Platone, Ippia Minore. Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli [1 ed.] 9783896658104

Trotz seines geringen Umfangs und des aporetischen Endes ist Platons Hippias minor beachtenswert, da er von wichtigen Th

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Italian Pages 279 [282] Year 2020

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Table of contents :
Indice

Premessa

Introduzione

1. Il tema e la struttura del dialogo
2. Problemi di interpretazione
3. Ippia di Elide
4. L’inganno e la volontarietà del male
5. Il confronto tra Achille e Odisseo
6. Scena e data drammatica
7. Autenticità e data di composizione

Nota critica

1. La prima famiglia: T e W (P)
2. La seconda famiglia: F
3. La posizione di S
4. Gli apografi
5. Le prime edizioni a stampa
6. Le traduzioni latine
7. La tradizione indiretta

Conspectus siglorum

ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ [ἢ περὶ τοῦ ψεύδους]

IPPIA MINORE [«Sul falso»]

Appendix coniecturarum

Commento

Prologo (363a1-365d5)
Prima fase dialettica (365d6-369c8)
Lettura di Omero (369d1-372d5)
Intermezzo (372a6-373c5)
Seconda fase dialettica (373c6-376c6)

Abbreviazioni

Bibliografia

Indici

Indice dei nomi e delle cose notevoli
Indice delle parole greche
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Platone, Ippia Minore. Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli [1 ed.]
 9783896658104

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Diotima. Studies in Greek Philology

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Silvia Venturelli

Platone, Ippia Minore Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli

ACADEMIA

Silvia Venturelli

Platone, Ippia Minore Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli

Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli

Volume 1

Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)

Diotima. Studies in Greek Philology

Silvia Venturelli

Platone, Ippia Minore Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli

ACADEMIA

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Coverpicture: © Juulijs – stock.adobe.com

The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN

978-3-89665-809-8 (Print) 978-3-89665-810-4 (ePDF)

British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN

978-3-89665-809-8 (Print) 978-3-89665-810-4 (ePDF)

Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Venturelli, Silvia Platone, Ippia Minore Introduzione, edizione critica, traduzione e commento a cura di Silvia Venturelli Silvia Venturelli 279 pp. Includes bibliographic references and index. ISBN

978-3-89665-809-8 (Print) 978-3-89665-810-4 (ePDF) Onlineversion Nomos eLibrary

1st Edition 2020 © Academia Verlag within Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, Germany 2020. Printed and bound in Germany. This work is subject to copyright. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage or retrieval system, without prior permission in writing from the publishers. Under § 54 of the German Copyright Law where copies are made for other than private use a fee is payable to “Verwertungsgesellschaft Wort”, Munich. No responsibility for loss caused to any individual or organization acting on or refraining from action as a result of the material in this publication can be accepted by Nomos or the author. Visit our website www.academia-verlag.de

Indice

Premessa

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Introduzione

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1. Il tema e la struttura del dialogo

9

2. Problemi di interpretazione

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3. Ippia di Elide

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4. L’inganno e la volontarietà del male

22

5. Il confronto tra Achille e Odisseo

29

6. Scena e data drammatica

37

7. Autenticità e data di composizione

39

Nota critica

43

1. La prima famiglia: T e W (P)

44

2. La seconda famiglia: F

49

3. La posizione di S

53

4. Gli apografi

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5. Le prime edizioni a stampa

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6. Le traduzioni latine

66

7. La tradizione indiretta

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Indice

Conspectus siglorum

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ [ἢ περὶ τοῦ ψεύδους]

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IPPIA MINORE [«Sul falso»]

94

Appendix coniecturarum

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Commento

112

Prologo (363a1-365d5)

113

Prima fase dialettica (365d6-369c8)

154

Lettura di Omero (369d1-372d5)

190

Intermezzo (372a6-373c5)

213

Seconda fase dialettica (373c6-376c6)

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Abbreviazioni

255

Bibliografia

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Indici

275

Indice dei nomi e delle cose notevoli

275

Indice delle parole greche

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Premessa

Questo libro è il frutto di un lungo percorso, iniziato una tesi di dottorato discussa presso l’Università di Pisa nel dicembre 2015 e proseguito poi negli anni successivi, per giungere ora alla sua forma finale. Diverse sono le persone con cui ho avuto l’opportunità di lavorare e che desidero qui ringraziare: anzitutto Mauro Tulli, che, guidandomi fin dai primi tempi dei miei studi universitari, ha seguito costantemente lo sviluppo delle mie ricerche fino ad accoglierne in questa collana il risultato; ma anche Bruno Centrone, che ha incoraggiato i miei interessi filosofici e con cui ho avuto la possibilità di instaurare un sempre stimolante e proficuo dialogo; Walter Lapini, che ha minuziosamente letto e discusso con me le pagine più difficili, dandomi puntuali suggerimenti e consigli; e Filippomaria Pontani, al quale sono debitrice per l’acribia e la pazienza con cui ha letto il mio lavoro durante le varie fasi della sua stesura offrendomi generosamente il suo acume e la sua dottrina. Un momento fondamentale per l’elaborazione di questo libro è stato poi il soggiorno ad Amburgo nel Sommersemester 2018, reso possibile grazie al supporto del Deutscher Akademischer Austauschdienst: durante questo periodo ho avuto modo di approfondire lo studio della tradizione manoscritta di Platone sotto l’esperta guida di Christian Brockmann, cui sono riconoscente per l’interesse che ha mostrato nei confronti della mia ricerca e per l’essenziale contributo che ha dato al suo miglioramento. Prezioso è stato anche il sostegno della Fondation Hardt, presso la quale ho potuto rivedere il mio lavoro approfittando della ricca biblioteca e della splendida cornice offerta dalla stagione primaverile. Nelle fasi conclusive dell’elaborazione di questo libro, inoltre, ho avuto il privilegio di potermi giovare del parere di Antonio Carlini, ineludibile punto di riferimento per chiunque si accosti al testo platonico: per i consigli e per il tempo che ha voluto dedicarmi gli sono davvero grata. Il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa è la cornice in cui è nato il mio lavoro e che ha reso possibile la mia ricerca: un pensiero grato va in particolare ad Isabella Bertagna, che mi ha sempre offerto il suo affettuoso sostegno, a Michele Corradi, che mi ha incoraggiata nel mio lavoro tra filologia e filosofia, e a Giulia D’Alessandro, che ha rivisto con me il manoscritto nel momento decisivo della consegna. Ringrazio inoltre Luca Ruggeri e Marco Catrambone, con cui ho spesso condiviso il tavolo della biblioteca della Scuola Normale, sottoponendo loro i problemi che mi si presentavano nella lettura del testo platonico e cer-

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Premessa

cando insieme una soluzione. Indispensabili per la preparazione del volume sono state poi le cure di Stefanie Meyer e Alexandra Beutelmann, che ringrazio, insieme a Steffen Burk, per la disponibilità. Non dimentico, infine, gli amici che mi sono rimasti vicini in questi anni, discutendo con me delle mie ricerche e sostenendomi nel mio percorso, e ai quali in alcuni casi mi lega, oltre alla philía, anche un vincolo di xenía per le numerose volte che mi hanno accolta durante gli anni trascorsi lontano da Pisa, facendomi sentire sempre a casa: Francesca Antonini, Alessia Astesiano, Chiara Ballestrazzi, Andrea Beghini, Alessio Mancini, Stefano Poletti, Ilenia Russo, Davide Tripodi. A tutti loro va il mio grazie. La responsabilità finale di quanto ho scritto rimane, naturalmente, soltanto mia. Pisa, 8 settembre 2019

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INTRODUZIONE

1. Il tema e la struttura del dialogo Nella tradizione antica, il tema dell’Ippia minore è indicato come περὶ τοῦ ψεύδους (Diog. Laert. 3.60), ma il sottotitolo, come d’altronde spesso avviene, rende conto solo parzialmente di quelli che ne sono gli effettivi contenuti.1 Punto di partenza della discussione è infatti, per esattezza, una questione che riguarda l’esegesi omerica, ovvero una σύγκρισις tra i personaggi di Achille e Odisseo, su cui Socrate interroga il sofista Ippia di Elide allo scopo di stabilire quale dei due eroi sia migliore e quindi, indirettamente, se sia superiore l’Iliade o l’Odissea (πότερον ἀμείνω … εἶναι, 363b7-c1; cf. 364b3-5). Poiché Ippia propone una contrapposizione tra i personaggi fondata su verità e menzogna, affermando che Achille è sincero e Odisseo invece bugiardo, si passa al tema della mendacità, cui è dedicata la prima argomentazione (365d-369c), incentrata sulla paradossale tesi secondo cui la persona falsa e quella veritiera non sarebbero in realtà due persone distinte, ma la stessa (ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθής, 367c7-8; cf. 368a6-7, 368e4-5 e 369b3-4). All’esegesi omerica si ritorna alla fine della sezione, quando il risultato è applicato alla risoluzione del quesito iniziale, con la conseguenza che anche Achille e Odisseo dovrebbero essere del tutto identici e alla pari fra loro (369b4-7). Di fronte a questa conclusione, Ippia si ribella e chiede di poter tornare a confrontarsi sul testo omerico, ma Socrate, raccogliendo la sfida, gli ruba la parola e tiene un lungo discorso (369e-371e), in cui svolge una provocatoria esegesi dell’Iliade nel tentativo di dimostrare che Achille è mendace non meno di Odisseo, il mentitore per eccellenza,

1 Nella tradizione medievale, i codici più autorevoli (TW) riportano erroneamente περὶ τοῦ καλοῦ, sottotitolo in realtà dell’Ippia maggiore, mentre il sottotitolo esatto περὶ τοῦ ψεύδους è presente solo nei due manoscritti di ambiente bessarioneo Ven. 186 e 184, in cui si tratta verosimilmente proprio di una correzione sulla base del testo di Diogene Laerzio: cf. Commento, Titolo. Per l’inadeguatezza dei sottotitoli contenutistici, che finiscono inevitabilmente con il ridurre i dialoghi ad un unico tema, cf. le osservazioni di Dodds (1959), 33, a proposito del Gorgia, il cui sottotitolo περὶ ῥητορικῆς «is formally correct, in the sense that the whole debate arises out of the question “What is ῥητορική?” … But its inadequacy as a description of the purpose (σκοπός) of the dialogue was already recognized by the Neoplatonic commentators». La varietà dei temi affrontati nell’Ippia minore è evidenziata da Jantzen (1989), vii-viii.

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INTRODUZIONE

con un inedito rovesciamento di ruoli tra i due eroi. Alla fine, egli ammette che Achille, come sostiene Ippia, dica il falso involontariamente, in buona fede, ma solo per trarne un ulteriore paradosso: in tal caso infatti, afferma Socrate ribaltando ancora una volta le tesi del suo interlocutore, Odisseo dovrebbe essere migliore di lui (ἀμείνων ἄρ’ἐστίν, ὡς ἔοικεν, ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως, 371e4-5), proprio in quanto inganna intenzionalmente. Nell’ultima parte del dialogo (373c-376c), la discussione abbandona poi sia i personaggi omerici sia il tema della mendacità, per concentrarsi sull’esame del problema più generale dell’errore volontario, con la nuova paradossale tesi secondo cui chi sbaglia volontariamente è migliore di chi lo fa senza volere, poiché agisce sulla base di una capacità e di una competenza che all’altro mancano. In ambito etico, questo principio porta però all’inammissibile conclusione secondo cui chi commette ingiustizia volontariamente, ammesso che esista una tale persona, non potrebbe essere altri che la persona buona stessa (ὁ ἄρα ἑκὼν ἁμαρτάνων καὶ αἰσχρὰ καὶ ἄδικα ποιῶν, ὦ Ἱππία, εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, οὐκ ἂν ἄλλος εἴη ἢ ὁ ἀγαθός, 376b4-6). Né Ippia (376b7) né lo stesso Socrate possono accettare un simile risultato, benché esso consegua in maniera apparentemente necessaria dal ragionamento svolto (376b8-c1). Il dialogo si conclude dunque in maniera aporetica, con una particolare insistenza sul tema dell’incertezza e dell’errore (πλανῶμαι, 376c2; πλανᾶσθαι, c3; πλανήσεσθε, c4; τῆς πλάνης, c6), che, sottolinea ironicamente Socrate, non hanno trovato una soluzione neppure in un illustre sapiente come Ippia. Formalmente, si tratta di un dialogo in forma drammatica diretta, privo, cioè, di una cornice narrativa.2 Tra i dialoghi autentici, con le sue tredici pagine Stephanus è secondo per brevità di estensione solo al Critone e allo Ione, con i quali condivide anche la presenza di un unico interlocutore principale oltre a Socrate. Un terzo personaggio, Eudico, pronuncia solo poche battute, svolgendo un ruolo di mediazione all’inizio del dialogo (363a-c), quando spinge Socrate a porre le sue domande a Ippia, e verso la metà, nel momento in cui la conversazione attraversa un momento di crisi (373a-c) e si rende di nuovo necessario un suo intervento per convincere il sofista a sottoporsi ancora alle domande di Socrate. La struttura appare so-

2 Sulla distinzione tra dialoghi diretti o drammatici e dialoghi narrati o diegematici, a prescindere da un’eventuale utilità ai fini della determinazione di una cronologia relativa dei dialoghi, cf. Thesleff (1982), 54.

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1. Il tema e la struttura del dialogo

stanzialmente tripartita, con un breve prologo cui fanno seguito due fasi dialettiche separate da un monologo centrale dedicato all’esegesi omerica:3 363a-365d 365d-369c 369d-371e 372a-373c 373c-376c

Prologo. Prima fase dialettica: l’identità di falso e veritiero. Lettura di Omero: la superiorità di Odisseo su Achille. Intermezzo. Seconda fase dialettica: la superiorità dell’errore volontario.

A scandire lo svolgimento, oltre agli interventi di Eudico, contribuisce anche la presenza di riflessioni a carattere metodologico.4 L’inizio dell’argomentazione, in particolare, è sancito dall’enunciazione, da parte di Socrate, della necessità di abbandonare l’interpretazione di Omero per l’impossibilità di interrogare il poeta assente (τὸν μὲν Ὅμηρον τοίνυν ἐάσωμεν, ἐπειδὴ καὶ ἀδύνατον ἐπανερέσθαι τί ποτε νοῶν ταῦτα ἐποίησεν τὰ ἔπη, 365c8-d1);5 seguono poi, prima e dopo la sezione centrale, due accesi scambi, in cui, rispettivamente, Ippia protesta contro il metodo brachilogico socratico, proponendo un ritorno all’esegesi del testo omerico (369b-c), e poi è invece Socrate a condannare la macrologia sofistica, imponendo un ritorno all’interrogazione dialettica (372a-373c). Una struttura analoga si incontra nello Ione e, in forma più elaborata, nel Protagora, dialoghi particolarmente affini all’Ippia minore: lo Ione presenta infatti un breve prologo (530a-531a) e due fasi dialettiche (531a-533c; 536d-542b), separate da un monologo centrale di Socrate, con tema poetico (533c-536d). Nel Protagora, al doppio prologo dovuto alla presenza della cornice (309a-316a) seguono l’epidissi di Protagora e una prima fase dialettica (316a-334c), mentre un primo intermezzo, che vede intervenire anche gli altri presenti per riconciliare Socrate e Protagora (334c-338d), introduce poi la sezione centrale dedicata all’esegesi dell’ode di Simonide (338e-347a); a questo punto un secondo, più breve, intermezzo (347a-348c) sancisce l’abbandono dell’esegesi poetica, determinando così il passaggio alla seconda e ultima argomentazione

3 Sulla struttura del dialogo da un punto di vista stilistico, cf. Thesleff (1967), 116. Una netta bipartizione, segnata dal secondo intermezzo, è invece vista da Hoerber (1962), 128-29, che insiste su una più generale «construction in “doublets”». 4 La presenza di intermezzi di riflessione metodologica, soprattutto nei dialoghi giovanili, è analizzata da Dalfen (1989). 5 Su questo passo e il suo rapporto con la critica alla scrittura, evidenziato in part. da Szlezák (1985), 81, cf. Commento ad loc.

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INTRODUZIONE

(348c-362a), in maniera speculare rispetto all’Ippia minore, in cui, invece, l’intermezzo più lungo segue, anziché precedere, l’esegesi poetica.6

2. Problemi di interpretazione Nonostante le brevi dimensioni e la semplicità formale, l’Ippia minore è un dialogo di non facile interpretazione. Tratto distintivo, che ne fa un caso unico anche nell’ambito dei dialoghi aporetici, è il carattere paradossale della sua argomentazione, nel corso della quale si vede Socrate sostenere una serie di tesi apparentemente assurde, quando non del tutto immorali, culminanti alla fine in una conclusione che è non solo inammissibile per la morale comune, ma anche in aperto contrasto con il ben noto principio socratico secondo cui nessuno compie volontariamente il male (οὐδεὶς ἑκὼν ἁμαρτάνει). Come sottolinea Friedländer, è probabilmente solo grazie all’esplicita menzione da parte di Aristotele (Metaph. 5.29.1029a6-13) se l’Ippia minore non è stato rigettato come spurio per via del suo contenuto.7 A lungo, comunque, è prevalsa nella critica una valutazione riduttiva del dialogo, che Wilamowitz riteneva possibile comprendere soltanto «als Satire», diretta a colpire la figura di Ippia, e che già Pohlenz, prima di lui, aveva definito «ein παίγνιον», anche se non privo di propositi seri.8 Una parte consistente degli studi, come quelli di Sprague, Hoerber e Mulhern, si è diretta all’analisi delle argomentazioni allo scopo di individuare i sofismi e le ambiguità da cui possa dipendere la paradossalità delle conclusioni: la mancata distinzione, ad esempio, tra le nozioni di “capace” (δυνατός) e di “volontario” (ἑκών), o l’uso equivoco di “buono” (ἀγαθός) nel senso tecnico-prestazionale di “bravo a” e in quello invece prettamente etico di “moralmente buono”.9 L’Ippia minore è anzi stato talora preso ad esempio del

6 Sulla struttura di Ione e Protagora cf. ancora Thesleff (1967), 116-17 e 128-29, mentre i parallelismi strutturali tra l’Ippia minore e il Protagora erano evidenziati già da Pohlenz (1913), 82-85. 7 Cf. Friedländer (19643), 134, il quale ritiene in ogni caso che il dialogo possa essere stato composto solo prima della morte di Socrate; così anche Wilamowitz (1919-20), I, 138, e più recentemente Heitsch (2003). Cf. infra, 7. «Autenticità e data di composizione». 8 Wilamowitz (1919-20), I, 137; Pohlenz (1913), 66. 9 Sprague (1962), 65-79; Hoerber (1962); Mulhern (1968); cf. poi Guthrie (1975), 195-97; Klosko (1987); Kahn (1996), 119-20; Beversluis (2000), 94-110; sulla funzione delle ambiguità semantiche dal punto di vista filosofico si concentra Petrucci (2012). La validità dell’argomentazione è difesa invece da Weiss (1981), poi in Weiss (2006), 120-47, e ora Jones, Ravi (2017).

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2. Problemi di interpretazione

fatto che Platone, nei dialoghi, faccia un uso consapevole di sofismi ed argomentazioni fallaci, al punto che la paradossale identificazione della persona falsa con quella veritiera sostenuta nella prima parte del dialogo sarebbe dimostrata, secondo Friedländer, proprio dall’esempio di Socrate nel corso della conversazione con Ippia, «da er besser als alle Sophisten zu täuschen weiß».10 Non sono mancate comunque anche opinioni contrarie, come quella di Vlastos, che più di tutti ha tentato di difendere la sincerità di Socrate, prendendo alla lettera le dichiarazioni di perplessità che chiudono il dialogo e sostenendo che anche Platone fosse prigioniero della fallacia delle sue argomentazioni, in quanto sarebbe proprio la tesi dell’involontarietà del male, al centro della discussione, ad essere di per sé «a misguided and confused doctrine».11 Su di un piano contenutistico, tuttavia, appare improbabile che l’obiettivo dell’Ippia minore consista nel mettere in luce le debolezze di un principio, quello dell’involontarietà del male, che è cruciale nell’etica socratica e che Platone manterrà come un punto fermo dall’inizio alla fine della sua produzione.12 La chiave di lettura del dialogo è stata perciò da tempo individuata nell’inciso che Socrate inserisce nel trarre la conclusione finale, mettendo in dubbio l’esistenza stessa di una persona che possa compiere volontariamente il male (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, 376b5-6): un dubbio in cui la critica ha in genere riconosciuto un chiaro rinvio al fatto che, nella prospettiva socratica, una tale persona non esiste, perché nessuno, appunto, compie volontariamente il male, ma tutti coloro che lo compiono lo fanno solo per ignoranza del bene. In altri termini, è soltanto dall’assunzione ipotetica della tesi contraria, secondo cui una tale persona invece esiste, che derivano le paradossali conclusioni raggiunte dall’argomentazione, la quale sarebbe dunque da intendersi come una sorta di dimostrazione per absurdum della tesi socratica, come sostenu-

10 Friedländer (19643), 127, poi ripreso da Szlezák (1985), 90. La questione dell’abilità nell’ingannare che avvicinerebbe Socrate, nel dialogo, al personaggio di Odisseo, si è poi imposta nel dibattito più recente, dividendo gli studiosi: cf. Lampert (2002), Adams (2010) e Crome (2014). 11 Vlastos (1991), 278; una posizione intermedia quella di Balaudé (1997), che tra i due estremi della sincerità e della mendacità di Socrate pone la strategia dell’omissione: cf. Balaudé (1997), 267-8. Per l’interpretazione del dialogo come espressione di una reale aporia, cf. anche Ovink (1931); Kraut (1984), 311-16; Zembaty (1989). Una polemica nei confronti delle tesi socratiche, che verrebbero qui ridotte all’assurdo, era invece vista da Horneffer (1904) e Hirschberger (1932). 12 Cf. in part. Prot. 345d ss. e 352a ss., Gorg. 466a ss. e 509e, Men. 78a ss., Resp. 350d ss., Tim. 86d-e, Leg. 731c. Nella vasta bibliografia relativa a questo principio e alla sua formulazione nei dialoghi, cf. almeno Gulley (1965), O’ Brien (1967), Santas (1979) e Segvič (2000).

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INTRODUZIONE

to soprattutto da Guthrie, ma già precedentemente, in Italia, da Calogero.13 Questa lettura, che si può definire tradizionale nella scuola “storica”, non è in sostanza messa in discussione neppure da alcune letture “neo-unitarie”, come quella esoterica di Szlezák e quella prolettica di Kahn, i quali accettano il significato comunemente attribuito all’inciso, pur ritenendo che la soluzione non possa essere desunta dalla lettura del solo Ippia minore, ma sia possibile soltanto al lettore che già conosca la posizione platonica, più compiutamente esposta in dialoghi successivi come il Gorgia ed il Menone.14 Una spiegazione differente, sempre nell’ambito di un’impostazione di tipo unitario, è invece avanzata da Erler, il quale, prendendo le mosse da un articolo di Weiss in cui si difendeva la validità dell’argomentazione, propone di interpretare quest’ultima come dimostrazione positiva, i cui risultati perderebbero il loro carattere di paradossalità se letti alla luce della matura dottrina platonica ed in particolare della teoria, sviluppata nella Repubblica, che prevede la liceità della menzogna e di altre azioni apparentemente ingiuste, quando esse siano legittimate da un fine superiore e guidate dalla conoscenza del bene, come nel caso più famoso della “nobile menzogna” (Resp. 3.414b-415e). L’inciso finale sarebbe dunque da intendersi in senso affermativo: una persona che sbaglia volontariamente, in determinate occasioni, esiste ed è il filosofo.15 13 Cf. Guthrie (1975), 197-99, e Calogero (1938), poi in Calogero (1984), 284-92, la cui interpretazione è ripresa da Giannantoni (2005), 275-84, in part. 283-84, e da Fronterotta in Pradeau, Fronterotta (2005), 149-55; ma per l’interpretazione dell’inciso come allusione alla tesi socratica secondo cui nessuno compie volontariamente il male, cf. anche Gomperz (1902), 239-40; Eckert (1911), 32; Apelt (1912), 204; Pohlenz (1913), 65; Wilamowitz (1919-20), I, 136; Croiset (1920), 22; Taylor (1926), 37; Shorey (1933), 89; Hoerber (1962), 128; Sprague (1962), 76; Friedländer (19643), 131; O’ Brien (1967), 99 n. 1; Boder (1973), 92; Irwin (1977), 77, e poi (1995), 69-70; Dihle (1982), 39. 14 Cf. Kahn (1996), 117-19, il quale raggiunge la conclusione che «the Hippias minor is open ended», 119; ma si vedano già Szlezák (1985), 89, citato dallo stesso Kahn (1996), 119 n. 2, e Friedländer (19643), 127, citato da Szlezák (1985), 89 n. 11. Sull’interpretazione di Kahn (1996), che, pur muovendo da differenti presupposti teorici rispetto a Szlezák (1985), finisce poi spesso con il coincidere con le posizioni di quest’ultimo, cf. Trabattoni (1999). 15 Erler (1987), 121-44, sulla scia di Weiss (1981) e, per l’interpretazione del significato del dialogo, di Müller (1979); cf. anche Centrone, Petrucci (2012), 192-97. Alle stesse conclusioni, anche in modo apparentemente indipendente, giungono poi anche Lampert (2002) e più recentemente Naddaff (2017), secondo la quale l’Ippia minore porrebbe le basi teoriche per la “nobile menzogna”. Per critiche all’interpretazione di Erler (1987), che dà «eccessivo peso ai dialoghi successivi», cf. invece Reale (2015), 100. Ad altre conclusioni rispetto ad Erler (1987) giunge invece Weiss (2006), la quale, con una personale rilettura del paradosso socratico

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3. Ippia di Elide

Diverse sono dunque le interpretazioni e, di conseguenza, i nodi problematici su cui deve soffermarsi un’analisi del dialogo: la mendacità, la sua relazione con l’ingiustizia e la possibilità che quest’ultima sia volontaria, cioè fondata su consapevolezza e conoscenza. Un ruolo di non secondaria importanza è ricoperto, in questo contesto, dalla lettura e interpretazione dei poemi omerici, che offrono lo spunto per l’indagine socratica attraverso gli exempla dei due eroi principali, Achille e Odisseo, oltre a costituire di per sé un importante terreno di confronto tra l’educazione socratica da un lato e quella tradizionale e sofistica dall’altro.

3. Ippia di Elide Protagonista del dialogo, accanto a Socrate, è Ippia di Elide, caratteristico esempio del σοφός destinato a crollare sotto i colpi della confutazione socratica.16 La fonte principale riguardo a Ippia è Platone stesso, il quale lo menziona una prima volta nell’Apologia tra i sapienti che insegnano la virtù dietro pagamento di un compenso,17 e lo raffigura poi, oltre che nell’Ippia minore e, ammessa la sua autenticità, nell’Ippia maggiore, anche nel Protagora, dove è tra i sofisti che sono ospiti in casa di Callia e prende la parola nell’intermezzo centrale, nel tentativo di riconciliare Socrate e Protagora.18 Nell’ambito della letteratura socratica, lo si ritrova inoltre come interlocutore di Socrate nei Memorabili di Senofonte.19 Nonostante le scarse notizie, si sa che Ippia era originario appunto di Elide, nel Peloponneso occidentale, distinguendosi quindi dagli altri sofisti

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dell’involontarietà del male, ne limita la validità alla persona buona, poiché è l’unica a non desiderare mai il male: «He (i.e. the good man) is wise, but his wisdom resides in his desire to harm no one. The man who does desire to harm others is a bad man. Only the good man, the just man, never does wrong intentionally. Other men, bad men, surely do», Weiss (2006), 147. Su Ippia nel corpus platonico e negli altri scrittori socratici, cf. Nails (2002), 168-69. Per una presentazione generale di Ippia, cf. Bonazzi (2010), 160-61; Narcy (2000); Kerferd, Flashar (1998), 64-68 e 129-30 per la bibliografia; Kerferd (1981), 64-67; Guthrie (1969), 280-85; Freeman (1966), 381-91; Untersteiner (1948), 326-31. Un ampio commento alle testimonianze e frammenti a carattere storico in Wękowski (2009). Ap. 19e = 86 A 4 DK, assente in Laks, Most (2016). Prot. 337c ss. = 86 C 1 DK = 36 D 17 Laks-Most. Xen. Mem. 4.4.5-25, solo parzialmente incluso fra le testimonianze relative al sofista: Mem. 4.4.5-7 = 86 A 14 DK; Mem. 4.4.6, 4.4.7, 4.4.13 e 4.4.14 = 36 D 11 e D 18 a-c Laks-Most.

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per l’origine dorica.20 Come Gorgia e Prodico, coniugò la professione di sofista al ruolo di ambasciatore per conto della sua città natale, recandosi per questo motivo soprattutto a Sparta,21 ma forse anche in Sicilia, nel piccolo paese di Inico, se si deve prestar fede a quanto riferito nell’Ippia maggiore,22 ed evidentemente ad Atene, come implicano i dialoghi platonici. Inoltre, come riportato nell’Ippia minore, Ippia doveva costituire una presenza fissa alle Olimpiadi, che si tenevano del resto non lontano da casa sua e dove si recava regolarmente a gareggiare con le sue esibizioni.23 Nell’Ippia maggiore si insiste, non senza esagerazione ironica, sui suoi guadagni, che sarebbero stati di gran lunga superiori a quelli degli altri sofisti, incluso addirittura Protagora.24 Da un punto di vista cronologico, è possibile collocarlo nell’ambito dei sofisti di seconda generazione, quella cioè successiva a Gorgia e Protagora: quest’ultimo infatti, secondo quanto affermato sempre nell’Ippia maggiore, era già vecchio quando Ippia era ancora molto giovane.25 Incerta, infine, la data della morte: la testimonianza dell’Apologia platonica lo presuppone comunque ancora vivo all’epoca del processo a Socrate, permettendo di concludere che fosse all’incirca suo contemporaneo.26 Secondo quanto affermato dalla relativa voce della Suda, Ippia scrisse molto,27 e Platone, nell’Ippia minore, gli attribuisce sia componimenti poetici, fra cui poemi epici, tragedie e ditirambi, sia discorsi in prosa (ποιήματα καὶ ἔπη καὶ τραγῳδίας καὶ διθυράμβους καὶ καταλογάδην πολλοὺς λόγους, Hipp. min. 368c8-d1).28 Per quel che riguarda i primi, si ha in realtà notizia

20 Hipp. mai. 281a = 86 A 6 DK = 36 P 3 Laks-Most e Hipp. min. 363c = 86 A 8 DK = 36 D 8 Laks-Most. Cf. anche Sud., s. v. Ἱππίας (ι 543 Adler) = 86 A 1 DK = 36 P 1 Laks-Most; Philostr. V. Soph. 1.11.1 ss. = 86 A 2 DK. 21 Hipp. mai. 281a = 86 A 6 DK = 36 P 3 Laks-Most. 22 Hipp. mai. 282d-e = 86 A 7 DK = 36 P 4 Laks-Most. 23 Hipp. min. 363c = 86 A 8 DK = 36 D 9 Laks-Most. 24 Hipp. mai. 282d-e = 86 A 7 DK = 36 P 4 Laks-Most. 25 Cf. ancora Hipp. mai. 282d-e = 86 A 7 DK = 36 P 4 Laks-Most. 26 Cf. Nails (2002), 168-69. La notizia di Tertulliano (Tert. Ap. 46 = 86 A 15 DK = 36 P 6 Laks-Most), secondo la quale Ippia sarebbe stato ucciso nel corso di una rivolta, è probabilmente frutto di una confusione con l’omonimo figlio del tiranno ateniese Pisistrato, come notano ad es. Freeman (1966), 381, e Bonazzi (2010), 160-61, benché vi sia anche chi ha tentato di prestarvi fede, collocando la morte di Ippia nel contesto della guerra condotta dagli esuli democratici di Elide nel 343 a.C., come Untersteiner (1948), 328, il quale attribuisce al sofista una vita eccezionalmente lunga (443-343 a.C.), o, con una cronologia più plausibile, nel 385/4 a.C., come più recentemente sostenuto da Dušanič (2008). 27 ἔγραψε πολλά, 86 A 1 DK = 36 D 1 Laks-Most. 28 36 D2 Laks-Most; incluso in 86 A 12 DK.

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solamente di un’elegia composta per un gruppo statuario opera dello scultore Calone di Elide,29 mentre ai discorsi in prosa dovevano appartenere le numerose epidissi che Ippia, al pari degli altri sofisti, teneva in varie occasioni pubbliche. Tra questi trovava posto anche il discorso cui si fa riferimento nell’Ippia maggiore, noto come Discorso Troiano, verosimilmente un protrettico a cornice mitologica, che era ambientato nei momenti successivi alla presa di Troia e vedeva protagonisti Nestore e Neottolemo, con il primo intento ad impartire al secondo una serie di consigli sull’educazione dei giovani, esponendo così presumibilmente il programma paideutico di Ippia stesso.30 Sono attestate, inoltre, una serie di opere a carattere storicoantiquario, come il Catalogo dei nomi di popoli31 e il Registro dei vincitori olimpici,32 nel quale Ippia avrebbe stabilito la data della prima Olimpiade.33 L’opera più nota, sulla quale la critica ha maggiormente richiamato l’attenzione, è però senz’altro la Raccolta,34 di cui è conservato l’incipit, in cui Ippia dichiarava programmaticamente di aver trascelto le affermazioni più importanti di poeti e prosatori, greci e barbari, su tematiche affini,35 in quella che è stata riconosciuta come un’embrionale forma di dossografia filosofica, destinata ad influenzare profondamente la dossografia successiva e senz’altro ben nota anche a Platone.36 Dibattuta, infine, è l’attribuzione a

29 Paus. 5.25.4 = 86 B 1 DK = 36 D 4 Laks-Most. 30 Per il titolo Τρωϊκὸς λόγος, cf. Philostr. V. Soph. 1.11.4 = 86 A 2 DK = 36 D 5 LaksMost, mentre il contenuto è brevemente presentato in Hipp. mai. 286a8-b4 = 86 A 9 DK = 36 D 10 Laks-Most. Unico esempio conservato di protrettico mitologico è l’Eracle al bivio di Prodico, riportato da Senofonte (Xen. Mem. 2.1.21-34 = 84 B 2 DK = 34 D 21 Laks-Most). 31 Ἐθνῶν ὀνομασίαι, 86 B 2 DK = 36 D 6 Laks-Most. 32 Ὀλυμπιονικῶν ἀναγραφή, 86 B 3 DK =36 D 7 Laks-Most. 33 Sull’attendibilità della compilazione di Ippia, cf. la discussione in Wękowski (2009) ad F2 e la più ampia trattazione di Christesen (2007), 45-160, secondo il quale la ricostruzione di Ippia sarebbe accurata per quel che riguarda i nomi dei vincitori olimpici, ma incerta per il loro ordine e le datazioni precedenti alla metà del VI sec. a.C. In generale per gli interessi storico-antiquari di Ippia cf. Balaudé (2006), e le note di commento ai frammenti del già citato Wękowski (2009). 34 Συναγωγή, 86 B 4 DK = 36 D 3 Laks-Most. 35 Clem. Alex. Strom. 6.15 = 86 B 6 DK = 36 D 22 Laks-Most. 36 Per una ricostruzione dell’opera cf. Patzer (1986), il quale ipotizza una struttura per lemmi tematici in cui erano stabilite associazioni destinate a diventare canoniche nella dossografia filosofica successiva. Per la Raccolta in particolare come fonte di Platone in Crat. 402b-c e Symp. 178b-c, cf. rispettivamente Snell (1944), le cui ricerche sono poi riprese e approfondite da Mansfeld (1983) e Mansfeld (1986), e Notomi (2013). Sulla tradizione della raccolta di opinioni, con particolare attenzione prospettiva in cui vi si inserisce Isocrate nell’Encomio di Elena per differenziare la propria produzione, cf. anche Tulli (2008).

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Ippia di una scoperta geometrica, ovvero quella della linea nota come “trisettrice” o “quadratrice” ,37 concepita originariamente per il problema della trisezione dell’angolo e successivamente adoperata da Dinostrato (IV sec. a.C.) per tentare di risolvere un altro problema classico della geometria greca, ovvero quello della quadratura del cerchio. Non è sicuro, tuttavia, che l’Ippia in questione sia da identificarsi con Ippia di Elide e non si tratti di un omonimo geometra, non altrimenti noto.38 È invece originario di Taso, e deve dunque essere distinto dal sofista di Elide, l’Ippia menzionato da Aristotele a proposito della risoluzione di alcuni problemi omerici mediante una diversa accentazione delle parole.39 L’aspetto principale della figura di Ippia nei dialoghi platonici, soprattutto nell’Ippia minore, è senza dubbio la sua πολυμαθία, ovvero la versatilità e la vantata padronanza di tutto lo scibile.40 Aritmetica, geometria e astronomia sono solo alcune delle discipline attribuite nel corso del dialogo ad Ippia (Hipp. min. 366c5 ss., 367d6 ss., 367e8 ss.), il quale avrebbe praticato accanto ad esse anche le tecniche più propriamente artigianali, come si evince da un discorso che Socrate dice di aver una volta udito da lui stesso pronunciare (Hipp. min. 368b5 ss.), in cui raccontava di essersi presentato un giorno ad Olimpia sostenendo di aver realizzato personalmente tutto ciò che portava con sé, dall’anello fino alla tunica e ai calzari, passando per una cintura di foggia persiana che aveva suscitato la più grande ammirazione

37 Procl. In Eucl. p. 272, 3 = 86 B 21 DK = 36 D 36 Laks-Most, segnato in entrambi come dubium. 38 Per l’attribuzione a Ippia della quadratrix cf. anche Commento ad 367d6. 39 Aristot. Poet. 25, 1461a21 ss. = 86 B 20 DK, segnato come dubium da Diels e Kranz e assente in Laks, Most (2016). L’identificazione era sostenuta da Freeman (1966), 384, e più recentemente è presentata come dato acquisito da Narcy (2000), 756, ma ha la sua origine in un’arbitraria congettura di Osann (1843), 509-10, che proponeva di correggere Θάσιος in Ἠλεῖος nel testo della Poetica (Aristot. Poet. 1461a21). Su Ippia di Taso e la sua distinzione da Ippia di Elide, cf. invece adesso Pontani (2005), 28-29, e Brancacci (2009). 40 Per la πολυμαθία di Ippia cf. anche Xen. Mem. 4.4.6 = 86 A 14 DK, rr. 36-37 = 36 D 11 Laks-Most, dove essa è vista in una prospettiva retorica e individuata come motivazione della varietà dei discorsi del sofista, che non si ripete mai, ma trova sempre nuovi argomenti. Sull’enciclopedismo di Ippia, cf. in generale Cambiano (19912), 89-93, e Momigliano (1930), 322-23. Bonazzi (2010), 149-52, sottolinea invece il rapporto di rivalità con le tecniche che caratterizza i sofisti, con diverse soluzioni: mentre Protagora e Gorgia rivendicano la differenza e la superiorità, rispettivamente, della politica e della retorica sulle tecniche, Ippia, come forse anche Prodico, gareggia con i “tecnici” nei loro stessi ambiti, vantando una competenza pari a quella degli specialisti.

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tra i presenti.41 Le stesse discipline, ad eccezione delle abilità artigianali, sono ricordate anche nell’Ippia maggiore,42 dove si aggiunge la menzione degli interessi eruditi e antiquari, riassunti sotto la denominazione di “archeologia” (πάσης τῆς ἀρχαιολογίας, Hipp. mai. 285d8).43 Coronamento di tale sapere enciclopedico è infine la mnemotecnica, che sembra essere stata un particolare ambito di eccellenza di Ippia ed è confermata anche da altre fonti oltre a Platone, il quale non perde occasione per farla oggetto di ironiche battute da parte di Socrate.44 Da un punto di vista socratico-platonico, tale concezione del sapere presenta un evidente limite nella misura in cui Ippia mostra di concepire l’eccellenza dell’uomo nel possesso del maggior numero di competenze possibile, identificandola perciò non con una scienza a sé stante, che abbia per oggetto il bene e il male, ma con la somma delle tecniche esistenti, nessuna delle quali, tuttavia, riguarda l’agire morale dell’uomo in quanto tale. Un’esplicita critica in questa direzione è mossa per bocca di Protagora nell’omonimo dialogo, dove il sofista di Abdera rimprovera i colleghi che riconducono i giovani allo studio delle tecniche, anziché insegnar loro l’arte politica, rivolgendosi in particolare contro Ippia (οἱ μὲν ἄλλοι λωβῶνται τοὺς νέους … λογισμούς τε καὶ ἀστρονομίαν καὶ γεωμετρίαν καὶ μουσικὴν διδάσκοντες – καὶ ἅμα εἰς τὸν Ἱππίαν ἀπέβλεψεν, Prot. 318d9-e4).45 In realtà, va detto che Ippia non sembra affatto essere stato estraneo ad interessi di

41 Hipp. min. 368b-e = 86 A 12 DK = 36 D15 Laks-Most. Si può tuttavia dubitare dell’affidabilità della testimonianza, dato il tono ironico che caratterizza il passo e il fatto che si tratti non direttamente di un’esibizione di Ippia, ma di un suo racconto riportato in un secondo momento dal sofista e poi nuovamente ripetuto da Socrate, il quale lo qualifica apertamente come “vanteria” (ὡς ἐγώ ποτέ σου ἤκουον μεγαλαυχουμένου, 368b3). Cf. i dubbi avanzati da Goffi (1989) e Wękowski (2009) ad T 2. 42 Hipp. mai. 285b-286a = 86 A 11 DK = 36 D 14 Laks-Most. 43 Cf. anche Philostr. V. Soph. 1.11.1 = 86 A 2 DK, che si fonda evidentemente sui due dialoghi platonici, aggiungendo però anche pittura e scultura, non altrimenti testimoniate; sull’attendibilità dell’informazione, che non può essere verificata, cf. ancora Wękowski (2009) ad T 2. 44 Hipp. min. 369a7 ss. e Hipp. mai. 285e9 ss.; cf. anche Xen. Symp. 4.62 = 86 A 5a DK = 36 D 13 Laks-Most. Sulla memoria come necessario “collante” delle vaste conoscenze di Ippia, cf. Momigliano (1930). Sulla mnemotecnica, che come si evince da Xen. Symp. 4.62 Ippia concepiva appunto come un’arte insegnabile, cf. Blum (1969), 48-55. 45 Prot. 318d9-319a2 = 80 A 5 DK. Per il riferimento a Ippia, cf. Pohlenz (1913), 66-67. Secondo lo studioso, Platone vorrebbe mostrare, nell’Ippia minore e nel Protagora, due opposte correnti presenti nella sofistica: «Plato selber will hier zeigen, daß in der Sophistik ganz verschiedene Strömungen nebeneinander hergehen.

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ambito propriamente etico e politico, come risulta dallo stesso Protagora, in cui egli espone una teoria della fratellanza degli uomini e si mostra pienamente inserito nel dibattito contemporaneo su νόμος e φύσις, schierandosi a favore di quest’ultima contro l’arbitrarietà della legge vista come diritto positivo.46 Questo aspetto non è però presente nell’Ippia minore, dove Ippia figura essenzialmente nella veste di “polimate” e in ambito etico non gli sono attribuite opinioni che si allontanino dal senso comune, quale la difesa di chi commette ingiustizia involontariamente, in questo caso proprio in accordo con quanto stabilito dalla legge, cui il sofista si appella per difendersi dalle provocatorie tesi di Socrate (καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζόμενοι … ἢ τοῖς ἄκουσιν, Hipp. min. 371e9-372a5). La rappresentazione che Platone dà di Ippia, come generalmente riconosciuto dalla critica, non è molto favorevole, e appare ben lontana dal rispetto che è invece tributato alle figure di Protagora e di Gorgia nei dialoghi loro dedicati, per quanto non si arrivi, nell’Ippia minore, all’aperta comicità che contraddistingue invece l’Ippia maggiore.47 Nell’Ippia minore, in particolare, il suo personaggio è caratterizzato dalla vanità e da un’eccessiva sicurezza di sé, come emerge fin dalle battute iniziali in cui si mostra incapace di cogliere la smaccata ironia dell’elogio della sua sapienza da parte di Socrate (364a1-6; 364b1-3), ribattendo anzi che la sua sicurezza nell’affrontare gli agoni olimpici è del tutto naturale, dal momento che non si è mai imbattuto in nessuno più bravo di lui in nessun aspetto (ἐξ οὗ γὰρ ἦργμαι Ὀλυμπίασιν ἀγωνίζεσθαι, οὐδενὶ πώποτε κρείττονι εἰς οὐδὲν ἐμαυτοῦ ἐνέτυχον, 364a7-9).48 La rappresentazione caricaturale di Ippia non cessa

Protagoras, der Begründer der Sophistik, hat ausdrücklich die sittliche Ausbildung als Ziel anerkannt, gleichviel wie weit er es im Einzelnen verfolgt oder gar erreicht hat. Hippias dagegen beschränkt sich auf die Übermittlung von Fachwissen und -können», Pohlenz (1913), 81. Su questo passo e l’opposizione di Protagora all’educazione impartita da altri sofisti, cf. Corradi (2012), 195-96. 46 Prot. 337c ss. = 86 C 1 DK = 36 D 17 Laks-Most. Per le interpretazioni della dottrina esposta del passo, cf. Kerferd, Flashar (1998), 67-68; Bonazzi (2010), 109-10; e in generale Brancacci (2013), il quale mette in luce come la teoria della fratellanza naturale degli uomini sia da intendersi non tanto in un senso universale, bensì limitatamente alla comunità dei sapienti, sul modello di un’eteria aristocratica. 47 Cf. Freeman (1966), 389-91; Guthrie (1969), 281-82; Beversluis (2000), 95-96; sulla rappresentazione di Ippia in particolare nell’Ippia maggiore, in cui il ritratto del personaggio assume toni più apertamente caricaturali, cf. Tarrant (1928), xxviiixxx, e Woodruff (1982), 123-35. Per la caratterizzazione di Ippia nei tre dialoghi platonici in cui figura come interlocutore, con particolare attenzione all’Ippia maggiore, cf. ora Menchelli (2018). 48 Sull’ironia socratica in questi passi, cf. Commento ad 363c4-364a9.

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neppure nel corso dell’interrogazione dialettica, in cui egli dichiara enfaticamente di essere il più bravo nelle varie discipline menzionate da Socrate, anche se via via con minor convinzione perché vede profilarsi ormai inevitabile l’esito della confutazione e perciò, in una prospettiva agonistica, la propria sconfitta (πάντων μάλιστα, 366c6; καὶ ἄριστος δήπου, 366d5; ἔγωγε, 367d6; ναί, 368a1). Il culmine è poi raggiunto nel discorso centrale, in cui, come si è visto, sono elencate le competenze del sofista, che è il più sapiente di tutti nel maggior numero di arti possibile (πάντως δὲ πλείστας τέχνας πάντων σοφώτατος ... ἀνθρώπων, 368b2-3), dichiarazione che Socrate non esita a bollare come vanteria (ὡς ἐγώ ποτέ σου ἤκουον μεγαλαυχουμένου, 368b3), gettando così anche un’ombra di dubbio su quanto riportato. In generale, il tono del dialogo con Ippia appare meno formale e più familiare rispetto a quelli con altri sofisti, come mostra anche l’uso di esclamazioni colloquiali (βαβαί, 364c8) e vocativi confidenziali (ὦ ἑταῖρε, 369a1; ὦ φίλτατε Ἱππία, 370e10; ὦ βέλτιστε Ἱππία, 373b6). Questi elementi, insieme ad un uso pervasivo dell’ironia, avvicinano la conversazione con Ippia, più che alle discussioni con Gorgia e Protagora, ai dialoghi con Ione ed Eutifrone, personaggi con cui Socrate mostra un rapporto di maggiore confidenza, un aspetto che si può forse giustificare anche con la vicinanza di età tra Socrate ed Ippia, al contrario della differenza che lo separa dai sofisti più anziani.49 L’irriverenza con cui la figura di Ippia è presentata nei dialoghi non implica tuttavia che egli, con la vastità delle sue conoscenze e la mole delle sue opere, non fosse una personalità di rilievo nel panorama culturale dell’epoca e perciò, nella prospettiva platonica, un avversario da non sottovalutare. In questa luce, come sottolinea Woodruff, vanno interpretati anche i tratti caricaturali con cui Platone raffigura il personaggio, che si comprendono se intesi non come una descrizione realistica del sofista, ma come un’arma per screditarlo,50 particolarmente efficace se Ippia, come sembra, era ancora in vita e attivo all’epoca della composizione dei primi dialoghi platonici.

49 Si veda in particolare l’uso del vocativo ὦ ἑταῖρε (369a1), con nota ad loc. 50 Su questo aspetto, in relazione all’Ippia maggiore in cui ancor più accentuata è la caricatura di Ippia, cf. Woodruff (1982), 128: «There is a crucial difference between being a fool, and being made a fool ... Comedy of this type depends on the fact that the character to be ridiculed is not by himself ridiculous. Otherwise, his mere entry would suffice».

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4. L’inganno e la volontarietà del male La concezione del sapere di Ippia è di fondamentale rilevanza anche per comprendere le finalità dell’argomentazione, che è incentrata proprio sulla virtù come conoscenza e sul rapporto tra il sapere tecnico e quello morale. Al centro del dialogo sono, come si è già visto, due tesi apparentemente paradossali: la prima, l’identità della persona mendace con quella veritiera (ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθής, 367c7-8); la seconda, la superiorità dell’errore volontario su quello involontario, da cui deriva, alla fine, la conclusione secondo cui chi commette ingiustizia volontariamente, ammesso che esista una tale persona, dovrebbe essere la persona buona (ὁ ἄρα ἑκὼν ἁμαρτάνων καὶ αἰσχρὰ καὶ ἄδικα ποιῶν, ὦ Ἱππία, εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, οὐκ ἂν ἄλλος εἴη ἢ ὁ ἀγαθός, 376b4-6). Come di consueto nei dialoghi giovanili, l’argomentazione si svolge sul piano delle scienze e delle tecniche. Attraverso una serie di casi, scelti tra le numerose discipline che Ippia si vanta di padroneggiare, Socrate dimostra nella prima parte (365d-369a) che in ogni scienza o tecnica è la stessa persona, ovvero l’esperto in materia, a poter dire tanto il vero quanto il falso. Nell’aritmetica, ad esempio, solo il bravo matematico è nella condizione di dire con sicurezza, se vuole, il risultato sbagliato di un calcolo, mentre l’ignorante potrebbe paradossalmente azzeccare il numero giusto, pur volendo mentire, proprio a causa della sua ignoranza in materia (366e-367a). Di qui la conclusione che, appunto, mendace e veritiero non sono due persone diverse, a differenza di quello che credeva Ippia, ma la stessa, in quanto si identificano nella persona dell’esperto (367c2-d1). La seconda parte dell’argomentazione (373c-376c) sviluppa un diretto corollario della precedente dimostrazione,51 concentrandosi sul principio in base al quale chi dice il falso o più in generale commette uno sbaglio di proposito è superiore a chi lo fa senza volere, poiché agisce in virtù di una capacità e di una conoscenza che all’altro mancano. Il primo esempio scelto da Socrate è in questo caso quello della corsa (373c-e), in cui risulta essere miglior corridore chi corre lentamente di proposito, dato che saprebbe, all’occorrenza, anche correre velocemente (cf. ὁ βελτίων τὸ σῶμα δύναται ἀμφότερα ἐργάζεσθαι, 374a7-8) e non chi lo faccia involontariamente perché incapace di fare altrimenti. Lo stesso principio è poi verificato per altre attività fisiche (374a-b), per organi corporei e strumenti materiali (374c-e), nonché per le scienze e

51 Per lo stretto legame tra le due parti dell’argomentazione, cf. Weiss (1981), 287-88, che richiama a sua volta Sprague (1962), 65; ma cf. già Calogero (1938), poi in (1984), 290.

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tecniche, viste ora come attività dell’anima (375a-c), con la conclusione che anche in casi di questo genere solo l’esperto può sbagliare volontariamente, ed è quindi superiore chi commette uno sbaglio di proposito. Alla fine, il risultato è esteso per analogia anche al campo etico, in cui esso porta però a dei risultati inaccettabili, con l’affermazione, come si è già visto, della superiorità di chi commette ingiustizia volontariamente e la sua identificazione con la persona buona (376b4-6). L’argomentazione, spesso accusata di sofismi e ambiguità, può essere difesa, com’è stato messo in luce soprattutto da Weiss,52 qualora la si intenda ad un livello potenziale e prestazionale, sul piano cioè della capacità e della conoscenza secondo il modello rappresentato dalla tecnica. Da questo punto di vista, essa risponde anzi ad un principio più volte ribadito nell’opera platonica, quello secondo cui la conoscenza è sempre conoscenza dei contrari, come la medicina, ad esempio, è scienza non solo della salute, ma anche della malattia. Un’argomentazione molto simile, in particolare, è svolta nello Ione (531b-532d), in cui si dimostra che ciascun ambito di competenza costituisce un campo unitario, comprensivo degli opposti, ed una sola persona, cioè l’esperto in materia, è in grado di giudicare tanto chi sbaglia quanto chi si esprime correttamente in relazione ad essa.53 Nell’Ippia minore sono messe in luce le conseguenze di tale principio sul piano pratico, dove l’ambivalenza del sapere porta ad ammettere che la persona in possesso di una competenza sia teoricamente in grado di realizzare non solo il fine proprio della sua tecnica, ma anche quello contrario: per riprendere l’esempio precedente, ciò significa che il medico è in grado non solo di curare il paziente, ma, se lo volesse, anche di causarne la malattia e la morte. È chiaro che, qualora il tecnico opti per la seconda possibilità, egli non obbedisce più ai fini interni alla sua disciplina, bensì a ragioni esterne e in quella cir-

52 Cf. Weiss (1981), seguita poi, anche se con una differente interpretazione del significato generale del dialogo, da Erler (1987). Una rassegna delle posizioni della critica in Pinjuh (2014), 142-53 e 209-12, secondo il quale nessuna delle obiezioni mosse alla validità formale dell’argomentazione è di per sé decisiva. Per un’analisi più dettagliata si rimanda al Commento, Prima fase dialettica e Seconda fase dialettica, note introduttive. 53 Cf. anche Charm. 166e ss. e 169e ss.; Resp. 1.333e-334a. A questo principio farà spesso allusione anche Aristotele: cf. δύναμις μὲν γὰρ καὶ ἐπιστήμη δοκεῖ τῶν ἐναντίων ἡ αὐτὴ εἶναι, E.N. 5.1.1129a13-14, e Bonitz (1870), 279b, s.v. ἐπιστήμη, per un elenco completo dei numerosi riferimenti. Su questa concezione, cf. Cambiano (1991²), 75-77; Kube (1969), 134-35; Irwin (1977), 77, e ancora Irwin (1995), 68-70.

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costanza evidentemente ritenute superiori,54 ma ciò non toglie che la possibilità, a livello teorico, sussista per la natura stessa della conoscenza tecnica, che offre a chi la possiede una capacità ambivalente. Da questo punto di vista, è legittimo sia affermare che mendace e veritiero coincidono, poiché solo l’esperto può dire tanto il vero quanto il falso nel proprio ambito di competenza, sia sostenere la superiorità dell’errore volontario, poiché è solo l’esperto a poter sbagliare consapevolmente, e questi è, in una prospettiva intellettualistica, superiore all’ignorante. Ciò non significa, tuttavia, che l’argomentazione sia da intendersi interamente come dimostrazione positiva, i cui risultati siano in tutto e per tutto condivisi da Socrate.55 La conclusione secondo cui chi commette ingiustizia volontariamente è superiore a chi lo fa involontariamente e si identifica con la persona buona, infatti, non ottiene né l’assenso di Ippia (οὐκ ἔχω ὅπως σοι συγχωρήσω, ὦ Σώκρατες, ταῦτα, 376b7) né quello di Socrate, il quale confessa di non poter ammettere il risultato, benché esso consegua necessariamente dal ragionamento svolto (οὐδὲ γὰρ ἐγὼ ἐμοί, ὦ Ἱππία· ἀλλ’ ἀναγκαῖον οὕτω φαίνεσθαι νῦν γε ἡμῖν ἐκ τοῦ λόγου, 376b8-c1).56 Ma già in precedenza erano emersi dubbi sull’argomentazione, in particolare quando la tesi dell’identità di mendace e veritiero, sulla quale Ippia non aveva avuto nulla da obiettare finché era stata dimostrata nell’ambito delle conoscenze tecniche (366c-369a), era stata poi applicata al caso di Achille e Odisseo, dando luogo all’esito per cui anche i due eroi sarebbero dovuti essere del

54 In questo caso si può dubitare che il tecnico possa ancora essere considerato come tale, osserva Cambiano (1991²), 77. 55 Cf. Erler (1987), 143-44, secondo il quale l’inammissibilità del risultato deriva solo dal fraintendimento di Ippia. Secondo Weiss (1981), 303-4, il dialogo dimostra la superiorità dell’agente intenzionale, giudicato «solely on the basis of his skill». Sulla stessa linea di Erler (1987), ma in modo apparentemente indipendente, cf. Lampert (2002), Naddaff (2017) e Jones, Ravi (2017). 56 Sull’interpretazione di questo passo, non si può convenire con Erler (1987), 131, secondo il quale «auch Sokrates selbst ist mit dem Ergebnis nicht sehr zufrieden … Gleichwohl verwirft er es nicht», riferendosi con questo al fatto che Socrate ritiene che il risultato derivi necessariamente dal ragionamento svolto: «beruft er sich auf den Zwang des Logos». In questo modo si trascura infatti l’esplicito rifiuto che Socrate oppone al risultato, dicendo chiaramente di non poterlo concedere a se stesso (οὐδὲ γὰρ ἐγὼ ἐμοί, ὦ Ἱππία, 376b8), riprendendo la battuta con cui Ippia ha per primo espresso il suo rifiuto (οὐκ ἔχω ὅπως σοι συγχωρήσω, ὧ Σώκρατες, ταῦτα, 376b7). Le due indicazioni, ovvero il rifiuto del risultato e la necessità del ragionamento, acquistano invece entrambe senso se si presuppone che l’argomentazione sia stata svolta con cogenza logica, come sottolinea Socrate alla fine, ma a partire da una premessa errata, che l’inciso (εἴπερ τίς ἐστίν οὗτος, 376b5-6) suggerisce quale sia. Cf. anche Commento ad loc.

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tutto simili e pari tra loro (369b). Ippia, per la prima volta, aveva rifiutato le conclusioni, protestando e accusando il metodo dialettico di Socrate (369b-c).57 Le tesi sostenute nel dialogo, dunque, appaiono corrette solo finché si fa riferimento ad un sapere di tipo tecnico, ovvero un sapere ambivalente, che dà a chi lo possiede la possibilità di operare anche scorrettamente. Le stesse affermazioni diventano invece inammissibili quando si passa sul piano del sapere morale, quello che nei dialoghi socratici è identificato con la giustizia o scienza del bene e del male.58 In quest’ultimo caso, ci si dovrà chiedere se l’inganno e l’errore, nella prospettiva platonica, siano ancora frutto di capacità e conoscenza, o non derivino piuttosto dalla forma più grave di inettitudine e ignoranza, quella che riguarda il fine ultimo dell’agire umano. Il problema emerge già nel momento iniziale dell’argomentazione, dedicato al chiarimento della nozione di mendacità (365d-366a), in cui Socrate aveva posto Ippia davanti ad una serie di alternative, chiedendogli cioè se i mendaci fossero incapaci di fare alcunché, come se fossero malati, oppure capaci (ἀδυνάτους τι ποιεῖν, ὥσπερ τοὺς κάμνοντας, ἢ δυνατούς τι ποιεῖν, 365d6-7); se agissero per stoltezza e dissennatezza oppure per furbizia e per una forma di intelligenza (ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης ἢ ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος, 365e3-4); se sapessero quel che fanno (οὐκ ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν, ἢ ἐπίστανται, 365e7) e se quindi, in definitiva, fossero ignoranti oppure sapienti. Ippia aveva scelto regolarmente la seconda alternativa, specificando però al contempo la natura moralmente connotata, in senso negativo, dell’abilità e dell’intelligenza che egli attribuisce ai mendaci:59 costoro, secondo Ippia, sono abili e intelligenti solo in una cosa, nell’ingannare le persone (δυνατοὺς ... ἐξαπατᾶν ἀνθρώπους, 365d7-8; σοφοὶ μὲν αὐτά γε ταῦτα, ἐξαπατᾶν, 365e10-366a1); agiscono per intelligenza, ma soprattutto per furbizia (ὑπὸ πανουργίας

57 Nel caso dei due eroi omerici, infatti, non è in questione una competenza in un particolare ambito, ma si tratta, piuttosto, di una valutazione morale: cf. Commento ad loc. 58 Per un’interpretazione vicina a quella qui proposta cf. Carelli (2016), secondo il quale l’Ippia minore offre «a critique of a particular understanding of power», vale a dire la concezione di Ippia, incentrata solo sulla dimensione quantitativa e priva invece di «awareness of the evaluative difference between powers» (78). Cf. anche Venturelli (2014), 242-46. 59 Il punto è evidenziato anche da Weiss (1981), 292: «Hippias’ expansion of his answer beyond the simple ‘yes’ or ‘no’… makes this a very significant and revealing exchange».

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πάντων μάλιστα καὶ φρονήσεως, 365e4-5);60 sanno perfettamente quel che fanno, ed è anzi proprio per questo, aggiunge Ippia, che compiono il male (καὶ μάλα σφόδρα ἐπίστανται· διὰ ταῦτα καὶ κακουργοῦσιν, 365e8-9).61 L’ultima affermazione pone davanti alla più evidente contraddizione del principio socratico secondo cui chi compie il male agisce solo involontariamente, per ignoranza del bene. Dalle risposte di Ippia, infatti, Socrate prende le distanze con espressioni limitative (ὡς ἔοικεν, 365e1 e 365e6) e specificando che si tratta del parere del suo interlocutore (κατὰ τὸν σὸν λόγον, 365e1). La corretta tesi socratica, a ben vedere, era presente nell’alternativa proposta per prima ad Ippia e da questi sistematicamente scartata: chi inganna, compiendo con ciò un’azione malvagia, è in realtà incapace ed ignorante, agisce per stoltezza e dissennatezza e non sa realmente ciò che fa (ἀδυνάτους τι ποιεῖν, 365d6; πολύτροποι δ’εἰσὶ καὶ ἀπατεῶνες ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης, 365e2-3; οὐκ ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν, 365e7; ἀμαθεῖς εἰσιν, 365e1).62 Ippia ritiene dunque possibile compiere il male volontariamente, per effetto di un’abilità e una forma di intelligenza. Questa tesi, che riflette del resto l’opinione comune, trova supporto nella concezione del sapere del sofista, limitata alla conoscenza ambivalente delle tecniche. Per uscire dall’aporia, invece, è necessario ammettere l’esistenza di una scienza superiore, che non è passibile della stessa ambivalenza delle altre tecniche perché è orientata sempre al bene.63 Un’ulteriore indicazione in questo senso, cioè verso una differenziazione del sapere morale rispetto alle altre scienze e tec-

60 Sulla valenza del termine πανουργία (365e4), che denota una “furbizia” che non è vera sapienza, cf. Commento ad loc. 61 Come nota Weiss (1981), 300 n. 49, ricorre qui per la prima volta il verbo κακουργέω, che ritorna poi in altri due passi cruciali (373b5 e 375c5), preannunciando quindi lo sviluppo successivo del dialogo. 62 Per un’interpretazione del passo in questo senso, cf. già Eckert (1911), 39; Kube (1969), 135; Boder (1973), 88-89; Zembaty (1989), 63-64; cf. anche Friedländer (19643), 127-28, il quale ritiene tuttavia che si debba già qui distinguere tra l’inganno nel senso comune, che è effettivamente debolezza, e l’inganno in senso platonico, diretto al bene, che è invece proprio del sapiente: «das Täuschen, wie Hippias es versteht und wie die Menge es versteht, in der Tat Mangel Schwäche Krankheit ist und nur das Täuschen, wie Sokrates es übt, eine Fähigkeit». A quest’ultima dottrina non si fa però, appunto, alcun riferimento esplicito nel dialogo. Cf. anche Commento ad 365d6-366a1. 63 Il fatto che la giustizia non sia passibile della stessa ambivalenza delle altre tecniche non implica che vi sia una distinzione strutturale tra il sapere morale e quello tecnico, ma deriva semplicemente dalla posizione che essa occupa al vertice di un’ipotetica gerarchia delle scienze: in questo caso infatti, e solo in questo, il fine interno coincide con il fine ultimo dell’agire umano, che è la felicità e quindi il

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niche, è offerta nuovamente da Socrate verso la fine del dialogo, attraverso la domanda con cui egli introduce il passaggio finale dell’argomentazione, chiedendo, dopo aver esaminato una serie di capacità fisiche e attività tecniche, se le stesse conclusioni non debbano essere considerate valide anche per la nostra anima (τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν, 375c6-7). Non più, dunque, l’anima impegnata in una specifica attività, come nei casi precedenti (cf. ἀμείνων εἰς τοξικήν, 375b2; ἀμείνων ... ἐν ταύτῃ τῇ τέχνῃ, i.e. ἐν τῇ ἰατρικῇ, 375b6; ἡ κιθαριστικωτέρα καὶ αὐλητικωτέρα καὶ τἆλλα πάντα τὰ κατὰ τὰς τέχνας τε καὶ τὰς ἐπιστήμας, 375b7-c1), ma la nostra anima in quanto tale, senza ulteriori determinazioni. La scienza o tecnica che riguarda la nostra anima in quanto tale è appunto, come indica il prosieguo dell’argomentazione, la giustizia (δικαιοσύνη, 375d8).64 Proprio all’inizio dell’esame del caso della giustizia (375d-376c),65 Socrate dà poi un nuovo spunto per il superamento dell’aporia, quando dalla premessa secondo cui la giustizia è una forma di capacità o conoscenza o entrambe le cose (ἡ δικαιοσύνη οὐχὶ ἢ δύναμίς τίς ἐστιν ἢ ἐπιστήμη ἢ ἀμφότερα, 375d8-9) trae la conseguenza che l’anima più giusta è più capace e più sapiente, quella più ingiusta, invece, ignorante (ἡ δυνατωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα ἐστί, 375e2-3; ἡ σοφωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα, ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα, 375e4-5).66 La difficoltà nasce poi solo dall’applicare i risultati dell’argomentazione precedente anche al bene; a differenza che nelle altre tecniche, perciò, nel caso della scienza morale non si darà mai un caso in cui l’esperto possa scegliere di trasgredire il fine della propria tecnica in vista di un fine superiore. Per un’interpretazione in questo senso, cf. in part. Kube (1969), 132-36; Irwin (1977), 77, ripreso poi in Irwin (1995), 69-70; più recentemente, Trabattoni (2017), 72-73. Viceversa, la distinzione del sapere morale da quello tecnico come due forme di sapere distinte era sostenuta da Moreau (1939), 101-08; Gould (1955), 42-46; e in tempi più recenti nuovamente da Wolf (1996), 59-63. 64 Cf. Weiss (1981), 302: «In all the arts and sciences, the good man is the good artist or scientist, the man with skill or ability in his area of expertise. But to find simply ὁ ἀγαθός ... we need to find the skill of man qua man. This is δικαιοσύνη». Per il passaggio, che giustifica anche nella prospettiva socratico-platonica il diverso uso di ἀγαθός in modo relativo, con significato tecnico-prestazionale, e in modo assoluto, con significato morale, cf. Commento, Seconda fase dialettica, nota introduttiva. 65 Sull’ultima parte, che può essere considerata un argomento a sé stante svolto parzialmente in forma deduttiva, cf. Weiss (1981), 297; Jantzen (1989), 101-4; Pinjuh (2014), 213. 66 Il sillogismo è in realtà viziato da un’illegittima inversione dei termini: cf. Pohlenz (1913). Per il passo come indicazione per il superamento dell’aporia, cf. Friedländer (19643), 131-32; Szlezák (1985), 85-86, il quale riconosce che l’argomentazione «in Wirklichkeit aber Ansätze zu seiner Überwindung enthält». Cf. anche Wolf (1996), 63-66.

