei minimi di costo, pur insufficienti, consentiti dal ministero; mentre le circolari Togni stabilivano un massimo per costo-vano di 440.000 lire, la media Unrra era inferiore alle 350.000; la differenza in meno andava in gran parte a detrimento della superficie, e le grosse famiglie del sud si accatastavano in appartamenti di meno che 60 mq con la scusa, in verità comoda, che nelle baracche da cui provenivano "stavano peggio". N on esisteva un ufficio tempi, né un ufficio metodi, né un ufficio materiali; il concetto di produttività era, ufficialmente, sconosciuto, e a contenere le proroghe chieste dalle imprese per la consegna dei lavori ultimati servivano soltanto i
soprassalti delle severe circolari ministeriali. L 'ufficio statistiche era rappresentato da un impiegato che, chiuso in una stanza, riempiva a mano certe schede con dati in ritardo in media di sei mesi. A molte di queste cose provvedeva, come è naturale, l'iniziativa personale di qualche funzionario più aggiornato, la memoria, l'improvvisazione, e la grande risorsa nazionale del pressappoco. Gli edifici venivano in realtà costruiti con onestà artigiana, e senza rischi: il che non è certo poco. Ma al di fuori dell'architettura, al di fuori di un profondo impegno sociale proiettato verso l'avvenire, al di fuori di una seria considerazione economica (l'economicità di un programma, di un intervento, di un'operazione, era valutata in relazione al bilancio dell'ente, non all'utilità che potesse derivarne alla collettività nazionale, o a parametri di intrinseca correttezza del processo produttivo). Il filo diretto di questa direzione tecnica era con il ministero, con cui era regola fondamentale "non avere grane", e gli assegnatari (la legge 640 non prevedeva assistenza sociale) si incontravano spesso per la prima volta sul palco tricolore delle inaugurazioni ufficiali. Non vorrei insistere, e scivolare nell'aneddotica. Il problema deve essere posto in termini più generali: un ente statale deve avere una funzione di leadership per giustificare la propria esistenza; una organizzazione
centralizzata è legittimata soltanto, a m1o parere, dall'esistenza di un piano, di un'azione organica che investa in periferia i frutti di una sperimentazione accurata sul piano tecnico e di un meditato indirizzo sul piano politico in senso lato. Se "al centro" non esiste un pool di ricerche, di idee, di contenuti programmatici animato da una chiara volontà politica, il "centro" è un fatto negativo, non compensato dai vantaggi della semplificazione
contabile.
Diviene una ispirazione
autoritaria formale, un canale di distribuzione del danaro pubblico, una tentazione al "sotto governo" (anche se questo non è stato, in generale, il caso dell'Unrra); e avrebbero allora ragione, a parità di risultati, gli ingegneri e i geometri di provincia a lamentarsi che "lo Stato" gli porta via il lavoro. Non
vorrei
tediare
il
lettore
con
il
resoconto
particolareggiato di quanto è stato fatto, con molta paz1enza,
per
uscue
dal
tipo
di
"ordinaria
amministrazione" s1nora descritto, senza d'altra parte scalfire quanto di positivo ci aveva lasciato la precedente gestione. Fu suggerito al ministro T ogni (che, per la verità, lo accolse immediatamente) di elevare il costovano consentito per le case della legge 640 da 440.000 lire a mezzo milione; e sparirono quindi dai nostri progetti, a poco a poco, le stanze da letto 3x3 che alla sensibilità di Olivetti davano un'insofferenza quasi
fisica. Fu rinforzato l'ufficio progetti con cinque giovani architetti, alcuni dei quali ricchi di esperienza vissuta a lungo in Svezia e in Danimarca. Fu costituito un ufficio urbanistico, con il compito di giudicare sull'idoneità delle aree proposte dai Comuni o dai nostri uffici distrettuali e di indicare le soluzioni migliori per l'inserimento dei costruendi edifici nell'ambiente (fu anche studiato uno standard di "giuoco bimbi" per arredare i nostri quartieri; mancavano anche quei pochi soldi necessari, ma ci ripromettevamo di insistere). Fu disposto perché ogni progetto fosse corredato, oltre che della consueta scheda tecnica, di una scheda di informazioni sociali redatta da un assistente sociale, e di una scheda dei costi (in relazione alle diverse situazioni regionali dei prezzi, statisticamente accertate sui precedenti programmi). Fu articolata la Direzione tecnica in due ben attrezzati servizi (progettazionecalcoli-capitolati e direzione lavori). Fu stabilita una programmazione trimestrale degli interventi, resa nota immediatamente ai diversi uffici distrettuali. Fu affidata alla responsabilità collegiale di un qualificato "Gruppo Progetti", comprendente tutti i capiservizio tecnici, l'approvazione definitiva dei singoli progetti di massima (nel primo trimestre del 1960 furono inviati all'approvazione degli organi competenti progetti per circa due miliardi e mezzo, contro un miliardo e 77
milioni del primo trimestre del 1959: l'apporto dei nostri giovani architetti si era dunque fatto sentire anche quantitativamente. Non si tratterà certo di una serie di capolavori; ma, spero proprio, al di sopra della semplice dignità). Furono selezionati con attenzione decine di valenti ingegneri, candidati a sostituire il vecchio direttore tecnico, prossimo ai limiti di età; l'ing. Olivetti partecipò egli stesso all'ultima fase della selezione, e si apprestava a presentare alla Giunta, per la scelta definitiva, tre candidati che sembravano avere i requisiti necessari di esperienza, di energia e d'ingegno (è superfluo dire che costoro, morto Olivetti, non furono mai presi in considerazione: il vecchio direttore tecnico è stato sostituito dal suo vice, in omaggio all'economia e alla "tradizione"). Fu rafforzata l'autorità del servizio amministrativo, trasformato in Direzione, per facilitare il coordinamento tra attività tecnica e amministrativa sino allora più giustapposte che cooperanti. Era 1n programma la meccanizzazione della contabilità dei lavori, per accelerare i controlli e consentire un rapido esame economico dei diversi interventi edilizi, dispersi in centinaia di cantieri contemporaneamente. Fu anche studiata una diversa distribuzione degli assistenti sociali, che erano in organico quasi cento (ma con un turn-over costante annuo del 30% e oltre, dati i bassi stipendi e le disagevoli località di lavoro) secondo una duplice
qualificazione:
da
un
lato
assistenza
familiare,
menagère e di quartiere (nei gruppi edilizi cittadini), e, dall'altro lato, lavoro propedeutico allo "sviluppo di comunità", nelle zone dell'Abruzzo e della Garfagnana ave i nostri assistenti sociali operavano già in équipe con tecnici agricoli e amministratori locali. Anche tale dicotomia rispondeva al doppio ordine di possibilità che intendevamo tenere aperto: rendere sempre più organica e ben strumentata l'attività nel campo dell'edilizia, e affrontare, non appena se ne offrisse l'occasione, compiti di promozione economico-sociale. Tutte le modeste modifiche organizzative, i ritocchi e gli aggiustamenti che furono fatti o predisposti erano quindi in funzione di uno sviluppo dell'Unrra, di un aumento delle sue responsabilità, del suo "peso". Su tre direttrici sembrava interessante volgere: le prime due, di importanza minore, la terza (il Piano della scuola) ancor oggi decisiva per il destino dell'Unrra. Alle prime basterà accennare rapidamente. La legge 1177 prevede, tra i provvedimenti straordinari per la Calabria, lo spostamento di quegli abitati che siano giudicati così gravemente lesionati da terremoti, alluvioni o frane da essere pericolosi. L 'unico spostamento realizzato con la creazione di Africo Nuova è un esempio eloquente di provvedimento certo ispirato al bene sociale ma disastrosamente condotto. Trasferiti
dalle montagne dell'interno alla riva del mare, senza terre da coltivare, in un ambiente del tutto diverso da quello loro tradizionale, gli abitanti di Africo hanno perduto anche il povero, faticoso equilibrio economico e spirituale che gli offriva la loro grama vita di montanari. Delle 358 famiglie originarie, ancora nel 1959 un centinaio vivevano nei campi profughi, altre grazie a forme diverse di assistenza. Si sono creati, quasi artificialmente, e alla lettera, dei déracinés. Il ministro Pastore, recatosi in quei luoghi per una visita, ne tornò sconvolto e, forse, più fiducioso sull'utilità della scienza urbanistica. Fummo informati che stavano maturando le condizioni per lo spostamento di altri tre abitati calabri, Piminoro, Papaglionti e S. Donato di Ninea. Si trattava di un compito al quale l'Unrra-Casas era particolarmente qualificata (tra l'altro ha realizzato in passato un importante borgo a Cutro e ha una tradizione di consensi popolari in Calabria); proponemmo quindi la nostra collaborazione per lo studio dell'intero programma di spostamenti. Ma far coincidere i punti di vista e le opportunità dei diversi enti che hanno qualche competenza in questo problema è stata un'impresa superiore alle nostre forze (è difficile come aspettarsi che siano estratti al lotto, un sabato sera, tutti i numeri che finiscano per 7). Del problema si parlò nella prima riunione di Giunta cui ho assistito, il 6 maggio del1959.
So che se ne è parlato, senza poter registrare il minimo progresso, nella riunione che la Giunta ha tenuto dopo la morte dell'ing. Olivetti e la mia partenza. Anche le costruzioni civili per le società industriali di diritto pubblico potevano essere per l'Unrra un interessante campo di azione. Per due società del Gruppo Eni, l'Unrra sta costruendo qualche decina di alloggi a Ferrandina e a Latina. Ma i programmi più massicci e impegnativi che nei prossimi anni dovranno essere realizzati (Gela, Taranto) impongono uno studio accurato, un piano finanziario, un coordinamento organico con le esigenze industriali, che mi auguro prevedano l'impiego dell'Unrra. Per il Piano della scuola, fu proprio il sen. Spagnolli a preparare il terreno con il compianto sen. Zoli, presidente della Commissione istruzione al Senato, ave nell'estate del 1959 stava per essere discusso il progetto di legge presentato a suo tempo dal governo Fanfani. In quei mesi, molti erano i pretendenti al grosso programma decennale di edilizia scolastica, viva la rivalità tra ministero della Pubblica istruzione e quello dei Lavori pubblici, in allarme le schiere degli studi professionali di architetti e ingegneri nel timore che un nuovo "carrozzone" statale li escludesse da un così ricco, e interessante, impegno. Ricordo ancora la diplomazia e la passione con cui Adriano Olivetti, nel
ridotto dell'Eliseo, nella riunione che doveva portare alla costituzione dell'In-Arch, rassicurò gli architetti sulla volontà dell'Unrra di portare nel Piano della scuola i più validi contributi dell'architettura e della pedagogia contemporanee: e li sollecitava, anzi, a prepararsi. Per il sen. Zoli preparammo, in pochi giorni, ma con estrema attenzione, una proposta di modifica al disegno di legge governativo (per ciò che riguardava il "Titolo 1o Edilizia scolastica") che ancor oggi, dopo più di un anno di discussioni e di ripensamenti, mi sembra non priva di valore. In sostanza Olivetti chiedeva il contributo totale dello Stato a favore dei Comuni poveri, postulava la costituzione di una "Gestione Scuola" nell'ambito dell'Unrra-Casas (nel Consiglio direttivo dovevano essere presenti i ministeri della Pubblica istruzione, dei Lavori pubblici, del Tesoro, del Lavoro, l'Inu e l'Ordine degli ingegneri); e a questa "Gestione Scuola" affidava i più ampi poteri: di progettare, di dirigere i lavori, di sostituirsi ai Comuni e alle Provincie negli adempimenti necessari all'ottenimento dei mutui, di dare il giudizio sulla idoneità delle aree, riducendo sempre al minimo necessario la trafila burocratica degli inutili visti e controlli. In questo nuovo organismo, egli vedeva l'identificarsi effettuale della competenza tecnica e della competenza politica, che era, giustamente, il leitmotiv del suo pensiero di costituzionalista. Zoli non arrivò ad
accettare tutto, ma abbastanza. L'art. 13 bis del progetto di legge che andò in discussione al Senato concedeva a più di metà dei comuni italiani il diritto al contributo totale dello Stato per coprire le loro necessità in fatto di edilizia scolastica; affidava all'Unrra la progettazione generale per tutti questi comuni di categoria, per dir così, privilegiata; e sveltiva sensibilmente le procedure a favore dell'Unrra. Il Senato approvò in via definitiva (art. 15) questo schema; ma al tempo stesso al Senato si ebbe la prima, grave avvisaglia dell'ostilità del ministro T ogni nei nostri confronti. Senza alcun preavviso, senza che Olivetti ne avesse il minimo sentore, il presidente del Comitato Unrra-Casas operò in aula il tentativo di silurare l'incarico al Comitato Unrra-Casas. «Il ministro Medici» - si legge sul resoconto sommario della seduta del 3 dicembre 1959 - «a nome del ministro dei Lavori pubblici propone che sia modificato il primo comma dell'articolo in discussione nel senso che i Comuni possano rivolgersi per l'adempimento degli obblighi in materia di edilizia scolastica, non solo all'Unrra-Casas ma anche agli Istituti autonomi per le case popolari e all'Incis, che hanno finora dato ottime prove della loro efficienza». Questo emendamento avrebbe riportato anche nell'edilizia scolastica la pluralità e la confusione che abbiamo lamentato per l'edilizia popolare, avrebbe
impedito ogni possibilità di programmazione, di organicità: a parte il fatto che gli altri due enti, più forti dell'Unrra e meglio introdotti al ministero, si sarebbero certamente assicurata la polpa del programma edilizio, lasciando a noi gli ossi. Seguì una discussione abbastanza vivace; Zoli, vecchio galantuomo fedele alle pos1z1oni 1n coscienza assunte, tenne duro; l'emendamento del governo fu messo ai voti e bocciato (con sollievo, credo, dello stesso ministro Medici). Alla Camera, data la volontà della maggioranza di far passare la legge così com'era al fine di non riaprire la discussione sulla scuola privata, non erano prevedibili altre sorprese. Il primo punto era segnato a nostro favore; ma le difficoltà erano tutt'altro che finite. Amici di vecchia data (ma, sempre di vecchia data, più acuti che generosi) come l'o n. Codignola continuavano nel loro atteggiamento di sfiducia verso l'Unrra, nonostante che la presenza di un uomo come Adriano Olivetti dovesse dare, almeno a chi lo conosceva, le garanzie necessarie. All'interno, la direzione tecnica non nascondeva la sua freddezza per l'operazione Piano della scuola, programma, data la enorme dispersione delle scuole elementari e la modestissima entità della maggior parte dei cantieri, considerato "poco remunerativo" (anche questa è l'Italia: amici moralisti, pensosi avversari "giolittiani"). Correva anche voce che
il ministero dei Lavori pubblici avrebbe al momento buono imposto all'Unrra l'obbedienza al suo Centro studi. E d'altra parte il nostro bilancio non consentiva di affrontare immediatamente, con tutta l'energia che sarebbe stata indispensabile, la preparazione dei nuovi strumenti d'azione. Circumnavigavamo il problema da lontano. Avviammo una piccola biblioteca specializzata (la bibliotecaria è stata licenziata 1n giugno); raccogliemmo in Europa parecchio materiale tecnico e legislativo sull'edilizia scolastica; inserimmo tra i consulenti (consulenza rapidamente cancellata con la "nuova gestione") uno dei pochi architetti che da anni si siano occupati di questi problemi al ministero della Pubblica istruzione, e gli affidammo un primo studio statistico-tecnico sul costo aula medio praticato in Italia (che ci risulta oscillare paurosamente dai tre milioni e mezzo ai dodici e oltre); incaricammo un altro giovane ma espertissimo architetto di studiare l'applicazione, ai tipi edilizi scolastici regolamentari, delle strutture metalliche prefabbricate; raggiungemmo un accordo verbale, di massima, con la Cassa depositi e prestiti sulla necessità di una leggina o di un provvedimento ministeriale per rendere meno macchinosa l'operazione della concessione dei mutui; nusc1mmo a farci finanziare dalla Cassa del Mezzogiorno e dal ministro della Pubblica istruzione un'approfondita inchiesta in
Calabria (tuttora in corso) sulla scuola dagli 11 ai 14 anni, svolta praticamente in tutti e 400 i comuni di quella regione. E soprattutto parlammo a lungo, insieme con l'ing. Olivetti, vagliando con quella passione e quel gusto dei particolari che gli erano propri, parecchie soluzioni organizzative (cui accennerò alla fine). Ma quando fu proposto, per cominciare a discutere, di integrare la nostra Giunta con due rappresentanti della Pubblica istruzione, d'ordine del ministro i due direttori generali dei Lavori pubblici bocciarono la proposta. Quando proponemmo di organizzare un convegno con i rappresentanti delle categorie professionali, tecniche e imprenditoriali interessate al programma edilizio del Piano della scuola, di nuovo il ministro Togni indicò con il silenzio la sua disapprovazione. Noi credevamo fermamente (come scriveva Oliv etti nella relazione presentata alla Giunta ed inviata al ministro) «che l'organismo indicato dal governo a compiti di edilizia sovvenzionata s1 debba porre all'avanguardia nell'individuare la corretta impostazione e soluzione dei problemi tecnici inerenti a un notevole programma edilizio che riveste quindi anche un notevole rilievo industriale; e debba avere perciò una funzione di normalizzazione che non potrà non avere utili conseguenze sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista della rispondenza funzionale di metodi e
materiali agli scopi affermati dal legislatore». Era, e rimane, un'impostazione corretta e moderna della questione, un modo per cominciare a mettere l'edilizia scolastica, in concreto, all'ordine del giorno per un settore importante del paese "reale"; e per metterla all'ordine del giorno dalla parte giusta, degli interessi collettivi. Il convegno doveva tenersi in febbraio: il sen. Battista, presidente dell'In-Arch, aveva aderito con molto interesse. Non potevamo d'altro canto indirlo senza il consenso del ministro, consenso che non venne. Alla fine di febbraio all'Unrra, morto Olivetti, come è noto, cambiò il vento. Di questa, come di molte altre cose, non si parlò più. Mi dispiacerebbe se qualche lettore volesse leggere in questa cronaca la traccia di un risentimento che non c'è. La mia ambizione o il mio proposito è di scrivere un capitolo di cronaca culturale italiana, non una protesta. Personalmente, la mia partita con l'Unrra è chiusa senza incidenti. In quell'anno di Unrra ho imparato molto, e anche ricevuto cortesie innumerevoli, "prima" e "dopo": e innanzitutto dal sen. Spagnolli, che ha sempre avuto e per la memoria di Olivetti e per la mia fatica un riguardo rispettoso e amichevole. Il dissenso non è stato mai formale, o personale, bensì di contenuti e di metodi. N on ritengo neppure illegittimo che il ministro Togni avesse idee e convincimenti diversi da quelli di Olivetti, e che,
nei limiti delle sue attribuzioni, abbia cercato di accantonarlo o di mutilarne le aspirazioni (anche se ci siamo trovati per mesi in una situazione curiosa e un po' ingenua, di disagio per non poter lavorare abbastanza, di avere un grosso surplus di energia, e, per quanto riguardava Olivetti, di capacità, che nmaneva inoperoso). Tutto questo rientra, semmai, in un giudizio politico che non è in primo piano nel discorso di oggi. Ciò che rimane da dire è altro. Giacché, se è chiusa la questione personale di chi scrive, rimane invece più che mai aperta, a mio giudizio, la questione Unrra, sia per quel che riguarda il suggerimento sempre attuale di Oliv etti di creare, nell'ambito della politica di sviluppo cui il governo sembra orientarsi con i Piani regionali, uno strumento agile di studio, di coordinamento e d'intervento capace di portare a compimento in breve tempo almeno qualche ben circoscritto programma; sia, più immediatamente, per quel che riguarda il Piano della scuola. Il Piano decennale della scuola, anche se ci limitiamo a osservarne l'aspetto edilizio, costituisce un formidabile impegno per la classe dirigente di questa Repubblica. L'Italia si è affacciata al consesso delle nazioni moderne con strutture in molti casi arretrate; la scuola è una di queste, e basta avere talvolta attraversato, per esempio, le zone montagnose della Calabria, essere entrati in quegli squallidi interni che
dicono aule, per aver dubitato di essere nella stessa patria e di vivere negli stessi anni delle nostre ordinate e agiate città del nord. L'occasione offerta dal Piano decennale consente di riguadagnare gran parte dello svantaggio che ci separa dalle situazioni più avanzate; non può quindi essere impunemente sprecata, o giocata con leggerezza. Costituisce un impegno della cultura italiana, e non soltanto un paragrafo dell'attività di alcuni governi. L'equivoco nel quale mi pare che si possa cadere, e di cui anche nella discussione senatoriale si è colta l'eco, è di considerare questo programma edilizio alla stregua di un complesso cantiere che serve a riparare certe lacune quantitative, a porre a disposizione di Comuni e Province un certo numero di aule e di servizi; e di considerare l'Unrra, che tale programma dovrà attuare, come una grossa impresa di mastri murari, ingegneri e geometri, dediti a tirar su dei muri che resistano alle intemperie (e infatti, per il ministro, andava tutto bene: Istituti case popolari, Unrra, Incis: si vuol forse negare che questi organismi abbiano una piena esperienza di costruzioni?). Non c'è alcun dubbio che anche il problema organizzativo delle progettazioni, direzioni lavori, eccetera, date le dimensioni del programma, può costituire oggetto di sene preoccupazioni: a ritmo pieno, si dovrebbero costruire in Italia (secondo il Piano) circa 60 miliardi l'anno di
edifici scolastici, di cui almeno la metà a canea dell'Unrra, che dovrà quindi moltiplicare per c1nque volte la sua capacità produttiva: il che non è cosa che s'improvvisa. Ma l'importante non è questo. Si tratta (questo è l'importante) di convogliare le esperienze più valide della pedagogia, dell'urbanistica, dell'architettura, nel Piano, insieme con i raggiungimenti più controllati e accettabili della tecnica edilizia; e di adattare questi risultati alle situazioni così complesse e diversificate della realtà italiana, alle esigenze locali, ai paesaggi, alle tradizioni; e infine si tratta di rendere tutto questo (stabilita la giusta impostazione) operativo, quotidiano, organico, continuo. Occorre cioè che, fisicamente, nell'Unrra o a fianco dell'Unrra siedano agli stessi tavoli, concretamente investiti di responsabilità, architetti, educatori, amministratori locali, ave necessano urbanisti; e non soltanto nel consiglio direttivo centrale, ma anche negli organi periferici, almeno regionali o forse ancor meglio provinciali o interprovinciali. Occorre saper graduare un sicuro gusto unitario, e un unitario indirizzo pedagogico, con la sensibilità degli artisti chiamati a collaborare alla progettazione degli edifici e degli arredamenti, e con le diverse esigenze (climatiche, sociali, paesistiche, funzionali) delle varie regioni o sub-regioni italiane.
D'altra parte, d'accordo quasi tutti nel ritenere utile un certo grado di standardizzazione in qualche elemento progettistico, è ancora da fare, credo, una valutazione concreta e attenta della misura sino a cui spingere tale standardizzazione (o normalizzazione, come preferiva dire Olivetti); sarà possibile infatti individuare una fascia di tipi scolastici in cui "l'ottimo" sarà una forte concentrazione di elementi ripetibili, standardizzati; una fascia intermedia, forse, ave sarà conveniente un impiego parziale; un'altra fascia ave sarà consigliabile ridurre al minimo o escludere siffatto impiego. Può darsi che questi studi siano già stati fatti con la necessaria accuratezza; sino allo scorso maggio, tuttavia, nessuno si è fatto vivo per informarcene. Infine, è da tenere presente anche l'aspetto su cui si appuntava l'attenzione del nostro convegno non svolto; e cioè il collegamento del programma edilizio del Piano della scuola con le possibilità produttive dell'industria: è in questo quadro nazionale che il Piano, in ultima analisi, misura la sua economicità. L 'industria deve essere messa in grado per tempo di conoscere e di discutere i prodotti che deve fornire perché rispondano alle esigenze funzionali dichiarate dal committente più importante, che in questo caso è, attraverso l'Unrra, lo Stato: e l'equilibrio tra esigenza funzionale e costo è evidentemente un dato importante del problema, da
valutare con chiarezza in sede preventiva. Soltanto così, a mio parere, un ente di Stato, che assorbirà almeno il 50% del programma dell'edilizia scolastica, potrà avere una reale funzione di leadership e di indirizzo, sia nel campo culturale sia in quello economico. Ma è inutile insistere su questi concetti, del resto spero abbastanza chiari. In sostanza mi sembra necessario pensare a un più piccolo "piano" nel Piano, anticipare sulle scadenze, prevenire l'insorgere delle anarchie, impedire le improvvisazioni dettate poi, all'ultimo momento, dalla necessità (per ottenere l'approvazione burocratica di un progetto passano, in media, sei mesi: poi, se un architetto impiega più di una settimana per pensare a una variante, è considerato un traditore della patria. N on è così?). Se si considera quanto avrebbe potuto essere più fruttuoso, da molti punti di vista, ave fosse stata più forte la consapevolezza tecnica e politica dei problemi da affrontare, il pur grandioso sforzo che nel dopoguerra si è compiuto per l'edilizia popolare in Italia, ci si deve per forza augurare che nel campo scolastico si batta sin dal principio la strada migliore. Il mio anno all'Unrra-Casas si chiude cordialmente con questo augurio. Che l'Unrra sia potenziato, reso autonomo, messo in grado di adempiere con piena responsabilità alla funzione cui è stato chiamato, e a quelle che potranno
essergli affidate in avvenire, anche in virtù di una larga e generosa tradizione alla quale sono alla fine lieto di aver portato il mio piccolissimo contributo; e del resto siamo abbastanza giovani, credo, per sapere ancora bene ciò che Adriano Olivetti amava spesso ripetere: che nella vita di un uomo la storia più importante è sempre la storia da fare. «Comunità», n. 82, settembre 1960
0L TRE LA MORTE
Tentare di stringere in un giudizio la vita e l'opera di Adriano Olivetti va al di là, oggi, delle nostre forze. Il vuoto che egli lascia si apre dinanzi a noi come una voragine, la sua figura si fa, nel tempo, più grande. E poi, gli abbiamo voluto molto bene, e nelle ore fatali e tragiche della vita accade che l'amore si faccia umiltà e silenzio, come silenziosa era la folla che per l'ultima volta si è raccolta e stretta attorno a lui. C'è tuttavia, anche ora, una stupenda parola cristiana che certamente egli ha amato e che può, oggi, definirci: non solum in
memoriam, sed in intentionem. È la parola della continuità della vita, la parola che trasforma la pietà e il ricordo nell'affermazione dei valori che vanno oltre la morte, la parola che impegna alla fedeltà e all'avvenire; ed è per questo anche la nostra parola. Indimenticabile ingegner Adriano. In via Jervis, bella orma1 come una v1a del Rinascimento, ad
accompagnarlo per l'ultimo passaggio nelle vie della sua città c'era ieri una folla che può aiutarci a comprenderlo: lavoratori, operai, gente di campagna, capitani di industria, tecnici, architetti, scrittori, operatori sociali, studiosi. Nella varietà di questa spontanea impressionante rappresentanza è una riprova della straordinaria ricchezza della sua personalità; a ognuno di loro egli aveva offerto una testimonianza, con ognuno di loro affrontato un loro problema. La vastità già di per sé straordinaria dei suoi interessi aveva, di più, questo di prodigioso: che nell'estrema complessità della sua natura egli riusciva a trarre volta per volta indicazioni semplificatrici, concrete, risolutive. Per questo è stato, per tanti e tanti, un animatore: perché era egli la sollecitudine contro l'indifferenza, la fantasia creativa contro l'inerzia dell'anima. Era, certo, un intransigente: vista nella luce della storia la sua vita si colora di una profonda coerenza che, giorno per giorno, ad alcuni di noi può essere sfuggita nel suo valore; ma al rigore ideologico, alla tenacia dei pnnc1p1 1n lui s1 contrapponeva e si sovrapponeva una sconfinata tolleranza umana; nella sua ansia di giustizia egli sapeva sempre far posto alla carità nel suo valore più profondo. Di qui nasceva la sua capacità di intendere e di esprimere linguaggi così distanti e così diversi; la voce
umile del bisogno come il più arduo problema organizzativo, il doloroso appello della solidarietà come l'alto discorso della scienza. Il segno che lascia non è solo la possente grandezza della sua fabbrica o lo schema di un ordine sociale più vicino alla ragione; è anche il segno di un accorato, inesauribile interesse umano. E non per nulla il suo socialismo democratico egli amava definirlo personalista e cristiano. Canavesano tra i canavesani, profondamente radicato alla sua piccola patria, egli era con altrettanta naturalezza protagonista primario nel dibattito culturale internazionale; ed è anche questo un tratto della sua genialità che aveva colto il valore inesauribile delle autonomie e della scienza nel progresso umano, lasciando alle spalle i pigri compiacimenti della provincia e i gretti nazionalismi. Il senso della sua vita è stato quello di portare le esigenze della ragione umana nell'ordine dello spirituale. Il suo traguardo era l'armonia tra le forze che inquietano l'uomo moderno. Se una contraddizione egli esprimeva, come autorevoli amici hanno scritto in questi giorni, essa era l'ansia per lo squilibrio, la contraddizione, la disarmonia tra ciò che il nostro tempo ha prodotto nel suo meglio, il progresso tecnico e scientifico e gli strumenti più validi di intervento sociale, e ciò che invece al nostro tempo
manca, la dimensione spirituale, l'amore disinteressato alla verità e alla bellezza. N on era quindi, l'impegno politico che egli aggiungeva alla sue interminabili giornate di lavoro, ambizione o svago. Era la consapevolezza profonda che in quella sua proposta comunitaria si riassumeva e si concludeva la più vera testimonianza della sua vita. Nelle commosse parole che da ogni angolo del mondo e da ogni gruppo sociale giungono a commemorarlo, è dato di cogliere, oltre la reverenza per chi scompare nel pieno di una lotta generosamente combattuta, un accento sincero di riconoscimento e di riconoscenza. Oltre la morte anche i messaggi hanno un loro destino e un loro futuro: quello di Adriano Olivetti è oggi, amici, a noi affidato. Non
solum in memoriam, sed in intentionem. Il primo dovere è di rimanergli fedeli. «La Sentinella del Canavese», 4 marzo 1960
UNA NATURA DI RIFORMATORE
La testimonianza che posso portare di Adriano Olivetti, alla fine di una lunga amicizia, è abbastanza semplice: Adriano Olivetti era un uomo che credeva nel bene e nel suo contrario. Ci credeva con passione piena, e non solo per convincimento o abitudine morale, ma anche per una vocazione razionale, per una disposizione di natura estetica; ci credeva con tutta la straordinaria, inesauribile fantasia di cui era dotato, e che lo impegnava momento per momento nell'escogitare le soluzioni più vicine alla forma in quel momento possibile del bene. In questa complessa ispirazione ideale tutta versata nell'azione, tutta sostanziata di responsabilità, sta a mio parere il tratto più singolare e irripetibile della religiosità di Adriano Olivetti: la sua opera nasce da questo gusto insaziabile e raffinato della scelta, del raggiungimento, della perfezione storicamente probabile, gusto sorretto da una commozione umana partecipe e da una fantasia creativa e audace, quanto puntigliosa e sottile; e perciò
per lui la dicotomia tra bene e male si ramificava all'infinito nel tempo, si riproduceva in ogni aspetto e momento della vita, ed egli era continuamente pronto a riconoscerla, a discriminarla (e a intervenire) senza stanchezza in ogni occasione della sua giornata. Uomo di cultura molteplice, sensibilissimo, e quant'altri mai tollerante, Olivetti sapeva perfettamente come il bene si presenti ai nostri occhi sotto l'aspetto del relativo, ma nel momento in cui una scelta cadeva nella sua sfera d'intervento era capace di credervi come in una scelta assoluta: sia di fronte a un disegno di legge perfettibile come di fronte a una brutta architettura, sia per lenire un'ingiustizia, una sofferenza, un disagio che si fossero creati in fabbrica, sia per mettere "l'uomo giusto al posto giusto" nello scacchiere dell'organizzazione, sia per trovare la forma estetica più funzionale e più bella a un edificio o a una macchina. Da questa sua veramente eccezionale agilità nel passare dal concreto all'astratto e viceversa senza mai perdere di vista la coerenza dei fini, ciò che per lui era il bene, derivava l'intensità della azione di animatore nelle discipline più diverse. Se c'era un sentimento che gli era estraneo, una colpa in cui in tanti anni non l'ho mai visto cadere, era l'indifferenza. La sua natura era dunque quella di un riformatore, e il suo pensiero si è modellato su tale natura: ciò che nel suo disegno costituzionale, lo Stato federale delle
Comunità, o nelle sue proposte politiche, può apparire a un primo esame come astratto, è in realtà dovuto alla sua fantasia ravvicinata che gli prospettava ogni problema, ogni situazione, nel loro concreto porsi tra gli uomini, ed è dovuto in effetti a una forma vitale e direi sofferta di realismo; e, infine, a un profondo rispetto e amore per la sc1enza. In realtà, per Adriano Olivetti (lo ha scritto più volte, creduto
sempre)
le
due
spinte
fondamentali
che
sollecitano al progresso una civiltà, e la civiltà del nostro tempo in particolare, sono da un lato il valore della giustizia, di cui le classi popolari e lavoratrici sono gli interpreti più sensibili, i destinati depositari; e dall'altro lato i valori e le tecniche che la scienza moderna mette via via a disposizione dell'uomo per il suo riscatto (e a esse aggiungeva, Olivetti, geloso e squisito segno di partecipazione umana ai disegni della Provvidenza, la carità). Ricomporre a unità il dissidio e la divaricazione che
oggi
esistono
organizzazione
della
tra
splendore
scientifico
e
società sulla misura umana;
ricondurre ad armonia le forze possenti ma dissociate che operano nel mondo moderno, è stato per Adriano Olivetti il sogno e il compito della sua vita, cui si è dedicato,
soprattutto
negli
ultimi
vent'anni,
con
generosità incredibile. La sua morte improvvisa ha lasciato a metà la sua opera:
e tale incompiutezza, misurandola sul metro del vuoto che ci lasciava, alcuni amici hanno affettuosamente inteso rimproverargliela come improvvidenza. In realtà il destino di ogni opera umana è di rimanere incompiuta, e ogni generazione la consegna alla successiva da portare avanti. A me sembra che la morte nel colmo dell'opera risponda dunque all'intima umiltà con cui guardava a essa Adriano Olivetti, per il quale la storia che realmente conta è la storia da fare. Da Calendario di letture, Eri, Torino 1961
L'UMANISTA CHE HA COMPERATO LA UNDERWOOD
Una delle ultime volte, forse l'ultima, che Adriano Olivetti parlò in pubblico, fu in occasione del primo round-table organizzato dall'Istituto nazionale di architettura nella sua sede romana di Palazzo Taverna, discutendosi, sotto la presidenza di Ignazio Gardella, il tema dei rapporti tra industria e architettura. I diversi relatori erano molti informati ed esprimevano un beneducato ottimismo; senza eccezione per alcuno, la necessità di un'intesa preventiva, approfondita, tra il committente e l'artista per concordare il "tema" della fabbrica da realizzare sembrava un dato acquisito. Olivetti si alzò a parlare quasi per ultimo, con la sua oratoria schiva e intermittente, e raccontò con molta semplicità come, allorché, più di vent'anni or sono, si trattava di costruire i nuovi stabilimenti di Ivrea, la fabbrica di vetro, divenuta poi famosa in tutto il mondo, dovette essere tirata su quasi di nascosto, «perché nessuno la voleva in quel modo»; e come anche di
recente, nello scenario stupendo del golfo di Pozzuoli, egli e i suoi amici "umanisti" si fossero dovuti battere a lungo per attuare una fabbrica di tipo nuovo, con la pianta a forma di croce, contro il parere di quasi tutti i tecnici, «che sognano sempre e dovunque di poter mettere le loro macchine in un unico capannone rettangolare». Il pubblico la prese in ridere, quasi una battuta di bravura fu or d'opera, paradossale. Ma Olivetti non scherzava troppo, e i più avvertiti capirono il richiamo; ancora una volta il suo intervento arrivava a rompere un'atmosfera che scivolava nel conformismo, per ricordare che l'esperienza occorre pagarsela con il rischio, l'audacia, la fantasia. In realtà Adriano Olivetti ha avuto il merito, credo indiscusso, di essersi sempre dedicato ad anticipare soluzioni e indirizzi nuovi, cui il volgere del tempo avrebbe dato la sanzione del successo. Ciò gli avveniva per intuito e per una sorta d'inquieto istinto di perfezione, non certo per compiacimento di avanguardia, da cui, come indole fortemente operativa, naturalmente rifuggiva. Ma è certo che egli sentiva in modo drammatico, intenso anche se per nulla estroverso, questo suo destino di battistrada e di pioniere. Se vogliamo rimanere per un momento nell'ambito psicologico, necessario a creare lo sfondo di un ritratto così complesso, uno dei nodi della sua biografia deve
probabilmente ricercarsi nei rapporti con il padre e fondatore della società, l'ingegner Camillo, con la memoria del quale il figlio ha intrattenuto un dialogo ininterrotto e ansioso. L 'ingegner Camillo rappresentò anch'egli un'eccezione nella generazione dei capitani d'industria del primo Novecento italiano. Tecnico di valore (dava un contributo personale essenziale alla progettazione delle macchine per scrivere) e dotato d'un intuito commerciale di prim'ordine, accompagnava a queste doti uno spirito non-conformista, tollerante, generoso, profondamente umano: appartenne quindi (e non poteva essere diversamente) alla schiera dei socialisti umanitari e illuminati, non marxisti ma non per questo meno profondamente convinti della necessità di riscatto popolare; fu amico fraterno di Filippo Turati, che trovò in casa sua l'ultimo rifugio prima della fuga in Francia, fu consigliere comunale a Torino con Oddino Morgari, collaborò attivamente a un giornale socialista locale, «Tempi nuovi», ispirò la sua azione di capo d'azienda a criteri di sincera sollecitudine umana, di affettuosa bonarietà patriarcale. Ebbene: Adriano Olivetti sapeva molto bene che quest'insieme di valori morali, sentimentali e solidaristici costituivano un patrimonio prezioso e insostituibile, ma sapeva anche, soprattutto dopo il soggiorno negli Stati Uniti (1925), che occorreva avere ambizioni più alte, dare maggior
forza, maggior prestigio, maggior successo a quegli stessi ideali, e che per raggiungere quegli obiettivi accorrevano strumenti organizzativi più aggiornati, competenze moderne, una risolutezza decisa sino alla crudeltà. In una parola, egli sapeva di essere complementare a suo padre; il quale, forse, nello stupendo orgoglio dei grandi vecchi della sua generazione, non lo ha riconosciuto abbastanza. Ma c'è un filo ideale che unisce le due figure e le staglia, nel tempo, in un ordine di continuità. Ci limitiamo a citare un solo episodio, forse marginale ma significativo. Camillo, a suo tempo, dispose per l'istituzione di un fondo di solidarietà con cui provvedere, nel modo più discreto e impersonale, alle necessità urgenti dei più bisognosi, fossero o non fossero suoi operai: era il senso umanitario, cristiano, di un vecchio socialista sollecito del suo prossimo e rispettoso dell'altrui dignità. Adriano è morto dopo avere messo a punto lo statuto di una Fondazione in cui studiosi, tecnici, lavoratori e amministratori locali collaborassero al progresso economico, sociale e culturale della comunità canavesana: è il disegno raffinato di uno strumento di concreta promozione democratica (e usiamo qui la parola "democratica" nel preciso senso olivettiano, che in seguito cercheremo di chiarire). Il momento più drammatico di questo trapasso di
generazioni avvenne quando s1 rese necessana la sostituzione del vecchio direttore tecnico, canavesano, amico intimo dell'ing. Camillo, adorato dalle maestranze che lo sentivano come espressione genuina di se stesse. Oliv etti non aveva ancora trent'anni, e riempì la fabbrica di suoi coetanei, provenienti da ogni parte d'Italia, 110 e lode, intellettuali senza radici affettive con quella fabbrica ancora circondata da verdi campagne e che reclutava i suoi operai nelle cascine dei dintorni. Dal 1928 al 1938 fu il primo grande decennio di trasformazione dell'azienda, che ne uscì ingigantita ma non sconvolta, giacché il giovane Olivetti seguiva un disegno preciso e conosceva nel profondo, vivendolo nell'azione quotidiana e nella coscienza, il valore della tradizione, il miracoloso equilibrio tra città e campagna, tra industria e agricoltura che quasi casualmente si era istituito attorno a Ivrea e che costituiva un principio, un lievito di quell'armonia che egli avrebbe cercato di affermare come primaria necessità spirituale della società. Da studente, a Torino, Olivetti aveva frequentato il gruppo di Gobetti, dal quale, a quel che sappiamo, fu affascinato più che convinto. L'avvento del fascismo lo isolò dalla vita politica (l'aiuto che egli dette nel 1926 a Parri e Rosselli accompagnando Turati in fuga da Ivrea a Savona fu un episodio di coraggio giovanile, oltre che