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caso della giustizia, equiparandola ad una tecnica ambivalente con la quale sia possibile sbagliare volontariamente. Alla fine del dialogo, Ippia si trova dunque di fronte ad un’implicita alternativa: o accettare il risultato, che appare però moralmente ripugnante, o rinunciare alle premesse che ad esso hanno condotto, ovvero, come suggerisce l’inciso (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, 376b5-6), l’esistenza di una persona che compia volontariamente il male. Ippia, che a differenza di altri sofisti come Callicle nel Gorgia o Trasimaco nella Repubblica non difende un modello etico apertamente immorale, rifiuta scandalizzato le conclusioni, ma la sua concezione limitata del sapere non gli permette di uscire dall’aporia.67 67 Un significativo parallelo per la discussione svolta nell’Ippia minore si può trovare in un passo di Senofonte (Xen. Mem. 4.2.19-23), il cui rapporto con il dialogo platonico, e l’eventuale dipendenza da quest’ultimo, costituisce una vexata quaestio: la posizione più diffusa, e probabilmente più ragionevole, è comunque quella secondo cui sarebbe Senofonte a dipendere da Platone, anche se è poi più difficile stabilire se è possibile anche risalire a posizioni storicamente sostenute da Socrate; su questa linea cf. Maier (1913), 54-56; Pohlenz (1913), 65; Kahn (1996), 396, nel contesto di una più ampia trattazione dell’uso dei dialoghi platonici da parte di Senofonte (393-401); Johnson (2005), 50-62; e da ultimo Pinjuh (2014), 64-66; i due testi sarebbero invece indipendenti secondo Phillips (1989); per una discussione approfondita cf. Bandini, Dorion (2011), 80-82, con ulteriore bibliografia e una puntuale analisi di analogie e differenze tra i due testi, mentre in generale per i rapporti tra Platone e Senofonte cf. ora Johnson (2018). Nel brano senofonteo, in particolare, Socrate pone una domanda speculare a quella dell’Ippia minore, ovvero se, tra coloro che ingannano gli amici con intento malvagio, sia più ingiusto chi agisce volontariamente o chi involontariamente (τῶν δὲ δὴ τοὺς φίλους ἐξαπατώντων ἐπὶ βλάβῃ ... πότερος ἀδικώτερος ἐστιν, ὁ ἑκὼν ἢ ὁ ἄκων, Xen. Mem. 4.2.19). L’analogia con le tecniche, fra le quali è preso l’esempio della scrittura citato, sebbene in altro contesto, anche nell’Ippia minore (Xen. Mem. 4.2.20; cf. Hipp. min. 366c), porta anche in quel caso in un primo momento alla paradossale conclusione che, anche nella scienza della giustizia, sia la persona che possiede tale conoscenza a poter ingannare intenzionalmente. Alla fine Socrate lascia però intravedere una soluzione dell’aporia (4.2.22): persone di tal genere, dice infatti Socrate, si definiscono «di animo servile» (ἀνδραποδώδεις), indicando con ciò la loro ignoranza in ciò che è bello, buono e giusto (τῶν τὰ καλὰ καὶ ἀγαθὰ καὶ δίκαια μὴ εἰδότων ὄνομα τοῦτ’ἐστιν, ibid.). Anche in questo caso, quindi, il paradosso che apparentemente sorge dall’analogia socratica tra la giustizia e le tecniche si risolve attraverso il riconoscimento del fatto che, in ambito etico, non si dà la possibilità di sbagliare con scienza, perché l’errore deriva solo dall’ignoranza della giustizia stessa. Si noti peraltro che in questo passo, che presenta evidenti analogie con l’Ippia minore, è preso in considerazione l’inganno volto a danneggiare gli amici (τῶν δὲ δὴ τοὺς φίλους ἐξαπατώντων ἐπὶ βλάβῃ, citato supra), così come Ippia sembra intendere l’inganno in quanto azione malvagia, e che costituisce un caso diverso da quello dell’inganno rivolto contro i nemici oppure a fin di bene nei confronti degli amici, e perciò giustificabile, esaminato da Senofonte

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5. Il confronto tra Achille e Odisseo

5. Il confronto tra Achille e Odisseo Una componente non trascurabile dell’Ippia minore è costituita dall’interpretazione di Omero, che rappresenta un’importante testimonianza sia dei metodi dell’esegesi poetica dell’epoca sia della critica di Platone nei confronti della poesia e del suo ruolo nell’educazione.68 All’inizio del dialogo, la discussione prende infatti spunto dall’epidissi che Ippia ha appena terminato a proposito di Omero e altri poeti (περὶ ποιητῶν τε ἄλλων καὶ περὶ Ὁμήρου, 363c2-3). Più precisamente, Socrate vuole sapere quale sia il giudizio del sofista sui personaggi di Achille e Odisseo, ovvero quale dei due ritenga essere migliore e sotto quale aspetto (πότερον ἀμείνω φησὶν εἶναι, 363b7-c1; cf. 364b4-5). A tal riguardo, egli si richiama a quanto ha sentito affermare da Apemanto, padre di Eudico, secondo il quale l’Iliade sarebbe superiore all’Odissea nella misura in cui Achille è migliore di Odisseo (ὅσῳ ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Οδυσσέως εἴη, 363b3-4), mostrando così di riallacciarsi ad un tema di dibattito evidentemente già vivo e presente all’epoca.69 La posizione di Ippia non si discosta di molto dall’opinione di Apemanto. Sulle prime, egli si limita ad una caratterizzazione superficiale dei personaggi, affermando che Achille è il più valoroso, Nestore il più sapiente e Odisseo il più scaltro della spedizione achea (ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα, 364c5-7).70 In seguito, spinto dalle domande di Socrate, giunge a un più preciso confronto tra Achille e Odisseo, contrapponendoli nella mi-

nei paragrafi precedenti (4.2.13-18), che sono strettamente legati, invece, alla discussione della Repubblica (Resp. 1.332a-c), a riprova della distinzione delle due questioni, che presuppongono differenti soluzioni. 68 Nella vasta bibliografia sul rapporto tra Platone e la poesia, si vedano almeno la panoramica di Ferrari (1989) e lo studio di Giuliano (2005); sull’esegesi poetica in età arcaica e classica, cf. invece l’ampia trattazione di Ford (2002) oltre che il classico Richardson (2006). 69 Secondo Rüter (1969), 253-54, la questione dibattuta nell’Ippia minore troverebbe origine già nell’Odissea, in cui i confronti tra Achille e Odisseo, collocati in luoghi chiave del poema (Od. 8.72-82, 11.477-503 e 24.15-204), avrebbero la funzione di stabilire, attraverso il riconoscimento di pari valore ai due eroi, una pari dignità anche al secondo poema, in una prospettiva non lontana dunque, come nota lo studioso, da quella di Apemanto, che assimila il valore del personaggio a quello dell’opera. Cf. anche Blundell (1992), 141, per la menzione di Apemanto che «expands the educational issue from a single sophist’s views to the role of Homer in the lives of Athenian generally». 70 Nel passo è stata riconosciuta una testimonianza del pensiero di Ippia (86 A 10 DK = 36 D 25 Laks-Most). Per gli epiteti e la caratterizzazione dei personaggi in Omero, cf. Commento ad loc.

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sura in cui il primo sarebbe schietto e sincero, il secondo invece scaltro e bugiardo (ὁ μὲν Ἀχιλλεὺς … ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς πολύτροπός τε καὶ ψευδής, 365b4-5), con un giudizio di valore a favore del primo sul secondo che verrà poi chiaramente esplicitato più avanti nel dialogo (Ἀχιλλέα … ἀμείνω Ὀδυσσέως καὶ ἀψευδῆ, τὸν δὲ δολερόν τε καὶ πολλὰ ψευδόμενον καὶ χείρω Ἀχιλλέως, 369c4-5). A suffragio di tale interpretazione, egli cita anche alcuni versi dell’Iliade che Achille rivolge a Odisseo, proclamando la propria sincerità e dichiarando, per contro, di odiare chi mente (Il. 9.308-14), visti non solo come un’indicazione del carattere di Achille, ma anche come un’indiretta accusa dell’eroe nei confronti del suo interlocutore.71 Socrate ne deduce quindi che per Ippia l’epiteto πολύτροπος, che di per sé indica l’ingegno versatile dell’eroe, equivalga a “bugiardo” (τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, ὥς γε φαίνεται, 365b8), con una connotazione negativa.72 Come noto da tempo, la posizione posta in bocca ad Ippia trova precisa corrispondenza in un frammento di Antistene dedicato all’esegesi dell’epiteto πολύτροπος e conservato dagli scolii all’Odissea (schol. Od. 1.1 l1 Pontani = Antisth. fr. 187 SSR = fr. 51 Caizzi).73 In particolare, nella prima parte del frammento, che, secondo lo schema zetematico in cui esso è tramandato da Porfirio,74 corrisponde all’aporia (rr. 5-13 Pontani), è riportata una tesi del tutto simile a quella sostenuta da Ippia nel dialogo platonico. An-

71 Per la fortuna di questi versi e la legittimità dell’interpretazione proposta nel passo, che gode di larga fortuna anche tra gli studiosi moderni, cf. Commento ad 365a1-b2. 72 Per l’interpretazione di πολύτροπος cf. Commento ad 364c6-7. Il significato negativo che Ippia attribuisce all’epiteto nasce dalla raffigurazione deteriore cui il personaggio di Odisseo era andato incontro nella letteratura postomerica, su cui si vedano in generale i contributi di Stanford (1949a), (1949b) e (1950). Sulla rappresentazione di Achille cf. invece King (1991) e, in riferimento alla tragedia, Michelakis (2012). 73 Per il testo di Antistene, si citerà d’ora in avanti dall’edizione degli scolii di Pontani (2007), alla quale si riferisce anche il numero dei righi e su cui si basa la più recente edizione di Prince (2015), 591-92; Giannantoni (1990) riproduceva invece l’edizione degli Ὁμηρικὰ ζήτηματα di Porfirio ad opera di Schrader (1890). La sezione successiva dello scolio (rr. 25 ss. Pontani), contenente un riferimento a Pitagora, è verosimilmente da considerarsi parte dello ζήτημα porfiriano estranea al frammento di Antistene: cf. Luzzatto (1996), sulla scorta già di Di Benedetto (1966), e approvata poi da Pontani (2007) ad loc.; contra, cf. comunque Brancacci (1996), 387-406, e la recente edizione di Prince (2015), che accoglie l’intero excerptum porfiriano come frammento di Antistene. 74 Discusso è se il testo antistenico presentasse già in origine una forma zetematica o al contrario dialogica, problema strettamente correlato a quello dell’opera cui il

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che nello scolio, infatti, è sostenuta un’interpretazione dispregiativa del termine πολύτροπος, che viene desunta dalla contrapposizione tra Odisseo ed altri personaggi che non ricevono tale qualifica e sono raffigurati da Omero come d’animo schietto e nobile, fra i quali in primo luogo proprio Achille, menzionato insieme al suo alter ego Aiace (οὔκουν τὸν Ἀχιλλέα καὶ τὸν Αἴαντα πολυτρόπους πεποιηκέναι, ἀλλ’ἁπλοῦς καὶ γεννάδας, rr. 6-8 Pontani), oltre che Nestore, di cui si sottolinea che non è ingannevole e inaffidabile di carattere (οὐδὲ τὸν Νέστορα τὸν σοφὸν … δόλιον καὶ παλίμβολον τὸ ἦθος, rr. 8-9 Pontani), termini, questi ultimi, che sono dunque implicitamente intesi come sinonimi di πολύτροπος. A riprova della sincerità di Achille, sono poi riportati gli stessi versi cui anche Ippia si richiama nell’Ippia minore, in parte citati e in parte parafrasati (Il. 9.312-13 alle rr. 11-13 Pontani). Diverso è poi il successivo svolgimento dei due testi: nel seguito del frammento, Antistene propone infatti una soluzione alla difficoltà sollevata nell’aporia (λύων οὖν ὁ Ἀντισθένης φησί, r. 14 Pontani), contrapponendosi all’interpretazione dispregiativa dell’epiteto da cui risulterebbe che Omero abbia voluto indicare, con esso, la malvagità di Odisseo (τί οὖν; ἆρά γε πονηρὸς ὁ Ὀδυσσεὺς ὅτι πολύτροπος ἐρρέθη; καὶ μήν, κτλ., rr. 14-15 Pontani). A tal fine, egli elabora una nuova interpretazione dell’epiteto, riconducendone il significato, mediante un’analisi semantica, alla nozione dei πολλοὺς τρόπους λόγων (r. 22 Pontani), le molteplici modalità discorsive che sono, nella filosofia antistenica, proprie del sapiente. Nell’attribuire a Odisseo la qualifica di πολύτροπος, Omero avrebbe perciò voluto indicare non la malvagità ma piuttosto la sapienza dell’eroe (διὰ τοῦτό φησι τὸν Ὀδυσσέα Ὅμηρος σοφὸν ὄντα πολύτροπον εἶναι, ὅτι δὴ τοῖς ἀνθρώποις ἠπίστατο πολλοῖς τρόποις συνεῖναι, rr. 23-25 Pontani), che esce quindi assolto dall’accusa iniziale per trasformarsi invece nel prototipo stesso del σοφός quale Antistene lo intende.75 Nell’Ippia minore, invece, Omero è lasciato da parte, poiché è impossibile interrogare il poeta assente (365c-d), e Socrate dà avvio all’interrogazione dialettica, sviluppando, come si è già visto, una

frammento è riconducibile: ad un dialogo pensano Caizzi (1966), 105; Patzer (1970), 167, il quale attribuisce il frammento al περὶ λέξεως ἢ περὶ χαρακτήρων; e Brancacci (1990), 46, seguito da Giannantoni (1990), IV, 344, e ripreso poi in Brancacci (1996), 364, con l’ipotesi che il fr. appartenesse invece al περὶ διαλέκτου. Il frammento è invece considerato un classico ζήτημα e ricondotto al περὶ Ὀδυσσείας da Luzzatto (1996), 299-305, seguita da Pontani (2007). Le linee del ragionamento sono, comunque, chiare, e ben si adattano allo svolgimento di uno ζήτημα: cf. infra, nota seguente. 75 Per la ricostruzione del ragionamento di Antistene, si rimanda a Luzzatto (1996), 305-11. Per il metodo della ἐπίσκεψις ὀνομάτων nell’esegesi omerica di Antistene, cf. Brancacci (1990), 45-55; Mársico (2014); Lapini (2015), 1024.

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confutazione diretta proprio contro la tesi di Ippia secondo cui mendace e veritiero sono due persone distinte (365d-369a). All’esegesi omerica si ritorna poi quando, al termine dell’argomentazione da cui è emersa l’identità di mendace e veritiero, Socrate ne estende il risultato al quesito iniziale su Achille e Odisseo, sostenendo che allora anche i due eroi non potrebbero più essere contrapposti così come faceva Ippia, ma, se l’uno è mendace, deve essere anche veritiero, e viceversa l’altro, in una completa parità (εἰ ψευδὴς ὁ Ὀδυσσεὺς ἦν, καὶ ἀληθὴς γίγνεται, καὶ εἰ ἀληθὴς ὁ Ἀχιλλεύς, καὶ ψευδής, καὶ οὐ διάφοροι οἱ ἄνδρες οὐδ’ἐναντίοι, ἀλλ’ὅμοιοι, 369b4-7). Ippia sfida allora Socrate a confrontarsi direttamente sul testo omerico, alla luce del quale il sofista pensa di poterlo facilmente confutare sulla base di molte prove (ἐπὶ πολλῶν τεκμηρίων, 369c3), ma è Socrate a rubargli la parola, tenendo un lungo discorso in cui tenta di dimostrare che anche Achille è bugiardo, poiché, effettivamente, dice il falso, mentre Odisseo non risulta affatto mentire. Se poi Achille, come sostiene Ippia in sua difesa, dice il falso solo involontariamente, allora Odisseo dovrebbe essere addirittura migliore di lui (ἀμείνων ἄρ’ἐστιν, ὡς ἔοικεν, ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως, 371e4-5). Difficile è stabilire il rapporto tra i due testi, e diverse sono state le ipotesi degli studiosi, spesso mosse dall’intento di rintracciare una polemica di Platone nei confronti di Antistene o viceversa.76 Poiché tuttavia le affinità tra i due testi sono limitate alla parte iniziale, tutto ciò che è legittimo desumere è che tanto Platone quanto Antistene facciano riferimento ad una tesi, che rimane anonima nello scolio ma che l’Ippia minore permette di ricondurre al nome di Ippia, e che consisteva in un’interpretazione dispregiativa dell’epiteto di Odisseo, πολύτροπος, con lo scopo di trovare già in Omero il fondamento per una valutazione negativa dell’eroe.77 A questa interpretazione Antistene, di cui è costante l’interesse per l’esegesi omerica e

76 Secondo l’ipotesi più diffusa, nell’Ippia minore sarebbe da vedere una replica polemica all’opera di Antistene: così Dümmler (1882), 31-33, poi in Dümmler (1901), 38-39; Patzer (1970), 174-76; Brancacci (1990), 51-52; Giannantoni (1990), 344-45; Kahn (1996), 121-24; (2015), 597. Non sono però mancate anche opinioni opposte, secondo cui il dialogo platonico sarebbe invece precedente: cf. Pohlenz (1913), 59; Wilamowitz (1919-20), I, 134, n. 2; cf. anche, seppur dubitativamente, Caizzi (1966), 105. Il rapporto preciso tra i due testi sarebbe impossibile da stabilire già secondo Rostagni (1922), 151. Sul frammento di Antistene in generale cf. anche Montiglio (2011), 20-24, e Prince (2015), 591-622; per una trattazione più estesa del rapporto tra i due testi cf. Venturelli (2015). 77 Per l’individuazione di una specifica tesi di Ippia, cf. soprattutto Luzzatto (1996), 291-94; ma cf. anche Giuliano (1995), 45-47; e ora anche Pontani (2005), 28-29; per la possibilità di ricondurre la tesi esposta nell’aporia al personaggio di Ippia, cf. comunque già Caizzi (1966), 105, e Brancacci (1990), 50, poi ripreso in Bran-

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5. Il confronto tra Achille e Odisseo

per la figura di Odisseo in particolare, reagisce difendendo l’eroe, e proponendo in alternativa un’interpretazione differente dell’epiteto, volta a scagionarlo dall’accusa mossa da Ippia e trasformarlo, per contro, in un modello positivo di σοφός. Anche la discussione omerica dell’Ippia minore, in apparenza, si conclude in maniera favorevole a Odisseo, con un rovesciamento della posizione iniziale di Apemanto, condivisa da Ippia (ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Οδυσσέως, 363b3-4; ἀμείνων … ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως, 371e4-5), e vi è chi ha voluto attribuire a Platone un intento analogo a quello di Antistene, ovvero la riabilitazione dell’eroe sulla base della sua intelligenza, con un’affinità che finora il pregiudizio di una polemica avrebbe impedito di individuare.78 La conclusione, come già altri hanno obiettato, è però tratta con una limitazione (ὡς ἔοικεν, 371e4),79 e non è possibile intenderla positivamente se si tiene conto che essa fa parte di un più complesso ragionamento in cui la tesi della superiorità dell’errore volontario conduce alla fine al paradossale esito della superiorità di chi compie volontariamente il male, inammissibile nella prospettiva di Socrate, che infatti, come si è visto, mette in dubbio l’esistenza di una siffatta persona (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, 376b5-6). E Odisseo è proprio, nell’interpretazione di Ippia, l’esempio della persona che compie volontariamente il male: egli è, per Ippia, bugiardo e per questo peggiore di Achille (δολερόν τε ... καὶ χείρω Ἀχιλλέως, 369c5), e non vi è alcun dubbio che egli agisca volontariamente (ἑκών τε καὶ ἐξ ἐπιβουλῆς, 370e8-9).80 Questo non significa che, per Platone, Odisseo sia effettivamente un modello negativo:81 che Odisseo incarni la persona che compie volontariamente il male è soltanto la posizione di Ippia, e quel-

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cacci (1996), 381. Per l’interpretazione dei due testi come due repliche indipendenti ad Ippia, cf. anche Venturelli (2015). Non c’è motivo per ritenere che l’interpretazione dispregiativa di πολύτροπος fosse diffusa all’epoca, come fa Montiglio (2011), 22 («The accuser … reads πολύτροπος as most of Antisthenes’ contemporaries must have done, as “of a deceptive and shifty character”»), dal momento che l’unica altra attestazione dell’interpretazione di πολύτροπος combattuta da Antistene è appunto la tesi posta in bocca ad Ippia nel dialogo platonico; cf. Hunter (2016), 96. Cf. in part. Giuliano (1995), Luzzatto (1996), Lévystone (2005). Una rivalutazione di Odisseo è vista nell’Ippia minore anche da Naddaff (2017) e Trabattoni (2017). Come nota Montiglio (2007), 38. Per obiezioni all’interpretazione dell’Ippia minore come riabilitazione di Odisseo, cf. anche Brancacci (1996), 382-386. Cf. Blundell (1992), 162: «The whole discussion was based on the assumption that Odysseus is indeed ‘such a one’», con n. 135 ad loc. Altri dialoghi mostrano un giudizio positivo di Platone nei confronti del personaggio: cf. in part. Resp. 3.390a-b, dove sono condannati alcuni versi pronunciati da Odisseo (Od. 9.8-10) in quanto indegni dell’eroe σοφώτατον (390a8); alla fine della Repubblica, poi, nel mito di Er, è Odisseo a fare la scelta più saggia (Resp.

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lo che Platone, nell’Ippia minore, vuole mettere in luce sono le assurde conseguenze derivanti del presupporre l’esistenza di una tale persona. L’affermazione della superiorità di Odisseo anticipa dunque, attraverso l’esempio dell’eroe omerico, quello che sarà poi il risultato finale del dialogo, che né Socrate né Ippia potranno accettare, e che, nella prospettiva socratica, si può risolvere solo ammettendo che chi compie il male, come Odisseo secondo Ippia, agisca in realtà involontariamente, per ignoranza del bene. D’altro canto, il confronto tra i due eroi non può neppure essere nuovamente rovesciato a favore di Achille.82 La lettura di Omero è infatti incentrata proprio sulla critica di questo personaggio, con un’attenzione che non stupisce se si tiene conto che l’eroe è il modello positivo prescelto da Ippia, in accordo con l’opinione comune richiamata all’inizio da Socrate (ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Ὀδυσσέως, 363b3-4), ed incarna tradizionalmente, in quanto ἄριστος Ἀχαιῶν, il paradigma del valore guerriero. Achille, non a caso, sarà al centro anche della censura operata nei confronti della poesia, ed in particolare di quella omerica, nel libro III della Repubblica, dove sono stigmatizzati gli eccessi emotivi caratteristici della sua figura, inadatti a far parte dell’educazione dei futuri guardiani.83 Nell’Ippia minore, la discussione verte principalmente sul libro IX dell’Iliade, nel quale si vedono Odisseo, Fenice e Aiace recarsi in ambasceria presso la tenda di Achille allo scopo di persuadere l’eroe a deporre l’ira e fare ritorno in battaglia, tentativo che, almeno nell’immediato, si conclude in modo fallimentare, con il rifiuto di Achille. Si tratta di un episodio decisivo nella struttura dell’Iliade, in quanto costituisce il momento in cui lo schema iniziale dell’ira e del ritiro dell’eroe giunge ad una complicazione che porterà all’inattesa conseguenza 10.621b-c), optando per la vita ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος (621c6), mentre nel Simposio l’eroe è implicitamente accostato a Socrate, con la citazione di Od. 4.242+271 (Symp. 220c2); cf. Giuliano (1995), 24; Lévystone (2005), 191-94; e in generale Montiglio (2007), poi in Montiglio (2011), 47-60. Come giustamente rileva Montiglio (2007), 39-41, tuttavia, tale giudizio concerne le qualità di ἐγκράτεια e καρτερία del personaggio, mentre per quel che riguarda i suoi inganni Platone sembra condannarlo, accostandolo implicitamente, nell’Apologia, agli accusatori di Socrate, il quale si paragona alle vittime di Odisseo, Aiace e Palamede (Ap. 41b; cf. 41c1, dove Odisseo è menzionato accanto a Sisifo); sul passo dell’Apologia, cf. anche Barrett (2001). Una giustificazione dei suoi inganni alla luce della “nobile menzogna”, quale ipotizzata da Giuliano (1995), 29-30, sarebbe certamente plausibile a livello teorico, ma non è mai svolta da Platone, né nell’Ippia minore né altrove. 82 Come vuole Brancacci (1996), 386. 83 Per la predominanza di citazioni relative ad Achille nella Repubblica, in part. in Resp. 3.386c-391c, cf. Tarrant (1951), 60; in generale sulla critica platonica al modello eroico incarnato dal personaggio, cf. Hobbs (2000), 199-219.

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5. Il confronto tra Achille e Odisseo

della morte di Patroclo. È in questa circostanza, inoltre, che Achille parla per la prima volta della scelta tra la vita e la gloria, rinnegando, almeno apparentemente, l’ideale eroico della morte in battaglia.84 Le problematiche cruciali sollevate dal libro IX erano senz’altro ben presenti a Platone, il quale ricorre nell’Apologia proprio all’esempio di Achille per illustrare la scelta di Socrate di andare incontro alla morte, omettendo però il fatto che la morte di Patroclo sia indirettamente causata da Achille,85 e condannerà ancora, nella Repubblica (3.386c), i versi dell’Odissea in cui l’eroe rimpiange la vita terrena (Od. 11.489-91), esatto corrispettivo di quelli pronunciati nel libro IX dell’Iliade, in cui Achille minaccia di abbandonare la guerra e fare ritorno a Ftia, optando quindi per la vita (Il. 9.356-63). A questi temi, tuttavia, non si fa alcun cenno nell’Ippia minore, in cui la lettura del testo omerico rimane al livello di un’astratta analisi della coerenza del personaggio, dominata dal filo conduttore della sincerità e della menzogna di cui si discute nella prima parte del dialogo. Da questo libro, infatti, Ippia trae all’inizio i versi che dovrebbero dimostrare la sincerità di Achille, citando l’apertura del discorso che questi rivolge ad Odisseo, dichiarando il proposito di parlare con franchezza e biasimando, al contempo, chi invece mente (Il. 9.308-14, cf. Hipp. min. 365a-b). Nel corso della successiva discussione, però, Socrate mostra attraverso puntuali citazioni come in realtà Achille finisca per dire il falso, dal momento che sulle prime dichiara di voler abbandonare la guerra (Il. 9.357-63), ma viene poi meno a tale proposito, così come era avvenuto già in precedenza, nel libro I, quando in occasione della lite con Agamennone l’eroe si era lasciato andare alla stessa minaccia (Il. 1.169-71), cui non aveva però dato alcun seguito concreto. Nello stesso libro IX, poi, egli si contraddice apertamente, dal momento che, dopo aver manifestato ad Odisseo la decisione di partire, poco oltre dirà invece ad Aiace che intende rimanere e tornare in battaglia (Il. 9.650-55). Achille sarebbe dunque un consumato imbroglione (πολύτροπος, 370a1-2; γόης καὶ ἐπίβουλος, 371a3), superiore in questo allo stesso Odisseo, il quale non dà

84 Il. 9.410-20, con le osservazioni di Griffin (1980), 73-86; sulla centralità del libro nella struttura dell’Iliade, cf. almeno Griffin (1995), 19-24. In generale sul paradigma eroico di Achille e «la relazione con la morte» come «profondo tratto distintivo dell’eroe» cf. Paduano (2008). 85 Cf. in part. Ap. 28b-d, dove Socrate si richiama esplicitamente all’esempio di Achille, oltre che Crit. 44b, dove la citazione di Il. 9.363 suggerisce un confronto tra la figura di Socrate e quella dell’eroe; sul significato del richiamo ad Achille nei due testi cf. Hobbs (2000), 178-86; di «multiple readings of the figure of Achilles» parla Hunter (2012), 39. Sulla raffigurazione eroica di Socrate alla luce del modello di Achille nel passo dell’Apologia ritorna, da ultimo, Tulli (2020), in corso di stampa.

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INTRODUZIONE

segno, nel corso dell’episodio, di rendersi conto delle menzogne dell’eroe (371a2-b1).86 L’interpretazione di Socrate trascura alcuni aspetti essenziali, come il fatto che quella di partire, in entrambi i casi, sia con ogni evidenza una minaccia dettata dall’ira. La paradossale ipotesi di una deliberata menzogna da parte dell’eroe è d’altronde presentata con evidenti coloriture ironiche, come l’osservazione che Achille mostra un nobile disprezzo del vero e ritiene Odisseo un rimbambito (πάνυ γενναίως ὀλιγωρῶν τοῦ τἀληθῆ λέγειν, 370d5-6; ἡγούμενον ἀρχαῖον εἶναι τὸν Ὀδυσσέα, 371d5), e viene alla fine abbandonata dallo stesso Socrate, il quale ammette la validità della giustificazione addotta dal suo interlocutore, secondo cui Achille dice il falso involontariamente, perché, per via della sua bontà d’animo, si è lasciato persuadere dai compagni a mutar parere (ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθείς, 371e1). Difficilmente, però, questa motivazione può essere considerata sufficiente, per Platone, a scagionare Achille e conservargli il ruolo di modello positivo che Ippia e l’opinione comune gli attribuiscono. Le contraddizioni evidenziate da Socrate, al di là dell’apparenza provocatoria dell’analisi, sono infatti reali, e la giustificazione di Ippia non toglie che Achille sia di fatto incoerente con se stesso, rivelandosi incapace di seguire un proposito stabilito. Achille, in altre parole, agisce privo della guida sicura della ragione, e il fatto che si lasci persuadere non può che costituire, da questo punto di vista, un’aggravante.87 Alla luce di un esame critico, l’eroe si rivela perciò inadeguato a costituire un modello positivo. La conclusione che sancisce la superiorità di Odisseo su Achille non può quindi, in ragione della sua paradossalità, essere ribaltata nuovamente a favore del secondo, ma la risposta al quesito iniziale, con cui si chiedeva se fosse migliore Achille oppure Odisseo, si può leggere piuttosto, ironicamente, nell’affermazione di Socrate secondo cui i due eroi sono entrambi egualmente valenti, sia sotto il profilo di sincerità e menzogna che per il resto della virtù (ἀμφοτέρω ἀρίστω εἶναι καὶ δύσκριτον ὁπότερος ἀμείνων εἴη καὶ περὶ ψεύδους καὶ ἀληθείας καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς, 370e1-3): i due eroi sono infatti pari, sì, ma nel senso che nessuno di loro

86 Sul carattere tecnico dell’esegesi omerica, che si sviluppa come uno ζήτημα, cf. Commento ad 369d1-372a5 (nota introduttiva). 87 Cf. Lévystone (2005), 203: «ce que le philosophe entend prouver, c’est justement l’instabilité du caractère du héros et le manque de fermeté de ses décisions». La contraddizione individuata da Socrate nel comportamento di Achille prefigura la discussione su quello che Aristotele definirà l’ἦθος ἀνώμαλον dell’eroe: cf. Nünlist (2009), 250 n. 42, richiamato anche da Hunter (2015), 681.

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6. Scena e data drammatica

possiede la conoscenza del bene.88 Nell’Ippia minore, Platone non si limita dunque a sottoporre alla prova dell’elenchos le tesi di Ippia, ma coglie l’occasione per sviluppare una più ampia critica nei confronti di Omero stesso, concentrandosi sulla figura dell’eroe che è tradizionalmente riconosciuto come l’ἄριστος Ἀχαιῶν, ma che non può più essere proposto come paradigma esemplare in un’etica che, come quella socratica, ponga la virtù dell’uomo nella conoscenza del bene e nella sua realizzazione. Da questo punto di vista, benché condotta in termini astrattamente intellettualistici, l’analisi dell’Ippia minore si inserisce nel solco di quella riflessione sul valore educativo della poesia che è costante nell’opera platonica, alla quale si congiunge qui la polemica nei confronti dei sofisti come Ippia, che riprendono acriticamente i modelli tradizionali senza sviluppare un’etica razionale.

6. Scena e data drammatica Non vi sono indicazioni sulla scena del dialogo, salvo che esso si svolge all’esterno di un luogo non meglio precisato dove si è appena tenuta l’epidissi di Ippia (πολλοὶ ἔνδον ἦμεν καὶ σὺ τὴν ἐπίδειξιν ἐποιοῦ, 364b5-6). Se si accetta il legame con quanto riferito nell’Ippia maggiore (286b4-7), questo sarà da identificarsi con il ginnasio di Fidostrato, evidentemente un maestro ateniese, presso il quale Ippia annuncia che terrà una conferenza due giorni dopo (εἰς τρίτην ἡμέραν, ἐν τῷ Φειδοστράτου διδασκαλείῳ, Hipp. mai. 286b5-6), organizzata proprio da quello stesso Eudico che compare all’inizio dell’Ippia minore (ἐδεήθη γάρ μου Εὔδικος ὁ Ἀπημάντου, Hipp. mai. 286b7).89 Il riferimento è tuttavia piuttosto incerto, sia per i dubbi relativi all’autenticità dell’Ippia maggiore,90 sia per la diversità di contenuto tra l’epidissi che si immagina appena conclusa nell’Ippia minore, che ha per oggetto Omero e altri poeti (περὶ Ὁμήρου, Hipp. min. 363b1; cf. περὶ ποιητῶν τε ἄλλων καὶ περὶ Ὁμήρου, 363c1-2), e il Discorso Troiano di cui Ippia parla 88 Cf. Blundell (1992), 162: «There turns out, then, to be an elusive truth in Socrates’ claim to find the two heroes indistinguishable ‘in respect of falsehood and truth and the rest of aretē’ … Socrates knows very well the characterological differences between the two Homeric heroes, but would grant neither the requisite skill to succeed at virtue». 89 Cf. Friedländer (19643), 125 n. 1, seguito poi da Nails (2002), 313. Su Fidostrato, non altrimenti noto, cf. ancora Nails (2002), 237. 90 Da questo punto di vista, il riferimento nell’Ippia maggiore potrebbe essere un tentativo dell’autore per avvalorarne l’autenticità, ricollegandosi ad un dialogo platonico, come sottolinea Heitsch (2011), 116-17, riprendendo Wilamowitz (1919-20), I, 134 n. 1: cf. infra, 7. «Autenticità e data di composizione».

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INTRODUZIONE

nell’Ippia maggiore, nel quale i personaggi del mito fungevano invece poco più che da spunto per esporre il programma paideutico del sofista, enunciato per bocca di Nestore nella forma di consigli rivolti al giovane Neottolemo (μετὰ ταῦτα δὴ λέγων ἐστὶν ὁ Νέστωρ καὶ ὑποτιθέμενος αὐτῷ πάμπολλα νόμιμα καὶ πάγκαλα, Hipp. mai. 286b2-4).91 Si tratta presumibilmente, comunque, di un luogo pubblico, come anche nel Gorgia, e non di un’abitazione privata quale la dimora di Callia che ospita il raduno di sofisti nel Protagora.92 Quanto ai personaggi, vi sono, come si è già visto, solamente tre interlocutori, ovvero Socrate, Ippia ed Eudico, che ha la mera funzione di intermediario.93 Accanto ad essi, è tuttavia da presupporsi anche la presenza di altre persone che assistono in silenzio alla conversazione, ma da cui il sofista si aspetta il plauso (cf. καὶ μᾶλλον εἴσονται οὗτοι ὁπότερος ἄμεινον λέγει, Hipp. min. 369c7-8): per quanto il grosso del pubblico che ha assistito all’epidissi di Ippia si sia disperso e siano ora presenti poche persone, come detto all’inizio (ἄλλως τε καὶ αὐτοὶ λελείμμεθα, οἳ μάλιστ’ἂν ἀντιποιησαίμεθα μετεῖναι ἡμῖν τῆς ἐν φιλοσοφίᾳ διατριβῆς, 363a3-5; cf. νυνὶ δὲ … ἐλάττους τέ ἐσμεν, 364b8-9), si deve dunque immaginare che sia rimasto un piccolo gruppetto di ascoltatori, cui Ippia fa riferimento nel passo sopra citato.94 Difficile a determinarsi anche la data drammatica, per la quale non è offerto nel testo alcun elemento, ammesso che fosse nelle intenzioni di Plato-

91 Cf. ancora le obiezioni di Pinjuh (2014), 88-89 e n. 166, che riprende Soreth (1953), 12 n.1, anche se è improprio affermare che il contenuto dell’epidissi di Ippia nell’Ippia minore fosse un confronto tra Iliade e Odissea («Die Rede … thematisierte dagegen die Fragen, welches der beiden Epen Ilias oder Odyssee schöner sei», Pinjuh (2014), 88), dal momento che questo è invece ciò che Socrate chiede a Ippia di precisare, e che questi non aveva dunque toccato nel suo discorso (363b1 ss.), come osservava del resto già Guthrie (1975), 192 n. 3: «When Soreth says that … the subject of H.’s discourse has been the question whether the Iliad or the Odyssey is the better poem, this is simply untrue». A favore dell’identificazione dei due discorsi è ora invece nuovamente Hunter (2016), 86 n. 5. 92 Cf. ancora Pinjuh (2014), 88-89, mentre secondo Jantzen (1989), 29, Ippia avrebbe tenuto la sua esibizione «in einem vornehmen athenischen Haus». Anche per Erler (2007), 142, la scena del dialogo «ist Athen, vermutlich eines der dortigen Gymnasien». Per la scena di Protagora e Gorgia, cf. rispettivamente Nails (2002), 309 e 326; quanto riportato per il Gorgia («outside a public place where Gorgias has given a display and taken questions») si può applicare, con riferimento a Ippia, anche all’Ippia minore. 93 Cf. supra, Introduzione, 1. «Tema e struttura del dialogo». 94 Cf. Commento, 363a3-5, 364b8-9 e 369c7-8 con note ad locc.

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7. Autenticità e data di composizione

ne suggerire una precisa cronologia fittizia per i dialoghi.95 Nell’Ippia maggiore, comunque, la visita di Ippia ad Atene in occasione della quale si svolge l’incontro con Socrate trova un sicuro terminus post quem nel riferimento alla precedente visita di Gorgia (Γοργίας ... δεῦρο ἀφίκετο δημοσίᾳ οἴκοθεν πρεσβεύων, Hipp. mai. 282b4-6), databile al 427 a.C., ma risalire più indietro sarebbe, d’altronde, impossibile, dal momento che Ippia è di una generazione più giovane dei primi sofisti, come Gorgia e Protagora (cf. Hipp. mai. 282d8-e2).96 Poiché, inoltre, Ippia parla della propria attività di ambasciatore per la città di Elide, alleata di Sparta (Hipp. mai. 281a3-b2), si deve presupporre un periodo di pace, e si può quindi pensare, indicativamente, agli anni della pace di Nicia, tra il 421 e il 416 a.C., una datazione plausibile, in ragione della presenza di Ippia ad Atene, anche per l’Ippia minore.97

7. Autenticità e data di composizione Salvo isolate eccezioni, l’autenticità dell’Ippia minore, della quale si era in passato talvolta dubitato, non è oggi più messa in discussione dagli studiosi.98 L’argomento portato da Tarrant, secondo cui sarebbe sospetta la presenza nel corpus di due dialoghi con lo stesso titolo, e cioè Ippia maggiore e

95 Si veda il ben noto caso del Menesseno, che è ambientato dopo la pace di Antalcida (387 a.C.), quando Socrate, protagonista del dialogo, era morto da oltre dieci anni: cf. e.g. Guthrie (1975), 313. 96 Cf. supra, Introduzione, 2. «Ippia di Elide». Ad una precedente visita di Ippia ad Atene, ammessa la verisimiglianza storica dell’incontro, si dovrebbe ricondurre invece il Protagora, la cui data drammatica è da collocarsi nel 433/32 a.C.; cf. Nails (2002), 309-310. 97 Per questa datazione, generalmente accolta, cf. Taylor (1926), 29; Guthrie (1975), 177; Woodruff (1982), 93-94; Nails (2002), 313 («Even if it is a different speech, 421-416 still holds»); Pradeau, Fronterotta (2005), 12-13; Erler (2007), 142. Per una proposta di datazione più precisa, cf. Lampert (2002), 232-36, ed in part. 233, il quale pensa all’incontro diplomatico con Elide avvenuto nella primavera del 420 a.C. di cui si parla in Thuc. 5.43-44. Il riferimento alle Olimpiadi fatto da Ippia all’inizio del dialogo, in cui il sofista dichiara di parteciparvi abitualmente (Hipp. min. 363c7 ss.), è tuttavia piuttosto generico e non costituisce necessariamente una prova dell’ambientazione in un anno olimpico quale appunto il 420 a.C., come vuole Lampert (2002), 233-34, secondo il quale i due dialoghi intitolati ad Ippia «would thus be set scant weeks before the Olympics in August and September»; cf. a riguardo anche le osservazioni di Pinjuh (2014), 40-41. 98 L’autenticità dell’Ippia minore è negata, in particolare, da Thesleff (1982), 220-21, secondo il quale sarebbe meglio comprensibile «as written by a pupil of Plato», e

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INTRODUZIONE

Ippia minore, dal momento che un caso analogo si verifica solo per Alcibiade I e Alcibiade II, dei quali almeno uno è sicuramente spurio,99 difficilmente può essere considerato probante, non potendosi per questa ragione escludere che invece nell’altro caso uno dei due dialoghi sia autentico o addirittura lo siano entrambi.100 Se poi sull’autenticità dell’Ippia maggiore permangono ancora dei dubbi, essi riguardano questioni di forma e contenuto che non coinvolgono l’Ippia minore, ed il collegamento tra i due dialoghi espressamente stabilito nell’Ippia maggiore (286b4 ss.), del quale si è già avuto modo di parlare, non implica altro che la posteriorità di quest’ultimo, costituendo quindi tutt’al più, come osserva Heitsch, un potenziale tentativo da parte dell’autore dell’Ippia maggiore di avvalorarne l’autenticità riallacciandosi ad un’opera platonica.101 Garanzia decisiva dell’autenticità dell’Ippia minore, che manca per l’Ippia maggiore, è poi considerata, a partire perlomeno da Grote, l’esplicita menzione da parte di Aristotele (ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος, Metaph. 5.25.1029a6), il quale non fa espressamente il nome di Platone, ma, come sottolineato dagli studiosi, non avrebbe citato un’opera con il semplice titolo, senza l’indicazione dell’autore, se non nel caso di un’opera del maestro, la cui paternità fosse perciò ben nota a tutti.102

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102

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sulla sua scia da Nails (2002), 313. L’atetesi del dialogo era stata sostenuta, in passato, da Schleiermacher (1805), 294, e Ast (1816), 463-64. L’Alcibiade II, composto all’epoca dello scolarcato di Arcesilao: cf. Carlini (1962), 33-63; sull’Alcibiade I, la cui autenticità è difesa da alcuni studiosi, cf. Denyer (2001), 14-26. Cf. Woodruff (1982), 95, ma già Ross (1951), 3 (1989), 26; per l’argomento in questione, cf. invece Tarrant (1928), ix: «So far the inference would be that both the Hippias dialogues are spurious». Cf. Heitsch (2011), 116-17; così già Wilamowitz (1919-20), I, 134 n. 1, mentre secondo Guthrie (1975), 191-2 n. 3, l’Ippia minore sarebbe posteriore, poiché ambientato due giorni dopo la discussione dell’Ippia maggiore, ma è l’Ippia maggiore a fare riferimento ad un’epidissi di Ippia organizzata da Eudico, cosa che fa più facilmente supporre che esistesse già un dialogo, l’Ippia minore appunto, in cui si tiene tale epidissi. Sull’autenticità dell’Ippia maggiore non vi è tra gli studiosi consenso unanime: oltre a Tarrant (1928), considerano il dialogo spurio anche Kahn (1985) e più recentemente Heitsch (2011), mentre a favore dell’autenticità è Woodruff (1982); una disamina critica degli argomenti addotti contro l’autenticità del dialogo, nessuno dei quali sarebbe probante, in Petrucci (2016). Cf. Grote (1865), 388: «Schleiermacher and Ast set this evidence aside because Aristotle does not name Plato as the author. But if the dialogue had been composed by any one less celebrated than Plato, Aristotle would have named the author»; cf. poi Taylor (1926), 35; Friedländer (19643), 134; Hoerber (1962), 121; Guthrie (1975), 191 n. 2; Weiss (1981), 287 n. 1 e 2006, 120 n. 1. Il valore della testimonianza aristotelica è invece ora messo nuovamente in dubbio da Thesleff (1982), 220 n. 683, e Ledger (1989), 158, che non arriva comunque a considerare

7. Autenticità e data di composizione

Per quel che riguarda la data di composizione, l’Ippia minore è concordemente attribuito al periodo giovanile della produzione platonica, anche se non è possibile disporre di dati sicuri né per quel che riguarda una possibile data assoluta, di cui non è rintracciabile nel testo alcun indizio, né per una cronologia relativa, dal momento che gli studi stilometrici, com’è noto, sono di scarso aiuto nel caso dei dialoghi del primo periodo, che non presentano indicatori stilistici paragonabili alle caratteristiche peculiari dello stile tardo, e tantomeno possono essere d’aiuto nel caso di dialoghi brevi, dai quali è più difficile ricavare dati significativi a fini statistici.103 La tendenza, comunque, è a collocare il dialogo agli inizi del primo periodo, tra le prime opere composte da Platone: secondo Wilamowitz, seguito poi da Friedländer e più recentemente da Heitsch, l’Ippia minore, insieme allo Ione e al Protagora, sarebbe stato scritto addirittura prima della morte di Socrate, poiché sarebbe impensabile una raffigurazione così irriverente del maestro dopo la sua condanna a morte.104 Per altri, che seguono la posizione oggi largamente maggioritaria secondo cui Platone non avrebbe composto dialoghi prima del 399 a.C., l’Ippia minore sarebbe comunque da collocarsi negli anni immediatamente successivi a tale data e quindi intorno

spurio il dialogo. Il nome di Platone figura nei commentatori aristotelici della Metafisica, come nota Pinjuh (2014), 35, ma questo non è determinante, poiché essi scrivono quando la formazione del corpus platonico era già avvenuta ed includeva quindi l’Ippia minore, al pari di altri dialoghi che invece sono oggi considerati sicuramente spuri. Si deve notare che il riferimento di Aristotele, il quale menziona il dialogo come semplicemente ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος, senza ulteriori determinazioni, non implica che ci fosse un solo dialogo intitolato ad Ippia e che quindi l’Ippia maggiore sia spurio, dal momento che il riferimento al contenuto dell’argomentazione (ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος ὡς ὁ αὐτὸς ψευδὴς καὶ ἀληθής, Met. 5.29.1025a6-7) rende chiaro a quale dei due dialoghi Aristotele si riferisca: cf. Ross (1951), 3; Woodruff (1982), 95-96; e ora anche Petrucci (2016), 108 n.1; per la distinzione dei due dialoghi come ἐλάττων e μείζων, cf. anche Commento, Titolo. 103 Per i limiti del metodo stilometrico in relazione ai dialoghi giovanili, per i quali è possibile stabilire l’appartenenza al primo gruppo ma non una più precisa cronologia all’interno di esso, cf. Brandwood (1990), 251-52. In generale sulla cronologia dei dialoghi platonici, oltre al già citato Brandwood (1990), che ricapitola i risultati degli studi stilometrici precedenti, si veda l’analisi computazionale di Ledger (1989), che non sembra comunque pervenire a risultati più sicuri, e la proposta di Thesleff (1982) basata su considerazioni letterarie quali la divisione tra dialoghi narrati e dialoghi diretti. 104 Cf. Wilamowitz (1919-20), I, 131-32, ma già Ritter (1910), 56; Friedländer (19643), 134; e più recentemente Heitsch (2003); cf. anche Heitsch (2002), 181-89, e (2017), 27-35.

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INTRODUZIONE

alla metà del primo decennio del IV sec. a. C.105 Anche in questo caso, la ragione di una collocazione così alta nella produzione platonica è da ricercarsi in una valutazione riduttiva del dialogo, considerato il prodotto di un autore ancora non del tutto maturo: significativo da questo punto di vista è quanto scrive Kahn, il quale, a proposito sia dell’Ippia minore che dello Ione, afferma che «these two dialogues are, with the Crito, the shortest of all Plato’s works, and they are likely also to be the earliest ... It seems natural to think of these brief pieces as the apprentice exercises of a master craftsman».106 In generale, si può applicare anche all’Ippia minore quanto osservato da Guthrie a proposito dello Ione, ovvero che «it bears all the marks of an early Socratic dialogue»,107 senza che tuttavia si possa poi stabilire la priorità dell’Ippia minore rispetto ad altri dialoghi attribuibili al primo periodo.

105 Cf. Guthrie (1975), 191 («It is almost universally thought to be either the earliest, or among the earliest, of Plato’s dialogues»); Kahn (1996), 101. Cf. anche Ledger (1989), 218, che pone come data ± 395. 106 Kahn (1996), 101. Ione e Ippia minore sono di fatto gli unici due dialoghi, con Apologia e Critone, che lo studioso, nella sua revisione della cronologia tradizionale, è disposto a collocare prima del Gorgia: cf. Kahn (1981), 308. 107 Guthrie (1975), 199; cf. poi anche Murray (1996), 96. Sulla datazione giovanile dello Ione, collocato invece in una fase più tarda da Rijksbaron (2007), 1-8, cf. Venturelli (2016) e ora Ferroni, Macé (2018), xviii-xxiii.

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NOTA CRITICA

Secondo l’ordinamento canonico dei dialoghi platonici, l’Ippia minore appartiene alla tetralogia VII, in cui segue l’Ippia maggiore e precede, invece, Ione e Menesseno. Il testo del dialogo è tramandato direttamente da circa una trentina di manoscritti di età medievale e umanistica, di cui 28 contenenti il testo per intero, mentre, ad oggi, non sono noti papiri.108 A partire dall’edizione di Burnet, il numero dei testimoni primari è fissato a tre: il Venetus Marcianus gr. IV 1 (T), il Vindobonensis Suppl. gr. 7 (W) e il Vindobonensis Suppl. gr. 39 (F), i quali formano, per l’Ippia minore così come per gli altri dialoghi della stessa tetralogia, due famiglie distinte, in cui la coppia TW si oppone a F, portatore di un ramo di tradizione differente da quello del resto dei manoscritti medievali a noi pervenuti. La possibilità di individuare un quarto testimone indipendente nel Venetus Marcianus gr. 189 (S), che andrebbe ad affiancare F come rappresentante della seconda famiglia, sostenuta dall’ultimo editore Vancamp, è invece da considerarsi piuttosto incerta, ragion per cui non si è fatto uso di tale manoscritto ai fini della presente edizione, se non per la menzione occasionale di lezioni e correzioni degne di nota. Nelle pagine che seguono si presenteranno i dati principali relativi ai manoscritti ora nominati, con particolare attenzione al riesame della posizione di S, e si forniranno inoltre alcune indicazioni su quegli apografi da cui è possibile trarre un contributo, in termini di emendazioni congetturali, per la constitutio textus del dialogo. Dei manoscritti

108 Per una ricognizione sistematica della tradizione manoscritta del dialogo si rimanda all’edizione di Vancamp (1996a) e ai contributi che ne hanno accompagnato la pubblicazione Vancamp (1994), (1996b) e (2001). Per un elenco dei codici contenenti il dialogo cf. Brumbaugh, Wells (1968), 90-91, i quali contano un totale di 30 mss. di cui due di excerpta, e Wilson (1961), 394, il quale menziona invece solamente i 28 codici che contengono il testo per intero; Vancamp (1996a), 48, aggiunge al computo altri tre codici di excerpta contenenti alcuni brevi estratti del dialogo, ovvero il Neapolitanus gr. II C. 32, il Londinensis Royal 16 C. XXV e il Matritensis gr. 5473, oltre che l’Escorialensis gr. X.I.13, di cui dà notizia successivamente Vancamp (2001), 34. Da menzionare è anche il Vaticanus Palatinus gr. 173 (P), che contiene un brevissimo excerptum dell’Ippia minore insieme ad alcuni scoli (f. 149r-v); cf. Cufalo (2007), cxxviii. Si veda anche la lista presente sul sito http://pinakes.irht.cnrs.fr.

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NOTA CRITICA

principali e, laddove necessario, di alcuni apografi, è stata effettuata una nuova collazione su riproduzioni fotografiche o microfilm.109

1. La prima famiglia: T e W (P) In mancanza dei due più importanti codici platonici del secolo IX, ovvero il Bodleianus Clark. 39 (B), che contiene le tetralogie I-VI, e il Parisinus gr. 1807 (A), che contiene invece le tetralogie VIII-IX, ai quali si deve aggiungere per la tetralogia IX anche il Vaticanus gr. 1 (O), il testimone più antico per i dialoghi della tetralogia VII è il Venetus Marcianus gr. IV 1 (T), la cui importanza per la constitutio textus delle prime sette tetralogie fu messa in evidenza per la prima volta da Schanz.110 Nel suo nucleo originario (ff. 5-212; Hipp. min. ai ff. 189v-192r), il codice contiene le tetralogie I-VII e parte della tetralogia VIII fino a Resp. 3.389d7, cui successivamente sono stati aggiunti nel XV secolo i libri mancanti della Repubblica (ff. 213-255) e il Timeo (ff. 256-265).111 La parte più antica di T, cui appartiene anche l’Ippia minore, risale alla metà del secolo X, come ha dimostrato l’identificazione della scrittura con quella del monaco Efrem, lo stesso copista del Venetus Marcianus gr. 201, la cui sottoscrizione reca la data dell’anno 954.112 La notazione τέλους τοῦ α’ βιβλίου al termine del Menesseno indica la discendenza di T dal primo tomo di un’edizione completa di Platone in due volumi, il cui secondo tomo è comunemente identificato con A, con cui il testo di T è parzialmente sovrapponibile nella parte super-

109 Per i manoscritti conservati alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, ovvero il Ven. Marc. IV 1 e i Veneti gr. 189, 184 e 186, ho potuto usufruire delle fotografie acquisite dall’Università di Amburgo nell’ambito del Sonderforschungsbereich 950 «Manuskriptkulturen in Asia, Afrika und Europa» che mi sono state gentilmente messe a disposizione dal prof. Christian Brockmann, mentre ringrazio la Österreichische Nationalbibliothek per avermi fornito le riproduzioni del Vindob. Suppl. gr. 39. Il Vindob. Suppl. gr. 7 si trova invece già digitalizzato al link http://data.onb.ac.at/rec/AC14451800. Ulteriori indicazioni sulle riproduzioni degli apografi consultati verranno fornite nel paragrafo dedicato. 110 Cf. Schanz (1877). 111 Cf. Mioni (1972), 199. Anche i ff. 1-4 sono un’aggiunta successiva, per mano di Giovanni Roso. 112 Per l’identificazione dello scriba con Efrem, cf. Fonkič (1979), 158; Diller (1980), 323; Boter (1986), 102-03. La nuova datazione è concordemente accolta dagli studiosi: cf. Brockmann (1992), 150; Duke, Hicken, Nicoll, Robinson, Strachan (1995), vii; Martinelli Tempesta (1997), 29 e (2003), 16; Joyal (1998), 8, e poi Joyal (2000), 160; Rijksbaron (2007), 28; Cufalo (2007), cxxvi; oltre che Vancamp (1996a), 14.

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1. La prima famiglia: T e W (P)

stite del secondo tomo, comprendente il Clitofonte e i primi libri della Repubblica, anche se rimane oggetto di discussione se si tratti di una copia diretta o se si debba presupporre un passaggio intermedio.113 Su T sono presenti diverse correzioni:114 alcune sono effettuate dal copista stesso o da mano coeva, verosimilmente identificabile con il διορθωτής (365a4 suppl. γὰρ; 370e6 ψευδόμενος] ψ in ras.; 376c4 πλανήσεσθε] π et ε in ras.; 376c5 ὑμᾶς] ὑ in ras.); altre sono dovute invece a mani posteriori, che si indicheranno qui collettivamente come t, tra cui la correzione χρῇ in 369a7, che restituisce l’accentazione esatta del verbo, laddove tutti gli altri testimoni sono in errore. Nei margini sono inoltre presenti gli scholia vetera, alcuni dei quali (ἔμβραχυ, 365d5; ἀνέδην, 368a8; λιπαρής, 372b1), come avviene anche per altri dialoghi, sono conservati dal solo T, che offre pertanto l’apparato esegetico più completo.115 Secondo per antichità e vicino a T, ma da esso indipendente come dimostrato già da Král,116 è il Vindobonensis suppl. gr. 7 (W), che contiene le tetralogie I-III seguite dai dialoghi delle tetralogie IV-VII in ordine inusuale e con l’omissione dell’Alcibiade II (Charm., Prot., Gorg., Men., Hipp. mai., Hipp. min., Ion, Euthyd., Lys., Lach., Theag., Amat., Hipparch., Menex.; Hipp. min. ai ff. 438v-445r); una mano successiva ha poi aggiunto anche Clitofonte, Repubblica e Timeo (ff. 515-631).117 La datazione della parte più antica (ff. 1-514), sulla quale vi è stata a lungo incertezza, con proposte oscillanti

113 Per l’identificazione di T come primo tomo della stessa tradizione di A, cf. già Schanz (1877), 78; cf. poi per es. Alline (1915), 214; Bickel (1944), 138; Dodds (1959), 37-38; Bluck (1961), 129-30; Carlini (1972), 160; Diller (1980), 324; Murphy (1990), 318; Martinelli Tempesta (1997), 28; Irigoin (1998), 9. Secondo Boter (1986), 104-11, non è tuttavia possibile considerare T come copia diretta del primo tomo perduto complementare ad A in ragione del numero maggiore di scolii presenti in T rispetto ad A, ed è quindi necessario presupporre almeno un passaggio intermedio; sulla questione cf. anche Brockmann (2014), 26-28, con ulteriore bibliografia, e infra, n. 8. 114 Per la distinzione delle mani correttrici, cf. Vancamp (1996a), 15. 115 La presenza di un numero maggiore di scolii in T rispetto a B e W è evidenziata già da Carlini (1972), 159. Sulla questione cf. le diverse posizioni di Diller (1980), 324, secondo cui gli scolii propri di T sono «substitutions or additions by Ephraim suo Marte», e Boter (1986), 110-11, secondo il quale invece, come si è già detto (cf. supra, n.104) T non è copia diretta di A, ma presuppone un passaggio intermedio che sarebbe stato corretto per collazione di un altro testimone, da cui deriverebbero a T sia alcune varianti che gli scolii aggiuntivi. Per un elenco degli scolii presenti nel solo T, cf. ora Cufalo (2007), cxvii-cxx e in part. cxviii per l’Ippia minore. 116 Cf. Král (1892). 117 Cf. Hunger, Hannick (1994), 12-16.

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NOTA CRITICA

tra X e XII secolo, è stata collocata da Perria nel terzo quarto del secolo XI.118 L’origine di W è più incerta rispetto a quella di T, non potendosi ricondurre con sicurezza ad un’edizione dell’opera di Platone in due volumi.119 La disposizione stessa dei dialoghi, che non segue l’ordine tetralogico consueto, denota una tradizione peculiare, la cui natura dotta è evidente anche dai segni di attività diortotica e recensoria recati dal manoscritto. W appare caratterizzato in particolare dalla presenza, oltre che degli scholia vetera comuni a T (στλεγγίδα καὶ λήκυθον, 368c2; λιπαρῆ, 369d8; ἀρχαῖον, 371d5; κατηβολή, 372e1; ἦν 373b7), di doppie lezioni riportate supra lineam o in margine ad opera del copista stesso o di mani successive, che in parte si trovavano forse già nell’antigrafo di W, in parte sono dovute verosimilmente alla collazione di un altro esemplare.120 Nell’Ippia minore, sono in questo modo introdotte di prima mano due lezioni non altrimenti attestate (367a7 ἂν] δὴ Wsl; 367b6 ὢν] εἶναι Wsl) e una lezione propria della seconda famiglia (371e1 εὐηθείας] εὐνοίας F, γρ. Wmg), mentre una mano posteriore registra in due casi la variante δαί pro δέ caratteristica di T nell’espressione τί δέ al f. 444r (374b5 e 375d2); la collazione di un esemplare di Omero è invece senz’altro presupposta dalla menzione della variante σμῦξαι per φλέξαι in 371c3 (κατά τε φλέξαι] σμυ- Wsl).121 Alla prima famiglia, infine, appartiene anche un terzo testimone indipendente, ovvero il Vaticanus Palatinus gr. 173 (P), databile alla metà del sec. X, che contiene per intero alcuni dialoghi (Ap., Phaed., Alc. I, Gorg., Men., Hipp. mai.; ff. 1r-108v), seguiti da un’alternanza di scolii, parafrasi ed

118 Cf. Perria (1983/4), 96-99, con ulteriori indicazioni sulle proposte precedenti. La datazione è stata generalmente accolta dagli studiosi successivi: cf. Brockmann (1992), 237; Hunger, Hannick (1994), 14; Martinelli Tempesta (1997), 127 n. 19, e (2003), 16; Joyal (1998), 35, poi ripreso in Joyal (2000), 161; Rijksbaron (2007), 29; Cufalo (2007), cxxix; oltre che Vancamp (1996a), 11. La datazione alla fine del sec. XI era d’altronde già proposta, su basi paleografiche, da Guglielmo Cavallo apud Carlini (1972), 171 n. 8. Lo stesso Carlini (1972), 171-72, propone inoltre, seppur con cautela, una vicinanza della tradizione di W all’ambiente di Michele Psello. 119 L’ipotesi è sostenuta ora da Martinelli Tempesta (2003), 32, secondo il quale W è riconducibile a una terza edizione di Platone in due tomi, oltre a quelle di B e di A, sebbene il secondo tomo non sia al momento identificabile. 120 Cf. Carlini (1972), 170: «Alcune varianti, per gran parte quelle attribuibili allo scriba stesso, potevano già trovarsi nel margine del modello … ma altre saranno dovute anche a collazione di esemplari diversi». Sulle doppie lezioni presenti in W, cf. anche Martinelli Tempesta (2003), 27-29. 121 Per la distinzione delle mani operanti in W sul testo dell’Ippia minore, cf. Vancamp (1996a), 11.

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1. La prima famiglia: T e W (P)

excerpta di altri dialoghi, suddivisibili in excerpta longa (ff. 109r-146v) ed excerpta brevia (ff. 147r-162r).122 Di quest’ultimo gruppo fa parte il materiale relativo all’Ippia minore (f. 149r-v), del quale sono presenti quattro dei cinque scolii comuni a TW (schol. ad 368c2, 369d8, 371d5 e 372e1), in forma ridotta, ed un brevissimo excerptum del dialogo (372c2-c5 + 372c7-8, preceduto da una parafrasi di 372c1-2), che non presenta varianti significative.123 Per i dialoghi contenuti per intero, è dimostrato che P appartiene allo stesso ramo di W, pur essendo i due codici reciprocamente indipendenti.124 Per l’Ippia minore, l’excerptum è troppo breve perché se ne possano ricavare indizi sicuri, ma la collocazione nel ramo di W è comunque verosimile sia per la presenza degli scolii comuni a W sia in ragione dell’appartenenza dell’excerptum dell’Ippia minore ad una sequenza di dialoghi che riproduce l’ordine caratteristico di questo manoscritto (Charm., Prot., Hipp. min., Ion, Euthyd., Lys., Lach., Amat., Hipparch., Menex.).125 Il rapporto tra T e W (P) non è di semplice soluzione, in particolare per quel che riguarda l’esistenza di un subarchetipo comune.126 Nell’Ippia minore, come in tutta la tetralogia VII, la loro tradizione appare comunque

122 Per il contenuto del codice, cf. Cufalo (2007), cxxviii. La datazione, un tempo assegnata al sec. X-XI, è ora generalmente collocata nella metà del sec. X: cf. ancora Cufalo (2007), cxxviii; Martinelli Tempesta (2003), 18; e Menchelli (1991), 93 n. 2, cui si rimanda in generale per una più dettagliata analisi del manoscritto. Le riproduzioni sono disponibili su www.mss.vatlib.it. 123 L’unica varia lectio (372c3 οὐ γὰρ αἰσχύνομαι TWF : οὐκ αἰσχύνομαι Pexc) non può essere considerata un’effettiva variante, ma è da attribuirsi piuttosto ad un’intenzionale finalità riassuntiva. 124 Cf. Carlini (1972), 173-75, e (1964), 10-12; Dodds (1959), 40-41; Bluck (1961), 133-35; Duke, Hicken, Nicoll, Robinson, Strachan (1995), viii. Più difficile un giudizio per i dialoghi presenti solo in excerpta: per il Simposio, ad esempio, Brockmann (1992), 153-55, ipotizzava piuttosto una vicinanza con il ramo di T; per il breve excerptum del Liside, invece, Martinelli Tempesta (2003), 18-19, conferma l’appartenenza al ramo di W. Un modello diverso da W, naturalmente, è da presupporre per gli excerpta da dialoghi non contenuti in W. Vancamp (1996a), 10-12, sostiene la reciproca indipendenza di W e P per l’Ippia maggiore, concludendo che entrambi rimontino «auf eine gemeinsame Vorlage», mentre non fornisce alcuna indicazione per quel che riguarda la possibile collocazione dell’Ippia minore, per il quale nota solo che «der Hippias minor fehlt». 125 Cf. le osservazioni a proposito del Liside in Martinelli Tempesta (2003), 18. Rispetto a W, da questa sequenza mancano, ovviamente, i dialoghi contenuti per intero nella prima parte del codice. 126 Per l’ipotesi di un subarchetipo comune per TW cf. in part. Boter (1987), secondo il quale esso sarebbe da identificare anche per W con il primo tomo perduto di A, e Brockmann (1992), 249-52, il quale avanza, seppur con cautela, la stessa ipotesi. A due traslitterazioni differenti pensavano invece, nonostante la stretta

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NOTA CRITICA

saldamente legata, come mostrano i numerosi accordi contro F. Nella maggior parte dei casi si tratta di convergenze in lezione buona, il che non permette di trarre conclusioni sui rapporti tra i due manoscritti, ma qualifica comunque la loro tradizione come generalmente più accurata e affidabile rispetto a quella di F: cf. per es. 365c3 ἕτερος TW : ἑκάτερος F; 365e3-4 ὑπὸ πανουργίας φρονήσεώς τινος TW : om. F; 370a1 ψευσάμενος TW : ψευδόμενος F; 371d2 ἀλαζόνας TW : ἄλλους F; 371e1 εὐηθείας TW : εὐνοίας F; 376b7 ὅπως TW : πῶς F. Errori congiuntivi sono invece almeno i casi di 363b4 τῶν ποιημάτων ΤW : τούτων F, dove la lezione di TW è senz’altro una glossa entrata a testo, e le due lacune di 364e7-8 καὶ ἀληθέστατος F : om. TW e 365e7 ὅτι ποιοῦσιν ἢ ἐπίστανται F : om. TW; sicuramente erronee, infine, sono anche le lezioni di 375a2 ἀμείνων TW : ἄμεινον F e 375a8 ἀμείνονος TW : ἄμεινον F.127 Nonostante la stretta affinità, l’indipendenza reciproca di TW, come si è già detto, è stata da tempo dimostrata. Anche nell’Ippia minore si possono citare un certo numero di errori separativi: errori singolari di W si registrano per es. in 363a3 καὶ TF : om. W; 364e5 οὐ TF: ὁ W; 366a4 γὰρ οὖν TF : γοὖν W; 370d6 σε TF : om. W; 373a6 παρακαλοίην TF : παρακαλοίμην W; 373b6 οὔτι TF : ὅτι W; 375c4 ἑκουσίως TF : ἑκουσίους W. Più raramente, W conserva invece la lezione esatta contro un errore di T: 363b3 ὅσῳ W : ὅσον TF; 371b3 ἢ ὡς WF : πως T; 372c1 τί WF : om. T. Tra questi casi si può individuare almeno un errore riconducibile ad un fraintendimento da maiuscola, che potrebbe avvalorare l’ipotesi di due differenti traslitterazioni, ovvero il caso di 371b3, dove all’origine della lezione di T è una caratteristica confusione delle lettere H/Π (ἢ ὡς WF : πως T).128

convergenza di TW, sia Dodds (1959), 40-41, che Bluck (1961), 131, così come in un secondo momento Carlini (1972), 137, rivedendo la posizione precedentemente espressa in Carlini (1964), 9-11; sulla stessa linea ora anche Martinelli Tempesta (1997), 213-16 e 264-66, ripreso poi in Martinelli Tempesta (2003), 29-34, che sottolinea come la presenza di errori comuni da maiuscola non possa provare che TW dipendano da una stessa traslitterazione, potendosi essere originati in una fase anteriore della tradizione, mentre la presenza, evidenziata in alcuni dialoghi, di errori da maiuscola peculiari a ciascun ramo induce piuttosto a postulare l’esistenza di traslitterazioni differenti. Secondo Vancamp (1996b), 34, è verosimile pensare ad un subarchetipo da collocare in una fase antecedente la traslitterazione. 127 Cf. Vancamp (1996b), 34. Per altri casi in cui la lezione di F appare superiore a quella di TW, si rimanda alla trattazione relativa al manoscritto in questione, per cui cf. subito infra. 128 Per gli errori separativi di TW, cf. ancora Vancamp (1996b), 33-34, e (1996a), 15, dove è citata come errore da maiuscola, a sostegno dell’ipotesi di due traslitterazioni differenti, anche la variante δὴ pro ἂν introdotta da W in 367a7, ma le dop-

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2. La seconda famiglia: F

2. La seconda famiglia: F Testimone principale della seconda famiglia è il Vindobonensis Suppl. gr. 39 (F), il quale, nella parte superstite, contiene Gorgia, Menone, le tetralogie VII-VIII complete e il Minosse, con i dialoghi disposti secondo l’ordine tetralogico eccezion fatta per la permutazione di Ione e Menesseno nella tetralogia VII (Hipp. min. ai ff. 59v-65r).129 Per il testo dell’Ippia minore, la prima collazione diretta di questo codice è quella effettuata da Vancamp, dal momento che, com’è noto, Burnet non visionò di persona il manoscritto, ma si basò sulla collazione eseguita da Král, con esito non del tutto affidabile. La nuova collazione svolta ai fini della presente edizione su riproduzioni fotografiche ha reso possibili ulteriori aggiunte e precisazioni anche rispetto ai dati di Vancamp.130

pie lezioni caratteristiche di W, anche se come in questo caso probabilmente già presenti nel suo modello, potrebbero comunque derivare per collazione da un ramo tradizionale differente. 129 Cf. Hunger, Hannick (1994), 74-77. Per ulteriori descrizioni del codice cf. Dodds (1959), 41-47; Bluck (1961), 135-40; Boter (1989), 62-63 e 99-110; Tsitsiridis (1998), 96-100. 130 L’inaffidabilità della collazione di Král e Burnet fu segnalata per la prima volta da Dodds (1959), 42, il quale, accingendosi alla collazione del Gorgia, si rese conto che essa era spesso inesatta in quanto Burnet fu probabilmente vittima di un fraintendimento per cui, ogniqualvolta Král non aveva segnalato la lezione di F, egli intese che questo si accordasse con l’edizione di riferimento di Schanz, laddove F si accordava invece con i manoscritti della prima famiglia. Lo stesso risultato fu confermato dagli studi successivi di Bluck (1961), 135; Slings (1981), 281-82; Boter (1989), 62-64 e 99-110; Tsitsiridis (1998), 94-95 n. 181; Jonkers (2017), 28-29. Per le rettifiche relative all’Ippia minore, cf. in part. Vancamp (1994), 40-41. Di seguito, invece, le ulteriori precisazioni rispetto a Vancamp (1994) e (1996a), emerse da una nuova collazione del manoscritto su riproduzioni fotografiche: 363a6 ἂν πειθοίμην re vera F : -οι- fsl; 367b5 γένοιτο F in ras.; 369b7 ὅμοι re vera F : -οι add. fsl; 369e1 πυνθάνοντα re vera F : -μενον fsl; 370a3 πρὸ εἷπον re vera F : acc. et -ω- fsl; 371d4 ἀποπλεύσησθαι re vera F : -ει- fsl; 371e4 ὁ Ὀδυσσέως re vera F : ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως fil; 372d4 εἴη re vera F : εἰμι fil; 372e7 τῶν ψυχῶν re vera F : -ὴ- -ὴ- fil; 373d3 οἱ δὲ re vera F; 374c7 χολαίνοντας re vera F : -ω- fil; 374d4 βούλοι re vera F : -ο add. fsl; 375a4 ἀμείνωνι re vera F : -ο- fsl; 375a6 ἀμείνω re vera F : -ν add. fsl. Particolarmente corrotto appare poi il testo delle citazioni omeriche (365a1-b1 = Il. 308-10 + 312-14; 370a4-5 = Il. 312-13; 370b4-c3 = Il. 9.357-363; 370c7-d1 = Il.1.169-71; 371b8-c5 = Il. 9.650-55), per le quali Vancamp (1996a) si limita con ragione a riportare nell’apparato solo le effettive varianti; qualche dettaglio in più rispetto all’edizione si può trovare in Vancamp (1994), 37-38. Si possono comunque apportare, per completezza, le seguenti precisazioni: 365a3 τετελέσθαι ὀΐη F : -ω fil; 370a5 ὃς ἐχέτερον F : ὅς χ’ἕτερον fil; 370b4 θεοῖς F : -ι fil; 370b5 εὐνῆ ἤσας F : εὖ νῆας fil; 370b5 ἅμα δὴ F : ἅλαδε fil;

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NOTA CRITICA

Il codice è databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo,131 ma rimonta direttamente o quasi ad un esemplare tardoantico, come messo in luce da Burnet, il quale notò i numerosi errori da maiuscola presenti nel manoscritto e il frequente accordo con la tradizione indiretta, in particolare Eusebio e Stobeo.132 La tesi iniziale di Burnet, secondo cui F sarebbe stato il rappresentante di una sorta di vulgata del testo platonico, fu in seguito implicitamente ritrattata dallo stesso studioso, ma rimane fuori discussione che il testo tramandato da F non sia il frutto di un’edizione dotta, come mostra d’altronde la quasi completa assenza di materiale scoliastico, ma rappresenti piuttosto un’edizione «popolare» diffusa nell’antichità presso un più ampio pubblico, che costituisce pertanto una recensio del testo platonico differente rispetto al resto della tradizione medievale a noi pervenuta.133 Ciò si accorda, del resto, con le caratteristiche materiali del modello di F quali sono state ricostruite da Dodds, il quale, sulla base delle lacune che ricorrono a intervalli regolari nei primi dialoghi (Gorg., Men., Hipp. mai.), dovute evidentemente ad un danno materiale dell’antigrafo, stabilì che quest’ultimo doveva essere un codice avente circa 38 lettere per riga e poco più di 30 righe per pagina, dimensioni corrispondenti a «the type of cheap papyrus codex which was manufactured in quantity in and after the third century A.D.».134

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370c2 καητὸς re vera F : κλυτὸς fil; 370c3 ἐρίβολον F : -ω- fil; 371c1 πρίν γ’εὖ ἰὼν re vera F. Hunger, Hannick (1994), 74, assegnano il manoscritto all’inizio del sec. XIV, mentre Maas apud Dodds (1959), 45, pensava con maggiore probabilità al XIII. Per una datazione tra la fine del XIII e l’inizio del XIV, cf. Vancamp (1996a), 3; Slings (1999), 340 e (2003), xi; e anche Irigoin (1997), 233 n. 5, che nota: «le dernier tiers du XIIIe siècle reste possible et j’écrirais volontiers XIIIe-XIVe siècle». Cf. Burnet (1902). Cf. Burnet (1903), in seguito alle obiezioni di Stuart Jones (1902), che precisa come non si possa parlare di una ‘vulgata’, ma piuttosto di «‘commercial’ texts which circulated among the reading public, rather than the more scholarly editions». Cf. anche Slings (1999), 341: «F is a typical representative of the cheap Plato omnibus as found in later antiquity». Questo non implica naturalmente che, all’epoca della sua copiatura nel sec. XIII, il codice appartenesse ad un ambiente non dotto, quale al contrario esso dovette essere se vi fu scoperto e trascritto un antico codice in maiuscola. Dodds (1959), 46, che cita su questo punto l’opinione del papirologo C.H. Roberts. Per il calcolo delle dimensioni del modello, cf. Dodds (1957); cf. anche Bluck (1961), 37-38. Un riesame della questione in Irigoin (1997), 235-44, secondo il quale non si tratterebbe di un codice, bensì di un rotolo danneggiato nel margine superiore.