rispondere, beninteso, a una precisa scelta morale) e lo restituì tutto ai problemi della fabbrica. Fu in quegli anni che prese forma infatti la sua straordinaria figura di intellettuale a suo modo impegnato, di sperimentatore intuitivo e audace delle espressioni più incalzanti e vive della cultura moderna. Fu allora che si definì quella che doveva rivelarsi una delle sue caratteristiche più singolari, l'essere egli insieme profondamente radicato alla piccola patria di Ivrea e del Canavese, e protagonista diretto della più avanzata cultura internazionale, "saltando" il momento opaco del nazionalismo. Egli operò non soltanto nell'ambito dell'organizzazione aziendale, introducendo i sistemi che avevano portato l'industria americana all'avanguardia del progresso e applicandoli con duttile senso storico alla particolare situazione italiana, ma rivalutò in ogni campo il valore della ricerca creativa, della dignità intellettuale; non si occupò soltanto di linee di montaggio o di cottimi, ma anche di grafica e di arte applicata per il rinnovamento della pubblicità, di psicologia per la selezione e l'orientamento del personale, di scienza sociale per avviare l'istituzione di una perfetta struttura di servizi sociali di fabbrica, di architettura e di urbanistica perché anche la forma esteriore delle sue officine rispondesse a quel desiderio di bellezza e di misura umana cui si alimentano i bisogni spirituali dell'uomo. Sin dall'inizio,
cioè, Adriano Olivetti portò nel suo lavoro quotidiano l'ansia di un disegno coerente, di una qualificazione culturale per cui ogni manifestazione della vita del gruppo di cui era a capo acquistasse un significato nel mondo contemporaneo. Nacquero così, verso la fine di quel primo decennio, la rivista «Tecnica e Organizzazione» e il volume del Piano regolatore
della Valle d'Aosta, e sorsero le architetture di Figini e Pollini nella via Jervis a Ivrea: tutto ciò era in anticipo di molti anni, per la complessità della problematica che esprimeva e le indicazioni che suggeriva, sulla cultura italiana infiacchita dal fascismo. Si può anzi dire, oggi, che Adriano Olivetti fu al centro di uno dei pochi episodi non superficiali che si siano svolti durante il ventennio al di fuori della cultura crociana. Il lettore non voglia stupirsi troppo se parliamo di Adriano Oliv etti in termini così poco "industriali". In realtà, dell'industriale tradizionale, egli non aveva nulla; né la figura fisica, dalla grande testa riccia di profeta resa più accosta e sensibile dai chiari occhi celesti; né il tratto, affabile, timido e talora impacciato, del tutto innaturale nei rari momenti imperativi; né l'indole, irrequieta, solitaria, affascinata da interessi sempre nuovi, tesa certo più al "valore" che all'utile. Non sapeva neppure scrivere a macchina, e non credo per civetteria. Una volta, a un giornalista, confessò che, se
fosse stato costretto a un lavoro manuale, avrebbe fatto volentieri il falegname, per l'esercizio vivo di dar forma a una materia "naturale". Nella sua azienda, tutto era predisposto per una razionale, scientifica previsione dell'andamento dei fenomeni economici che avevano rilevanza per lo sviluppo della società, ma nel momento cruciale della scelta e della decisione si affidava alla propria intuizione. Nel 1952, quando la prudenza suggeriva ai suoi collaboratori un periodo di cauto dimensionamento, anche a costo di qualche licenziamento, cambiò di colpo il direttore generale commerciale, per il quale pure aveva stima e amicizia, e lo sostituì con un uomo più audace, energico e spericolato: nel giro di qualche anno, l'azienda, sulla spinta di una rinnovata politica di sviluppo, raddoppiò le maestranze. Ogni mattina, quest'uomo, che aveva la responsabilità di decine di migliaia di persone, e che aveva creato il più razionale sistema assistenziale italiano, prima di recarsi in ufficio si soffermava a parlare con tutti i poveri diavoli che andavano ad aspettarlo mentre usciva di casa per prospettargli le loro necessità. Era il richiamo di una tradizione gentile di carità che era stata propria della sua mamma? Era l'oscuro bisogno di umiltà di uno spirito religioso? Forse anche questo: ma soprattutto era l'istintivo convincimento che non occorre arrendersi mai alla
fiducia totale negli strumenti razionali, organizzativi, burocratici. Del resto, i suoi veri interessi erano raccolti attorno al destino della condizione umana, e l'abito del capitalista gli si adattava male addosso. Industriali più grandi di lui ce ne sono stati e ce ne saranno parecchi, ma la sua singolarità è di avere responsabilmente tentato di adoperare l'industria e la fabbrica come uno strumento, o forse meglio ancora, come un istituto di elevazione umana. V'è, certo, nella sua figura, un momento utopistico; ma il senso della sua vita è nell'itinerario dall'utopia alle riforme. Il testo più rivelatore di cui possiamo disporre per arrivare a comprendere l'ansia profonda di Adriano Olivetti è un brano del discorso che pronunciò a Pozzuoli nel 1955 in occasione dell'inaugurazione ufficiale di quella fabbrica. «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Possiamo rispondere: c'è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea come a Pozzuoli. E senza la piena consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell'opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l'opera della
nostra Società. Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un'impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo, giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l'uno contro l'altro, non riescono a risolvere i problemi dell'uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all'elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ave fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ave non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno, per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta. La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell'uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto». È abbastanza logico, dunque, rovesciare il giudizio corrente che, soprattutto in questi ultimi anni, vedeva in
Adriano Olivetti un industriale "con il pallino della politica", per affermare al contrario che egli volle essere e fu sostanzialmente un riformatore politico che aveva cominciato la sua opera là dove il destino lo aveva posto, nella sua fabbrica. Quando Olivetti pronunciava le parole che abbiamo trascritte, egli era nel pieno della sua battaglia, che, come tutte le battaglie, ha avuto fasi di alterna fortuna, ma rimane non trascurabile testimonianza di positiva ricerca di una nuova via per la soluzione delle difficoltà del tempo nostro. Si era riaccostato alla politica in senso stretto verso la fine della guerra; nel 1943 aveva un suo piano per lo sganciamento dall'Asse delle armate italiane nei Balcani, e fu in Svizzera per discuterne con gli Alleati; quando rientrò in Italia fu arrestato; scappò di nuovo in Svizzera, in Engadina, mentre suo padre, braccato dai tedeschi perché ebreo, moriva nascosto sotto falso nome in un oscuro angolo dell'ospedale di Biella. In Svizzera, accatastando volumi e volumi nella sua camera d'albergo, Adriano Olivetti mise a punto la sua opera teorica, L 'ordine politico delle Comunità.
Le garanzie di libertà in uno Stato socialista. Più che un'opera politica vera e propria, è l'organico disegno costituzionale di uno Stato federalista, nel quale in realtà la preveggenza di quelle che sarebbero state le contraddizioni e le impossibilità funzionali della
democrazia post-fascista in Italia è rimarchevole, e per molto tempo ancora dovrà essere oggetto di meditazione. Partendo da una concezione intimamente religiosa della vita, che lo portava a contrapporre il personalismo cristiano sia al materialismo marxista che all'individualismo liberale, Olivetti rifiutava lo Stato parlamentare d'origine giacobina, ove, facile profezia, il regime dei partiti avrebbe accentuato i difetti della struttura accentrata di tradizione napoleonica e savoiarda; e si rifaceva invece a una proposta di federalismo integrale. Si poneva tuttavia immediatamente il problema della rappresentanza politica, e trovava inoperante, insufficiente il suffragio universale, espressione di un egualitarismo che, se certamente conteneva un principio indeclinabile di giustizia, al tempo stesso veniva ogni giorno di più superato dalla complessa tematica del potere politico in uno Stato moderno. Il meccanismo della democrazia pura non garantisce un regime di competenze, così come per converso non lo garantisce un qualunque Stato autoritario, che interrompe brutalmente con l'esercizio dell'autorità la circolazione delle idee e il ricambio delle élites. Ecco quindi la necessità di integrare la democrazia con un sistema di scelte qualificate che garantissero l'esercizio delle competenze nelle funzioni della vita pubblica ave il suffragio universale non arriva
a operare una selezione ottima: economia, urbanistica, educazione, eccetera, ave, come sempre nella sfera culturale, il peso delle maggioranze dovrebbe essere costretto a tener conto del valore. Il nucleo primario in cui una simile integrazione può aver luogo, secondo Olivetti, è la Comunità, la piccola provincia, più omogenea e più autosufficiente del Comune, più piccola e più "a misura umana" della Regione, che del resto nel disegno olivettiano ha una parte fondamentale come federazione di Comunità e come nucleo dello Stato federale. N o n è questo il luogo per analizzare da vicino lo schema costituzionale proposto da Olivetti sin dal primo dopoguerra; né di riconoscervi gli elementi di esperienze diverse, da quella del cantone svizzero a quella del grande pensiero federalista americano; dalla protesta cristiana di Mounier al tentativo di conciliazione tra cattolicesimo e democrazia teorizzata da Maritain, alla considerazione della parte fondamentale che può avere l'organizzazione per il funzionamento di una collettività, considerazione che certo gli derivava dallo studio dei problemi industriali. È certo a mio giudizio che il risultato di questo sforzo sincretistico di Olivetti è, a conti fatti, profondamente originale, e ne sprigionano idee-forza di attuale vigore politico: non soltanto la critica radicale all'attuale sistema di rappresentanza
politica, ma, positivamente, il senso integrale delle autonomie (della cultura, delle forze sindacali, degli enti locali), la necessità di integrare l'esercizio politico con la competenza, la necessità di armonizzare pianificazione e democrazia, progresso tecnico e partecipazione delle masse. Attorno a questo nucleo di pensiero, a questa "proposta comunitaria", si è svolta in quest'ultimo decennio la vita pubblica di Adriano Olivetti. Egli non ha mai voluto rinnegare la sua vocazione cristiana per le sue aspirazioni di moderno socialista democratico; ma neanche viceversa. Egli aveva profonda coscienza della crisi del nostro tempo, della sua lacerazione tra il ritmo meraviglioso del progresso tecnico e scientifico e il decadere delle forze spirituali, dei v alari sacri alla tradizione e alla coscienza. Ma la sua forza è stata di vivere sino in fondo questa contraddizione, di non nascondersene i termini, di non abdicare a una condizione umana contemporanea di cui sentiva appassionatamente la drammaticità: di accettare come poteva il suo destino di intellettuale cui la vita aveva imposto responsabilità di potere. Per questo, per tanti e tanti, e di diversa fede e dottrina, egli è stato un punto di riferimento, un animatore autorevole. Oltre che nel campo industriale e nel pensiero politico, la sua figura rimane eccezionale in Italia anche come animatore e
organizzatore culturale. In tutto il settore che investe gli aspetti umani dell'organizzazione sociale, è difficile trovare iniziative e opere che in qualche misura non abbiano fatto riferimento a lui: era da dieci anni presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, e ne ha diretto, rinnovandola, la rivista; nel campo del servizio sociale e degli studi sociologici rappresentava, con il suo gruppo, la verifica sperimentale coraggiosa, l'ala realista; ha portato il disegno industriale italiano alla gloria dei musei d'arte moderna; ha fatto di Ivrea una cittadella dell'architettura contemporanea; ha diretto le Edizioni di Comunità pubblicando il religioso Kierkegaard e l'operativo Taylor, la storia delle Costituzioni italiane e quel fiore segreto di poesia che sono i versi di Noventa, riuscendo a mantenere tutto nell'ambito di una personalissima sintesi culturale. C 'è da chiedersi ave stesse il segreto di questa capacità di leadership in un'area così vasta, certo più vasta delle sue personali competenze; è probabile che stesse nella coerenza intima della sua proposta comunitaria, che era capace di esprimere uno stile proprio perché derivava da un'armonica visione del mondo. Quando egli poteva proclamare di fronte ai suoi operai riuniti nel Salone dei Duemila: «In questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno a quale fede religiosa credesse, in quale partito militasse o ancora da quale
regione egli e la sua famiglia provenissero», Olivetti indirettamente ma efficacemente aiutava la libertà di ricerca, e la persuasione di verità, dei collaboratori vicini o lontani impegnati a mantenere negli studi sociali o politici il valore della scienza e il calore dell'impegno umano. Nel dopoguerra Olivetti si era iscritto al Psiup. Fu un incontro breve: destinato all'ufficio studi, quando si accorse che l'ufficio studi di un partito non è quello strumento di propedeutica operativa che egli sperava e che in realtà le segreterie politiche "fanno" prima di studiare, ne uscì. Passò attraverso un'altra breve esperienza, il Partito cristiano-sociale, e nel 1948 fondò il Movimento Comunità. In un decennio di lavoro, soprattutto nel Canavese, il Movimento è arrivato a conquistarsi una reale posizione di egemonia. È di questi giorni la notizia che i gruppi comunitari sindacali hanno riconquistato alla Olivetti la maggioranza assoluta. Per chi conosceva l'uomo, la sua passione, e il dolore di fronte alle accuse di corruzione dei suoi operai, è chiaro che questa vittoria è il più bel fiore recato sulla sua tomba recente. Del resto l'azione comunitaria nel Canavese è un capitolo noto: i Centri comunitari nati attorno alle prime, modeste bibliotechine di villaggio; l'assistenza sociale; la creazione di una Lega di Comuni fornita di un ufficio legale, un ufficio tecnico e uno
urbanistico; l'azione culturale; i gruppi sindacali cui è legata la prima riduzione d'orario a parità di salario ottenuta in Italia; la conquista delle amministrazioni comunali; la creazione di fabbriche decentrate e di aziende cooperative agricole che fanno capo all'I-Rur, Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale, che dà già lavoro a oltre 300 persone secondo uno statuto che non prevede la remunerazione del capitale ma il reimpiego dei profitti in altre imprese e in opere sociali. È una rete ormai fitta di istituzioni di democrazia moderna, un esempio di come su di un territorio si possa articolare un sistema decentrato
di iniziative e di potere che
sollecitano e preparano la formazione di una classe dirigente locale di tipo nuovo (di tipo nuovo soprattutto perché vive giorno per giorno gli strumenti di concreta democrazia predisposti ideologicamente). Alla morte di Olivetti questo sistema non ha vacillato. La via dell'esempio, della testimonianza, la via fabiana era la via giusta, anche se lunga. N el 1958, come è noto, il Movimento Comunità decise invece di avventurarsi per una "scorciatoia" verso la conquista di un'effettiva forza politica; e affrontò le elezioni in una decina di circoscrizioni. L'obiettivo era di raggiungere i 300.000 voti che la legge richiede per la utilizzazione dei "resti" su scala nazionale. Ne furono raccolti 175.000. La delusione personale di Adriano
Olivetti fu grande, più profonda di quanto una considerazione obiettiva dei fatti avrebbe imposto. La sua stessa posizione personale in fabbrica ne fu scossa. Il Consiglio di amministrazione nominò un altro amministratore delegato. Il gruppo di giovani che si era raccolto attorno a Olivetti in un decennio («il più bel gruppo d'ingegni che abbia forse visto questo dopoguerra», dice Ferruccio Parri) dovette essere assottigliato. Ma la struttura, soprattutto quella canavesana, anche allora rimase sostanzialmente salda. Oliv etti, nominato da Fanfani e poi riconfermato da Segni vicepresidente dell'Unrra-Casas, entrò nel vivo dei problemi dell'edilizia popolare e si apprestò ad affrontare il compito arduo di impostare organicamente un programma di edilizia scolastica, che il Piano decennale per la scuola aveva affidato in notevole misura appunto all'Unrra-Casas. Preparava intanto la sua rivincita a Ivrea, che fu praticamente sancita con l'operazione Underwood, che vedeva per la prima volta un'industria italiana battere in casa propria i maestri americani. Le ultime cinque o sei settimane della sua vita, Olivetti le trascorse ininterrottamente a Ivrea, il che non avveniva da molti anni per un periodo così lungo. La vigilia della sua morte si tenne l'Assemblea dei soci della Olivetti. La riconferma alla presidenza gli venne unanime, cordiale. Un fondo speciale venne deliberato
per garantire la continuità delle opere sociali e culturali a lui care. Per la terza volta la guida indiscussa della società tornava nelle sue mani, come era avvenuto subito dopo la guerra e dopo un breve interregno tra il 1946 e il 1947. Appariva sereno e pacificato. I problemi della nuova espansione dell'azienda, che lo avevano preoccupato negli ultimi mes1, gli appanvano dimensionati in una luce più giusta. Nell'ultima settimana, gli si era guastato l'orologio d'oro che gli avevano regalato i suoi dipendenti in occasione del 25° anno di anzianità in fabbrica. Ne comprò un altro, ma dopo un giorno o due si fermò anche quello. Disse sorridendo alla segretaria: «Si vede che sono proprio io che non li faccio andare». Se, come gli era avvenuto durante tutta la vita, egli era ancora sensibile ai segni e agli avvertimenti, possiamo forse dire di lui che era pronto. «L 'Illustrazione Italiana», 1960
DIECI ANNI DOPO
Il 27 febbraio 1960, colpito in treno da emorragia cerebrale, mentre viaggiava tra Martigny e Losanna (fu trasportato, oramai spento, nella piccola stazione di Aigle, ave oggi si danno idealmente convegno quelli che lavorarono con lui), moriva Adriano Olivetti, figura tra le più singolari e complesse del dopoguerra europeo; della quale sia gli amici sia gli avversari, che ebbe gli uni e gli altri numerosissimi, hanno dovuto bon gré mal
gré riconoscere l'originalità e la statura. E tuttavia: se unanime è il rimpianto per l'opera così bruscamente interrotta, la vita di Adriano Olivetti, con quel tanto di nobile enigma che rimane nei suoi slanci idealistici e nei disegni incompiuti, nel moltissimo che costruì e nella solitudine che continuamente lo tormentò, assume nel nostro ricordo un rilievo drammatico, come di chi, proprio attraverso un'intera dedizione e attraverso il successo, abbia sperimentato s1no 1n fondo le contraddizioni dolorose e la crisi della nostra epoca.
Una di queste contraddizioni lo accompagna ancora. Mentre infatti non c'è discussione sulle qualità e sul ruolo eccezionali del capitano di industria illuminato e dinamico che intuì tra i primi il nesso profondo tra industria e cultura, e forte di tale intuizione seppe portare l'azienda paterna sulle frontiere più avanzate della tecnologia, seppe inventare uno stile di grafica industriale che è ancora un alto esempio di arte applicata, e seppe 1nserus1 quindi nella dura competitività internazionale con la nota distintiva, e il prestigio, della sua personalità di neo-umanista; al contrario assai controverso è il giudizio sul suo lavoro politico, accusato di volta in volta di paternalismo o di perfezionismo, di astrazione tecnocratica o di corruttela neo-capitalistica, di corporativismo o di premarxistica utopia, di confuso kennedysmo o di latente gaullismo; per non dire delle vere e proprie denunce di criptocomunismo, che, strumentate al fine di isolarlo nell'organigramma aziendale, gli vennero da molte parti, alcune oggi pers1no impensabili. Devo quindi onestamente avvertire il lettore che questo ritratto si fonda su un giudizio personale, non condiviso del tutto, probabilmente, da questo stesso giornale. È chiaro che nei dieci anni trascorsi dalla sua morte a oggi il tempo ha camminato molto in fretta: valori, istituzioni, obiettivi, il quadro stesso della lotta politica
sono profondamente mutati. Uno degli slogan che allora sembrava tra i più efficaci per definire in senso positivo la posizione olivettiana, "Dall'utopia alle riforme", oggi nella coscienza dei giovani è rovesciato di segno. Lo spirito della scienza, nel quale egli identificava, in una tipica commistione laico-religiosa, il Consolatore annunciato da Cristo secondo il vangelo di Giovanni, è oggi confuso nel sospetto che circonda la minacciosa efficienza neo-capitalistica. La stabilità, che egli poneva tra gli obiettivi di giustizia di una società sollecita dei più bisognosi dei suoi figli (stabilità politica ed economica, contro lo spettro della disoccupazione e le avventure della violenza) è combattuta e irrisa quale forma ideale della repressione. La razionalizzazione e l'ammodernamento delle strutture dell'economia e dello Stato, motivo di fondo dell'Olivetti ammiratore del New De al, "riformatore non riformista", sono visti come ingenua o ipocrita complicità reazionaria. Il metodo olivettiano per il progresso, fondato su esperimenti pilota, esemplari ma parziali, è bruciato da un'ansia di globalità che assume aspetti massimalistici. La confluenza di un cattolicesimo democratico (da Maritain a Mounier) e di un socialismo federalista (alla Proudhon) è relegata tra i disegni spiritualistici e moderati, e superata da un dialogo più radicale tra marxismo e secolarità. In altri termini, la società di oggi,
nelle sue forze più inquiete e più vive, sembra dare un giudizio di se stessa e del proprio futuro molto diverso da quello degli anni Cinquanta. Un esame superficiale dovrebbe dunque concludere in una irrimediabile inattualità di Adriano Olivetti, la cui utopia non ha trovato riscontro negli sviluppi della storia. Ma se andiamo un momento più a fondo, il quadro si rivela molto diverso. Innanzitutto occorrerà ben distinguere nell'opera di Oliv etti ciò che appare, al nostro animo di storici, posizione anticipatrice, merito storicamente acquisito, da ciò che si presenta invece, alla nostra passione politica, come valore di suggerimento, stimolo, proposta problematica nel quadro di una crisi istituzionale dello Stato liberai-parlamentare ancora aperta a soluzioni molteplici. Nel primo campo, è fu or di dubbio che almeno su tre punti fondamentali l'azione di Adriano Oliv etti (isolata o addirittura controcorrente in un tempo culturalmente fiacco e provinciale come fu l'Italia degasperiana) ha avuto il chiaro significato di promozione di valori democratici: 1) Sul terreno, fondamentale, della convivenza e pace religiosa, prolegomeno a ogni "dialogo", non solo la sua costante dichiarazione di una ispirazione socialista e cristiana, o la simpatia per Dossetti e per La Pira in lotta per la Pignone, ma soprattutto la sua insistenza sulla formula di Mounier
(tutt'altro che pacifica ai tempi di Pio XII) sull'uguale valore della esperienza spirituale di «cattolici e non cattolici, credenti e non credenti», anticipa l'apertura di Giovanni XXIII e il parallelo tramonto dei tabù antireligiosi in campo laico, anticipa cioè il positivo incontro di questi anni; 2) Sul terreno della cultura politica, l'attenzione e 1 concreti aiuti offerti all'urbanistica (intesa non soltanto come scienza del piano territoriale ma, con una punta di ingenuità demiurgica tuttavia fortemente suscitatrice di entusiasmi, come momento finale e riassuntivo di programmazione, il più delicato e creativo, in quanto opera sul vivo degli insediamenti umani, cioè sul modo di vivere della gente) lo pongono all'avanguardia nella faticosa vicenda dell'integrazione della cultura alle responsabilità sociali; 3) Sul terreno della democrazia di fabbrica, poi, nonostante le incomprensioni e gli oggettivi equivoci cui poté dar luogo il sindacato "padronale" (il quale va peraltro visto e giustificato nel quadro dell'ideale "comunità concreta" che egli si proponeva di realizzare nel Canavese) risulta oramai agli atti che il regime di tolleranza, o meglio di garanzie, di rispetto contrattuale e umano per i diritti dei lavoratori da lui instaurato a Ivrea, era il più avanzato in Italia. A questi tre punti, per coglierne del tutto il senso, va aggiunto un corollario. Adriano Olivetti operava sempre,
con consapevole istinto, al di fuori degli schemi della cultura ufficiale. Attorno a lui non gravitavano bonzi o accademici, autorità compiaciute di se stesse, ma idealisti, sperimentatori inquieti e tenaci, con almeno una vena di eresia, giovani sconosciuti cui egli offriva l'opportunità di provare le proprie forze. Questo dava alla cittadella olivettiana una sigla aristocratica e un po' esoterica per taluni spiacevole, ma anche un perpetuo moto anticonformistico, un sottile orgoglio pionieristico che era di per sé qualificante di una vitalità culturale e che ancora appassiona chi ebbe modo di parteciparvi (se non si tratta, ma non vorrei crederlo, del riverbero mitico di una giovinezza a malincuore perduta). Sul terreno più squisitamente politico, il discorso è molto più difficile da stringere in un articolo. Il tema centrale che egli si dette, "Le garanzie di libertà in uno Stato socialista", è ancora il cuore del dibattito contemporaneo, ma è ben lontano, come vediamo ogni giorno, dall'aver trovato una soluzione. La sua critica ai partiti (considerati il momento burocratico della vita politica, da sostituire con gli ordini e le funzioni politiche) non era certo di matrice qualunquistica, subiva invece le suggestioni spirituali di Simone Weil e trova semmai riscontro in certe posizioni di Silone o di Gilas; non aveva risonanze "repressive" ma libertarie (e quando l'equilibrio partitico fu minacciato, non esitò, lui
fautore della stabilità dell'esecutivo, a schierarsi contro la legge-truffa). Impopolare sarebbe oggi il suo programma di ristrutturazione post -liberista dell'economia, "socializzare senza statizzare", e illuministica, weimariana, apparirebbe la sua proposta di Fondazioni Autonome comproprietarie delle grandi industrie; ma l'ispirazione antiburocratica, anticarrozzone, è ben viva, e del tutto moderna. L 'idea (che gli costò cara) che «la moralità di una fabbrica dipende in altissimo grado dagli scopi dell'azienda stessa», scopi alla cui definizione i lavoratori organizzati dal sindacato unitario devono essere messi in grado di partecipare, rovescia la morale del profitto e si avvicina alle più mature concezioni anarchiche. Vitale, e sempre più attuale, è la teoria che colloca la sorgente del potere in basso, nella prima cellula organica della socialità concreta, che egli credeva di individuare nella Comunità; e non c'è dubbio che la via democratica passa per la moltiplicazione delle autonomie. "Una fabbrica in ogni valle" non era, come taluni credettero, uno slogan elettorale, ma l'esigenza di frenare e filtrare il flusso verso le concentrazioni e le megalopoli e di tendere al vitale equilibrio città-campagna. Olivetti era europeista e accanito fautore delle regioni, mosso da un profondo impulso federalistico. Il suo disegno politico si può riassumere, infatti, in un federalismo integrale: una delle
risposte più sobrie e responsabili che si possono dare a chi chiede "l'immaginazione al potere" e non si accorge di scivolare verso un nuovo spirito gregario. Non si pose, illuministicamente (e forse condizionato dalla sua posizione di industriale), il problema del potere, il che lo isolava dalla classe politica; e quando scese in lotta nel campo elettorale, nella scelta degli schieramenti, non ebbe decisioni sempre felici. Ma i socialisti e gli uomini liberi possono ricordarlo come uno dei loro. «L'Avanti!», 27 marzo 1970
UTOPISTA POSITIVO
Il merito più alto che oggi, a dieci anni dalla morte, si può riconoscere ad Adriano Olivetti è che la sua scomparsa è stata per la società italiana una perdita secca; il ruolo che egli ricopriva è rimasto vacante. Ci sono probabilmente, intendiamoci, industriali più moderni di lui; e il suo raffinato disegno dell'Ordine
politico delle Comunità, privo di una reale verifica del problema del potere necessario a istituirlo, non è sceso sulla terra e rimane, anche se ricco di futuro, una suggestiva proposta di federalismo integrale. Ma ciò che di Adriano Olivetti appare come la nota personale, insostituibile, è lo stile della sua presenza, l'impegno intellettuale ed esistenziale senza risparmio, e un misterioso, magnetico, forse disperato e certo sofferto ottimismo. Certe risonanze messianiche a certuni sembravano ambigue, quasi di paternalista mistico; ma avevano torto. Se non era insensibile ai grandi orizzonti dell'utopia, egli aveva in realtà una vocazione di
pioniere, l'amore del "costruire" per la comunità, e il suo senso missionario si manifestava quotidianamente in una sorta di puntiglio del bene. Questo, sia nei grandi problemi della fabbrica, quando si opponeva con intransigenza e rischio a ogni riduzione "malthusiana" dello sviluppo che avrebbe ritardato il suo ideale verso il pieno impiego, o quando chiedeva all'urbanistica l'equilibrio città-campagna come chiave di volta della . . . . . stabilità economica e spirituale; s1a ne1 m1n1m1 particolari, quando con pazienza studiava con Nizzoli e Pintori le linee di una carrozzeria o gli spazi di un avviso pubblicitario, o quando nei cantieri delle case operaie si sostituiva al capomastro per suggerire qualche ritocco destinato a far "vivere meglio" chi ci avrebbe abitato. Aveva in grandissima misura (come gli altri industriali non hanno) il senso del primato della cultura, intesa non come metodo di conoscenza ma come ininterrotto valore del vivere. Questa è la ragione per cui, nel cuore della più avanzata tecnologia capitalistica, aveva fatto di Ivrea la cittadella delle minoranze che preparano la riforma. Secondo gli schemi, apparteneva alle "duecento famiglie" della classe dirigente. Ma in realtà (e di qui il fascino che esercitò su tanti intellettuali) non era integrato nell'establishment, era un dissidente, un uomo di minoranza che anziché avere il culto della contestazione aveva quello dell'efficienza.
Aveva il potere che tocca a un grande e fortunato industriale; ma il potere che gli interessava veramente era quello che pensava di conquistarsi con l'affermarsi del suo disegno politico. Ebbe perciò sempre la vita difficile, sia all'interno dell'azienda, sia nella classe politica che lo sentiva diverso, e trovava un facile alibi nel considerare la sua profonda passione quasi il lusso di un ricco; e dovette pagarsi tutto, passo a passo, con il successo. Fu con Parri e Codignola contro la legge-truffa; denunciò, con raro coraggio, la funzione conservatrice che avevano i pur provvidenziali aiuti del piano Marshall; polemizzò con Costa e con Pastore, non con La Pira; quando i sindacati di Ivrea posero il problema morale dell'incompatibilità del sindacato di Comunità, che faceva capo a lui, il padrone, non esitò a rivolgersi a Di Vittorio, che, con un telegramma "fraterno", sbloccò la situazione; aiutò a nascere «L 'Espresso», che portò l'attacco democratico al regime democristiano al livello della spietata documentazione. Questi fatti si ricordano non per proporre una falsa immagine di Adriano Olivetti radicale, uomo d'opposizione, perché egli non lo era. Era invece un eretico, un nonconformista, ma fondamentalmente costruttivo, perfezionista, demiurgico. E tuttavia più di ogni altro in Italia aveva capito che, al di là delle facili
opposizioni delle "due culture", la sorte di questa civiltà è affidata alla insubordinazione della cultura di fronte al potere economico e alla mediocre burocrazia politica; e non per nulla, dopo essere stato l'editore di spiriti religiosi come Buber o la Weil, di socialisti umanitari come Schweitzer, di urbanisti "umanisti" come Mumford, fu l'editore italiano di Galbraith, il critico della società industriale opulenta in nome degli investimenti sociali. Ma, illuministicamente, credeva che la funzione della cultura di fronte al sistema capitalistico non si esaurisse nella protesta, e dovesse invece puntare alla riforma, al rigoroso impiego dei valori scientifici, alla razionalizzazione della giustizia. Per questo, oggi, la sua figura e il suo tenace idealismo ci appaiono in una luce drammatica. Se la civiltà in cui viviamo non è esaurita, se ha ancora in sé una vitale misura umana, essa deve far ricorso a quello stesso impegno di fantasia razionale e di solidarietà affermativa che Adriano Olivetti incarnò nella sua luminosa giornata. «Il Mondo», 12 marzo 1970
UN SERVIZIO TELEVISIVO SU ADRIANO 0LIVETTI
Perché la grandissima maggioranza di coloro che hanno conosciuto Adriano Olivetti non lo ha riconosciuto nel ritratto tracciato da Nicola Caracciolo, con la regia di Sandrini, nel servizio La città del sole: Adriano
Olivetti, trasmesso dalla Rai-Tv il 2 aprile 1974? Che cos'è che produce nello spettatore (anche in coloro che non lo incontrarono in vita e ai quali era arrivata soltanto l'eco della sua fama) la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a un'immagine deformata? In sostanza questo: un continuo (e non vorremmo dire sapiente o tendenzioso) errore nella scelta dei fatti, dei temi, dei tempi e delle persone di cui gli autori si sono serviti per ricostruire la sua personalità: la quale ne viene diminuita al rango di un intellettuale bizzarro e fallito, mentre si perde gran parte dello slancio creativo, della positiva capacità costruttiva che fanno di Adriano Olivetti uno dei manager (appunto come dice il titolo della rubrica) che hanno segnato una traccia più profonda
nell'evoluzione della società italiana del dopoguerra. Già la prima battuta del film è fuorviante: quando si dice infatti che arredare di fiori gli uffici e le officine faceva parte della "ideologia" di Olivetti, si invita subito lo spettatore a considerare quella ideologia nella luce di una futile, profumata, superficiale filantropia. Poco dopo, il paragone con il regista Fellini, buttato là in modo incomprensibile, senza un minimo di motivazione, non può che accrescere lo sconcerto, e indurre di nuovo a un'ipotesi di bizzarria visionaria, e fantastica irrealtà. Ciò contraddice in ogni senso la reale figura di Adriano Olivetti, che un testimone insospettabile, Ferruccio Parri, definì felicemente con la formula di "utopista positivo". Nel ritratto di Caracciolo e Sandrini il positivo è quasi del tutto scomparso, e dell'utopista si sottolineano i lati più aneddotici (quando non pettegoli), più banalmente mondani. Così, la formula riassuntiva cui si vorrebbe affidare la memoria di Adriano Olivetti («era un uomo che cercava e non sapeva come») appare, sotto la patina letteraria, oggettivamente denigratoria; giacché in tutto il film non vengono mai in primo piano l'ansia e l'inquietudine del ricercatore - attraverso prove, durissimi sforzi e anche errori - di nuove soluzioni dell'assetto della società industriale, ma vengono in primo piano l'incertezza, l'inconcludenza, la sconfitta. C'è un episodio, che nel film ha largo
sviluppo, nel quale lo spirito riduttivo degli autori porta, per difetto di informazione, a una rappresentazione falsa dei fatti: l'episodio di La Martella. Ci viene detto infatti che Olivetti, come vicepresidente dell'Unrra-Casas, si fece promotore del risanamento dei Sassi di Matera e della realizzazione di un villaggio agricolo destinato ad accogliere gli abitanti. Si vede poi, senza soluzione di continuità, lo stato di abbandono e di rovina del villaggio stesso; si ascoltano le proteste di alcuni contadini, costretti a vivere di espedienti e sussidi in una comunità senza servizi. Il rapporto causa-effetto (utopia di Olivetti - fallimento sociale) è, per lo spettatore, diretto e immediato. Si può dire senza esitazioni che si tratta di un falso. Bastava anche una superficiale informazione per accertare: a) Che gli studi su Matera, sui Sassi, sulla localizzazione degli abitanti per una loro integrazione e promozione sociale, pubblicati dall'Unrra-Casas sotto la gestione Olivetti, costituiscono, per riconoscimento internazionale, uno dei non molti capitoli di serio prestigio dell'urbanistica italiana; e sono stati per anni al centro di dibattiti e analisi da parte della sociologia qualificata. b) Che Olivetti fu costretto a lasciare l'Unrra-Casas nel 1954, perché politicamente isolato (tant'è vero che quando nel 1958 fu eletto deputato l'unica cosa che
chiese e ottenne fu proprio la vicepresidenza dell'UnrraCasas, al fine di riprendere il lavoro forzatamente interrotto). Il tradimento della povera gente, che il film insinua a carico di Olivetti, è dunque il contrario esatto del vero. c) L'abbandono di La Martella e la mancata applicazione del programma sociale olivettiano sono opera di chi ne ebbe la responsabilità politica e tecnica, e preferì tornare alla comoda prassi dell'immobilismo e alla politica clientelare anziché impegnarsi in un'azione coraggiosa, innovativa e popolare qual era delineata nel progetto di Olivetti. La gravità dell'interpretazione offerta agli spettatori della televisione è accresciuta dal fatto che, a detta di alcuni amici lucani di Comunità (per es. Leonardo Sacco), Nicola Caracciolo ebbe qualche anno fa l'occasione di documentarsi, per alcuni serv1z1 giornalistici, sul reale andamento dei fatti. Nel resto del film una così smaccata e prec1sa deformazione del vero, per fortuna, non si ripete. Ma una vena di mistificazione corre dal principio alla fine. Ci limiteremo, per brevità, a qualche punto. 1) L 'insistenza, sottolineata dalle domande del Caracciolo agli intervistati, sulle inclinazioni di Olivetti per le scienze occulte. Inclinazioni reali in una personalità religiosamente segnata come la sua, ma: a)
forti piuttosto nella fase giovanile, anteriore al pieno impegno politico e di manager, che nella fase della maturità, la più qualificante della sua figura; b) sempre dimensionate e mediate da una vigile e severa coscienza razionale e da una cultura esaltatrice dei valori della scienza. Se è vero che Olivetti teneva conto (non per gli operai, come dice il film, ma per i quadri alti dell'azienda) anche dei referti grafologici, è vero ancora di più che per primo portò l'ausilio dei mezzi di valutazione scientifica negli uffici del personale, promosse con seria e personale competenza gli studi di sociologia, si preparò con puntiglio all'organizzazione scientifica del lavoro nell'industria. Tutto ciò, che forma il chiaroscuro di una personalità complessa e potente, è miseramente ridotto nel film a banale, salottiera mania. 2) La scelta delle interviste. Naturalmente non si può obiettare niente alla libertà di opinione delle persone intervistate. Ma è curioso (e vorremmo dire sospetto) che, a parte i brevi interventi di Elidio Lesca e della signora Lombardi, la maggioranza delle persone intervistate abbiano lavorato con Adriano Olivetti in anni lontani e l'abbiano poi perso di vista (pro f. Musatti, prof. Fortini) o abbiano avuto con lui scarsa dimestichezza (Ottieri). Ricordiamo che il ritratto di Giovanni Agnelli era affidato in gran parte alla affettuosa testimonianza del nipote Gianni; mentre per