2. La seconda famiglia: F

Si spiega così come F sia talvolta l’unico testimone a permettere il recupero della lezione esatta, contro un errore comune a tutti gli altri testimoni medievali, ma, al contempo, offra spesso un testo scorretto e trascurato. Anche nell’Ippia minore, come in altri dialoghi, si possono osservare frequenti trasposizioni, omissioni o viceversa aggiunte e ripetizioni di particelle, preposizioni, articoli o pronomi, oltre che omissioni più consistenti di diverse parole o a volte intere righe.135 Per quel che riguarda gli errori da maiuscola, importanti per stabilire la derivazione di F da una traslitterazione autonoma, già Burnet citava alcuni casi evidenti in questo dialogo: 368c7 οἷαι αἱ περσικαὶ TW : οἶμαί περ εἰ καὶ F; 371c2 ἐπί τε κλισίας TW : ἐπί τ’ἐκκλησίας F; 371e8 ἤ οἱ TW : μοι F; 376a3 διὰ δύναμιν TW : αι ἀδυναμία F. A questi egli aggiunge anche la variante di 371e1 εὐηθείας TW : εὐνοίας F, in cui si tratterebbe, secondo lo studioso, di un opposto caso di corretta decifrazione della maiuscola da parte del solo F; è tuttavia più probabile pensare che la variante εὐνοίας sia in realtà lezione inferiore e sia nata non da un fraintendimento grafico, ma come glossa per spiegare l’accezione positiva di εὐήθεια nel passo in questione.136 Come ulteriori errori da maiuscola si possono invece citare, tra gli altri, i casi di 366c2 γράψαι TW : τράψαι F; 367e2 γε TW : τε F; 369c2 πράγματι TW : γράμματι F; 370b5 ἅλαδε TWf Hom. : ἄμα δή F; 371b8 μεδήσομαι TW : μελήσομαι F; 373a3 ἂν TW : δὴ F, nonché l’errata divisione delle parole che si verifica, unitamente ad un’erro-

135 Per una classificazione delle tipologie di errore caratteristiche di F, cf. Boter (1989), 104-110; Slings (2003), xi. Nell’Ippia minore, cf. per es. 364c4 ἔτι σαφέστερον TW : σαφέστερον ἔτι F; 369c5 πολλὰ ψευδόμενον TW : ψευδόμενον πολλὰ F; 369e2 ἐπεὶ καὶ νῦν TW : καὶ νῦν ἐπεὶ F (trasposizioni); 366c2 ἀλλὰ om. F; 366c7 σε om. F; 366d6 δὴ om. F; 367c2 ὁ om. F (omissioni di particelle, preposizioni, articoli, pronomi); 364c4 περὶ ante ἄλλων F; 371a5 ἢ ante πρὸς F; 371e7 ὅτι ante οὐκ F (aggiunte); 370e10 ὧ φίλτατε ὧ F; 374e4-5 τις κακῶς τις (ripetizioni). Le omissioni principali sono generalmente dovute a ragioni meccaniche: 365e3-4 ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος om. F (saut du même au même); 372e5-6 τούτων ἕκαστα ποιοῦντας om. F (omeoteleuto); 375e6-8 τί δ’εἰ ἀμφότερα; οὐχ ἡ ἀμφοτέρας ἔχουσα, ἐπιστήμην καὶ δύναμιν, δικαιοτέρα, ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα; om. F (saut du même au même); 376a2 ἑκοῦσα ἐργάζεται om. F (omeoteleuto). Un’omissione considerevole ma più difficile da spiegare si registra anche in 373d5 δὲ κακὸν; – ἀλλὰ τί μέλλει; – πότερος om. F, dove non è possibile individuare una ragione meccanica e l’estensione di circa 25 lettere risulta troppo esigua anche perché si possa ipotizzare il salto di una riga del modello. 136 Cf. Burnet (1903), 14, la cui lista è ripresa da Vancamp (1994), 37-38, il quale accetta anche la spiegazione di Burnet dell’origine delle varianti εὐνοίας/ εὐηθείας, e cioè un errore da maiuscola, nonostante la diversa scelta testuale in favore di εὐηθείας nell’edizione Vancamp (1996a). Sulle due varianti cf. Commento ad loc.

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NOTA CRITICA

nea accentazione, ad esempio in 369b3 ἀναπέφανται TW : ἂν ἀπέφανται F; 370a3 προειπὼν TWf : πρὸ εἷπον F; 374c2 ποτέραν TW: πότερ’ἂν F.137 D’altro canto, come si accennava, più di una volta F offre un testo superiore: alcuni casi, i più evidenti, si sono già visti nel considerare gli errori congiuntivi di TW (363b4 τούτων F : τῶν ποιημάτων TW; 364e7 καὶ ἀληθέστατος F : om. TW; 365e7 ὅτι ποιοῦσιν ἢ ἐπίστανται F : om. TW; 375a2 ἄμεινον F : ἀμείνων TW; 375a8 ἄμεινον F : ἀμείνονος TW). A questi se ne possono però aggiungere anche altri in cui la lezione di F appare difficilior e pertanto preferibile a quella di TW: 364c9 μόγις F : μόλις TW; 366b5 οἱ F : om. TW; 367b2 αὐτῷ F : αὐτὸν TW; 367c3 δυνατώτατος F : δυνατός TW; 367c6 ὁ αὐτὸς F : οὗτος TW; 370d2 ἁπάσης F : πάσης TW; 371a1 δὴ F : om. TW; 373a8 ὑπὲρ F : περὶ TW; 373b7 ἦ F : ἦν TW; 375d5 φαίνονται F : φαίνεται TW.138 Il manoscritto è stato più volte corretto: Vancamp individua per l’Ippia minore almeno tre mani correttrici appartenenti a epoche differenti, che si indicheranno tuttavia qui, secondo l’uso più comune, collettivamente come f.139 La maggior parte degli interventi presenti nell’Ippia minore sono comunque da ricondurre alla prima delle mani correttrici, di poco successiva al copista principale, che corregge molti degli errori e colma la maggior parte delle lacune presenti in F accordando il testo con quello tradito dai manoscritti della prima famiglia (cf. per es. 363b3 κάλλιον TWf : -ίων F; 363c4 τι TWf : om. F; 364a7 τοῦτο TWf : om. F; 367d8 δυνατώτατος TWf : om. F; 367e1 οὐκ ἄλλος TWf : om. F; 368c3 ἔπειτα TWf : ἔτι τὰ F; 369c6 αὖ TWf : om. F; 372e5-6 τούτων ... ποιοῦντας TWf : om. F; 373c7-8 ἢ οἱ ἄκοντες TWf : om. F). Le correzioni di f risultano quindi prive di valore tradiziona-

137 Per una lista più completa, cf. Vancamp (1994), 37-38; cf. anche Vancamp (1996a), 31-32. Accanto agli errori da maiuscola, Vancamp (1994), 39, ripreso poi in Vancamp (1996a), 32, ne porta anche alcuni da minuscola, che dimostrerebbero come F non possa essere esso stesso esemplare di traslitterazione: 371a8 ὡς αἰσθόμενος TWf : ἆρ’αἰσθόμενος F; 371 a8-b1 αὐτοῦ ψευδομένου TWf : αὐτὸν ψευδόμενον F. Gli errori in questione (confusione ω/α e υ/ν) non sono tuttavia del tutto convincenti; l’evidenza è giudicata insufficiente a dimostrare un modello in minuscola da Irigoin (1996), 239 n. 24; cf. tuttavia gli errori da minuscola riscontrabili anche nello Ione in Ferroni (2007), 276 n. 30. 138 Alcuni esempi di lezioni superiori di F, ed in part. i casi di 365e7, 366b5, 371a1, 373a8, 373b7, 375d5, sono riportati anche in Vancamp (1996b), 29, la cui lista si è qui ampliata per una maggiore completezza. Per la discussione delle varianti più notevoli, cf. Commento, note ad locc. 139 Per la distinzione e la datazione delle differenti mani correttrici, cf. Vancamp (1996a), 33; per il testo della Repubblica, Boter (1989), 101-04, ritiene possibile individuarne fino a cinque.

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3. La posizione di S

le, anche se conservano un’importanza cruciale al fine di stabilire i rapporti di altri manoscritti con F, come si avrà modo di vedere a breve.140

3. La posizione di S Alla seconda famiglia, perlomeno per quanto riguarda i dialoghi Ippia minore, Ione, Menesseno e Clitofonte, appartiene anche il Venetus Marcianus gr. 189 (S), la cui posizione rispetto a F è da tempo dibattuta. Schanz fu il primo a sostenerne l’indipendenza, seguito solo parzialmente da Burnet, che fece di fatto uso del solo F per la constitutio textus, giudicandolo testimone più affidabile. Per l’Ippia minore, la tesi di Schanz è stata invece più recentemente ripresa da Vancamp, e a conclusioni analoghe sono giunti per lo Ione, in maniera indipendente, anche Rijksbaron e Ferroni, i quali affiancano dunque S a F come rappresentante della seconda famiglia. Per il Clitofonte, Slings si pronunciava invece, seppur non con assoluta sicurezza, per la dipendenza da F, dal quale S sarebbe stato copiato post correctionem.141 Cronologicamente, S è di non molto successivo a F, in quanto, come dimostrato da studi recenti, è da datare ai primi decenni del secolo XIV e non al XV come in precedenza talvolta sostenuto.142 Si tratta di un mano-

140 L’esemplare di correzione adoperato è probabilmente il Laur. 85.6: cf. Vancamp (1996a), 17-18, per l’Ippia maggiore; cf. anche Slings (1999), 341, per il Clitofonte. Per l’Ippia minore, si può solo genericamente osservare che la fonte delle correzioni appartiene alla famiglia di T, dal momento che introduce in 375a5 la variante τῆς πονηρίας caratteristica di questo ramo (τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς W : τῇ δὲ τῆς πονηρίας Tf : τῃ δὲ τῆ πονηρᾶ F). 141 Cf. Schanz (1885), x-xv, il quale rivedeva la posizione precedentemente espressa in Schanz (1877), 106; Burnet (19092), Praefatio (pagine non numerate); Vancamp (1996a), 36-39, e Vancamp (1996b), 30-35; Rijksbaron (2007), 29-35; Ferroni (2007), 278-86, poi ripreso in Ferroni, Macé (2018), xlvii-xlix; Slings (1981), 279, e (1999), 341. Manca una revisione della questione per il Menesseno, per il quale l’ultimo editore Tsitsiridis (1998) si è limitato a una collazione dei tre testimoni primari, riportando per gli altri manoscritti le lezioni di Bekker e Stallbaum: cf. Tsitsiridis (1998), 93-95. 142 La datazione al sec. XV, contro l’evidenza paleografica, era sostenuta per ragioni stemmatiche da Murphy (1990), 330-31, e Martinelli Tempesta (1997), 116-19, e Vancamp (1996a), 36 e 43-44, in ragione della dipendenza di S in alcune sue parti dal Laur. 85.9, datato al sec. XV. La retrodatazione di quest’ultimo al sec. XIV ha tuttavia fatto cadere l’argomento primario per la datazione di S al XV, permettendo di riassegnarlo anch’esso al XIV, come facevano del resto già Carlini (1972), 164; Mioni (1972), 301; Slings (1981), 278; Brockmann (1992), 126 n. 15; Reis (1999), 220; Jean Irigoin apud Joyal (1998), 18, e (2000), 166; cf. ora Ferroni

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NOTA CRITICA

scritto di ambiente dotto, appartenuto al cardinale Bessarione, che lo ricevette a sua volta dal maestro Giorgio Gemisto Pletone, la cui mano è stata identificata da Brockmann in alcuni interventi a Parmenide, Protagora e Filebo.143 Pur essendo vergato da un unico copista,144 S è un Mischcodex, che presenta differenti modelli a seconda dei dialoghi. Nella prima parte, contenente i dialoghi della cosiddetta «silloge-Y» (Tetr. I-II, Parm., Gorg., Men., Hipp. mai., Symp., Tim., Alc. I, Alc. II, Ax., Iust., Virt., Demod., Sis., Halcyon), è provata la sua discendenza dal Vindobonensis Phil. gr. 21 (Y) per tramite di un passaggio intermedio che è stato identificato nel Venetus Marcianus gr. 590.145 Per i dialoghi non compresi in Y, tra i quali anche l’Ippia minore, a partire dal quale si verifica proprio il primo cambio di modello (Hipp. Min., Menex., Ion, Clit., Phaedr., Crit., Phil., Hipparch., Amat., Tetr. V, Euthyd., Prot., Erix., Deff.; Hipp. min. ai ff. 255r-259v), non è invece possibile individuare una fonte unitaria: per quanto riguarda Fedro e Crizia si tratta verosimilmente del Vaticanus gr. 228, mentre per Ipparco, Amanti, Teage, Carmide e Liside è stato dimostrato che S è copia del Laurentianus Pluteus 85.9, e la stessa ipotesi è probabile anche per il Lachete, appartenente anch’esso alla V tetralogia.146 Per i dialoghi Ippia minore, Menesseno, Ione e Clitofonte, si è già detto che il testo di S si avvicina in maniera evidente a quello di F, come mostra del resto già la caratteristica permutazione dell’ordine tetralogico per cui il Menesseno precede lo Ione.147 Stabilire il rapporto tra i due manoscritti non è tuttavia semplice, in primo luogo perché, come nota anche Vancamp, il te-

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(2007), 279 e n. 44, con ulteriore bibliografia, mentre Martinelli Tempesta (2003), 70, e Vancamp (2010), 62, rivedono, alla luce dei nuovi studi, la posizione precedentemente sostenuta. Sulla retrodatazione di Laur. 85.9 e del suo modello, Laur. 59.1, cf. anche Menchelli (2000). Cf. Brockmann (1992), 126-27, cui hanno fatto seguito gli studi di Martinelli Tempesta (2005) e Pagani (2009). Cf. Mioni (1981), 301. Cf. già Schanz (1877), 89; cf. poi Brockmann (1992), 127-28; Vancamp (1996a), 43-45, che immagina tuttavia un’ulteriore Zwischenstufe corretta sulla base di Laur. 85.9 (su questo punto cf. anche infra); Vancamp (2010), 62-63. Cf. rispettivamente Moreschini 1965; Jonkers (2017), 352-53; Carlini (1964), 36-37; Joyal (1998), 17-18, e (2000), 166; Murphy (1990), 330-31; Martinelli Tempesta (1997), 82, e (2003), 70. Nell’Ippia minore, l’appartenenza di S alla seconda famiglia è indiscutibile alla luce del fatto che S condivide con F sia molte di quelle che si sono prima indicate come lezioni buone conservate da quest’unico manoscritto (364c9, 364e7-8, 365e7, 366b5, 367b2, 367c3, 367c6, 370d2, 375d5) sia numerose lezioni inferiori, per es. 363c5 ἀποκρίνεσθαι TW : ἀποκρίνασθαι FS; 364c3 ἔτι σαφέστερον TW : σαφέστερον ἔτι FS; 370a1 ψευσάμενος TW : ψευδόμενος FS; 374b6 σχήματα TW :

3. La posizione di S

sto del dialogo è molto breve, ed inoltre perché S è di per sé un manoscritto difficile, che presenta frequenti correzioni e in alcuni punti non è chiaramente leggibile.148 Come sottolinea ancora Vancamp, una filiazione diretta di S da F è comunque da escludersi alla luce del fatto che S si discosta in più punti da F nel recupero di una lezione buona, che non poteva trovare in F stesso.149 Particolarmente significativa in questo senso è una lacuna, non colmata in F neppure da mani posteriori, e colmata invece da S in margine, ma comunque di prima mano (365e3-4 ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος TWSmg : om. F). Vi sono poi anche altri casi, elencati già da Vancamp, in cui S presenta di prima mano lezioni buone laddove F è in errore, senza che la lezione esatta sia introdotta in F da una seconda mano correttrice: 364b1 γε TWS : om. F; 368a2 ταυτὰ ταῦτα TWS : ταυτὰ F : ταῦτα ταυτὰ f; 368e1 ἐπιλελῆσθαι TWS : ἐπιμελῆσθαι F; 371a8-b1 αὐτοῦ ψευδομένου TWS : αὐτὸν ψευδόμενον F; 374e6 τόξον TWS : τὸ ξένον F; a questi casi si possono aggiungere quello 371e1 εὐηθείας TWfS : εὐνοίας F, citato anch’esso da Vancamp, dove la lezione di S è presente anche in F come correzione, ma è effettuata da una terza mano che non poteva essere nota a S per ragioni cronologiche, e infine quello di 371d2 ἀλαζόνας TWS : ἄλλους F, non citato da Vancamp, ma significativo perché un recupero congetturale della lezione esatta, sebbene non impossibile, sarebbe comunque non facile.150 Questi argomenti, unitamente al fatto che S spesso ignora le correzioni apportate su F di seconda mano, questione su cui si ritornerà più avanti, inducono Vancamp a propendere, seppur senza assoluta certezza, per la seconda ipotesi dello Schanz, ovvero per l’indipendenza di S.151

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om. FS; cf. Vancamp (1996a), 36. Per l’appartenenza di S alla seconda famiglia anche nello Ione, cf. Rijksbaron (2007), 31, e Ferroni (2007), 281-82. Vancamp (1996a), 36. Vancamp (1996a), 36-37. Nell’elenco degli errori separativi di F contro S offerto da Vancamp (1996a), 37, figurano anche i seguenti casi: 365c8 ἐάσωμεν TWS : ἐάσομεν F; 366c5 δή μοι TWf : δέ F : δή S; 367c4 ὁ (prius) TWS : om. F; 367d7 ὁ TWS : om. F; 374e4-5 κακῶς τις TW : τις κακῶς τις F : τίς κακῶς S; 375b8 τὰς TWS : om. F; 375e9 αὕτη TWS : αὕτη ἡ F. Di questi, lo stesso Vancamp (1996a), 37, ammette che gli articoli in 367c4, 367d7 e 375b8 «konnte zwar der Schreiber des Marcianus in scribendo ergänzen», e lo stesso si può dire dell’articolo in 375e9 e della facile correzione ἐάσωμεν in 365c8, per quanto queste osservazioni perdano rilievo se si presuppone, in ogni caso, una contaminazione, per cui cf. infra. Nell’elenco sono inoltre incluse due innovazioni di S (366c5 e 374e4-5), per cui cf. infra. Cf. Vancamp (1996a), 39: «obwohl die Möglichkeit, dass S mittelbar auf F zurückgeht, nicht völlig ausgeschlossen werden kann, entspricht am besten Schanzens letzte Hypothese – dass S und F unabhängig voneinander aus einer gemeinsamen Quelle (= ψ) geflossen sind – dem Ergebnis der Kollationen». In

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NOTA CRITICA

La situazione, lo si è già detto, non è di semplice soluzione. Gli argomenti addotti da Vancamp portano infatti, in apparenza, prove forti. Tuttavia, occorre tener conto del fatto che, come si è già visto, S proviene da un ambiente dotto, in cui è certo che il copista avesse a disposizione più di un esemplare dell’opera di Platone, e cioè almeno il Vat. 228 e il Laur. 85.9 da cui come si è visto sono copiati altri dialoghi, ragion per cui non è da sottovalutare l’attività di correzione di cui il manoscritto porta chiari segni e l’eventualità che la lezione buona sia stata recuperata in realtà per collazione.152 In questo senso, non si può non notare che, tra i casi in cui S ritorna alla lezione esatta contro un errore di F, non se ne trova neppure uno in cui questa non sia presente anche nei manoscritti della prima famiglia, il che certamente non implica che S non potesse trovare il testo corretto nella sua fonte, ma non permette di escludere che sia avvenuta una contaminazione. Che invece S sia un manoscritto contaminato è mostrato dal fatto che le citazioni di Omero presenti nel dialogo siano state corrette sulla base di un manoscritto dell’Iliade, con l’aiuto del quale S accorda più volte il testo di Platone alla vulgata omerica (cf. 365a3 ὥσπερ TWF : ᾗπερ S Hom.; ibid. κρανέω TWSF : φρονέω Smg Hom.; ibid. τελέεσθαι ὀΐω T : τετελέεσθαι W : τετελέσθαι ὀΐω FSmg : τετελεσμένον ἔσται S Hom.; 370b6 αἴκ’ TW : αἴ κε F : ἢν S Hom.; 371c3 κατά τε φλέξαι TWf : κατέφλεξε F : κατά τε σμῦξαι S Hom.), aggiungendo in un caso un intero verso omesso dalla totalità dei codici platonici (post 365a3 Il. 9.311 add. Smg : om. TWF).153 Un forte sospetto che il copista abbia agito in modo analogo anche per il testo platonico, tenendo cioè sott’occhio un altro testimone appartenente alla prima famiglia, sorge peraltro dal comportamento stesso di S, che in numerosi casi introduce lezioni esatte di TW di prima mano ma post correctionem, cosa che sembrerebbe indicare un processo continuo, seppur non sistematico, di collazione:154 si è già detto della lacuna di 365e3-4 colmata in margine da S, per la quale si dovrebbe altrimenti supporre che la stessa

un contributo successivo, lo studioso si mostra ancora più dubbioso, affermando che S «qui, sans doute apographe indirect du Vindobonensis Suppl. gr. 39 (= F), n’a pu, faute de preuve formelle, être éliminé de l’apparat critique», Vancamp (2001), 36 n. 31, corsivi dell’Autore. 152 Per obiezioni in questa direzione cf. già la recensione di Carlini (1997), 100-01. 153 In generale sul comportamento di S nelle citazioni omeriche, anche al di fuori dell’Ippia minore, cf. Labarbe (1949), 385-93. 154 Che la collazione non sia sistematica, vista la permanenza di alcuni errori di contro al recupero di lezioni genuine laddove sarebbe stato impossibile accorgersi di un errore, è uno degli argomenti adoperati da Vancamp (1996a), 37, e per lo Ione anche da Ferroni, Macé (2018), xlviii, per escludere che sia avvenuta una contaminazione. Ma la collazione non è stata sistematica neppure per le ci-

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3. La posizione di S

porzione di testo sia caduta per omeoteleuto indipendentemente in F e in S, e poi recuperata dal modello solo da quest’ultimo; ma cf. per es. anche 363b6-7 ἀναπυθοίμην TWSpc (-α- et fort. -υ- e corr.) : ἂν πυθοίμην f : ἂν πειθοίμην F; 363d4 φύγοιμι TWSpc (-υ- e corr.) : φεύγοιμι F; 364c3 ἐθέλω TWSpc (ἐ- s.l.) : θέλω F; 367c2 ὁ TWSmg : om. F; 367c8 καὶ TWSsl : om. F; 372b5 οἷς οἱ TWSpc (-ι- e corr.) : ὅσοι F. Ancor più significativo è però il fatto che vi siano almeno tre casi in cui S, di prima mano, introduce post correctionem una lezione erronea di TW (anche se in un caso presente anche in F di seconda mano): 363b3 τούτων FS : τῶν ποιημάτων TWSmg; 375a2 ἄμινον F (-ει-f) : ἀμείνων TWSpc (-ω- e corr.); 375a8 ἄμεινον F : ἀμείνονος TWfSpc (-ος s.l.). A ciò si aggiunga poi che F, come si è detto, è privo di scolii, mentre in S per il testo dell’Ippia minore, come nota del resto lo stesso Vancamp, se ne possono trovare due, entrambi al f. 258r, quasi sicuramente vergati dalla stessa mano del testo principale: 371d5 ἀρχαῖον] εὐήθη ἢ ἁπλοῦν; 372b1 λιπαρής] ἐπιμελητής (sic), προσεδρευτικός.155 La collazione di un testimone della prima famiglia sembra dunque da presupporsi inevitabilmente. La presenza dello scolio ad 372b1, che è tra gli scolii propri del solo T,156 induce inoltre a ricercare il Korrektivexemplar tra i discendenti di questo manoscritto. Con un ulteriore passo, si può ipotizzare che si tratti del Laur. 85.9, che come si è visto è tra le fonti adoperate dal copista di S per i dialoghi non contenuti nella «silloge Y» e che contiene anche l’Ippia minore, in quanto è uno dei tre codici a noi pervenuti che recano l’opera completa di Platone. L’influenza di Laur. 85.9 su testi non direttamente da esso derivati, peraltro, è stata dimostrata già da Brockmann per gli scolii al Simposio, da Reis per il Prologo di Albino, contenuto all’inizio del codice, e dallo stesso Vancamp per l’Ippia maggiore.157 Nell’Ippia minore, non vi sono indizi che portino specificamente a questo codice,

tazioni omeriche, per cui l’uso di un altro testimone è fuori discussione: cf. 370c6 λώϊον TW : λῶον FS : φέρτερον Hom; 371c4 μιν TWS : μὴν F : τοι Hom. Come scrive Slings (1998), 612, Vancamp «greatly overestimates the rationality of Byzantine scribes and correctors». 155 Cf. Vancamp (1996a), 39, che cita il primo dei due scolii come «anscheinend von erster Hand». Sul fatto che in S gli scolii siano di prima mano, cf. anche Brockmann (1992), 129 n. 21. 156 Cf. quanto si è detto supra, a proposito di T, e infra, la sezione dedicata agli scolii. 157 Cf. rispettivamente Brockmann (1992), 129-30, il quale, accogliendo la datazione del Laur. 85.9 al sec. XV ma mantenendo quella di S al XIV, doveva postulare che la contaminazione fosse avvenuta attraverso un precedente passaggio intermedio, come ipotizzato in part. in Brockmann (1992), 129 n. 21, ora non più

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NOTA CRITICA

ma non vi sono neppure argomenti contrari, né costituiscono un serio ostacolo le due lezioni caratteristiche del ramo di W (363b3 ὅσον TF : ὅσῳ WS; 373a6 παρακαλοίην TF : παρακαλοίμην WS), delle quali la prima si ritrova anche in alcuni apografi di T tra cui proprio il Laur. 85.9.158 Più complessa la questione della conoscenza della più antica mano correttrice di F da parte di S. Come si è già accennato, infatti, Vancamp sottolinea come S ne ignori ripetutamente le correzioni, a differenza di apografi come il Laurentianus Pluteus 85.7, il quale le riproduce invece regolarmente.159 A questo proposito bisogna però ricordare che Vancamp accoglieva la datazione di S al XV secolo, come il Laur. 85.7, cosa che renderebbe inevitabile la conoscenza delle stesse correzioni da parte di entrambi gli apografi, ma, una volta accertato che S è da datare agli inizi del secolo XIV, si potrebbe anche ipotizzare che S sia copia di F ante correctionem. La situazione non è tuttavia così semplice, perché accanto ai casi in cui S ignora f ve ne sono in realtà anche altri in cui S e f concordano. In particolare, come evidenziato da Slings, la conoscenza di f da parte di S sembra presupposta dal fatto che in alcuni punti S non solo ha le stesse correzioni di f, ma anche nella stessa posizione in margine oppure supra lineam: 363c4 τι TWfslSsl : om. FSac; 367d8 δυνατώτατος TWfmgSmg : om. FSac; 367e1 οὐκ ἄλλος TWfmgSmg : om. FSac; 369c6 αὖ TWfmgSmg : om. FSac.160 Agli esempi portati da Slings se ne possono poi aggiungere anche altri, in cui S si accorda con le correzioni apportate da f riportando lo stesso testo di prima mano ma post correctionem: 366b3 ἀδυνάτους TWfSpc : δυνατοὺς F; 367e9 σὺ TWfSpc :

richiesto vista la retrodatazione del Laur. 85.9 di cui si è già detto supra (l’abbandono di tale ipotesi, del resto, mi è stato comunicato oralmente dallo stesso professor Brockmann); Reis (1999), 221-22; e Vancamp (1996a), 44-45, il quale ritiene che tra S e il Marc. 590, suo modello per l’Ippia maggiore, vi sia un passaggio intermedio e che sia questo ad essere stato corretto sulla base del Laur. 85.9. Contra, cf. però Reis (1999), 221, il quale rimanda a quanto osservato ancora da Brockmann (1992), 33, ovvero che il copista di S ebbe sicuramente il Marc. 590 tra le mani in quanto in quest’ultimo il trattato di Niceforo Cumno alla fine del manoscritto è aggiunto proprio dalla mano del copista di S. 158 Vancamp (1996a), 38 n. 5. 159 Vancamp (1996a), 37-38. Ecco alcuni esempi di accordo di S con F contro f: 363b3 κάλλιον TWf : καλλίων FS; 365b7 λέγεις TWf : λέγει FS; 366c7 σε TWf : om. FS; 366d6 δή TWf : om. FS; 368b2 εἶ TWf : om. FS; 368c3 ἔπειτα TWf : ἔτι τὰ FS; 369e2 ὄτι TWf : ὄντι FS; 370a1 ψευδάμενος TWf : ψευδόμενος FS; 371a8 ὡς αἰσθανόμενος TW : ἆρ’αἰσθόμενος FS : ὡς αἰσθόμενος f; 373e2 ἐν TWf : ὂν FS; 374e4 κακὰ TWf : καλὰ FS. 160 Slings (1998), 612.

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3. La posizione di S

om. F; 368b6 ἔργα TWfSpc : om. F; 375a8 ἥτις TWfSpc : om. F; 375d6 γε TWfSpc : om. F.161 Ancora una volta, si tratta di lezioni esatte, il che non porta ad alcuna conclusione; per di più, trattandosi di lezioni presenti anche in TW, non si può teoricamente escludere che S abbia effettuato le correzioni in base all’indipendente collazione di un manoscritto della prima famiglia. Ciò non toglie, comunque, che gli accordi di S con f esistano e siano anche relativamente numerosi, ragion per cui non si può neppure affermare con sicurezza che S non conoscesse le correzioni di f, sebbene, come si è già osservato a proposito del fenomeno di collazione, non le riporti in modo sistematico. Infine, va detto che si può notare anche un accordo di S con f in errore (369d7 τούτῳ T : τοῦτο WfS : τοῦτ’ἧ F), che di per sé non è sicuramente sufficiente a dimostrare la conoscenza di f da parte di S, ma si va a sommare all’evidenza già raccolta da Slings per il Clitofonte, in cui si verificano due accordi in errore di S con f.162 In conclusione, sulla base dell’evidenza dell’Ippia minore non è possibile stabilire con sicurezza se S sia copia di F ante o post correctionem, ma si può invece affermare che non esistono argomenti che possano provarne in modo certo l’indipendenza da F. In particolare, manca una prova sicura quale sarebbe almeno un caso in cui S preservi una lezione esatta che non possa essere derivata per collazione da TW;163 viceversa, ci sono prove del fatto che si tratti di un manoscritto contaminato, il cui testo è stato corretto sulla base di un esemplare della prima famiglia. L’insieme di queste ragioni

161 Vi sono poi altri casi in cui S si accorda con f senza segni di correzione: cf. in particolare cinque lacune, colmate da f e assenti in S: 372e5-6 τούτων ἕκαστα ποιοῦντα TWfS : om. F; 373d5 δὲ κακὸν; – ἀλλὰ τί μέλλει; – πότερος TWfS: om. F; 373c7-8 ἣ οἱ ἄκοντες TWfS : om. F 375e6-8 τί δ’εἰ … ἀδικωτέρα TWfS : om. F; 376a2; ἑκοῦσα ἐργάζεται TWfS : om. F. Cf. poi anche 371d1 τε TWfS : om. F; 371e4 ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως TWfS : ὁ Ὀδυσσέως F 373a5 οὐδ’ TWfS : om. F; 374d1 ἑκουσίως TWfS : om. F; 375d2 ἢ TWfS : om. F 375d2; 375d3 εἰ TWfS : ἢ F; 371e8 ἢ οἱ TWfS : μοι F; 373a7 διαλέγεσθαι TWfS : ἰδίᾳ λέγεσθαι F; 376a3 διά δύναμιν TWfS : αι ἀδυναμία F. 162 Slings (1981), 279. Per lo studioso, S è copia di F post correctionem, ma «the exemplar of S ignored F2 as much as he could»; cf. anche Slings (1998), 612. 163 La stessa situazione, stando a quanto riportato da Rijksbaron (2007), 32, e più estesamente da Ferroni (2007), 282-93, si riproduce identica nello Ione: le lezioni esatte esibite da S si trovano regolarmente anche in TW, di norma in entrambi i manoscritti, tranne un caso in cui S ha una lezione del ramo di T (Ion 534a4 ἀρύονται WF : ἀρύτονται TS) e uno invece in cui ha una lezione propria di W, che però, è da notare, è anche la lezione introdotta da f (Ion 531e9 λέγομεν ὡς WfSpc : λέγωμεν ὡς T : λεγόμενος F), escludendo dal computo i casi appartenenti alle citazioni omeriche per cui S ricorre ad un testimone di Omero.

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NOTA CRITICA

induce pertanto ad escludere l’uso di S come testimone primario ai fini della constitutio textus, limitandone il valore ad eventuali emendazioni congetturali.164

4. Gli apografi Non si intende affrontare in questa sede una trattazione sistematica di tutti i manoscritti recanti il testo dell’Ippia minore, di cui è possibile trovare una disamina nell’edizione di Vancamp e nei contributi che ne hanno accompagnato la pubblicazione.165 Tuttavia, è opportuno fornire alcuni ragguagli almeno su quei manoscritti che, pur non essendo testimoni primari, si troveranno occasionalmente menzionati in apparato nella presente edizione o che rivestono una particolare rilevanza nella storia del testo platonico. La discendenza più numerosa è senz’altro quella di T. Il Parisinus gr. 1808 (Hipp. min. ai ff. 326v-330v) ne è il più antico apografo (sec. XI-XII) ed è a sua volta capostipite di tutti gli altri codici appartenenti alla stessa famiglia, ad eccezione del Coislinianus gr. 155 (sec. XIV) e del Laurentianus Pluteus 85.6 (sec. XIII), che discendono invece indipendentemente da T.166 Par. 1808 è stato corretto più volte, dal copista stesso e da mani successive in epoche differenti, che si indicheranno qui collettivamente come Par. 18082;

164 Vicenda analoga hanno avuto anche altri due manoscritti, considerati alternatamente apografi o gemelli di F: il già menzionato Laur. 85.7, che Dodds (1959), 44-45, dimostrò essere copia post correctionem di F, e Vat. 228, che per l’Ippia minore, come si vedrà a breve, è apografo di W, ma per altri dialoghi appartiene invece alla famiglia di F; la sua dipendenza da quest’ultimo manoscritto è sostenuta da Jonkers (2017), 352-53. 165 Cf. Vancamp (1996a) e (1996b), che costituiscono il costante punto di riferimento per le pagine che seguono. 166 Per l’indipendenza reciproca dei tre manoscritti, cf. Vancamp (1996a), 20-21. La derivazione indipendente da T di Coisl. 155 e Par. 1808 era già stata dimostrata da Schanz (1877), rispettivamente 40-47 e 47-52. Più incerta la collocazione di Laur. 85.6, che per altri dialoghi sembra dipendere da Par. 1808: cf. Dodds (1959), 48-53; Carlini (1964), 41-42; Moreschini (1965), 184-85; Murphy (1990), 326-27; Brockmann (1992), 198-208; Martinelli Tempesta (1997), 82-94; Joyal (1998), 20. I risultati di Vancamp (1996a) sono però confermati da Ferroni (2006), 16. Per la retrodatazione di Par. 1808, precedentemente assegnato al sec. XIII, cf. invece Brockmann (1992), 26 e 162 n. 19, seguito poi da Martinelli Tempesta (2003), 46 n. 163, il quale rivede così la posizione precedente espressa in Martinelli Tempesta (1997), 35 e n. 43, dove si può trovare ulteriore bibliografia sulla datazione tradizionale; cf. ora anche Ferroni, Macé (2018), li; Vancamp (1996a), 18, indica invece il sec. XII-XIII.

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4. Gli apografi

per l’Ippia minore, a Par. 18082 è riconducibile una variante marginale non altrimenti testimoniata, che, seppure non debba essere accolta a testo, è comunque non priva di interesse in quanto rivela un’origine dotta (364a4 γρ. πυκτευτικῶς Par. 18082).167 Da Par. 1808, per tramite di una comune Zwischenstufe identificabile nell’Escorialensis gr. y I. 13, discendono poi tanto il Parisinus gr. 1811 (Hipp. min. ai ff. 219v-224v) quanto il Parisinus gr. 1812 (Hipp. min. ai ff. 235v-240v), entrambi databili al sec. XIV, il primo dei quali è noto principalmente per essere stato alla base dell’editio princeps dell’opera platonica, come si vedrà più avanti; per l’Ippia minore, essi offrono due correzioni accolte a testo dagli editori, sebbene in comune con altri manoscritti (367a7 ἀριθμόν corr. Par. 18112 et Vat. 2282; 375e6 Ναί post ἀδικωτέρα add. Par. 1812 et Coisl. 1552). Ad un altro ramo di discendenza di Par. 1808 appartiene invece il Vaticanus gr. 226 (Hipp. min. ai ff. 169v-177v), che, insieme al Vaticanus gr. 225, costituisce un unico codice in due tomi, contenente un’ampia selezione di dialoghi platonici; la sua datazione è stata a lungo dibattuta per via della scrittura arcaizzante, ma è ora generalmente collocata agli inizi del sec. XIV.168 Tra i discendenti di Par. 1808 sono inoltre da ricordare per la loro importanza storica, anche se non si troveranno menzionati in apparato, il Laurentianus Pluteus 59.1 (Hipp. min. ai ff. 324v-329r) e il suo apografo Laurentianus Pluteus 85.9 (Hipp. min. ai ff. 197v-200r), databili anch’essi al sec. XIV, che sono gli unici codici, oltre al Venetus Marcianus gr. 184 di cui si dirà fra poco, a contenere l’opera completa di Platone; in particolare, il secondo è stato identificato come il codice completo di Platone donato nel 1462 da Cosimo il Vecchio a Marsilio Ficino, che su di esso baserà in larga parte la propria traduzione.169

167 Sulle mani correttrici di Par. 1808, cf. Vancamp (1996a), 19-20, e più estesamente Martinelli Tempesta (2003), 48-52. Sulla vecchia tesi, ormai non più accolta, dell’esistenza di una recensio autonoma dalla quale deriverebbero le lezioni di Par. 1808 non altrimenti testimoniate, cf. Dodds (1959), 48-53. 168 Cf. Brockmann (1992), 85-86, seguito da Vancamp (1996a), 29, e Martinelli Tempesta (1997), 11-12 e n. 21, ripreso in Martinelli Tempesta (2003), 63, con ulteriore bibliografia. Sulla questione cf. ora anche Menchelli (2014), in part. 199-203 per altri codici attribuibili alla stessa mano. Riproduzioni su http://ww w.mss.vatlib.it. 169 Riproduzioni di entrambi su http://teca.bmlonline.it. Per cenni storici sui due manoscritti e un approfondito esame codicologico, oltre che per la retrodatazione di Laur. 85.9, cf. Menchelli (2000); per l’identificazione di Laur. 85.9 con il codice «in charta bona» ricevuto in dono da Cosimo il Vecchio, per il quale si era invece a lungo pensato al Laur. 59.1, cf. invece Gentile (1987), i cui risultati sono ora generalmente accolti: cf. Brockmann (1992), 222; Blank (1993), 2-3; Berti (1996), 134-35, Vancamp (1996a), 21; Martinelli Tempesta (1997), 155-56, e (2003), 42; Jonkers (2017), 355-56.

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NOTA CRITICA

Il Coislinianus gr. 155 (Hipp. min. ai ff. 295v-299r), che come si è già detto discende indipendentemente da T, è databile al sec. XIV e appartenne al cardinale Bessarione, alla cui mano sono riconducibili il Pinax e le prime due pagine del codice.170 Con il cardinale è verosimilmente da mettere in relazione anche almeno una parte delle correzioni presenti sul manoscritto, alcune delle quali si ritrovano nel Venetus Marcianus gr. 186, che, come si vedrà a breve, è la copia di lavoro di Bessarione. Per quanto riguarda l’Ippia minore, vi sono in Coisl. 155 tre emendazioni significative, senz’altro di origine congetturale, di cui una è effettivamente presente anche in Ven. 186, direttamente a testo e non come correzione, ma nella porzione di testo, come si vedrà, scritta proprio per mano del cardinale stesso (375a2 ᾗ ante ἄκων add. Coisl. 1552 et Ven. 186); le altre due correzioni, da accogliere a testo, rispettivamente in 367b7 (λογισμῶν corr. Coisl. 1552) e 375e6 (Ναί post ἀδικωτέρα add. Par. 1812 et Coisl. 1552).171 Il Vaticanus gr. 228 (Hipp. min. ai ff. 271r-277v) è invece uno dei pochi discendenti di W, la cui famiglia è composta solamente da tre manoscritti, derivanti l’uno dall’altro: il Lobcovicianus Roudnicensis VI Fa 1, il suo apografo diretto Vaticanus gr. 1029(a) e infine il Vaticanus gr. 228, tutti e tre databili al sec. XIV.172 Per il testo dell’Ippia minore, Vat. 228 offre due correzioni, accolte entrambe dagli editori (367a7 ἀριθμόν Par. 18112 et Vat. 2282; 367a9 τε post καὶ add. Vat. 228 et Ven. 1892). I Veneti Marciani gr. 186 e 184 (Hipp. min. rispettivamente ai ff. 252r-256r e 250r-253r), infine, sono due codici di cruciale importanza nella storia del

170 Per l’identificazione della mano del Bessarione, cf. RGK II, 45 nr. 61. 171 Sulla possibilità di ricondurre parte delle correzioni di Coisl. 1552 al Bessarione, cf. Brockmann (1992), 141 e 156. A proposito del testo del Liside, tuttavia, Martinelli Tempesta (2003), 52 n. 186, nota che nessuna delle correzioni di Coisl. 1552 è riconducibile con sicurezza alla mano del cardinale, e non si può perciò escludere che sia in realtà avvenuto il processo opposto, ovvero che Bessarione abbia «introdotto alcune delle sue correzioni in Ven. 186 traendole proprio da Coisl. 155 già corretto». Riproduzioni del codice (in microfilm) su https://gallica.bnf.f r. 172 Per la discendenza dei tre manoscritti l’uno dall’altro, cf. Vancamp (1996a), 13-14. Per la datazione di Lobc, che in ragione della scrittura arcaizzante molto vicina a quella di W stesso era un tempo considerato all’incirca coevo di quest’ultimo – così ancora Vancamp (1996a), 13, che lo assegna al sec. XI – cf. Martinelli Tempesta (1997), 125-31 e (2003), 56 n. 212, con ulteriore bibliografia; cf. anche Brockmann (1998), 662 n. 27, il quale accetta ora la nuova datazione, affermando che «der Kopist des Lobcovicianus ist … ein guter Imitator», e rivedendo così le posizioni precedentemente espresse in Brockmann (1992), 28 e 238. Sulle scritture arcaizzanti dei sec. XIII e XIV, cf. in generale Menchelli (2014).

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4. Gli apografi

testo platonico, entrambi vergati nel sec. XV e strettamente legati alla figura del cardinale Bessarione. Il primo, come si è già accennato, è la copia di lavoro del cardinale per le prime sette tetralogie e l’inizio dell’ottava, mentre il secondo è l’edizione di lusso dell’opera completa di Platone che egli commissionò al calligrafo Giovanni Roso, ed è copia diretta del Ven. 186 post correctionem per i dialoghi in esso contenuti.173 A sua volta, Ven. 186 è per la prima parte copia di un altro codice appartenente al fondo bessarioneo, ovvero il Ven. 189 (S) di cui si è già avuto modo di parlare, e fa capo, dunque, alla famiglia di F; in Hipp. min. 373c6, corrispondente all’inizio del f. 255v, si verifica tuttavia un cambio di mano, che è per i ff. 255v-256r, ovvero fino alla fine del dialogo, quella di Bessarione stesso, e al cambio di mano corrisponde anche un cambio di modello, che passa ora ad un antigrafo che non è identificabile con precisione, ma è senz’altro collocabile nell’ambito della famiglia di T.174 Bessarione intervenne frequentemente e a più riprese su entrambi i manoscritti con note marginali, integrazioni e correzioni, sia per collazione sia ope ingenii. Nel Ven. 186 è sicuramente da attribuire alla sua mano il titolo iniziale, in cui è restituito anche il sottotitolo esatto (Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ ψεύδους), verosimilmente tratto da Diogene Laerzio (3.60), oltre che l’indicazione del genere ἀνατρεπτικός apposta nel margine, per la quale si dovrà ipotizzare la stessa fonte.175 Sono inoltre da menzionare, nel testo, una serie di emendazioni congetturali, alcune delle quali accolte a testo dagli editori (367a7 ἀριθμῶν Ven. 1862; 375a2 ᾗ ante ἄκων add. Ven. 186 et Coisl. 155 2), altre, comunque, degne di nota (366c1 ἐξειργόμενος Ven. 186 2;

173 Sui due manoscritti e sul loro rapporto, noto da tempo, cf. Schanz (1877), 89-90; Carlini (1964), 37-38, e (1972), 164-66; Brockmann (1992), 125-46; Murphy (1990), 323-25; Martinelli Tempesta (1997), 57-77 e (2003), 67-69; Joyal (1998), 30-31; oltre che naturalmente, per l’Ippia minore, Vancamp (1996a), 45-47. Per le tetralogie VIII.2-IX la copia di lavoro di Bessarione è invece il Venetus Marcianus gr. 187. 174 Per l’identificazione di S come modello di Ven. 186 fino al cambio di mano in Hipp. min. 373c6, cf. già Schanz (1877), 90; cf. poi Carlini (1964), 37-38, e (1972), 165; Brockmann (1992), 132; Vancamp (1996a), 45-46. Il modello per la parte successiva non è identificabile con sicurezza secondo Vancamp (1996a), 46, ma una più precisa collocazione nell’ambito del gruppo dell’Escorialensis gr. y 1.13, e dunque nella stessa famiglia di Par. 1811 e 1812, è proposta ora da Ferroni (2006), 62-64. Per l’attribuzione a Bessarione dei ff. 255v-256r (oltre che 3v-4r, 8v-9v; 382r-386r), cf. Mioni (1981), 297. 175 Cf. Commento, Titolo.

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NOTA CRITICA

366c3 ἆρ’οὐχ ὃς ἂν Ven. 1862). Non sembrano invece esservi nuove congetture presenti solo in Ven. 184.176

5. Le prime edizioni a stampa L’editio princeps dell’opera di Platone, com’è noto, è quella curata dall’umanista Marco Musuro e stampata a Venezia da Aldo Manuzio nel settembre del 1513. A lungo si era ritenuto che il modello dell’Aldina fosse da ricercarsi tra i manoscritti del fondo bessarioneo, e in particolare che si trattasse del Ven. 184, contenente l’opera completa di Platone; studi più recenti condotti su singoli dialoghi, tuttavia, hanno portato a individuare la fonte primaria nel Par. 1811 o un suo discendente, corretto attraverso la sistematica collazione di Ven. 186, situazione che, secondo le ricerche di Vancamp, si conferma anche per l’Ippia minore.177 Nonostante l’importanza storica, l’Aldina non presenta particolare rilevanza ai fini della constitutio textus, in quanto non contiene lezioni buone che non siano riconducibili ai manoscritti adoperati. Seguirono, rispettivamente nel 1534 e nel 1556, le due edizioni stampate a Basilea (Bas1 e Bas2), che riproducono sostanzialmente l’Aldina e non presentano neanch’esse grande interesse sul piano testuale.178 Nel 1578, infine, fu pubblicata a Ginevra l’edizione di Henri Estienne, meglio noto come Stephanus, corredata dalla traduzione latina di Jean de Serres, destinata a diventare l’edizione canonica di Platone nei secoli successivi. L’edizione è esplicitamente basata sull’Aldina e sulla prima edizione di Basilea, nonché sulla traduzione latina di Ficino, oltre alle quali lo Stephanus dichiara tut-

176 Vancamp (1996a), in apparato, attribuisce la correzione ἐξειργόμενος a Ven. 184, ma ad un nuovo esame la correzione risulta effettuata già da Ven. 1862. 177 Cf. su questo punto Vancamp (1996a), 49-50, e i risultati concordemente raggiunti da Murphy (1990), 325; Brockmann (1992), 185-90; Joyal (1998), 48-49; Martinelli Tempesta (1997), 182-89 e (2003), 93; Rijksbaron (2007), 52-57. Come sottolineato da Vancamp (1996a), 50, è probabile che Musuro utilizzasse una copia risultante dalla collazione dei due testimoni, che è da considerarsi ora perduta. Per le fonti dell’Aldina in altri dialoghi, non contenuti in Par. 1811 e Ven. 186, cf. Boter (1989), 242-45, e Jonkers (2017), 361-65. 178 La prima dipende esclusivamente dall’Aldina, mentre la seconda fu rivista dall’umanista fiammingo Arnoldus Arlenius con l’ausilio di manoscritti che non sono tuttavia identificabili con sicurezza: cf. Boter (1989), 245-46; Brockmann (1992), 191-95; Vancamp (1996a), 51-52; Martinelli Tempesta (1997), 189-91 e 197-200, poi ripreso in Martinelli Tempesta (2003), 84-85, con ulteriore bibliografia.

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5. Le prime edizioni a stampa

tavia di aver consultato dei «veteres libri», espressione con cui si dovrebbe intendere il ricorso a dei manoscritti. Dell’uso di tali manoscritti non sembra però esservi traccia nella maggior parte dei dialoghi, in cui le varianti indicate nel margine appaiono in realtà tratte dalla seconda edizione basiliense e dalle Eclogae di Cornarius, di cui si dirà a breve, non citate come fonti dallo Stephanus.179 Un’eccezione sembra però essere costituita proprio dall’Ippia minore, in cui Vancamp ha notato quattro casi in cui si trovano, a testo o in margine, lezioni che sono assenti nelle precedenti edizioni e che non possono essere derivate altrimenti che dalla collazione di un testimone manoscritto, con ogni evidenza appartenente alla seconda famiglia (364e7 καὶ ἀληθέστατος om. Ald Bas1 Bas2 Ficinus : add. Stephanus in mg. cum F et apogr.; 367b2 αὐτὸν Ald Bas1 Bas2 : αὐτῷ Stephanus cum Fac Ven. 189 Ven. 186 et Ven. 184; 368c3 ἔπειτα Ald Bas1 Bas2 Stephanus : ἔτι τὰ Stephanus in mg. cum Fac Ven. 189 Ven. 186 et Ven. 184; 373b6 ἐγὼ post ταῦτα om. Ald Bas1 Bas2 Stephanus cum Par. 1811 et 1812 : ταῦτα ἐγὼ ποιῶ Stephanus in mg. cum cett. codd.).180 Allo Stephanus stesso sono invece da attribuire per il testo dell’Ippia minore due brillanti congetture, la seconda delle quali ispirata tuttavia probabilmente da Ficino (368d3 ἐπιστημῶν TWf : ἐπιστήμην F] ἐπιστήμων Stephanus; 371d4 μένειν codd.] μενεῖν Stephanus, «commoraturum» vertit Ficinus).181 179 Cf. su questo punto i risultati raggiunti da Boter (1989), 247-51, particolarmente severo nei confronti dell’onestà intellettuale dimostrata dallo Stephanus; Brockmann (1992), 7-9 e 195-97; Martinelli Tempesta (1997), 205; Jonkers (2017), 374-77. La stessa situazione è confermata per l’Ippia maggiore da Vancamp (1996a), 54. 180 Cf. Vancamp (1996a), 54, che nota come nell’Ippia minore si presenti «überraschenderweise» una situazione anomala. Quanto all’identificazione del manoscritto o dei manoscritti che lo Stephanus potrebbe aver adoperato, che secondo Vancamp (1996a), 55, non è possibile stabilire con sicurezza («lassen sich diese Handschriften nicht genau bestimmen»), non è senz’altro di aiuto l’ultima lezione (373b6), che si trova in tutti i manoscritti al di fuori del gruppo di Par. 1811 e 1812, dal primo dei quali l’errore è evidentemente passato all’Aldina. La prima (364e7), invece, è caratteristica dei manoscritti della seconda famiglia e si trova in F e in tutti i suoi apografi, ovvero in Ven. 189, Ven. 186, Ven. 184, di cui si è già detto, e negli altri tre apografi di F, Laurentianus Pluteus 85.7 (sec. XV), Romanus Angelicus gr. 101 (XV sec.) e Ambrosianus E 113 (sec. XV), sui quali cf. Vancamp (1996a), 33-35. Tuttavia, è solo in Ven. 189, Ven. 186 e Ven. 184 che si ritrovano anche le altre due lezioni introdotte dallo Stephanus (367b2 e 368c3), che coincidono in questi casi con la lezione di Fac. È perciò possibile quantomeno affermare che il manoscritto cui lo Stephanus fece ricorso, perlomeno nel caso dell’Ippia minore, sia uno dei tre Veneti, forse nuovamente il Ven. 186 già collazionato da Musuro. 181 Cf. Vancamp (1996a), 53-54, e (1996b), 51.

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NOTA CRITICA

6. Le traduzioni latine Dell’Ippia minore esistono tre traduzioni latine:182 oltre a quella di Jean de Serres che accompagna il testo dello Stephanus (1578), alla quale si è già fatto cenno, disponiamo infatti di quella di Marsilio Ficino, compresa nella traduzione dei dialoghi platonici stampata a Firenze nel 1484, e di quella del medico e umanista tedesco Johann Haynpol, meglio noto come Janus Cornarius, anch’essa parte di una traduzione dell’opera completa di Platone che fu pubblicata postuma a Basilea da Froben nel 1561. Il ruolo della versione ficiniana ai fini della constitutio textus, in passato spesso sopravvalutato, è stato oggi fortemente ridimensionato, sia per il carattere stesso della traduzione, che non essendo letterale non permette di ricostruire con esattezza il testo greco corrispondente, sia perché non è finora emerso che Ficino abbia avuto accesso a fonti ora perdute.183 Il codice contenente l’opera completa di Platone donato a Ficino da Cosimo il Vecchio, come si è già accennato, è stato identificato con sicurezza con il Laur. 85.9, che fu dunque il manoscritto principale adoperato alla base della traduzione ficiniana, anche se certamente non l’unico.184 Un ruolo importante dovette avere, inoltre, il contatto con Bessarione: a questo proposito, è da segnalare che per l’Ippia minore la traduzione di Ficino offre tre correzioni che si incontrano, come correzioni di seconda mano, anche in Coisl. 155, che come si è visto appartenne al cardinale (367b7 περὶ λογισμῶν Coisl. 1552 : «in computandis numeris» Ficinus ; 375a2 ᾗ ante ἄκων add. Coisl. 1552 et Ven. 186, «an qua invitus» Ficinus; 375e6 Ναί post ἀδικωτέρα add.

182 Cf. Hankins (1991), 817. A differenza che per altri dialoghi, non risultano traduzioni del solo Ippia minore. 183 Sulla traduzione di Ficino e la sua incidenza nelle edizioni del testo platonico, cf. in particolare quanto osservato da Brockmann (1992), 220-29; Berti (1996), 96-97; Martinelli Tempesta (1997), 155. 184 Per l’identificazione di Laur. 85.9 come copia ficiniana, cf. supra, n. 169. Un altro manoscritto adoperato sicuramente da Ficino è il Laurentianus Conv. Soppr. 180, oltre alle due antologie di testi sull’anima e sull’amore, rispettivamente Riccardianus 92 e Ambrosianus F 9, compilate da Ficino stesso sulla base anche di altri manoscritti non identificabili con sicurezza: cf. Brockmann (1992), 222-29; Martinelli Tempesta (1997), 155-56, con ulteriore bibliografia. Nessuno di questi tre codici contiene tuttavia l’Ippia minore, per il quale si può ragionevolmente supporre che Ficino si sia basato essenzialmente su Laur. 85.9; secondo quanto emerge dalle indagini di Vancamp (1996a), 50-51, pur non essendo dimostrabile un rapporto diretto con Laur. 85.9, la versione ficiniana si colloca con sicurezza nella prima famiglia, e forse, più precisamente, nel ramo di Par. 1808 («Für den Hippias minor hat wohl Ficinus einen Abkömmling des Parisinus 1808 herangezogen»), cui, come si è già detto, appartiene appunto Laur. 85.9.

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6. Le traduzioni latine

Coisl. 1552, «ita est» Ficinus).185 Oltre a queste correzioni, che non sono dunque attribuibili a Ficino stesso, sono da ricordare per il testo dell’Ippia minore anche alcuni casi in cui la traduzione di un passo difficile propone implicitamente una soluzione che precorre alcune congetture moderne, e merita quindi di essere menzionata in apparato:186 367d5 εἰ ἄλλως γε σὺ βούλει] ἄλλως del. Bekker, non vertit Ficinus («ut lubet»); 368c6 ἐπειδὴ τὴν ζώνην ἔφησθα] ἐπιδεικνύς vel ἐπιδείξας Schanz, «cingulum dicebas ostendisse te» vertit Ficinus. A questi due casi è poi da aggiungere anche quello di 367a7, un passo sicuramente corrotto in cui la traduzione di Ficino suggerisce una correzione forse eccessivamente normalizzante rispetto a quella generalmente accolta di Bessarione, ma forse anche più plausibile, ovvero la semplice integrazione della preposizione περὶ prima dell’accusativo ἀριθμόν tràdito dai manoscritti (ἀριθμὸν codd.] ἀριθμῶν Ven. 1862 : «de numero» vertit Ficinus).187 L’opera di Cornarius, invece, consiste in una traduzione latina accompagnata da una serie di Eclogae, ovvero delle appendici apposte al termine di ciascuna tetralogia, in cui sono raccolte le osservazioni critiche e le emendazioni ai dialoghi in questione.188 Per la sua traduzione, Cornarius stesso dichiara di aver adoperato le tre precedenti edizioni a stampa, alle quali è tuttavia da aggiungere anche la traduzione di Ficino, che non è citata espressamente. Oltre a queste, egli fa menzione anche di un codice «ex bi-

185 Per queste tre correzioni, cf. Vancamp (1996b), 51, il quale nota l’accordo con correzioni antiche, ma non fa cenno ad un possibile contatto con il Bessarione; in Vancamp (1996a), 51, le correzioni di 375a2 e 375e6 sono direttamente presentate come congetture di Ficino. Sul rapporto con Bessarione, per cui allo stato attuale della ricerca appare più probabile immaginare un contatto personale diretto tra i due studiosi piuttosto che l’uso da parte di Ficino dei manoscritti del cardinale, cf. soprattutto Berti (1996), 143-45, il quale nota come le convergenze con Coisl. 155, Ven. 186 o Ven. 187 rilevate da Boter (1989), 275, Brockmann (1992), 217 e 224, e Martinelli Tempesta (1997), 169-70, riguardino solo lezioni che si presentano nei codici in questione come correzioni recenziori, attribuibili a Bessarione stesso, situazione che sembra trovare parziale conferma anche nel caso dell’Ippia minore, perlomeno per quel che riguarda le correzioni di 375a2 e 375e6 che si ritrovano anche in Ven. 186, anche se non per la correzione in 367b7, che si trova in Coisl. 155 ma non in Ven. 186, che legge περὶ λογισμὸν con il resto della tradizione manoscritta. 186 Su questo punto, e sulla difficoltà di parlare tout court di congetture desumibili dalla traduzione di Ficino, cf. quanto osservato da Berti (1996), 97, il quale nota che «dal punto di vista di un traduttore non si pone la distinzione tra luoghi corrotti e luoghi incomprensibili». 187 Cf. Commento ad loc. 188 Le Eclogae sono state edite separatamente da Fischer (1771).

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NOTA CRITICA

bliotheca Hassenstenia», ovvero appartenente alla biblioteca di Bohuslav Hassenstein von Lobkovič, che non sembra tuttavia identificabile con il Lobcovicianus Roudnicensis VI Fa 1 e deve ritenersi dunque, probabilmente, perduto.189 Per l’Ippia minore, Cornarius offre in tutto quattro correzioni rispetto alle edizioni precedenti:190 368d4 διαγραμμάτων pro γραμμάτων; 375a2 ᾗ ante ἄκων; 375a8 ἄμεινον pro ἀμείνονος; 375a5 τῇ δὲ τῆς πονηρίας pro τὰ δὲ τῆς πονηρίας. Di queste, solo la prima (368d4) può essere considerata con sicurezza congettura, peraltro poco felice, di Cornarius stesso. Le altre tre emendazioni trovano invece riscontro in parte della tradizione manoscritta, senza che però sia possibile identificare con maggiore precisione la fonte adoperata, se non nel primo caso, in cui la fonte non dichiarata è presumibilmente la traduzione di Ficino (375a2 ᾗ ante ἄκων cum Coisl. 1552 Ven. 186, «an qua invitus» Ficinus); negli altri, la correzione di Cornarius si accorda ora con i manoscritti della prima famiglia, ora con quelli della seconda (375a5 τῇ δὲ τῆς πονηρίας cum T; 375a8 ἄμεινον cum F). Per il luogo particolarmente vessato di 375a5, per il quale Cornarius propone di accettare il testo τῇ δὲ τῆς πονηρίας di T, più interessante appare l’interpretazione (con la traduzione) che egli dà del sintagma in questione, che sarebbe da considerarsi equivalente a τῇ δὲ πονηροτέρᾳ, scil. ψυχῇ («deteriore»), che è esattamente quanto ci si aspetterebbe nel testo e che non si trova però in nessun manoscritto.191

7. La tradizione indiretta L’Ippia minore non è certo tra i dialoghi platonici più letti nell’antichità. Se si eccettuano le testimonianze relative al titolo, incluse perlopiù in cataloghi generali dell’opera platonica, non vi sono effettive citazioni verbali del dialogo, ma solo riprese e allusioni, raramente letterali, il cui valore non ri-

189 Cf. Boter (1988), ripreso poi in Boter (1989), 246-47, e le osservazioni di Martinelli Tempesta (1997), 200-02, secondo il quale non si può escludere che Cornarius abbia adoperato un codice andato distrutto nell’incendio della biblioteca nel 1525, essendo verosimile che egli abbia lavorato per vari decenni al testo di Platone, iniziando dunque forse prima della data dell’incendio. Vancamp (1996a), 53, e (1996b), 52, ribadisce l’impossibilità di stabilire un contatto tra Cornarius e Lobc. 190 Nell’edizione del 1561, alla pagina 552; cf. Fischer (1771), 89. Sulle correzioni di Cornarius all’Ippia minore, cf. poi Vancamp (1996a), 52-53, e (1996b), 52. 191 Scrive Cornarius: «Nam τῇ δὲ τῆς πονηρίας idem est ac τῇ δὲ πονηροτέρᾳ». Non seguono però, purtroppo, prove a sostegno di questa affermazione. Sul passo cf. Commento ad loc.

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7. La tradizione indiretta

siede tanto in una eventuale utilità ai fini della constitutio textus, quanto piuttosto in un più generale interesse storico riguardo alla fortuna del dialogo e ai motivi della sua lettura nell’antichità. Ecco una lista delle testimonianze, che non mira, comunque, alla completezza:192 Titulus

363c7-d2 365d-369b

368b-d 368b5-6 368d1-2 373c8-9 373c-376b

374a1-2 375b5

Aristot. Metaph. 5.29.1025a6 (ἐν τῷ Ἱππίᾳ), unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 436, 26-27 Hayduck (ἐν τῷ Ἱππίᾳ Πλάτωνος) et Asclep. In Aristot. Metaph., CAG VI.2 p. 353, 33 Hayduck (ἐν τῷ Ἱππίᾳ τῷ διαλόγῳ); Diog. Laert. 3.51 (τοῦ ἀνατρεπτικοῦ, scil. γένους, … Ἱππίαι δύο) et 60 (Ἱππίαι δύο … β’ περὶ τοῦ ψεύδους); Catalogus operum Oxyrhynchites = PSILaur inv. 19662 v = PACK² n. 2087 = CPF I n. 3 (Ἱππίαι β’); Albin. Prol. 3 = VI p. 146 Hermann (Ἱππίας); Olympiod. In Alc. I, 3, 7-8 = p. 6 Westerink (Ἱππίας μείζων καὶ ἐλάττων); Themist. Or. 29, 345c-d = II 176, p. 5-6 Schenkl (ἐν τῷ βραχυτέρῳ Ἱππίᾳ) resp. fort. Luc. 62.1, III p. 347, 3-4 Macleod totum locum resp. Aristot. Metaph. 5.29, 1025a6-8 Ross (unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 436, 25-437, 7 Hayduck) totum locum resp. Cic. De or. 3.127 et D. Chrys. Or. 71.2 (= II p. 181, 11-17 Arnim) (ἔφησθα … ἔχων) resp. Philod. De Vit., p. 32 Jensen (= P. Herc. 1008, col. 18, 18-22) resp. fort. Philostr. Vit. Soph. 1.11.7 (= II p. 14, 14-15 Kayser) (οἷμαι … ἀγαθόν) resp. Method. Symp. 11.297 (= p. 138, 31-139, 2 Bonwetsch) totum locum resp. Aristot. Metaph. 5.29.1025a8-13 (unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 437, 7-25 Hayduck; Asclep. In Aristot. Metaph., CAG VI.2 p. 353, 33-354, 5 Hayduck) (τί δ’ … ἀμείνων) resp. Method. Symp. 11.300 (= p. 140, 7 Bonwetsch) (ἰατρικωτέρα) resp. fort. Method. Symp. 11.300 (= p. 140, 4 Bonwetsch)

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NOTA CRITICA

375e1-3

(οὐκοῦν … ἐστι) resp. Method. Symp. 11.301 (= p. 140, 24 Bonwetsch)

La testimonianza più antica, della quale si è già avuto modo di parlare a proposito della questione dell’autenticità,193 è quella di Aristotele, il quale menziona esplicitamente il titolo del dialogo, pur senza indicarne l’autore (ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος, Metaph. 5.29, 1025a6), e ne riassume poi l’argomentazione per sottoporla a critica (Metaph. 5.29, 1025a6-13). Da Aristotele dipendono poi i commentatori della Metafisica, Alessandro di Afrodisia (CAG I, p. 436, 25-437, 18 Hayduck) e Asclepio (CAG VI.2, p. 353, 33-354, 5 Hayduck).194 Al di fuori della tradizione aristotelica, il principale motivo di interesse del dialogo risiede invece nella raffigurazione del personaggio di Ippia. Il passo che risulta aver avuto una maggiore fortuna, in questo senso, è il discorso di Socrate in cui sono elencate le numerose arti di Ippia (368b-e), cui fanno riferimento, seppur senza citare la fonte platonica, sia Cicerone (De Or. 3.127) sia Dione di Prusa (Or. 71.2), oltre che Filodemo di Gadara (P. Herc. 1008, col. 18, rr. 18-22 = Philod. De vitiis, p. 32 Jensen), il quale fa invece espressamente il nome di Platone (Πλάτων, r. 20).195 La testimonianza di Filodemo è piuttosto breve e si limita all’indicazione generale secondo cui Ippia avrebbe indossato sul suo corpo solo oggetti di sua stessa fabbricazione (ὅσα περὶ τὸ σῶμ’ εἶχεν, αὐτῷ πεποιηκέναι λέγειν, rr. 21-22), con una ripresa di Hipp. min. 368b5-6 (ἃ εἶχες περὶ τὸ σῶμα ἅπαντα σαυτοῦ ἔργα ἔχων). Cicerone e Dione di Prusa, invece, rielaborano e parafrasano l’intero passo, pur mantenendo una certa fedeltà al testo platonico. Dalla testimonianza di Dione, in particolare, è presumibilmente derivata allo Schanz la proposta di correggere l’ἐπειδή tràdito in 368c6, passo leggermente anacolutico, nel participio ἐπιδεικνύς vel ἐπιδείξας, verbo che si incontra nel passo dioneo (ἐπιδεικνύς, D. Chrys. Or. 71.2, r. 14, espunto da Arnim; ἐπιδεικνύων, r. 17). È da notare poi che entrambi, volendo sottolineare la

192 La lista dei Testimonia data da Vancamp (1996a), 64-65, include solo le citazioni esplicite di Ippia maggiore e Ippia minore, e si limita perciò, per quest’ultimo, alle testimonianze relative al titolo; ulteriori indicazioni di riprese e allusioni si possono però trovare in apparato. 193 Cf. supra, Introduzione, 7. «Autenticità e datazione». 194 Sulla critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepio cf. ora Longo (2016). 195 Sia la testimonianza di Dione che quella di Filodemo sono menzionate da Vancamp (1996a) in apparato, mentre quella di Cicerone, seppur ben nota, è esclusa.