Olivetti non è stato sentito né una persona della famiglia né qualcuno della Fondazione Olivetti interprete del suo pens1ero. Sarebbe anche interessante valutare la qualità dei tagli che
qualcuno
(Paolo
Volponi)
ha
pubblicamente
lamentato, per giudicare sulla reale obiettività del servizio televisivo. 3) I luoghi. Lo sfondo visivo di gran parte del film è costituito dal palazzo degli uffici Olivetti. Si dà il caso che, di tutti i complessi edilizi di Ivrea, quel palazzo sia il meno vicino alla personalità di Olivetti, costruito dopo la sua morte, e con criteri abbastanza lontani dai suoi. Difetto di informazione, indifferenza degli autori a cogliere il vivo di un'esperienza che fu, per più di vent'anni, di sofferta avanguardia? Comunque sia di ciò, quel
fondale
VlSlVO
estraneo
contribuisce
alla
deformazione dell'immagine, che è la caratteristica del film. 4) Le omissioni. Ci rendiamo conto perfettamente come sia impossibile documentare in un breve film tutti gli aspetti di una vita affollata di iniziative e di costruttive esperienze. Ma basterà un elenco delle principali omissioni per capire come una simile incompletezza risulti
di
fatto
quale
elemento
di
informazione
deformata. a) Del successo di imprenditore, si parla soltanto
dell'espansione da 4 a 16.000 dipendenti. Il salto di qualità dell'azienda, la tenace difesa dell'occupazione, la conquista della dimensione internazionale, l'intuizione dell'importanza dell"'immagine", l'importanza del dibattito culturale nell'interno stesso dell'azienda (ben al di là della presenza degli "intellettuali", qui presentati quasi come animali pittoreschi), la raffinata tecnologia, l'interesse al Mezzogiorno sono tutti temi neppure accennati. b) L'azione di promozione e avanguardia in architettura e urbanistica (la presidenza dell'Inu nel periodo, rimasto poi unico, in cui l'istituto tentava un discorso seriamente culturale e politico per sottrarsi alle spire della speculazione) che è un elemento continuo e portante della sua vita, anche questo è assente. La sua Ivrea, la magica prospettiva di via Jervis, bella, fu scritto, come una via rinascimentale, non compare mai sul video. c) L'attività editoriale, che fece delle Edizioni di Comunità una delle case editrici più ricche di novità del dopoguerra, portando in Italia per prima o tra le prime autori come la Weil, Maritain, Mounier, Schumpeter, e impresse un impulso grandissimo agli studi di sociologia: non ce n'è traccia. d) I servizi sociali, istituiti per la prima volta in Italia con larghezza di mezzi, impiego di metodologie avanzate, e, sin dal 1948, almeno parzialmente
autogestiti dai lavoratori; servizi che ebbero un plastico corrispettivo negli edifici dell'asilo, della biblioteca e infermeria, nei quartieri di case operaie: anche questo non è lumeggiato neppure in sintesi. e) La libertà in fabbrica, che uomini come Di Vittorio e come Riccardo Lombardi non esitarono a riconoscere, e che va al di là degli alti salari, per prefigurare un tipo di democrazia di fabbrica largamente in anticipo sui tempi; neanche
questo
merito
indiscutibile
di industriale
cosciente della propria responsabilità politica, che è una delle caratteristiche salienti della sua personalità, è lumeggiato come si sarebbe dovuto. In sostanza, per non rendere troppo lunga questa requisitoria,
sommando
queste
omlSSlOnl
alle
deformazioni, al pettegolezzo psicologistico, agli errori di fatto, si deve concludere che il ritratto di Adriano Olivetti tracciato da Caracciolo e Sandrini è così lontano dal vero da risultare irriconoscibile. E che è giusta la reazione di doloroso stupore, di intima offesa, con cui i molti suoi collaboratori e amici hanno assistito a uno spettacolo che feriva, insieme con i loro sentimenti, la verità delle cose. 1974
ARCHITETTURA E URBANISTICA ALLA 0LIVETTI
Dirigismo estetico: questa può essere una definizione, abbastanza approssimata, del pensiero di Adriano Olivetti, per quel che riguarda l'architettura, l'urbanistica, il design e in genere l'arte, nel periodo in cui ho lavorato accanto a lui, e cioè nel decennio finale della sua vita (dal1948 al1960). Per cercare di rendere conto, sia pure all'ingrosso, dei motivi complessi che confluirono a determinare quel pensiero, e giustificare la mia definizione, occorrerà soffermarsi brevemente a individuare il quadro di riferimento, storico, culturale e psicologico, entro il quale esso si colloca. Gli elementi essenziali da prendere in esame mi sembrano i seguenti: 1) riflessi della funzione di avanguardia esercitata dal giovane Olivetti nel periodo prebellico; 2) successo industriale del dopoguerra e sentimento della responsabilità dell'impresa; 3) influenza della cultura italiana di quel periodo,
caratterizzata dall'ideologia dell'impegno; 4) fase politica del Movimento Comunità; polemica con la classe politica e ricerca di un "modello alternativo" di società; 5) tentativo di creare le strutture essenziali di una "comunità concreta" nel Canavese, attorno alle fabbriche di Ivrea. Quel fascicolo non è mai uscito, per ragioni che ignoro, e ritengo utile pubblicare per gli amici la mia testimonianza, se non altro per confrontare insieme con loro il lavoro rovinoso del tempo sulla memoria di ciascuno di noi. Mi piace ricordare qui con affetto, in questo giorno di fine d'anno, alcuni degli amici più cari d'allora, che non sono più con noi: Antonio Barolini, Genesio Berghino, Giuseppe Gagliardo, Rigo Innocenti, Riccardo Musatti. Mi appare evidente, come risulta da questa elencazione tematica, che è impossibile scindere, nella figura di Adriano Olivetti, e quindi nel movimento di cultura da lui promosso e condizionato dal peso della sua personalità, ciò che gli derivava dalla riflessione teorica sulle istituzioni politiche e ciò che gli derivava dall'esperienza di capo d'industria. Nella leadership politica che egli vagheggiava, e che in qualche misura impersonò - a dispetto della sottigliezza accanita, "perfezionistica", dei suoi progetti di un nuovo Stato -
non era mai esclusa la parte, che vorrei dire paterna, del promotore di produzione. L'ambiguità, a lungo rimproveratagli, tra la produzione di beni - da cui il sospetto di neocapitalismo mascherato e la produzione di Bene - da cui il sospetto di utopia e di paternalismo - era tutto sommato un'ambiguità piena di forza religiosa, una scommessa decisiva anche sul piano esistenziale. Di qui l'idea, empirica eppur vigorosamente vissuta, dell'architettura come arte primaria, ma sempre nel campo delle "arti applicate". E di qui l'idea bipolare della pianificazione urbanistica: scienza interdisciplinare che si esprime in volontà politica, e al tempo stesso volontà politica che culmina in una Politica della Forma. Il discorso ci porterebbe molto lontano, e lo chiudo subito. Ma è essenziale averlo accennato, perché è essenziale, per ricondurci al clima di Ivrea degli anni Cinquanta, avere presente l'ideologia allora dominante: il potere inteso in primo luogo come intervento in favore della "qualità della vita". 1) Come è noto, Adriano Olivetti fece i primi passi nella fabbrica all'ombra di un padre geniale. Camillo Oliv etti, come i migliori imprenditori della sua generazione, e della fase pionieristica del capitalismo industriale italiano, accoppiava le qualità del maestro artigiano e del
finanziere. Adriano non aveva quelle qualità, o comunque le rifiutò. E tuttavia, anche nel cercare altrove la propria originalità, accettò dal padre l'eredità (istinto e ambizione) del ruolo del pioniere. E pionieristicamente lavorò partendo sempre dal tema fondamentale della fabbrica (a Ivrea, sino alla sua morte, si continuò a pensare in termini di "fabbrica", non di società. Della Borsa, si aveva diffidenza. Nell'opera teorica L'ordine
politico delle Comunità la parte dedicata agli aspetti finanziari è scarsa e frettolosa. Quando, come accennerò poi, ebbe l'idea di fondare l'I-Rur, Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale del Canavese, le strutture societarie proposte si rivelarono subito troppo poco consistenti per reggere la novità dell'impresa, a specchio di una impreparazione di fondo dell'intero gruppo in materia). E sul tema della fabbrica lavorò in tre direzioni fondamentali, che si rivelarono ricche di futuro: 1) l'efficienza (da cui gli studi e gli esperimenti sempre aggiornati di tecnica e organizzazione); 2) l'immagine dell'azienda, su cui è inutile insistere, tanto noto è il suo successo a livello mondiale; 3) il rapporto egemonico della fabbrica con la società. Quest'ultima, delle tre direzioni di lavoro (e mi si perdoni la frettolosa schematicità), era la sostanziale, la più innovativa e lungimirante. Infatti: a) portava di colpo il giovane industriale di Ivrea al di là
delle angustie non solo della cultura imperial-autarchicoretorica del fascismo, ma anche al di là della pur nobile provincia idealistica, a contatto con i problemi delle società più avanzate; b) imponeva di appellarsi per una collaborazione operativa agli esponenti più qualificati della cultura moderna, in un rapporto che, pur somigliando esteriormente a un nuovo mecenatismo, in realtà prefigurava l'esigenza dell'intellettuale "organico" nel progetto della nuova società. Di qui il fittissimo scambio con scrittori, pittori, architetti, sociologi, politologi, studiosi di ogni disciplina non accademica, da Sinisgalli a Fortini a Rogers a Maranini. La fabbrica, nel suo ruolo egemonico, era il punto di raccolta della nuova cultura; c) suggeriva infine la necessità di una ideologia congrua a una nuova socialità. L 'umanitarismo del vecchio Camillo si trasformava in una funzione politica. La costruzione della "fabbrica di vetro" di Figini e Pollini (1938), cui si accompagnarono contestualmente l'asilo e le case per i dipendenti, riassume in modo plastico, con una forza figurativa che ha del rinascimentale, l'intreccio delle tre motivazioni (efficienza, immagine, egemonia), e segna il punto più felice (nel senso di più disinteressato, più sperimentale) dell'avanguardia olivettiana. 2) Dopo la guerra, Olivetti torna dal rifugio svizzero con
la consapevolezza di nuovi doveri. Ha scritto L 'ordine politico delle Comunità, ave ha tracciato le linee di un nuovo Stato; gli uomini della fabbrica hanno dato prove di valore e di solidarietà nella Resistenza; in Italia il regime democratico dà spazio alla libertà ma impone scelte realistiche e in un certo senso usura il privilegio dell'avanguardia; in fabbrica è potente l'opposizione politica e sindacale di direzione comunista, che sembra vanificare la sua ipotesi di una possibile e prossima società post -comunista. Il mondo razionalistico simboleggiato dalla "bellezza funzionale" ha ancora spazio e cittadinanza? A questo punto decisivo della sua vita, la scelta di Adriano Olivetti è coraggiosa e coerente. Punta decisamente sull'espansione della sua industria e contemporaneamente fonda il Movimento Comunità. Detto in altri termini, assume intera la responsabilità del suo pensiero. L'egemonia della fabbrica di Ivrea, resa potente per l'efficienza tecnico-scientifica, resa prestigiosa da una sapientissima immagine, deve, secondo il suo programma, concentrarsi in una realtà socio-politica che egli ama definire "esemplare". Attorno alla fabbrica nascono gli strumenti del nuovo Stato democratico: servizi sociali, cultura popolare, urbanistica. In ognuno di questi campi, gli "olivettiani" sono tra i più preparati: le convergenze, come in ogni
momento culturale creativo, contano più delle differenze; e se sono pochi quelli che condividono sino in fondo il disegno di Olivetti, sono molti quelli che ne subiscono il fascino, ne apprezzano il dinamismo, la novità di ricerca. Si affronta il problema città-campagna, si decentra, si valorizzano le autonomie d'ogni specie. Ricordo un lancio pubblicitario, che mi sembra molto tipico, della Lettera 22. L 'immagine rappresentava lo stabilimento di Agliè, il quieto paese gozzaniano tra Ivrea e Torino: "Questa macchina viene da Agliè" diceva lo slogan, specchio di una mentalità aziendale anti-kolossal, compiaciuta della periferia. La Olivetti è tra le prime grandi aziende a portare uno stabilimento importante nel Sud. Pozzuoli vuol essere anche un esempio di rispetto del paesaggio. Il professar Porcinai studia con grande cura le piante verdi attorno allo stabilimento. Si lodano i balconcini di ferro di cui l'architetto Cosenza ha ornato le case per gli operai, così poco razionalisti, ma così omogenei con l'ambiente napoletano. E intanto il continuo successo dell'iniziativa industriale accresce agli occhi di Olivetti, e moltiplica, la responsabilità politica attribuita alla fabbrica.
Dall'utopia alle riforme si intitolava emblematicamente un libro di H. Infield pubblicato da Comunità; quel titolo fu assunto come uno slogan. In termini di svolgimento
storico, possiamo tradurre così la parabola olivettiana: dall'avanguardia alla politica. La presidenza dell'Inu (Istituto nazionale di urbanistica), che Olivetti assunse in quel periodo, conferma l'impegno pubblico. 3) La responsabilità politica di cui dicevo imponeva dunque un confronto diretto con la realtà italiana. Il confronto si rivelò difficile. La cultura di Olivetti era poco italiana in senso tradizionale. Possiamo dire più agevolmente quello che egli non era. N on era né idealista né storicista, né aveva il culto e il complesso del Risorgimento, gli era estraneo il liberalcattolicesimo, Manzoni e Carducci erano entrambi fuori del suo calendario; d'altra parte non era neppure marxista. Aveva scelto di lavorare con gli uomini di parte democratica; ma era stata una scelta di campo, più che una scelta di intima affinità culturale. Egli era quindi sostanzialmente un isolato nella sua generazione. Aveva, per dir così, come guardrail, da un lato il filone cristiano-sociale, dall'altro quello utopistico-anarchico; ma di fatto si alimentava in modo empirico, funzionale, persino un po' eclettico, di tutta la gamma delle scienze umane che il Croce diceva pseudo-scienze. Così l'architettura, e più l'urbanistica, erano per lui l'espressione, l'esito, di un approccio e intervento interdisciplinare delle scienze umane alla realtà. In questo senso, se pure proposto con una sfumatura
demiurgica oggi poco di moda, il suo contributo allo svecchiamento di modelli e tabù culturali di umanesimo arcaico è da considerarsi imponente. E tuttavia, da quella interdisciplinarità delle scienze egli non arrivava a privilegiare alcuna forma di scientismo, non arrivava cioè a un'acquisizione radicale della moderna cultura laica. Proprio perché, come fece in un memorabile discorso elettorale, egli identificava nello spirito della scienza il Salvatore evangelico, la vera "tensione" che lo animava (per usare la parola di Elio Vittorini) era di tipo spirituale. La sua funzione è stata quella di un illuminista; ma la sua natura era profetico-religiosa. Se così posso esprimermi, l' olivettismo degli ann1 Cinquanta è stato un illuminismo dello spirituale. Questo ha riflessi anche nel campo che qui ci riguarda. Era, in architettura, funzionalista. Ma aveva al tempo stesso una profonda esigenza estetica, di tipo classico, rinascimentale, platonico. Convinto laicamente della bellezza del funzionale, sentiva spiritualisticamente la "funzionalità" della bellezza. Che riscontri aveva una simile posizione, che conciliava Mies van der Rohe con Mumford, Herbert Read con Proudhon, nella cultura italiana di quegli anni, con la quale peraltro si dovevano fare i conti, una volta abbandonata per sempre l'ambizione dell'avanguardia per la politica? Molto pochi. Olivetti colse, di quel
momento culturale, l'elemento a lui immediatamente più utile, che gli veniva suggerito dalle inquietudini dei più giovani: vale a dire l'ideologia dell'impegno, quale era stata espressa con il massimo di rigore morale, o moralistico, dal Partito d'azione. Faccio per comodità il mio caso personale. Sono stato reclutato nel 1948, oscurissimo supplente in una scuola di avviamento professionale a Borgosesia, trentenne ancora a stento inserito nella vita dopo gli anni di guerra, soltanto perché a Olivetti era sembrato (e qualche amico comune lo aveva confortato nel giudizio) che, scrivendo sul «Ponte» le prime recensioni, io portassi nell'esercizio della critica letteraria un'esigenza di vita morale. Così fu pressappoco per la maggior parte del gruppo. Le convergenze e le amicizie di Olivetti (come dimostrò la campagna elettorale del1953, quando Comunità si alleò con Unità popolare contro la legge maggioritaria) si ponevano quasi tutte nell'ambito del socialismo democratico: Silone, Garosci, Zevi, Quaroni. Ma erano convergenze sui generis. La storia del Movimento Comunità è tutto un ricorrere di tentativi, da parte dei suoi giovani collaboratori, di portare il Movimento nell'alveo post-azionistico e socialista, nella consueta dimensione democratica, e della continua renitenza da parte di Olivetti a sfumare e impoverire in quell'alveo l'originalità del suo pens1ero, che s1 fondava
religiosamente sulla creatività dello spirituale. L 'intuizione da cui il suo pensiero partiva era questa: il trionfo dello storicismo ha avuto per effetto l'affermarsi di un sincretismo culturale, che bisogna accettare come il presupposto dell'integrazione interdisciplinare delle scienze, patrimonio inalienabile del mondo moderno, ma che bisogna accettare sino in fondo nel suo momento empirico, funzionale, soltanto per riscattarlo con l'affermazione di nuovi valori spirituali. Si tratta di un'intuizione tutt'altro che banale, ma poco affine alle certezze della cultura politica democratica. Della cultura democratica egli accoglieva e apprezzava il contenuto di moralità; ma non il progetto politico. La sua insistenza sulla "metapolitica" (parola-chiave di quegli anni) era di fatto un rifiuto di quel progetto politico. 4) «Le definizioni che del Movimento Comunità si possono dare secondo il linguaggio politico corrente sono insufficienti»; così si apriva la Dichiarazione
politica (1953). N el momento stesso in cui il movimento olivettiano entrava nell'agone politico, nel sistema, se ne traeva fuori, o prendeva le sue distanze, volgendosi al «rinnovamento delle strutture stesse del regime democratico». E attenzione. Proprio qui, dove sembra che io mi sia ormai del tutto perso per strada, ci avviciniamo invece
risolutamente al nostro tema, che è l'architettura. Qual era l'incompatibilità tra l'ideale olivettiano e il sistema di democrazia parlamentare il cui linguaggio politico era "insufficiente" a definirlo? Quale era il modello alternativo che Olivetti gli contrapponeva? Per non divagare in un'altra digressione, ricorderò soltanto che per lui la democrazia, se si limitava a garantire la libertà delle scelte elettorali generali, era un fatto formale, non solo politicamente debole, perché indifeso contro il pragmatismo delle dittature, ma anche spiritualmente povero, come un ideale che si consumi nella soddisfazione di se stesso. La vera democrazia si trovava, invece, nei contenuti delle scelte tecnicopolitiche; e il supremo contenuto della democrazia, garantite le libertà politiche, è di dare a ogni persona «il sentimento di una vita più armonica e più completa». Nello Stato delle Comunità figura di fatto un partito unico. Né si deve dimenticare che nel1946 Olivetti, che non era un giacobino, adottò lo slogan «tutto il potere ai CLN, ai Comitati di Liberazione Nazionale», perché egli vedeva nei CLN una forma di potere unitario, postparlamentare. Secondo il suo pensiero, quel partito unico non nasce (ed è questo il punto più incerto, e più letteralmente utopistico, di tutta la sua costruzione teorico-politica) da un impeto rivoluzionario cristallizzato in dittatura, come indicano gli esempi
storici, ma nasce da una esigenza di armonia, da una spontanea organizzazione dei consensi, in un quadro di razionalità funzionale. Ecco dunque, per fare un esempio immediato, convivere (nella proprietà e nella gestione delle industrie) enti territoriali, sindacati e università. Ecco uno scrupoloso pluralismo di funzioni sociali e politiche reggere la Comunità e assorbire entro la propria razionalità le divisioni fra destra e sinistra, concepite come dialogo di vocazioni diverse (conservazione o progresso) più che come differenze politiche. Ecco la dura polemica contro i partiti, accusati di operare una rappresentanza "sezionale" (altra parola-chiave) degli interessi collettivi, e quindi di costituire un diaframma tra la volontà popolare e lo Stato. Di fatto, quel partito unico ipotizzato implicitamente nell'Ordine politico delle
Comunità era il partito della cultura, una cultura chiamata a esercitare la sua autorità sulla realtà sociale. Ma in che cosa, allora, secondo Olivetti, questa cultura così autorevole si distingueva da una tecnocrazia? Se ne distingueva per la chiara consapevolezza dei fini riassunti nel garantire a ogni persona della Comunità la libera espressione di se stessa - e se ne distingueva nel rigoroso coincidere di mezzi e fini (e questa era la "fine" della politica). Un'autorità per un'armonia: questa è forse la definizione sintetica più calzante che si può dare
della cultura, cioè del potere, secondo Olivetti. Non ci stupiremo dunque di leggere nel suo libro che gli edifici delle nuove fabbriche della comunità «sono concepiti con senso e amore dell'arte». Come si vede, siamo arrivati esattamente al punto dal quale eravamo partiti: al dirigismo estetico. È tempo di tornare, per concludere, al Canavese e a Ivrea. 5) A partire dal 1948 Adriano Olivetti assegna alla Comunità del Canavese un ruolo privilegiato tra i suoi interessi. Da ciò che sinora ho esposto, spero risulti chiaro che egli in tal modo non si proponeva soltanto: a) di creare nella fabbrica e attorno alla fabbrica un habitat sociale improntato alla nuova cultura, ma anche b) di istituire un modello esemplare di Comunità ave l'industria fosse integrata in una moderna società democratica, e soprattutto c) di imprimere a tale modello esemplare di "comunità concreta" una funzione al
tempo stesso provocatoria e vicaria nei confronti dello Stato dei partiti, dello Stato liberai-parlamentare le cui strutture egli giudicava arcaiche e inefficienti. Si spiega così la molteplicità degli interventi che promosse, servendosi caso per caso e quasi indifferentemente tanto della Società Olivetti quanto del Movimento Comunità, quanto dei comuni di Ivrea e del Canavese conquistati nelle elezioni amministrative 1954 e 1956:
a) ampliamento delle fabbriche esteso a tutto il territorio del Canavese; b) servizio sociale e culturale di fabbrica e del territorio; c) piano re go latore di Ivrea preparato da un'ampia indagine conoscitiva; d) Lega dei Comuni (dotata di un suo servizio tecnico coordinatore di ogni intervento relativo agli insediamenti e all'arredo urbano); e) organizzazione sindacale autonoma (scissionistica rispetto alla situazione esistente e perciò fonte di non pochi equivoci, ma unitaria in prospettiva); f) I-Rur, Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale del Canavese, organismo di promozione economica, nel campo industriale e cooperativo agricolo. L 'intensa attività edilizia del decennio di cui parliamo si può comprendere nelle sue motivazioni e nei suoi risultati soltanto se collocata in questo quadro. E fu un'attività di notevole rilievo. Mi limito a ricordare i principali interventi: completamento della fabbrica di Ivrea; Nuova OMO a S. Bernardo; fascia dei Servizi sociali; Centro Studi; Centro comunitario tipo di Palazzo Canavese; colonia estiva e invernale di Champorcher; progetto della mensa, scuola e teatro (poi realizzato solo in parte); case e villaggi per dipendenti; progetto per l'ospedale di Ivrea; progetto del terzo ponte di Ivrea (si realizza ora); fabbriche I-Rur; progetto del palazzo degli
uffici; oltre le puntate extra moenia di Milano (uffici), Pozzuoli, Barcellona, dei negozi di New Y ork e Venezia. L'elenco è certo incompleto, ma già di per sé significativo. In sostanza, ciò che premeva in primo luogo a Olivetti non era il dar vita a pezzi architettonici da antologia, ma
l'affermare la necessità (e fornire la verifica della possibilità) di un'architettura sociale qualitativa, che nasceva privata ma si proiettava naturalmente in una dimensione pubblica. Si preparava, in quegli anni, il miracolo economico; ma si preparava al tempo stesso il caos edilizio, il trionfo della speculazione, il dramma delle emigrazioni interne senza il conforto delle più elementari garanzie sociali, la dilatazione dei falsi bisogni, il boom delle autostrade a danno delle scuole, lo scardinamento incontrollato dei vecchi equilibri della civiltà contadina. A Ivrea si voleva dimostrare che, in una comunità ordinata, l'industria era stimolo e produzione di armonia. Detto in sintesi, ciò che si realizzò a Ivrea fu un'opera di design generalizzato, applicato metodicamente agli insediamenti dell'intera comunità e a tutte le occasioni della vita associata. In ciò si devono cercare i limiti ma anche l'irripetibile importanza di quell'esperienza, tanto nel significato culturale e politico, quanto nei risultati. Chi torni oggi
con occhi disincantati a rivedere quelle architetture, in mezzo al denso cibreo edilizio che ha involgarito il Canavese come il resto d'Italia, ha davanti a sé uno spettacolo che denuncia qualche traccia di occasionalità. La qualità architettonica è quasi sempre molto buona, ma non omogenea e non sempre svettante. Tre ordini di ragioni, conseguenti a quel che ho tentato di chiarire nelle mie lunghe premesse, giustificano, a mio giudizio, un simile risultato. Il primo è che a Ivrea, l'ambizione essendo di edificare un pezzo della "nuova città", quell'ambizione era di necessità sottoposta così alle inevitabili tensioni dell'ambiente (opposizione da parte di qualche gruppo della proprietà e della dirigenza, varie contingenze della congiuntura industriale che condizionavano i bilanci, e simili), come alla spontaneità della crescita di un organismo (la Comunità) in gestazione. L'esigenza politica costringeva di fatto anche il razionalista Olivetti a sottomettere il "progetto" alla storia. Il secondo è che quel pezzo di "nuova città" nasceva sostanzialmente come verifica di un'ipotesi politica; nasceva, non disinteressata, come ricerca, ma impegnata al servizio. Il giuoco delle parti tra la Società Olivetti e il Movimento Comunità assegnava alla prima la scena internazionale, al secondo lo spazio nazionale. Questo, in qualche misura, provincializzò l'opera di Olivetti
rispetto alla sua giovinezza e fors'anche al suo gusto personale. Tipica è la scelta, per il premio di architettura, del campo nazionale anziché di quello internazionale; così come fu tipica la preferenza data al premio anziché al Museo di architettura che Bruno Zevi proponeva di istituire
a
Ivrea.
La
spinta
alla
"verifica",
alla
responsabilità politica, torno a ripetere, prevalse su quella all'esperimento e della cultura "pura". Il terzo ordine di ragioni è il più importante, e ancor oggi mi appare moralmente molto alto. Se Olivetti e i suoi collaboratori avevano optato, con qualche sacrificio di prestigio culturale, per un modello di Comunità che intendeva porsi come esempio alternativo rispetto a quelli elaborati dalla cultura democratica dello Stato parlamentare, l'attività degli architetti e degli urbanisti
1n
quella
Comunità
diveniva
l'esempio
di
un'ordinaria amministrazione da svolgersi sempre ad altissimo livello per garantire ai suoi abitanti la migliore qualità di vita. Il dirigismo estetico si proponeva come autentico servizio democratico. Per quel che risulta a me, è questo il senso essenziale dell'architettura Oliv etti negli anni Cinquanta. 31 dicembre 1974
TRA UTOPIA, ERESIA E PROFEZIA
Caro Magliano, ti ringrazio dell'attenzione che hai voluto dedicare al mio opuscoletto in ricordo di Adriano Olivetti, e di avermi invitato a tornare in argomento sulle colonne di «Europa». Te ne ringrazio con una sorta di stupore, in quanto il pensiero politico di Olivetti è stato rapidamente accantonato dopo la sua morte, e può apparire oggi di una inattualità suprema, sepolto dal radicalismo o giacobinismo marxiano oggi dominanti nella nostra cultura. Misurato sui parametri odierni, il Movimento Comunità rischierebbe di essere giudicato non già (come veniva giudicato, più o meno, vent'anni fa), un'eresia socialista di fondo cristiano, e sia pure inquinata dal paternalismo di un industriale o "padrone", ma di essere assimilato senza più tra i fenomeni "fascisti". Basta ricordare certi temi: la critica al regime dei partiti,
l'apprezzamento della stabilità politica come condizione di corretta vita democratica, il rifiuto dell'egualitarismo individualistico a favore della libertà della persona entro la solidarietà comunitaria, il dovere della democrazia di essere efficiente, la diffidenza verso i tabù del parlamentarismo e una rispettosa ma non idolatrica considerazione della Costituzione fondata sullo Stato parlamentare, sono posizioni e temi impopolari o addirittura sospetti. Che dire poi di propositi come questo: «Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un'impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l'uno contro l'altro, non riescono a risolvere i problemi dell'uomo e della società moderna»? Vent'anni fa, dopo la rivolta dell'Ungheria, queste parole suonavano drammatica speranza, e anche gli avversari si limitavano a ricordare che la storia aveva sempre condannato simili propositi al fallimento o peggio alla corruzione, ma si faceva salva la buona fede e si metteva tutto nel conto dell'utopia; mentre oggi si griderebbe alla provocazione o si alzerebbero le spalle come di fronte a sottocultura. La cosa dunque che, alla prima, colpisce chi si volga a
considerare la figura di Adriano Olivetti e il disegno politico di Comunità è la distanza, siderale, che sembrava separarcene. Il 1968 e la pressione della sinistra culturale sembrano averli accantonati per sempre. Si prenda un solo esempio. Oggi non si parla, nel linguaggio insieme brutalistico e demagogico dominante, che di "potere" (concetto anticristiano se mai ce ne fu uno), sia per condannare chi lo detiene, sia per eccitare coloro che si propongono di conquistarlo. E mentre al potere, che si presume prerogativa legittima e fatale delle forze sociali che si muovono "nel senso della storia", è attribuita dignità risolutiva, cauterizzante ogni piaga, l'autorità, che pretende di richiamarsi a una radice spirituale, è rifiutata per principio come mistificazione e repressione. Ora, Olivetti non parlava mai di "potere" (che suonava minaccioso e ambiguo alla sua ideologia profondamente antileniniana), e proclamava invece, sulla scorta della tradizione cristiana e di quella, esplicitamente richiamata, della Chiesa cattolica, il valore spirituale dell'autorità intesa come capacità e compito di coordinamento, necessana all'armonia della vita sociale e comunitaria. L 'unica cosa, caro Magliano, che rende in qualche modo attuale, sia pure in negativo, e in qualche modo urgentemente attuale, il pensiero di Olivetti è che i problemi - istituzionali, sociali, morali - ai quali egli
aveva cercato di dare risposta e soluzione sono ancora qui, irrisolti, ingigantiti dall'inerzia, dall'incultura, dalle cupidigie, dalla rassegnazione, e in questi ve nt'anni si sono attossicati, sino a rischiare di soffocare la nostra vita democratica. Credo che tu desideri che io ricordi qualche punto del progetto riformatore di Olivetti in questo senso; non per una riproposizione (che sarebbe comunque illegittima, anche se io ne avessi l'autorità, perché la situazione politica è troppo mutata da quando Olivetti, nel1960, ci ha lasciati), ma per l'amaro stimolo che si può trarre nel rivisitare le speranze deluse, nel grande cimitero ave via via le abbandona la storia del socialismo italiano. Mi limiterò comunque all'essenziale. 1) La vicenda di Adriano Olivetti si svolge tutta in un ambito di cristianesimo sociale o di socialismo cristiano, che, per così dire, aveva trovato 1n famiglia. L'ideologismo democratico gobettiano, e il forte rilievo storicistico di quella cultura, non gli erano congeniali. Era semmai più vicino all'altro grande coetaneo, Edoardo Persico, la cui lezione sembrava servirgli di più nell'opera cui il destino lo chiamava, affidandogli lo sviluppo della fabbrica di Ivrea. L'architettura, l'urbanistica, l'organizzazione industriale furono i temi principali della sua riflessione e della sua azione. Portava nel suo lavoro, sin dall'inizio, l'ansia di un
disegno coerente, di una qualificazione culturale per cui ogni manifestazione del gruppo che aveva formato attorno a sé acquistasse un significato nel mondo contemporaneo. La rivista «Tecnica e Organizzazione», lo studio del Piano regolatore della Valle d'Aosta, le prime splendide realizzazioni d'architettura di Figini e Pollini a Ivrea, il raffinato design dei suoi prodotti furono testimonianza di una problematica culturale complessa e anticipatrice, nel panorama di un'Italia infiacchita dalla retorica fascista, furono un dialogo aperto con l'Europa. Ma cominciò allora la solitudine politica che doveva accompagnarlo tutta la vita. La condizione di industriale costituiva certo un privilegio per la libertà d'azione che gli consentiva, ma era al tempo stesso una remora molto dura. Chi lo conobbe, sa che le sue convinzioni nascevano da un'ansia spirituale profonda; che la ricerca di un filo segreto «al di là del ritmo apparente» era per lui una sincera e sofferta vocazione esistenziale. Ma in bocca a un capitalista non trovavano credito: i probiviri le consideravano mistificazione, i capitalisti più diffidenti una pericolosa breccia aperta al comunismo, i capitalisti più furbi e volgari un'elegante voluta di fumo negli occhi. Così la carnera politica di Olivetti fu un seguito di
delusioni. Furono per lui del tutto insoddisfacenti le esperienze vissute nel primo dopoguerra tra le file del P artit o socialista prima e nel P artito cristiano-sociale poi. E anche quando, fondato nel 1948 il Movimento Comunità, volle accostarsi alla politica attiva, al mondo dei partiti, il suo disagio fu continuo. Mi è capitato un'altra volta di scrivere che l'olivettismo è stato un illuminismo dello spirituale. E tuttavia, seme prezioso, egli sapeva conservare in sé una vena di rigorismo morale che, se era tutt'altra cosa dal radicalismo di stampo protestatario, gli faceva ripudiare la politica dei compromessi e la facilità delle formule "spirituali". I suoi collaboratori li reclutò quasi tutti nel Partito d'azione. Si schierò, nel1947, contro l'articolo 7, ritenendo che una "pace religiosa" ottenuta a spese del principio della laicità dello Stato fosse l'anticamera di un regime. Rifiutava il liberalismo come forza traente, come idea-guida; ma lo considerava necessario come salvaguardia, e come irrinunciabile premessa. Così si schierò contro la legge maggioritaria nel 1953, proprio lui, fautore della stabilità politica e dell'efficienza dell'esecutivo. Ma riteneva che quella meccanica attribuzione di un premio alla maggioranza non correggesse ma anzi aggravasse i difetti del sistema: mancavano a suo giudizio, in quella operazione politica ancora tutta interna alla logica dello Stato parlamentare,
quei correttivi costituzionali per cui, in una democrazia corretta, un rafforzamento dell'esecutivo deve essere bilanciato dalla moltiplicazione dei controlli. In termini di schieramento, Comunità si collocò subito alla sinistra della Democrazia cristiana, nell'ambito del socialismo democratico; partecipò alle travagliate vicende volte alla costituzione di un terzo partito socialista dopo la scissione; si alleò con Unità popolare di Calamandrei e Codignola nelle elezioni del 1953; condusse faticosissime trattative ancora con Unità popolare e il gruppo de «Il Mondo» di Pannunzio per la costituzione di un blocco elettorale e politico liberalsocialista-cristiano. Ma erano convergenze che, se da un lato rispondevano alle sue esigenze di partecipare, su un piano di intransigente moralità culturale, alla difesa dei valori democratici, dall'altro lato trovavano un limite invalicabile nella sua concezione politica. La storia del Movimento Comunità è tutto un ricorrere di tentativi, da parte dei suoi giovani collaboratori, di portare il Movimento nell'alveo post -azionistico e socialista, nella consueta dimensione democratica, e della continua renitenza da parte di Olivetti a sfumare e impoverire in quell'alveo l'originalità del suo pensiero, che si fondava religiosamente sulla creatività dello spirituale. Il suo laicismo l'aveva mutuato da Emmanuel Mounier;
e qui le sue vedute hanno avuto il conforto del successo. Nes suno come lui si è battuto in Italia contro le discriminazioni di tipo religioso; per una laicità che, più che "rispettare" (parola ancora di sapore garantista), assumesse in sé, si facesse carico della dimensione religiosa come propna dell'uomo. La formula mounieriana: «Credenti e non credenti, cattolici e non cattolici», era stata inserita nel programma di Comunità e attuata regolarmente in ogni rapporto. Lo svelenimento delle differenze religiose, e ciò che oggi si dice pluralismo, ha avuto quindi in Olivetti un fervido anticipatore. Ma il pluralismo come fine a se stesso non gli poteva bastare. 2) Il punto più difficile, e del resto il fondamentale, da cogliere nel pensiero di Olivetti è che la democrazia, fondata sull'egualitarismo dei diritti e dei doveri individuali, è valore essenziale, ma non il solo, al fine di assicurare un armonioso sviluppo della società e delle persone che la compongono. Olivetti contrapponeva il personalismo cristiano sia al materialismo marxista sia all'individualismo liberale; e nel personalismo cristiano vedeva, come suona il sottotitolo del suo libro-progetto costituzionale, "le garanzie di libertà di uno Stato socialista". Su questa linea andava molto avanti. Rifiutava lo Stato
parlamentare di origine giacobina. Di più: trovava insufficiente il suffragio universale, espressione di un egualitarismo
che,
pur
esprimendo
un
pnnc1p1o
irrinunciabile di giustizia, veniva ogni giorno di più superato dalla complessità delle scelte che uno Stato moderno è chiamato a compiere. Si potrebbe dire con linguaggio corrente che il progetto olivettiano modella le istituzioni in vista di una "politica dei contenuti", ma si impoverirebbe così il disegno di uno Stato sollecito non solo della propria corretta funzionalità, ma anche di promuovere la qualità della vita dei cittadini, le loro possibilità di armoniosa espressione spirituale. La democrazia va quindi integrata con un sistema che garantisca la presenza di sempre più necessarie competenze. I valori portanti di una società cristiana sono, secondo Oliv etti, la democrazia (che garantisce l'uguaglianza dei diritti), la cultura (che interpreta storicamente i valori spirituali e sollecita la tensione della ricerca scientifica) e il lavoro (che media, al di là della logica astratta delle leggi economiche, le esigenze della produzione e quelle della giustizia). Tutta la costruzione istituzionale di Olivetti è un raffinatissimo
intreccio
di
dirigismo
culturale
e
economico-sociale sulla trama democratica di base: una continua
correzione
del
peso
delle
maggioranze,
espresso dal voto democratico, con la consapevolezza
dei valori, sociali, scientifici, estetici; correzione, che non è sopraffazione, ma piuttosto dialogo e paz1enza, come è proprio della vita onesta. In questa utopia olivettiana c'è insieme complicata raffinatezza intellettuale e candore profetico, superdirigismo e sollecitudine della persona, tecnicismo e spazio per la creatività umana. Comunque si voglia considerare, essa si pone come una precisa presa di coscienza delle più traumatiche contraddizioni della nostra civiltà, lacerata tra progresso scientifico e ritardo sociale, tra trionfale tecnologia e decadenza spirituale, tra acute aspirazioni alla giustizia e dolorosa anarchia di inefficienza. Con grande coerenza, egli proiettava questa sua «democrazia integrata» in uno schema federalista. Il primario nucleo territoriale, ave è possibile creare il modello concreto e "a misura umana" (secondo la ormai quasi abusata formula di Léon Blum) di democrazia integrata era, secondo Olivetti, la Comunità, cellula fondamentale di un continuum federalistico che si articolava via via nelle regioni, nello Stato, nella Comunità europea; tutte sedi ave dovrebbe ripetersi, a livelli diversi e sempre più ampi di responsabilità, il gioco democratico atto a individuare le competenze funzionali e politiche più rappresentative e più consapevoli dei valori.