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7. La tradizione indiretta

caratteristica peculiare di Ippia consistente nella sua abilità anche nelle tecniche artigianali, oltre che nell’oratoria e le arti intellettuali, invertono la struttura del discorso di Socrate, in cui, non senza ironia, le abilità intellettuali di Ippia venivano invece presentate solo per seconde, quasi come un’aggiunta (nec solum has artis, quibus liberales doctrinae atque ingenuae continerentur … se tenere sed anulum, quem haberet, etc., Cic. De Or. 3.127; οὐ μόνον ποιήματα … ἀλλὰ καὶ ἄλλα ἔργα, Dio Chrys. Or. 71.2, rr. 12-14 Arnim; cf. invece πρὸς δὲ τούτοις ποιήματα κτλ., Hipp. min. 368c8 ss.). A queste testimonianze è poi da aggiungere quella di Flavio Filostrato, il quale, nella sezione dedicata a Ippia nelle sue Vitae Sophistarum (1.11.1-8 = 86 A 2 DK), sembra tenere presente il brano in questione dell’Ippia minore, oltre all’Ippia maggiore che costituisce la sua fonte principale, come dimostra il riferimento a discorsi tenuti a Olimpia, che non può essere tratto dall’Ippia maggiore (ἔθελγε τὴν Ἑλλάδα ἐν Ὀλυμπίᾳ λόγοις ποικίλοις καὶ πεφροντισμένοις εὖ, Philostr. Vit. Soph. 1.11.7).196 Una possibile reminiscenza dell’Ippia minore, relativa ad un passo precedente ma sempre incentrata su Ippia, è poi da individuarsi nell’Herodotus di Luciano, che nell’iniziale descrizione del viaggio di Erodoto a Olimpia sembra guardare alla prima battuta di Ippia nel dialogo (παρελθὼν ἐς τὸν ὀπισθόδομον οὐ θεατήν, ἀλλ’ἀγωνιστὴν παρεῖχεν ἑαυτὸν Ὀλυμπίων ᾄδων τὰς ἱστορίας κτλ., Luc. 62.1; cf. ἀεὶ ἐπανιὼν οἴκοθεν ἐξ ῎Ηλιδος εἰς τὸ ἱερὸν παρέχω ἑμαυτὸν καὶ λέγοντα κτλ., Hipp. min. 363d1 ss.; cf. anche ἀγωνιούμενος, 364a5, e ἀγωνίζεσθαι, a8); Ippia è peraltro citato poco oltre, tra i sapienti che avevano pronunciato discorsi al cospetto dell’adunanza panellenica di Olimpia (Luc. 62.3). Un certo numero di riferimenti si incontra, infine, nel Simposio di Metodio di Olimpo, in particolare nella sezione finale (Symp. 11.293-301), che si rifà interamente, nella struttura dialogica, all’ultima parte dell’argomentazione dell’Ippia minore (373c-376c). Oltre ai riferimenti già individuati da Bonwetsch (Symp. 11.300, p. 140, 4 e p. 140, 7 Bonwetsch; Symp. 301, p. 140, 24 Bonwetsch), sono da segnalare anche una parafrasi (ἔχε δή – οἶμαι γὰρ ἐπὶ τὴν εὕρεσιν τῶν ὄντως κρειττόνων ὀρθότερον ἡμᾶς ἐντεῦθεν διελθεῖν – καί μοι φράσον· καλεῖς τινα κυβερνήτην ἀγαθόν, Method. Symp. 11.297, p. 138, 31-139, 2 Bonwetsch, cf. οἶμαι οὖν ἐπὶ τὴν σκέψιν ὀρθότατ’ ἂν ὧδε ἐλθεῖν. ἀλλ’ἀπόκριναι· καλεῖς τινα δρομέα ἀγαθόν, Hipp. min. 373c8-9) e una

196 Il rimando all’Ippia minore è segnalato in 86 A 2 DK, dove è indicata come fonte del passo la testimonianza 86 A 12 DK = Hipp. min. 368b-d, ma non vi si fa cenno in Vancamp (1996a). Se si vuole individuare un riferimento più preciso, esso potrebbe essere costituito dai πολλοὺς λόγους καὶ παντοδαποὺς συγκειμένους (Hipp. min. 368d1-2; cf. λόγοις ποικίλοις καὶ πεφροντισμένοις εὖ, Philostr. V. Soph. 1.11.7).

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NOTA CRITICA

citazione quasi letterale (τί δαὶ καὶ ἐν πάλῃ; πότερον παλαιστὴς ἀμείνων κτλ., Method. Symp. 11.300, p. 140, 7 Bonwetsch, cf. τί δ’ ἐν πάλῃ; πότερος παλαιστὴς ἀμείνων κτλ., Hipp. min. 374a1-2). Le testimonianze di Metodio sono sicuramente quelle che più si avvicinano ad una citazione del dialogo, ma non si tratta in ogni caso di citazioni esplicite, quanto piuttosto di riprese integrate nel testo e adattate al suo contenuto, per cui anche in questo caso il loro valore per la constitutio textus è piuttosto limitato. Non si segnalano, comunque, divergenze che sembrino presupporre lezioni diverse da quelle tramandate dai nostri manoscritti.

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CONSPECTUS SIGLORUM

Codices potiores T W F

Venetus Marcianus gr. IV, 1, saec. X Vindobonensis Suppl. gr. 7, saec. XI ex. Vindobonensis Suppl. gr. 39, saec. XIII ex.-XIV in.

t, w, f

manus recentiores in codd. T, W, F

P

Vaticanus Palatinus gr. 173, saec. X (excerpta perpauca)

Homeri A

Venetus Marcianus gr. 454 (coll. 822)

Apographa quae raro laudantur Coisl. 155 Par. 1808 Par. 1811 Par. 1812 Vat. 226 Vat. 228 Ven. 189 Ven. 186 Ven. 1862 Ven. 184

Parisinus Coislinianus 155, saec. XIV in. Parisinus gr. 1808, saec. XI-XII Parisinus gr. 1811, saec. XIV in. Parisinus gr. 1812, saec. XIV in. Vaticanus gr. 226, saec. XIV in. Vaticanus gr. 228, saec. XIV in. Venetus Marcianus gr. 189, saec. XIV in. Venetus Marcianus gr. 186, saec. XV manus Bessarionis ut vid. Venetus Marcianus gr. 184, saec. XV

Editiones translationesque antiquae quae in apparatu laudantur Ficinus Ald Cornarius Stephanus

Marsilii Ficini versio Latina, Florentiae 1484. Editio princeps Aldina, Venetiis 1513. Iani Cornarii versio Latina, Basileae, Froben, 1561; eiusdem Eclogae, Lipsiae 1771. Henrici Stephani editio, Genevae 1578.

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CONSPECTUS SIGLORUM

Viri docti qui nominatim in apparatu laudantur Ast Beck Bekker Burnet Croiset Diels Hirschig Schanz Schleiermacher Stallbaum Sydenham Vancamp Turicenses

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F. Ast, Platonis quae exstant opera, IX, Lipsiae 1825. C.D. Beck, Platonis Opera, I, Lipsiae 1814. I. Bekker, Platonis Dialogi Graece et Latine, III, Berolini 1816. J. Burnet, Platonis Opera, III, Oxonii 1909² (1903¹). M. Croiset, Platon. Oeuvres complètes, I, Parisiis 1920. H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, IIII, Berolini 1951-526. R.B. Hirschig, Platonis Opera Graece et Latine, I, Parisiis 1856. M. Schanz, Platonis Opera quae feruntur omnia, IX, Lipsiae 1885. F. Schleiermacher, Platons Werke. Übersetzt mit Einleitungen und Anmerkungen, I.2, Berolini 1805. J.G. Stallbaum, Platonis Opera omnia, IV.2, Gothae et Erfurdiae 1833. F. Sydenham, T. Taylor, The Works of Plato. Translated from the Greek, IV, Frome 1804. B. Vancamp, Platon. Hippias major – Hippias minor, Stuttgardiae 1996. J.G. Baiter, J.K. Orelli, A.W. Winckelmann, Platonis Opera quae feruntur omnia, VI, Turici 1839.

ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ [ἢ περὶ τοῦ ψεύδους]

ΕΥ. Σὺ δὲ δὴ τί σιγᾷς, ὦ Σώκρατες, Ἱππίου τοσαῦτα ἐπιδειξαμένου, καὶ οὐχὶ ἢ συνεπαινεῖς τι τῶν εἰρημένων ἢ καὶ ἐλέγχεις, εἴ τί σοι μὴ καλῶς δοκεῖ εἰρηκέναι; ἄλλως τε ἐπειδὴ καὶ αὐτοὶ λελείμμεθα, οἳ μάλιστ’ ἂν ἀντιποιησαίμεθα μετεῖναι ἡμῖν τῆς ἐν φιλοσοφίᾳ διατριβῆς. ΣΩ. Καὶ μήν, ὦ Εὔδικε, ἔστιν γε ἃ ἡδέως ἂν πυθοίμην Ἱππίου ὧν νῦν δὴ ἔλεγεν περὶ Ὁμήρου. καὶ γὰρ τοῦ σοῦ πατρὸς Ἀπημάντου ἤκουον ὅτι ἡ Ἰλιὰς κάλλιον εἴη ποίημα τῷ Ὁμήρῳ ἢ ἡ Ὀδύσσεια, τοσούτῳ δὲ κάλλιον, ὅσῳ ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Ὀδυσσέως εἴη· ἑκάτερον γὰρ τούτων τὸ μὲν εἰς Ὀδυσσέα ἔφη πεποιῆσθαι, τὸ δ’εἰς Ἀχιλλέα. περὶ ἐκείνου οὖν ἡδέως ἄν, εἰ βουλομένῳ ἐστὶν Ἱππίᾳ, ἀναπυθοίμην ὅπως αὐτῷ δοκεῖ περὶ τοῖν ἀνδροῖν τούτοιν, πότερον ἀμείνω φησὶν εἶναι, ἐπειδὴ καὶ ἄλλα πολλὰ καὶ παντοδαπὰ ἡμῖν ἐπιδέδεικται καὶ περὶ ποιητῶν τε ἄλλων καὶ περὶ Ὁμήρου. ΕΥ. Ἀλλὰ δῆλον ὅτι οὐ φθονήσει Ἱππίας, ἐάν τι αὐτὸν ἐρωτᾷς, ἀποκρίνεσθαι. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία, ἐάν τι ἐρωτᾷ σε

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Titulus Aristot. Metaph. 5.29.1025a6 (ἐν τῷ Ἱππίᾳ), unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 436, 26-27 Hayduck (ἐν τῷ Ἱππίᾳ Πλάτωνος) et Asclep. In Aristot. Metaph., CAG VI.2 p. 353, 33 Hayduck (ἐν τῷ Ἱππίᾳ τῷ διαλόγῳ); Diog. Laert. 3.51 (τοῦ ἀνατρεπτικοῦ, scil. γένους, … Ἱππίαι δύο) et 60 (Ἱππίαι δύο … β’ περὶ τοῦ ψεύδους); Catalogus operum Oxyrhynchites = PSILaur inv. 19662 v = PACK² n. 2087 = CPF I n. 3 (Ἱππίαι β’); Albin. Prol. 3 = VI p. 146 Hermann (Ἱππίας); Olympiod. In Alc. I, 3, 7-8 = p. 6 Westerink (Ἱππίας μείζων καὶ ἐλάττων); Themist. Or. 29, 345c-d = II 176, p. 5-6 Schenkl (ἐν τῷ βραχυτέρῳ Ἱππίᾳ) __________ Titulus Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ καλοῦ T : Πλάτωνος Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ καλοῦ W : Ἱππίας ἐλάττων F : Πλάτωνος Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ ψεύδους Ven. 1862 (unde Ven. 184) : ἀνατρεπτικός add. Ven. 1862 (unde Ven. 184) cum Diog. Laert. 3.51 ǀ 363a4 καὶ om. W ǀ a6 πυθοίμην] ἀναπυθοίμην Hirschig | b3 κάλλιον TWf : -ίων F ǀ ὅσῳ W : -ον TF ǀ b4 τούτων F : τῶν ποιημάτων TW ǀ c2 τε TW : τε καὶ F ǀ c4 τι om. F : suppl. f ǀ c5 ἀποκρίνεσθαι TW : -ασθαι F

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ

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Σωκράτης, ἀποκρινῇ; ἢ πῶς ποιήσεις; ΙΠ. Καὶ γὰρ ἂν δεινὰ ποιοίην, ὦ Εὔδικε, εἰ Ὀλυμπίαζε μὲν εἰς τὴν τῶν Ἑλλήνων πανήγυριν, ὅταν τὰ Ὀλύμπια ᾖ, ἀεὶ ἐπανιὼν οἴκοθεν ἐξ Ἤλιδος εἰς τὸ ἱερὸν παρέχω ἐμαυτὸν καὶ λέγοντα ὅτι ἄν τις βούληται ὧν ἄν μοι εἰς ἐπίδειξιν παρεσκευασμένον ᾖ, καὶ ἀποκρινόμενον τῷ βουλομένῳ ὅτι ἄν τις ἐρωτᾷ, νῦν δὲ τὴν Σωκράτους ἐρώτησιν φύγοιμι. ΣΩ. Μακάριόν γε, ὦ Ἱππία, πάθος πέπονθας, εἰ ἑκάστης Ὀλυμπιάδος οὕτως εὔελπις ὢν περὶ τῆς ψυχῆς εἰς σοφίαν ἀφικνῇ εἰς τὸ ἱερόν· καὶ θαυμάσαιμ’ἂν εἴ τις τῶν περὶ τὸ σῶμα ἀθλητῶν οὕτως ἀφόβως τε καὶ πιστευτικῶς ἔχων τῷ σώματι ἔρχεται αὐτόσε ἀγωνιούμενος, ὥσπερ σὺ φῂς τῇ διανοίᾳ. ΙΠ. Εἰκότως, ὦ Σώκρατες, ἐγὼ τοῦτο πέπονθα· ἐξ οὗ γὰρ ἦργμαι Ὀλυμπίασιν ἀγωνίζεσθαι, οὐδενὶ πώποτε κρείττονι εἰς οὐδὲν ἐμαυτοῦ ἐνέτυχον. ΣΩ. Καλόν γε λέγεις, ὦ Ἱππία, καὶ τῇ Ἠλείων πόλει τῆς σοφίας ἀνάθημα τὴν δόξαν εἶναι τὴν σὴν καὶ τοῖς γονεῦσι τοῖς σοῖς. ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι; ἡνίκα μὲν γὰρ πολλοὶ ἔνδον ἦμεν καὶ σὺ τὴν ἐπίδειξιν ἐποιοῦ, ἀπελείφθην σου τῶν λεγομένων—ὤκνουν γὰρ ἐπανερέσθαι, διότι ὄχλος τε πολὺς ἔνδον ἦν, καὶ μή σοι ἐμποδὼν εἴην ἐρωτῶν τῇ ἐπιδείξει—νυνὶ δὲ ἐπειδὴ ἐλάττους τέ ἐσμεν καὶ Εὔδικος ὅδε κελεύει ἐρέσθαι, εἰπέ τε καὶ δίδαξον ἡμᾶς σαφῶς, τί ἔλεγες περὶ τούτοιν τοῖν ἀνδροῖν; πῶς διέκρινες αὐτούς; IΠ. Ἀλλ’ ἐγώ σοι, ὦ Σώκρατες, ἐθέλω ἔτι σαφέστερον

363c7-d2 resp. fort. Luc. 62.1, III p. 347, 3-4 Macleod; 363c7-d8 (καὶ γὰρ … φύγοιμι) + 364a7-9 (ἐξ οὗ … ἐνέτυχον) = 86 A 8 DK = 36 D8 + D 9 Laks-Most __________ c8 ὅταν τὰ Ὀλύμπια ᾖ del. Naber (1861), 54 = (1908), 271 ǀ d2 ὧν] ὅτι τ’ Diels ǀ μοι TW : ἐμοὶ F ǀ d3 παρεσκευασμένον] -μένων Stallbaum ǀ d4 φύγοιμι TW : φεύγ- F ǀ 364a4 πιστευτικῶς] πυκτευτικῶς γρ. Par. 18082mg ǀ a7 τοῦτο om. F : suppl. f ǀ a8 Ὀλυμπίασιν Turicenses : Ὀλυμπιάσιν codd. ǀ οὐδενὶ TWf : οὐδὲν F ǀ b1 γε om. F ǀ b2 τῆς σοφίας TW : τῆς σῆς σοφίας F ǀ b2 εἶναι del. Baumann apud Schanz : εἶναι con. Vermehren (1870), 9 : οἶμαι pro εἶναι Bury (1939), 23 ǀ b9 ὅδε TWf : δὲ F ǀ c3 ἐθέλω TW : θέλω F ǀ c3 ἔτι σαφέστερον TW : σαφέστερον ἔτι F

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ

ἢ τότε διελθεῖν ἃ λέγω καὶ περὶ τούτων καὶ ἄλλων. φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα. ΣΩ. Βαβαί, ὦ Ἱππία· ἆρ’ ἄν τί μοι χαρίσαιο τοιόνδε, μή μου καταγελᾶν, ἐὰν μόγις μανθάνω τὰ λεγόμενα καὶ πολλάκις ἀνερωτῶ; ἀλλά μοι πειρῶ πρᾴως τε καὶ εὐκόλως ἀποκρίνεσθαι. ΙΠ. Αἰσχρὸν γὰρ ἂν εἴη, ὦ Σώκρατες, εἰ ἄλλους μὲν αὐτὰ ταῦτα παιδεύω καὶ ἀξιῶ διὰ ταῦτα χρήματα λαμβάνειν, αὐτὸς δὲ ὑπὸ σοῦ ἐρωτώμενος μὴ συγγνώμην τ’ἔχοιμι καὶ πρᾴως ἀποκρινοίμην. ΣΩ. Πάνυ καλῶς λέγεις. ἐγὼ γάρ τοι, ἡνίκα μὲν ἄριστον τὸν Ἀχιλλέα ἔφησθα πεποιῆσθαι, ἐδόκουν σου μανθάνειν ὅτι ἔλεγες, καὶ ἡνίκα τὸν Νέστορα σοφώτατον· ἐπειδὴ δὲ τὸν Ὀδυσσέα εἶπες ὅτι πεποιηκὼς εἴη ὁ ποιητὴς πολυτροπώτατον, τοῦτο δ’, ὥς γε πρὸς σὲ τἀληθῆ εἰρῆσθαι, παντάπασιν οὐκ οἶδ’ ὅτι λέγεις. καί μοι εἰπέ, ἄν τι ἐνθένδε μᾶλλον μάθω· ὁ Ἀχιλλεὺς οὐ πολύτροπος τῷ Ὁμήρῳ πεποίηται; ΙΠ. Ἥκιστά γε, ὦ Σώκρατες, ἀλλ’ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, ἐπεὶ καὶ ἐν Λιταῖς, ἡνίκα πρὸς ἀλλήλους ποιεῖ αὐτοὺς διαλεγομένους, λέγει αὐτῷ ὁ Ἀχιλλεὺς πρὸς τὸν Ὀδυσσέα— Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’Ὀδυσσεῦ, χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀΐω·

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364c4-7 (φημὶ … Ὀδυσσέα) = 86 A 10 DK = 36 D 25 Laks-Most; 364e7-365b6 cf. schol. in Od. 1.1 l1 7, 5-8, 13 Pontani (= SSR V A 187, 3-15); 365a1-b2 Hom. Il. 9.308-10; 312-14 __________ c4 ἄλλων TW : περὶ ἄλλων F | c9 μόγις F : μόλις TW ǀ d5 τ’ om. F : suppl. f ǀ e1 καὶ om. F : suppl. f ǀ e5 οὐ TF : ὁ W ǀ e7-8 καὶ ἀληθέστατος om. TW | 365a3 ὥσπερ TWF : ᾗπερ Ven. 189 cum libris Homericis plerisque ǀ κρανέω TWF cum Homeri vulgata : φρονέω Ven. 189mg cum Aristarcho et nonnullis libris Homericis ǀ τελεεσθαι ὀϊω (sic) T : τετελέεσθαι ὀΐω W : τετελέσθαι ὀΐω F : τετελεσμένον ἔσται Ven. 189 cum libris Homericis

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ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν, ὅς χ’ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται. ἐν τούτοις δηλοῖ τοῖς ἔπεσιν τὸν τρόπον ἑκατέρου τοῦ ἀνδρός, ὡς ὁ μὲν Ἀχιλλεὺς εἴη ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς πολύτροπός τε καὶ ψευδής· ποιεῖ γὰρ τὸν Ἀχιλλέα εἰς τὸν Ὀδυσσέα λέγοντα ταῦτα τὰ ἔπη. ΣΩ. Νῦν ἤδη, ὦ Ἱππία, κινδυνεύω μανθάνειν ὃ λέγεις· τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, ὥς γε φαίνεται. ΙΠ. Μάλιστα, ὦ Σώκρατες· τοιοῦτον γὰρ πεποίηκεν τὸν Ὀδυσσέα Ὅμηρος πολλαχοῦ καὶ ἐν Ἰλιάδι καὶ ἐν Ὀδυσσείᾳ. ΣΩ. Ἐδόκει ἄρα, ὡς ἔοικεν, Ὁμήρῳ ἕτερος μὲν εἶναι ἀνὴρ ἀληθής, ἕτερος δὲ ψευδής, ἀλλ’ οὐχ ὁ αὐτός. ΙΠ. Πῶς γὰρ οὐ μέλλει, ὦ Σώκρατες; ΣΩ. Ἦ καὶ σοὶ δοκεῖ αὐτῷ, ὦ Ἱππία; ΙΠ. Πάντων μάλιστα· καὶ γὰρ ἂν δεινὸν εἴη εἰ μή. ΣΩ. Τὸν μὲν Ὅμηρον τοίνυν ἐάσωμεν, ἐπειδὴ καὶ ἀδύνατον ἐπανερέσθαι τί ποτε νοῶν ταῦτα ἐποίησεν τὰ ἔπη· σὺ δ’ἐπειδὴ φαίνῃ ἀναδεχόμενος τὴν αἰτίαν καὶ σοὶ συνδοκεῖ ταῦτα ἅπερ φῂς Ὅμηρον λέγειν, ἀπόκριναι κοινῇ ὑπὲρ Ὁμήρου τε καὶ σαυτοῦ. ΙΠ. Ἔσται ταῦτα· ἀλλ’ἐρώτα ἔμβραχυ ὅτι βούλει. ΣΩ. Τοὺς ψευδεῖς λέγεις οἷον ἀδυνάτους τι ποιεῖν, ὥσπερ τοὺς κάμνοντας, ἢ δυνατούς τι ποιεῖν; — ΙΠ. Δυνατοὺς ἔγωγε καὶ μάλα σφόδρα ἄλλα τε πολλὰ καὶ ἐξαπατᾶν ἀνθρώπους. — ΣΩ. Δυνατοὶ μὲν δή, ὡς ἔοικεν, εἰσὶ κατὰ τὸν σὸν λόγον

365d5 ἔμβραχυ expl. schol. T ad loc. (p. 178 Greene = p. 263-64 Cufalo); 365d-369b totum locum resp. Aristot. Metaph. 5.29.1025a6-8 (unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 436, 25-437, 7 Hayduck) __________ post ὀΐω sequitur Il. 9.311 ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος : om. TWF: add. Ven. 189mg cum libris Homericis | b2 ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται TWF cum Homeri vulgata : ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα Homeri A et al. ǀ b5 τε om. F : suppl. f ǀ b7 λέγεις TWf : -ει F ǀ c2 prius καὶ om. F : suppl. f ǀ alterum ἐν om. F ǀ c3 ἕτερος TW : ἑκάτερος F ǀ εἶναι ἀνὴρ TW : ἀνὴρ εἶναι F ǀ c8 ἐάσωμεν TW : -σομεν F ǀ d5 ἔμβραχυ T : ἐν βραχυ (sic) W : ἐν βραχεῖ F ǀ ὅτι TW : ὅπερ F | d7 τι om. F : suppl. f

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ

καὶ πολύτροποι· ἦ γάρ; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Πολύτροποι δ’ εἰσὶ καὶ ἀπατεῶνες ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης, ἢ ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος; —ΙΠ. Ὑπὸ πανουργίας πάντων μάλιστα καὶ φρονήσεως. —ΣΩ. Φρόνιμοι μὲν ἄρα εἰσίν, ὡς ἔοικεν. —ΙΠ. Ναὶ μὰ Δία, λίαν γε. —ΣΩ. Φρόνιμοι δὲ ὄντες οὐκ ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν, ἢ ἐπίστανται; — ΙΠ. Καὶ μάλα σφόδρα ἐπίστανται· διὰ ταῦτα καὶ κακουργοῦσιν. —ΣΩ. Ἐπιστάμενοι δὲ ταῦτα ἃ ἐπίστανται πότερον ἀμαθεῖς εἰσιν ἢ σοφοί; —ΙΠ. Σοφοὶ μὲν οὖν αὐτά γε ταῦτα, ἐξαπατᾶν. ΣΩ. Ἔχε δή· ἀναμνησθῶμεν τί ἐστιν ὃ λέγεις. τοὺς ψευδεῖς φῂς εἶναι δυνατοὺς καὶ φρονίμους καὶ ἐπιστήμονας καὶ σοφοὺς εἰς ἅπερ ψευδεῖς; —ΙΠ. Φημὶ γὰρ οὖν. — ΣΩ. Ἄλλους δὲ τοὺς ἀληθεῖς τε καὶ ψευδεῖς, καὶ ἐναντιωτάτους ἀλλήλοις; —ΙΠ. Λέγω ταῦτα. —ΣΩ. Φέρε δή· τῶν μὲν δυνατῶν τινες καὶ σοφῶν, ὡς ἔοικεν, εἰσὶν οἱ ψευδεῖς κατὰ τὸν σὸν λόγον. —ΙΠ. Μάλιστά γε. —ΣΩ. Ὅταν δὲ λέγῃς δυνατοὺς καὶ σοφοὺς εἶναι τοὺς ψευδεῖς εἰς αὐτὰ ταῦτα, πότερον λέγεις δυνατοὺς εἶναι ψεύδεσθαι ἐὰν βούλωνται, ἢ ἀδυνάτους εἰς ταῦτα ἅπερ ψεύδονται; —ΙΠ. Δυνατοὺς ἔγωγε. —ΣΩ. Ὡς ἐν κεφαλαίῳ ἄρα εἰρῆσθαι, οἱ ψευδεῖς εἰσιν οἱ σοφοί τε καὶ δυνατοὶ ψεύδεσθαι. —ΙΠ. Ναί. — ΣΩ. Ἀδύνατος ἄρα ψεύδεσθαι ἀνὴρ καὶ ἀμαθὴς οὐκ ἂν εἴη ψευδής. —ΙΠ. Ἔχει οὕτως. —ΣΩ. Δυνατὸς δέ γ’ἐστὶν ἕκαστος ἄρα, ὃς ἂν ποιῇ τότε ὃ ἂν βούληται, ὅταν βούληται· οὐχ ὑπὸ νόσου λέγω ἐξειργόμενον οὐδὲ τῶν τοιούτων, ἀλλὰ ὥσπερ σὺ δυνατὸς εἶ γράψαι τοὐμὸν ὄνομα ὅταν βούλῃ, οὕτω λέγω. ἢ οὐχ, ὃς ἂν οὕτως ἔχῃ, καλεῖς σὺ δυνατόν; —ΙΠ. Ναί. ΣΩ. Λέγε δή μοι, ὦ Ἱππία, οὐ σὺ μέντοι ἔμπειρος εἶ λογισμῶν καὶ λογιστικῆς; —ΙΠ. Πάντων μάλιστα, ὦ Σώ-

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e3-4 ὑπὸ πανουργίας ... τινος om. F | e7 ὅτι ποιοῦσιν ἢ ἐπίστανται om. TW ǀ 366a4 γὰρ οὖν TF : γοῦν W ǀ b3 ἀδυνάτους TWf : δυνατοὺς F ǀ b4 ὡς om. W ǀ b5 οἱ om. TW ǀ b7 δέ γ’ F : δ’ TW ǀ c1 ἐξειργόμενον] -ος Ven. 1862 (unde Ven. 184) ǀ c2 ἀλλὰ om. F : suppl. f ǀ c3 ἢ οὐχ ὃς ἂν TW : ἆρ’οὐχ ὡς ἂν F : ἆρ’οὐχ ὃς ἂν Ven. 186² (unde Ven. 184), prob. Slings (1998), 615-16 | c5 δή μοι TWf : δέ F

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κρατες. —ΣΩ. Οὐκοῦν εἰ καί τίς σε ἔροιτο τὰ τρὶς ἑπτακόσια ὁπόσος ἐστὶν ἀριθμός, εἰ βούλοιο, πάντων τάχιστα καὶ μάλιστ’ἂν εἴποις τἀληθῆ περὶ τούτου; —ΙΠ. Πάνυ γε. — ΣΩ. Ἆρα ὅτι δυνατώτατός τε εἶ καὶ σοφώτατος κατὰ ταῦτα; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Πότερον οὖν σοφώτατός τε εἶ καὶ δυνατώτατος μόνον, ἢ καὶ ἄριστος ταῦτα ἅπερ δυνατώτατός τε καὶ σοφώτατος, τὰ λογιστικά; —ΙΠ. Καὶ ἄριστος δήπου, ὦ Σώκρατες. —ΣΩ. Τὰ μὲν δὴ ἀληθῆ σὺ ἂν δυνατώτατα εἴποις περὶ τούτων· ἦ γάρ; —ΙΠ. Οἶμαι ἔγωγε. —ΣΩ. Τί δὲ τὰ ψευδῆ περὶ τῶν αὐτῶν τούτων; καί μοι, ὥσπερ τὰ πρότερα, γενναίως καὶ μεγαλοπρεπῶς ἀπόκριναι, ὦ Ἱππία· εἴ τίς σε ἔροιτο τὰ τρὶς ἑπτακόσια πόσα ἐστί, πότερον σὺ ἂν μάλιστα ψεύδοιο καὶ ἀεὶ κατὰ ταὐτὰ ψευδῆ λέγοις περὶ τούτων, βουλόμενος ψεύδεσθαι καὶ μηδέποτε ἀληθῆ ἀποκρίνεσθαι, ἢ ὁ ἀμαθὴς εἰς λογισμοὺς δύναιτ’ ἂν σοῦ μᾶλλον ψεύδεσθαι βουλομένου; ἢ ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο; —ΙΠ. Ναί, οὕτως ἔχει ὡς σὺ λέγεις. — ΣΩ. Ὁ ψευδὴς οὖν πότερον περὶ μὲν τἆλλα ψευδής ἐστιν, οὐ μέντοι περὶ ἀριθμόν, οὐδὲ ἀριθμῶν ἂν ψεύσαιτο; — ΙΠ. Καὶ ναὶ μὰ Δία περὶ ἀριθμόν. —ΣΩ. Θῶμεν ἄρα καὶ τοῦτο, ὦ Ἱππία, περὶ λογισμὸν καὶ ἀριθμὸν εἶναί τινα ἄνθρωπον ψευδῆ; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τίς οὖν ἂν εἴη οὗτος; οὐχὶ δεῖ ὑπάρχειν αὐτῷ, εἴπερ μέλλει ψευδὴς ἔσεσθαι, ὡς σὺ ἄρτι ὡμολόγεις, δυνατὸν εἶναι ψεύδεσθαι; ὁ γὰρ ἀδύνατος ψεύδεσθαι, εἰ μέμνησαι, ὑπὸ σοῦ ἐλέγετο ὅτι οὐκ ἄν ποτε ψευδὴς γένοιτο. —ΙΠ. Ἀλλὰ μέμνημαι καὶ ἐλέχθη οὕτως. —ΣΩ. Οὐκοῦν ἄρτι ἐφάνης σὺ δυνατώτατος ὢν ψεύδεσθαι περὶ λογισμῶν; —ΙΠ. Ναί, ἐλέχθη γέ τοι καὶ τοῦτο.

c7 σε om. F : suppl. f | d1 μάλιστ’ἂν εἴποις TW : μάλιστα λέγοις F ǀ τἀληθῆ TWf : ἀληθῆ F ǀ d6 δὴ om. F : suppl. f ǀ e5 ταὐτὰ TW : ταῦτα F ǀ 367a4-5 τὰ αὐτὰ TW : ταῦτα F ǀ a7 περὶ ἀριθμόν Par. 1811² et Vat. 228² : -ῶν TWF ǀ ἀριθμῶν Ven. 186² (unde Ven. 184) : -ὸν TWF : fort. legendum οὐδὲ ἀριθμὸν («de numero» vertit Ficinus) ǀ ψεύσαιτο TW : -δοιτο F ǀ a9 τε ante καὶ add. Vat. 228 et Ven. 189² : om. TWF ǀ b2 αὐτῷ F : -όν TWf ǀ ὡς TWf : ὃ F | b7 λογισμῶν Coisl. 155² : -όν TWF

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—ΣΩ. Ἆρ’οὖν καὶ δυνατώτατος εἶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν; —ΙΠ. Πάνυ γε. —ΣΩ. Οὐκοῦν ὁ αὐτὸς ψευδῆ καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν δυνατώτατος· οὗτος δ’ ἐστὶν ὁ ἀγαθὸς περὶ τούτων, ὁ λογιστικός. —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τίς οὖν ψευδὴς περὶ λογισμὸν γίγνεται, ὦ Ἱππία, ἄλλος ἢ ὁ ἀγαθός; ὁ αὐτὸς γὰρ καὶ δυνατός· οὗτος δὲ καὶ ἀληθής. — ΙΠ. Φαίνεται. —ΣΩ. Ὁρᾷς οὖν ὅτι ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθὴς περὶ τούτων, καὶ οὐδὲν ἀμείνων ὁ ἀληθὴς τοῦ ψευδοῦς; ὁ αὐτὸς γὰρ δήπου ἐστὶ καὶ οὐκ ἐναντιώτατα ἔχει, ὥσπερ σὺ ᾤου ἄρτι. ΙΠ. Οὐ φαίνεται ἐνταῦθά γε. ΣΩ. Βούλει οὖν σκεψώμεθα καὶ ἄλλοθι; ΙΠ. Εἰ [ἄλλως] γε σὺ βούλει. ΣΩ. Οὐκοῦν καὶ γεωμετρίας ἔμπειρος εἶ; —ΙΠ. Ἔγωγε. —ΣΩ. Τί οὖν; οὐ καὶ ἐν γεωμετρίᾳ οὕτως ἔχει· ὁ αὐτὸς δυνατώτατος ψεύδεσθαι καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ τῶν διαγραμμάτων, ὁ γεωμετρικός; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Περὶ ταῦτα οὖν ἀγαθὸς ἄλλος τις ἢ οὗτος; —ΙΠ. Οὐκ ἄλλος. —ΣΩ. Οὐκοῦν ὁ ἀγαθὸς καὶ σοφὸς γεωμέτρης δυνατώτατός γε ἀμφότερα; καὶ εἴπερ τις ἄλλος ψευδὴς περὶ διαγράμματα, οὗτος ἂν εἴη, ὁ ἀγαθός; οὗτος γὰρ δυνατός, ὁ δὲ κακὸς ἀδύνατος ἦν ψεύδεσθαι· ὥστε οὐκ ἂν γένοιτο ψευδὴς ὁ μὴ δυνάμενος ψεύδεσθαι, ὡς ὡμολόγηται. —ΙΠ. Ἔστι ταῦτα. ΣΩ. Ἔτι τοίνυν καὶ τὸν τρίτον ἐπισκεψώμεθα, τὸν ἀστρονόμον, ἧς αὖ σὺ τέχνης ἔτι μᾶλλον ἐπιστήμων οἴει εἶναι ἢ τῶν ἔμπροσθεν. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία; —ΙΠ. Ναί.— ΣΩ. Οὐκοῦν καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ταὐτὰ ταῦτά ἐστιν; — ΙΠ. Εἰκός γε, ὦ Σώκρατες. —ΣΩ. Καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ἄρα εἴπερ τις καὶ ἄλλος ψευδής, ὁ ἀγαθὸς ἀστρονόμος ψευδὴς

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c2 ὁ om. F | c3 δυνατώτατος F : δυνατός TWf ǀ c3-4 οὗτος ... λογιστικός del. Bekker, οὗτος ... τούτων del. Hirschig ǀ c4 prius ὁ om. F ǀ c5 λογισμὸν F : -ῶν TW ǀ c6 ὁ αὐτὸς F : οὗτος TW ǀ c8 καὶ om. F ǀ d5 ἄλλως del. Bekker, non vertit Ficinus («ut lubet») ǀ d7 ὁ om. F ǀ d8 δυνατώτατος om. F : suppl. f ǀ e1 οὐκ ἄλλος om. F : suppl. f ǀ e3 περὶ TW : πρὸς F ǀ e9 σὺ om. F : suppl. f | 368a2 ταυτὰ (sic) ταῦτά TW : ταυτὰ (sic) F : ταῦτα ταυτά (sic) f

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5 ἔσται, ὁ δυνατὸς ψεύδεσθαι. οὐ γὰρ ὅ γε ἀδύνατος· ἀμαθὴς γάρ. —ΙΠ. Φαίνεται οὕτως. —ΣΩ. Ὁ αὐτὸς ἄρα καὶ ἐν ἀστρονομίᾳ ἀληθής τε καὶ ψευδὴς ἔσται. ΙΠ. Ἔοικεν. ΣΩ. Ἴθι δή, ὦ Ἱππία, ἀνέδην οὑτωσὶ ἐπίσκεψαι κατὰ b πασῶν τῶν ἐπιστημῶν, εἴ που ἔστιν ἄλλως ἔχον ἢ οὕτως. πάντως δὲ πλείστας τέχνας πάντων σοφώτατος εἶ ἀνθρώπων, ὡς ἐγώ ποτέ σου ἤκουον μεγαλαυχουμένου, πολλὴν σοφίαν καὶ ζηλωτὴν σαυτοῦ διεξιόντος ἐν ἀγορᾷ ἐπὶ ταῖς 5 τραπέζαις. ἔφησθα δὲ ἀφικέσθαι ποτὲ εἰς Ὀλυμπίαν ἃ εἶχες περὶ τὸ σῶμα ἅπαντα σαυτοῦ ἔργα ἔχων· πρῶτον μὲν δακτύλιον—ἐντεῦθεν γὰρ ἤρχου—ὃν εἶχες σαυτοῦ ἔχειν c ἔργον, ὡς ἐπιστάμενος δακτυλίους γλύφειν, καὶ ἄλλην σφραγῖδα σὸν ἔργον, καὶ στλεγγίδα καὶ λήκυθον ἃ αὐτὸς ἠργάσω· ἔπειτα ὑποδήματα ἃ εἶχες ἔφησθα αὐτὸς σκυτοτομῆσαι, καὶ τὸ ἱμάτιον ὑφῆναι καὶ τὸν χιτωνίσκον· καὶ ὅ γε 5 πᾶσιν ἔδοξεν ἀτοπώτατον καὶ σοφίας πλείστης ἐπίδειγμα, ἐπειδὴ τὴν ζώνην ἔφησθα τοῦ χιτωνίσκου, ἣν εἶχες, εἶναι μὲν οἷαι αἱ Περσικαὶ τῶν πολυτελῶν, ταύτην δὲ αὐτὸς πλέξαι· πρὸς δὲ τούτοις ποιήματα ἔχων ἐλθεῖν, καὶ ἔπη καὶ τραγῳδίας d καὶ διθυράμβους, καὶ καταλογάδην πολλοὺς λόγους καὶ παντοδαποὺς συγκειμένους· καὶ περὶ τῶν τεχνῶν δὴ ὧν ἄρτι ἐγὼ ἔλεγον ἐπιστήμων ἀφικέσθαι διαφερόντως τῶν 368a8ἀνέδην expl. schol. T ad loc. (p. 179 Greene = p. 264 Cufalo); 368b2-d7 (πάντως … λαμπρότατος) = 86 A 12 DK = 36 D 15 Laks-Most; 368b-d totum locum resp. Cic. De or. 3.127 et D. Chrys. Or. 71.2 (= II p. 181, 11-17 Arnim); 368b5-6 (ἔφησθα … ἔχων) resp. Philod. De Vit., p. 32 Jensen (= P. Herc. 1008, col. 18, 18-22); 368c2 στλεγγίδα καὶ λήκυθον expl. schol. TWPexc ad loc. (p. 179 Greene = p. 264-65 Cufalo); 368d1-2 resp. fort. Philostr. Vit. Soph. 1.11.7 (II p. 14, 14-15 Kayser) __________ a5-6 οὐ ... γάρ del. Schanz : οὐ γὰρ ὅ γε ἀμαθής· ἀδύνατος γάρ con. Hoenebeek Hissink (1845), 9 | a7 ἔσται om. F ǀ b2 εἶ om. F : suppl. f ǀ b6 ἔργα om. F : suppl. f ǀ b7 σαυτοῦ TW : αὐτοῦ F ǀ c2 ἃ om. F ǀ c3 ἔπειτα TWf : ἔτι τὰ F : ἔπειτα τὰ Hirschig ǀ c6 ἐπειδὴ del. Ast : ἐπιδεικνὺς vel ἐπιδείξας con. Schanz, cf. D. Chrys. Or. 71.2 (ἐπιδεικνύς r. 14, sed del. Arnim; ἐπιδεικνύων, r. 17), «ostendisse» vertit Ficinus : ἔτι δὲ Beck ǀ ἔφησθα TW : ὃ ἔφησθα F ǀ c8 πρὸς TW : ἢ πρὸς F ǀ δὲ TWf : γε F | d3 ἐπιστήμων Stephanus : -ῶν TWf : -ην F ǀ ἀφικέσθαι TW : ἐφ- F

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ἄλλων, καὶ περὶ ῥυθμῶν καὶ ἁρμονιῶν καὶ γραμμάτων ὀρθότητος, καὶ ἄλλα ἔτι πρὸς τούτοις πάνυ πολλά, ὡς ἐγὼ δοκῶ μνημονεύειν· καίτοι τό γε μνημονικὸν ἐπελαθόμην σου, ὡς ἔοικε, τέχνημα, ἐν ᾧ σὺ οἴει λαμπρότατος εἶναι· οἶμαι δὲ καὶ ἄλλα πάμπολλα ἐπιλελῆσθαι. ἀλλ’ ὅπερ ἐγὼ λέγω, καὶ εἰς τὰς σαυτοῦ τέχνας βλέψας—ἱκαναὶ δέ—καὶ εἰς τὰς τῶν ἄλλων εἰπέ μοι, ἐάν που εὕρῃς ἐκ τῶν ὡμολογημένων ἐμοί τε καὶ σοί, ὅπου ἐστὶν ὁ μὲν ἀληθής, ὁ δὲ ψευδής, χωρὶς καὶ οὐχ ὁ αὐτός; ἐν ᾗτινι βούλει σοφίᾳ τοῦτο σκέψαι ἢ πανουργίᾳ ἢ ὁτιοῦν χαίρεις ὀνομάζων· ἀλλ’ οὐχ εὑρήσεις, ὦ ἑταῖρε— οὐ γὰρ ἔστιν—ἐπεὶ σὺ εἰπέ. ΙΠ. Ἀλλ’οὐκ ἔχω, ὦ Σώκρατες, νῦν γε οὕτως. ΣΩ. Οὐδέ γε ἕξεις, ὡς ἐγὼ οἶμαι· εἰ δ’ ἐγὼ ἀληθῆ λέγω, μέμνησαι ὃ ἡμῖν συμβαίνει ἐκ τοῦ λόγου, ὦ Ἱππία. ΙΠ. Οὐ πάνυ τι ἐννοῶ, ὦ Σώκρατες, ὃ λέγεις. ΣΩ. Νυνὶ γὰρ ἴσως οὐ χρῇ τῷ μνημονικῷ τεχνήματι— δῆλον γὰρ ὅτι οὐκ οἴει δεῖν—ἀλλὰ ἐγώ σε ὑπομνήσω. οἶσθα ὅτι τὸν μὲν Ἀχιλλέα ἔφησθα ἀληθῆ εἶναι, τὸν δὲ Ὀδυσσέα ψευδῆ καὶ πολύτροπον; ΙΠ. Ναί. ΣΩ. Νῦν οὖν αἰσθάνῃ ὅτι ἀναπέφανται ὁ αὐτὸς ὢν ψευδής τε καὶ ἀληθής, ὥστε εἰ ψευδὴς ὁ Ὀδυσσεὺς ἦν, καὶ ἀληθὴς γίγνεται, καὶ εἰ ἀληθὴς ὁ Ἀχιλλεύς, καὶ ψευδής, καὶ οὐ διάφοροι ἀλλήλων οἱ ἄνδρες οὐδ’ ἐναντίοι, ἀλλ’ ὅμοιοι; ΙΠ. Ὦ Σώκρατες, ἀεὶ σύ τινας τοιούτους πλέκεις λόγους, καὶ ἀπολαμβάνων ὃ ἂν ᾖ δυσχερέστατον τοῦ λόγου, τούτου ἔχῃ κατὰ σμικρὸν ἐφαπτόμενος, καὶ οὐχ ὅλῳ ἀγωνίζῃ τῷ πράγματι περὶ ὅτου ἂν ὁ λόγος ᾖ· ἐπεὶ καὶ νῦν, ἐὰν βούλῃ, ἐπὶ πολλῶν τεκμηρίων ἀποδείξω σοι ἱκανῷ λόγῳ Ὅμηρον Ἀχιλλέα πεποιηκέναι ἀμείνω Ὀδυσσέως καὶ ἀψευδῆ, τὸν δὲ δολερόν τε καὶ πολλὰ ψευδόμενον καὶ χείρω Ἀχιλλέως.

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e1 ἐπιλελῆσθαι TW : -μελῆσθαι F ǀ e3 που TW : ποτε F ǀ 369a1 ὁτιοῦν TWf : τί οὖν F ǀ a6 τι om. F : suppl. f ǀ a7 χρῇ t : χρὴ TF : χρῂ W ǀ ὁ αὐτὸς TWf : οἱ αὐτοὶ F ǀ ὢν om. F : suppl. f ǀ b6 ἐναντίοι TWf : -ία F | c5 πολλὰ ψευδόμενον TW : ψευδόμενον πολλὰ F

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εἰ δὲ βούλει, σὺ αὖ ἀντιπαράβαλλε λόγον παρὰ λόγον, ὡς ὁ ἕτερος ἀμείνων ἐστί· καὶ μᾶλλον εἴσονται οὗτοι ὁπότερος ἄμεινον λέγει. ΣΩ. Ὦ Ἱππία, ἐγώ τοι οὐκ ἀμφισβητῶ μὴ οὐχὶ σὲ εἶναι σοφώτερον ἢ ἐμέ· ἀλλ’ ἀεὶ εἴωθα, ἐπειδάν τις λέγῃ τι, προσέχειν τὸν νοῦν, ἄλλως τε καὶ ἐπειδάν μοι δοκῇ σοφὸς εἶναι ὁ λέγων, καὶ ἐπιθυμῶν μαθεῖν ὅτι λέγει διαπυνθάνομαι καὶ ἐπανασκοπῶ καὶ συμβιβάζω τὰ λεγόμενα, ἵνα μάθω· ἐὰν δὲ φαῦλος δοκῇ μοι εἶναι ὁ λέγων, οὔτε ἐπανερωτῶ οὔτε μοι μέλει ὧν λέγει. καὶ γνώσῃ τούτῳ οὓς ἂν ἐγὼ ἡγῶμαι σοφοὺς εἶναι· εὑρήσεις γάρ με λιπαρῆ ὄντα περὶ τὰ λεγόμενα ὑπὸ τούτου καὶ πυνθανόμενον παρ’ αὐτοῦ, ἵνα μαθών τι ὠφεληθῶ. ἐπεὶ καὶ νῦν ἐννενόηκα σοῦ λέγοντος, ὅτι ἐν τοῖς ἔπεσιν οἷς σὺ ἄρτι ἔλεγες, ἐνδεικνύμενος τὸν Ἀχιλλέα εἰς τὸν Ὀδυσσέα λέγειν ὡς ἀλαζόνα ὄντα, ἄτοπόν μοι δοκεῖ εἶναι, εἰ σὺ ἀληθῆ λέγεις, ὅτι ὁ μὲν Ὀδυσσεὺς οὐδαμοῦ φαίνεται ψευσάμενος, ὁ πολύτροπος, ὁ δὲ Ἀχιλλεὺς πολύτροπός τις φαίνεται κατὰ τὸν σὸν λόγον· ψεύδεται γοῦν. προειπὼν γὰρ ταῦτα τὰ ἔπη, ἅπερ καὶ σὺ εἶπες ἄρτι— ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν, ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ,

b ὀλίγον ὕστερον λέγει ὡς οὔτ’ ἂν ἀναπεισθείη ὑπὸ τοῦ Ὀδυσσέως τε καὶ τοῦ Ἀγαμέμνονος οὔτε μένοι τὸ παράπαν ἐν τῇ Τροίᾳ, ἀλλ’—

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αὔριον ἱρὰ Διὶ ῥέξας, φησί, καὶ πᾶσι θεοῖσιν, νηήσας εὖ νῆας, ἐπὴν ἅλαδε προερύσσω,

369d8 λιπαρῆ expl. schol. TWPexc ad loc. (p. 180 Greene = p. 266 Cufalo); 370a4-5 Hom. Il. 9.312-13; 370b4-c3 Hom. Il. 9.357-63 __________ c6 αὖ om. F : suppl. f ǀ παρὰ λόγον F : παράλογον TW | d2 τι Tf : τί W : om. F ǀ d7 γνώσῃ TWf : γνώς F ǀ τούτῳ T : τοῦτο Wf : τοῦτ’ἦ F ǀ e2 ἐπεὶ καὶ νῦν TW : καὶ νῦν ἐπεὶ F ǀ 370a1 ψευσάμενος TWf : -δόμενος F

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ὄψεαι, αἴ κ’ἐθέλῃσθα καὶ αἴ κέν τοι τὰ μεμήλῃ, ἦρι μάλ’Ἑλλήσποντον ἐπ’ἰχθυόεντα πλεούσας νῆας ἐμάς, ἐν δ’ἄνδρας ἐρεσσέμεναι μεμαῶτας· εἰ δέ κεν εὐπλοΐην δώῃ κλυτὸς Ἐννοσίγαιος, ἤματί κεν τριτάτῳ Φθίην ἐρίβωλον ἱκοίμην.

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ἔτι δὲ πρότερον τούτων πρὸς τὸν Ἀγαμέμνονα λοιδορούμενος εἶπεν— 5 νῦν δ’εἶμι Φθίηνδ’, ἐπεὶ ἦ πολὺ λώϊόν ἐστιν οἴκαδ’ ἴμεν σὺν νηυσὶ κορωνίσιν, οὐδέ σ’ὀΐω ἐνθάδ’ἄτιμος ἐὼν ἄφενος καὶ πλοῦτον ἀφύξειν. ταῦτα εἰπὼν τοτὲ μὲν ἐναντίον τῆς στρατιᾶς ἁπάσης, τοτὲ δὲ πρὸς τοὺς ἑαυτοῦ ἑταίρους, οὐδαμοῦ φαίνεται οὔτε παρασκευασάμενος οὔτ’ ἐπιχειρήσας καθέλκειν τὰς ναῦς ὡς ἀποπλευσούμενος οἴκαδε, ἀλλὰ πάνυ γενναίως ὀλιγωρῶν τοῦ τἀληθῆ λέγειν. ἐγὼ μὲν οὖν, ὦ Ἱππία, καὶ ἐξ ἀρχῆς σε ἠρόμην ἀπορῶν ὁπότερος τούτοιν τοῖν ἀνδροῖν ἀμείνων πεποίηται τῷ ποιητῇ, καὶ ἡγούμενος ἀμφοτέρω ἀρίστω εἶναι καὶ δύσκριτον ὁπότερος ἀμείνων εἴη καὶ περὶ ψεύδους καὶ ἀληθείας καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς· ἀμφοτέρω γὰρ καὶ κατὰ τοῦτο παραπλησίω ἐστόν. ΙΠ. Οὐ γὰρ καλῶς σκοπεῖς, ὦ Σώκρατες. ἃ μὲν γὰρ ὁ Ἀχιλλεὺς ψεύδεται, οὐκ ἐξ ἐπιβουλῆς φαίνεται ψευδόμενος ἀλλ’ἄκων, διὰ τὴν συμφορὰν τὴν τοῦ στρατοπέδου ἀναγκασθεὶς καταμεῖναι καὶ βοηθῆσαι· ἃ δὲ ὁ Ὀδυσσεύς, ἑκών τε καὶ ἐξ ἐπιβουλῆς. ΣΩ. Ἐξαπατᾷς με, ὦ φίλτατε Ἱππία, καὶ αὐτὸς τὸν Ὀδυσσέα μιμῇ. ΙΠ. Οὐδαμῶς, ὦ Σώκρατες· λέγεις δὲ δὴ τί καὶ πρὸς τί;

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370c6-d1 Hom. Il. 1.169-71 __________ b6 αἴκ’ TW et nonnulli libri Homerici : αἴ κε F : ἢν Ven. 189 cum Homeri vulgata | c6 ἐπεὶ ἦ T : ἐπειδὴ F : ἐπεὶ W ǀ λώϊόν TW : λῶον F : φέρτερον libri Homerici ǀ d2 ἁπάσης F : πάσης TW ǀ d6 σε om. W | 371a1 δὲ om. TW

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ΣΩ. Ὅτι οὐκ ἐξ ἐπιβουλῆς φῂς τὸν Ἀχιλλέα ψεύδεσθαι, ὃς ἦν οὕτω γόης καὶ ἐπίβουλος πρὸς τῇ ἀλαζονείᾳ, ὡς πεποίηκεν Ὅμηρος, ὥστε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως τοσοῦτον 5 φαίνεται φρονεῖν πλέον πρὸς τὸ ῥᾳδίως λανθάνειν αὐτὸν ἀλαζονευόμενος, ὥστε ἐναντίον αὐτοῦ αὐτὸς ἑαυτῷ ἐτόλμα ἐναντία λέγειν καὶ ἐλάνθανεν τὸν Ὀδυσσέα· οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευb δομένου ὁ Ὀδυσσεύς. ΙΠ. Ποῖα δὴ ταῦτα λέγεις, ὦ Σώκρατες; ΣΩ. Οὐκ οἶσθα ὅτι λέγων ὕστερον ἢ ὡς πρὸς τὸν Ὀδυσσέα ἔφη ἅμα τῇ ἠοῖ ἀποπλευσεῖσθαι, πρὸς τὸν Αἴαντα 5 οὐκ αὖ φησιν ἀποπλευσεῖσθαι, ἀλλὰ ἄλλα λέγει; ΙΠ. Ποῦ δή; ΣΩ. Ἐν οἷς λέγει—

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οὐ γὰρ πρὶν πολέμοιο μεδήσομαι αἱματόεντος, πρίν γ’υἱὸν Πριάμοιο δαΐφρονος, Ἕκτορα δῖον, Μυρμιδόνων ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθαι κτείνοντ’Ἀργείους, κατά τε φλέξαι πυρὶ νῆας· ἀμφὶ δέ μιν τῇ ’μῇ κλισίῃ καὶ νηῒ μελαίνῃ Ἕκτορα καὶ μεμαῶτα μάχης σχήσεσθαι ὀΐω.

σὺ δὴ οὖν, ὦ Ἱππία, πότερον οὕτως ἐπιλήσμονα οἴει εἶναι d τὸν τῆς Θέτιδός τε καὶ ὑπὸ τοῦ σοφωτάτου Χείρωνος πεπαιδευμένον, ὥστε ὀλίγον πρότερον λοιδοροῦντα τοὺς ἀλαζόνας τῇ ἐσχάτῃ λοιδορίᾳ αὐτὸν παραχρῆμα πρὸς μὲν τὸν Ὀδυσσέα φάναι ἀποπλευσεῖσθαι, πρὸς δὲ τὸν Αἴαντα μενεῖν, ἀλλ’οὐκ 5 ἐπιβουλεύοντά τε καὶ ἡγούμενον ἀρχαῖον εἶναι τὸν Ὀδυσσέα 371b8-c5 Hom. Il. 9.650-55 __________ a3 τῇ ἀλαζονείᾳ Bekker : τὴν ἀλαζονείαν codd. ǀ a5 πρὸς TW : ἢ πρὸς F ǀ a8 ὡς αἰσθανόμενος TW : ἆρ’αἰσθόμενος F : ὡς αἰσθόμενος f ǀ a8-b1 αὐτοῦ ψευδομένου TW : -ὸν -όμενον F ǀ b3 ἢ ὡς WF : πως T ǀ b8 μεδήσομαι TW : μελήσομαι F ǀ c2 ἐπί τε κλισίας TW : ἐπί τ’ἐκκλησίας F ǀ c3 κτείνοντ’ ΤW : -αντ’ F ǀ κατά τε φλέξαι TWf, γρ. Homeri A : κατέφλεξε F : σμυ- Wsl : κατά τε σμῦξαι Ven. 189 cum Homeri vulgata ǀ c4 μιν TW : μὴν F : τοι libri Homerici | d1 τε om. F : suppl. f | d2 ἀλαζόνας TW : ἄλλους F | d4 μενεῖν Stephanus, praeeunte Ficino («commoraturum») : μένειν codd.

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καὶ αὐτοῦ αὐτῷ τούτῳ τῷ τεχνάζειν τε καὶ ψεύδεσθαι περιέσεσθαι; ΙΠ. Οὔκουν ἔμοιγε δοκεῖ, ὦ Σώκρατες· ἀλλὰ καὶ αὐτὰ ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως. ΣΩ. Ἀμείνων ἄρ’ ἐστίν, ὡς ἔοικεν, ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως. ΙΠ. Ἥκιστά γε δήπου, ὦ Σώκρατες. ΣΩ. Τί δέ; οὐκ ἄρτι ἐφάνησαν οἱ ἑκόντες ψευδόμενοι βελτίους ἢ οἱ ἄκοντες; ΙΠ. Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν. ΣΩ. Ὁρᾷς, ὦ Ἱππία, ὅτι ἐγὼ ἀληθῆ λέγω, λέγων ὡς λιπαρής εἰμι πρὸς τὰς ἐρωτήσεις τῶν σοφῶν; καὶ κινδυνεύω ἓν μόνον ἔχειν τοῦτο ἀγαθόν, τἆλλα ἔχων πάνυ φαῦλα· τῶν μὲν γὰρ πραγμάτων ᾗ ἔχει ἔσφαλμαι, καὶ οὐκ οἶδ’ὅπῃ ἐστί. τεκμήριον δέ μοι τούτου ἱκανόν, ὅτι ἐπειδὰν συγγένωμαί τῳ ὑμῶν τῶν εὐδοκιμούντων ἐπὶ σοφίᾳ καὶ οἷς οἱ Ἕλληνες πάντες μάρτυρές εἰσι τῆς σοφίας, φαίνομαι οὐδὲν εἰδώς· οὐδὲν γάρ μοι δοκεῖ τῶν αὐτῶν καὶ ὑμῖν, ὡς ἔπος εἰπεῖν. καίτοι τί μεῖζον ἀμαθίας τεκμήριον ἢ ἐπειδάν τις σοφοῖς ἀνδράσι διαφέρηται; ἓν δὲ τοῦτο θαυμάσιον ἔχω ἀγαθόν, ὅ με σῴζει· οὐ γὰρ αἰσχύνομαι μανθάνων, ἀλλὰ πυνθάνομαι καὶ ἐρωτῶ καὶ χάριν πολλὴν ἔχω τῷ ἀποκρινομένῳ, καὶ οὐδένα πώποτε ἀπεστέρησα χάριτος. οὐ γὰρ πώ-

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371d5 ἀρχαῖον expl. schol. TWPexc ad loc. (p. 180 Greene = p. 266 Cufalo); 372b1 λιπαρής expl. schol. T ad loc. (p. 180 Greene = p. 266 Cufalo) __________ e1 εὐηθείας TWf : εὐνοίας F, γρ. W ǀ εἶπεν TWf : εἰπεῖν F ǀ e4-5 ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως TWf : ὁ Ὀδυσσέως F | e7 οὐκ ΤW : ὅτι οὐκ F ǀ 372b2 πάνυ TW : πάνυ γε F ǀ b5 οἷς οἱ TW : ὅσοι F ǀ c1 τί om. T | c2-5 ἓν … ἀποκρινομένῳ praebet Pexc | c3 μανθάνων TWPexcf : -άνω F

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ποτε ἔξαρνος ἐγενόμην μαθών τι, ἐμαυτοῦ ποιούμενος τὸ μάθημα εἶναι ὡς εὕρημα· ἀλλ’ἐγκωμιάζω τὸν διδάξαντά με ὡς σοφὸν ὄντα, ἀποφαίνων ἃ ἔμαθον παρ’αὐτοῦ. καὶ δὴ καὶ νῦν ἃ σὺ λέγεις οὐχ ὁμολογῶ σοι, ἀλλὰ διαφέρομαι πάνυ σφόδρα· καὶ τοῦτ’ εὖ οἶδα ὅτι δι’ἐμὲ γίγνεται, ὅτι τοιοῦτός εἰμι οἷόσπερ εἰμί, ἵνα μηδὲν ἐμαυτὸν μεῖζον εἴπω. ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες. ἐνίοτε μέντοι καὶ τοὐναντίον δοκεῖ μοι τούτων καὶ πλανῶμαι περὶ ταῦτα, δῆλον ὅτι διὰ τὸ μὴ εἰδέναι· νυνὶ δὲ ἐν τῷ παρόντι μοι ὥσπερ κατηβολὴ περιελήλυθεν, καὶ δοκοῦσί μοι οἱ ἑκόντες ἐξαμαρτάνοντες περί τι βελτίους εἶναι τῶν ἀκόντων. αἰτιῶμαι δὲ τοῦ νῦν παρόντος παθήματος τοὺς ἔμπροσθεν λόγους αἰτίους εἶναι, ὥστε φαίνεσθαι νῦν ἐν τῷ παρόντι τοὺς ἄκοντας τούτων ἕκαστα ποιοῦντας πονηροτέρους ἢ τοὺς ἑκόντας. σὺ οὖν χάρισαι καὶ μὴ φθονήσῃς ἰάσασθαι τὴν ψυχήν μου· πολὺ γάρ τοι μεῖζόν με ἀγαθὸν ἐργάσῃ ἀμαθίας παύσας τὴν ψυχὴν ἢ νόσου τὸ σῶμα. μακρὸν μὲν οὖν λόγον εἰ ’θέλεις λέγειν, προλέγω σοι ὅτι οὐκ ἄν με ἰάσαιο—οὐ γὰρ ἂν ἀκολουθήσαιμι —ὥσπερ δὲ ἄρτι εἰ ’θέλεις μοι ἀποκρίνεσθαι, πάνυ ὀνήσεις, οἶμαι δὲ οὐδ’ αὐτὸν σὲ βλαβήσεσθαι. δικαίως δ’ἂν καὶ σὲ παρακαλοίην, ὦ παῖ Ἀπημάντου· σὺ γάρ με ἐπῆρας Ἱππίᾳ διαλέγεσθαι, καὶ νῦν, ἐὰν μή μοι ἐθέλῃ Ἱππίας ἀποκρίνεσθαι, δέου αὐτοῦ ὑπὲρ ἐμοῦ. ΕΥ. Ἀλλ’, ὦ Σώκρατες, οἶμαι οὐδὲν δεήσεσθαι Ἱππίαν

372e1 κατηβολή expl. schol. TWPexc ad loc. (p. 180 Greene = p. 266 Cufalo) __________ c7-8 ἐγκωμιάζω … σοφόν praebet Pexc | c8 ἀποφαίνων TW : -φανῶν Fpc | e1 κατηβολὴ TWF, sed κατεβολὴ (sic) in lemmate schol. TWPexc : καταβολὴ Ven. 189² ǀ e2 δοκοῦσί μοι οἱ TWf : δοκοῦσιν οἱ F ǀ e3 περί τι TW : περί τε F ǀ e5-6 τούτων ... ποιοῦντας om. F : suppl. f ǀ 373a2 ’θέλεις Schanz (et mox a4) : θέλεις TW (-ῃς) F : ἐθέλεις Ven. 189pc ǀ a3 ἂν TWf : δὴ F ǀ a4 ἀποκρίνεσθαι TW : -ασθαι F ǀ a5 οὐδ’ om. F : suppl. f ǀ a6 παρακαλοίην TF : -οίμην W ǀ σὺ γάρ με ἐπῆρας F (- ῇρας) T : σὺ γάρ με ἀπῆρας W | a8 ὑπὲρ F : περὶ TW

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τῆς ἡμετέρας δεήσεως· οὐ γὰρ τοιαῦτα αὐτῷ ἐστι τὰ προειρημένα, ἀλλ’ ὅτι οὐδενὸς ἂν φύγοι ἀνδρὸς ἐρώτησιν. ἦ γάρ, ὦ Ἱππία; οὐ ταῦτα ἦν ἃ ἔλεγες; ΙΠ. Ἔγωγε· ἀλλὰ Σωκράτης, ὦ Εὔδικε, ἀεὶ ταράττει ἐν τοῖς λόγοις καὶ ἔοικεν ὥσπερ κακουργοῦντι. ΣΩ. Ὦ βέλτιστε Ἱππία, οὔτι ἑκών γε ταῦτα ἐγὼ ποιῶ— σοφὸς γὰρ ἂν ἦ καὶ δεινὸς κατὰ τὸν σὸν λόγον—ἀλλὰ ἄκων, ὥστε μοι συγγνώμην ἔχε· φῂς γὰρ αὖ δεῖν, ὃς ἂν κακουργῇ ἄκων, συγγνώμην ἔχειν. ΕΥ. Καὶ μηδαμῶς γε, ὦ Ἱππία, ἄλλως ποίει, ἀλλὰ καὶ ἡμῶν ἕνεκα καὶ τῶν προειρημένων σοι λόγων ἀποκρίνου ἃ ἄν σε ἐρωτᾷ Σωκράτης. ΙΠ. Ἀλλ’ἀποκρινοῦμαι, σοῦ γε δεομένου. ἀλλ’ ἐρώτα ὅτι βούλει. ΣΩ. Καὶ μὴν σφόδρα γε ἐπιθυμῶ, ὦ Ἱππία, διασκέψασθαι τὸ νῦν δὴ λεγόμενον, πότεροί ποτε ἀμείνους, οἱ ἑκόντες ἢ οἱ ἄκοντες ἁμαρτάνοντες. οἶμαι οὖν ἐπὶ τὴν σκέψιν ὀρθότατ’ ἂν ὧδε ἐλθεῖν. ἀλλ’ἀπόκριναι· καλεῖς τινα δρομέα ἀγαθόν; —ΙΠ. Ἔγωγε. —ΣΩ. Καὶ κακόν; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν ἀγαθὸς μὲν ὁ εὖ θέων, κακὸς δὲ ὁ κακῶς; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν ὁ βραδέως θέων κακῶς θεῖ, ὁ δὲ ταχέως εὖ; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Ἐν δρόμῳ μὲν ἄρα καὶ τῷ θεῖν τάχος μὲν ἀγαθόν, βραδυτὴς δὲ κακόν; —ΙΠ. Ἀλλὰ τί μέλλει; —ΣΩ. Πότερος οὖν ἀμείνων δρομεύς, ὁ ἑκὼν βραδέως θέων ἢ ὁ ἄκων; — ΙΠ. Ὁ ἑκών. —ΣΩ. Ἆρ’ οὖν οὐ ποιεῖν τί ἐστι τὸ θεῖν; —ΙΠ. Ποιεῖν μὲν οὖν. —ΣΩ. Εἰ δὲ ποιεῖν, οὐ καὶ ἐργάζεσθαί τι; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Ὁ κακῶς ἄρα θέων κακὸν καὶ αἰσχρὸν ἐν δρόμῳ τοῦτο ἐργάζεται; —ΙΠ. Κακόν· πῶς γὰρ οὔ; —

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373b7 ἦ expl. schol. TW ad loc. (p. 180 Greene = p. 266 Cufalo); 373c8-9 (οἶμαι … ἀγαθόν) resp. Method. Symp. 11.297 (= p. 138, 31-139, 2 Bonwetsch); 373c-376b totum locum resp. Aristot. Metaph. 5.29.1025a8-13 (unde Alex. Aphrod. In Aristot. Metaph., CAG I p. 437, 7-25 Hayduck; Asclep. In Aristot. Metaph., CAG VI.2 p. 353, 33-354, 5 Hayduck) __________ b6 οὔτι TF : ὅτι W ǀ b7 ἦ F : ἦν TW (et in lemmate schol.) ǀ c6 γε om. F : suppl. f ǀ c7 πότεροί TW : -ον F ǀ c7-8 ἢ οἱ ἄκοντες om. F : suppl. f ǀ d1 κακόν TWf : -λόν F ǀ d5 δὲ ... Πότερος om. F : suppl. f

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ΣΩ. Κακῶς δὲ θεῖ ὁ βραδέως θέων; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν ὁ μὲν ἀγαθὸς δρομεὺς ἑκὼν τὸ κακὸν τοῦτο ἐργάζεται καὶ τὸ αἰσχρόν, ὁ δὲ κακὸς ἄκων; —ΙΠ. Ἔοικέν γε. — ΣΩ. Ἐν δρόμῳ μὲν ἄρα πονηρότερος ὁ ἄκων κακὰ ἐργαζόμενος ἢ ὁ ἑκών; —ΙΠ. Ἐν δρόμῳ γε. —ΣΩ. Τί δ’ἐν πάλῃ; πότερος παλαιστὴς ἀμείνων, ὁ ἑκὼν πίπτων ἢ ὁ ἄκων; — ΙΠ. Ὁ ἑκών, ὡς ἔοικεν. —ΣΩ. Πονηρότερον δὲ καὶ αἴσχιον ἐν πάλῃ τὸ πίπτειν ἢ τὸ καταβάλλειν; —ΙΠ. Τὸ πίπτειν. — ΣΩ. Καὶ ἐν πάλῃ ἄρα ὁ ἑκὼν τὰ πονηρὰ καὶ αἰσχρὰ ἐργαζόμενος βελτίων παλαιστὴς ἢ ὁ ἄκων. —ΙΠ. Ἔοικεν. —ΣΩ. Τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ τῇ τοῦ σώματος χρείᾳ; οὐχ ὁ βελτίων τὸ σῶμα δύναται ἀμφότερα ἐργάζεσθαι, καὶ τὰ ἰσχυρὰ καὶ τὰ ἀσθενῆ, καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ τὰ καλά· ὥστε ὅταν κατὰ τὸ σῶμα πονηρὰ ἐργάζηται, ἑκὼν ἐργάζεται ὁ βελτίων τὸ σῶμα, ὁ δὲ πονηρότερος ἄκων; —ΙΠ. Ἔοικεν καὶ τὰ κατὰ τὴν ἰσχὺν οὕτως ἔχειν. ΣΩ. Τί δὲ κατ’ εὐσχημοσύνην, ὦ Ἱππία; οὐ τοῦ βελτίονος σώματός ἐστιν ἑκόντος τὰ αἰσχρὰ καὶ πονηρὰ σχήματα σχηματίζειν, τοῦ δὲ πονηροτέρου ἄκοντος; ἢ πῶς σοι δοκεῖ; — ΙΠ. Οὕτως. —ΣΩ. Καὶ ἀσχημοσύνη ἄρα ἡ μὲν ἑκούσιος πρὸς ἀρετῆς ἐστιν, ἡ δὲ ἀκούσιος πρὸς πονηρίας σώματος. —ΙΠ. Φαίνεται. —ΣΩ. Τί δὲ φωνῆς πέρι λέγεις; ποτέραν φῂς εἶναι βελτίω, τὴν ἑκουσίως ἀπᾴδουσαν ἢ τὴν ἀκουσίως; —ΙΠ. Τὴν ἑκουσίως. —ΣΩ. Μοχθηροτέραν δὲ τὴν ἀκουσίως; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Δέξαιο δ’ἂν πότερον τἀγαθὰ κεκτῆσθαι ἢ τὰ κακά; —ΙΠ. Τἀγαθά. —ΣΩ. Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως; — ΙΠ. Ἑκουσίως. —ΣΩ. Χωλεία δὲ ποδῶν οὐχὶ πονηρία καὶ ἀσχημοσύνη ἐστίν; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τί δὲ ἀμβλυωπία; οὐ πονηρία ὀφθαλμῶν; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Ποτέρους οὖν ἂν

374a1-2 (τί δ’ … ἀμείνων) resp. Method. Symp. 11.300 (= p. 140, 7 Bonwetsch) __________ 374a3 ὡς ἔοικε F : ἔοικεν TW ǀ a7 τῇ post πάσῃ del. Bekker ǀ b3 καὶ τὰ κατὰ] καὶ τὰ om. Vat. 226, Par. 1812 : τὰ om. Coisl. 155, Par. 1811 et Ven. 186 (suppl. Coisl. 155 supra lineam) ǀ b6 σχήματα om. F ǀ d1 ἑκουσίως om. F : suppl. f ǀ d2-3 τί δὲ ἀμβλυωπία; οὐ πονηρία dist. Rijksbaron (2007), 245-6 : τί δὲ ἀμβλυωπία. οὐ πονηρία TWF (δαὶ pro δὲ T) : τί δέ; ἀμβλυωπία οὐ πονηρία Stephanus et edd. ǀ ἂν om. F : suppl. f

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ

βούλοιο ὀφθαλμοὺς κεκτῆσθαι καὶ ποτέροις συνεῖναι; οἷς ἑκὼν ἄν τις ἀμβλυώττοι καὶ παρορῴη ἢ οἷς ἄκων; —ΙΠ. Οἷς ἑκών. —ΣΩ. Βελτίω ἄρα ἥγησαι τῶν σαυτοῦ τὰ ἑκουσίως πονηρὰ ἐργαζόμενα ἢ τὰ ἀκουσίως; —ΙΠ. Τὰ γοῦν τοιαῦτα. —ΣΩ. Οὐκοῦν πάντα, οἷον καὶ ὦτα καὶ ῥῖνας καὶ στόμα καὶ πάσας τὰς αἰσθήσεις, εἷς λόγος συνέχει, τὰς μὲν ἀκόντως κακὰ ἐργαζομένας ἀκτήτους εἶναι ὡς πονηρὰς οὔσας, τὰς δὲ ἑκουσίως κτητὰς ὡς ἀγαθὰς οὔσας. —ΙΠ. Ἔμοιγε δοκεῖ. — ΣΩ. Τί δὲ ὀργάνων; ποτέρων βελτίων ἡ κοινωνία, οἷς ἑκών τις κακὰ ἐργάζεται ἢ οἷς ἄκων; οἷον πηδάλιον ᾧ ἄκων κακῶς τις κυβερνήσει βέλτιον ἢ ᾧ ἑκών; —ΙΠ. Ὧι ἑκών. —ΣΩ. Οὐ καὶ τόξον ὡσαύτως καὶ λύρα καὶ αὐλοὶ καὶ τἆλλα σύμπαντα; —ΙΠ. Ἀληθῆ λέγεις. —ΣΩ. Τί δὲ ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου; ᾗ ἑκών τις κακῶς ἱππεύσει, ἄμεινον ἢ ἄκων; —ΙΠ. Ἧι ἑκών. —ΣΩ. Ἀμείνων ἄρα ἐστίν. —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τῇ ἀμείνονι ἄρα ψυχῇ ἵππου τὰ τῆς ψυχῆς ἔργα ταύτης τὰ πονηρὰ ἑκουσίως ἂν ποιοῖ, τῇ δὲ † τῆς πονηρᾶς † ἀκουσίως; — ΙΠ. Πάνυ γε. —ΣΩ. Οὐκοῦν καὶ κυνὸς καὶ τῶν ἄλλων ζῴων πάντων; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τί δὲ δὴ ἀνθρώπου; ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου ἄμεινόν ἐστιν, ἥτις ἑκουσίως ἁμαρτάνει τοῦ σκοποῦ, ἢ ἥτις ἀκουσίως; —ΙΠ. Ἥτις ἑκουσίως. —ΣΩ. Οὐκοῦν καὶ αὕτη ἀμείνων εἰς τοξικήν ἐστιν; —ΙΠ. Ναί. — ΣΩ. Καὶ ψυχὴ ἄρα ἀκουσίως ἁμαρτάνουσα πονηροτέρα ἢ

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d9 ἀκόντως] ἀκουσίως Cobet (1854), 154 fort. recte ǀ e3 τί δὲ ὀργάνων; ποτέρων dist. Rijksbaron (2007), 246 : τί δὲ ὀργάνων. ποτέρων TW (δαὶ pro δὲ T) : τί δὲ ὀργάνων ποτέρων F : τί δέ; ὀργάνων ποτέρων Stephanus et edd. ǀ e4 κακὰ TWf : -λὰ F ǀ e5 Ὧι ἑκών om. F ǀ 375a1 τί δὲ ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου; dist. Rijksbaron (2007), 247 : τί δὲ ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου. TW (δαὶ pro δὲ T) : τί δέ; ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου Stephanus et edd. ǀ a2 ἄμεινον f : ἄμινον F : -είνων TW : -είνον Rijksbaron (2007), 247 ǀ ᾗ ante ἄκων add. Coisl. 1552 Ven. 186 et Cornarius («an qua invitus» Ficinus) : om. TWF ǀ a5 cruces posui : τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς W et edd. plerique : τῇ δὲ τῆς πονηρίας Tf : τῃ δὲ τῆ πονηρᾶ (sic) F : τῇ δὲ [τῆς] πονηρᾷ Hirschig : τῇ δὲ τῇ πονηρᾷ Schanz : τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς Ast : τῇ δὲ πονηροτέρᾳ Beck, praeeunte Cornario («deteriore») : τὰ αὐτὰ δὲ τῇ πονηρᾷ vel πονηροτέρᾳ Schleiermacher | a7-8 τί δὲ δὴ ἀνθρώπου; ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου dist. Sydenham : τί δὲ δὴ ἀνθρώπου ψυχὴν ἐκτῆσθαι. τοξότου TW : τί δὲ δὴ ἀνθρώπου ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου. F : τί δὲ δὴ ἀνθρώπου ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου; Rijksbaron (2007), 247 : τί δὲ δή; ἀνθρώπου ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου Stephanus et edd. ǀ a8 ἄμεινον F : -είνονος TWf ǀ ἥτις om. F : suppl. f | b2 καὶ om. TW

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ἑκουσίως; —ΙΠ. Ἐν τοξικῇ γε. —ΣΩ. Τί δ’ἐν ἰατρικῇ; οὐχὶ ἡ ἑκοῦσα κακὰ ἐργαζομένη περὶ τὰ σώματα ἰατρικωτέρα; — ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Ἀμείνων ἄρα αὕτη ἐν ταύτῃ τῇ τέχνῃ [τῆς μὴ ἰατρικῆς]. —ΙΠ. Ἀμείνων. —ΣΩ. Τί δὲ ἡ κιθαριστικωτέρα καὶ αὐλητικωτέρα καὶ τἆλλα πάντα τὰ κατὰ τὰς τέχνας τε καὶ τὰς ἐπιστήμας; οὐχὶ ἡ ἀμείνων ἑκοῦσα τὰ κακὰ ἐργάζεται καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ ἐξαμαρτάνει, ἡ δὲ πονηροτέρα ἄκουσα; —ΙΠ. Φαίνεται. —ΣΩ. Ἀλλὰ μήν που τάς γε τῶν δούλων ψυχὰς κεκτῆσθαι δεξαίμεθ’ἂν μᾶλλον τὰς ἑκουσίως ἢ τὰς ἀκουσίως ἁμαρτανούσας τε καὶ κακουργούσας, ὡς ἀμείνους οὔσας εἰς ταῦτα. —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν; οὐ βουλοίμεθ’ ἂν ὡς βελτίστην ἐκτῆσθαι;— ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν βελτίων ἔσται, ἐὰν ἑκοῦσα κακουργῇ τε καὶ ἐξαμαρτάνῃ, ἢ ἐὰν ἄκουσα; ΙΠ. Δεινὸν μεντἂν εἴη, ὦ Σώκρατες, εἰ οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες βελτίους ἔσονται ἢ οἱ ἄκοντες. ΣΩ. Ἀλλὰ μὴν φαίνονταί γε ἐκ τῶν εἰρημένων. ΙΠ. Οὔκουν ἔμοιγε. ΣΩ. Ἐγὼ δ’ ᾤμην, ὦ Ἱππία, καὶ σοὶ φανῆναι. πάλιν δ’ ἀπόκριναι· ἡ δικαιοσύνη οὐχὶ ἢ δύναμίς τίς ἐστιν ἢ ἐπιστήμη ἢ ἀμφότερα; ἢ οὐκ ἀνάγκη ἕν γέ τι τούτων εἶναι τὴν δικαιοσύνην; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν εἰ μὲν δύναμίς ἐστι τῆς ψυχῆς ἡ δικαιοσύνη, ἡ δυνατωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα ἐστί; βελτίων γάρ που ἡμῖν ἐφάνη, ὦ ἄριστε, ἡ τοιαύτη. — ΙΠ. Ἐφάνη γάρ. —ΣΩ. Τί δ’εἰ ἐπιστήμη; οὐχ ἡ σοφω-

375b5 (ἰατρικωτέρα) resp. fort. Method. Symp. 11.300 (= p. 140, 4 Bonwetsch); 375e1-3 (οὐκοῦν … ἐστι) resp. Method. Symp. 11.301 (= p. 140, 24 Bonwetsch) __________ b4 οὐχὶ TW : οὐχ F | b6-7 τῆς μὴ ἰατρικῆς del. Vancamp (ἰατρικῆς del. Schleiermacher) ǀ b8 τὰς om. F ǀ b7-c1 τί δὲ ἡ κιθαριστικωτέρα … καὶ τὰς ἐπιστήμας; dist. Rijksbaron (2007), 248 : τί δὲ ἡ κιθαριστικωτέρα … καὶ τὰς ἐπιστήμας. TWF (δαί pro δέ T) : τί δέ; ἡ κιθαριστικωτέρα … καὶ τὰς ἐπιστήμας, Stephanus et edd. ǀ τε om. F ǀ τὰς om. W ǀ c4 ἑκουσίως TF : -ίους W ǀ c6-7 τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν; dist. Rijksbaron (2007), 248 : τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν. TW : non distinxit F : τί δέ; τὴν ἡμετέραν αὐτῶν Stephanus et edd. ǀ c7 βουλοίμεθ’ἂν TW : -οίμεθα f : -όμεθα F ǀ d2 ἢ om. F : suppl. f ǀ d5 φαίνονταί F : -εταί TW ǀ d6 γε om. F : suppl. f

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ΙΠΠΙΑΣ ΕΛΑΤΤΩΝ

τέρα ψυχὴ δικαιοτέρα, ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα; — —ΣΩ. Τί δ’ εἰ ἀμφότερα; οὐχ ἡ ἀμφοτέρας ἔχουσα, ἐπιστήμην καὶ δύναμιν, δικαιοτέρα, ἡ δ’ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα; οὐχ οὕτως ἀνάγκη ἔχειν; —ΙΠ. Φαίνεται. —ΣΩ. Οὐκοῦν ἡ δυνατωτέρα καὶ σοφωτέρα αὕτη ἀμείνων οὖσα ἐφάνη καὶ ἀμφότερα μᾶλλον δυναμένη ποιεῖν, καὶ τὰ καλὰ καὶ τὰ αἰσχρά, περὶ πᾶσαν ἐργασίαν; —ΙΠ. Ναί. — ΣΩ. Ὅταν ἄρα τὰ αἰσχρὰ ἐργάζηται, ἑκοῦσα ἐργάζεται διὰ δύναμιν καὶ τέχνην· ταῦτα δὲ δικαιοσύνης φαίνεται, ἤτοι ἀμφότερα ἢ τὸ ἕτερον. —ΙΠ. Ἔοικεν. —ΣΩ. Καὶ τὸ μέν γε ἀδικεῖν κακὰ ποιεῖν ἐστιν, τὸ δὲ μὴ ἀδικεῖν καλά. —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Οὐκοῦν ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα; —ΙΠ. Φαίνεται. —ΣΩ. Οὐκοῦν ἀγαθὸς ἀνὴρ ὁ τὴν ἀγαθὴν ψυχὴν ἔχων, κακὸς δὲ ὁ τὴν κακήν; —ΙΠ. Ναί. —ΣΩ. Ἀγαθοῦ μὲν ἄρα ἀνδρός ἐστιν ἑκόντα ἀδικεῖν, κακοῦ δὲ ἄκοντα, εἴπερ ὁ ἀγαθὸς ἀγαθὴν ψυχὴν ἔχει. —ΙΠ. Ἀλλὰ μὴν ἔχει γε. —ΣΩ. Ὁ ἄρα ἑκὼν ἁμαρτάνων καὶ αἰσχρὰ καὶ ἄδικα ποιῶν, ὦ Ἱππία, εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, οὐκ ἂν ἄλλος εἴη ἢ ὁ ἀγαθός. ΙΠ. Οὐκ ἔχω ὅπως σοι συγχωρήσω, ὦ Σώκρατες, ταῦτα. ΣΩ. Οὐδὲ γὰρ ἐγὼ ἐμοί, ὦ Ἱππία· ἀλλ’ ἀναγκαῖον οὕτω φαίνεσθαι νῦν γε ἡμῖν ἐκ τοῦ λόγου. ὅπερ μέντοι πάλαι ἔλεγον, ἐγὼ περὶ ταῦτα ἄνω καὶ κάτω πλανῶμαι καὶ οὐδέποτε ταὐτά μοι δοκεῖ. καὶ ἐμὲ μὲν οὐδὲν θαυμαστὸν πλανᾶσθαι οὐδὲ ἄλλον ἰδιώτην· εἰ δὲ καὶ ὑμεῖς πλανήσεσθε οἱ σοφοί, τοῦτο ἤδη καὶ ἡμῖν δεινὸν εἰ μηδὲ παρ’ ὑμᾶς ἀφικόμενοι παυσόμεθα τῆς πλάνης.

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e6 ναί add. Coisl. 1552 et Par. 18122 («ita est» Ficinus) : om. TWF : ἀνάγκη add. Ven. 189 ǀ e6-8 τί δ’εἰ ... ἀδικωτέρα om. F : suppl. f | e7-8 ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα del. Beck : ἡ δὲ ἀμαθεστέρα Ast ǀ αὕτη TW : αὕτη ἡ F ǀ 376a2 ἑκοῦσα ἐργάζεται om. F : suppl. f ǀ b6 οὗτος om. F ǀ ἢ om. F ǀ b7 ὅπως TW : πῶς F ǀ c3 ταὐτά μοι TW : ταῦτα ἐμοὶ F ǀ c5 μηδὲ TW : δὲ F | post 376c6 Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ καλοῦ TW : Ἱππίας ἐλάσσων F : Ἱππίας ἐλάττων ἢ περὶ τοῦ ψεύδους Ven. 1862 (unde Ven. 184)

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IPPIA MINORE [«Sul falso»]

(363a) Eudico – Ma tu perché resti in silenzio, Socrate, dopo che Ippia ha tenuto un così gran discorso, e non ti unisci a noi nel lodare qualcuna tra le cose che ha detto, o anche la critichi, se ti sembra che su qualcosa non si sia espresso bene? Tanto più che siamo rimasti solo noi, che in modo particolare ambiremmo (5) a partecipare ad una discussione filosofica. Socrate – In effetti, Eudico, ci sono alcune cose sulle quali porrei volentieri delle domande (363b) a Ippia, tra quelle che diceva poco fa a proposito di Omero. Da tuo padre Apemanto, infatti, ho sentito dire che l’Iliade è poema omerico più bello dell’Odissea, tanto più bello, quanto Achille è migliore di Odisseo: dei due poemi diceva infatti che l’uno è composto (5) per Odisseo, l’altro per Achille. A tal proposito dunque, se Ippia è d’accordo, gli chiederei volentieri più di preciso come la pensa su questi due eroi, cioè quale dei due (363c) ritiene essere migliore, dal momento che nella sua esibizione ha detto tante altre cose di ogni tipo sui poeti e in particolare su Omero. Eudico – Ma è chiaro che Ippia non si rifiuterà, se gli (5) poni qualche domanda, di rispondere. Non è vero, Ippia, che nel caso in cui Socrate ti chieda qualcosa, risponderai? Non farai forse così? Ippia – Mi comporterei in modo davvero assurdo, Eudico, se io, che vado sempre ad Olimpia al solenne raduno dei Greci, ogni volta che si tengono le Olimpiadi, (363d) recandomi dalla mia patria Elide al santuario, e mi offro sia di tenere qualunque discorso uno desideri tra quelli che ho preparato per l’esibizione, sia di rispondere a chi lo voglia su qualsiasi cosa uno chieda, ora invece evitassi la domanda di Socrate. (364a) Socrate – Beata davvero, Ippia, la tua condizione, se ad ogni Olimpiade giungi al santuario così fiducioso nel tuo animo per quel che riguarda la sapienza! E mi meraviglierei se qualcuno degli atleti che partecipano alle gare fisiche si recasse lì a gareggiare così privo di timore e fiducioso (5) nel corpo come tu dici di esserlo nella mente. Ippia – È naturale, Socrate, che io mi trovi in tale condizione: da quando infatti ho cominciato a gareggiare alle Olimpiadi, non ho mai incontrato nessuno più bravo di me in niente. (364b) Socrate – Davvero bell’ornamento di sapienza, Ippia, dici essere la tua reputazione, sia per la città di Elide che per i tuoi genitori! Ma che

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cosa ci dici a proposito di Achille e Odisseo? Quale sostieni essere migliore (5) e sotto quale aspetto? Infatti, quando dentro eravamo in molti e tu tenevi il tuo discorso, non sono riuscito a seguire quel che dicevi – esitavo a interrogarti perché dentro c’era una gran folla, e per non essere d’intralcio alla tua esibizione ponendo delle domande – ma ora, dal momento che siamo di meno ed il qui presente Eudico mi esorta a interrogarti, parla e (364c) spiegaci chiaramente: che cosa dicevi a proposito di questi due eroi? Come li distinguevi? Ippia – Ma io, Socrate, sono disposto a spiegarti ancor più chiaramente di prima quel che dico a proposito sia di questi che di altri. Sostengo (5) infatti che Omero ha raffigurato Achille come l’eroe più valoroso tra quelli che giunsero a Troia, Nestore come il più saggio, e Odisseo come il più scaltro. Socrate – Caspita, Ippia! Mi faresti questa cortesia, di non ridere di me nel caso in cui io capisca a fatica quel che viene detto e (364d) ripeta spesso le domande? Cerca piuttosto di rispondermi con mitezza e benevolenza. Ippia – Sarebbe davvero una vergogna, Socrate, se io, che ad altri insegno proprio questo e ritengo giusto ricevere denaro per tale ragione, (5) interrogato io stesso da te non avessi comprensione e non ti rispondessi con mitezza. Socrate – Ti ringrazio. Perché io, quando dicevi che Achille è raffigurato come il più valoroso, credevo di capire (364e) quel che dicevi, e anche quando dicevi che Nestore è raffigurato come il più saggio; quando invece hai detto che il poeta ha raffigurato Odisseo come il più scaltro, ecco, su questo a dirti il vero non so proprio che cosa intendi. Ma dimmi, in modo che magari di qui (5) io riesca a capire di più: Achille non è raffigurato scaltro da Omero? Ippia – Nient’affatto, Socrate, ma assolutamente schietto e sincero, dal momento che anche nelle Preghiere, quando li fa dialogare tra loro, Omero fa dire ad Achille, rivolto a Odisseo: (365a) «Divino figlio di Laerte, Odisseo dai molti espedienti, bisogna che io dichiari apertamente la mia parola, così come ho deciso e come credo si compirà: odioso mi è infatti come le porte dell’Ade (365b) colui che una cosa nasconde nel cuore, un’altra ne dice. Ma io dirò come anche sarà compiuto». In questi versi mostra il carattere di entrambi gli eroi, cioè che Achille è sincero e schietto, (5) Odisseo invece scaltro e bugiardo: rappresenta infatti Achille nell’atto di dire questi versi a Odisseo.

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Socrate – Ora finalmente, Ippia, forse capisco che cosa intendi: per “scaltro” tu intendi “bugiardo”, a quanto pare. (365c) Ippia – Senz’altro, Socrate: tale infatti Omero ha raffigurato Odisseo in più luoghi, sia nell’Iliade che nell’Odissea. Socrate – Omero credeva dunque, a quanto pare, che uno fosse l’uomo veritiero, un altro quello mendace, e non lo stesso. (5) Ippia – Come potrebbe essere diversamente, Socrate? Socrate – Dunque la pensi così anche tu, Ippia? Ippia – Certo, e sarebbe assurdo se non fosse così. Socrate – Lasciamo dunque da parte Omero, dal momento che (365d) è impossibile chiedergli con quale intento compose questi versi. Tu invece, visto che mostri di raccoglierne la causa e condividi quanto sostieni che Omero dicesse, rispondi in comune per Omero e per te stesso. (5) Ippia – Va bene, ma chiedi insomma ciò che vuoi. Socrate – I mendaci li intendi come incapaci di fare alcunché, come i malati, oppure capaci di fare qualcosa? Ippia – Io dico che sono capaci, e parecchio, in molte cose ma soprattutto nell’ingannare gli uomini. (365e) Socrate – Sono dunque capaci, a quanto pare, secondo il tuo ragionamento, e scaltri, vero? Ippia – Sì. Socrate – E sono scaltri e imbroglioni per stoltezza e incoscienza oppure per furbizia e per una forma di intelligenza? Ippia – Soprattutto (5) per furbizia, e per intelligenza. Socrate – Sono dunque intelligenti, a quanto pare. Ippia – Sì, per Zeus, fin troppo! Socrate – Ed essendo intelligenti, non sanno quel che fanno oppure lo sanno? Ippia – Certo che lo sanno: per questo fanno anche del male. Socrate – Sapendo quel che sanno, sono ignoranti o sapienti? Ippia – Sapienti perlomeno in questo, (366a) nell’ingannare. Socrate – Fermati! Ricapitoliamo quel che dici. Affermi che i mendaci sono capaci, intelligenti, dotati di scienza e sapienti relativamente a ciò in cui sono bugiardi? Ippia – Lo affermo. (5) Socrate – E affermi anche che i veritieri e i mendaci sono distinti e del tutto opposti fra loro? Ippia – Lo affermo. Socrate – Orbene: i mendaci, a quanto pare, fanno parte dei capaci e dei sapienti, secondo il tuo ragionamento. Ippia – Senz’altro.

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Socrate – E quando (366b) dici che i mendaci sono capaci e sapienti proprio in questo, intendi dire che sono capaci di mentire quando vogliano o che non lo sono, in relazione a ciò in cui mentono? Ippia – Io dico che sono capaci. Socrate – A dirlo in sintesi, dunque, i mendaci (5) sono coloro che sono sapienti e capaci di mentire. Ippia – Sì. Socrate – Una persona incapace di mentire ed ignorante non potrebbe dunque essere mendace. Ippia – Esattamente. Socrate – Ed è “capace” chiunque faccia ciò che voglia, quando lo voglia? (366c) Non intendo il caso in cui si sia impediti da una malattia o da cose del genere, ma così come tu sei in grado di scrivere il mio nome quando vuoi, così intendo. Non chiami tu forse “capace” chi si trova in questa condizione? Ippia – Sì. (5) Socrate – Dimmi dunque, Ippia: non sei forse esperto di calcoli e dell’arte del calcolo? Ippia – Certamente, Socrate. Socrate – Se qualcuno ti chiedesse quanto fa settecento per tre, non sapresti forse, se volessi, (366d) dire il vero a riguardo nel modo più rapido ed esatto? Ippia – Certo. Socrate – Forse perché sei capacissimo e sapientissimo in queste cose? Ippia – Sì. Socrate – Sei dunque soltanto capacissimo e sapientissimo, o sei anche bravissimo in questo campo in cui sei capacissimo (5) e sapientissimo, cioè i calcoli? Ippia – Certamente sono anche bravissimo, Socrate. Socrate – Dunque sapresti dire con la massima abilità la verità (366e) riguardo a queste cose, vero? Ippia – Lo credo bene! Socrate – E che dire in relazione al falso su queste stesse cose? Rispondimi, Ippia, con nobiltà e grandezza d’animo, come prima: se uno ti chiedesse quanto fa settecento per tre, tu in sommo grado (5) potresti mentire e dire sempre coerentemente il falso, con l’intenzione di dire il falso e non rispondere mai il vero, oppure l’ignorante in materia di calcoli potrebbe mentire meglio di te, che vuoi mentire? O al contrario (367a) l’ignorante, pur volendo dire il falso, potrebbe forse dire involontariamente il vero, per caso, a causa della propria ignoranza, mentre tu, il sapiente, se volessi mentire, sapresti dire sempre coerentemente il falso?

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Ippia – Sì, è così come dici tu. Socrate – Il mendace è dunque mendace sul resto, ma non a proposito del numero, né potrebbe mentire mentre fa di conto? Ippia – Sì per Zeus, anche a proposito del numero! Socrate – Stabiliamo dunque anche questo, Ippia, cioè che in relazione al calcolo e al numero esista (367b) una persona mendace? Ippia – Sì. Socrate – Chi potrebbe dunque essere costui? Non è forse necessario, se deve essere mendace, che abbia la caratteristica di essere capace di dire il falso, come tu ammettevi poco fa? La persona incapace di dire il falso, se ricordi, hai detto tu stesso che non (5) potrebbe mai diventare mendace. Ippia – Mi ricordo, ed è stato detto così. Socrate – Poco fa non sei forse risultato essere perfettamente capace di dire il falso sui calcoli? Ippia – Sì, si è detto anche questo. (367c) Socrate – Ma non sei anche capacissimo di dire il vero sui calcoli? Ippia – Certo. Socrate – Dunque la stessa persona è capacissima di dire tanto il falso quanto il vero sui calcoli: costui è chi è bravo in materia, l’esperto di calcoli. Ippia – Sì. Socrate – Chi altri (5) dunque è falso in relazione al calcolo, Ippia, se non l’esperto? È lo stesso infatti che è anche capace: ma quest’ultimo è anche veritiero. Ippia – Così sembra. Socrate – Vedi dunque che la stessa persona è mendace e veritiera su queste cose, e il veritiero non è per niente migliore del mendace? (367d) Sono infatti la stessa persona e non sono opposti, come credevi tu poco fa. Ippia – Sembra di no, perlomeno in questo caso. Socrate – Vuoi dunque che esaminiamo anche altri casi? (5) Ippia – Se davvero lo desideri. Socrate – Non sei forse pratico anche di geometria? Ippia – Lo sono eccome. Socrate – Ebbene? Non stanno così le cose anche in geometria: la stessa persona è capace al massimo grado di dire tanto il vero quanto il falso in relazione alle figure geometriche, e cioè il geometra? Ippia – Sì. Socrate – In questo ambito dunque (367e) c’è qualcun altro esperto oltre a costui? Ippia – Nessun altro.

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Socrate – Il geometra esperto e competente non è dunque abilissimo in entrambe le cose? E se altri mai può essere mendace in relazione alle figure geometriche, non dovrebbe essere proprio questo, il geometra esperto? Costui è infatti capace, mentre chi non è esperto (5) era risultato incapace di mentire: cosicché non potrebbe essere mendace colui che non è in grado di mentire, come si è concordato. Ippia – È così. Socrate – Consideriamo ancora una terza persona, l’astronomo, della cui arte tu ritieni di essere ancora più esperto (368a) che delle precedenti. Non è vero, Ippia? Ippia – Sì. Socrate – Le cose non stanno forse allo stesso modo anche nell’astronomia? Ippia – È verosimile, Socrate. Socrate – Dunque anche in astronomia, se altri mai è mendace, sarà mendace l’astronomo esperto, (5) cioè colui che è capace di dire il falso. Non lo sarà, infatti, chi è incapace, perché è ignorante. Ippia – Così pare. Socrate Anche in astronomia, dunque, la stessa persona sarà mendace e veritiera. Ippia – Pare di sì. Socrate – Orsù, Ippia, passa in rassegna senza indugio (368b) tutte le scienze, per vedere se da qualche parte c’è un caso in cui le cose stanno diversamente da così. Senz’altro tu sei il più sapiente di tutti gli uomini nel maggior numero di arti, come io ti ho udito una volta vantarti, quando nella piazza del mercato, vicino ai (5) tavoli dei cambiavalute, descrivevi in dettaglio la tua grande ed invidiabile sapienza. Dicevi infatti di esser giunto un giorno a Olimpia avendo realizzato tu stesso tutte le cose che avevi sul tuo corpo: innanzitutto l’anello che portavi – incominciasti infatti di lì – sarebbe stato (368c) opera tua, in quanto tu avresti saputo cesellare gli anelli, e così un altro anello con il sigillo, anche questo opera tua, e lo strigile e l’ampolla che avevi fatto tu stesso; poi le calzature che indossavi dicevi di averle fabbricate da solo, e di aver tessuto il mantello e la tunica; e, cosa che (5) a tutti parve più incredibile e prova della più grande sapienza, quando dicesti che la cintura della tunica, che indossavi, era tale quale le cinture persiane, di quelle di lusso, e che l’avevi intrecciata tu stesso. Oltre a queste cose, dicesti poi di essere giunto portando con te composizioni poetiche, e cioè poemi epici, tragedie (368d) e ditirambi, e discorsi in prosa numerosi e variamente composti; e a proposito delle arti di cui parlavo poco fa affermavi di essere giunto esperto in maniera superiore agli altri, e anche a proposito della correttezza di ritmi, armonie e lettere, (5) e ancora in molte al-

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tre cose oltre a queste, come mi sembra di ricordare. Ma ecco che dimenticavo, a quanto pare, proprio la tua arte mnemonica, nella quale ti ritieni particolarmente illustre; e penso (368e) di averne dimenticate molte altre. Ma, tornando a quel che voglio dire, sia guardando alle tue stesse arti – sono abbastanza – sia a quelle degli altri, dimmi se sulla base di quanto io e te abbiamo concordato trovi da qualche parte un caso in cui una sia la persona veritiera, un’altra quella falsa, separatamente (5) e non la stessa. Indaga in qualsivoglia sapienza o furbizia (369a) o in qualunque modo ti piaccia chiamarla, ma non lo troverai, amico mio, perché non c’è. Allora, parla. Ippia ̶ Ma non sono in grado di dirtelo, Socrate, perlomeno adesso, così su due piedi. Socrate – E non ci riuscirai mai, credo. Se dico la verità, (5) ricorda ciò che consegue per noi dal ragionamento, Ippia. Ippia – Non capisco bene, Socrate, quel che vuoi dire. Socrate – Forse ora non fai uso dell’arte mnemonica – evidentemente credi non ve ne sia bisogno – ma te lo ricorderò io. Sai che dicevi che Achille è sincero, Odisseo invece (369b) bugiardo e scaltro? Ippia – Sì. Socrate – Ora dunque ti rendi conto che falso e veritiero sono risultati essere la stessa persona, cosicché, se Odisseo era bugiardo, ecco che (5) diventa anche sincero, e se Achille era sincero, anche bugiardo, e i due eroi non sono diversi né opposti tra loro, ma simili? Ippia – Socrate, tu intrecci sempre dei discorsi di questo genere e, prendendo il punto più difficile del ragionamento, (369c) ti aggrappi a questo attaccandolo a poco a poco, e non gareggi affrontando nella sua interezza la questione su cui verte il discorso. Anche ora, se vuoi, ti dimostrerò sulla base di molte prove, con un discorso adeguato, che Omero ha raffigurato Achille migliore di Odisseo ed estraneo alla menzogna, l’altro invece (5) infido e in atto di dire molte menzogne e peggiore di Achille. Se vuoi, tu contrapponi discorso a discorso, per dimostrare che è migliore l’altro: e giudicheranno meglio costoro chi di noi due tiene il discorso migliore. (369d) Socrate – Ippia, io non contesto affatto che tu sia più sapiente di me, ma sono abituato, quando qualcuno dice qualcosa di interessante, a prestare attenzione, soprattutto nel caso in cui chi parla mi sembri essere sapiente, e desiderando comprendere ciò che dice lo interrogo a fondo, (5) riesamino e confronto le cose dette, per capire; nel caso in cui, invece, chi parla mi sembri una persona di poco conto, non gli faccio tante domande e non mi curo di quel che dice. Da questo, dunque, riconoscerai quelli che io ritengo essere sapienti: troverai infatti che sono insistente sulle cose dette (369e) da uno di costoro e che lo interrogo, per trarne giovamento imparando qualcosa. Anche adesso, mentre tu parlavi, mi è venuto in mente che

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nei versi che citavi tu prima, mostrando che Achille si rivolge a Odisseo come se quest’ultimo fosse un bugiardo, mi sembra strano, (5) se tu dici il vero, il fatto che Odisseo, l’imbroglione, in realtà da nessuna parte (370a) risulta aver mentito, mentre è Achille che risulta un imbroglione, secondo il tuo ragionamento: perlomeno, dice il falso. Dopo aver detto in precedenza quei versi che anche tu citavi poco fa: «Odioso mi è infatti come le porte dell’Ade chi una cosa nasconde nel cuore, un’altra ne dice» (370b) poco dopo dice che non si sarebbe lasciato persuadere da Odisseo e da Agamennone e che non sarebbe affatto rimasto a Troia, ma: «Domani, – dice – fatti i sacrifici a Zeus e a tutti gli dèi, ben caricate le navi, dopo averle tratte in mare, vedrai, se lo vuoi e se ti sta a cuore, di buon’ora le mie navi navigare sul pescoso Ellesponto, (370c) e in esse uomini desiderosi di remare; e se il glorioso Ennosigeo concedesse buona navigazione, nel giro di tre giorni potrei giungere a Ftia dalle ricche zolle». E ancor prima di questi versi aveva detto ad Agamennone, oltraggiandolo (5): «Ora me ne vado a Ftia, poiché è molto meglio tornare in patria con le navi ricurve, e non intendo, (370d) restando qui privo di onore, accumulare per te beni e ricchezze». Dopo aver detto queste cose una volta davanti all’esercito intero, un’altra rivolto ai suoi compagni, da nessuna parte poi risulta che egli abbia fatto dei preparativi né che abbia cercato di trarre in mare le navi (5) per salpare verso casa, ma dimostra davvero un nobile disprezzo del dire il vero. Fin dall’inizio perciò, Ippia, io ti interrogavo perché ero in dubbio su quale di questi due eroi (370e) fosse raffigurato migliore dal poeta, e ritenevo che entrambi fossero eccellenti e che fosse difficile giudicare chi dei due fosse migliore, sia per quel che riguarda menzogna e veridicità sia per il resto della virtù: anche sotto questo aspetto, infatti, sono entrambi allo stesso livello. (5) Ippia – Non indaghi correttamente, Socrate. Infatti, le falsità che dice Achille, non risulta dirle di proposito, bensì involontariamente, perché costretto per via della situazione disperata dell’esercito a rimanere e prestare soccorso: quelle che dice Odisseo, invece, le dice volontariamente e di proposito. Socrate – Tu m’inganni, carissimo Ippia, e tu stesso imiti Odisseo.

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(371a) Ippia – Nient’affatto, Socrate: che cosa intendi e in riferimento a che cosa? Socrate – Per il fatto che tu dici che Achille non mente di proposito, lui che è a tal punto imbroglione e impostore, oltre al fatto di parlare a vuoto, per come lo ha raffigurato Omero, che si rivela essere (5) così più furbo di Odisseo, quanto allo sfuggirgli facilmente con le sue menzogne, da osare contraddirsi dinnanzi a lui, e sfugge effettivamente all’attenzione di Odisseo: Odisseo, perlomeno, non risulta avergli detto nulla con l’aria di essersi accorto (371b) che egli mentiva. Ippia – A che cosa fai riferimento, Socrate? Socrate – Non sai che, poco dopo aver detto a Odisseo che sarebbe salpato all’alba, ad Aiace (5) non dice di nuovo che sarebbe salpato, ma dice un’altra cosa? Ippia – Dove? Socrate – Nei versi in cui dice: «Non mi darò pensiero della guerra cruenta (371c) prima che il figlio del saggio Priamo, Ettore glorioso, sia giunto alle tende e alle navi dei Mirmidoni facendo strage degli Argivi, e abbia dato fuoco alle navi; davanti alla mia tenda e alla nera nave penso che Ettore si fermerà, benché bramoso di battaglia». Tu dunque, Ippia, pensi forse che (371d) il figlio di Teti, educato dal sapientissimo Chirone, fosse così smemorato che, dopo aver poco prima insultato i bugiardi con l’ingiuria più grave, subito dopo avrebbe detto a Odisseo che sarebbe partito, ad Aiace invece che sarebbe rimasto, e questo non (5) con l’intento di imbrogliare e senza ritenere che Odisseo fosse un rimbambito e che lo avrebbe superato in questa stessa arte dell’imbrogliare e del mentire? Ippia – Non mi sembra affatto, Socrate, ma (371e) ad Aiace disse le stesse cose in maniera diversa rispetto a quel che aveva detto a Odisseo perché si era lasciato persuadere a mutare opinione per via del suo buon carattere; Odisseo invece, le cose vere che dice, le dice sempre con intento premeditato, e le menzogne che dice, altrettanto. Socrate – È dunque migliore, a quanto pare, Odisseo (5) di Achille. Ippia – Proprio per niente, Socrate. Socrate – Ma come, non era risultato poco fa che coloro che dicono volontariamente il falso sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente? Ippia – Ma, Socrate, come potrebbero coloro che compiono ingiustizia e (372a) tramano inganni e compiono il male volontariamente essere miglio-

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ri di quelli che lo fanno involontariamente, verso i quali si ritiene comunemente vi sia grande indulgenza, qualora uno compia ingiustizia o dica una menzogna o commetta qualche altro reato senza saperlo? Anche le leggi sono certamente molto più severe nei confronti di chi (5) commette il male ed inganna volontariamente, piuttosto che di coloro che lo fanno involontariamente. Socrate – Lo vedi, Ippia, che dico il vero quando dico che (372b) sono insistente nelle interrogazioni dei sapienti? E forse ho solo questa buona qualità, mentre per il resto valgo poco: sono infatti incerto sulle cose, e non so come stanno. Prova sufficiente di questo, per me, è che quando mi trovo insieme (5) a qualcuno di voi che siete rinomati per sapienza e che avete tutti i Greci a testimoni della vostra sapienza, risulto non sapere nulla: infatti non condivido praticamente mai la vostra opinione. (372c) E, appunto, quale maggiore prova di ignoranza esiste che quando uno si trovi in disaccordo con i sapienti? Ho però questa sola meravigliosa buona qualità, che mi salva: e cioè che non mi vergogno di apprendere, ma faccio domande e interrogo e serbo molta gratitudine per colui che mi risponde, (5) e non ho mai lasciato nessuno privo di ringraziamento. Non ho mai negato di aver appreso qualcosa, appropriandomi dell’insegnamento ricevuto come di una mia scoperta, ma elogio come sapiente colui che mi ha istruito, mostrando ciò che ho appreso da lui. Anche ora (372d) infatti non sono d’accordo sulle cose che tu dici, ma sono in completo disaccordo, e so bene che questo accade per causa mia, per il fatto che sono così come sono, per non dire di me qualcosa di peggio. A me infatti, Ippia, sembra tutto il contrario di quel che tu dici: coloro i quali (5) danneggiano le persone, commettono ingiustizia, mentono, ingannano e sbagliano volontariamente, e non involontariamente, mi sembra che siano migliori di quelli che lo fanno senza volere. Talvolta, in realtà, mi pare vero anche il contrario e sono in dubbio su tali questioni, chiaramente per il fatto (372e) di non sapere; ora, in questo momento, mi è come sopraggiunta una crisi della mia malattia, e coloro che sbagliano volontariamente in qualcosa mi sembrano migliori di quelli che lo fanno involontariamente. La causa dell’attuale condizione la attribuisco ai discorsi di poco fa, (5) cosicché ora, sul momento, coloro che compiono ciascuna di queste cose involontariamente mi appaiono peggiori di quelli che lo fanno volontariamente. Tu dunque usami una cortesia e non ti rifiutare di curare la mia anima: (373a) mi procurerai infatti un bene assai maggiore liberandomi l’anima dall’ignoranza che il corpo da una malattia. Se però intendi pronunciare un lungo discorso, ti dico già che non mi curerai – non riuscirei infatti a seguirti – ma se invece vuoi rispondermi come prima, mi gioverai molto, (5) e penso che neanche tu ne sarai danneggiato. A buon diritto potrei chiamare in soccorso anche

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te, figlio di Apemanto: sei tu infatti ad avermi spinto a dialogare con Ippia, e ora, se Ippia non vuole rispondermi, pregalo tu per me. Eudico – Ma, Socrate, credo che Ippia non avrà alcun bisogno (373b) della nostra preghiera: non erano infatti tali le sue dichiarazioni di prima, ma diceva che non si sarebbe sottratto alla domanda di nessuno. Non è vero, Ippia? Non erano queste le cose che dicevi? Ippia – È vero, Eudico, ma Socrate porta sempre confusione nei (5) ragionamenti e sembra che si comporti proprio come chi commette una cattiva azione. Socrate – Carissimo Ippia, non lo faccio certo volontariamente – altrimenti sarei sapiente e abile, secondo la tua tesi – ma involontariamente, sicché abbi indulgenza per me: dici infatti che si deve avere indulgenza per chi sbaglia senza volere. (373c) Eudico – Non fare assolutamente in altro modo, Ippia, ma, sia per riguardo a noi che per coerenza con le tue precedenti dichiarazioni, rispondi alle domande che ti pone Socrate. Ippia – Ma certo, risponderò, perlomeno perché sei tu a chiederlo. Chiedi pure (5) ciò che vuoi. Socrate – In effetti desidero davvero, Ippia, indagare più a fondo quel che si diceva poco fa, e cioè quali siano migliori, coloro che sbagliano volontariamente o coloro che lo fanno involontariamente. Penso dunque che in questo modo si possa procedere all’indagine nella maniera più corretta. Ma rispondi: c’è qualcuno che chiami buon corridore? (373d) Ippia – Sì, certo. Socrate – E cattivo? Ippia – Sì. Socrate – Non è forse buono quello che corre bene, cattivo quello che corre male? Ippia – Sì. Socrate – Nella corsa dunque e nel correre la velocità è un bene, (5) la lentezza un male? Ippia – E come potrebbe essere altrimenti? Socrate – Quale corridore è dunque migliore, quello che corre lentamente di proposito o quello che lo fa involontariamente? Ippia – Quello che lo fa di proposito. Socrate – Il correre non è forse fare qualcosa? Ippia – Certo, è fare qualcosa. Socrate – Se è fare, non è anche realizzare (373e) qualcosa? Ippia – Sì. Socrate – Dunque colui che corre male compie un’azione cattiva e disdicevole nella corsa?

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Ippia – Cattiva, come no? Socrate – Chi corre lentamente corre male? Ippia – Sì. Socrate – Dunque il buon corridore realizza quest’azione malfatta (5) e disdicevole volontariamente, quello cattivo involontariamente? Ippia – Sembra che sia così. Socrate – Nella corsa è dunque peggiore chi compie un’azione malfatta involontariamente (374a) rispetto a chi la compie volontariamente? Ippia – Perlomeno nella corsa. Socrate – E nella lotta? Quale lottatore è migliore, quello che cade volontariamente o quello che lo fa involontariamente? Ippia – Quello che lo fa volontariamente, a quanto pare. Socrate – Nella lotta è cosa peggiore e più disdicevole il cadere o il far cadere? Ippia – Il cadere. (5) Socrate – Anche nella lotta dunque chi compie volontariamente le azioni cattive e disdicevoli è lottatore migliore di quello che lo fa involontariamente. Ippia – Così pare. Socrate – E in ogni altro esercizio del corpo? Il migliore dal punto di vista fisico non sarà in grado di realizzare entrambi i tipi di azioni, sia le forti (374b) che le deboli, sia le belle che le brutte? Cosicché qualora compia azioni malfatte in relazione al corpo, colui che è migliore fisicamente le compirà volontariamente, quello che è peggiore involontariamente? Ippia – Sembra che le cose stiano così anche per quel che riguarda la forza. (5) Socrate – E per quel che riguarda la grazia? Non è forse proprio del corpo migliore assumere volontariamente le posture brutte e scorrette, di quello peggiore l’assumerle involontariamente? Non ho forse ragione? Ippia – Sì, è così. Socrate – Il portamento sgraziato, dunque, quando è volontario dipende (374c) da una qualità, quando è involontario da un difetto del corpo. Ippia – Sembra che sia così. Socrate – E che cosa dici a proposito della voce? Quale sostieni essere migliore, quella che stona volontariamente o quella che lo fa involontariamente? Ippia – Quella che stona volontariamente. Socrate – Consideri peggiore, invece, quella che lo fa involontariamente? (5) Ippia – Sì. Socrate – Preferiresti possedere le cose buone o quelle cattive?

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Ippia – Le buone. Socrate – Preferiresti dunque possedere piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente? (374d) Ippia – Volontariamente. Socrate – Ma lo zoppicare dei piedi non è un difetto e una deformità? Ippia – Sì. Socrate – E la debolezza della vista, non è un difetto degli occhi? Ippia – Sì. Socrate – Quali occhi preferiresti possedere e con i quali vorresti convivere, quelli con cui (5) si possa veder poco e veder male volontariamente o quelli con cui lo faccia involontariamente? Ippia – Quelli con cui lo possa fare volontariamente. Socrate – Dunque ritieni migliori, tra le tue parti del corpo, quelle che funzionano male volontariamente piuttosto che quelle che lo fanno involontariamente? Ippia – Sì, perlomeno le cose di questo genere. Socrate – Un unico ragionamento dunque comprende tutte queste cose, come orecchie, naso, bocca e tutti gli organi di senso, e cioè che non è desiderabile possedere (374e) quelli che funzionano male involontariamente in quanto sono difettosi, mentre quelli che lo fanno volontariamente è desiderabile possederli, in quanto funzionanti? Ippia – Mi sembra di sì. Socrate – E degli strumenti, con quali è meglio avere a che fare, con quelli con cui si realizzi volontariamente un’azione malfatta o quelli con cui lo si faccia involontariamente? Ad esempio, è meglio un timone con il quale (5) si guiderà male la nave involontariamente o quello con cui lo si faccia volontariamente? Ippia – Quello con cui lo faccia volontariamente. Socrate – Non sarà lo stesso anche per quel che riguarda arco, lira, flauti e tutte le altre cose di questo genere? (375a) Ippia – Dici il vero. Socrate – E per quel che riguarda il possedere l’anima di un cavallo, è meglio possedere quella con cui si cavalchi male volontariamente o quella lo si faccia involontariamente? Ippia – Quella con cui lo si faccia volontariamente. Socrate – È dunque migliore. Ippia – Sì. Socrate – E con l’anima equina migliore si potrebbero realizzare volontariamente male (5) le azioni proprie di tale anima, con quella peggiore involontariamente? Ippia – Senz’altro.

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Socrate – Non è dunque così anche per l’anima di un cane e di tutti gli altri animali? Ippia – Sì. Socrate – E che dire nel caso dell’uomo? È meglio possedere l’anima di un arciere che manchi volontariamente (375b) il bersaglio, o quella che lo faccia involontariamente? Ippia – Quella che lo faccia volontariamente. Socrate – Non è dunque anche questa migliore nell’arte del tiro con l’arco? Ippia – Sì. Socrate – E dunque l’anima che sbaglia involontariamente è peggiore di quella che lo fa volontariamente? Ippia – Perlomeno nell’arte del tiro con l’arco. Socrate – E nella medicina? Non (5) è più esperta in medicina quella che danneggia i corpi volontariamente? Ippia – Sì. Socrate – Questa è dunque migliore, in questa tecnica. Ippia – Sì, è migliore. Socrate – E che dire dell’anima più esperta nel suonare la cetra e di quella più esperta nel suonare il flauto e in quant’altro riguarda le arti (375c) e le scienze? Non è l’anima migliore a compiere azioni malfatte e brutte e sbagliare volontariamente, quella peggiore involontariamente? Ippia – Sembra di sì. Socrate – Ma senz’altro preferiremmo possedere anime di schiavi che sbaglino e agiscano male volontariamente (5) piuttosto che involontariamente, in quanto migliori nelle attività in questione. Ippia – Sì. Socrate – E la nostra anima, non vorremmo possederla la migliore possibile? (375d) Ippia – Sì. Socrate – Non sarà dunque migliore qualora compia il male e sbagli volontariamente piuttosto che involontariamente? Ippia – Sarebbe davvero assurdo, Socrate, se coloro che commettono ingiustizia volontariamente fossero migliori di coloro che lo fanno involontariamente. (5) Socrate – Ma tali invece risultano da quanto è stato detto. Ippia – Non certo per me. Socrate – Io credo invece, Ippia, che lo sembrino anche a te. Ma rispondi di nuovo: la giustizia non è una forma di capacità o di scienza o entrambe le cose? O non è necessario che la giustizia sia (375e) una di queste cose? Ippia – Sì.

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Socrate – Se dunque la giustizia è una capacità dell’anima, l’anima più capace non è forse più giusta? Migliore ci è infatti risultata, amico mio, un’anima siffatta. Ippia – Lo è risultata, sì. Socrate – E che dire nel caso in cui sia scienza? L’anima più sapiente (5) non sarà più giusta, quella più ignorante più ingiusta?

Socrate – E se fosse entrambe le cose? L’anima che possiede entrambe le cose, scienza e capacità, non sarebbe più giusta, quella più ignorante più ingiusta? O non è necessario che le cose stiano così? Ippia – Sembra. Socrate – Quest’anima più capace e più sapiente non è forse risultata migliore e in grado di compiere meglio entrambi i tipi di azione, quelle (376a) belle e quelle brutte, in ogni attività? Ippia – Sì. Socrate – Qualora dunque compia le azioni turpi, lo farà volontariamente per capacità e per tecnica: queste ultime infatti risultano proprie della giustizia, o entrambe o l’una delle due. Ippia – Sembra così. Socrate – E il (5) commettere ingiustizia è compiere cattive azioni, il non commetterla è compierne di belle. Ippia – Sì. Socrate – Dunque l’anima più capace e migliore, qualora commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, quella peggiore involontariamente? Ippia – Sembra. (376b) Socrate – Non è dunque un uomo buono colui che possiede l’anima buona, cattivo quello che possiede quella cattiva? Ippia – Sì. Socrate – È dunque proprio dell’uomo buono commettere ingiustizia volontariamente, di quello cattivo involontariamente, se l’uomo buono ha l’anima buona. Ippia – Ma ce l’ha. Socrate – Chi sbaglia (5) e commette azioni turpi e ingiuste volontariamente, o Ippia, se davvero esiste una tale persona, non potrebbe dunque essere altri che la persona buona. Ippia – Non so come concederti queste conclusioni, Socrate. Socrate – Neppure io a me stesso, Ippia, ma è necessario che così (376c) ci risulti, almeno per adesso, dal ragionamento. Come dicevo prima, su queste cose io mi dibatto in su e in giù nell’incertezza e non arrivo mai alle stesse conclusioni. Ma che io o un altro profano andiamo errando, non c’è

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IPPIA MINORE [«Sul falso»]

niente di cui meravigliarsi: se però andate errando anche voi sapienti, (5) questo sarebbe tremendo anche per noi, se neanche giunti presso di voi cesseremo dal nostro errare.

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APPENDIX CONIECTURARUM

363b2 363d1 363d1 364b1 364b4 364b7 365b5-6 365b6 365b7-8 365d3 366c3 367a2 367a8 367b3 367d5 367e5 367e8 368a4 368c1 368c1 368d2 368d4 369b1 369c7 369e1 370b2 370e2 371a4 371a5 371b3 371b3-4

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ποίημα] ποίημα Naber (1861), 54 ἐξ Ἤλιδος] del. Naber (1908), 271 ἐπανιὼν] ἀνιὼν van Herwerden (1887), 174 καὶ τῇ Ἠλείων] καὶ del. Stallbaum dub. in comm. τε καὶ Ὀδυσσέως] τε del. Naber (1861), 54 ὄχλος τε … καὶ μή] τε et καὶ del. censuit Naber (1861), 54 = (1908), 271 ποιεῖ γὰρ ... ἔπη] del. Hoenebeek Hissink (1845), 10 εἰς τὸν Ὀδυσσέα] πρὸς τὸν Ὀδυσσέα Naber (1908), 271 λέγεις· τὸν πολύτροπον ψευδῆ] post πολύτροπον dist. Bekker ταῦτα] ταὐτά Naber (1908), 271 ἔχῃ] ἔχοι Stephanus βουλομένου] βουλόμενος van Herwerden (1887), 175 θῶμεν] φῶμεν Schanz δυνατὸν] δυνατῷ Hirschig εἰ ἄλλως] εἰ ἄλλως Sehrwald apud Schanz; ἄλλοθι dub. Burges ὥστε] ὡς Hoenebeek Hissink (1845), 9 τὸν τρίτον] τὸ τρίτον Schleiermacher εἴπερ τις καὶ ἄλλος ψευδής] ψευδής del. Naber (1861), 54 ὡς ἐπιστάμενος … γλύφειν] del. Herwerden (1887), 175 καὶ ἄλλην] καὶ καλὴν Burges τῶν τεχνῶν] τῶν τεχνῶν Baumann apud Schanz γραμμάτων] διαγραμμάτων Cornarius ψευδῆ καὶ πολύτροπον] καὶ πολύτροπον del. Hirschig οὗτοι] οὑτοιῒ Hirschig τούτου] τούτων vel τοιούτου Sydenham μένοι] μενεῖ Naber 1861, 55; μενοίη Hirschig καὶ περὶ ψεύδους … καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς] prius καὶ del. censuit vel τῆς ἄλλης ἀρετῆς Herwerden (1887), 175 ὡς πεποίηκεν Ὅμηρος] del. Naber (1908), 272 φρονεῖν] φρονῶν Naber (1861), 55 ὕστερον ἢ] τῇ ὑστεραίᾳ Sydenham ὕστερον ἢ ὡς πρὸς τὸν Ὀδυσσέα ἔφη ἅμα τῇ ἠοῖ ἀποπλευσεῖσθαι] ὕστερον ... ἔφη del. Beck; ἢ ... ἀποπλευσεῖσθαι del. Naber (1908), 272

APPENDIX CONIECTURARUM

371d1 373a2 373b2 374a7 374b1 374b3 374c6 375b3 375e6 376c2

ὑπὸ τοῦ σοφωτάτου] ὑπὸ τῷ σοφωτάτῳ Naber (1908), 272, coll. Rep. 3.391c μακρὸν ... λόγον] μακρῷ ... λόγῳ dub. Schleiermacher φύγοι] φεύγοι Richards (1911), 26 βελτίων] βελτίων van Heusde (1803), 78 («robustior atque aptior» vertit Ficinus) καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ τὰ καλά] del. Baumann και τὰ κατὰ] κατά Stallbaum dub. in comm. οὖν ἂν] ἂν οὖν Hirschig ψυχὴ ἄρα ἀκουσίως] ἀκουσίως Sydenham ] ἔοικε vel ναί van Heusde (1803), 78 ἄνω καὶ κάτω] καὶ del. van Herwerden (1887), 175

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COMMENTO

Titolo. L’antichità del titolo Ἱππίας ἐλάττων, tràdito concordemente dai mss. medievali (TWF), è confermata dalla testimonianza di Olimpiodoro (ὥσπερ Ἱππίας μείζων καὶ ὁ ἐλάττων, Olympiod. In Alc. I, 6 Westerink), benché il titolo originario dovesse essere il semplice Ἱππίας (cf. ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος, Aristot. Metaph. 5.29, 1025a6; cf. anche Ἱππίαι δύο, Diog. Laert. 3.51, e Ἱππίαι δύο – α’ ἢ περὶ τοῦ καλοῦ, β’ ἢ περὶ τοῦ ψεύδους, 3.60; Ἱππίαι β’, PSILaur. inv. 19662v; in Alb. Prol. 3 è indicato un solo Ἱππίας, senza alcuna specificazione); per una differente denominazione, cf. però Themist. Or. 29, 345c-d, che si riferisce al dialogo come ἐν τῷ βραχυτέρῳ Ἱππίᾳ. Il sottotitolo corretto περὶ τοῦ ψεύδους, riportato da Diogene Laerzio (Diog. Laert. 3.60, cf. supra), si trova invece, nella tradizione manoscritta, solo in Ven. 186, l’esemplare di lavoro del Bessarione, e Ven. 184, che ne è la copia; in quest’ultimo è aggiunta nel margine anche la classificazione diairetica per χαρακτῆρες, in base alla quale l’Ippia minore è indicato come ἀνατρεπτικός (per cui cf. Diog. Laert. 3.49-51 e 58-61), e si può ragionevolmente ritenere che entrambe le indicazioni siano tratte da Diogene Laerzio stesso, come osserva Rijksbaron (2007), 17, a proposito dello Ione. Il resto della tradizione in cui sono presenti i sottotitoli (TW) ha erroneamente περὶ τοῦ καλοῦ, che è in realtà il sottotitolo dell’Ippia maggiore (cf. ancora Diog. Laert. 3.60, citato supra), con ogni probabilità un semplice errore meccanico dovuto al fatto che, nell’ordine tetralogico, l’Ippia maggiore precede immediatamente l’Ippia minore; un caso analogo si verifica nella tradizione del Teage, per il quale il sottotitolo περὶ σωφροσύνης di BW è derivato erroneamente dal Carmide, che, in quel caso, segue nell’ordine tetralogico: cf. Joyal (2000), 195. Per quanto riguarda l’origine dei doppi titoli, il cui uso per ciascun dialogo è attribuito da Diogene Laerzio a Trasillo (διπλαῖς τε χρῆται ἐπιγραφαῖς καθ’ἑκάστου τῶν βιβλίων, τῇ μὲν ἀπὸ τοῦ ὀνόματος, τῇ δὲ ἀπὸ τοῦ πράγματος, Diog. Laert. 3.57), è opinione comune che il primo (detto ἀπὸ τοῦ ὀνόματος in quanto generalmente derivato dal nome dell’interlocutore o, in caso ve ne sia più d’uno, di uno degli interlocutori di Socrate) possa essere ricondotto a Platone stesso, come si evince dall’autocitazione del Sofista presente nel Politico (ἐν τῷ Σοφιστῇ, Pol. 284b7; cf. ibid. 286b10). Più complessa la questione dei sottotitoli tematici (ἀπὸ τοῦ πράγματος), alcuni dei quali sono sicuramente anteriori a Trasillo: Aristotele si riferisce infatti al Menesseno con l’indicazione ἐν τῷ ἐπιταφίῳ (Aristot. Rhet. 1415a30), ed il

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PROLOGO (363A1-365D5)

Fedone è citato con il titolo περὶ ψυχῆς sia da Callimaco (Epigr. 23.4 Pfeiffer) che nella pseudoplatonica Epistola XIII ([Ep.] 13.363a7); cf. anche la citazione del Simposio da parte di Aristotele come ἐν τοῖς ἐρωτικοῖς λόγοις (Pol. 2.4.1262b11), riportato in Bonitz (1870), 598b, titolo che, peraltro, non coincide in questo caso con quello tematico adoperato da Trasillo che era invece, secondo quanto riporta Diogene Laerzio, περὶ τοῦ ἀγαθοῦ (Diog. Laert. 3.58). Sembra tuttavia improbabile che anche i sottotitoli possano risalire a Platone, come sostenuto da alcuni studiosi, in part. Hoerber (1957), le cui tesi sono ora riprese da Rijksbaron (2007), 15-23. È invece verosimile che, per quanto alcuni sottotitoli tematici siano effettivamente antichi, la loro attribuzione sistematica a ciascun dialogo sia da collocarsi solo in una fase successiva di organizzazione del corpus platonico, quale potrebbe essere appunto quella operata da Trasillo, come ritengono Tarrant (1993), 91-92, e Mansfeld (1994), 71-74, oppure un’eventuale edizione alessandrina, come ritiene Dodds (1959), 33 n. 1, o, ancora, l’Accademia di mezzo, secondo l’ipotesi di Carlini (1972), 29. Sulla questione cf. anche le discussioni in Slings (1999), 263; Joyal (2000), 195-96; Martinelli Tempesta (2003), 227-29.

PROLOGO (363A1-365D5) Il prologo è breve ed è caratterizzato dalla presenza, nelle battute iniziali, di un terzo personaggio, Eudico, che introduce la conversazione tra Socrate ed Ippia per poi sparire di scena nel resto del dialogo, in cui farà in seguito solo una breve comparsa, chiamato in aiuto da Socrate quando la discussione con il sofista attraversa un momento di crisi (373a5 ss.). Per ipotesi circa l’identità del personaggio, cf. 363a6 e nota ad loc.; per il suo ruolo «d’instigateur et de moderateur du débat» cf. invece Lallot (2000), 50. Il quesito iniziale non è, a differenza che nella maggior parte degli altri dialoghi giovanili, la richiesta di una definizione, per es. ἀνδρεία τί ποτ’ἐστίν, Lach. 190d8; τί φῂς εἶναι σωφροσύνην κατὰ τὴν σὴν δόξαν, Charm. 159a10; τί φῂς εἶναι τὸ ὅσιον καὶ τὸ ἀνόσιον, Euthyphr. 5d7; τί ἐστι τὸ καλόν, Hipp. mai. 286d1-2; τί φῂς ἀρετὴν εἶναι, Men. 71d5; cf. anche ὅντινα τρόπον γίγνεται φίλος ἕτερος τοῦ ἑτέρου, Lys. 212a5-6; sui dialoghi di definizione e la cosiddetta «“What is X?” Question» caratteristica del metodo socratico, cf. in generale Puster (1983); cf. anche Robinson (1953), 51-62; Stemmer (1992), 31-96. Si tratta invece di una domanda sui protagonisti dei poemi omerici, Achille e Odisseo, che si riallaccia direttamente al tema dell’epidissi che Ippia ha appena tenuto e il cui soggetto è indicato, appunto, come περὶ Ὁμήρου (363b1; cf. c2-3). Dalla descrizione che Ippia dà dei due perso-

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COMMENTO

naggi (364e7-b6) emergono poi i problemi fondamentali che saranno al centro della successiva argomentazione, ovvero la natura della persona ψευδής e la sua contrapposizione a quella ἀληθής, che Socrate desume sulla base del contrasto istituito da Ippia tra le figure, rispettivamente, di Odisseo e di Achille (365b4-5; cf. 365c1-7).

363a1-c3 Ippia ha appena terminato un’epidissi su Omero ed altri poeti, e il grosso del pubblico si è ormai allontanato, lasciando solo un piccolo gruppo di persone. Socrate, che è rimasto fino ad allora in silenzio, è chiamato ad intervenire per esprimere il proprio giudizio sul discorso appena ascoltato, approvando o, se è il caso, criticando ciò che Ippia ha detto. Piuttosto, però, egli vorrebbe porre una domanda all’ospite, per conoscere più precisamente la sua opinione a proposito dei due principali eroi omerici, Achille e Odisseo, ovvero come li giudichi e quale dei due ritenga essere migliore. La scena iniziale presenta una situazione non rara nei dialoghi che vedono protagonisti dei sofisti: cf. in part. Gorg. 447a-c, dove il dialogo si apre quando Gorgia ha appena concluso un’epidissi (cf. 447a5-6) e, come avviene qui con Eudico, è un terzo personaggio, in quel caso Callicle, che ospita Gorgia, ad introdurre la conversazione, esortando Socrate a porre le sue domande direttamente al sofista, poiché è stato egli stesso a rendersi disponibile a rispondere (447c5-8); nel Gorgia Socrate non ha però potuto ascoltare l’epidissi, dal momento che è arrivato troppo tardi, quando questa era, appunto, già conclusa (cf. 447a3-4). Cf. anche Prot. 328d-329d, dove Socrate attende il termine del lungo discorso di Protagora per porre le sue domande, e Lach. 178a-180a, per quanto si abbia, in quest’ultimo caso, non l’epidissi di un sofista ma un saggio di oplomachia tenutosi in una palestra, dal quale prende spunto la successiva discussione (ma sempre di un’esibizione si tratta: cf. ἐπιδεικνύμενον, 179e3). Sulle modalità di instaurazione dell’interrogazione socratica e in part. sul passaggio da epidissi a dialogo, cf. Longo (2000), 45-52; in generale sulle scene iniziali nei dialoghi giovanili, non solo quelle dei dialoghi con i sofisti, cf. Giannantoni (2005), 43-48 («Emblematiche del gusto di Socrate per le discussioni sono tutte le scene iniziali dei dialoghi giovanili», 43). In particolare sul ruolo di Eudico come mediatore e “garante del dialogo”, cf. Lallot (2000), 50-54: «C’est un personnage trop insignifiant … pour qu’on lui attribue une fonction de ‘chef du protocole’, mais il ya de cela», Lallot (2000), 50.

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363a1 σὺ δὲ δὴ «Ma tu perché...?». Come di frequente nei dialoghi privi di una cornice narrativa, la prima battuta è una domanda ex abrupto (per una domanda da parte di Socrate, cf. Crit. 43a1-2, Phaedr. 227a1, Menex. 243a1; da parte di un suo interlocutore, Euthyphr. 2a1-3, Crat. 383a1-2, Euthyd. 271a1, Prot. 309a1, Men. 70a1; cf. anche Theaet. 142a1-2). Nella maggior parte dei dialoghi, tuttavia, si immagina un incontro casuale tra Socrate e il suo interlocutore (Euthyphr., Phaedr., Hipp. mai., Ion, Menex.; benché si tratti della cornice, cf. anche Prot.); sulle scene d’incontro «collocato in una dimensione apparentemente casuale e realistica» che spesso aprono i dialoghi platonici, cf. ora De Sanctis (2016), 50. In questo caso, invece, i personaggi sono già riuniti, anche se è comunque solo ora che Socrate viene coinvolto nella conversazione: per una situazione analoga, cf. l’inizio del Cratilo, in cui Socrate viene chiamato a partecipare ad un dibattito già avviato (βούλει οὖν καὶ Σωκράτει τῷδε ἀνακοινωσώμεθα τὸν λόγον, Crat. 383a1-2); per quanto con ritardo, al termine di un prologo eccezionalmente lungo, cf. anche Lach. 180b7-c4. Sugli incipit dei dialoghi platonici, anche se non per il caso specifico dell’Ippia minore, hanno insistito negli ultimi decenni diversi studi, volti a rintracciare nelle prime parole un significato pregnante per il dialogo nel suo complesso: cf. Clay (1992), Burnyeat (1997/8) e ora anche Capuccino (2014). Per la combinazione di particelle δὲ δή ad indicare una domanda rivolta con sorpresa, cf. Denniston (1954²), 259. 363a1 τί σιγᾷς «perché resti in silenzio...?». Più avanti (364b5 ss.), Socrate giustificherà il proprio silenzio con il timore di disturbare interrompendo il discorso, nonché con il ritegno a parlare di fronte al pubblico numeroso che era prima presente nella sala: sul significato e la valenza ironica di tali giustificazioni, cf. infra, note ad locc. In altri dialoghi, l’effetto prodotto dall’ascolto delle esibizioni retoriche è ironicamente descritto come una sorta di fascinazione dalla quale Socrate fatica a riscuotersi, restando, come qui, a lungo in silenzio anche oltre la fine del discorso, come se non riuscisse a rendersi conto che esso è effettivamente terminato: cf. ἐγὼ ἐπὶ μὲν πολὺν χρόνον κεκηλημένος ἔτι πρὸς αὐτὸν ἔβλεπον ὡς ἐροῦντά τι, ἐπιθυμῶν ἀκούειν, Prot. 328d4-6; cf. anche Ap. 17a2-3, Menex. 235b8-c5, e in generale sul tema Giannantoni (2005), 130-31. Ma quello di richiamare l’attenzione sul silenzio di un personaggio è anche, naturalmente, un espediente drammatico per avviare la conversazione: per la domanda τί σιγᾷς nel dramma, cf. e.g. Eur. Hipp. 297 e Phoen. 960; Soph. Phil. 805 e O.C. 1271; Aristoph. Lys. 70, Thesm. 144 e Ran. 832. 363a1 ὦ Σώκρατες Nei dialoghi privi di cornice narrativa, il vocativo assolve nelle prime battute la funzione primaria di identificare i personaggi (cf. infra, ὦ Εὔδικε, 363a6; ὦ Ἱππία, 363c5; cf. anche e.g. Euthyphr. 2a1-5;

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COMMENTO

Ion 530a1-3; Menex. 234a1-2 etc.), il cui nome non era indicato nei libri antichi, dove il cambio di interlocutore era segnalato semplicemente da un dicolon o da una paragraphos: cf. Wilson (1970); Irigoin (2001), 38-39 e fig. 27. Il vocativo non ha tuttavia unicamente uno scopo identificativo, ma riveste anche funzioni stilistiche: in generale, il suo uso è costante all’interno delle sezioni di stile colloquiale medio, quello che per Thesleff (1967), 41-45, è il «Type B», ovvero «Discussion and Conversation», in cui introduce pressoché ogni battuta, come forma di cortesia (cf. qui, nella prima sezione, 363c7, 364a4, 364a8, 364b1, 364c3, 364c8, 364d3, 364e7, 365b7, 365c1, 365c5, 365c6), per calare poi sensibilmente nelle sezioni brachilogiche, «Type A», ovvero «Question and Reply» per Thesleff (1967), 35-41, dove è usato solo in alcuni punti cruciali, come espediente retorico (cf. infra, 366c5, 366e2, 367c5, 368a8 e 369a5 con note ad locc.). Sull’uso del vocativo in greco antico cf. in generale Dickey (1996) e in part. 43-44 sul ruolo del vocativo con il semplice nome come «very important element in greetings and conversation in Greek»; sull’uso del vocativo nei dialoghi platonici, cf. ancora Dickey (1996), 109-119, e Rijksbaron (2007), 258-60, mentre per vocativi caratteristici del personaggio di Socrate, cf. Halliwell (1995), oltre che infra, 370e10, 373b6 e 375e3 con note ad locc. 363a1-2 Ἱππίου ... ἐπιδειξαμένου «dopo che Ippia ha tenuto un così gran discorso», con semplice valore temporale, o anche con una sfumatura concessiva, «benché Ippia abbia tenuto un così gran discorso». Cf. anche, analogamente al termine dell’epidissi di un sofista all’inizio di un dialogo (che sia essa riportata o meno nel testo), Πρωταγόρας μὲν τοσαῦτα καὶ τοιαῦτα ἐπιδειξάμενος ἀπεπαύσατο τοῦ λόγου, Prot. 328d3; πολλὰ γὰρ καὶ καλὰ Γοργίας ... ἐπεδείξατο, Gorg. 447a5-6. Il verbo ἐπιδείκνυμι, all’attivo o più spesso, come qui, al medio, indica con accezione tecnica l’esibizione dei sofisti, ovvero, secondo il significato originario del termine, un «saggio di bravura», che consiste poi generalmente in una declamazione individuale e quindi in un discorso continuo (cf. LSJ s.v. ἐπιδείκνυμι, I.2.b, e s.v. ἐπίδειξις, 3, «set speech, declamation»). Anche se non si tratta per forza di un testo scritto, è probabile che di queste declamazioni esistesse nella maggior parte dei casi anche una versione scritta, se non altro come sussidio per l’oratore, che verosimilmente replicava la sua epidissi anche in più di un’occasione e in contesti differenti. Unici esempi di ἐπιδείξεις conservate sono l’Elena e il Palamede di Gorgia (82 B 11-11a DK = 32 D 24-25 Laks-Most), cui si deve aggiungere il racconto di Eracle al bivio di Prodico riportato da Senofonte (Xen. Mem. 2.1.21-34 = 84 B 2 DK = 34 D 21 Laks-Most); per le epidissi sofistiche nei dialoghi platonici, che offrono la principale documentazione a riguardo, cf. invece Prot.