Come si vede anche da questa schematizzazione estremamente sommaria e approssimativa (tanto più sommaria e approssimativa quanto più puntiglioso e perfezionistico è il tracciato del disegno), nel pensiero politico di Olivetti confluivano elementi di origine complessa: dalla protesta cristiana di Mounier alla conciliazione di cattolicesimo e democrazia teorizzata da Maritain, dal modello costituzionale del cantone svizzero alla tradizione del pensiero federalista americano, alle suggestioni dell'utopia anarchica, alla esperienza di fabbrica e dell'organizzazione industriale. Ciò che appare originale e vitale nel suo illuminato sincretismo, al di là del quasi platonico e rinascimentale ideale di vita come armonia, è il vigore liberatorio che corre in ogni punto del suo sistema di federalismo integrale. Non soltanto, mi sembra, egli aveva colto i difetti dell'attuale sistema di rappresentanza politica (che un eventuale ritorno al collegio uninominale al posto della proporzionale potrebbe soltanto mutare di segno ma non eliminare); ma aveva positivamente indicato il valore delle autonomie concepito come il dato permanente di una società libera e democratica: autonomia delle forze sindacali, dei gruppi culturali, degli enti locali, in un contrappunto continuo di programmazione o spontaneismo, di progresso tecnico e partecipazione popolare.
Il limite di questa costruzione coincide con il suo valore supremo: la sostituzione dell'armonia alla lotta, la fiducia nell'emergente egemonia del bene. Di fatto, il partito unico nel quale avrebbero dovuto confluire, con la loro identità, le diverse vocazioni e le diverse funzioni, era per Olivetti il risultato non già di una soppressione o coartazione, ma d'una crescita di coscienza. La partecipazione, assai larga, da lui prevista per il sindacato, a tutti i livelli, non solo di gestione ma di comproprietà, non si modellava, come fu detto, sullo Stato corporativo; ma presupponeva una partecipazione solidale ai fini della società, che, allo stato delle cose, appare illusoria. 3) La classe politica inserita nel regime dei partiti non prese sul serio le proposte di Olivetti. Lo considerò, nel migliore dei casi, un mecenate illuminato, e un inoffensivo utopista. Certe sue intuizioni, per esempio il rilievo dell'urbanistica nel mondo moderno, scienza interdisciplinare che investe tanto la programmazione economica quanto la ecologia e la difesa del paesaggio, furono travolte dal sottogoverno. Certi rilievi sacrosanti, come l'inutilità di un bicameralismo nel quale il Senato abbia la identica matrice della Camera dei deputati, onde la necessità di dare al Senato base elettiva diversa e diverse funzioni, soltanto ora affiorano all'attenzione dei
politologi. Ma il dissenso era radicale e insanabile. Olivetti non credeva che la carta d'identità di un'ideologia legittimasse il potere dei partiti, la loro parte di protagonisti della vita politica. Secondo il suo modo di pensare, un'ideologia portava con sé la difesa di interessi e ideali, pur nobili ma sempre "sezionali"; e contraddiceva quella coscienza dell'unità dei fini che per lui era il supremo valore spirituale del fare politico. Egli pensava che il posto dei partiti dovesse essere preso da quelle che chiamava "associazioni funzionali", predisposte ai vari livelli, dalla Comunità allo Stato alla Federazione europea, per risolvere i problemi della società; e solo nell'ambito unitario e solidale delle associazioni funzionali trovava legittime le diversità ideologiche rispondenti alle vocazioni di ciascuna persona. Per questo, era molto più vicino, idealmente, all'organizzazione di Stati socialisti come la Jugoslavia e la Polonia di quanto non lo fosse allo Stato parlamentare d'origine liberal-democratica. A quegli Stati socialisti rimproverava di non avere il coraggio di integrare le già conquistate autonomie con la pratica della libertà. Ma quando, nel 1956, divampò la rivoluzione antisovietica, pur avendo orrore della repressione armata e del sangue, giudicò che il pendolo della storia non avrebbe potuto fermarsi all'ora, già da
tempo trascorsa, dello Stato dei partiti. Tutto ciò valse a lui e al suo Movimento l'accusa di qualunquismo.
Olivetti
s1
rifaceva,
invece,
alla
drammatica ispirazione unitaria di Simone Weil. Uno dei tratti più malinconici della nostra cultura politica, così come mi ha segnato dai miei tempi di Ivrea, è la poco diffusa capacità di misurare la distanza che separa, come un oceano, Simone Weil da Guglielmo Giannini. «Europa», 15 e 31 marzo 1975
LA SAGA DEGLI 0LIVETTI
Con il recente ingresso di un nuovo potente azionista nella società, la quota di proprietà della famiglia Olivetti si è ridotta, informano i giornali, a meno del 5 per cento. Poche settimane fa Roberto Olivetti (l'Olivetti della terza generazione) aveva colto non senza eleganza l'occasione della incompatibilità con un incarico governativo per abbandonare la vicepresidenza, che del resto pare fosse da tempo priva di poteri. La Società era stata fondata nel 1908 dall'ing. Camillo e per oltre mezzo secolo la famiglia aveva saldamente tenuto in prima persona le redini dell'azienda, conquistando, come è noto, nel campo delle macchine per scrivere, delle calcolatrici e poi dell'informatica il primato assoluto in Italia e uno dei primi posti nel mondo. Esce così di scena, fra l'indifferenza generale, una delle famiglie più singolari e meritorie della storia industriale italiana, l'unica, credo, che possa opporre il suo blasone alla stravincente dinastia degli Agnelli: frammento di
un'Europa liberalsocialista sognata in un'Italia troppo diversa. Al di là delle capacità imprenditoriali, ciò che caratterizzava, pur nella diversità dei caratteri, sia Camillo (1868-1943) sia il figlio Adriano (1901-1960) erano doti insolite nel nostro mondo industriale: spirito umanitario, passione di riformatori, senso religioso della vita, ispirazione socialista, vocazione spiccata all'utopia. Ciò ha segnato nel capitalismo italiano una linea "umanistica", una linea culturale non-conformista se non ereticale. E se è fallito il tentativo orgoglioso di porsi come modello alternativo nel mondo industriale (il modello di una società fondata non soltanto sull'etica del profitto), gli Oliv etti rimangono un esempio (da rimpiangere) da un lato della indipendenza dal sottogoverno, dallo statalismo parassitario, dalla sottomissione pavida o furbesca alla classe politica (i mali che stanno uccidendo la nostra economia, - e la nostra libertà); dall'altro lato una visione lungimirante, non difensiva, del ruolo dell'industria nella società. La componente religiosa ebbe negli Olivetti una parte primaria, e in senso diverso dalla morale capitalisticoprotestante che vede nel successo, anche economico, la sanzione-premio di Dio. È rimasto famoso l'episodio del vecchio Camillo che nel rifugio, sotto i bombardamenti, pretendeva stizzito che la segretaria continuasse a
leggergli la Bibbia. Ebreo, di una famiglia che aveva vissuto per secoli nelle viuzze buie e scoscese accatastate ai piedi del Castello di Ivrea, aveva sposato la figlia del pastore valdese; convinto seguace delle idee di Socino (tolleranza, non-violenza, concezione della religione come etica razionale), nel 1934 aderì ufficialmente agli Unitariani. Il figlio Adriano approdò invece al cattolicesimo: ancora una volta sembra opportuno ricordare che i suoi interlocutori ideali furono Maritain, Mounier, Kierkegaard, Simone Weil. Lo spirito religioso sostanziava, in entrambi, la coscienza di una missione; ma era una religione, come quella di Silone, senza chiese, e, forse, senza Dio. Camillo, per generazione e temperamento, appartiene al mondo dei pionieri; ne ebbe l'audacia, la prontezza, l'individualismo, l'orgoglio. Ma la sua carriera di imprenditore la cominciò facendo scuola serale, a casa sua, ai giovani figli dei contadini che avrebbe assunto in fabbrica. Adriano fu il promotore illuminato di un Servizio sociale gestito modernamente con criteri scientifici; ma apriva la sua giornata ascoltando, a casa sua, i più poveri, disadattati e infelici che, non rientrando negli schemi, potevano ritenersi vittime di ingiustizia. Fecero entrambi il loro apprendistato in America. La via del socialismo, per loro, passava per la razionalizzazione del capitalismo, lo svecchiamento della cultura, la
stabilità democratica, il buon uso della tecnica e della scienza. Una volta, negli Stati Uniti (ave aveva accompagnato Galileo Ferraris, suo maestro; e fecero visita anche a Edison) Camillo si trovò a visitare il Link Observatory, posto, con il suo potente telescopio, sulla sommità di un monte che dominava altre cime: «Da noi ci avrebbero costruito un fortino: gli americani, più pratici, ci costruirono un osservatorio astronomico», osservò; e io credo che Itala Svevo non avrebbe potuto dir meglio, con più asciutta ironia. Fu socialista, consigliere comunale a Torino (con Claudio Treves ), fondò giornali d'opposizione: a Ivrea (1919) «L'azione riformista», a Torino (1922-25) «Tempi nuovi»; polemico con tutti, e in primo luogo con i compagni, di cui non accettava il giuoco delle correnti, «il vangelo delle varie scuole», opponendo una colorita insofferenza a qualsiasi disciplina. Come industriale, era più interessato alla creazione che al profitto. «La mentalità dell'imprenditore», scrisse, «dovrebbe essere quella di un produttore e di un organizzatore, non quella di uno speculatore». Di qui l'indifferenza o il fastidio per i problemi finanziari, che lasciò in eredità al figlio. Era invece, come ingegnere, esigentissimo, perfezionista. Progettava da sé le sue macchine; e capitò, qualche volta, che mentre illustrava un modello al cliente, si accorgesse di qualche
miglioramento possibile; correva allora in officina con la macchina sotto il braccio, lasciando in asso l'esterrefatto interlocutore. Avvenirista e artigiano, sperimentatore infaticabile e paternalista, democratico e accentratore, fornitore dello Stato e schedato dalla polizia come sovversivo (si era già nel 1928 quando un solerte funzionario gli ritirò il passaporto alla frontiera) era fatale che la sua fortissima personalità si scontrasse con quella del figlio Adriano, più morbida e complessa ma non meno intransigente. Specie dopo il viaggio negli Stati Uniti in Adriano era maturata la convinzione che, pur nella linea unitaria e solidaristica tracciata dal padre, al successo industriale accorrevano strumenti organizzativi più aggiornati, competenze professionali ad alto livello e una risolutezza decisa sino alla crudeltà. «Migliorare la scelta degli uomini vuole dire migliorare le cose», aveva scritto Camillo; e Adriano seguì la lezione esercitando gelosamente, come il padre, la funzione del capo del personale. Molte cose, per esempio l'ufficio pubblicità destinato a divenire uno dei più famosi del mondo, le faceva a Milano di nascosto dal padre. Dice molto bene Bruno Caizzi nella sua biografia dei due Olivetti (Utet, 1962) che per il figlio la memoria del padre divenne sempre più, andando avanti negli anni, un fatto di coscienza. Camillo era morto solo,
in piena guerra, la famiglia dispersa, nascosto sotto falso nome, all'ospedale di Biella. Dopo il 25 luglio, già vecchio e malato, aveva ricevuto la Commissione interna e, prevedendo il peggio, aveva rivolto ai suoi operai parole memorabili: «Difendete le vostre famiglie, le vostre case, le vostre macchine, armatevi, siate forti». Così quando fu seppellito, ebreo clandestino, nel cimitero di Biella, e una piccola folla silenziosa (e, nel senso più alto, randagia: operai, partigiani, vecchi, sbandati) si raccolse dietro il suo feretro, la sua morte andò a iscriversi tra gli episodi più gentili della Resistenza. Sui rapporti tra Adriano e Camillo è fiorita una larga aneddotica. Posso aggiungere un episodio, credo inedito, e che mi sembra molto bello. Si parlava un giorno di Martin Buber, il grande scrittore e filosofo dell'ebraismo, di cui Adriano Olivetti pubblicava le opere. Gli chiesi se era un autore letto in gioventù. «No», mi rispose, «lo conoscevo di fama, ma non avevo letto niente. Ci demmo appuntamento alla stazione di Losanna. Mi trovai davanti a un vecchio con una bella barba, con gli occhi chiari. Somigliava tanto a mio padre: così decisi di pubblicarlo». E strizzò l'occhio, come gli capitava nei momenti d'imbarazzo, quando il pudore vacillava. La figura politica di Adriano Oliv etti (così come la
vastità dei suoi interessi: urbanistica, architettura, design, scienze sociali) esula da questo articolo, anche se nel suo pensiero di alta ingegneria istituzionale sono molte le cose vive, che hanno trovato in questi anni applicazione degradata e distorta. È un pensiero che si svolge fuori dalla tradizione liberale e punta a un nuovo modello di democrazia integrata, per metà federalista, e per metà dirigista, a larga partecipazione popolare anche nel campo economico, coinvolgendo le esperienze anglosassoni, elvetiche e titoiste (che, quando Olivetti scrisse L'ordine politico delle Comunità, erano ancora di là da venire). Ma egli vedeva i rapporti con i comunisti in termini, utopistici, di conversione razionale e non di compromesso. Avversò come poté l'art. 7, favorì come poté l'unificazione socialista sulla linea democratica, e nel 1956 partecipò con convinzione a un primo abbozzo, fallito, di alleanza laica con i socialisti eretici di Codignola (Unità popolare) e i liberali eretici di Pannunzio. Portò nella politica il suo prestigio e i suoi mezzi di industriale, e questo segnò la sua sconfitta. Ma qui vorrei rovesciare un giudizio corrente: l'utilizzazione in campo politico che egli fece della sua potenza di industriale è solo la parte emergente dell'iceberg. In realtà egli aveva una così alta idea della missione della fabbrica che la considerava un naturale protagonista
politico. Si serviva della fabbrica, se così posso dire, per servirla. Come solo pochissimi (Volponi, Bocca) hanno capito, la fabbrica era per lui il crogiuolo della cultura moderna: il luogo dei conflitti e delle risoluzioni, ave si decide se l'enorme patrimonio tecnologico della nostra società si incanalerà verso un perenne New Dea/ o si vanificherà nei fumi dell'ideologia o diverrà privilegio e fonte di nuovi insanabili conflitti. È stato dunque il filosofo di fabbrica, come il padre Camillo ne era stato il pioniere. Ciò che distingue la storia degli Olivetti da quelle delle altre famiglie è che i suoi annali sono scritti entro le mura ideali della fabbrica più che nei consigli di amministrazione. Quando Camillo passò le consegne al figlio, gli intimò: «Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell'introduzione dei nuovi metodi». Sembrano, e forse sono, cose di un altro secolo. E anch'io sono forse di un altro secolo; ma questa, confesso, è l'Italia che amo. «Il Giornale nuovo», 31 maggio 1978
IL MITO E L'EREDITÀ DI ADRIANO 0LIVETTI
Adriano Olivetti morì improvvisamente la sera del 27 febbraio, venti anni fa, sul treno Milano-Losanna. La prima camera ardente fu composta nella piccola stazione di Aigle. Ai funerali, a Ivrea, partecipò tutta la città. Le terrazze dell'edificio dei servizi sociali, di fronte alla grande fabbrica di vetro, erano gremite di operai silenziosi, commossi, taluno piangente. Quelle terrazze erano state volute dall' «ingegner Adriano», come tutti lo chiamavano, perché vi si potesse assistere alle sfilate del carnevale, che a Ivrea ha una tradizione secolare: servirono, invece, per attendere il furgone funebre che arrivava con la sua salma dopo aver traversato le Alpi ancora nevose. Fu sepolto, come aveva disposto, sotto un breve tumulo di terra e una semplice croce, volto a levante. Dell'immensa folla che seguiva il feretro, tutti sapevano che, in varia misura ma per tutti, si chiudeva in quel giorno un'epoca della loro vita. Che cosa è rimasto, dopo vent'anni, di Adriano Olivetti?