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328c-328d, Gorg. 447a-c, e Hipp. mai. 282b-d; nell’ultimo passo, in particolare, sono indicati i discorsi in occasioni pubbliche, le epidissi e le lezioni a pagamento come le diverse fonti di guadagno per i sofisti. Cf. Kennedy (1963), 167-73 sulla «Sophistic Oratory»; Guthrie (1969), 41-42; Kerferd (1981), 28-29; su questioni più specifiche, cf. anche Demont (1993); Thomas (2002), 249-69, poi in Thomas (2003). Per ulteriori dettagli sulla forma delle epidissi, cf. anche infra, 363d2-3 e nota ad loc. 363a1 τοσαῦτα Giustamente, forse, Calogero (1938) ad loc. vede nell’uso di τοσοῦτος, che sottolinea le dimensioni dell’epidissi (trad. «un così gran discorso»), una sfumatura leggermente ironica «in quanto ritrae l’ammirazione di Eudico per tale aspetto esterno del discorso di Ippia», sottintendendo la polemica socratica verso la macrologia dei sofisti. Cf. nel medesimo contesto τοσαῦτα ... ἐπιδειξάμενος, Prot. 328d3 (citato supra, nota precedente). 363a2-3 καὶ οὐχὶ ἢ συνεπαινεῖς ... εἰρηκέναι; «e non ti unisci a noi nel lodare qualcuna tra le cose dette o anche la critichi, se ti sembra che non abbia ben detto qualcosa?». L’alternativa riflette gli scopi dell’epidissi, ovvero l’εὖ λέγειν e la ricerca del plauso del pubblico (cf. infra, καὶ μᾶλλον εἴσονται οὗτοι ὁπότερος ἄμεινον λέγει,369c7-8). Per tutto il passo, a testimonianza del carattere topico dell’alternativa, cf. εἶἑν· τί σιγᾷς; οὐχ ἐχρῆν σιγᾶν, τέκνον, / ἀλλ’ἤ μ’ἐλέγχειν, εἴ τι μὴ καλῶς λέγω, / ἢ τοῖσιν εὖ λεχθεῖσι συγχωρεῖν λόγοις, Eur. Hipp. 297-99, richiamato da Ausland (2002), 37-39. 363a2 συνεπαινεῖς Semplicemente «approvi», dove il συν- esprimerebbe l’accordo con quanto è stato detto, non diversamente quindi dal συγχωρεῖν di Eur. Hipp. 299, per cui cf. supra, nota precedente; così Centrone, Petrucci (2012): «dài la tua approvazione»; cf. LSJ, s.v. συνεπαινέω, A: «σ. τι approve, consent or agree to», con riferimento anche a quest’occorrenza. In alternativa, «ti unisci nell’elogio», insieme cioè al resto del pubblico, come inteso dalla maggior parte delle traduzioni: «join us in praising», Fowler (1926); «tu ne joins pas tes éloges aux nôtres», Croiset (1920); «ti unisci a noi nel lodare», Reale (2015). Il verbo è attestato altrove nel corpus platonico solo in Menex. 246a3, dove è adoperato nella seconda accezione (cf. anche LSJ s.v., II «join us in praising», con citazione del passo in questione), ma con riferimento esplicito all’elogio dei caduti (συνεπαινεῖν τε καὶ κοσμεῖν τοιούτους ἄνδρας, 246a3-4). 363a3 ἐλέγχεις «critichi». Nell’uso del verbo ἐλέγχειν non è necessario vedere una specifica allusione al metodo socratico della confutazione: si intende, in generale, il muovere una critica, per contrapposizione a συνεπαινεῖν. Cf. ancora Ausland (2002), 38, con rimando al già citato passo di Eur. Hipp. 297-99 (cf. supra, nota ad 363a2-3). Sul significato e l’uso del termine ἔλεγχος nei dialoghi platonici, in cui non è univocamente adope-

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rato come termine tecnico per il metodo socratico, cf. anche Tarrant (2002), dove quest’occorrenza è classificata come «ambiguous-r», ovvero un uso ambiguo ma tendente piuttosto al valore retorico, e non socratico, del termine: Tarrant (2002), 65. 363a3-4 ἄλλως τε ἐπειδὴ καὶ κτλ. «Tanto più che...». Per l’uso di ἄλλως τε καὶ, qui con posposizione del καί, ad introdurre un’intera proposizione, laddove si trova più frequentemente in unione ad un participio o un semplice sostantivo, cf. e.g. Resp. 2.377d9 (ἄλλως τε καὶ ἐάν) e 4.451c3 (ἄλλως τε καὶ ἐπειδή), oltre che infra, 369d3; Cooper (1998), II, 1269. 363a4 αὐτοὶ λελείμμεθα «siamo rimasti solo noi». Per il valore di αὐτός in αὐτοί, scil. ἡμεῖς, «noi stessi», e quindi «solo noi, da soli», cf. e.g. Plat. Menex. 244d3, Parm. 137a7, Aristoph. Acharn. 504, Xen. Mem. 3.14.3; KG I, 652, e Cooper (1998), I, 516. Cf. infra, νυνὶ δὲ ἐπειδὴ ἐλάττους τέ ἐσμεν, 364b8-9, per contrasto alla folla che riempiva invece la sala nel corso dell’epidissi (πολλοὶ ἔνδον ἦμεν, 364b4; ὄχλος τε πολὺς ἔνδον ἦν, b7), e che si deve dunque immaginare si sia ora allontanata. Per quanto da questa prima frase sia possibile intendere che vi siano sulla scena solamente tre personaggi, ovvero Eudico, Socrate e Ippia, la presenza di altre persone che assistono alla conversazione sembra essere implicata da un passo successivo (369c7-8), dove il dimostrativo οὗτοι (369c7), usato da Ippia nel rivolgersi a Socrate, non può riferirsi al solo Eudico: si deve dunque presupporre probabilmente un gruppo di persone, per quanto ristretto, che si ferma ad ascoltare anche il dibattito fra Socrate e il sofista successivo alla conferenza; per questa possibilità, cf. anche Jantzen (1989), 29 n. 4. La presenza di un pubblico numeroso, che interviene anche con applausi nel corso della discussione, è invece caratteristica costante degli altri dialoghi che vedono esibizioni da parte di sofisti: cf. Prot. 317c-e, dove il dialogo tra Socrate e Protagora si svolge al cospetto di tutti gli ospiti presenti in casa di Callia (cf. ἁπάντων ἐναντίον τῶν ἔνδον ὄντων, 317c5; cf. anche ibid. 334c, 337c, 338b, 339d-e per i successivi interventi), Gorg. 455c, 458b-c. Nell’Eutidemo, addirittura, Socrate e i suoi interlocutori erano circondati da una folla tale da rendere impossibile, per Critone, cogliere quel che dicevano (ἦ πολὺς ὑμᾶς ὄχλος περιειστήκει, ὥστ’ἔγωγε ... οὐδὲν οἷός τ’ἦ ἀκοῦσαι σαφές, Euthyd. 271a1-2); cf. anche ἐν τοσούτῳ ὄχλῳ ... ἐπιδεικνύμενον, Lach. 183d1, per la folla che ha assistito al saggio di oplomachia. 363a4-5 οἳ ... διατριβῆς «che in modo particolare ambiremmo a prender parte al dibattito filosofico». Per il nesso τῆς ἐν φιλοσοφίᾳ διατριβῆς, cf. l’espressione περὶ τῆς φιλοσοφίας / τὴν φιλοσοφίαν vel ἐν φιλοσοφίᾳ διατρίβειν, con cui Platone indica altrove la vita dedita alla filosofia: cf. e.g. Phaed. 63e10 (ἐν φιλοσοφίᾳ διατρίψας τὸν βίον), Theaet. 172c5 e 173c7, Resp. 7.540-

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b2 e 561d2; cf. anche μηκέτι ἐν ταύτῃ τῇ ζητήσει διατρίβειν μηδὲ φιλοσοφεῖν, Plat. Ap. 29c8. Questo valore pregnante in senso platonico non si può tuttavia presupporre nelle parole di Eudico, in bocca al quale l’espressione può essere resa meglio con «conversazione tra persone che hanno il gusto della cultura»: «dibattito intellettuale», Calogero (1938). Per l’espressione al di fuori del corpus platonico, cf. e.g. Isocr. Or. 5.84.8, 7.45.5, 13.1.6. Il riferimento all’abitudine di Socrate di passare il tempo in discussioni è motivo ricorrente nelle scene iniziali dei primi dialoghi platonici: cf. τί νεώτερον, ὦ Σώκρατες, γέγονεν ὅτι σὺ τὰς ἐν Λυκείῳ καταλιπὼν διατριβὰς κτλ., Euthyphr. 2a1-2; ἁσμένως ᾖα ἐπὶ τὰς συνήθεις διατριβάς, Charm. 153a2-3; Σωκράτη ... ἀεὶ τὰς διατριβὰς ποιούμενον κτλ., Lach. 180c1-2; cf. anche τὰς ... μετὰ Σωκράτους διατριβάς, [Clitoph.] 406a2-3, oltre che l’inizio del Liside, dove sono i ragazzi a dire di passare il loro tempo in discussioni, di cui vorrebbero mettere a parte Socrate (ἡ δὲ διατριβὴ ... ἐν λόγοις, ὧν ἡδέως ἄν σοι μεταδιδοῖμεν, Lys. 204a2-3). Sul tema, cf. Giannantoni (2005), 43. 363a6 καὶ μήν «in effetti». Per l’uso «inceptive-responsive» di questa combinazione di particelle, cf. Denniston (1954²), 356. Per lo stesso incipit, non della prima battuta di Socrate in assoluto, ma della prima di una certa lunghezza e che, come qui, introduce il tema del dialogo, cf. καὶ μὴν πολλάκις γε ἐζήλωσα ὑμᾶς τοὺς ῥαψωδοὺς κτλ., Ion 530b5. 363a6 ὦ Εὔδικε Il vocativo risponde a quello usato da Eudico nella battuta precedente: cf. supra, 363a1 e nota ad loc.; Rijksbaron (2007), 259: «one vocative seems to react to an earlier vocative, perhaps by some conventional rule of politeness». Di questo personaggio non si hanno altre informazioni al di fuori di quelle contenute nel dialogo, ovvero che è figlio di un certo Apemanto (cf. 363b1-2), come detto anche nell’Ippia maggiore, dove è menzionato come organizzatore di un’epidissi che Ippia terrà ad Atene dopo due giorni (ἐδεήθη γάρ μου Εὔδικος ὁ Ἀπημάντου, Hipp. mai. 286b7): cf. Nails (2002), 146; PA 5422; Wilamowitz (1919), 134 n. 1, proponeva l’identificazione con un Eudico orator decreti a. 410/9 a.C. (PA 5419), ipotizzando inoltre, ma solo sulla base dell’Ippia minore, che intrattenesse con Ippia rapporti ufficiali, forse in veste di prosseno della città di Elide. Cf. anche Lampert (2002), 236 n. 12, secondo il quale «it is reasonable to picture him as a young man», presumibilmente discepolo entusiasta dei sofisti. 363a6-7 ἔστι ... Ἱππίου «ci sono alcune cose sulle quali porrei volentieri delle domande a Ippia». Socrate ha sempre un piccolo dubbio, dal quale prende avvio l’interrogazione che farà inevitabilmente crollare l’interlocutore: cf. πλὴν σμικρόν τι ἐμποδών, ὃ δῆλον ὅτι Πρωταγόρας ῥᾳδίως ἐπεκδιδάξει, ἐπειδὴ καὶ τὰ πολλὰ ταῦτα ἐξεδίδαξεν, Prot. 328e4-5; cf. anche

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Euthyphr. 12e9-13a1, Hipp. mai. 286c3-4, Ion 531a1; su questo caratteristico espediente ironico, cf. Giannantoni (2005), 130-31 e n. 81. L’espressione ἡδέως ... πυθοίμην comporta un tono di cortesia e formalità, e appartiene dunque ad uno stile colloquiale medio, quello che per Thesleff (1967), 53-54, è «semi-literary conversational style»: per il suo uso nei dialoghi platonici, in part. nelle conversazioni introduttive, cf. anche Crat. 399c7, Theaet. 143e2, Soph. 216d3, Prot. 318a4, Resp. 1.328e4 e 6.491c5; cf. anche ἡδέως ... ἀκούσαιμι, e.g. Phaed. 57a6 et passim, Crat. 384a5 et passim, Lys. 204b1, Resp. 5.470a8 e 10.608d9, Tim. 19c2; ἡδέως ἄν σε διερωτῴην, Gorg. 458a2, e ἡδέως μὲν ἂν Καλλικλεῖ ... διελεγοίμην, ibid. 506b4; questo di tipo di espressioni, presenti ancora in alcuni dei dialoghi tardi (Soph. 216d3, Tim. 19c2), è del tutto assente nelle Leggi. Al di fuori del corpus platonico, la formula ἡδέως ... πυθοίμην ricorre frequentemente nell’oratoria e, in scambi dialogati, anche in Senofonte: cf. e.g. Isocr. Or. 2.1.4, 6.88.1, 15.224.2 e 23; Lys. Or. 10.9.1; Is. Or. 3.9.6 e 12.7.1; Xen. Oecon. 7.4.2 e 11.13.7, Symp. 4.49.2; cf. anche ἡδέως ἂν ἐροίμην, Demosth. e.g. Or. 18.64.2 e 217.1, 20.2.4. Superflua, per quanto elegante, la congettura ἀναπυθοίμην di Hirschig, che si fonda sul confronto con la successiva riformulazione della domanda al termine dell’intervento di Socrate (περὶ ἐκείνου οὖν ἡδέως ἄν, εἰ βουλομένῳ ἐστὶν Ἱππίᾳ, ἀναπυθοίμην κτλ., 363b5-7; cf. infra, nota ad loc.), presupponendo qui una caduta per aplografia (ἂν ἀνα-). 363b1 νῦν δὴ «poco fa», «or ora». Seguendo l’autorità dei mss., Vancamp (1996a) stampa νῦν δή e non un’unica parola νυνδή, come invece Burnet (19092) qui e in generale in tutti i casi in cui νυνδή si accompagni ad un verbo al passato nel senso di ἀρτίως, ἢ μικρὸν ἔμπροσθεν (Suda, s.v. νῦν δή); cf. anche infra, 373c7, con un participio (τὸ νῦν δὴ λεγόμενον). Sulla dubbia esistenza della parola νυνδή, cf. Rijksbaron (2007), 64-68, per quanto, in ogni caso, «the idiomatic specialization [of νῦν δή] as a reference to the past is undoubted», Cooper (1998), II, 1309; e, al di là della convenzione grafica, «δή coalesces closely with νῦν», Denniston (1954²), 206-207. 363b1 περὶ Ὁμήρου «a proposito di Omero». Quasi un titolo dell’epidissi di Ippia, al quale sono attribuite ricerche biografiche su Omero, di cui avrebbe indicato Cuma come terra natale (86 B 18 DK = 36 D 24 Laks-Most). Cf. anche infra, καὶ περὶ ποιητῶν τε ἄλλων καὶ περὶ Ὁμήρου, 363c2-3, dove la menzione di altri poeti rimane tuttavia oscura, oltre che Ion 530c8d3, in cui l’indicazione περὶ Ὁμήρου ricorre a proposito dell’esegesi omerica di Ione e di altri interpreti precedenti, come Metrodoro di Lampsaco, Stesimbroto di Taso e il non meglio identificato Glaucone (530c9 e d3). Per Omero e più in generale la poesia come soggetto abituale delle discussioni dei sofisti, cf. anche Isocr. Or. 12.18, dove si accenna dispregiativamente ai

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sofisti che discutono della poesia di Omero ed Esiodo (περί τε τῶν ἄλλων ποιητῶν καὶ τῆς Ἡσιόδου καὶ τῆς Ὁμήρου ποιήσεως), senza aggiungere nulla di nuovo ma limitandosi a recitare i versi e ripetere quanto già detto da altri a riguardo, in maniera dunque non dissimile dai rapsodi; sull’esegesi poetica praticata dai sofisti, cf. Pfeiffer (1968), 32-56; in generale sull’esegesi omerica dell’epoca, cf. Richardson (2006). 363b2 Ἀπημάντου Anche di questo personaggio non si sa nulla all’infuori del fatto che è padre di Eudico, come detto qui e in Hipp. mai. 286b7 (Εὔδικος ὁ Ἀπημάντου): cf. Nails (2002), 39; PA 1347. Non è il caso di presupporre un riferimento a un’opera di Apemanto, come ritiene Luzzatto (1996), 29; più probabile che si tratti di «a reference to informal conversation», come ritiene Hunter (2016), 86 n. 6. 363b2-3 ἡ Ἱλιὰς ... ἢ ἡ Ὀδύσσεια «l’Iliade sarebbe poema di Omero più bello dell’Odissea». Per la superiorità dell’Iliade sull’Odissea, cf. e.g. [Long.] De subl. 9.13; Eustath. In Od. 1379.1 Stallbaum. Quello di Apemanto non è un giudizio di natura estetica, ma piuttosto morale, in cui i due poemi sono valutati alla luce della bontà dei modelli incarnati dai loro personaggi: cf. infra, nota seguente. La preferenza per l’Iliade, da questo punto di vista, trova riscontro nel ruolo tradizionalmente accordato ad Omero come maestro in materia di guerra: cf. ὁ δὲ θεῖος Ὅμηρος / ... χρήστ’ἐδίδαξεν, / τάξεις, ἀρετάς, ὁπλίσεις ἀνδρῶν, Aristoph. Ran. 1034-36, con Dover (1993) ad loc.; secondo un celebre aneddoto, lo stesso Alessandro Magno avrebbe tenuto una copia dell’Iliade sotto il cuscino (Plut. Alex. 8.2, 2-6). Cf. anche Xen. Symp. 3.5, dove tuttavia è attribuito lo stesso valore paideutico ad entrambi i poemi, che Nicerato dice di essere stato costretto ad imparare a memoria dal padre (ὁ πατὴρ ὁ ἐπιμελούμενος ὅπως ἀνὴρ ἀγαθὸς γενοίμην ἠνάγκασέ με πάντα τὰ Ὁμήρου ἔπη μαθεῖν· καὶ νῦν δυναίμην ἂν Ἰλιάδα ὅλην καὶ Ὀδύσσειαν ἀπὸ στόματος εἰπεῖν). Sui modelli eroici ed in part. sul ruolo di Achille e dell’Iliade, con riferimento ai passi citati, cf. Hobbs (2000), 175-78. 363b3-4 ὅσῳ ἀμείνων ... εἴη «di quanto Achille sarebbe migliore di Odisseo». Achille è indiscutibilmente nell’Iliade ἄριστος Ἀχαιῶν (cf. infra, 364c5 e nota ad loc.), anche se la sua superiorità su Odisseo non è mai affermata, ma i due eroi risultano, piuttosto, egualmente eccellenti, ma in ambiti diversi, ovvero, rispettivamente, il valore guerriero e l’intelligenza: cf. infra, κατὰ τί, 364b4 e nota ad loc. Il problema del confronto tra i due eroi per stabilire chi tra i due sia ἄριστος Ἀχαιῶν, o perlomeno per affermare la parità di Odisseo rispetto ad Achille, si pone già nell’Odissea: questo sarebbe stato l’oggetto del contendere nel νεῖκος tra Achille e Odisseo cui accenna il canto di Demodoco in Od. 8.72-82 secondo Nagy (1979), 21-25; cf. poi Od. 24.15-204, dove si rivendica il pari valore di Odisseo e quindi implicita-

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mente, secondo Rüter (1969), 253-54, si intende innalzare l’Odissea allo stesso livello dell’Iliade, in una prospettiva analoga, dunque, a quella qui offerta dal giudizio di Apemanto. La superiorità del modello eroico incarnato da Achille, insieme al suo alter ego Aiace, è tradizionale nell’epoca successiva: cf. e.g. τὸν Αἴαντα τοῦ Ὀδυσσέως φασὶ βελτίω τινὲς εἶναι, διότι ὁμοιότερος Ἀχιλλεῖ, Aristot. Top. 117b12-14. In Xen. Symp. 4.6, invece, Achille, Aiace, Odisseo e Nestore sono parimenti considerati modelli positivi ai quali un giovane può desiderare di diventare simile (ὅμοιος Ἀχιλλεῖ ἢ Aἴαντι ἢ Νέστορι ἢ Ὀδυσσεῖ). 363b4-5 ἑκάτερον ... Ἀχιλλέα Lett. «A proposito di ciascuno di questi, infatti, diceva che l’uno è composto per Odisseo, l’altro per Achille», nel senso che i poemi sono incentrati rispettivamente sull’uno o sull’altro eroe: «with Odysseus ... with Achilles as its subject», Fowler (1926); «about Odysseus ... about Achilles», Allen (1996); più liberamente «en l’honneur de», Croiset (1920). L’iniziale ἑκάτερον τούτων (scil. τῶν ποιημάτων, come suggerisce la glossa erroneamente entrata a testo in TW) ha funzione prolettica, anticipando i successivi τὸ μὲν … τὸ δέ, e può essere omesso in traduzione. Come nota Giuliano (1995), 32, la precisazione del legame tra l’Iliade e Achille come suo protagonista sottintende forse una quaestio riportata negli scolii omerici (schol. bT ad Il. 1.1b Erbse, rr. 30 ss.), che dovrebbe dunque supporsi già dibattuta al tempo di Platone, ovvero perché il poema non sia espressamente intitolato ad Achille come invece avviene per l’Odissea in relazione a Odisseo: una domanda cui gli antichi rispondevano che Achille, per quanto si distingua in maniera particolare, non è l’unico eroe le cui gesta siano narrate nell’Iliade, ma ve ne sono anche altri (εἰ καὶ μᾶλλον τῶν ἄλλων Ἀχιλλεὺς ἠρίστευεν, ἀλλά γε καὶ οἱ λοιποὶ ἀριστεύοντες φαίνονται, schol. bT ad Il. 1.1b Erbse, rr. 34-35). 363b5-7 περὶ ἐκείνου ... ἀναπυθοίμην «A tal proposito dunque, se Ippia è d’accordo, gli chiederei volentieri più di preciso» Riprende, con struttura circolare, l’esordio dell’intervento di Socrate (363a6-b1), con leggera variatio. Per l’espressione ἡδέως ... ἀναπυθοίμην cf. supra, 363a6-7 e nota ad loc., laddove il composto ἀναπυθοίμην esprime ora, rispetto al semplice πυθοίμην di 363a6, la richiesta di approfondire la questione con ulteriori domande: «make further enquiries», Smith (1895) ad loc. 363b6 εἰ βουλομένῳ ἐστὶν Ἱππίᾳ Lett. «se Ippia vuole», «se è d’accordo». Per il costrutto con il dativo del participio di un verbum voluntatis unito ad un verbo reggente quale εἶναι vel γίγνεσθαι, cf. e.g. ἐπανέλθωμεν, εἴ σοι ἡδομένῳ ἐστίν, Phaed. 78b1; εἰ αὐτῷ γε σοὶ βουλομένῳ ἐστὶν ἀποκρίνεσθαι, Gorg. 448d7; KG I, 425-26. 363c1-2 ἐπειδὴ ... ἐπιδέδεικται «dal momento che nella sua esibizione ha detto tante altre cose di ogni tipo». La sottolineatura dell’abbondanza e

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della varietà dei temi trattati ha, nella prospettiva socratica, una sfumatura ironica, in quanto colpisce lo sfoggio di sapere dell’interlocutore, il quale non saprà poi rispondere all’unica domanda posta da Socrate: cf. anche supra, 363a6-b1 e nota ad loc. La iunctura dei due aggettivi πολλὰ καὶ παντοδαπά è usuale in Platone: in contesto analogo, in riferimento cioè a discorsi, cf. διὰ τὸ πολλὰ καὶ παντοδαπὰ εἰρῆσθαι, Symp. 193e6; per un più preciso significato di παντοδαπός, cf. invece infra, 368d1-2 e nota ad loc.

363c4-364a9 Ma Ippia, garantisce Eudico, sarà senz’altro disponibile a rispondere alle domande di Socrate: questi conferma infatti di avere l’abitudine di offrirsi ai quesiti del pubblico in occasione delle proprie esibizioni ai giochi olimpici, sicché è naturale che anche ora egli faccia lo stesso. Socrate esprime tutta la sua ammirazione per tanta sicurezza, ed Ippia replica che essa è ben fondata in quanto egli, nelle competizioni olimpiche, finora non si è mai imbattuto in nessuno che fosse più bravo di lui. Fin dal suo ingresso in scena, Ippia è presentato con evidenti tratti caricaturali, come un personaggio dal carattere tronfio e dotato di un’eccessiva sicurezza di sé, caratteristiche che lo rendono facile bersaglio dell’ironia di Socrate (cf. 364a1 ss. con note ad locc.; cf. anche infra, 364c8 ss.), per quanto non si arrivi mai nel dialogo ai toni di aperta comicità che si incontrano invece nell’Ippia maggiore, sulla cui raffigurazione di Ippia cf. Tarrant (1928), xxviii-xxx, e Woodruff (1982), 127-31, oltre che qui supra, Introduzione, 3. «Ippia di Elide». La menzione delle Olimpiadi (363c7-8), inoltre, colloca da subito il sofista in un più ampio contesto panellenico e ne sottolinea lo spirito agonistico (cf. ἀγωνιούμενος, 364a5; Ὀλυμπίασιν ἀγωνίζεσθαι, 364a8). Cf. Ion 530a-d, dove Socrate incontra Ione di ritorno dagli agoni rapsodici di Epidauro (ἐξ Ἐπιδαύρου ἐκ τῶν Ἀσκληπιείων, 530a3-4), con Murray (1996) ad 530b2 per il contrasto con la prospettiva prettamente ateniese di Socrate; per l’insistenza sul tema agonistico anche nello Ione, cf. ἡγωνίζου τί ἡμῖν; καὶ πῶς ἠγωνίσω; (530a8). Sull’ironia socratica in generale nell’Ippia minore, cf. Boder (1973), 86-87, che vede in questi passi «die Parodie auf die Sprache des Olympionikenlobes»; cf. anche Giannantoni (2000), 128-29, secondo il quale «gli esempi forse più densi di ironia socratica sono i colloqui con Ippia», a partire dalla scena iniziale dell’Ippia minore in cui «Socrate tesse l’elogio della bravura del Sofista». Una rilettura della componente dell’«ironic praise» nell’ironia socratica è invece offerta ora da Lane (2011), incline ad intendere seriamente l’elogio della sapienza degli interlocutori come incoraggia-

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mento da parte di Socrate «to engage in a dialectical encounter in which their knowledge claims will be tested and perhaps exposed» (256). 363c4 ἀλλὰ κτλ. «Ma è chiaro...». Un caso di ἀλλά «assentient»: cf. Denniston (1954²), 16-20 («The speaker not only agrees, but repudiates the very idea that dissent is possibile», 16). 363c4-5 δῆλον ὅτι ... ἀποκρινεῖσθαι «è chiaro che Ippia non si rifiuterà, se gli poni qualche domanda, di rispondere». Socrate si assicura quindi, per tramite di Eudico, la disponibilità dell’interlocutore a dialogare attraverso domande e risposte: cf. Gorg. 447b8 ss., in part. ἀλλ’ἆρα ἐθελήσειεν ἂν ἡμῖν διαλεχθῆναι; (447b8-c1), con la successiva replica di Callicle, che garantisce per Gorgia (447c5-8). Più avanti (373a2 ss.), Socrate richiamerà Ippia all’impegno preso, chiedendo nuovamente l’aiuto di Eudico (373a5 ss.). Sul ricorso ad una figura di «mediatore» fra Socrate e il sofista, cf. Longo (2000), 47-49, con riferimento sia al passo dell’Ippia minore che a quello del Gorgia; in part. per il ruolo di Eudico, cf. supra, 363a1-c3 e nota ad loc. Per la disponibilità dei sofisti a rispondere a qualunque domanda, cf. anche infra, 363d3-4 e nota ad loc. 363c4 οὐ φθονήσει «non si rifiuterà». L’uso fraseologico dell’imperativo di φθονέω nelle espressioni μὴ φθόνει vel μὴ φθονήσῃς (qui l’indicativo futuro in dipendenza da δῆλον ὅτι) esprime una richiesta cortese, normalmente seguita dalla promessa dell’interlocutore di non agire in maniera diversa da quanto richiesto, ed è formula frequente negli scambi dialogati (LSJ s.v. φθονέω, II: «μὴ φθονήσῃς is frequent in dialogue, do not refuse to do a thing»), con attestazioni anche in tragedia e commedia (cf. Aesch. Septem 480; Eur. Med. 63; Aristoph. Ach. 497, Eq. 580 e 649, Eccl. 900). All’interno del corpus platonico, si incontra soprattutto nei dialoghi del primo e del secondo periodo: cf. δῆλον γὰρ ὅτι οὐ φθονήσεις μοι ἐπιδεῖξαι, Ion 530d4; Euthyd. 297b6, Prot. 320c1-2, Gorg. 489a4-5, Men. 71d6, Symp. 223a1, Resp. 1.338a3-4, oltre che infra, 372e7; cf. comunque anche Theaet. 169c2. 363c5 ἦ γάρ; «Non è vero che...?». Una formula ellittica per esprimere una richiesta di conferma, frequente in Platone nei dialoghi dei tre periodi: cf. qui infra, 365e2, 366e1, 373b2; Denniston (1954²), 86 e 284-85, e, per la frequenza, Brandwood (1990), 59; cf. anche Lys. 206b3 con Martinelli Tempesta (2003) ad loc. 363c5 ὦ Ἱππία Il vocativo rende esplicito il fatto che Eudico, il quale si è finora rivolto a Socrate, cambia adesso interlocutore ponendo la domanda a Ippia; sull’uso del vocativo in queste prime battute cf. supra, 363a1 e nota ad loc. 363c6 ἢ πῶς ποιήσεις Lett. «O come farai?». Una richiesta di assenso, che si può meglio rendere in maniera non letterale, e.g. «Farai forse diversa-

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mente?», o più semplicemente «vero?»; cf. «You’ll answer, won’t you...?», Allen (1996), corsivo mio. 363c7 καὶ γὰρ ἂν δεινὰ ποιοίην κτλ. Lett. «E farei cose davvero strane...». Introduce un lungo e complesso periodo ipotetico con doppia protasi, di cui la prima, più lunga e articolata, è all’indicativo presente (εἰ ... μὲν ... παρέχω κτλ., 363c7 ss.), la seconda invece, molto più breve, all’ottativo (νῦν δὲ ... φύγοιμι, 363d4). In italiano, anziché rispettare la paratassi istituita dal greco tramite la correlazione μέν ... δέ, si può meglio rendere la prima delle due condizionali con un’ulteriore subordinata, mantenendo solo il secondo membro (νῦν δὲ ... φύγοιμι, 363d4) come effettiva protasi: «se io, che quando vado ad Olimpia mi offro etc., ... ora fuggissi la domanda di Socrate»; cf. «se proprio io, che mi reco sempre a Olimpia...», Centrone, Petrucci (2012); «if I, who always go up to Olympia...», Fowler (1926); «moi qui ... vais toujours à Olympie», Fronterotta (2005). Per la figura della δείνωσις (lat. exaggeratio, o più propriamente indignatio: Cic. De invent. 1.53.100; cf. LTGRh, 70), che consiste nel presentare come assurda (δεινόν) ed irrealizzabile un’assunzione ipotetica mediante il contrasto con un dato di fatto, cf. e.g. ἐγὼ οὖν δεινὰ ἂν εἴη εἰργασμένος, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, εἰ ὅτε μέν με οἱ ἄρχοντες ἔταττον ... ἔμενον ὥσπερ καὶ ἄλλος τις καὶ ἐκινδύνευον ἀποθανεῖν, τοῦ δὲ θεοῦ τάττοντος ... λίποιμι τὴν τάξιν, Ap. 28d10-29a1, con De Strycker, Slings (1994) ad loc. e 141-42, con n. 46 per ulteriori paralleli nell’oratoria. Per l’uso di questa figura all’interno del corpus platonico (agg. δεινός vel αἰσχρός), cf. anche Ap. 35a1 ss., Theaet. 184d1 ss., Charm. 176b9 ss., Lach. 200e1 ss., [Alc. I] 108e5 ss., Gorg. 458d7 ss. e 461e1 ss., Hipp. mai. 292c1 ss., Leg. 11.922d4 ss., oltre che qui infra, 364d3-6 e 376c4-6. 363c7-8 Ὀλυμπίαζε ... εἰς τὴν Ἑλλήνων πανήγυριν «ad Olimpia, al solenne raduno dei Greci». Il passo testimonia lo svolgimento di esibizioni sofistiche ai giochi olimpici (Hipp. min. 363c7-d4 e 364a7-9 = 86 A 8 DK = 36 D 8 Laks-Most; per Ippia ad Olimpia, cf. anche infra, 368b5 ss.), organizzate in vere e proprie gare (cf. infra, ἀγωνιούμενος, 364a5, e nota ad loc.; ἀγωνίζεσθαι, 364a8). Anche di Gorgia si ricordano discorsi tenuti a Olimpia e ai giochi pitici di Delfi (82 A 7 DK = 32 P 15 e 33 a-c Laks-Most; per i due discorsi, cf. rispettivamente B 7-8a e B 9 DK = 32 D 31 e P 20 LaksMost); in tali occasioni, pare che sia Ippia che Gorgia indossassero la solenne veste di porpora (82 A 9 DK = 32 P 18 Laks-Most). Cf. in generale Guthrie (1969), 42-44; Kerferd (1981), 28-29; e ora anche Tell (2007). Il nome di Ippia è inoltre legato alle Olimpiadi per la notizia che gli attribuisce la redazione del registro dei vincitori olimpici (Ὀλυμπιονικῶν ἀναγραφή, 86 B 3 DK = 36 D 7 Laks-Most), in cui avrebbe stabilito la data

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della prima olimpiade, fondamento della successiva cronografia greca: cf. Jacoby, FGrHist, III b Text, 221-228, e Noten, 143-54. 363d1 οἴκοθεν ἐξ Ἤλιδος «dalla mia patria, da Elide»; cf. οἴκοθεν ἐξ Ἐφέσου, Ion 530a2. Elide era la città principale dell’omonima regione, in cui si trovava anche Olimpia, e presiedeva i giochi olimpici dal VI sec. a.C.: cf. OCD, s.v. «Elis», 501. Sulla patria di Ippia, cf. Hipp. mai. 281a (= 86 A 6 DK = 36 P 3 Laks-Most), oltre che Sud., s.v. Ἱππίας (= 86 A 1 DK = 36 P 1 Laks-Most), dove sono riportati anche il nome del padre, Diopite, e quello del maestro, un certo Egesidamo; cf. anche Philostr. V. Soph. 1.11.1 (= 86 A 2 DK = 36 P 5 Laks-Most). Cf. anche supra, Introduzione, 3. «Ippia di Elide». 363d1 εἰς τὸ ἱερὸν «al santuario», intendendo genericamente il santuario di Olimpia dove si svolgevano le Olimpiadi, o più specificamente «al tempio», con particolare riferimento ad uno degli edifici che si trovavano al suo interno, nella fattispecie il tempio di Zeus che era, in età classica, il tempio principale del complesso. Per un’interpretazione in questo secondo senso, cf. la testimonianza di Luc. 62.1, secondo la quale Erodoto avrebbe dato pubblica lettura di parte della sua opera sul retro del tempio di Zeus (παρελθὼν εἰς τὸν ὀπισθόδομον οὐ θεατήν, ἀλλ’ἀγωνιστὴν παρεῖχε ἑαυτὸν Ὀλυμπίων ᾄδων τὰς ἱστορίας κτλ.), un passo che sembrerebbe tenere presente nel suo insieme proprio Hipp. min. 363d1-2. Per quel che riguarda invece la costruzione su di un piano grammaticale, alcuni intendono εἰς τὸ ἱερόν come collegato al successivo παρέχω ἑμαυτόν, e quindi «nel tempio mi metto a disposizione», come traducono Cambiano (1970) e Reale (2015), una reggenza non impossibile, ma con un diverso significato, in cui παρέχω seguito da εἰς e accusativo va inteso nel senso di «offrire a», «presentare al cospetto di»: cf. μαρτυρίαν παρέχεται ... εἰς τοὺς Ἕλληνας, Symp. 179b6-7; εἰς τοὺς Ἕλληνας σαυτὸν σοφιστὴν παρέχων, Prot. 312a6. In questo caso si tratta invece evidentemente del complemento di moto a luogo retto dal participio ἐπανιών, come traducono ad es. Centrone, Petrucci (2012), «raggiungo il tempio», e Fowler (1926), «entering the sacred precinct», e come risulta d’altronde chiaramente dalla puntuale ripresa nella replica di Socrate, ἀφικνῇ εἰς τὸ ἱερόν, 364a3, per quanto l’indicazione possa suonare ridondante dopo i due complementi già presenti nei righi precedenti (Ὀλυμπίαζε ... εἰς τὴν τῶν Ἑλλήνων πανήγυριν), di cui si ha ora un’ulteriore specificazione. 363d1 παρέχω ἑμαυτὸν «mi offro», «mi metto a disposizione» etc. Per il tema dell’offrirsi al pubblico da parte dei sofisti, cf. infra, 363d2-4 e 363d3-4 con note ad locc. La stessa disponibilità è attribuita anche a Socrate, il quale però, in polemica con i sofisti, ribadisce di essere a disposizione di chiunque senza richiedere per questo alcun compenso, ma essendo anzi pronto a

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pagare chi voglia ascoltarlo (παντὶ ἀνδρὶ λέγειν, οὐ μόνον ἄνευ μισθοῦ, ἀλλὰ καὶ προστιθεὶς ἂν ἡδέως εἴ τίς μου ἐθέλοι ἀκούειν, Euthyphr. 3d8-9; cf. anche, con maggiore vicinanza verbale rispetto a Hipp. min. 363d1, ὁμοίως καὶ πλουσίῳ καὶ πένητι παρέχω ἐμαυτὸν ἐρωτᾶν, καὶ ἐάν τις βούληται ἀποκρινόμενος ἀκούειν ὧν ἂν λέγω, Ap. 33b1-3). 363d2-4 καὶ λέγοντα ... καὶ ἀποκρινόμενον κτλ. «(mi offro) sia di tenere qualsiasi discorso ... sia di rispondere». Non è necessario concluderne che l’epidissi potesse assumere alternativamente l’una o l’altra forma, come ritiene Guthrie (1969), 42 («The display may take the form of inviting questions from the audience .... Alternatively the sophist gave a display of continuous eloquence on a prepared theme and from a written text»): la situazione raffigurata nel dialogo suggerisce infatti piuttosto che le domande seguissero l’esposizione del discorso, che costituisce l’epidissi vera e propria, come avviene del resto anche in altri dialoghi in cui Socrate interviene a porre le sue domande solo al termine del discorso definito come epidissi (cf. Prot. 328e ss. e Gorg. 447c ss.). Nel Gorgia, in part., il momento delle domande del pubblico è indicato come una delle caratteristiche dell’esibizione di Gorgia e pertanto, in senso lato, parte dell’epidissi (καὶ γὰρ αὐτῷ ἓν τοῦτ’ἦν τῆς ἐπιδείξεως· ἐκέλευε γοῦν νυνδὴ ἐρωτᾶν ὅτι τις βούλοιτο ... καὶ πρὸς ἅπαντα ἔφη ἀποκρινεῖσθαι, Gorg. 447c5-8 con Dodds (1959) ad loc. per l’interpretazione del τοῦτο come prolettico), ma segue chiaramente il termine di quella che è definita epidissi in senso stretto (πολλὰ γὰρ καὶ καλὰ Γοργίας ἡμῖν ὀλίγον πρότερον ἐπεδείξατο, 447a5-6; cf. anche νυνδή, 447c6: è solo ora, una volta conclusa l’epidissi, che Gorgia invita il pubblico a porgli delle domande). Cf. anche Longo (2000), 45 n. 10, la quale ritiene che «l’offrirsi da parte del sofista alle domande del pubblico sia un’appendice o qualcosa di distinto dall’epideixis vera e propria». 363d2-3 ὅτι ... παρεσκευασμένον ᾖ = ὅτι ... τούτων ἃ ... παρεσκευασμένα ᾖ, lett. «qualsiasi cosa uno desideri tra quelle che ho preparato per l’epidissi», dove il singolare παρεσκευασμένον, che Stallbaum correggeva in genitivo plurale spiegandolo come attrazione nel caso del pronome relativo ὧν, si può far rientrare nel normale uso del verbo al singolare con sogg. neutro plurale. Più difficile intenderlo come concordato a senso con il soggetto della reggente ὅτι, come ritiene Traglia (1949) ad loc. 363d3-4 ἀποκρινόμενον ... ἐρωτᾷ Lett. «e (scil. mi offro) di rispondere a chi lo desidera qualunque cosa uno chieda». Per la disponibilità dei sofisti a rispondere a qualunque domanda, cf. quanto detto a proposito di Gorgia in Gorg. 447c6-8 (citato supra, nota ad 363d2-4); cf. anche Men. 70b5-c3, dove si dice che Gorgia ha insegnato questa abitudine anche ai suoi discepoli: καὶ δὴ καὶ τοῦτο τὸ ἦθος ὑμᾶς εἴθικεν, ἀφόβως τε καὶ μεγαλοπρεπῶς ἀποκρίνεσθαι ἐάν τίς τι ἔρηται, ἅτε καὶ αὐτὸς παρέχων αὐτὸν ἐρωτᾶν τῶν

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Ἑλλήνων τῷ βουλομένῳ ὅτι ἄν τις βούληται, καὶ οὐδενὶ ὅτῳ οὐκ ἀποκρινόμενος. 363d4 νῦν δὲ ... φύγοιμι Si tratta dell’effettiva protasi del lungo periodo ipotetico, il cui senso si può così riassumere: «mi comporterei in modo davvero strano, se io, che quando vado ad Olimpia mi offro di rispondere a qualsiasi domanda, ora evitassi la domanda di Socrate» (cf. supra, ad 363c7 ss.). Questa dichiarazione sarà puntualmente ricordata quando Ippia, nel seguito del dialogo, tenterà di sottrarsi all’interrogazione socratica: cf. infra, 373b1-2. 364a1 μακάριόν γε ... πέπονθας κτλ. Lett. «Ti trovi in una condizione davvero beata, o Ippia...», o, per mantenere l’andamento del μακαρισμός, «Beata davvero è la tua condizione, o Ippia». L’intonazione del passo è naturalmente ironica, anche se Ippia non coglie tale sfumatura (cf. infra, 364a7 ss.). Per altri μακαρισμοί da parte di Socrate, volti a elogiare la sapienza degli interlocutori, cf. anche ὦ Ἱππία φίλε, σὺ μὲν μακάριος εἶ, ὅτι τε οἶσθα ἃ χρὴ ἐπιτηδεύειν ἄνθρωπον κτλ., Hipp. mai. 304b8 ss.; μακαρίζω ἄρ’ὑμᾶς ... τοῦ κτήματος κτλ., Euthyd. 274a6 ss., e ὦ μακάριοι σφὼ τῆς θαυμαστῆς φύσεως, ibid. 303c4; cf. anche εἰ δὲ δὴ καὶ πρὸς σωφροσύνην ... ἱκανῶς πέφυκας, μακάριόν σε ... ἡ μήτηρ ἔτικτεν, Charm. 158b2-4, e ὑμᾶς οὖν ὁρῶν ... εὐδαιμονίζω ὅτι οὕτω νέοι ὄντες τ’ἐστὸν τοῦτο τὸ κτῆμα ταχὺ καὶ ῥᾳδίως κτᾶσθαι κτλ., Lys. 211e8 ss., per quanto non vi sia, negli ultimi due casi, un accento polemico come invece nei confronti dei sofisti, ma solo un’insinuazione di incredulità sul fatto che i giovani interlocutori siano davvero in possesso della virtù in questione, perlomeno nel senso in cui Socrate la intende. Sull’uso di γε dopo aggettivi, che può assumere una sfumatura ironica, cf. Denniston (1954²), 128. 364a2 περὶ τῆς ψυχῆς «riguardo al tuo animo». Il termine ψυχή è qui usato evidentemente in senso debole, ad indicare le facoltà della mente per contrapposizione a quelle del corpo (cf. περὶ τὸ σῶμα, 364a3-4); come sinonimo, poco oltre è infatti usato il termine διάνοια (364a6), inteso nel senso dell’intelligenza, abilità intellettuale (cf. LSJ s.v. διάνοια, III, «thinking faculty, intelligence, understanding»; s.v. ψυχή, IV.4, «of the moral and intellectual self»). 364a3 καὶ θαυμάσαιμ’ἂν εἴ κτλ. «e mi meraviglierei, se...». La costruzione di θαυμάζω con un’interrogativa indiretta, rispetto a quella con una dichiarativa introdotta da ὅτι, è forma più cortese e più frequente in attico: cf. KG I, 369. A questa tendenza si conforma anche l’usus platonico, in cui la costruzione con ὅτι è attestata solo 8 volte nelle opere sicuramente autentiche (Phaed. 58a4, Theaet. 142a3 e 161c3-4, Lach. 180b7-c1, Gorg. 482a3,

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Men. 97c11, Resp. 6.498a8 e 8.517c7-8; cf. anche [Alc. I] 103a1 e 104d4, [Ep.] 314c7), di fronte al frequentissimo uso con εἰ (oltre x 100). 364a3-6 εἴ τις ... τῇ διανοίᾳ «se qualcuno degli atleti che partecipano alle gare fisiche si recasse lì a gareggiare così privo di timore e fiducioso nel corpo come tu dici (scil. di esserlo) nella mente». Il parallelismo con gli atleti che gareggiano ai giochi olimpici sottolinea l’atteggiamento agonistico dei sofisti, che anche in altri dialoghi è spesso descritto con metafore e similitudini tratte dal mondo sportivo: cf. Prot. 335e2 ss., dove Socrate dice di non riuscire a seguire la macrologia di Protagora, paragonando lo sforzo a quello di tentare di tener dietro a un corridore provetto (νῦν δ’ἐστὶν ὥσπερ ἂν εἰ δέοιό μου Κρίσωνι τῷ Ἱμεραίῳ δρομεῖ ἀκμάζοντι ἕπεσθαι κτλ., 335e2-3); cf. anche ibid. 339e1 ss., dove Socrate si sente colpito dal discorso del sofista come dal colpo di un pugile (ὡσπερεὶ ὑπὸ ἀγαθοῦ πύκτου πληγείς, 339e1-2). In Euthyd. 271c5 ss., invece, i due fratelli Eutidemo e Dionisodoro sono detti abili sia nel combattimento fisico che nell’agone giudiziario (τούτω δὲ πρῶτον μὲν τῷ σώματι δεινοτάτω ἐστὸν καὶ μάχῃ, ... ἔπειτα τὴν ἐν τοῖς δικαστηρίοις μάχην κρατίστω καὶ ἀγωνίσασθαι κτλ. 275d1-272a2). Per una definizione del sofista come atleta dei discorsi, cf. anche τῆς ... ἀγωνιστικῆς ἦν περὶ λόγους ἀθλητής, Soph. 231e1. Sul tema, cf. Giannantoni (2005), 85 e n. 110, con ulteriore bibliografia. 364a3-4 τῶν περὶ τὸ σῶμα ἀθλητῶν Lett. «gli atleti del corpo». Va da sé, in italiano, che «atleti» si riferisce alle discipline del corpo: Socrate lo esplicita però in vista del parallelo con gli atleti del pensiero (διάνοια), i sofisti. Per non perdere il significato di questa precisazione, traducendo semplicemente «atleti», o «qualche atleta» come nelle traduzioni di Cambiano (1970) e Reale (2015), si può meglio rendere «qualcuno degli atleti che partecipano alle gare fisiche»: cf. «quelli che si battono col corpo», Centrone, Petrucci (2012); «les athlètes adonnés aux exercises du corps», Croiset (1920); «physical athletes», Fowler (1926). 364a4 ἀφόβως τε καὶ πιστευτικῶς Lett. «senza timore e con sicurezza». Il tono è anche in questo caso ironico: per simili coppie endiadiche di avverbi, a descrivere l’atteggiamento con cui l’interlocutore affronta sicuro di sé l’interrogazione socratica, o è chiamato da Socrate a rispondere alle domande, cf. e.g. εὖ καὶ ἀνδρείως, Charm. 160d8-9; ἀφόβως τε καὶ μεγαλοπρεπῶς, Men. 70b7; γενναίως καὶ φιλοδώρως, Theaet. 146d4 e εὖ καὶ γενναίως, ibid. 151e4; cf. anche θαυμασίως τε καὶ μεγαλείως καὶ ἀξίως σαυτοῦ, Hipp. mai. 291e3-4, oltre che infra, 364d1 e 366e3; Goldschmidt (1947), 35 n. 2. 364a5 ἀγωνιούμενος «per gareggiare». Cf. Prot. 335a4-8, dove Protagora fa riferimento a veri e propri agoni verbali (εἰς ἀγῶνα λόγων, 334a5), la cui istituzione si deve, secondo Diogene Laerzio, a Protagora stesso (Diog.

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Laert. 9.52). Cf. anche infra, 369c1 (ἀγωνίζῃ). Agoni sofistici si svolgevano, stando alla testimonianza isocratea, sia in occasione di raduni pubblici, come qui presupposto, sia anche in dispute private: ἔν τε ταῖς πανηγύρεσι καὶ τοῖς ἰδίοις συλλογοῖς ἐπιδείξεις ποιουμένους, διαγωνιζομένους κτλ., Isocr. Or. 15.147. Sull’evidenza relativa all’esistenza di «agoni di discorsi» e al loro svolgimento, cf. la panoramica offerta da Capra (2001), 114-16, con ulteriori riferimenti. 364a7-8 ἐξ οὗ ... ἀγωνίζεσθαι «da quando ho cominciato a gareggiare alle Olimpiadi». Il perfetto ἦργμαι è qui usato con valore resultativo, laddove, con la determinazione temporale ἐξ οὗ, ci si sarebbe forse aspettata piuttosto la puntualità dell’aoristo ἠρξάμην. 364a8-9 οὐδενὶ ... εἰς οὐδὲν ... ἐνέτυχον «non ho mai incontrato nessuno più bravo di me in niente» (sul preciso valore di κρείττονι, cf. infra, nota seguente). Ippia è fiducioso nel proprio sapere e nella propria imbattibilità, come del resto anche altri interlocutori di Socrate prima di essere sottoposti alla confutazione: cf. οὔτε ἄλλος οὐδεὶς τῶν πώποτε γενομένων ἔσχεν εἰπεῖν οὕτω πολλὰς καὶ καλὰς διανοίας περὶ Ὁμήρου ὅσας ἐγώ, Ion 530d2-3; οὐδείς μέ πω ἡρώτηκε καινὸν οὐδὲν πολλῶν ἐτῶν, Gorg. 448a2-3. 364a8-9 κρείττονι «migliore», lett. «più forte». Sulla scia del parallelismo con gli atleti, Ippia usa il comparativo κρείττων, che indica propriamente la forza fisica («stronger, mightier», LSJ s.v. κρείσσων).

364b1-d6 Dopo aver nuovamente lodato la sapienza di Ippia, Socrate pone direttamente al sofista la propria domanda: qual è la sua opinione a proposito di Achille e Odisseo? Quale dei due egli ritiene essere migliore, e per quale ragione? Ippia spiega che Achille è il più valoroso, Nestore il più saggio e Odisseo il più scaltro della spedizione achea. La risposta non è però del tutto chiara a Socrate, che prega l’altro di avere pazienza se egli fatica a capire e ripete spesso le domande. Ippia, dal canto suo, assicura gentilmente tutta la propria comprensione. La prima risposta di Ippia, come generalmente avviene anche nel caso di altri interlocutori, si limita ad esporre una posizione precostituita, che non soddisfa la domanda di Socrate, il quale è costretto a intervenire di nuovo per ottenere chiarimenti: cf. Euthyphr. 5d8 ss., Lach. 190e4 ss., Prot. 318a6 ss., Gorg. 448c4 ss., Men. 71e1 ss., Hipp. mai. 287e2 ss.; Puster (1983), 48, distingue nello schema caratteristico dei dialoghi aporetici, dopo il quesito iniziale, una prima risposta («Scheinantwort»), cui segue poi la «Präzisierung der Frage» da parte di Socrate.

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In questo caso, in particolare, il problema risiede nel fatto che Ippia non offre un effettivo confronto tra Achille e Odisseo, come invece gli era stato richiesto (πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι, 364b4-5; cf. 364c1-2 e supra, 363b7-c2), ma solo una caratterizzazione superficiale dei due personaggi, ricorrendo ai loro epiteti tradizionali e aggiungendo inoltre il giudizio su un terzo eroe, Nestore, che non figurava nella domanda di Socrate: sulla presenza di Nestore e il suo possibile significato, cf. 364c6 e nota ad loc. In questa prima risposta è stata giustamente da tempo riconosciuta una testimonianza del pensiero del sofista (86 A 10 DK = 36 D 25 Laks-Most). Sullo scambio estremamente cortese di battute tra Socrate ed Ippia, cf. Lallot (2000), 50-51 («Socrate interrogera modestement, Hippias lui répondra patiemment, et avec la dernière bienveillance»), per quanto non manchi l’ironia: cf. infra, 364d1-4 e note ad locc. 364b1-3 καλόν γε λέγεις ... τοῖς σοῖς Lett. «Davvero bell’ornamento di sapienza, o Ippia, dici essere la tua reputazione, sia per la città degli Elei che per i tuoi genitori!». Con forte iperbato, per il cui uso in prosa cf. in generale Denniston (1952), 47-59, καλόν è da unirsi ad ἀνάθημα, mentre λέγεις è verbo reggente da cui dipende l’infinitiva καλόν γε ... ἀνάθημα τὴν δόξαν εἶναι τὴν σὴν κτλ., una sintassi piuttosto ardua, che ha spesso costretto i traduttori a scelte libere, talora a veri e propri stravolgimenti della frase: «Glorious indeed must be the testimony that your fame bears to etc.», Smith (1895) ad loc.; «Quel honneur pour Élis ... et pour tes parents, qu’une réputation comme la tienne!», Croiset (1920); «Ein schönes Denkmal der Weisheit, o Hippias, muss dieser dein Ruhm sowohl der Stadt Elis sein als auch deinen Eltern», Schleiermacher (1805); «stando almeno a quanto tu dici, la tua fama fa davvero onore ... attestando la loro sapienza», Calogero (1938), traduzione del tutto libera; più fedelmente ora Culverhouse (2010): «You are saying, Hippias, that your reputation for wisdom is a fine monument to the city of Elis and to your parents». Altri intendono invece καλόν γε λέγεις come una proposizione indipendente, lett. «dici davvero una bella cosa» e quindi «che bello!», «ben detto!»: «That is splendid, Hippias!», Fowler (1926); «Excellent, Hippias», Allen 1996; «Fine reply», Smith (1998); «Schön gesagt, mein Hippias», Apelt (1918) e ora Pinjuh (2014); «Bien parlé, Hippias!», Fronterotta (2005); «È bello, Ippia, quello che dici», Cambiano (1970); «È bello ciò che dici, Ippia», Centrone, Petrucci (2012); «Bello è quello che dici», Reale (2015). Da quest’interpretazione sorge tuttavia il problema dell’assenza di un verbo di modo finito nella seconda proposizione (καὶ ... τὴν δόξαν εἶναι κτλ.), che dovrebbe essere intesa come un’infinitiva retta anch’essa da λέγεις («dici una bella cosa, e che...») o come un’infinitiva epesegetica («dici una bella cosa, e cioè che...»). Di qui le proposte di Vermehren (1870), secondo il quale si dovrebbe integrare un secondo

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verbo reggente prima dell’infinito ( εἷναι), e di Bury (1939), il quale propone invece direttamente di correggere l’infinito in οἷμαι. L’ambiguità, in realtà, non sussiste, dal momento che il primo καί non introduce una nuova proposizione, ma è in correlazione con il καί di 364b2 (καὶ τῇ Ἠλείων πόλει ... καὶ τοῖς γονεῦσι τοῖς σοῖς). Soprattutto, l’espressione καλόν ... λέγεις come proposizione a sé stante non è attestata in Platone, di contro al frequentissimo uso di καλῶς λέγεις (x 44); cf. anche εὖ λέγεις (x 37) e ὀρθῶς λέγεις (x 43), laddove non è attestata una possibile formula equivalente con l’accusativo neutro, del tipo *ἀγαθὸν vel ὀρθὸν λέγεις; sulle «reply formulae» nel corpus platonico, cf. Brandwood (1990), 99-101 e 113 con tabella di frequenza (ἀληθέστατα vel ἀληθῆ λέγεις, ὀρθῶς vel καλῶς λέγεις, ὀρθότατα vel κάλλιστα λέγεις). Più in generale, non risulta un’espressione idiomatica di questo tipo in greco: cf. LSJ s.v. λέγειν, III.6, dove si registra solo l’uso di avverbi, in espressioni come εὖ λέγειν («εὖ γε λέγεις, εὖ λέγεις, εὖ ἂν λέγοις, good news!, that is well!») e καλῶς vel ὀρθῶς λέγειν («you are right»). La struttura καλόν γε ... ἀνάθημα risponde invece ad un uso ben attestato in greco, con l’aggettivo καλός in posizione enfatica incipitaria, spesso con sfumatura ironica, seguito da γε e poi dal sostantivo cui si riferisce: cf. Denniston (1954²), 128-29. In Platone, si tratta di una movenza frequente proprio all’inizio di una risposta, talvolta anche con la particella ἦ con la medesima valenza ironico-asseverativa di γε: oltre al costrutto simile adoperato supra, 364a1 (μακάριόν γε ... πάθος πέπονθας), cf. e.g. ἦ καλόν ... τέχνημα ἄρα κέκτησαι κτλ., Prot. 319a8-9; καλόν γε ... καθαρμόν, Resp. 8.567c4, e poco oltre ἦ μακάριον ... λέγεις τυράννου χρῆμα, Resp. 8.567e8; καὶ καλόν γε τὸ κλέος ὑεῖ τε Διὸς καὶ μάλα πρέπον, Leg. 1.625a4-5; cf. anche καλόν γε, ὦ Δημόδοκε, τῷ ὑεῖ τὸ ὄνομα ἔθου καὶ ἱεροπρεπές, [Theag.] 122d9e1. Risposte con questa struttura sono frequenti nei dialoghi anche all’interno dell’opera senofontea: cf. νὴ τὴν Ἥραν, ἔφη, καλόν γε, ὦ Πιστία, τὸ εὕρημα κτλ., Xen. Mem. 3.10.9; νὴ τὴν Ἥραν, ἔφη, ὦ Θεοδότη, καλόν γε τὸ κτῆμα κτλ., ibid. 3.11.5; con la stessa struttura sintattica, ovvero con un’infinitiva in dipendenza da λέγεις, cf. in part. νὴ τὴν Ἥραν, ἔφη, μέγα λέγεις ἀγαθὸν ηὑρηκέναι κτλ., ibid. 4.4.8. Tutto il passo è inoltre riecheggiato da vicino nell’Ippia maggiore (καλόν γε ... λέγεις καὶ μέγα τεκμήριον σοφίας τῆς τε σεαυτοῦ κτλ., Hipp. mai. 282e9-283a1), dove la sintassi è più semplice in quanto λέγεις è l’unico verbo presente, ma analogamente καλόν è da unirsi, in iperbato, al sostantivo τεκμήριον, pace Woodruff (1982), che traduce «That’s a fine thing you say, Hippias, strong evidence...»; correttamente invece Cambiano (1970), «Hai addotto una bella e grande prova, Ippia, della tua sapienza», e Heitsch (2011), «Einen schönen und gewichtigen Beweis führst du an, Hippias, für dein Wissen». In questo caso, ogni dubbio è fugato dalla ripresa del concet-

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to poco oltre nel discorso di Socrate: τοῦτο μὲν οὖν μοι δοκεῖς καλὸν τεκμήριον ἀποφαίνειν περὶ σοφίας κτλ., 283a7-8, dove è chiaro che «bello» non è in generale quanto Ippia dice, ma «bella» è la «prova» che egli adduce della sua sapienza, in senso chiaramente ironico. Per una struttura simile con l’infinito, cf. ὡς θαυμαστὸν λέγεις καὶ ἀγαθὸν μέγα πεφάνθαι, Euthyd. 294a4-5 con Wells (1881) ad loc.: «ἀγαθόν is the subject and θαυμ. and μέγα are the attributes: “What a great and wondrous blessing this is which you say has been brought to light”». 364b2 τῆς σοφίας ἀνάθημα Lett. «monumento di sapienza», quindi «ornamento, vanto». Il genitivo τῆς σοφίας è da legarsi appunto ad ἀνάθημα e non al successivo sostantivo τὴν δόξαν, cui si riferisce già poco oltre τὴν σὴν, a differenza di quanto invece inteso da alcune traduzioni, per es. «the reputation of your wisdom», Sydenham, Taylor (1804) e Jowett (1892); «your reputation of wisdom», Burges (1851); ora anche «your reputation for wisdom», Culverhouse (2010); per espressioni analoghe cf. τεκμήριον σοφίας τῆς τε σεαυτοῦ, Hipp. mai. 282e9-283a1, citato supra, nota ad 364b1-3, oltre che infra, σοφίας πλείστης ἐπίδειγμα, 368c5. Il termine ἀνάθημα indica, propriamente, l’offerta votiva, e vale quindi in senso figurato «ornamento»; per lo stesso uso metaforico, in riferimento al vanto che i figli costituiscono per i genitori, cf. anche παῖδες δὲ χρηστοὶ ... δώμασιν / καλόν τι θησαύρισμα τοῖς τεκοῦσί τε / ἀνάθημα βιότου, Eur. fr. 518, 3-5 Kannicht (cf. LSJ s.v. ἀνάθημα, 2). Ma l’immagine allude qui forse anche alle concrete offerte votive dedicate dai vincitori olimpici (per gli ἀναθήματα nel tempio di Zeus a Olimpia, cf. Paus. 5.12.4-8), e l’idea della fama (δόξαν, 364b2) come monumento, in questo contesto, rientra nella tradizione poetica già pindarica, dove è il canto del poeta a rendere eterna la fama: cf. in part. ἑτοῖμος ὕμνων / θησαυρὸς ... / τετείχισται, Pind. Pyth. 6.7-9, oltre che naturalmente l’oraziano exegi monumentum aere perennius, Hor. Od. 3.30.1; in generale sul tema, cf. Svenbro (1976), 189-91. 364b3 ἀτὰρ τί δὴ λέγεις κτλ. «Ma che cosa ci dici...?». L’uso di ἀτάρ, in luogo del più comune ἀλλά, esprime «a break-off, a sudden change of topic»: cf. Denniston (1954²), 52. Socrate interrompe così le lodi del sapere di Ippia per tornare alla propria domanda, il confronto tra Achille e Odisseo (cf. supra, 363b7-c1). 364b4 κατὰ τί «sotto quale aspetto». Una risposta, sulla base del testo omerico, potrebbe essere che Achille è superiore sul piano guerriero, Odisseo invece su quello dell’intelligenza: è Achille stesso a limitare in tal senso l’ambito della propria eccellenza, lasciando aperta la possibilità che vi siano altri migliori invece nel consiglio (τοῖος ἐὼν οἷος οὔ τις Ἀχαιῶν χαλκοχιτώνων / ἐν πολέμῳ· ἀγορῇ δέ τ’ἀμείνονές εἰσι καὶ ἄλλοι, Il. 18.105-106), affermazione che sembra trovare completamento, nel canto

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successivo, nei versi pronunciati da Odisseo, il quale riconosce il valore ineguagliabile di Achille in battaglia, ma rivendica la propria superiorità sul piano intellettuale (ὦ Ἀχιλεῦ Πηλῆος υἱὲ μέγα φέρτατ’ Ἀχαιῶν, / κρείσσων εἰς ἐμέθεν καὶ φέρτερος οὐκ ὀλίγον περ / ἔγχει, ἐγὼ δέ κε σεῖο νοήματί γε προβαλοίμην / πολλόν, ἐπεὶ πρότερος γενόμην καὶ πλείονα οἶδα, Il. 19.216-19). Sulla possibilità di risolvere così il quesito posto nel dialogo, Giuliano (1995), 21-28. 364b5 ἔνδον «dentro». Si ha qui (e infra, 364b7) l’unica indicazione sulla scena del dialogo, che si svolge dunque all’esterno del luogo dove Ippia ha tenuto la sua epidissi, forse una sala da conferenze, anche se non è sicura la sua identificazione con il ginnasio di Fidostrato menzionato nell’Ippia maggiore come luogo dove Ippia terrà una conferenza (ἐν τῷ Φειδοστράτου διδασκαλείῳ, Hipp. mai. 286b5-6); cf. a riguardo Introduzione, 6. «Scena e data drammatica». Non vi sono comunque ragioni per pensare ad un’abitazione privata, come fa invece Jantzen (1989), 29: cf. giustamente Pinjuh (2014), 89 e n. 167. Anche in Gorg. 447a1 ss. l’epidissi di Gorgia si è tenuta in un luogo non meglio specificato, sicuramente diverso, comunque, dalla casa di Callicle, dove questi invita Socrate e Cherefonte a recarsi per un’eventuale replica (447b7-8); nel Protagora, invece, l’incontro si svolge privatamente, in casa di Callia, ma non si tratta di una conferenza programmata. In entrambi i casi comunque, al contrario che qui, Socrate entra per dialogare con i sofisti: cf. ἔνδον, Prot. 311a1, a6, a7, 317c5 e Gorg. 447c7, 455c6. Sull’ambientazione del dialogo, cf. anche Müller (1988), 393-94, che vede la contrapposizione tra il luogo chiuso dove si svolge l’epidissi e l’esterno come contrasto fra le lezioni dei sofisti e il carattere aperto del dialogo socratico. 364b6 ἀπελείφθην ... τῶν λεγομένων Lett. «sono stato lasciato indietro da quel che tu dicevi», come rende Calogero (1938), quindi «sono rimasto indietro», «non sono riuscito a seguirti», dove ἀπελείφθην regge entrambi i genitivi σου e τῶν λεγομένων, il secondo da intendersi come apposizione esplicativa del primo. La dichiarazione da parte di Socrate di non riuscire a seguire il discorso del suo interlocutore è naturalmente ironica, e sottintende la polemica contro il carattere macrologico del discorso sofistico: cf. infra, μακρὸν μὲν οὖν λόγον εἰ ’θέλεις λέγειν, προλέγω σοι ὅτι οὐκ ἄν με ἰάσαιο – οὐ γὰρ ἂν ἀκολουθήσαιμι, 373a2-3, e note ad loc. Per l’uso del passivo di ἀπολείπω in questo senso, ad indicare la difficoltà a seguire un ragionamento, cf. Theaet. 192d2, νῦν πολὺ πλέον ἀπελείφθην ἢ τότε (LSJ s.v. ἀπολείπω, C: «Pass., to be left behind, stay behind ... to be unable to follow an argument, be at a loss, Pl. Tht. 192d»). 364b6-8 ὤκνουν ... τῇ ἐπιδείξει «esitavo infatti a interrogarti, perché dentro c’era una gran folla, e per non essere d’intralcio alla tua esibizione

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ponendo delle domande». Anche l’esitazione di Socrate è da intendersi in senso ironico, laddove il reale problema è l’impossibilità di interrompere l’epidissi, il cui carattere macrologico è incompatibile con l’esercizio della dialettica. Sulla critica all’epidissi sofistica implicita nell’atteggiamento di Socrate in questo passo, cf. Giannantoni (2005), 50-51. 364b8-9 ἐλάττους ... ἐσμεν «siamo di meno». L’indicazione potrebbe riferirsi ai soli tre personaggi che intervengono nel dialogo, ovvero Socrate, Ippia ed Eudico, ma non esclude la possibilità che siano presenti anche altre persone, a formare un piccolo gruppo di ascoltatori, come sembra essere implicato da un passo successivo: cf. supra, 363a3-4, e infra, 369c7, con note ad locc. 364b9-c1 εἰπέ ... σαφῶς «parla e spiegaci chiaramente». Gli imperativi aoristi si situano su di un piano di maggiore cortesia rispetto agli imperativi presenti, che sono infatti evitati da Socrate, in questa battuta come nel resto del dialogo: cf. infra, ἀπόκριναι, 365d3, 366e3 e 375d7-8; Lallot (2000), 50-51. La domanda che apre l’interrogazione socratica è in genere formulata come richiesta di spiegazione e insegnamento, in modo da indurre più facilmente l’interlocutore a rispondere: cf. δίδαξον καὶ ἐμέ, Euthyphr. 9a1; ταῦτ’οὖν αὐτὰ δίελθέ μοι ἀκριβῶς τῷ λόγῳ, Prot. 329c6; καί με δίδαξον ἱκανῶς, Hipp. mai. 286d9 e ἐμὲ οὖν προδίδασκε καὶ ἐμὴν χάριν ἀποκρίνου, ibid. 291b1-2; μὴ φθονήσῃς ... δίδαξαι, Resp. 1.338a2-3; Robinson (1953), 8: «he [i.e. Socrates] always puts the primary question as a request for information and not as if he were examining a candidate». Una richiesta in questi termini è comunque particolarmente appropriata nel caso dei sofisti, che si presentano come maestri di professione. Sul tema ironico dell’apprendere dai sapienti, cf. anche infra, 369d4 ss. e 372a6 ss., con note ad locc. 364c1-2 τί ἔλεγες ... πῶς διέκρινες αὐτούς; «Che cosa dicevi a proposito di questi due eroi? Come li distinguevi?». L’uso dell’imperfetto indica che nella sua epidissi Ippia aveva già espresso un giudizio sui due eroi. Quello che Socrate chiede ora è invece di formulare più precisamente un confronto per stabilire la superiorità di uno sull’altro: cf. 363b7-c1 e 364b4-5, dove è infatti usato, al contrario, il presente. 364c3-4 ἀλλ’ἐγὼ ... καὶ ἄλλων «Ma io, Socrate, sono disposto a spiegarti ancor più chiaramente di prima quello che dico a proposito sia di questi che di altri (scil. eroi)». περὶ τούτων καὶ ἄλλων può essere considerato genericamente neutro, «su questo e altri argomenti», come intendono Centrone, Petrucci (2012), o meglio maschile, come nella domanda di Socrate (περὶ τούτοιν τοῖν ἀνδροῖν, 364c1), scelta preferita dalla maggior parte dei traduttori: cf. e.g. «su questi e su altri», Cambiano (1970); «sur eux comme sur d’autres», Fronterotta (2005); «about these and others», Fowler (1926),

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dove il passaggio al plurale al posto del duale, usato da Socrate, indica già che Ippia non si limiterà ad esprimere il proprio giudizio sui due eroi a proposito dei quali è stato interrogato. Questa battuta introduttiva mostra come Ippia concepisca la risposta alle domande del pubblico alla stregua di una prosecuzione dell’epidissi, un’occasione per esporre più in dettaglio le proprie concezioni, aggiungendo anche nuovi elementi (καὶ ἄλλων), secondo un irrefrenabile desiderio, non raro negli interlocutori di Socrate, di sfoggiare il più possibile il proprio sapere: cf. e.g. μὴ μόνον γε ... καὶ ἄλλα σοι ἐγὼ πολλὰ ... διηγήσομαι, Euthyphr. 6c5-7. Per l’uso di ἀλλά “assentient”, cf. supra, 363c4 e nota ad loc. 364c4-7 φημὶ γὰρ κτλ. «Affermo infatti che Omero ha raffigurato Achille come l’eroe più valoroso tra quelli che giunsero a Troia, Nestore come il più saggio, e Odisseo come il più scaltro». L’esplicita introduzione del passo come esposizione del pensiero di Ippia (φημί, cf. supra, ἃ λέγω, 364c4) induce a considerare quanto segue come testimonianza sul sofista (86 A 10 DK = 36 D 25 Laks-Most), pace Capizzi (1970), 115, secondo il quale ha invece qui inizio quanto è limitato alla finzione dialogica. La menzione di Achille, Nestore e Odisseo può richiamare alla memoria un’altra triade di eroi che sarà canonica in epoca successiva, ovvero quella composta da Odisseo, Nestore e Menelao, i tre oratori descritti in Il. 3.204-224 che saranno in seguito considerati come esemplificativi dello stile alto, medio e semplice, incarnati nell’oratoria classica rispettivamente da Lisia, Demostene e Isocrate: cf. schol. bT ad Il. 3.212; [Plut.] De Hom. 2.172; Cic. Brut. 40; Quint. I.O. 12.10.64; Gell. N. A. 6.14.18 (magnificum in Ulixe et ubertum, subtile in Menelao et cohibitum, mixtum moderatumque in Nestore); ma cf. già i manuali di retorica attribuiti a Nestore, Odisseo e Palamede in Phaedr. 261b6-8. Sulla questione cf. in generale Dentice (2012), 17-27. Per i giudizi qui invece espressi da Ippia sui singoli eroi, che non si discostano dalla loro immagine tradizionale, cf. infra, note seguenti. 364c5 ἄριστον ... Ἀχιλλέα «il migliore», nel senso di «il più valoroso». Come nota Hunter (2016), 89, «Hippias might be thought to be picking up Socrates’ question as to which of the two was ἀμείνων», ma si riferisce in realtà alla «unchallenged supremacy in battle» che contraddistingue Achille, così come Nestore è σοφώτατος e Odisseo πολυτροπώτατος, in una serie di tre superaltivi. Che Achille sia ἄριστος Ἀχαιῶν, cioè migliore sul piano del valore guerriero, è concezione sottesa all’Iliade intera, dove egli riceve ripetutamente tale qualifica: cf. Il. 1.244 e 412, 16.271-2 e 274; cf. anche φέρτατος vel φέριστος, Il. 2.769, 9.110, 19.216, Od. 11.478; Aiace è una volta definito ἄριστος, ma con la precisazione che ciò vale solo finché Achille non partecipa alla battaglia (Il. 2.768-69). Sul tema cf. soprattutto Nagy (1979), 26-41, e ora anche Classen (2008), 14-27, in part. 14-15 e nn.