L'azienda ha mutato radicalmente caratteristiche, significato, mentalità, uomini; la famiglia Olivetti è stata estromessa dalla gestione e controlla una piccolissima minoranza delle azioni; la casa editrice è poco più di una crisalide; il Movimento Comunità, già ferito a morte dall'esito sfortunato della prova elettorale del 1958 (ottenne circa 170.000 voti, con i quali riuscì a mandare in Parlamento un solo deputato e nessun senatore), si dissolse rapidamente; la città di Ivrea, da lui difesa giorno per giorno, anche per qualche anno da sindaco, come modello di un'urbanistica sociale rispettosa dei valori estetici, si è rapidamente accresciuta e involgarita come tutte le altre città italiane; sull'Istituto nazionale di urbanistica, di cui egli aveva cercato di fare, con l'aiuto soprattutto di Bruno Zevi, un centro vivo di cultura politica, è sceso il silenzio; le iniziative sociali ed economiche nel Canavese, la Comunità "esemplare" (tra cui l'I-Rur, Istituto per il Rinnovamento urbano e rurale, sorto per attuare un microdecentramento industriale, all'insegna dell'ambiziosa parola d'ordine: "Una fabbrica in ogni valle"), sono state abbandonate; e persino l'Unrra-Casas, l'ente di edilizia popolare cui aveva dato tante energie, a cominciare dal Piano regolatore di Matera, è finito, dopo avere cambiato sigla, nel calderone degli enti inutili, ed è stato soppresso. Mai eredità ideale così ricca fu abbandonata in modo
altrettanto totale. A ciò concorrono molte cause: i mutamenti profondi dell'assetto sociale ed economico dell'Italia (dalla emigrazione interna allo Stato imprenditore) che egli non fece in tempo a valutare; l'affermarsi selvaggio della partitocrazia, in diretto contrasto con il suo disegno politico, e l'orrenda demagogia culturale che l'ha accompagnata; e infine la sottile ma accanita impopolarità di cui anche in vita è stato oggetto questo industriale che si diceva socialista, questo ebreo-valdese che si diceva cristiano, questo politologo che rifiutava di rendere omaggio alla classe politica, questo ricco condannato a pagare sempre, questo utopista che si affermava da imprenditore di raro e realistico coraggio, questo italiano così europeo. In definitiva, egli è stato l'uomo più sconfitto della sua generazione. E tuttavia siamo ancora qui dopo ve nt'anni a parlare di lui. E radio, televisione e giornali corrono in questi giorni a interrogare i superstiti di quell'eccezionale gruppo di intellettuali che a ondate successive aveva riunito a lavorare insieme con lui e che gli meritarono il bellissimo elogio di "utopista positivo" da parte di Ferruccio Parri. Resiste un mito Olivetti, o, per gli amici, un mito Adriano. In che consiste questo mito? Qual è l'attualità, o, per usare una parola a lui familiare, la esemplarità della sua
vita? Credo che la risposta debba essere duplice. Ci sono ragioni segretamente emotive (che egli non avrebbe apprezzato) e ragioni politiche oggettive. Tra le prime c'è il fascino della sua figura, che misteriosamente chi lo ha incontrato continua a trasmettere: come certi composti metallici, che conservano per secoli e millenni la loro radioattività, così la sua immagine non si scolara nel tempo: i riccioli biondi attorno alla grande testa calva da profeta, gli occhi celesti e penetranti, la sua instancabile ricerca di nuovi ingegni da valorizzare, la forza ideale così intensamente disinteressata da divenire egoistica o, come dicevano, paternalistica, la polivalenza degli interessi (organizzazione industriale, architettura, pubblicità, ingegneria delle istituzioni, cultura religiosa, servizio sociale, democrazia di fabbrica), e anche l'estrema duttilità degli atteggiamenti (era al tempo stesso liberale e dirigista, cioè antiliberale; aveva il senso profetico delle grandi intuizioni e al tempo stesso era un incontentabile perfezionista; impastava insieme il più rigoroso razionalismo e l'attenzione magicoreligiosa ai "segni" della vita) sono elementi di grande suggestione, frammenti di una personalità enigmatica e irripetibile, tali da "fare tradizione" e vincere il silenzio del tempo. Le ragioni politiche sono più difficili da spiegare, ma, pur senza entrare nel labirintico disegno dell'Ordine
politico delle Comunità (questo è il titolo del suo libro teorico fondamentale), mi proverò a riassumerle. 1) Superamento del capitalismo e del socialismo. È un tema caro tanto al papa quanto all'an. Berlinguer, ed è probabilmente il tema politico di fondo dell'Occidente. Olivetti proponeva una soluzione tecnica generale che investiva alle radici la struttura delle istituzioni dello Stato, discutibile quanto si vuole, ma che si fondava su un'intuizione rispondente a una aspirazione (utopistica?) oggi diffusa: tra marxismo, cristianesimo e liberalismo è impossibile il compromesso ma è possibile il dialogo e la collaborazione dialettica, se, lasciando cadere il contenuto ideologico di lotta per il potere, marxismo, cristianesimo e liberalismo si riducono (o si innalzano) a momenti di cultura pluralista (l'aggettivo è da lui usato largamente sin dagli anni Quaranta). 2) L'industria può e deve darsi dei fini, al di là del
profitto. Olivetti prevedeva in prospettiva una gestione delle grandi imprese articolata tra ente locale, istituti culturali e comunità di lavoratori; e il progetto è oggi più che mai improponibile anche per la stretta disciplina partitica degli enti locali, per lo sfascio delle università e l'aggressivo centralismo del sindacato, nonché per l'impetuoso individualismo dell'economia sommersa. Ma sembra difficile ipotizzare un ritorno stabile al capitalismo delle società liberiste; ed è fatale che la
responsabilità sociale delle industrie debba trovare un assetto istituzionale. 3) Centralità della fabbrica. La parola "centralità" non è olivettiana, ma lo è il concetto, non estraneo alla esperienza torinese di Gramsci e di Gobetti negli anni della sua giovinezza. Nella fabbrica, secondo il suo pensiero, si creano le pulsioni fondamentali del conflitto sociale, e nella fabbrica devono comporsi, in quanto essa è soggetto di responsabilità comunitaria, capitale economica della comunità. In questo senso s1 giustificava la presenza in fabbrica degli uomini di cultura; che erano per lui "organici" alla nuova società proprio in quanto "non-organici" a nessun tipo di ideologia, essendo per definizione la cultura libertà, ricerca e dialogo, aspirazione alla verità e alla presenza della bellezza. 4) Equilibrio città-campagna. Accanto e in parallelo al pluralismo culturale, per Olivetti era da difendere il pluralismo sociale: egli affermava in teoria, così come applicava in pratica, l'armonia tra valori della civiltà contadina e valori della civiltà industriale. Decentrare le attività industriali e al tempo stesso aiutare il consolidarsi di quelle agricole, legate alla terra, era il suo programma. Era impressionante vedere come, aiutato da una memoria di ferro, e dalla conoscenza di quasi tutte le vecchie famiglie del Canavese, si
adoperasse ogni giorno perché le assunzioni in fabbrica si conciliassero con la permanenza nelle "cascine" di qualche altro membro della famiglia. 5) Uomo e tecnica. Olivetti vedeva incombenti i pericoli del trionfo della tecnologia: pericoli di disumanizzazione e pericoli di inquinamento. Ma, se oggi avrebbe meritato la tessera d'onore di un "partito verde", egli era anche convinto che i progetti di "sviluppo zero" o di regressione anti-industriale sono irrealizzabili e reazionari. Tocca alla scienza, alla cultura, alla religione e in definitiva alla politica umanizzare la tecnica senza interrompere il progresso. Torniamo qui al punto iniziale: né il capitalismo liberista, né il socialismo destinato a rimanere ideologia burocratica del potere, sono in grado di risolvere questo problema, cui è legata la sorte della nostra civiltà e dell'umanità intera. Solo una nuova sintesi di programmazione e di democrazia potrà riuscirvi. L'alternativa a questo grandioso ottimismo è la fine di tutto. 6) Condanna della partitocrazia. La condanna di Olivetti non si rifaceva agli argomenti di Guglielmo Giannini, ma semmai a quelli di Simone Weil. Non metteva cioè in discussione la sovranità popolare, ma la rappresentatività dei partiti, espressione ferocemente conservativa di interessi settoriali. I partiti, nati per
affermare un'ideologia, non possono non trasformarsi sempre più, per una loro logica inesorabile, in strumenti di potere, sempre più differenziati e particolaristici (correnti, sottocorrenti, criptocorrenti). Essi operano nello Stato non come veicoli della volontà popolare ma come diaframmi. Occupano le istituzioni e le sedi decisionali senza coscienza e responsabilità dei problemi reali, ma in connessione con gli equilibri sempre instabili del loro potere fondato sulla settorialità della loro rappresentanza. Uno Stato partitocratico non è più uno Stato, ma un appalto (l'espressione è mia, il pensiero è suo). Faranno le Regioni, ma anziché sotto il segno dell'autonomia, le Regioni nasceranno come decentramento
del potere partitico,
e in perfetta
opposizione con lo spirito federalistico di uno Stato regionale. Su questo punto la preveggenza di Olivetti è di una chiarezza assoluta. 7) Competenza politica. È l'indicazione più sottile ma anche più ardua del pensiero di Olivetti. Per ovviare ai difetti
del
suffragio
universale,
che
riempie
il
Parlamento di incompetenti intercambiabili, e ai difetti delle "Camere dei produttori" in uso nei regimi totalitari, che
hanno
per
corporativismo,
esito
congiunto
tecnocrazia
e
egli aveva studiato un complesso
meccanismo (che si ripeteva partendo dal basso, dal nucleo dello Stato, la Comunità, secondo una sorta di
razionale cursus honorum) per cui la rappresentanza politica è affidata a uomini eletti democraticamente ma entro "ordini" politici, corrispondenti alle funzioni essenziali della società e quindi dello Stato: l'economia, l'urbanistica, la sanità, ecc. (e anche la democrazia, garanzia del rispetto della libertà delle istituzioni). In tal modo i partiti si dissolverebbero e le ideologie da essi rappresentate s1 esprimerebbero 1n diversificati orientamenti culturali. Ma al tempo stesso Olivetti pensava così di evitare il pericolo del partito unico. Il sottotitolo del libro che ho citato è eloquente in proposito: Le garanzie di libertà in uno Stato
socialista. Se posso azzardare il paragone, del resto affiorato più volte nel Movimento Comunità, il modello più vicino al progetto olivettiano è il titoismo, un titoismo occidentale, non marxista, e cristiano. 8) Socialismo personalista. È un punto essenziale, che ho lasciato per ultimo perché può illuminare tutti gli altri. Il soggetto sociale, prima che cittadino, operaio, intellettuale, amministratore pubblico, è persona, destinatario e interprete unico, irripetibile, della propria libertà e del proprio destino. C'è nella persona un segno e un valore religioso, che la società non deve limitarsi a rispettare ma deve garantire come primario, o meglio assoluto. E anche questo umanesimo religiosamente concepito, che riallaccia Olivetti alla grande tradizione
cristiana, è oggi un punto riconosciuto.
quas1 universalmente
Utopia dunque? Forse; ma lampeggiante di intuizioni luminose e concrete. Il vero punto debole di questa costruzione teorica, per cui molti la considerarono non politica ma metapolitica, è che manca in essa un qualsiasi elemento atto a individuare i modi del trapasso dalla società attuale alla nuova, ciò che si dice il momento leninista del mutamento. Olivetti amava definirsi riformatore, per distinguersi s1a dai rivoluzionari s1a dai riformisti di tradizione socialdemocratica. Il suo pensiero si colloca in modo originale e innovato re nell'area del socialismo liberale. E forse proprio la mancanza in esso del momento leninista, in questa Italia e in questo mondo devastati dal terrorismo, gli aggiunge un'imprevista nota di attualità. Il rifiuto della violenza, sino al punto di non considerarla guardando al futuro, è oggi per molti di noi per metà utopia, per metà speranza. «Il Tempo», 28 febbraio 1980
POESIA, POLITICA E FIORI
Giacomo Noventa e Adriano Olivetti sono probabilmente gli uomini che hanno contato di più nella mia formazione e in definitiva nella mia vita. Avevano assai poco in comune, se non di dover morire nello stesso anno (il 1960), e di essere stato l'uno (Olivetti) il primo editore delle poesie dell'altro. Ma avevano in comune un'altra cosa, e decisiva: Noventa, poeta, non amava «coloro che in Italia sono detti poeti», e Olivetti intendeva fare politica prescindendo dagli uomini politici del suo tempo. La loro vocazione profonda era di profeti inascoltati ma al tempo stesso erano fiduciosi, attivi, tutt'altro che solitari, dediti all'ordine positivo del fare; e se i loro provvisori successi si rispecchiavano puntualmente in una inevitabile sconfitta generale, in quella sconfitta, per estrema contraddizione, entrambi riconoscevano il loro segreto di verità, la parte alta e vincente del loro destino. «La poesia di Giacomo Noventa non è contemporanea
alla poesia italiana contemporanea»; così cominciava la mia prefazione alle poesie di Noventa, edite nel 1956 dalle
Edizioni
di
Comunità.
La
stessa
formula,
sostituendo "poesia" con "politica", si sarebbe potuta usare per Olivetti. Ciò ha aperto una seria, salutare incrinatura, o breccia, nel mio storicismo di fondo; e ha segnato il punto di coagulo delle mie inquietudini religiose. Quella non contemporaneità tra contemporanei rimandava, infatti, a una sorgente e a una misura dei valori diverse e più complesse di quelle indicate dalle apparenti necessità della ragione storica. Come logico riscontro politico, nessuno dei due era, in senso stretto, "antifascista", e neppure "democratico". Noventa era un giobertiano, un cattolico liberale, un pre-democratico. In gioventù si era iscritto al partito liberale, ma ne uscì subito, non avendo trovato tra gli iscritti (disse) Camillo Cavour. Olivetti era un socialista ereticale, non marxista, cittadino a pieno titolo della società industriale, che univa all'ispirazione religiosa un fortissimo
gusto
dell'ingegneria delle istituzioni; un post-democratico. Di recente a Firenze, durante un convegno di critici, Noventa è stato ricordato come "fascista", soprattutto perché sulla sua rivista, «La Riforma letteraria», aveva affermato,
citando
Mussolini,
che
«colla
guerra
d'Etiopia e dopo la guerra d'Etiopia un periodo della nostra storia si è chiuso», e il nuovo periodo è «come un
immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro». Si era nella primavera del1937; ed è chiaro che Noventa non aveva previsto l'asse Roma-Berlino, le leggi razziali, la guerra di Hitler, così come il critico che amava di più, Giacomo Debenedetti, in quello stesso giro di anni lodava la prosa di Mussolini con questa splendida formula-citazione: «Jamais les Bourbons sauraient parler camme ça». Ma il senso della frase noventiana, nella sua prosa poeticamente metaforica, era quasi il contrario del suo significato letterale. La guerra d'Etiopia era per lui pressappoco quello che per Dante era stato Arrigo VII: un appuntamento con la grandezza di una storia sognata. Con la guerra d'Etiopia, scriveva infatti, «la nostra giovinezza è finita»; il che equivaleva al dire che anche il fascismo era finito, e con esso «l'idealismo, la filosofia di quel mondo di cui il fascismo è stato, fino alla guerra d'Etiopia, la politica e la religione». Nello stesso modo, più tardi, egli doveva rivendicare il valore della Resistenza come evento profondamente popolare, risorgimentale e aperto al futuro, contro l'antifascismo, figlio invece della stessa cultura da cui era nato il fascismo. Del resto la polizia fascista si dimostrò più intelligente dei critici di oggi, arrestando Noventa e rilasciando lo solo dopo avergli imposto la proibizione di abitare in città sedi di università, ave avrebbe potuto svolgere la sua opera di
corruttore dei giovani. Quando lo conobbi io, alla fine del1937, ero un giovane arrivato a Firenze dalla provincia, fascista illuso e vagamente scontento; altri amici, Spini, Lattes (Fortini), D' Alema, N omellini, erano molto più avanti di me nella consapevolezza politica; ma Noventa era rispettoso della m1a ingenuità come della loro contestazione. Passeggiava a lungo con noi, profondendo citazioni, aforismi, stoccate, sentenze in una conversazione di impareggiabile, generosa amabilità, da antico patrizio veneto qual era. A notte alta lo riaccompagnavamo a casa, verso piazza d'Azeglio, ave scriveva poche righe al giorno di quella sua prosa concentrata come il denso caffè che di continuo si preparava in una mastodontica caffettiera di vetro simile a un alambicco. Il suo ideale di un mondo «assolutamente classico e assolutamente cattolico» era un ideale di grandezza morale, civile, religiosa, che con il fascismo non aveva niente a che vedere, ma ancor meno con l'antifascismo, colpevole anzi, ai suoi occhi, di disperdere la sua superiorità intellettuale nella sterile razionalità dello storicismo. Il suo era un cattolicesimo dantesco, o alla Péguy, anticlericale quanto antimodernista, popolare quanto antipopulista («Cristo sull'asino e non l'asino su Cristo»). La sua compagnia, come la sua poesia, furono per me una risolutiva lezione di libertà, di cui sentii per
la prima volta chiaramente la responsabilità primaria, personale, intima, coscienziale: «un uomo libero», soleva ripetere citando forse uno scrittore che ignoro «si riconosce anche da come chiede un bicchiere d'acqua». Olivetti era invece totalmente "di cultura moderna", di segno più protestantico che cattolico, anche se l'esercizio rigoroso, coerente, della ragione egli lo applicava entro un personalissimo scenario magicoreligioso, di tipo junghiano. In un discorso elettorale, una volta, affermò che il nuovo Salvatore, annunciato dal Vangelo, è lo spirito della scienza. N es suno meglio di lui ha capito che il problema del nostro tempo, disumanizzato dalla tecnologia, non si risolve con qualsiasi forma di regressione o rallentamento, ma con la umanizzazione della scienza: il che implica anche il dovere della giustizia. La giustizia sociale (nella accezione più ampia, comprendente anche la possibilità per tutti di fruire della bellezza; per cui l'arte applicata, dall'urbanistica al design, era per lui più vicina alla giustizia che non la poesia) è l'unica forma di progresso ammissibile per chi non crede, come gli spiriti religiosi, al progresso. Olivetti era uno strano progressista (antistoricista), uno strano illuminista (magico). Alla verità della storia credeva di poter arrivare con l'ascolto dei "segni". Credo di averlo conosciuto una volta per sempre, nella vertigine del suo solitario dialogo con la
storia, pochi mesi dopo il m1o arnvo a Ivrea. Aveva chiuso l'edizione torinese di «Comunità», affidata a due professori, Cairola e Rovero. Accadde che, in un breve periodo, entrambi morirono. «Come vede», fu il suo commento, «era una strada sbagliata». Questa vena sapienziale, biblica, era fondamentale nella sua persona, e la sua esperienza di fabbrica la alimentava più di quanto non la contraddicesse. È vero che talora si aiutava, nelle assunzioni, con la grafologia e l'astrologia. Più vero che raccomandava: «N on esistono persone già fatte per un ruolo; per sapere se sono adatte a quel ruolo occorre immaginare come saranno diventate tra un anno». Portò la psicologia scientifica nell'ufficio del personale; ma facilitava con tutta la sua autorità l'ingresso in fabbrica dei figli dei dipendenti, «perché è così, diceva, che si forma una tradizione». Sulla persecuzione contro gli ebrei aveva una teoria molto bella. Sono odiati, mi disse, perché sono ricchi di "qualità invisibili", la tenacia, la fedeltà, il rispetto della parola data, il pudore, che gli altri non sanno prevedere e controllare. Così, al di là delle intuizioni geniali di imprenditore intellettuale, di editore e anche di teorico della politica, e al di là delle proverbiali bizzarrie, io mi ritrovo, invecchiando, a riconoscere in lui ciò che non avrebbe mai ammesso di avere ereditato da suo padre, il fondo ebraico, quasi rabbinico, di un'antica saggezza.
Perché si risolvesse a pubblicare le poesie di Noventa, e perché Noventa, dopo avere resistito per oltre vent'anni nell'orgoglio di rimanere inedito, accordasse a lui il privilegio di pubblicarle, non so (forse lo sa Soavi). Ciò che so è questo. Grazia Olivetti, la seconda moglie, aveva avuto da poco la loro unica figlia. Quando Noventa venne a cena a casa Olivetti, a Ivrea, con il libro dalla memorabile copertina di carta verde (tra l'alloro e l'ulivo), si prodigò in tutte le invenzioni della sua squisita galanteria; portò in quel salotto da studio di architettura, felpato di anonime moquettes bianche, Goldoni e Petrarca, Ronsard e Cocteau, recitò come un doge di grande sangue travestito da gondoliere. «La poesia è anche un mazzo di fiori», disse a un certo punto, mostrando di aver capito, e di non rifiutare, di essere stato offerto come dono a una giovane sposa. Adriano Olivetti era felice: con mano inesperta accese l'unica sigaretta che in dodici anni gli ho visto fumare. «Il Giornale nuovo», 1o aprile 1980
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Geno Pampaloni, Poesia, politica e fiori © 2016 Comunità Editrice, Roma/Ivrea © 1980 Un'idea di democrazia, Edizioni di Comunità ISBN 978-88-98220-47-2 L 'editore ringrazia la famiglia Pampaloni per aver gentilmente concesso l'utilizzo del testo Redazione: Angela Ricci Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab Edizioni di Comunità è un'iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www .fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de' Liguori Carino facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www .edizionidicomunita.it [email protected]