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3-6 per un completo elenco degli epiteti e dei passi in cui sono affermate l’eccellenza di Achille e la sua superiorità sugli altri eroi greci; cf. anche Giuliano (1995), 22-23. 364c6 σοφώτατον ... Νέστορα «il più saggio». L’aggettivo σοφός, a differenza degli epiteti adoperati da Ippia per gli altri due eroi, non è termine attestato nei poemi omerici, dove compare solo una volta, e in senso tecnico, il sostantivo σοφίη (Il. 15.412). Nell’Iliade, comunque, Nestore è famoso per la sua saggezza nel consiglio, ἀγορῇ (cf. in part. Il. 2.370 ss.; cf. anche 9.60 ss.), oltre che per le sue doti nell’eloquenza (cf. Il. 1.247 ss., in part. 247-48: Νέστωρ / ἡδυεπὴς ... ἀγορητής), e nella letteratura successiva è costantemente esempio di σοφός: cf. e.g. Νέστωρ ὁ Πύλιος ... βουλεύων σοφά, Soph. Phil. 422-23; Νέστορα ... τὸν φρονιμώτατον ἁπάντων τῶν κατ’ἐκεῖνον τὸν χρόνον γενομένων, Isocr. Or. 12.72; cf. Schmidt (1936), col. 120; in generale per la raffigurazione di Nestore, cf. Classen (2008), 50-53. Platone lo ricorda nel Fedro per l’eloquenza (Phaedr. 261b6 ss.) e lo menziona nel Simposio, per bocca di Alcibiade, accanto ad Antenore, come possibile termine di confronto per Pericle (Symp. 221c7-8); abilità oratoria e sapienza di Nestore figurano insieme anche in un passo delle Leggi: τὴν Νέστορος ... φύσιν, ὃν τῇ τοῦ λέγειν ῥώμῃ φασὶ πάντων διενεγκόντα ἀνθρώπων πλέον ἔτι τῷ σωφρονεῖν διαφέρειν, Leg. 4.711e1-3. La presenza di un giudizio su Nestore, che esula dalla richiesta di Socrate di un confronto tra Achille e Odisseo (περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ Ὀδυσσέως, 364b3-4), può avere sulla bocca di Ippia un significato particolare, rimandando a una sua effettiva predilezione per il personaggio, scelto come figura emblematica del sapiente e quindi maschera del sofista stesso: cf. Blundell (1992), 142. L’eroe è infatti anche protagonista dell’epidissi cui si allude nell’Ippia maggiore, nota con il titolo di Τρωϊκὸς λόγος (Hipp. mai. 286a6-b4 = 86 A 9 DK = 36 D 10 Laks-Most; per il titolo, cf. Philostr. V. Soph. 1.11.4 = 86 A 2 DK = 36 D 5 Laks-Most), nella quale l’eroe sarebbe stato raffigurato nell’atto di istruire il giovane Neottolemo sulle occupazioni adatte ad un giovane (μετὰ ταῦτα δὴ λέγων ἐστὶν ὁ Νέστωρ καὶ ὑποτιθέμενος αὐτῷ πάμπολλα νόμιμα καὶ πάγκαλα, 286b2-4); non a caso, probabilmente, il discorso di Ippia in Prot. 337e2 ss. è modellato su quello di Nestore in Il. 1.259-79, come ha mostrato Brancacci (2004). Cf. inoltre schol. ad Od. 1.1 l1 Pontani (= Antisth. fr. 187 SSR = fr. 51 Caizzi), dove, insieme ad Achille e ad Aiace, Nestore è contrapposto ad Odisseo e alla sua mendacità (οὐδὲ τὸν Νέστορα τὸν σοφὸν οὐ μὰ τὸν Δία δόλιον καὶ παλίμβολον τὸ ἦθος κτλ., schol. ad Od. 1.1 l1 Pontani, rr. 8 ss.), un passo in cui è probabile sia da riconoscere proprio la stessa tesi di Ippia discussa nel dialogo platonico: sul rapporto tra i due testi, cf. infra, nota introduttiva ad 364d7-365b6.

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364c6-7 πολυτροπώτατον ... Ὀδυσσέα «il più versatile», «il più scaltro». Il superlativo πολυτροπώτατος, qui richiesto dal partitivo τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, non è mai attestato nei poemi omerici, dove sarebbe privo di significato in quanto è il solo Odisseo ad essere definito πολύτροπος, epiteto che, benché raro (Od. 1.1 e 10.330), è il più celebre fra quelli del personaggio, dal momento che compare proprio nel primo verso dell’Odissea; cf. anche Hunter (2016), 90, il quale nota che, se poteva esservi un dibattito su chi fosse l’ἄριστος o il σοφώτατος tra i Greci, «the same could hardly be said of ‘Who was the most πολύτροπος?”». Nel suo significato primario, dal verbo τρέπειν, l’epiteto sembrerebbe alludere alle peregrinazioni dell’eroe («che ha molto viaggiato», intendendo la relativa di Od. 1.1-2 come epesegetica: ὅς μάλα πολλὰ / πλάγχθη, cf. πολύπλαγκτος, Od. 17.511), ma nella letteratura successiva l’aggettivo è inteso piuttosto nel senso di «versatile», «dalle molte risorse», e quindi anche «scaltro», analogamente ad altri epiteti dell’eroe che ne indicano l’intelligenza, come ἀγχίνοος, ποικιλομήτης, πολύμητις. πολυμήχανος etc.; per un elenco degli epiteti di Odisseo cf. Dee (2000), 302-35, mentre per una discussione del significato di πολύτροπος cf. Heubeck, West, Privitera (1982) ad Od.1.1 e Cuypers (2004). Non vi è comunque, in Omero, il valore negativo che sarà invece attribuito da Ippia nel prosieguo del dialogo, dove egli sviluppa un’interpretazione di πολύτροπος come sinonimo di ψευδής: cf. 364e7 ss. e soprattutto 365b8, τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, con nota ad loc. Nel corpus platonico, πολύτροπος è attestato altrove solamente in un’altra occasione, in un contesto del tutto differente, ma sempre nel senso di «versatile», «in grado di assumere diverse forme» (τοῖς ἀσθενέσι καὶ πολυτρόποις θηρίοις, Pol. 291b1-2). 364c8 βαβαί «Caspita!», «Accidenti!»; «I am surprised [because of the quantity of this]», Nordgren (2015), 101. Un’esclamazione di sorpresa, frequente nel corpus platonico, soprattutto in bocca a Socrate: cf. Phaed. 84d8, Soph. 249d9, Phil. 23b5, Phaedr. 236e4, [Alc. I] 118b4 e 119c2, Lys. 218c7, Hipp. mai. 294e7, Resp. 2.361d4 e 5.459b10. Il suo uso appartiene al lessico della commedia: cf. Aristoph. Ach. 806, Av. 272, Lys. 1078; βαβαὶ βαβαιάξ, Pax 248; cf. anche Eur. Cycl. 156. Non è chiaro se la grafia corretta sia con accento circonflesso, come stampano nella maggior parte dei casi gli editori di Platone, oppure acuto, forma prevalente invece nel testo di Aristofane e che è scelta dagli editori in due casi anche nel corpus platonico sulla base dell’autorità del codice B (Phaed. 84d8 e Soph. 249d9). Su questo punto vi è discordanza anche tra le fonti antiche: per la forma perispomena, cf. Dion. Thr. Ars gramm. 1.1.80; viceversa, cf. Herod. Gramm. De pros. cath. 933.19 Lentz (τὰ δὲ τοιαῦτα [scil. τὰ σχετλιαστικὰ εἰς αι λήγοντα ἐπιρρήματα] καὶ

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ὀξύνεται, εὐαί, βαβαί, καὶ περισπᾶται, ἀταταῖ, αἰαῖ, παπαῖ): cf. ancora Nordgren (2015), 101-02 n. 167; LSJ s.v. βαβαί. 364c9-d1 ἐὰν ... ἀνερωτῶ; «qualora io capisca a fatica le cose che vengono dette e ripeta spesso le domande?», dove μανθάνω e ἀνερωτῶ, in dipendenza da ἐάν, sono congiuntivi. Anche la difficoltà di comprensione, come il desiderio di apprendere (cf. supra, 364b9-c1 e nota ad loc.), è un espediente ironico che serve a giustificare le domande di Socrate: in part. su questo passo, cf. Giannantoni (2005), 131-32; Longo (2000), 55. Cf. poi infra, 369d1 ss., dove il motivo trova più ampio sviluppo. 364c9 μόγις La lezione corretta μόγις è conservata da F, laddove i mss. della prima famiglia (TW) hanno invece μόλις, una facile banalizzazione, in quanto μόλις è la forma più comune in attico, con l’eccezione però di Platone che usa invece di preferenza, appunto, μόγις (cf. LSJ s.v. μόγις). La forma μόλις è tràdita in maniera concorde solo quattro volte nelle opere sicuramente autentiche (Euthyd. 282d3 e 294b2, Tim. 85d1 e 86a8; cf. [Epist.] 13.362b5 e [Axioch.] 368b2), e l’oscillazione si ripete nei mss. anche in altri casi, in cui gli editori scelgono concordemente, come qui, la forma più frequente nell’usus platonico: Theaet. 142b1 e 160e6 (μόγις W : μόλις βT), Phaed. 108b3 (μόγις βWPQV : μόλις TS Stob.); cf. anche Tsitsiridis (1998) ad Menex. 235c2. 364d1-2 ἀλλά μοι ... ἀποκρίνεσθαι «Cerca ... di rispondermi con mitezza e benevolenza». La richiesta è naturalmente ironica, anche se tale sfumatura, come al solito, non sarà colta da Ippia (cf. 364d3 ss., e supra, 364a6 ss.). Per l’uso di avverbi in endiadi (πρᾴως τε καὶ εὐκόλως) in simili contesti, cf. supra, ἀφόβως τε καὶ πιστευτικῶς, 364a4 e nota ad loc. La richiesta di rispondere in modo pacato sarà in effetti necessaria con altri interlocutori particolarmente aggressivi, come Callicle: cf. πρᾳότερόν με προδίδασκε, Gorg. 489d7-8. 364d3 αἰσχρὸν γὰρ ἂν εἴη κτλ. «Sarebbe davvero una vergogna...». Per il costrutto, con la figura retorica della δείνωσις, e la sua resa italiana, cf. supra, 363c7 ss. e nota ad loc. 364d3-4 εἰ ἄλλους ... παιδεύω ... καὶ ἀξιῶ διὰ ταῦτα χρήματα λαμβάνειν Lett. «se ad altri insegno proprio queste cose e ritengo giusto ricevere denaro per tale ragione», o meglio, con traduzione più libera, «se io, che ad altri insegno...». L’educazione a pagamento, come notano Guthrie (1969), 35-40, e Kerferd (1981), 25, è ciò che contraddistingue il sofista come figura professionale, e il riferimento alla richiesta di un compenso figura in Platone pressoché ogniqualvolta si parli dei sofisti, spesso polemicamente in bocca a Socrate: cf. Ap. 19d8 ss. (con la menzione di Ippia, 19e3-4), Crat. 384b2 ss., Lach. 186c2-4, Euthyd. 304c1-2, Prot. 310d6 ss. e 349a1-4, Gorg. 519c5 ss., e in part. su Ippia, che si vanta di eccezionali guadagni, Hipp. mai. 282b7

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ss.; cf. Harrison (1964), 191 e n. 44 per l’elenco dei passi. Sulla polemica di Platone ed altri socratici contro l’educazione a pagamento, cf. anche Blank (1985). 364d5 συγγνώμην «comprensione», «indulgenza». Ippia prende alla lettera la richiesta di Socrate, senza coglierne il tono ironico. Cf. anche infra, 373b6 ss., dove sarà Socrate a chiedere indulgenza ad Ippia (un tema ricorrente nei dialoghi: cf. 373b8 con nota ad loc.).

364d7-365b6 C’è infatti un punto che Socrate, a dire il vero, non ha ben capito: che cosa intende Ippia quando dice che Odisseo è il più scaltro? Non è forse tale anche Achille? Ippia reagisce vivamente a quest’ultima insinuazione: Achille è tutto l’opposto di Odisseo, e cioè è di natura schietta e sincera, mentre l’altro è scaltro e bugiardo. A riprova, egli cita anche alcuni versi di Omero in cui Achille, rivolgendosi proprio ad Odisseo, manifesta la sua avversione per chi mente, dicendo una cosa e pensandone un’altra. La domanda di Socrate se non sia raffigurato πολύτροπος anche Achille (364e5-6), in apparenza provocatoria (cf. nota ad loc.), induce Ippia a precisare meglio il confronto tra i due eroi, che si traduce in una netta contrapposizione tra la figura sincera di Achille e quella bugiarda di Odisseo (cf. 365b4-5), dalla qual cosa Socrate dedurrà poi che Ippia intende evidentemente l’epiteto che ha usato per Odisseo con la valenza negativa di «bugiardo», assente nei poemi omerici (cf. τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, ὥς γε φαίνεται, 365b8; cf. supra, 364c6-7 con nota ad loc.). Per tutto il brano si veda il frammento di Antistene dedicato all’esegesi del termine πολύτροπος, conservato dagli scolii all’Odissea per tramite di Porfirio (schol. HM¹Z ad Od. 1.1 l1 Pontani = fr. 187 SSR = fr. 51 Caizzi), la cui somiglianza con la discussione iniziale dell’Ippia minore è da tempo nota agli studiosi: οὐκ ἐπαινεῖν φησιν Ἀντισθένης Ὅμηρον τὸν Ὀδυσσέα μᾶλλον ἢ ψέγειν, λέγοντα αὐτὸν πολύτροπον. οὔκουν τὸν Ἀχιλλέα καὶ τὸν Αἴαντα πολυτρόπους πεποιηκέναι, ἀλλ’ ἁπλοῦς καὶ γεννάδας· οὐδὲ τὸν Νέστορα τὸν σοφόν οὐ μὰ Δία δόλιον καὶ παλίμβολον τὸ ἦθος, ἀλλ’ ἁπλῶς τῷ Ἀγαμέμνονι συνόντα καὶ τοῖς ἄλλοις [10] ἅπασι, καὶ εἰς τὸ στρατόπεδον εἴτι ἀγαθὸν εἶχε συμβουλεύοντα καὶ οὐκ ἀποκρυπτόμενον. καὶ τοσοῦτον ἀπεῖχε τοῦ τὸν τοιοῦτον τρόπον ἀποδέχεσθαι ὁ Ἀχιλλεύς, ὡς ἐχθρὸν ἡγεῖσθαι ὁμοίως τῷ θανάτῳ ἐκεῖνον, ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθει ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ βάζει (Il. 9.313).

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λύων οὖν ὁ Ἀντισθένης φησί· ἆρά γε πονηρὸς ὁ Ὀδυσσεὺς ὅτι (15) πολύτροπος ἐρρέθη; καὶ μήν, διότι σοφός, οὕτως αὐτὸν προσείρηκεν. μήποτε οὗν τρόπος τὸ μέν τι σημαίνει τὸ ἦθος, τὸ δέ τι σημαίνει τὴν τοῦ λόγου χρῆσιν· εὔτροπος γὰρ ἀνὴρ ὁ τὸ ἦθος ἔχων εἰς τὸ εὖ τετραμμένον. τρόποι δὲ λόγων † αἴτιοι αἱ † πλάσεις· καὶ χρῆται τῷ τρόπῳ καί ἐπὶ φωνῆς καὶ ἐπὶ μελῶν ἐξαλλαγῆς, ὡς ἐπὶ τῆς ἀηδόνος “ἥτε θαμὰ τροπῶσα (20) χέει πολυηχέα φωνήν” (Od. 19.521). εἰ δὲ οἱ σοφοὶ δεινοί εἰσι διαλέγεσθαι, ἐπίστανται καὶ τὸ αὐτὸ νόημα κατὰ πολλοὺς τρόπους λέγειν· ἐπιστάμενοι δὲ πολλοὺς τρόπους λόγων περὶ τοῦ αὐτοῦ, πολύτροποι ἂν εἶεν. εἰ δὲ σοφοί, καὶ ἀγαθοί εἰσι. διὰ τοῦτό φησι τόν Ὀδυσσέα Ὅμηρος σοφὸν ὄντα πολύτροπον εἴναι, ὅτι δὴ τοῖς ἀνθρώποις ἠπίστατο (25) πολλοῖς τρόποι συνεῖναι. In particolare, nella prima parte del brano (schol. HM¹Z ad Od. 1.1 l1, rr. 5-13 Pontani), che nella forma zetematica in cui è riportato il frammento corrisponde all’aporia, è esposta la tesi combattuta da Antistene, che coincide esattamente con quella sostenuta da Ippia nel dialogo platonico: si tratta infatti di un’interpretazione dispregiativa dell’epiteto di Odisseo che è desunta dalla sua estraneità ad altri eroi raffigurati come schietti e sinceri, tra cui Achille, e suffragata dagli stessi versi dell’Iliade in cui Achille dichiara la propria avversione per la menzogna, citati per esteso nel dialogo platonico (Il. 9.312-313) e riportati in forma abbreviata e in parte parafrasata nello scolio (rr. 12-13). Segue poi, nel frammento, la replica di Antistene (rr. 13-25), che propone una differente interpretazione dell’epiteto, che è ricondotto mediante un’analisi semantica alla nozione dei πολλοὶ τρόποι λόγων (r. 22), le diverse modalità discorsive che, nella filosofia antistenica, sono proprie del sapiente. In tal senso, dunque, Omero avrebbe voluto indicare non la malvagità, bensì la sapienza di Odisseo (rr. 23-25). Per la possibilità di individuare nella sezione iniziale una tesi storicamente sostenuta da Ippia, cui tanto Platone quanto Antistene replicherebbero, a prescindere dall’eventuale polemica interna tra i due socratici, cf. soprattutto Luzzatto (1996), 291-94; ma cf. anche Giuliano (1995), 45-47; e ora anche Pontani (2005), 28-29; l’ipotesi era comunque avanzata già da Caizzi (1966), 105, e Brancacci (1990), 50, poi ripreso in Brancacci (1996), 381. Per la menzione di Nestore nello scolio, che trova corrispondenza anche nell’Ippia minore e che assume un particolare significato in bocca ad Ippia, cf. supra, 364c6 e nota ad loc. Per una trattazione più estesa del rapporto tra i due testi, cf. Introduzione, 5. «Il confronto tra Achille e Odisseo». 364d7-e3 ἡνίκα μὲν ... ἐπειδὴ δὲ κτλ. «quando dicevi che Achille è stato raffigurato come il più valoroso, credevo di capire che cosa dicevi, e anche quando dicevi che Nestore è stato raffigurato come il più sapiente; quando

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invece hai detto che il poeta ha raffigurato Odisseo come il più scaltro...». La seconda proposizione temporale, introdotta da ἐπειδή (364e1) con verbo all’aoristo (εἶπες, 364e2), sottolinea la puntualità dell’azione (cf. LSJ s.v. ἐπειδή, A I.1, «of a definite occurence in past time»). 364e3-4 τοῦτο δ’ ... οὐκ οἶδ’ὅτι λέγεις «questo ... non so proprio che cosa intendi». Il leggero iperbato, con la posizione incipitaria del τοῦτο, sottolinea il punto su cui Socrate vuole richiamare l’attenzione: cf. e.g. ἐγὼ τὴν ἀπὸ τῆς ῥητορικῆς πειθώ, ... σαφῶς μὲν εὖ ἴσθ’ὅτι οὐκ οἶδα, Gorg. 453b5-7; per altri casi di una «early position of the demonstrative», cf. Denniston (1952), 47-48. Socrate sottolinea così il punto cruciale dell’interpretazione di Ippia e che è discusso anche da Antistene, ovvero il significato dell’epiteto di Odisseo, πολύτροπος: cf. supra, nota introduttiva ad 364b7-365d6. 364e3 ὥς γε ... εἰρῆσθαι «a dirti il vero», lett. «per quanto possa esserti detto il vero»: ὡς con l’infinito non ha infatti valore finale, bensì limitativo, rafforzato ulteriormente da γε (cf. KG II, 508-9). Per la stessa espressione nel corpus platonico, cf. Euthyd. 307a1, Prot. 339e3-4, Gorg. 462b8 e Ion 535d6-7 con Rijksbaron (2007) ad loc.; per altre espressioni con analoga struttura, cf. anche Prot. 309a4 (ὥς γ’ἐν αὐτοῖς ἡμῖν εἰρῆσθαι), Resp. 3.414a6-7 (ὡς ἐν τύπῳ ... εἰρῆσθαι) e 10.595b3 (ὡς ... πρὸς ὑμᾶς εἰρῆσθαι), oltre che qui infra, 366b4 (ὡς ἐν κεφαλαίῳ ... εἰρῆσθαι). Questo tipo di espressioni scompare invece nei dialoghi tardi. 364e4-5 ἄν ... μάθω Lett. «qualora di qui io possa comprendere qualcosa di più», ma si può meglio rendere «vediamo se di qui etc.» («Dimmi, e vediamo se di qui riesco a capire di più», Cambiano (1970); «Dis donc, voyons si je comprends mieux de la sorte», Fronterotta (2005); «Now tell me, and perhaps it may result in my understanding better», Fowler (1926); «Tell me in order that I may learn further if haply I may», Smith (1895). La subordinata ipotetica (ἄν = ἐάν) non è da legarsi alla proposizione precedente καί μοι εἰπέ, ma sottintende un’apodosi implicita, risultando quindi di fatto a sé stante. Per quest’uso di ἐάν con sfumatura finale, cf. Cooper (1998), II, 1044 («The purpose in the finality is experiment, trial, investigation, so that often it is right to translate the clause to see if, to try whether»). Per questo costrutto nel corpus platonico, cf. anche e.g. ἄκουσον καὶ ἐμοῦ, ἐάν σοι ἔτι δοκῇ ταὐτά, Resp. 2.358b1, richiamato da Smith (1895) ad loc. Per il valore di μανθάνω, che significa qui in primo luogo «comprendere», cf. LSJ s.v. μανθάνω, IV: «understand, (Pl. Euthd. 277e) ὡς μάθω σαφέστερον». 364e5-6 ὁ Ἀχιλλεὺς ... πεποίηται; «Achille non è raffigurato scaltro (polytropos) da Omero?». La domanda risulta in apparenza assurda, dato che nei poemi omerici l’epiteto πολύτροπος appartiene esclusivamente a Odisseo (cf. supra, 364c6 e nota ad loc.), anche se nel dialogo può considerarsi pre-

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parata sul piano linguistico dall’uso del superlativo relativo πολυτροπώτατος in 364c6, che comporta, teoricamente, la possibilità che vi siano altri eroi che presentano la medesima qualità, ma in grado inferiore. Nella parte centrale del dialogo, Socrate tornerà proprio su questa tesi, cercando di sostenere che Achille sia effettivamente πολύτροπος alla luce del testo omerico: cf. ὁ δὲ Ἀχιλλεὺς πολύτροπός τις φαίνεται κατὰ τὸν σὸν λόγον, 370a1-2. È interessante notare come essa sia stata poi sostenuta anche da studiosi moderni, che proprio nel libro IX dell’Iliade, oggetto dell’indagine svolta nell’Ippia minore, si rivelerebbe astuto e, in un certo senso, anche mentitore: cf. Schmiel (1983/84) e più recentemente Mitsis (2015); cf. infra, «Lettura di Omero (369d1-372a5)» con nota introduttiva. 364e7-8 ἁπλούστατος ... ἀληθέστατος «assolutamente schietto e sincero». Il testo corretto è preservato dal solo F, laddove καὶ ἀληθέστατος è invece omesso nei mss. della prima famiglia (TW), una facile caduta per omeoteleuto (per un caso analogo, in cui F si rivela di fondamentale importanza per ricostruire una porzione di testo omessa da TW, cf. anche 366e7). Rispetto ad ἀληθής, l’aggettivo ἁπλοῦς, che significa propriamente «semplice», ha un significato più ampio, indicando in generale la franchezza nel comportamento: cf. Chantraine (1968-80), s.v. ἁπλόος, «“simple”, qui n’est pas double ... parfois au sense morale de “droit, sans détour”»; il suo uso prepara la contrapposizione con πολύτροπος inteso nel senso di «molteplice, dal carattere doppio», per cui cf. 365b3-5 e note ad locc. Gli stessi aggettivi sono adoperati per descrivere Achille negli scolii ai versi omerici che verranno subito dopo citati da Ippia: τὸν Ἀχιλλέα παραδίδωσι φιλότιμον, ἁπλοῦν, φιλαλήθη κτλ., schol. bT ad Il. 9.307-9 Erbse; cf. Hainsworth (1993), 100, oltre che, per il legame tra gli scolii e il passo di Platone, Giuliano (1995), 50-52 e ora Hunter (2016), 96. Per la stessa descrizione, cf. anche ὁ Ἀχιλλεὺς ... ἦθος γενναῖον ἅμα καὶ ἁπλοῦν ἐμφαίνει, [Plut.] De Hom. 2.169.9, oltre che, a proposito sia di Achille che Aiace, gli aggettivi ἁπλοῦς καὶ γεννάδας in schol. ad Od. 1.1 l1 Pontani, rr. 7-8 = Antisth. fr.187 SSR, sul cui rapporto con l’Ippia minore cf. supra, Introduzione, 5 «Il confronto tra Achille e Odisseo». La stessa raffigurazione di Achille come personaggio dal carattere schietto ritorna anche in tragedia: cf. ἐγὼ δ’, ἐν ἀνδρὸς εὐσεβεστάτου τραφεὶς / Χείρωνος, ἔμαθον τοὺς τρόπους ἁπλοῦς ἔχειν, Eur. I.A. 926-27, dove è da notare come tale qualità sia presentata però come frutto dell’educazione, piuttosto che come dote naturale. 364e8 ἐν Λιταῖς Lett. «nelle Preghiere». Il riferimento al testo di Omero avviene mediante il titolo della rapsodia, come anche in altri casi nel corpus platonico: cf. di nuovo ἐν Λιταῖς, Crat. 428c3; ἐν τῇ ἱπποδρομίᾳ τῇ ἐπὶ Πατρόκλῳ, Ion 537a6-7; ἐπὶ τειχομαχίᾳ, ibid. 539b2; cf. anche Ἀλκίνου ἀπόλογος, Resp. 10.614b2; per i passi, cf. Labarbe (1949), 41. La suddivisio-

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ne in rapsodie è verosimilmente anteriore a quella alessandrina in ventiquattro libri e forse solo parzialmente corrispondente ad essa: cf. Richardson (1993), 20-21, con ulteriori riferimenti; per una diversa posizione cf. tuttavia West (2011), 74-76. Il titolo Λιταί (per il quale cf. anche schol. bT ad Il. 9.0 Erbse; Eustath. In Il. 2.642.1 van der Valk), nella fattispecie, è tratto dall’allegoria delle Preghiere in Il. 9.502 ss. e di lì passa a designare nel suo complesso l’episodio corrispondente al libro IX, nel quale Odisseo, Fenice e Aiace vengono inviati in ambasceria alla tenda di Achille per recare la proposta di conciliazione di Agamennone e pregare l’eroe di far ritorno in battaglia, donde il titolo alternativo di πρεσβεία con cui il libro è noto nell’esegesi antica (cf. τὴν πρὸς Ἀχιλλέα πρεσβείαν, [Plut.] De Hom. 2.168.4). Platone cita più volte questo canto, criticando apertamente l’idea centrale dell’episodio, ovvero che gli dèi possano essere piegati dalle preghiere degli uomini (in part. Il. 9.497-501, cf. Resp. 2.364d7-e2, 365e2-4; Leg. 10.906e1-2), e ritenendo sconveniente anche il tentativo di corrompere Achille con la proposta di ricchi doni (Resp. 3.390e5-8, dove è offerto un riassunto tendenzioso di Il. 9.515 ss.). Per i passi, cf. Brandwood (1976), 998, nn. 141-47, nella cui lista manca tuttavia l’allusione in Resp. 3.390e5-8. Anche nell’Ippia minore il tema della persuasione e del conseguente mutamento dei propositi di Achille avrà un ruolo cruciale: cf. infra, 371d8-e2 e nota ad loc. 364e8-9 πρὸς ἀλλήλους ... διαλεγομένους «li fa dialogare tra loro», propriamente «li rappresenta in atto di dialogare fra loro», scil. Ὅμηρος. Per quest’uso di ποιέω, cf. e.g. θεούς ... ποιεῖν ὀδυρομένους καὶ λέγοντας κτλ., Resp. 3.388b8-9; KG II, 52 n. 2. 364e9 αὐτῷ Il pronome si riferisce ad Omero, soggetto sottinteso della frase precedente (ποιεῖ, 364d9), e non ad Odisseo, menzionato subito dopo (πρὸς τὸν Ὀδυσσέα, 364b9-10): per questo particolare uso del dativo in riferimento a un autore citato, cf. e.g. Ὁμήρῳ Διομήδης λέγει, Resp. 3.389e5; Ὀδυσσεὺς ... αὐτῷ λοιδορεῖ τὸν Ἀγαμέμνονα, scil. τῷ Ὁμήρῳ, Leg. 4.706d4-5; Cooper (1998), I, 283. Si può rendere alla lettera «presso di lui», i.e. «in Omero», cf. «sagt Achilleus bei ihm zum Odysseus», Apelt (1918), o meglio si può ricorrere ad una perifrasi con verbo causativo, del tipo «fa dire ad Achille, rivolto a Odisseo», scelta più libera preferita dalla maggior parte dei traduttori moderni: «vuole che Achille dica a Odisseo», Centrone, Petrucci (2012); «he makes Achilles says to Odysseus», Fowler (1926); «il fait parler Achille», Croiset (1920) e Fronterotta (2005); «he has Achilles say to Odysseus», Allen (1996). 365a1-b2 = Il. 9.308-10; 312-14. «Divino figlio di Laerte, Odisseo dai molti espedienti, / bisogna che io dichiari apertamente la mia parola, / così co-

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me ho deciso e come penso si compirà: / odioso mi è infatti come le porte dell’Ade / chi una cosa nasconde nel cuore, un’altra ne dice. / Ma io parlerò come anche sarà compiuto». Si tratta del preambolo del lungo discorso con cui Achille replica ad Odisseo, opponendo un netto rifiuto alla proposta di riconciliazione da parte di Agamennone di cui questi è stato latore (Il. 9.308-429; per le varianti del testo platonico rispetto alla vulgata omerica, cf. infra, note seguenti). I versi, come emergerà più chiaramente nel commento che segue la loro citazione (cf. 365b3-6 e note ad locc.), costituiscono per Ippia non solo una testimonianza del carattere ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος di Achille, come potrebbe apparire dall’introduzione del passo (cf. 364e7-8), ma anche un’implicita accusa nei confronti del πολυμήχανος Odisseo (308), al quale si riferirebbero quindi i versi 312-13 nei quali Achille dichiara di odiare chi è bugiardo. Su questa linea si muove, d’altronde, anche la maggior parte della critica moderna, che ha individuato nel passo la testimonianza di una inimicizia tra i due eroi: per questa interpretazione cf. soprattutto Nagy (1979), 51-52 («Odysseus ... the sort of ekhthrós ‘hateful one, enemy’ that is described in 9.312-313»); ma cf. anche Stanford (1968), 18 e n. 22; Hainsworth (1993) ad 308-14; e più recentemente Dentice (2012), 184 e n. 51, con ulteriore bibliografia. Contra, cf. tuttavia ora la puntuale analisi di Friedrich (2011), il quale mette chiaramente in evidenza come non vi sia, nel testo, alcun indizio di un’ostilità di Achille nei confronti di Odisseo, e i versi 312-313 siano da intendersi «as a general statement, with κεῖνος referring to no specific person» (286), un rafforzamento della dichiarazione d’intenti già espressa nei versi precedenti in cui Achille preannuncia che parlerà apertamente (ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, 309), giustificando quindi in tal modo la rudezza del discorso che seguirà. Tendenziosa risulta, dunque, l’interpretazione di Ippia: cf. infra, 364b3 ss. e note ad locc. Per la ripresa di questi versi nella letteratura successiva, cf. Soph. Phil. 87-89 con schol. ad v. 94. I versi 312-13 in part., avulsi dal contesto, diventano quasi proverbiali: cf. [Plut.] De Hom. 2.186,3, Luc. 15.24 e 56.30 (parodico); cf. anche, per una possibile reminiscenza del passo nel corpus platonico, τό γε ὡς ἀληθῶς ψεῦδος ... πάντες θεοί τε καὶ ἄνθρωποι μισοῦσιν, Resp. 2.382a4-5 con Adam (1902) ad loc. Il v. 313, insieme ad una parafrasi del v. 312, è inoltre citato in schol. ad Od.1.1 l1 Pontani, rr. 11-13, su cui cf. supra, nota introduttiva ad 364d7-365b6. Numerus versuum. Con l’eccezione del Ven. 189 che corregge sulla base della vulgata omerica anche in altri casi, per cui cf. infra, note ad 365a3, ὥσπερ e κρανέω, ad 370b6 e ad 371c3 e Labarbe (1949), 389, manca nei mss. platonici il verso 311, tràdito invece in maniera concorde dai mss. omerici, nel quale Achille, con un temporaneo cambio di interlocutore, si

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rivolgerebbe non più al solo Odisseo, cui si indirizza dapprincipio il discorso (308), ma anche ad altri astanti, nel tentativo di porre fine alle loro richieste: ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος («affinché non mi stiate seduti qui intorno a cianciare»). Poco plausibile sembra l’ipotesi di un semplice errore meccanico per saut du même au même (ΩΣΠΕΡ / ΩΣΜΗ), avanzata da Labarbe (1949), 52-3, secondo il quale la corruttela sarebbe avvenuta nel testo omerico utilizzato da Platone; cf. poi anche Giuliano (1995), 12-13 n. 10, che ipotizza, ancor meno convincentemente, una caduta all’interno della tradizione del testo platonico stesso. È possibile, invece, pensare che Platone abbia omesso il verso proprio perché superfluo ai fini del confronto tra Achille e Odisseo, ai quali è espressamente limitata la conversazione nell’introduzione della citazione (πρὸς ἀλλήλους ... διαλεγομένους, 364e8-9); cf. Lohse (1965), 54. Omissioni intenzionali di versi non rilevanti ai fini dell’argomentazione si verificano sicuramente in altri casi (Resp. 2.364d8-e2 = Il. 9.497 + 499-501; 391a7-8 = Il. 22.15 + 20), anche se nell’Ippia minore le citazioni appaiono in genere complete (cf. infra, 370b4-c3 = Il. 9.357-63; 370c6-d1 = Il. 1.169-71; 371b8-c5 = Il. 9.650-55). Da prendere seriamente in considerazione, in questo caso, è però anche l’eventualità che il verso non figurasse nell’Omero di Platone: il verso è infatti di per sé piuttosto problematico, pace Hainsworth (1993) ad loc. («the verse ... indeed makes an effective point»), a partire dal riferimento, non meglio specificato, ad altre persone che si accalcherebbero a parlare intorno ad Achille, dal momento che fino a questo punto ha parlato soltanto Odisseo (225 ss.) e gli ambasciatori sono, comunque, solamente tre. Il verbo τρύζω, inoltre, che è normalmente usato per versi di animali e sarebbe qui da intendersi metaforicamente («metaph., of men, mutter, murmur, Il.9.311», LSJ s.v. τρύζω; cf. τρίζω, τριγμός), è hapax omerico, attestato in seguito solo a partire dall’età ellenistica (Theocr. 7.140; ἐπιτρύζω, Call. Aet. 1.1, Theocr. 2.62), e comporta una sfumatura dispregiativa che, anche ammettendo un contrasto tra Achille e Odisseo (su cui cf. tuttavia supra, ad 365a1-b2), risulta poco consona se rivolta anche agli altri eroi che compongono l’ambasceria, Fenice e Aiace, come dovrebbe far supporre l’uso del plurale. Un verso simile, ma con il verbo βάζω, ricorre in maniera più pertinente in Il. 16.207, dove Achille ricorda le proteste dei Mirmidoni da lui costretti a non prender parte alla battaglia (ταῦτα μ’ἀγειρόμενοι θάμ’ ἐβάζετε), riferendosi, quindi, a un gruppo ben più numeroso e formato da suoi sottoposti (un’interferenza tra i due passi è peraltro testimoniata dagli scolii, che riportano l’emistichio καὶ μ’ᾐτιάασθε ἕκαστος, Il. 16.202, come variante di παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλοι: cf. schol. bT ad Il. 9.311 Erbse); il secondo emistichio ricorre invece identico in bocca a Telemaco a proposito dei Proci (ἐκ γάρ με πλήσσουσι παρήμενοι ἄλλοθεν

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ἄλλος, Od. 18.231), un contesto dunque decisamente non paragonabile all’incontro di Achille con quelli che l’eroe stesso definisce φίλτατοι ἄνδρες (Il. 9.204). Su questa linea, cf. in part. Bolling (1955), 83; cf. anche Bolling (1925), 119-20, e ancora l’edizione di Bolling (1950), dove il verso è direttamente espunto; dello stesso parere anche Allen (1924), 355, e cf. ora anche Nagy (2009), 434 n. 145. 365a3 ὥσπερ (Il. 9.310). Con l’eccezione del Ven. 189 (su cui cf. supra, nota precedente), i mss. platonici testimoniano in questo punto concordemente la lezione ὥσπερ, una facile banalizzazione rispetto alla lezione della maggior parte dei mss. omerici ᾗπερ, avverbio di identico significato ma indubbiamente meno frequente: ᾗ περ : Il. 7.286, ᾗ ... περ : Il. 8.415; ὥσπερ : 9 occorrenze, ὣς ... περ : 20 occorrenze; cf. Labarbe (1949), 53 n. 4. Benché Lohse (1965), 255, abbia tentato di spiegare la variante come un’alterazione intenzionale da parte di Platone, dovuta alla ragione stilistica di ottenere un parallelismo con ἐρέω ὡς del v. 314, è probabile che si tratti di una lezione antica, come sembra risultare da schol. A ad loc., dove si legge come variante aristarchea l’intero emistichio (Ἀρίσταρχος «ᾗπερ δὴ φρονέω»): data l’estrema concisione degli scolii testuali, la varia lectio dovrebbe infatti riguardare non solo il verbo φρονέω (per cui cf. infra, nota seguente), ma anche l’avverbio; cf. Labarbe (1949), 53-57. 365a3 κρανέω (Il. 9.310). Il testo tràdito concordemente dai mss. platonici (TWF), cui non fa eccezione in questo caso nemmeno il Ven. 189, conferma la lezione κρανέω della vulgata, ora accolta a testo sia da van Thiel (1996) che da West (1998), contro la variante φρονέω attribuita dagli scolii ad Aristarco (schol. AT ad loc.), che era preferita invece da Allen (1920³) e Mazon (1947-49). A favore di κρανέω, cf. anche Hainsworth (1993) ad loc. («the pleonasm ... adding solemnity to Akhilleus’ words»), pace Labarbe (1949), 57-58, secondo il quale il verso risulterebbe tautologico, a maggior ragione se nell’emistichio successivo il testo da accettare è τετελεσμένον ἔσται e non τελέεσθαι ὀΐω, a differenza, di nuovo, di quanto riteneva Labarbe (cf. infra, nota seguente). Van der Valk (1964), II, 310, sottolinea l’appropriatezza di κρανέω al tono del discorso di Achille («Achilles is very self confident. This arrogant attitude is reflected very well in the passage in question»), laddove φρονέω costituisce un indebolimento, frutto forse di una correzione di Aristarco, cui il tono di Achille sarebbe parso sconveniente: «we know that Arist. was attentive to the πρέπον .... For this reason he has altered the original text in which Achilles’s arrogance showed itself too bluntly» (ibid.). Sul significato del verbo κρανέω (κραίνω), detto «par imitation de l’autorité divine, du roi qui donne force exécutoire à un projet», cf. Benveniste (1969), II, 35-42, e in part. 38 per la relazione logica tra κρανέω e τελέω, indicanti rispettivamente la sanzione di un proposito da

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parte dell’autorità e la sua successiva realizzazione, ben visibile proprio in questo verso, che Benveniste, seguendo il testo di Mazon, così traduce: «Je dois signifier mon propos, tel que je vais le confirmer et comme il s’accomplira». τελέεσθαι ὀΐω Con alcune differenze nella grafia, i mss. platonici, ad eccezione del Ven. 189 (su cui cf. supra, nota ad 365a1-b2, numerus versuum), convergono sostanzialmente sulla lezione τελέεσθαι ὀΐω, considerato che la lezione τετελέεσθαι di W è vox nihili, evidentemente derivata per dittografia da τελέεσθαι, mentre l’infinito perfetto τετελέσθαι di F è forma non attestata in Omero salvo in Il. 1.204, dove tuttavia Aristarco e un piccolo numero di mss. leggono la forma regolare τελέεσθαι, scelta dalla maggior parte degli editori, da Allen (19203) a West (1998), con l’eccezione di van Thiel (1996); la vulgata omerica ha invece, concordemente, τετελεσμένον ἔσται. Lohse (1965), 255-56, tenta di spiegare anche in questo caso la variante come un’alterazione intenzionale da parte di Platone, il quale, tramite l’indebolimento rispetto a τετελεσμένον ἔσται, intenderebbe suggerire che Achille finirà col non realizzare il proposito ora dichiarato, come emergerà dalla successiva lettura di Omero (cf. infra, 370a2 ss., in part. 370d3-6). La spiegazione appare tuttavia un po’ forzata, ed è probabile che si tratti piuttosto di uno scambio tra le due formule, che sono metricamente equivalenti: l’oscillazione si verifica all’interno della tradizione omerica anche in Il. 1.204 (τελέεσθαι ὀΐω vulg. : τετελεσμένον ἔσται Zen.), dove tuttavia il τελέεσθαι ὀΐω della vulgata è effettivamente appropriato al contesto, in cui Achille si rivolge ad Atena e usa perciò una forma attenuata. In questo caso sembra invece più adatta la formula ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται proprio per il tono generale del discorso di Achille: cf. van der Valk (1964), II, 311 e n. 178, il quale osserva che la formula «is always used by persons who, like Achilles in I 310, are master of the situation» (cf. Il. 2.254, Od. 2.187, 17.229, 18.82). Non è d’ostacolo alla scelta del testo della vulgata il participio neutro τετελεσμένον, come riteneva invece Labarbe (1949), 59-61, secondo il quale sarebbe necessario un maschile concordato con μῦθος (309), essendo infatti possibile sottintendere un generico τοῦτο: cf. ancora van der Valk (1964), II, 311 n. 178; per la formula con il neutro, τὸ δὲ καὶ τετελεσμένον ἔσται, cf. Il. 1.212, 2.257, 8.401, 23.672; Od. 2.187, 17.229, 18.82, 21.337. 365b2 ὥς καὶ τετελεσμένον ἔσται (Il. 9.314). Come già per κρανέω (supra, 365a3 = Il. 9.310), il testo offerto dai mss. platonici (TWF), in questo caso anche dal Ven. 189, conserva probabilmente la lezione esatta, confermando quella della vulgata, stampata ora da West (1998), contro la variante ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα che era preferita invece da Allen (1920³) e van Thiel (1996). Questa seconda formula appare infatti meno appropriata al contesto, in quanto generalmente adoperata non per esprimere un propo-

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sito, come qui, ma per suggerire un consiglio, in bocca ad una figura autorevole (Il. 9.103, 12.215, 13.735; Od. 20.130): cf. Labarbe (1949), 64-65, secondo il quale lo scambio tra le due formule sarebbe causato, nella tradizione orale, dall’identità del primo emistichio (αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω) con Il. 9.103 e 13.735, dove esso è seguito appunto dalla formula ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα. Van der Valk (1964), II, 311, ipotizza invece una correzione di Aristarco, volta ad evitare la ripetizione con 310. 365b3-4 ἐν τούτοις ... τοῦ ἀνδρός «In questi versi mostra il carattere di entrambi gli eroi». Ippia trae dunque dai versi un’indicazione relativa non solo al carattere sincero di Achille, come sembrava essere dall’introduzione del suo discorso (ἥκιστά γε, ... ἀλλ’ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, 364e7-8), ma anche a quello di Odisseo, intendendo evidentemente la dichiarazione dell’odio per la mendacità (ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος κτλ., 312) come un’implicita accusa dell’eroe nei confronti del suo interlocutore: sulla legittimità o meno di tale interpretazione sulla base del testo omerico, cf. supra, nota ad 365a1-b2. La lettura tendenziosa che Ippia offre di questi versi appare in linea con il suo più generale obiettivo di discreditare il personaggio di Odisseo a favore di Achille, che traspare anche dal punto cruciale costituito dall’interpretazione in senso dispregiativo dell’epiteto πολύτροπος, per cui cf. infra, note seguenti, oltre che in generale supra, nota introduttiva ad 364d7-365b6. 365b3 τὸν τρόπον «il carattere». L’uso del termine τρόπος sembra sottintendere il tentativo di far derivare etimologicamente l’epiteto πολύτροπος non dal verbo τρέπειν, come propriamente dovrebbe essere (cf. supra, 364c6-7 e nota ad loc.), ma appunto dal sostantivo τρόπος, in modo da sostenerne una valenza etica negativa: il composto verrebbe infatti così a indicare la «molteplicità di carattere», e quindi la «doppiezza»; cf. anche infra, 365b4-5 e nota ad loc. Della stessa connessione tra πολύτροπος e τρόπος in questo senso sembra esservi traccia anche in schol. ad Od. 1.1 l1 Pontani, dove πολύτροπον è glossato con δόλιον καὶ παλίμβολον τὸ ἦθος (rr. 8-9; cf. anche τρόπος τὸ μέν τι σημαίνει τὸ ἦθος, r. 16), e si può pensare quindi che fosse questo il punto centrale su cui poggiava l’interpretazione dell’epiteto sostenuta da Ippia: cf. Luzzatto (1996), 314-15. 365b4-5 ὡς ὁ μὲν ... ψευδής «cioè che Achille sarebbe sincero e schietto, Odisseo invece scaltro e bugiardo». I termini sono disposti chiasticamente, in due coppie contrapposte: laddove ἀληθής è ovvio contrario di ψευδής, l’aggettivo ἁπλοῦς, che significa propriamente «semplice» (cf. supra, 364e7-8 e nota ad loc.), può essere ora posto come contrario di πολύτροπος solo se quest’ultimo aggettivo è inteso nel senso della doppiezza, come Ippia vuole appunto sostenere.

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365b5-6 ποιεῖ ... τὰ ἔπη «rappresenta infatti Achille che dice questi versi a Odisseo». Riprende l’introduzione della citazione (364e8-10), ma quello che appariva sulle prime solo un’indicazione di contesto (ἡνίκα ... πρὸς ἀλλήλους διαλεγομένους, 364b8-9) si rivela ora in realtà funzionale all’interpretazione dei versi sostenuta da Ippia, il quale dal fatto che essi siano rivolti ad Odisseo desume una polemica di Achille contro quest’ultimo, di cui sarebbe indicato indirettamente il carattere mendace: cf. supra, 365b3-4 e 365a1-b2 con nota ad loc.

365b7-d5 Da quello che Ippia ha detto, Socrate deduce che a suo avviso “scaltro” (polytropos) equivalga a “mendace” e che la persona mendace e quella veritiera siano due persone distinte; Ippia non ha alcuna difficoltà ad ammetterlo. Ma a questo punto Socrate propone di accantonare Omero, dal momento che non è possibile chiedergli direttamente quale fosse il suo intento nel comporre i versi in questione; sarà invece Ippia a rispondere sia per se stesso che per Omero. Ottenuta da Ippia la risposta desiderata, Socrate prepara la transizione all’interrogazione dialettica, enucleando le tesi del suo interlocutore ad un livello più generale: dalla valutazione che questi ha dato a proposito di Achille e Odisseo emerge innanzitutto che egli considera πολύτροπος sinonimo di ψευδής (365b8) e, in secondo luogo, che la persona ψευδής e quella ἀληθής sono per lui due persone distinte (365c3-4). Socrate esprime dunque la necessità di abbandonare l’esegesi di Omero, esercizio sterile in assenza del poeta che possa chiarire il proprio pensiero (365c8 ss.), per passare all’interrogazione dell’interlocutore che è, invece, presente in persona (365d2 ss.). Si tratta del primo intermezzo metodologico che si incontra nel dialogo, all’interno del quale determina una prima cesura, scandendo il passaggio alla prima fase dialettica: cf. poi infra, 369b8 ss., dove le proteste di Ippia contro il metodo socratico porteranno invece ad un ritorno all’esegesi omerica, e ancora 372a6 ss., dove è di nuovo Socrate ad intervenire per riportare il suo interlocutore all’interrogazione dialettica. 365b7-8 νῦν ... λέγεις «Ora finalmente, Ippia, forse capisco che cosa intendi: per scaltro tu intendi bugiardo». Si arriva dunque alla risposta sul significato del termine πολύτροπος che aveva sulle prime suscitato la perplessità di Socrate (cf. supra, 364e3-4). La battuta sottolinea come l’interpretazione di πολύτροπος nel senso di ψευδής sia appunto una particolare posizione di Ippia: cf. supra, nota introduttiva ad 364d7-365b6.

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365b7 κινδυνεύω Lett. «rischio», nel senso di «potrei», «probabilmente» (cf. LSJ s.v. κινδυνεύω, 4.b: «to express chance, i.e. what may possibly or probably happen»). In questa accezione, si tratta di un uso colloquiale: cf. Thesleff (1967), 89. 365c1-2 τοιοῦτον ... Ὀδυσσείᾳ «tale infatti Omero ha raffigurato Odisseo in molti luoghi, sia nell’Iliade che nell’Odissea». Difficile in realtà, con l’eccezione della Doloneide nel libro X, trovare prove della mendacità di Odisseo nell’Iliade, alla quale resterà circoscritta la discussione nel resto del dialogo; viceversa, si ha qui l’unico riferimento all’Odissea, sulla cui base sarebbe facile, per Ippia, darne dimostrazione. Sulla raffigurazione in apparenza differente di Odisseo nei due poemi cf. Stanford (1968), 12: «Anyone who expects to find Odysseus’ proverbial wiliness prominently displayed in the Iliad will be disappointed»; cf. in generale anche Lentini (2006). 365c2 πολλαχοῦ «in molti luoghi», i.e. «in molti passi». Per l’uso figurato degli avverbi di luogo in riferimento a un testo, cf. infra, οὐδαμοῦ, 369e5 e 370d3, ποῦ, 371b6; cf. anche e.g. πολλαχοῦ μὲν γὰρ καὶ ἐν Ὁδυσσείᾳ λέγει ... πολλαχοῦ δὲ καὶ ἐν Ἰλιάδι, Ion 538e6-539b1, e Ὅμηρος πολλαχοῦ λέγει, Crat. 408a4. 365c3 ἐδόκει ... Ὁμήρῳ «Omero credeva dunque, a quanto pare...». Con la limitazione ὡς ἔοικεν, Socrate evita di attribuire a Omero l’opinione espressa da Ippia: come si dirà chiaramente più avanti, è infatti impossibile interrogare il poeta per conoscere il suo pensiero (365c8 ss.; cf. infra, nota ad loc.). 365c3-4 ἕτερος ... ὁ αὐτός «che uno fosse l’uomo veritiero, un altro quello mendace, e non lo stesso». L’insistenza su questa affermazione, apparentemente ovvia, si comprende alla luce del fatto che essa sarà al centro della successiva confutazione (366c5 ss.), risultando alla fine ribaltata (367c7-8). 365c4 ἀλλ’οὐχ ὁ αὐτός «e non lo stesso». A differenza di καὶ οὐ, che aggiunge un’idea negativa ad una positiva, la combinazione ἀλλ’οὐ «expresses the incompatibility of two ideas», e spesso, come qui, la proposizione introdotta da ἀλλ’οὐ «merely restates negatively something already stated positively»: cf. Denniston (1954²), 1-3, in part. 2. In casi come questo, ἀλλά si può quindi anche omettere in traduzione («καὶ οὐ is usually best rendered ‘and not’, ἀλλ’οὐ ‘not’», ibid.). 365c5 πῶς ... μέλλει Lett. «Come potrebbe, infatti, non esserlo?». Per l’uso di interrogative retoriche (τί μέλλει; τί δ’οὐ μέλλει; πῶς οὔ; vel sim.), dove è da sottintendere un’infinitiva, come espressione enfatica di assenso, cf. KG II, 541 n. 4; Cooper (1998), II, 1035-36. Cf. anche infra, ἀλλὰ τί μέλλει; (373d5) e πῶς γὰρ οὔ; (373e2). 365c6 ἦ καὶ σοὶ ... ὦ Ἱππία; «E lo pensi anche tu, Ippia?». La domanda si comprende in prospettiva del fatto che sarà il solo Ippia, in assenza di

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Omero, a sostenere la successiva interrogazione: cf. infra, 365c8 ss. e nota ad loc. 365c7 καὶ γὰρ ... εἰ μή «E sarebbe assurdo se non fosse così». Per la stessa reazione di Ippia, cf. anche infra, δεινὸν μεντἂν εἴη κτλ., 375d3 ss. 365c8-d1 τὸν μὲν Ὅμηρον ... τὰ ἔπη «Lasciamo dunque da parte Omero, dal momento che è impossibile chiedergli con quale intento compose questi versi», lett. «pensando a che cosa compose questi versi»; con traduzione più libera, invertendo il rapporto sintattico tra il participio e il verbo di modo finito, «che cosa pensasse nel comporre questi versi», scelta preferita nella maggior parte delle traduzioni: «che cosa pensava quando componeva questi versi», Cambiano (1970); «cosa mai pensasse mentre componeva...», Centrone, Petrucci (2012); «ce qui pensait lorsqu’il composait ce verses», Fronterotta (2005); «what he meant when he made those verses», Fowler (1926). Per lo stesso tema, cf. il commento con cui Socrate chiude la lunga esegesi del carme simonideo nel Protagora (περὶ μὲν ᾀσμάτων τε καὶ ἐπῶν ἐάσωμεν κτλ., 347b9 ss.), adducendo la motivazione che non è possibile interrogare i poeti a proposito di ciò che dicono e ciascuno finisce perciò per attribuire loro un pensiero diverso (οὓς οὔτε ἀνερέσθαι οἷόν τ’ἐστὶν περὶ ὧν λέγουσιν, ἐπαγόμενοί τε αὐτοὺς οἱ πολλοὶ ἐν τοῖς λόγοις οἱ μὲν ταῦτά φασιν τὸν ποιητὴν νοεῖν, οἱ δ’ἕτερα κτλ., Prot. 347e4-7); per il rinvio al Protagora, che costituisce uno dei tanti parallelismi strutturali tra i due dialoghi, cf. già Pohlenz (1913), 83-84. Il concetto sotteso, benché non sia qui esplicitato, è lo stesso che è alla base della più generale critica che Platone muove nel Fedro (275d4 ss.) al testo scritto, il cui limite essenziale è l’incapacità di rispondere quando si voglia interrogarlo: lo scritto, infatti, ripete inevitabilmente sempre la stessa cosa (ἐὰν δέ τι ἔρῃ τῶν λεγομένων βουλόμενος μαθεῖν, ἕν τι σημαίνει μόνον ταὐτὸν ἀεί, Phaedr. 275d8-9). Per questa ragione, esso non è in grado di difendersi da solo, ma ha sempre bisogno del «soccorso del padre» (τοῦ πατρὸς ἀεὶ δεῖται βοηθοῦ· αὐτὸς γὰρ οὔτ’ἀμύνασθαι οὔτε βοηθῆσαι δυνατὸς αὑτῷ, 275e4-5), ovvero, fuor di metafora, dell’intervento dell’autore che spieghi il significato delle sue parole. Per una situazione analoga nei dialoghi, in cui un pensatore è lasciato da parte in quanto assente, senza riferimento all’opera scritta e ai suoi limiti, cf. anche Men. 71d4 ss., dove Socrate rinuncia ad esaminare il pensiero di Gorgia, che non è presente, per concentrarsi sull’interrogazione del suo interlocutore Menone (ἐκεῖνον μὲν τοίνυν ἐῶμεν, ἐπειδὴ καὶ ἄπεστιν· σὺ δὲ αὐτός ... τί φῂς κτλ.). Sul principio della necessità della presenza dell’autore, nonché della disponibilità di questi a rispondere, cf. in part. Erler (1987), 24-27, con riferimento al passo dell’Ippia minore; in generale per diverse posizioni nella sterminata bibliografia sulla questione della critica alla scrittura nel passo del Fedro e le sue

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implicazioni per la lettura degli scritti platonici, cf. almeno Szlezák (1985), 7-23, e Trabattoni (1994), 10-47, con ulteriori riferimenti; cf. anche i commenti di de Vries (1969) e Yunis (2011) ad loc.; la possibilità di confutare un testo scritto, cui si può accostare anche il caso presente della poesia, è esaminata invece da Cambiano (2007) con riferimento a diversi dialoghi. 365d1 τί ... νοῶν «pensando ... che cosa». Per la comprensione del pensiero del poeta come obiettivo dell’interprete, cf. τὴν τούτου, scil. Ὁμήρου, διάνοιαν ἐκμανθάνειν, μὴ μόνον τὰ ἔπη, Ion 530b10-c1, dove si potrebbe alludere tuttavia ad un’eventuale interpretazione allegorica di Omero, per cui cf. Flashar (1958), 30-34 e Tulli (1987), 49-50, che è qui sicuramente fuori discussione. Il tentativo di ricostruire il pensiero del poeta è motivo conduttore dell’interpretazione del carme di Simonide condotta da Socrate nel Protagora: cf. ἅ μοι δοκεῖ διανοεῖσθαι Σιμωνίδης ἐν τούτῳ τῷ ᾄσματι, ἐθέλω σοι εἰπεῖν, Prot. 341e7-8; ταῦτά μοι δοκεῖ ... Σιμωνίδης διανοούμενος πεποιηκέναι τοῦτο τὸ ᾆσμα, 347a3-5; Giuliano (1991), 149-50. Al termine dell’esegesi egli afferma però, come qui, l’impossibilità di una tale ricostruzione in assenza del poeta, ammettendo quindi implicitamente l’arbitrarietà della propria interpretazione (cf. 347b9 ss., citato supra, nota precedente). 365d2-4 σὺ δ’ ... καὶ σαυτοῦ «Tu invece, visto che mostri di raccoglierne la causa e condividi le cose che sostieni che Omero dicesse, rispondi in comune per Omero e per te stesso». Cf. anche Men. 71d1-2, dove Menone è invitato a rispondere al posto del suo maestro Gorgia: εἰ δὲ βούλει, αὐτὸς εἰπέ· δοκεῖ γὰρ δήπου σοὶ ἅπερ ἐκείνῳ (per il passo, cf. anche supra, nota ad 365c8-d1), e Resp. 1.332c5-8, ); εἰ οὖν τις αὐτὸν ἤρετο … τί ἂν οἴει ἡμῖν αὐτὸν ἀποκρίνασθαι, dove «la domanda, inizialmente indirizzata a Simonide, viene quindi girata a Polemarco», come nota Giuliano (2005), 298 n. 161. L’uso dell’imperativo aoristo ἀπόκριναι (d3) mostra un atteggiamento cortese e formale da parte di Socrate, cui si contrappone il presente ἐρώτα (d5) adoperato da Ippia, che è ritenuto, e si ritiene, in posizione di superiorità nella “contrattazione” relativa ai ruoli di interrogante e rispondente: cf. Lallot (2000), 51 («Le contraste ἀπόκριναι – ἐρώτα connote discrètement l’inégalité de statut entre les contractants»). 365d2 ἀναδεχόμενος τὴν αἰτίαν «(sembri) raccoglierne la causa». La metafora è tratta dal linguaggio giuridico (εἰς ἑαυτὸν τὴν αἰτίαν ἀναδέχεσθαι, cf. Menand. Sam. 482, D. Cass. 102.1). Cf. anche εἰ οὖν συγχωρεῖς ... καὶ παραδέχῃ τὸν λόγον, Charm. 162e2-4, e l’espressione ὁ τοῦ λόγου κληρονόμος, Resp. 1.331e2, dove la metafora giuridica gioca però in quel caso sul fatto che Polemarco è effettivamente, anche in senso proprio, l’erede del padre Cefalo (cf. 331d8).

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365d3 ἅπερ φῂς ... λέγειν Lett. «le cose che sostieni che Omero dicesse». Da notare la presa di distanza con cui Socrate, coerentemente con quanto appena osservato (cf. 365c8-d1 e nota ad loc.), evita di attribuire a Omero quella che è solo l’interpretazione che Ippia dà delle sue parole. Cf. οὕτω λέγειν φῂς τὸν Σιμωνίδην, Resp. 1.332b3, dove l’interpretazione sostenuta da Polemarco è alla fine rifiutata (μαχούμεθα ἄρα ... ἐάν τις αὐτὸ φῇ ἢ Σιμωνίδην ἢ Βίαντα ἢ Πιττακὸν εἰρηκέναι κτλ., 335e8 ss.). 365d6 ἔσται ταῦτα «Va bene». Questa risposta, che ricorre anche in altri dialoghi pur non essendo molto frequente (Ion 530b4, Theaet. 144d7, Leg. 3.688e2, 3.700a3 e 8.842a7), esprime l’impegno da parte di Ippia ad esaudire la richiesta di Socrate: cf. Rijksbaron (2007) ad Ion 530b4 («Although ἔσται ταῦτα is impersonal, it implies, in fact, a promise on Ion’s part»). Secondo Lallot (2000), 51, la replica di Ippia, con l’accettazione della richiesta di Socrate espressa al futuro, ha una «precision “juridique”». 365d6 ἔμβραχυ L’avv. ἔμβραχυ è idiomatico, nell’attico di epoca classica, in combinazione con un pronome relativo-indefinito (qui ὅτι), nel significato di «insomma» («in brief, in fine, in Att. with relat. such as ὅστις, ὅπου, etc.; in sense, at all, soever», LSJ s.v. ἔμβραχυ, A, con rimando anche a questo passo; cf. anche συντόμως καὶ ἁπλῶς, schol. T ad loc.). Dal fraintendimento di quest’uso deriva evidentemente la corruttela ἐν βραχεῖ presente in F, e che si ripete anche in due delle altre tre occorrenze del termine nel corpus platonico (Gorg. 457b1; Symp. 217a2, dove ἔμβραχυ è congettura di Cobet, contro l’ἐν βραχεῖ dei mss.). Cf. [Theag.] 127c8, dove l’avv. è tràdito invece correttamente, con Joyal (2000) ad loc. Non vi è dunque alcun riferimento alla brevità caratteristica delle domande socratiche, come vuole invece Fronterotta (2005) ad loc. Stilisticamente, si tratta di un termine di uso colloquiale che, al di fuori del corpus platonico, è attestato solamente in prosa e in commedia: cf. e.g. Aristoph. Vesp. 1120, Thesm. 390; Lys. Or. 13.92, Is. Or. 9.11.5.

PRIMA FASE DIALETTICA (365D6-369C8) La prima fase dialettica si sviluppa come un elenchos diretto alla tesi di Ippia secondo cui la persona mendace e quella veritiera sono due persone distinte, e non la stessa (cf. supra, ἕτερος μὲν εἶναι ἀνὴρ ἀληθής, ἕτερος δὲ ψευδής, ἀλλ’οὐχ ὁ αὐτός, 365c3-4). La tesi contraria, secondo cui mendace e veritiero coincidono (ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθής, 367c7-8; cfr. 368a5-6, 369b3-4), è ora dimostrata sulla base del fatto che per dire il falso è necessario conoscere il vero: la stessa persona dunque, ovvero l’esperto in una de-

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terminata disciplina, è in grado di dire tanto l’uno quanto l’altro in relazione al proprio ambito di competenza. L’argomentazione è stata considerata fallace perlomeno a partire da Aristotele, secondo il quale la fallacia risiederebbe nella riduzione della mendacità ad una semplice capacità (διὸ ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος παρακρούεται ὡς ὁ αὐτὸς ψευδὴς καὶ ἀληθής. τὸν δυνάμενον γὰρ ψεύσασθαι λαμβάνει ψευδῆ – οὗτος δ’ὁ εἰδὼς καὶ ὁ φρόνιμος, Aristot. Metaph. 5.29.1025a6-8); mendace è invece, secondo la definizione che Aristotele ha dato nelle righe precedenti, non chi sia in grado di mentire, ma chi lo faccia effettivamente, per inclinazione e scelta deliberata (ἄνθρωπος δὲ ψευδὴς ὁ εὐχερὴς καὶ προαιρετικὸς τῶν τοιούτων λόγων, 1025a2-3); per un’osservazione in questo senso, cf. anche οὐκ ἐν τῇ δυνάμει ἐστὶν δ’ἀλαζών, ἀλλ’ἐν τῇ προαιρέσει, Ε.Ν. 4.7.1127b14, richiamato da Ross (1924) ad loc. Sulla stessa linea di Aristotele si sono poi posti anche la maggior parte dei moderni commentatori: cf. e.g. Guthrie (1975), 196: «That the mendacious must have the same capability as the truthful is correct ... But that the liar and truthful are the same man is not true, because the one will not lie although he could. This point was made already by Aristotle». Cf. anche Kraus (1913), 11 n.1; Shorey (1933), 88-89; Sprague (1962), 67-70 e 79 n. 37 per il riferimento ad Aristotele; Szlezák (1985), 82-83 n. 9; Kahn (1996), 115-16; Beversluis (2000), 99-100 e n. 28; Mulhern (1968) parla di «δύναμις-concepts» e «τρόπος-concepts», rimandando comunque ad Aristotele, pur con la precisazione che «δύναμις and τρόπος should not be taken to have the same range of meanings as have δύναμις and ἕξις in the Ethica Nicomachea», 285 n.3. La critica aristotelica si fonda tuttavia, appunto, sulla distinzione tra δύναμις ed ἐπιστήμη da un lato e ἕξις dall’altro, e sul conseguente rifiuto dell’identificazione socratico-platonica della virtù con la conoscenza: non è dunque possibile applicare l’osservazione di Aristotele al dialogo platonico senza rischiare di sovvertire il significato di quest’ultimo, rinunciando ai presupposti dell’intellettualismo socratico. Per una difesa dell’argomentazione, che sarebbe valida se intesa sul piano della mera potenzialità, cf. invece soprattutto Weiss (1981). Anche Petrucci (2012), 142-43, pur ritenendo che l’argomento sia innegabilmente viziato dalla fallacia individuata dai commentatori, sostiene con ragione che esso sia condiviso da Socrate e del tutto legittimo nell’ambito del «modello prestazionale» delle tecniche e che la fallacia dell’argomentazione «non implica che Platone non condividesse la tesi proposta». Sul rapporto tra la critica aristotelica e il dialogo platonico cf. poi Longo (2016), 123-24, la quale nota che «mentre Aristotele dà una lettura in chiave morale del fenomeno della mendacità, nel dialogo platonico se ne dà invece una lettura intellettualistica fondata sulla conoscenza … una prospettiva orientata alle capa-

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cità e ai saperi, nel senso che vi si metteva in evidenza piuttosto l’abilità e il sapere tecnico di chi conoscendo il vero, poteva dire anche il falso». La prospettiva morale, tuttavia, non è assente nel dialogo, soltanto che, anche in questo caso, la questione andrà esaminata sotto il profilo della capacità e del sapere; e il problema, dal punto di vista socratico, sarà allora se, in ambito morale, il falso sia ancora da concepirsi come frutto di capacità e conoscenza, o non sia, piuttosto, incapacità e ignoranza; cf. subito infra, nota introduttiva ad 365d6-336a1. Per un’interpretazione dell’argomentazione nel suo insieme, cf. Introduzione, 4. «L’inganno e la volontarietà del male».

365d6-366a1 Che cosa intende Ippia, più precisamente, quando definisce una persona “bugiarda”? I bugiardi sono persone incapaci di fare alcunché, come i malati, o al contrario sono capaci? E, ancora, sono bugiardi per effetto di stupidità e follia o, viceversa, per scaltrezza ed una forma di intelligenza? Per Ippia non vi sono dubbi: i bugiardi sono abili, specialmente nell’ingannare le altre persone, ed agiscono soprattutto per scaltrezza. Sono quindi, in definitiva, intelligenti e sapienti, perlomeno, appunto, nell’ingannare. Essi, inoltre, sanno benissimo quel che fanno: è proprio per questo, afferma Ippia, che compiono il male. L’interrogazione riprende dall’indagine sul significato del termine ψευδής, che si è ora sostituito a πολύτροπος come suo sinonimo, almeno secondo l’interpretazione che Ippia ha dato dell’epiteto di Odisseo (cf. supra, τὸν πολύτροπον ψευδῆ λέγεις, 365b8 e nota ad loc.). Il passo non può essere considerato, come pure spesso si è fatto, una premessa affermativamente stabilita da Socrate con l’assenso del suo interlocutore, come intendono per es. Guthrie (1975), 192; Erler (1987), 123; Vlastos (1991), 277 n. 133, il quale parla a questo proposito di «persuasive definition». Quello che Socrate fa è infatti piuttosto chiarire l’opinione del suo interlocutore, chiedendo che cosa questi intenda per «mendaci» (τοὺς ψευδεῖς λέγεις οἷον κτλ., 365d6). La posizione di Ippia, che identifica la mendacità con una sapienza e abilità nell’ingannare (δυνατοὺς ... ἐξαπατᾶν ἀνθρώπους, 365d7-8; σοφοὶ μὲν οὖν αὐτά γε ταῦτα, ἐξαπατᾶν, 365e10-366a1), poi, non può essere condivisa da Socrate se per mendacità si intende una forma di inganno rivolto a fini malvagi, come evidentemente intende Ippia (cf. πανουργία, 365e4; κακουργεῖν, 365e8-9 e note ad locc.). In questo senso, esso sarà piuttosto, per Socrate, incapacità ed ignoranza, come suggerisce l’alternativa presentata per prima ad Ippia e da questi sistematicamente scartata, in base alla quale i mendaci sono incapaci di fare alcunché (ἀδυνάτους τι ποιεῖν, 365d6), agiscono per stupidità e dissennatezza (ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης,

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365e3), non sanno quel che fanno (οὐκ ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν, 365e7) e sono quindi, in definitiva, ignoranti (ἀμαθεῖς, 365e10). Dalle risposte di Ippia, Socrate prende infatti le distanze, adoperando espressioni limitative (ὡς ἔοικεν, 365e6) e specificando che si tratta dell’opinione del suo interlocutore (κατὰ τὸν σὸν λόγον, 365e1; cf. anche infra, 366a8). Per un’analisi del passo in questo senso cf. Zembaty (1989), 63-64, e Boder (1973), 88-89; cf. anche Friedländer (19643), 127-28, secondo il quale tuttavia si deve distinguere tra l’inganno inteso in senso comune, che è nella prospettiva socratica frutto di debolezza e ignoranza, e l’inganno in senso platonico, che è invece proprio del sapiente; nel testo, però, vi è riferimento solo alla prima concezione, rappresentata da Ippia, contro la quale si dirige la successiva confutazione. Cf. anche in generale Introduzione, 4. «L’inganno e la volontarietà del male». 365d6 τοὺς ψευδεῖς λέγεις οἷον κτλ. «I mendaci li intendi come...»; «Parlando di mendaci, tu intendi dire...», Calogero (1938). L’obiettivo di Socrate, come risulta dalla formulazione di questa domanda, è chiarire il pensiero del suo interlocutore: cf. supra, nota introduttiva ad 365d6-366a1. 365d7-8 δυνατοὺς ... καὶ μάλα σφόδρα «Io affermo che sono abili, e parecchio». Il rafforzativo καὶ μάλα σφόδρα sottolinea la risposta affermativa già implicita nell’uso del pronome ἔγωγε. Come risposta, ma generalmente in prima posizione, la stessa combinazione si trova anche in Lach. 200c1, Phaed. 105d12, Resp. 4.431e3, 6.492d8 e 8.554d8, oltre che in [Alc. I] 124d3 e 135c11; cf. anche καὶ μάλα ... τοῦτό γε σφόδρα, Theaet. 178e7. Su καὶ μάλα, cf. Brandwood (1990), 64 e 97 («spasmodic in the early period, fairly frequent and regular from the Rep. and Phdr. on, but dwindling again towards the end of his life»). 365d8 ἄλλα ... ἐξαπατᾶν ἀνθρώπους «in molte cose, ma soprattutto nell’ingannare gli uomini». L’aggiunta, che esula dalla semplice risposta affermativa o negativa richiesta dalla formulazione della domanda (365d6-7), precisa il τι ποιεῖν lasciato indefinito da Socrate (365d6), individuando nell’inganno la specifica abilità dei mendaci; cf. Weiss (1981), 292. Significativamente, il verbo ἐξαπατᾶν, che indica appunto l’inganno (cf. LSJ, s.v. ἐξαπατάω, «deceive or beguile»), è usato in questa sezione da Ippia (cf. anche infra, 366a1), mentre nel seguito dell’argomentazione (366a2 ss.), in cui si farà poi riferimento al dire il falso nell’ambito delle scienze e tecniche (366c5 ss.), Socrate adopera esclusivamente il più neutro ψεύδεσθαι (cf. 366b2, b3, b5, etc.; 366e5, e6, 367a1 etc.), che non possiede necessariamente una connotazione morale, ma può indicare in generale il «dire il falso» («abs., lie, speak false, play false», LSJ s.v. ψεύδω, B.I). 365e1 κατὰ τὸν σὸν λόγον «secondo il tuo ragionamento», o più semplicemente «il tuo discorso». Attraverso la specificazione del fatto che si tratta

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del pensiero dell’interlocutore, Socrate evita di prendere posizione in prima persona, chiamando invece Ippia ad assumersi la responsabilità delle proprie tesi. Si tratta di un’espressione quasi tecnica nella confutazione socratica nei primi dialoghi platonici: cf. anche infra, 366a8, 370a2 e 373b7; Robinson (1953), 31: «the phrase ‘according to your logos’, which Socrates frequently uses in refutations»; talora, si incontra anche in bocca agli interlocutori di Socrate, nel corso di scambi accesi: cf. Ap. 27c7 con De Strycker, Slings (1994) ad loc., Euthyphr. 7e2, Lach. 192d10, 193d11, 194e1 e 199c5, Euthyd. 284c5 e 286e2, Gorg. 471a2, 471a8, 472e2, 488e5 e 490a2, Men. 75c4, 78b9 e 92a3, Hipp. mai. 283a3, 285a4-5 e 293b5, Ion 540a5-6, Resp. 1.334d3, 339d1, 353e12; cf. anche ([Alc. I] 127a7 e [Hipparch.] 232c4); al di fuori del corpus platonico, cf. Isocr. Or. 11.43.1; Xen. Oecon. 1.12.3 e 1.15.1, Symp. 5.7.5, Cyropaed. 1.6.3.2 e 3.1.15.6. Per espressioni analoghe all’interno dei dialoghi, volte ad esprimere un distacco dal ragionamento in corso, cf. e.g. τούτῳ τῷ λόγῳ vel τῷ (γε) σῷ λόγῳ vel κατὰ τοῦτον τὸν λόγον, rispettivamente, Phaed. 87e6, Soph. 249b9, Euthyphr. 7d8, Gorg. 471d7; Ap. 28c1 e Leg. 3.680d2; Prot. 350c4, Gorg. 460b6 e 475e3. 365e2 ἦ γάρ; «Vero?». Per questa richiesta di assenso, cf. supra, 363c5 e nota ad loc. 365e3 ἀπατεῶνες «imbroglioni». Riprende la concezione dispregiativa emersa dalla risposta di Ippia (365d7-8, cf. supra, nota ad 365d8). Per l’uso di questo termine nel corpus platonico, cf. Resp. 5.451a7 e 451b3, con valore fortemente negativo; le uniche altre attestazioni, in autori coevi, si incontrano nell’opera di Senofonte (Mem. 1.7.5 e Cyropaed. 1.6.27.5). 365e3 ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης «per stoltezza e incoscienza». I due termini, indicanti entrambi “stupidità”, “stoltezza”, sono pressoché sinonimi, disposti con evidente parallelismo rispetto alla successiva coppia (365e3-4; cf. infra, nota seguente), di modo che il sostantivo ἀφροσύνη risulti come contrario di φρόνησις (ὑπὸ ἠλιθιότητος καὶ ἀφροσύνης ... ὑπὸ πανουργίας καὶ φρονήσεώς τινος, 365e3-4). Nel Protagora, invece, la ἀφροσύνη è posta come contrario tanto della σοφία (τοὐναντίον ἐστὶν ἡ σοφία, 332a4) quanto della σωφροσύνη (ἐναντίον ἄρ’ἐστὶν ἀφροσύνη σωφροσύνης, 332e4-5), che vengono di conseguenza identificate (333b4-5). Per altre associazioni di questi termini nel corpus platonico, cf. anche ὑπὸ ἠλιθιότητός τε καὶ τῆς ἐσχάτης ἀνοίας, Theaet. 176e5 e μετ’ἀφροσύνης καὶ τῆς ἄλλης κακίας, Phil. 63e7; des Places (1964), s.vv. ἠλιθιότης e ἀφροσύνη. 365e3-4 ὑπὸ πανουργίας ... φρονήσεώς τινος «per furbizia e una forma di intelligenza». La seconda coppia di termini, disposti in parallelo rispetto alla prima (cf. supra, nota precedente), affianca un sostantivo dalla valenza generalmente positiva (φρόνησις) a un primo che ha invece un connotato negativo (πανουργία). La nozione di πανουργία indica infatti un’abilità asso-

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ciata all’idea di malvagità e ingiustizia, radicalmente distinta quindi, nella concezione socratica, dalla vera sapienza: cf. πᾶσά τε ἐπιστήμη χωριζομένη δικαιοσύνης καὶ τῆς ἄλλης ἀρετῆς πανουργία, οὐ σοφία φαίνεται, Menex. 246e7-247a2 con Tsitsiridis (1998) ad loc. In Resp. 3.409c3 ss. πανουργία e σοφία sono accostate solo nella prospettiva dell’ingiusto, che si ritiene astuto e sapiente (ὁ πολλὰ αὐτὸς ἠδικηκὼς καὶ πανοῦργός τε καὶ σοφὸς οἰόμενος εἶναι, 409c3-4), ma che si rivela uno sciocco di fronte ai buoni (ὅταν δὲ ἀγαθοῖς ... πλησιάζῃ, ἀβέλτερος αὖ φαίνεται, 409c6-7); cf. anche Theaet. 176c7 ss., dove si dice che non bisogna concedere all’ingiusto l’appellativo di δεινός in ragione della sua furbizia (τῷ οὖν ἀδικοῦντι ... μακρῷ ἄριστ’ἔχει τὸ μὴ συγχωρεῖν δεινῷ ὑπὸ πανουργίας εἶναι, 176c7-d2). Aristotele introdurrà invece proprio il concetto di δεινότης (E.N. 6.12.1144a23 ss.), che, se rivolta ad un fine buono, è alla base della φρόνησις, se ad un fine cattivo diventa πανουργία (διὸ καὶ τοὺς φρονίμους δεινοὺς καὶ πανούργους φαμὲν εἶναι, ibid. 1144a27-28). Con l’uso dell’indefinito nel secondo termine (φρονήσεώς τινος), Socrate prende dunque implicitamente le distanze dal fatto che chi inganna possieda quella che è la vera saggezza. 365e4-5 ὑπὸ πανουργίας πάντων μάλιστα «Soprattutto per furbizia». Non solo Ippia sceglie la seconda alternativa, ma, dei due termini usati da Socrate (cf. supra, nota precedente), sottolinea con enfasi il primo, mostrando quindi ancora una volta la propria concezione dell’inganno come frutto di abilità e intelligenza di segno morale negativo, per cui cf. anche supra, 365d8 e nota ad loc. 365e6 φρόνιμοι ... ὡς ἔοικεν «Sono dunque intelligenti, a quanto pare». Da notare, anche in questo caso (cf. supra, ὡς ἔοικεν ... κατὰ τὸν σὸν λόγον, 365e1), la presa di distanza da parte di Socrate, che si limita a trarre un’inferenza dalla precedente risposta del suo interlocutore. Per l’uso di ὡς ἔοικεν come attenuazione, cf. anche infra, 366a7 (di nuovo ὡς ἔοικεν ... κατὰ τὸν σὸν λόγον, 367a7-8), 371e4. 365e6 λίαν γε «fin troppo». Comporta una sfumatura negativa; come risposta, con la medesima valenza, ricorre altrove solamente in Crit. 44b5 e Prot. 350b3. 365e7 οὐκ ἐπίστανται ... ἢ ἐπίστανται «non sanno quel che fanno oppure lo sanno?». La domanda, che potrebbe apparire superflua, porta in realtà verso un aspetto cruciale della questione, la consapevolezza delle proprie azioni da parte di chi inganna e compie il male: cf. infra, 365e8-9 e nota ad loc. 365e8 καὶ μάλα σφόδρα Per il rafforzativo, cf. supra, 365d7-8 e nota ad loc.

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365e8-9 διὰ ταῦτα ... κακουργοῦσιν «per questo fanno anche del male». Emerge ora in maniera esplicita il punto di disaccordo fra Socrate e Ippia: secondo quest’ultimo, infatti, è evidentemente possibile compiere il male in piena consapevolezza delle proprie azioni, e anzi proprio per questa ragione (διὰ ταῦτα). Si tratta della più palese contraddizione del principio socratico secondo cui chi compie il male lo fa unicamente per ignoranza. 365e9 ἐπιστάμενοι ... ἃ ἐπίστανται «Sapendo queste cose che sanno». Anche in questa frase si può vedere una presa di distanza da parte di Socrate: se coloro che compiono il male possiedono una forma di conoscenza, essa non sarà certo la vera conoscenza, quella del bene (cf. supra, φρονήσεώς τινος, 365e4 e nota ad loc.). In Euthyd. 296b3 ss., Socrate usa una simile precauzione per difendersi dai trucchi eristici di Eutidemo: ἅπαντα (scil. ἐπίσταμαι), ἅ γε ἐπίσταμαι, 296b5-6; per il parallelo, cf. Pohlenz (1913), 61. 365e9-10 πότερον ἀμαθεῖς ... ἢ σοφοί; «sono ignoranti o sapienti?». L’ultima alternativa pone la domanda fondamentale nella prospettiva socratica: è possibile considerare sapiente chi, come ha appena affermato Ippia (cf. 365e8-9 e nota ad loc.), compie il male? Per Socrate, naturalmente, costoro non possono essere che ἀμαθεῖς: cf. e.g. ὁ μὲν ἄρα δίκαιος ... ἀγαθός τε καὶ σοφός, ὁ δὲ ἄδικος ἀμαθής τε καὶ κακός, Resp. 1.350c10-11. 365e10-366a1 αὐτά γε ταῦτα, ἐξαπατᾶν «(Sapienti) perlomeno in questo, nell’ingannare». Di nuovo, come nella sua prima risposta (cf. supra, 365d7-8 e nota ad loc.), Ippia limita all’ambito dell’inganno le qualità che attribuisce ai mendaci, delineando quindi una sapienza volta esclusivamente ad ingannare, cioè al male.

366a2-c4 Ricapitolando, Ippia afferma che i mendaci sono abili, intelligenti, e sapienti in relazione a quello in cui sono bugiardi e che, al tempo stesso, sono distinti dai veritieri. Essi appartengono dunque, prosegue Socrate, al novero delle persone capaci e sapienti, e possono essere definiti, in sintesi, come coloro che sono sapienti e capaci nel dire il falso, laddove per “capace” si intende l’essere in grado di fare quel che si voglia, quando lo si voglia. Una pausa per la ricapitolazione delle tesi di Ippia (366a2-a6), che Socrate enuclea in due punti: l’attribuzione ai mendaci delle caratteristiche di capacità e conoscenza, emerse dall’interrogazione appena conclusa (366a2-4; cf. supra, 365d6-366a1), e la distinzione, affermata da Ippia in precedenza, secondo cui mendaci e veritieri sono due persone distinte e contrapposte tra loro (366a5-6, cf. supra, 365c4-7). Si profila così fin da ora, benché Ippia

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non se ne renda conto, la contraddizione che porterà alla sua confutazione: proprio il riconoscimento di capacità e conoscenza ai mendaci, infatti, contiene in sé la premessa per la loro identificazione con i veritieri, che su questa base verrà subito dopo effettuata nel corso dell’argomentazione. 366a2 ἔχε δή «Fermati!». L’imperativo sottolinea un punto di particolare importanza nella discussione, imponendo di soffermarsi ulteriormente su una tesi appena asserita dall’interlocutore o sulle sue conseguenze: cf. e.g. ἔχε δή, ἔφην ἐγώ· ἄξιον γάρ τοι ἐπισκέψασθαι ὃ λέγεις, Prot. 349e1; ἔχε δή· καλῶς γὰρ λέγεις, Gorg. 460a5 con Dodds (1959) ad loc. («The exclamation indicates that Socrates has now got what he wanted, the lever which will overturn Gorgias’ position»); cf. anche ibid. 490b1 (ἔχε δὴ αὐτοῦ), Crat. 399e4 (ἔχε ἠρέμα), 435e6 e 439a1, Theaet. 186b2, Hipp. mai. 296a8 (ἔχε δὴ ἠρέμα), Ion 535b1, Lach. 198b2, Resp. 1.353b14, Leg. 1.627c3, 1.639d2 e 10.895d1, oltre che [Alc. I] 109b3 (unica attestazione del semplice ἔχε) e 129b5 (ἔχε οὖν, unica attestazione in combinazione con questa particella). Fa da contrappunto, poco oltre, φέρε δή (366a6), con cui riprende invece la serie delle domande per far luce su di un nuovo passaggio: cf. infra, nota ad loc. Per l’imperativo intransitivo di ἔχω («stop, hold on, stay now»), cf. Cooper (1998), I, 566. 366a2 ἀναμνησθῶμεν ... λέγεις Lett. «ricordiamo che cosa è che dici». Socrate sottolinea ancora una volta che quel che si sta esaminando è l’opinione del suo interlocutore: cf. supra, κατὰ τὸν σὸν λόγον, 365e1 con nota ad loc., e infra, 366a8. Per analoghe formule di ricapitolazione, cf. e.g. ἴθι δή, ... ἀναλογισώμεθα τὰ ὡμολογημένα ἡμῖν, Prot. 332d1-2; ἀναμνησθῶμεν δὴ ὧν ... ἐτύγχανον λέγων, Gorg. 500a7-8. 366a3-4 δυνατοὺς ... σοφούς «abili, intelligenti, dotati di scienza e sapienti». Per δυνατούς, cf. 365d7; per φρονίμους, cf. 365e4; per σοφούς, cf. 365e10; il termine ἐπιστήμονας si riferisce invece all’affermazione che i mentitori ἐπίστανται ὅτι ποιοῦσιν (365e8): cf. le traduzioni «sachant ce qu’il font», Croiset (1920); «dotati di scienza», Cambiano (1970); «qui savent ce qu’il font», Fronterotta (2005). 366a5-6 ἄλλους ... ἐναντιωτάτους ἀλλήλοις «(affermi anche che) i veritieri e i mendaci sono distinti, e del tutto opposti fra loro?». Con ἄλλους si fa riferimento alla distinzione fisica della persona ἀληθής da quella ψευδής, prima asserita da Ippia (ἕτερος μὲν εἶναι ἀνὴρ ἀληθής, ἕτερος δὲ ψευδής, 365c3-4), mentre ἐναντιωτάτους specifica la vera e propria contrapposizione tra le due tipologie caratteriali, che per Ippia si escludono a vicenda. 366a6 φέρε δή «Orsù». L’imperativo segna, dopo la pausa per la ricapitolazione, la ripresa dell’argomentazione con un’altra serie di domande, che, per quanto insistano ancora sul medesimo tema della definizione degli ψευδεῖς, puntualizzano aspetti differenti della questione. Si tratta, come nel

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caso del precedente ἔχε δή (366a2, cf. nota ad loc.), di un’espressione colloquiale, frequente nei dialoghi di tutti e tre i periodi, spesso con la funzione di introdurre un nuovo passaggio argomentativo: cf. e.g. Euthyphr. 7a6, Prot. 330b6, Gorg. 464b4, Soph. 219a4, Leg. 1.629d7. Per questo tipo di imperativi di seconda singolare, generalmente seguiti, come qui, da δή, cf. Cooper (1998), II, 695; Denniston (1954²), 216-18; per la classificazione come espressione colloquiale, cf. invece Thesleff (1967), 89, a proposito dell’analogo ἴθι δή. 366a6-7 τῶν μὲν δυνατῶν ... οἱ ψευδεῖς «i mendaci ... fanno parte dei capaci e dei sapienti»; «i mendaci rientrano nel novero dei capaci e degli esperti», Calogero (1938). La precisazione, che potrebbe apparire superflua, sottolinea che i mendaci non si identificano sic et simpliciter con i capaci e i sapienti, ma ne costituiscono una particolare categoria, che verrà più avanti specificata nella definizione dei mendaci come coloro che sono sapienti e abili nel dire il falso (οἱ σοφοί τε καὶ δυνατοὶ ψεύδεσθαι, 366b5: cf. infra, nota ad loc.). 366a8 κατὰ τὸν σὸν λόγον «secondo il tuo discorso», «secondo il tuo ragionamento». Per l’espressione, cf. supra, 365e1 e nota ad loc. 366b2-3 ἐὰν βούλωνται «qualora lo vogliano». Compare qui per la prima volta il riferimento alla volontà, concepita in subordine alla capacità, intesa come possibilità di agire a propria discrezione. Cf. infra, 366b7-c1 e nota ad loc. 366b4 ὡς ... εἰρῆσθαι «a dirlo in sintesi», cf. LSJ s.v. κεφάλαιος, II.2 («ἐν κεφαλαίῳ, or ἐν κ. εἰπεῖν, to speak summarily»). Nel corso di un’argomentazione, l’espressione ἐν τῷ κεφαλαίῳ indica letteralmente la «ricapitolazione», in cui sono riassunti i risultati fino a quel momento raggiunti: cf. e.g. οὐκοῦν ἐν κεφαλαίῳ λέγομεν κτλ., Ion 531e9; συνωμολογησάμεθα τελευτῶντες ... ἐν κεφαλαίῳ οὕτω τοῦτο ἔχειν κτλ., Euthyd. 280b1. Cf. anche τὸ ἐν κεφαλαίῳ ἕκαστα ... ὑπομνῆσαι ἐπὶ τελευτῆς τοὺς ἀκούοντας περὶ τῶν εἰρημένων, Phaedr. 267d5-6, dove si fa riferimento ad un preciso procedimento retorico indicato con il nome di ἐπάνοδος, ibid. 267d4; cf. ἐπίλογος, Aristot. Rhet. 3.14, 1414b1-2, richiamato da De Vries (1969) ad loc. Per le proposizioni del tipo ὡς ... εἰρῆσθαι, cf. supra, 364e3 e nota ad loc. 366b4-5 οἱ ψευδεῖς ... ψεύδεσθαι «i mendaci sono dunque coloro che sono sapienti e abili nel dire il falso». La conclusione è in apparenza viziata da un’evidente fallacia, in quanto dalla semplice attribuzione agli ψευδεῖς delle qualità di δυνατοί e σοφοί effettuata nella sezione precedente (365d6-366a1, cf. 366a2-4) si giunge ora all’identificazione degli ψευδεῖς con οἱ σοφοί τε καὶ δυνατοὶ ψεύδεσθαι, con un’illegittima inversione dei termini: il fatto che chi è bugiardo sia capace di mentire non implica infatti che chi è capace di mentire sia per questo bugiardo; cf. διὸ ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος

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παρακρούεται ὡς ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθής. τὸν δυνάμενον γὰρ ψεύσασθαι λαμβάνει ψευδῆ, Aristot. Metaph. 5.29, 1025a6-8. Un presunto analogo sofisma da parte di Socrate è smascherato da Protagora nell’omonimo dialogo: ἔγωγε ἐρωτηθεὶς ὑπὸ σοῦ εἰ οἱ ἀνδρεῖοι θαρραλέοι εἰσιν, ὡμολόγησα· εἰ δὲ καὶ οἱ θαρραλέοι ἀνδρεῖοι, οὐκ ἠρωτήθην, Prot. 350c7-9; per il parallelo, cf. Pohlenz (1913), 61. Il passaggio si può tuttavia spiegare alla luce del precedente che si è prima osservato (cf. 366a6-7 e nota ad loc.): nell’ambito dei δυνατοί e σοφοί, cui gli ψευδεῖς appartengono, questi sono, più precisamente, coloro che sono δυνατοί e σοφοί in una cosa particolare, appunto lo ψεύδεσθαι. 366b7-c1 δυνατὸς ... ὅταν βούληται «Ed è “capace” chiunque faccia quel che voglia, quando lo voglia». La capacità è intesa come possibilità operativa che consegue dal possesso di una conoscenza (cf. infra, 366c2 e nota ad loc.), e può essere esercitata da chi la possiede in qualunque momento, ad eccezione di impedimenti esterni (cf. infra, 366c1 e nota ad loc.); su questa concezione, cf. Cambiano (1991²), 74-75. 366c1 οὐχ ὑπὸ νόσου ... οὐδὲ τῶν τοιούτων «non intendo il caso in cui si sia impediti da una malattia o simili». Gli impedimenti esterni sono al di sopra delle possibilità dell’uomo, e non inficiano la valutazione delle sue effettive capacità: per lo stesso concetto cf. Prot. 344d6 ss., dove si afferma che l’uomo buono può divenire cattivo quando lo colga la sventura (ἐπειδὰν ἀμήχανος συμφορὰ καθέλῃ, 344e2-3), quale la vecchiaia, la stanchezza o, come qui, la malattia e qualsiasi altro accidente (ἢ ὑπὸ χρόνου ἢ ὑπὸ πόνου ἢ ὑπὸ νόσου ἢ ὑπὸ ἄλλου τινὸς περιπτώματος, 345b3-4). 366c2 ὥσπερ σὺ ... τοὐμὸν ὄνομα «come tu sei in grado di scrivere il mio nome». Alla base della possibilità sta dunque una capacità fondata sulla conoscenza: è in grado di scrivere, evidentemente, solo chi ha appreso la scrittura, e può esercitare questa sua competenza quando lo voglia. La scrittura compare spesso, nei dialoghi platonici, come esempio elementare: cf. Charm. 159c3 ss. e 161d6 ss., Euthyd. 277a2 ss., Prot. 345a1 ss., Resp. 3.402a8 ss.; cf. anche Xen. Mem. 4.2.20, dove l’esempio ricorre in relazione allo stesso tema dell’intenzionalità dell’errore al centro dell’argomentazione dell’Ippia minore (cf. infra, 366e ss. e in generale 373c ss.), e ibid. 4.4.7, dove, proprio nel corso della conversazione con Ippia, il carattere costante e incontrovertibile della scienza è illustrato dal fatto che questi, in merito alle lettere, darebbe sempre le stesse risposte, come nel caso in cui gli chiedessero di quali e quante lettere consta il nome di Socrate (πόσα καὶ ποῖα Σωκράτους ἐστίν); sul rapporto tra i due testi cf. in generale Bandini, Dorion (2011), 80-82 e in part. per l’esempio della scrittura 81 n. 1. 366c3 ἢ οὐχ, ὃς ἂν κτλ. Gli editori stampano qui concordemente il testo di TW ἢ οὐχ ὃς ἂν, laddove F legge invece ἆρ’οὐχ ὡς ἂν. Slings (1998),

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615-16, inclina per una combinazione delle due varianti, accettando la particella ἆρα tràdita da F, e quindi ἆρ’οὐχ ὃς ἂν, come riporta del resto già Ven. 186², in cui la correzione è da attribuirsi probabilmente al Bessarione. La disgiuntiva seguita dalla negazione è tuttavia formula assai frequente per esprimere una richiesta di assenso, talora anche come espressione a sé stante, ἢ οὐχί (Crit. 47e1, Theaet. 177d6, Gorg. 496d2); cf. anche e.g. ἢ οὐχ οὕτω(ς) κτλ., Charm. 164c2, Lach. 192a6 e 198b2, Gorg. 505a3; ἢ οὐκ οἴει, Phaed. 82a1, Crat. 391d6 etc. Il testo di TW, stampato sia da Burnet (19092) che da Vancamp (1996a), rimane dunque preferibile.

366c5-367d3 Socrate avvia la confutazione vera e propria, prendendo ad esempio una scienza di cui Ippia si dichiara esperto, quella del calcolo. Egli, argomenta Socrate, è senz’altro in grado di dire meglio di tutti il risultato corretto di un’operazione, e questo perché è abile e sapiente in materia. Ippia è chiamato allora a rispondere con altrettanta franchezza anche ad un’altra domanda: non saprebbe forse, proprio in ragione della sua conoscenza dei calcoli, dire anche il risultato sbagliato, qualora volesse mentire? L’ignorante infatti, pur volendo mentire, potrebbe per puro caso azzeccare il risultato esatto. Può essere mendace in merito al calcolo, dunque, solo l’esperto in materia, che però è anche colui che, come si è visto, è in grado di dire il vero a riguardo: la persona in grado di dire il falso e quella in grado di dire il vero coincidono nella figura dell’esperto. Ma allora la persona mendace e quella veritiera sono la stessa, e non due persone distinte come credeva Ippia, il quale è ora costretto ad ammettere che, perlomeno per quel che riguarda l’arte del calcolo, le cose stanno in effetti così. È contenuto in questa sezione il nucleo dimostrativo principale dell’intero dialogo: alla base vi è la constatazione che l’unica persona in grado di dire il falso e quindi, quando voglia, di poter essere falsa in relazione a qualcosa è la persona che possiede conoscenza a riguardo, ovvero, in una parola, l’esperto in materia (ὁ ἀγαθὸς περὶ τούτων, 367c4). Questi è però in grado di dire, naturalmente, anche il vero, donde la conclusione che mendace e veritiero, in questo caso in materia di calcoli, coincidono (ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθὴς περὶ τούτων, 367c7-8). Per comprendere l’argomentazione, è necessario tener presente la concezione di capacità che è stata delineata poco prima, in base alla quale la capacità è intesa come possibilità di realizzare un’azione quando lo si voglia (δυνατὸς δέ γ’ἐστὶν ἕκαστος ἄρα ὃς ἂν ποιῇ τότε ὃ βούληται, ὅταν βούληται, 366b7-c1). Da questo punto di vista, è quindi corretto affermare che la persona mendace e quella veritiera coincidono, dal momento che è la stessa persona che ha la capacità di dire,

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quando lo voglia, tanto il vero quanto il falso, a prescindere dal fatto che scelga poi di fare l’una o l’altra cosa (su questo si appunta invece la critica di Aristot., Metaph. 5.29.1025a2 ss., su cui cf. supra, nota introduttiva alla Prima fase dialettica). L’argomentazione segue lo svolgimento caratteristico dell’elenchos socratico, quello che Vlastos (1994), 11, definisce «standard elenchus» e la cui struttura è descritta da Robinson (1953), 7-10: in un primo momento, Socrate incomincia cioè con il porre delle nuove domande, quelle che Robinson (1953), 7, chiama «secondary questions», la cui risposta è apparentemente ovvia e che sembrano, a prima vista, prive di rapporto con il problema discusso in partenza, ma da cui deriverà alla fine, inevitabilmente, la contraddizione della tesi iniziale dell’interlocutore (cf. infra, 367c7 ss. e nota ad loc.). 366c5 λέγε δή μοι «Dimmi, dunque». Inizia ora, dopo il chiarimento della tesi di Ippia, l’elenchos vero e proprio. La formula λέγε δή (μοι) introduce spesso una domanda che apre una nuova fase dell’interrogazione, talvolta il suo stesso inizio o una ripresa: cf. e.g. Euthyphr. 5d7 (λέγε δή, τί φῂς εἶναι τὸ ὅσιον κτλ.) e 10b1, Lach. 196c10, Charm. 166b5, Gorg. 474c4, etc.; si tratta comunque di una formula transizionale usata anche al di fuori del contesto dei dialoghi elenctici: cf. e.g. Theaet. 200d8, Phil. 36e1, Leg. 1.645d1 e 4.707e1. Per espressioni analoghe, cf. anche supra, 366a6 (φέρε δή) e nota ad loc. 366c5 ὦ Ἱππία È il primo vocativo che si incontra dall’inizio della fase brachilogica della discussione (sul vocativo nella sezione introduttiva del dialogo, cf. invece supra, ὦ Σώκρατες, 363a1 e nota ad loc.), a sottolineare, insieme al precedente imperativo, l’apertura di una nuova sezione argomentativa. Con la funzione di richiamare l’attenzione su un punto di particolare rilevanza, il vocativo sarà adoperato anche in seguito nel corso dell’argomentazione: cf. infra, 366e3 e 367a9 con note ad locc. 366c5 ἔμπειρος «esperto». L’aggettivo ἔμπειρος è usato normalmente nel corpus platonico per indicare la competenza in un’arte, come sinonimo, di fatto, di ἐπιστήμων, usato subito dopo in 367e9; cf. e.g. ἔ. στοιχείων καὶ συλλαβῶν, Theaet. 206b5; γεωμετρίας ἔ., Resp. 7.527a2; des Places (1964), s.v. ἔμπειρος. Rispetto a ἐπιστήμων, mantiene tuttavia una più ampia sfera di applicazione, potendosi riferire anche ad ambiti non relativi alla conoscenza e assumendo talvolta una sfumatura dispregiativa: cf. e.g. ἔ. ἁπαλῆς καὶ ἀνάνδρου διαίτης, Phaedr. 239c8; τῆς ἡδονῆς ἔ., Resp. 9.582c7. 366c6 λογισμῶν καὶ λογιστικῆς «di calcoli e dell’arte del calcolo». Il calcolo, come la geometria e l’astronomia menzionate negli esempi successivi (cf. 367d6 e 367e8-9, con note ad locc.), è ricordato anche altrove fra le competenze possedute da Ippia (Hipp. mai. 285b = 86 A 11 DK = 36 D 14a

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Laks-Most; cf. Prot. 318e2). Nella classificazione antica delle scienze, l’arte del calcolo (λογιστική) è distinta dall’aritmetica (ἀριθμητική), ma non tanto nel senso di una contrapposizione tra una scienza puramente teorica e un’arte applicata, come spesso s’intende (cf. LSJ, s.v. λογιστικός, «subst. ἡ -ή ... “practical arithmetic”, o ἀριθμητική [the science of number]»), quanto piuttosto come due branche distinte dello studio dei numeri, comprensive entrambe sia di una componente teorica che di una pratica, ma applicate a differenti problemi, che, nel caso della λογιστική, corrispondono a quelle che sono per noi le comuni operazioni aritmetiche: cf. Heath (1921), I, 13-16. Per la distinzione tra le due scienze, cf. Gorg. 451b1 ss., dove si dice che entrambe hanno lo stesso oggetto, cioè il pari e il dispari, ma l’arte del calcolo ne considera le quantità di per se stesse e nei loro reciproci rapporti (τὰ μὲν ἄλλα καθάπερ ἡ ἀριθμητικὴ ἡ λογιστικὴ ἔχει – περὶ τὸ αὐτὸ γάρ ἐστιν, τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν – διαφέρει δὲ τοσοῦτον, ὅτι καὶ πρὸς αὑτὰ καὶ πρὸς ἄλληλα πῶς ἔχει πλήθους ἐπισκοπεῖ τὸ περιττὸν καὶ τὸ ἄρτιον ἡ λογιστική, Gorg. 451c1-5), con Dodds (1959) ad loc.; per la definizione dell’arte λογιστική, cf. anche Charm. 166a5-7. I numeri e l’aritmetica costituiscono il primo esempio anche nell’argomentazione di Ion 531d12 ss. 366c6-7 ὦ Σώκρατες Riprende il vocativo usato da Socrate nella battuta precedente (366c5): su questo fenomeno di corresponsione tra vocativi, cf. supra, 363a1 e nota ad loc. 366c7 εἰ καί τίς σε ἔροιτο κτλ. «se qualcuno ti chiedesse...». Regge sia il complemento oggetto (τὰ τρὶς ἑπτακόσια) che la successiva interrogativa indiretta (ὁπόσος ἐστὶν ἀριθμός). Il ricorso ad un’interrogazione fittizia è una delle strategie socratiche più frequenti per facilitare le risposte dell’interlocutore, anche se in questo caso la domanda non richiede una risposta effettiva al quesito posto, ma serve piuttosto a coinvolgere direttamente Ippia nell’argomentazione: in tal modo egli è infatti condotto a sperimentare su se stesso la veridicità delle affermazioni fatte da Socrate, alle quali è portato a dare più facilmente il suo assenso. Per le interrogazioni fittizie introdotte da un τις nel ruolo di interrogante nei primi dialoghi platonici, cf. Lach. 192a8 ss., Prot. 311b7 ss., 312d1 ss. e 330c2 ss., Gorg. 451a7 ss., 453e6 ss. e 454d4 ss., Men. 74b4 ss., Crat. 392c2 ss. e 421c4; Longo (2000), 113-34, in part. su questo passo 118-19. Questo espediente assume un rilievo eccezionale nell’Ippia maggiore, dove pressoché l’intera discussione (286c5 ss., 298a5 ss.) è condotta attraverso le domande di uno sconosciuto interrogante, il quale si rivela poi non essere altri che Socrate stesso (298b5-c2); cf. ancora Longo (2000), 128-30 e, sull’anomalia dell’uso di questo stratagemma nell’Ippia maggiore, su cui hanno spesso insistito i sostenitori dell’atetesi del dialogo, cf. almeno Tarrant (1927), 83-84.

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366c7 τὰ τρὶς ἑπτακόσια «settecento per tre». Il numero maggiore è posto come moltiplicando, quello inferiore invece come moltiplicatore, espresso da un avverbio: cf. e.g. εἰ τὰ δὶς πέντε δέκα ἐστιν, Xen. Mem. 4.4.7. 366d4-5 ἄριστος ... τὰ λογιστικά «bravissimo ... nei calcoli». L’aggettivo ἄριστος è qui usato nel suo primario significato tecnico-prestazionale (cf. LSJ s.v. ἀγαθός, I.3, «good, capable, in reference to ability»), senza alcuna valenza morale, come indica la specificazione dell’ambito tecnico cui esso fa riferimento; cf. anche infra, 367c4. 366e1 ἦ γάρ; «Vero?». Per questa richiesta di assenso, cf. supra, 363c5 e nota ad loc. 366e1 τί δὲ τὰ ψευδῆ περὶ τῶν αὐτῶν τούτων; «E che dire in relazione al falso su queste stesse cose?». La combinazione di particelle τί δέ introduce un nuovo oggetto della domanda, dove l’accusativo τὰ ψευδῆ, da intendersi come apposizione di τί δέ, risponde ancora alla sintassi della frase precedente (τὰ μὲν δὴ ἀληθῆ ... εἴποις, 366e6): cf. KG II, 518 n. 4 («Zuweilen ... hängt der Akkusative bei τί δέ von einem vorangehenden Verb ab»). Su questa formula transizionale, cf. anche infra, 374a1 e nota ad loc. 366e2-3 καί μοι ... ἀπόκριναι «rispondimi, Ippia, con nobiltà e grandezza d’animo, come prima». Il rinnovo dell’invito a rispondere alle domande (ὥσπερ τὰ πρότερα: cf. 364d1-2) sottolinea la crucialità del passaggio, in quanto l’ammissione della capacità, da parte dell’esperto, di dire anche il falso contiene in sé la premessa per l’identificazione della persona mendacea con quella veritiera cui si giungerà al termine dell’argomentazione (cf. 367c2 ss., in part. 367c7-8). È con ironia, dunque, che Socrate invita Ippia a dimostrare la propria magnanimità nel rispondere (γενναίως καὶ μεγαλοπρεπῶς): cf. Centrone, Petrucci (2012) ad loc. Sull’imperativo aoristo, più cortese rispetto al presente e quindi adatto alla richiesta di Socrate, che richiama il “contratto” tra interrogante e rispondente, cf. Lallot (2000), 52. Per la coppia di avverbi, cf. supra, πρᾴως τε καὶ εὐκόλως, 364d1-2 e 364a4 con nota ad loc.; cf. anche ἀλλὰ γενναίως τῷ λόγῳ ὥσπερ ἰατρῷ παρέχων ἀποκρίνου, Gorg. 475d6-7, e in part. per l’avverbio μεγαλοπρεπῶς in analogo contesto, ἀφόβως τε καὶ μεγαλοπρεπῶς ἀποκρίνεσθαι, Men. 70b7. 366e3 ὦ Ἱππία Il vocativo, incontrato all’inizio della sezione (366a5), ritorna ora in una svolta importante dell’argomentazione, per cui cf. supra e nota ad loc. 366e3-4 εἴ τίς σε ἔροιτο κτλ. Cf. supra, 367c7 e nota ad loc. 366e5 ἀεὶ ... λέγοις «sapresti dire sempre coerentemente il falso», lett. «sotto il medesimo rispetto». Il nesso ἀεὶ κατὰ ταὐτά, che ricorre solo qui nei dialoghi del primo periodo, sarà espressione caratteristica, in quelli successivi, per indicare la natura immutabile delle idee e della conoscenza

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ideale: cf. e.g. Phaed. 78c6, 78d2-3, 79a9, 79d5 e 80b2, Resp. 5.479a2, 479e7 e 6.484b5. Anche in questo caso, pur senza lo stesso valore prettamente platonico, indica la certezza propria della conoscenza: solo chi possiede la scienza del calcolo può rispondere con coerenza, anche nel caso in cui voglia dire il falso. 366e5-6 βουλόμενος ... ἀποκρίνεσθαι «volendo dire il falso e non rispondere mai il vero». Si è definito capace, infatti, chi è in grado di fare quel che voglia, quando lo voglia (cf. supra, 366b7-c1): chi possiede una conoscenza può anche, all’occorrenza, voler dire scientemente il falso. 367a2-3 ὁ μὲν ἀμαθὴς ... ἄκων ... διὰ τὸ μὴ εἰδέναι «L’ignorante, pur volendo dire il falso, potrebbe spesso dire involontariamente il vero, per caso, a causa della propria ignoranza». L’eventualità che, pur volendo dire il risultato sbagliato in un’operazione di calcolo, si finisca in realtà con il dire per puro caso quello corretto può apparire inverosimile, ma proprio la paradossalità dell’ipotesi è funzionale a mettere in luce la totale incapacità, da parte dell’ignorante, di prevedere l’esito della propria azione. Per εἰ τύχοι (367a3) incidentale («se capita», qui reso con «per caso»), cf. ἂν ... τύχῃ, Crat. 430e5-6; LSJ s.v. τυγχάνω, A.I.3 («it may be»). 367a7 περὶ ἀριθμόν «a proposito del numero». L’accusativo singolare è correzione presente in due recenziori (Par. 1811², Vat. 228²) in luogo del genitivo plurale tràdito da TWF, facilmente effettuabile sulla base del precedente περὶ μὲν τἆλλα (367a6) nonché della successiva risposta di Ippia, in cui è tràdito concordemente l’accusativo singolare (367a8); un problema analogo si presenta più volte anche nel seguito del testo: cf. infra, 367b7 e 367c5 con note ad locc. Per quanto a prima vista sembri sussistere una certa libertà nella scelta tra le due costruzioni di περί, l’accusativo singolare risulta utilizzato di preferenza in connessione all’aggettivo ψευδής, ad indicare l’oggetto in relazione al quale sia astrattamente possibile essere o meno falsi: cf. περὶ λογισμόν τε καὶ ἀριθμόν ... ἄνθρωπον ψευδῆ, 367a9; ψευδὴς περὶ λογισμόν, 367c5; cf. anche infra, con accusativo plurale, ψευδὴς περὶ διαγράμματα, 367e3; sull’uso di περί con accusativo per indicare «[t]he object of busy preoccupation or usual concern», cf. Cooper (1998), II, 1206. Il genitivo plurale, invece, è preferito dopo il verbo ψεύδεσθαι oppure ψευδῆ vel ἀληθῆ λέγειν, quando si tratta cioè di calcoli concreti, in relazione ai quali si possa dire il vero o il falso: cf. ψεύδεσθαι περὶ λογισμῶν, 367b7 e ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν, b8; ψευδῆ καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν, 367c3; cf. anche infra, ψεύδεσθαι καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ τῶν διαγραμμάτων, 367d8-9. 367a7 ἀριθμῶν «mentre fa di conto». La correzione di Ven. 186², attribuibile alla mano del Bessarione, introduce in luogo dell’accusativo ἀριθμόν tradito da TWF una forma (ἀριθμῶν) che non è, in questo caso, il

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genitivo plurale del sostantivo ἀριθμός, come pure inteso dalla maggior parte delle traduzioni, cf. «about numbers», Allen (1996); «à propos de nombres», Croiset (1920) e Fronterotta (2005); «in fatto di numeri», Calogero (1938); «nei numeri», Cambiano (1970); «dei numeri», Centrone, Petrucci (2012); «sui numeri», Reale (2015). Il genitivo non potrebbe infatti essere retto da ψεύδομαι al medio (cf. LSJ s.v. ψεύδω, B), ma eventualmente solo all’attivo (cf. ancora LSJ s.v. ψεύδω, A.2). Si tratta invece, con ogni evidenza, del nominativo maschile singolare del participio di ἀριθμέω: giustamente Fowler (1926), «when dealing with number»; cf. «beim Rechnen», Apelt (1918); «beim Zählen», Pinjuh (2014); cf. anche Berger (2012) e Smith (1895) ad loc. e, per la segnalazione dell’occorrenza di Hipp. min. 367a2 sotto il verbo ἀριθμέω, cf. Radice (2003), s.v. Per quanto restituisca una sintassi ineccepibile, la correzione comporta tuttavia una costruzione priva di paralleli nel testo, che appare invece estremamente ripetitivo nell’uso di ψεύδεσθαι, ψευδῆ / ἀληθῆ λέγειν e ψευδής / ἀληθής insieme al complemento περί + acc. o gen., sia nello specifico passo in questione 367a6-b1 (ΣΩ. ὁ ψευδὴς οὖν πότερον περὶ μὲν τἆλλα ψευδής ἐστιν, οὐ μέντοι περὶ ἀριθμόν, οὐδὲ ἀριθμῶν ἂν ψεύσαιτο; ΙΠ. καὶ ναὶ μὰ Δία περὶ ἀριθμόν. ΣΩ. θῶμεν ἄρα καὶ τοῦτο, ὦ Ἱππία, περὶ λογισμόν καὶ ἀριθμόν εἶναί τινα ἄνθρωπον ψευδῆ;) che in generale in tutta l’argomentazione (cf. anche infra, οὐκοῦν ἄρτι ἐφάνης σὺ δυνατώτατος ὢν ψεύδεσθαι περὶ λογισμῶν; ... ἄρ’οὖν καὶ δυνατώτατος εἶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν; ... οὐκοῦν ὁ αὐτὸς ψευδῆ καὶ ἀληθῆ λέγειν περὶ λογισμῶν δυνατώτατος, 367b6c3). Si potrebbe forse perciò conservare l’accusativo tràdito e, uniformando il testo, integrare semplicemente ἀριθμόν, supponendo la caduta di περί a causa della ripetizione del nesso subito precedente (περὶ ἀριθμόν, οὐδὲ ἀριθμόν); così traduceva anche Ficino («de numero»), al quale dunque apparve l’interpretazione più naturale del passo. La ridondanza, per quanto possa apparire fastidiosa, può giustificarsi con la necessità di una maggiore insistenza nel momento in cui è introdotta per la prima volta la nozione della mendacità in relazione al numero. Si avrebbe tuttavia, in tal modo, un’eccezionale presenza di περί con accusativo singolare anziché con il genitivo plurale in dipendenza dal verbo ψεύδεσθαι, contrariamente a quella che sembra essere la tendenza generale (cf. supra, nota precedente): per questa ragione è parso opportuno proporre l’integrazione soltanto in apparato, mantenendo a testo la correzione di Bessarione. 367a8-9 θῶμεν ἄρα κτλ. «Stabiliamo dunque...». Il verbo τίθημι diventa con Platone termine tecnico per indicare l’atto di stabilire un principio nello svolgimento di un’argomentazione; cf. des Places (1964) s.v. τιθέναι, 2°. Al congiuntivo esortativo, è una movenza frequente per sottolineare un passaggio argomentativo rilevante, con un’uniforme distribuzione nei dia-

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loghi dei tre periodi: cf. e.g. θῶμεν οὖν ... δύο εἴδη τῶν ὄντων, Phaed. 79a6 con Rowe (1993) ad loc.; cf. anche e.g. Pol. 268c2, Phil. 17c4, Charm. 174a6, Gorg. 454e3, Resp. 5.471c2, Tim. 67b2, Leg. 1.633c9 etc. 367a9 ὦ Ἱππία Sottolinea la rilevanza del passaggio, richiamando l’attenzione di Ippia nel momento in cui deve dare il proprio assenso. Sull’uso dei vocativi nel corso dell’argomentazione, cf. supra, 366c5 e nota ad loc. 367a9 λογισμὸν καὶ ἀριθμὸν Sia Burnet (19092) che Vancamp (1996a) stampano qui λογιμσμόν τε καὶ ἀριθμὸν, accogliendo a testo il τε che è tuttavia presente solo in due recenziori (Vat. 228 e Ven. 189²), mentre manca nei testimoni primari (TWF). Poiché non sembrano dunque sussistere basi tradizionali sufficienti, si è optato qui per il testo di TWF, già stampato, d’altronde, da Croiset (1920); cf. anche Slings (1998), 616: «it is absent from TWF, and I don't see why it is necessary. Even if S is an independent witness ... S² is just another Byzantine scribe». 367b2-3 οὐχὶ δεῖ ... ψεύδεσθαι «Non è forse necessario, se deve essere mendace, ... che abbia la caratteristica di essere capace di mentire?». L’infinitiva δυνατὸν εἶναι ψεύδεσθαι è soggetto di ὑπάρχειν, laddove l’aggettivo δυνατόν è concordato con il soggetto sottinteso all’accusativo e non con il pronome αὐτῷ della sua reggente (ὑπάρχειν αὐτῷ), una costruzione comprensibile senza bisogno di emendare il testo (δυνατῷ, Hirschig). La capacità di mentire è, evidentemente, solo la condizione per poter essere, all’occorrenza, ψευδής, ma è appunto su tale capacità che Socrate porta l’argomentazione, per mostrare come, teoricamente, solo chi la possiede, e quindi solo l’esperto in un determinato ambito, possa scegliere anche di dire il falso e di essere quindi ψευδής in relazione ad esso; cf. nota introduttiva generale ad 365d6-369c8. 367b3 ὡς σὺ ἄρτι ὡμολόγεις «come tu ammettevi poco fa». Cf. supra, 366a6 ss. e in part. 366b4-5, οἱ ψευδεῖς εἰσιν οἱ σοφοί τε καὶ δυνατοὶ ψεύδεσθαι. È dubbio che la lezione ὃ di F (contro ὡς di TW) possa considerarsi difficilior, come vuole Slings (1998), 616, essendo facilmente spiegabile come confusione ω/ο unita alla caduta per aplografia del σ finale davanti al successivo σύ. Per l’uso formulare di espressioni analoghe con ὡς, cf. anche infra, ὡς ὡμολόγηται, 367e7; e.g. ὡς ἄρτι ὡμολογήσαμεν, Phaed. 76d2-3; ὡς σὺ ὡμολόγεις, Gorg. 497d2, etc. 367b4 ὑπὸ σοῦ ἐλέγετο Cf. supra, 366a6-7. 367b6 ἄρτι Cf. supra, 366e3 ss. 367b7 περὶ λογισμῶν Anche qui (cf. supra, περὶ ἀριθμόν, 367a7), il testo stampato dagli editori è correzione presente in un recenziore (Coisl. 155² : λογισμόν TWF), attribuibile alla mano del Bessarione e facilmente effettuabile sulla base della successiva battuta di Socrate, in cui è tràdito in maniera concorde il genitivo plurale (περὶ λογισμῶν, 367c1-2). Per la distinzione

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tra l’uso dell’accusativo singolare e quello del genitivo plurale, cf. supra, 367a7 e nota ad loc. 367c3-4 οὗτος ... ὁ λογιστικός «Questi è chi è bravo in materia, l’esperto di calcoli». L’espunzione della frase, proposta da Bekker (1816) ed accolta da Schanz (1885), priverebbe l’argomentazione di un passaggio fondamentale, in quanto solo l’identificazione della persona abile a dire il vero e il falso con l’esperto in materia, che viene ora precisata, permette di stabilire in seguito che la persona falsa non può essere altri che, appunto, l’esperto (cf. infra, 367c4-6 e nota ad loc.). Per l’importanza della denominazione del tecnico (ὁ λογιστικός), cf. l’identico passaggio in Ion 531e8-9 (ΣΩ. τίς οὗτος; τί ὄνομα αὐτῷ; ΙΩΝ ἰατρός); cf. anche Gorg. 448b4 ss. (εἰ ἐτύγχανε Γοργίας ἐπιστήμων ὢν τῆς τέχνης ἧσπερ ὁ ἀδελφὸς αὐτοῦ Ἡρόδικος, τί ἂν αὐτὸν ὡνομάζομεν δικαίως; κτλ.). 367c4-6 τίς οὖν ψευδὴς ... ὁ ἀγαθός «Chi altri dunque è falso in relazione al calcolo, se non l’esperto?». Si arriva ora alla risposta al quesito: τίς οὖν ἂν εἴη οὗτος; (367b1). 367c5 περὶ λογισμὸν La lezione corretta è in questo caso l’accusativo singolare λογισμὸν tràdito da F, contro il genitivo plurale λογισμῶν di TW: sull’oscillazione tra accusativo singolare e genitivo plurale in dipendenza da περί, problema che si ripete costantemente nel brano, cf. supra, 367a7 e 367b7 con note ad locc. 367c7 ὁρᾷς οὖν ὅτι κτλ. «Vedi dunque che...». Al termine del ragionamento, Socrate mostra come esso abbia portato alla contraddizione della tesi originariamente espressa dal suo interlocutore, il quale solo ora si rende conto delle conseguenze delle affermazioni cui ha via via dato il suo assenso: cf. Robinson (1953), 21 ss., in part. 22 («This moment of syllogizing is the moment when all is made clear. The purpose of the separate premisses, the way they fit together, and the fact that they entail the falsehood of his thesis, now become evident to the answerer»). L’espressione ὁρᾷς (ὅτι), classificata come colloquialismo da Thesleff (1967), 90, è ricorrente nei dialoghi dei tre periodi: cf. e.g. Ap. 24d7, Euthyphr. 11a3, Symp. 202d7, Charm. 168e3, Gorg. 456a2, Soph. 226a6, Leg. 3.690d1, oltre che infra, 372a6. Al di fuori del corpus platonico, è attestata nei dialoghi in tragedia e in commedia, così come nell’oratoria e in Senofonte: cf. e.g. Aesch. P.V. 259 e 951, Aristoph. Av. 891 e Ran. 1136, Demosth. Or. 21.151, Xen. Mem. 1.4.16, 1.9.3 e 3.43.3. 367c7-8 ὁ αὐτὸς ... περὶ τούτων «la stessa persona è mendace e veritiera su queste cose». Si arriva ora alla formulazione della paradossale conclusione, come verrà puntualmente citata anche da Αristotele (ὁ ἐν τῷ Ἱππίᾳ λόγος ... ὡς ὁ αὐτὸς ψευδής τε καὶ ἀληθής, Metaph. 5.29.1025a7); cf. anche

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l’analoga conclusione ὁ αὐτὸς γνώσεται ἀεί, περὶ τῶν αὐτῶν πολλῶν λεγόντων, ὅστις τε εὖ λέγει καὶ ὅστις κακῶς, Ion 531e10-532a1. 367d2 ὥσπερ σὺ ᾤου ἄρτι «come credevi tu poco fa». Cf. supra, 366a5-6. 367d3 οὐ ... ἐνταῦθά γε «Sembra di no, perlomeno in questo caso». Gli interlocutori di Socrate, sulle prime, tentano sempre di limitare la validità delle conclusioni raggiunte al singolo caso esaminato: cf. e.g. περί γε τούτου, Euthyphr. 8b7; τοῦτο ἐνταῦθά γε συμβαίνει, Gorg. 459b5-6; cf. anche infra, 369a3 e 374a2 con nota ad loc.

367d4-368a7 Se Ippia non è ancora convinto, si possono esaminare anche altri casi, come, ad esempio, quelli della geometria e dell’astronomia, due scienze di cui egli dichiara di essere parimenti esperto che dell’arte del calcolo. Anche in quei campi, com’è facile intuire, potrà essere falso solo chi sia, rispettivamente, un bravo geometra o un bravo astronomo: si conferma dunque la conclusione secondo cui falso e veritiero coincidono nella stessa persona. L’argomentazione procede con l’esame di altri due casi a verifica delle conclusioni raggiunte nel primo esempio (366c5-367d3), prendendo quindi la forma di un’epagoge, su cui cf. in generale Robinson (1953), 35-50. La scelta della geometria e dell’astronomia, dopo il calcolo, segue un ordine crescente di complessità, che corrisponde a quello canonico nella classificazione delle scienze, adottato da Platone anche nella Repubblica con l’inserimento, tra la geometria e l’astronomia, della stereometria, ovvero lo studio dei corpi solidi, come transizione dallo studio delle figure piane a quello dei corpi in movimento (Resp. 7.528a6 ss.); cf. Heath (1921), I, 12. Per l’insieme di queste discipline nel programma di insegnamento dei sofisti, con riferimento polemico ad Ippia, cf. Prot. 318d9-e4; cf. anche Hipp. mai. 285b8-c6, dove sono attribuite ad Ippia le stesse competenze, elencate in ordine inverso. 367d4 βούλει ... ἄλλοθι; «Vuoi dunque che esaminiamo anche altri casi?». Per la costruzione con la seconda persona βούλει (vel βούλεσθε) seguita da congiuntivo esortativo, che non è dipendente ma coordinato asindeticamente, cf. KG I, 221-22 e LSJ s.v. βούλομαι, II.1. Si tratta di un’espressione frequente nei dialoghi dei tre periodi, dove ha spesso la funzione, come in questo caso, di avviare un nuovo passaggio dell’argomentazione: cf. e.g. Phaed. 104c11, Gorg. 454e3, Resp. 7.521c1, Leg. 1.631b1. 367d5 εἰ [ἄλλως] γε σὺ βούλει L’espressione εἰ ... βούλει, caratteristica dell’uso attico, è forma di cortesia adoperata per esprimere una proposta o l’assenso ad una richiesta, o anche una concessione (cf. LSJ s.v. βούλομαι,

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II.2); per la sua formularità, cf. οὐδὲν γὰρ δέομαι τὸ “εἰ βούλει” τοῦτο καὶ “εἴ σοι δοκεῖ” ἐλέγχεσθαι, ἀλλ’ ἐμέ τε καὶ σέ, Prot. 331c5-6; cf. Joyal (2000) ad [Theag.] 121a8. Il suo uso, frequente nei dialoghi del primo e secondo periodo (Ap., Euthyphr., Phaed., Crat., Lach., Charm., Prot., Gorg., Men., Hipp. mai., Resp.) e presente ancora in alcuni generalmente riconosciuti come tardi (Theaet., Soph., Parm., Phil.), scompare invece del tutto negli ultimi (Tim., Crit., Leg.). L’inserimento di ἄλλως, qui espunto dal Bekker e da tutti gli editori successivi, si ritrova in una formula analoga solo in un altro caso, dove è stato tuttavia parimenti espunto dagli editori (εἰ σοί γε ἄλλως δοκεῖ, Gorg. 479c7; ἄλλως secl. Schanz). Dodds (1959) ad loc. ritiene possibile conservare in entrambi i casi il testo tràdito intendendo l’avverbio nel senso di «comunque» («in any case, anyhow», cf. εἰ ἄλλως βούλοιτο, Herod. 8.30.2; LSJ s.v. ἄλλως, A.2.b, «at all events, anyhow»), per quanto, nel caso di Hipp. min. 367d5, «it may quite well be a gloss on the immediately preceding word ἄλλοθι». 367d6 οὐκοῦν καὶ γεωμετρίας ... εἶ «non sei forse pratico anche di geometria?». La competenza di Ippia nella geometria è ricordata anche in Hipp. mai. 285c (= 86 A 11 DK = 36 D 14a Laks-Most), e di suoi studi in materia parlano anche altre fonti, dalle quali risulta che avesse scritto a proposito della storia di questa disciplina, conservando la memoria del geometra Mamerco, fratello del poeta Stesicoro (Procl. In Eucl. 65,11 Friedlein = 86 B 12 DK = 36 D 27 Laks-Most). Un’altra testimonianza (Procl. In Eucl. 272,3 Friedlein = 86 B 21 DK = 36 D 36 Laks-Most; cf. anche ibid. 356,11, non incluso da Diels e Kranz), inoltre, attribuisce ad un geometra chiamato Ippia la scoperta di una curva nota come quadratrix (γραμμὴ τετραγωνίζουσα), adoperata probabilmente in origine per il problema della trisezione dell’angolo retto e solo in seguito applicata, come indica il nome, a quello della quadratura del cerchio, cosa che spiegherebbe anche la mancata menzione di Ippia nella trattazione di quest’ultimo problema da parte di Simplicio (Simpl. Phys. 54 ss.). L’identificazione con il sofista di Elide non è tuttavia del tutto sicura, e non si può escludere un’omonimia: per ulteriori discussioni, cf. Guthrie (1969), 283-84; Björnbo (1913), favorevole all’attribuzione; contra, cf. invece soprattutto Knorr (1986), 80-82, secondo il quale è difficile, per ragioni di metodo, ricondurre la quadratrice ad un periodo pre-euclideo ed è probabile, piuttosto, pensare ad un omonimo geometra del III sec. a.C., contemporaneo cioè agli altri due geometri citati da Proclo nel passo in questione, Apollonio e Nicomede (86 B 21 DK = 36 D 36 Laks-Most). Il tentativo di risolvere il problema della quadratura del cerchio è comunque attribuito anche ad altri sofisti, in particolare ad Antifonte (Simpl. In Phys. p. 54 = 87 B 13 DK); cf. ancora Knorr (1986), 26-27 n. 53

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367e3 εἴπερ τις ἄλλος «se altri mai», nel senso che se esiste qualcuno che può essere falso in relazione alle figure geometriche, questi non potrà essere altri che il bravo geometra. Sul valore esclusivo delle subordinate ellittiche con εἴπερ e indefinito, cf. Denniston (1954²), 489; cf. ora anche Boter (2017), 26-32, il quale distingue tra un «exclusive use», che sarebbe da attribuirsi solo alle subordinate ellittiche con εἴπερ (ἄρα), un «superlative use» da attribuirsi alle subordinate con εἴπερ e indefinito, e un «elative use» nei casi in cui nella subordinata con εἴπερ e indefinito siano aggiunte anche forme di ἄλλος. In quest’ultimo caso, secondo Boter (2017), 27, la frase significherebbe che «someone belongs to a group of persons possessing a certain quality to a higher degree than others», ma non che la persona in questione sia l’unica a possedere tale qualità, anche se talvolta, come nota lo stesso Boter (2017), 30, «phrases of this category are paradoxically used in an exclusive sense», con esempi tratti proprio dai dialoghi platonici (Theaet. 192c5-6; Phaed. 78c3-4; Resp. 3.389b8-10). Quest’ultimo sembra essere il caso anche di questo passo, in cui si intende chiaramente che solo chi è esperto in geometria ha la capacità e la conoscenza necessarie a dire consapevolmente e deliberatamente il falso: cf. anche le battute precedenti, in cui Socrate chiede se vi sia qualcun altro bravo nella geometria all’infuori del geometra, ottenendo da Ippia risposta negativa (ΣΩ. περὶ ταῦτα οὖν ἀγαθὸς ἄλλος τις ἢ οὗτος; ΙΠ. οὐκ ἄλλος, 367d9-e1). Cf. infra, 368a3-4 e nota ad loc. 367e5 ὥστε «così», «perciò». Per quest’uso di ὥστε, cf. LSJ s.v. ὥστε, II.2 («at the beginning of a sentence, to mark a strong conclusion, and so, therefore»). 367e6 ὡς ὡμολόγηται «come si è concordato», lett. «come è stato concordato». Cf. supra, 366b6-7. 367e8 ἔτι τοίνυν ... ἐπισκεψώμεθα «Consideriamo ancora una terza persona». τὸν τρίτον è maschile, specificato subito dopo da τὸν ἀστρονόμον (367a8-9), e non neutro, come inteso da alcune traduzioni, e.g. «un troisième exemple», Croiset (1920); «un terzo campo», Cambiano (1970) e ora Reale (2015); giustamente invece «the third man», Fowler (1926); «den dritten», Schleiermacher (1805) e ora Pinjuh (2014). Superflua, quindi, anche la congettura di Scheliermacher, τὸ τρίτον. La scelta del verbo composto ἐπισκεψώμεθα indica, rispetto all’uso del verbo semplice (cf. σκεψώμεθα, 367d4), l’esame di un nuovo esempio in aggiunta (ἐπι-) al precedente; per altri composti, cf. anche infra, 373c6, διασκέψασθαι, e nota ad loc. 367e8-9 τὸν ἀστρονόμον «l’astronomo». Anche l’astronomia, come il calcolo e la geometria, è tra le scienze praticate da Ippia, ricordata anche nell’Ippia maggiore (τὰ περὶ τὰ ἄστρα τε καὶ τὰ οὐράνια πάθη, Hipp. mai. 285c1; incluso in 86 A 11 DK = 36 D 14 Laks-Most) e nel Protagora, dove egli

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appare intento a rispondere proprio su questioni astronomiche, circondato da un gruppo di ascoltatori (ἐφαίνοντο δὲ περὶ φύσεώς τε καὶ τῶν μετεώρων ἀστρονομικὰ ἄττα διερωτᾶν τὸν Ἱππίαν, Prot. 315c5-6; cf. anche 318e2). In questo campo gli viene attribuita la determinazione del numero delle stelle che formano la costellazione delle Iadi, che sarebbe stato fissato a sette da Ippia e Ferecide (86 B 13 DK = 36 D 35 Laks-Most); non si può tuttavia escludere che l’affermazione derivi non tanto dalla diretta osservazione scientifica quanto piuttosto dalla ricerca dossografica: così Freeman (1966), 385. 367e9 ἧς ... τέχνης ... ἐπιστήμων «della cui arte tu ritieni di essere ancora più esperto». Il termine ἐπιστήμων, come il precedente ἔμπειρος (367d6), indica la competenza in un determinato ambito scientifico: cf. e.g. ἐπιστήμων ... τῆς τέχνης, Gorg. 448b4, τίνος τέχνης ἐπιστήμων, ibid. 448c2. 368a4 εἴπερ τις καὶ ἄλλος ψευδὴς κτλ. «se altri mai, scil. è, falso…». Per il valore delle espressioni ellittiche con εἴπερ e indefinito, cf. supra, 367e3 e nota ad loc.; per l’inserimento del καί, cf. KG II, 256 n. 3. Secondo Boter (2017), 31, in questo caso «At first sight an exclusive interpretation of the εἴπερ τις καὶ ἄλλος idiom appears to impose itself», ma Platone sfrutterebbe il duplice significato di ψευδής, che può indicare sia chi mente volontariamente sia chi si trova involontariamente in errore, significato che sarebbe da presupporre all’interno di quest’espressione, che non avrebbe dunque significato esclusivo ma inclusivo, indicando che vi sono altre persone che possono essere false, cioè coloro che lo sono involontariamente per effettivo errore («in εἴπερ τις καὶ ἄλλος ψευδής it means “having a wrong opinion”, in ὁ ἀγαθὸς ἀστρονόμος ψευδὴς ἔσται it means “being able to lie”. So after all the use of our idiom here is inclusive and not exclusive»). L’uso di ψευδής con due significati diversi a distanza di poche parole non sembra però perspicuo e il seguito del passo prosegue con la consueta identificazione dello ψευδής con il δυνατὸς ψεύδεσθαι (368a5), per cui l’interpretazione più plausibile sembra la stessa che si è data in 367e3, per cui cf. supra e nota ad loc. 368a5-6 οὐ γὰρ ... ἀμαθὴς γάρ Le due brevi frasi nominali, con due γάρ consecutivi, diedero evidentemente allo Schanz l’impressione di una nota marginale entrata a testo. Il problema risiede tuttavia piuttosto, come nota ora anche Berger (2012) ad loc., nella struttura logica del ragionamento: dopo l’indicazione che non può essere ψευδής chi è ἀδύνατος (οὐ γὰρ ὅ γε ἀδύνατος, 368a5), è infatti aggiunta come ulteriore motivazione il fatto che quest’ultimo è ἀμαθής (ἀμαθὴς γάρ, 368a5-6), ma la prima condizione, secondo lo sviluppo seguito fin qui nell’argomentazione, sarebbe di per sé sufficiente (cf. supra, ὁ αὐτὸς γὰρ δυνατός, 367c5; οὗτος γὰρ δυνατός, 367e4), e ci si sarebbe quindi aspettati, piuttosto, una considerazione inver-

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sa. In questa direzione andava, del resto, già la congettura di Hoenebeek Hissink (οὐ γάρ ὅ γε ἀμαθής· ἀδύνατος γάρ), che è dunque opportuno, se non accogliere a testo, quantomeno segnalare nell’apparato. 368a6-7 ὁ αὐτὸς ... ἔσται «Anche in astronomia, dunque, la stessa persona sarà falsa e veritiera». Cf. supra, 366c7-8, cf. nota ad loc.

368a8-369a3 Socrate sfida ora Ippia a passare in rassegna tutte le altre scienze e tecniche, per vedere se vi sia un caso che contraddice i risultati raggiunti. Proprio Ippia sostiene infatti di essere esperto in pressoché tutte le arti: Socrate l’ha udito una volta vantarsi di essere giunto a Olimpia portando con sé solo oggetti di sua stessa fabbricazione, oltre che poemi e discorsi in prosa da lui composti; senza dimenticare le altre scienze che Socrate ha già considerato, nonché, infine, la mnemotecnica, per cui Ippia è particolarmente rinomato. Ebbene, egli non sarà certo in grado di indicare, fra tutte queste arti, un solo caso in cui la persona falsa e quella veritiera siano due persone distinte e non la stessa. L’ultima parte dell’argomentazione non è più condotta, come invece in precedenza (da 365d6 ss.), attraverso il metodo brachilogico caratteristico dell’interrogazione socratica, ma consiste in un inserto macrologico, nel quale Socrate espone un’epidissi di Ippia (368b5 ss.). Sul piano argomentativo, l’epagoge prende ora la forma di una rassegna che mira, idealmente, all’enumerazione completa di tutte le scienze e le tecniche (cf. κατὰ πασῶν ἐπιστημῶν, 368a8-b1 e nota ad loc.). Ma il brano nel suo complesso è soprattutto un’importante testimonianza sulle arti praticate da Ippia (Hipp. min. 367b2-d7 = 86 A 12 DK; cf. Hipp. mai. 285b7-286a2 = 86 A 11 DK), anche se quanto segue difficilmente può essere considerato una fedele riproduzione dell’epidissi del sofista: sul carattere fittizio del discorso insiste soprattutto Goffi (1989), per quanto sia eccessivo concludere che Platone volesse suggerire che Ippia non possieda in realtà le arti che dichiara; sul valore del passo come testimonianza, in particolare per le abilità artigianali che non sono altrimenti attestate, cf. anche Wękowski (2009) ad T 2. Un’allusione polemica ad Ippia, in termini particolarmente vicini a questo passo, è probabilmente da vedersi nel Carmide, dove è sottoposta a critica un’interpretazione autarchica della massima τὸ τὰ ἑαυτοῦ πράττειν, intesa nel senso di fabbricare ciascuno le proprie cose (δοκεῖ ἄν σοι πόλις εὖ οἰκεῖσθαι ὑπὸ τούτου τοῦ νόμου τοῦ κελεύοντος τὸ ἑαυτοῦ ἱμάτιον ἕκαστον ὑφαίνειν καὶ πλύνειν, καὶ ὑποδήματα σκυτοτομεῖν, καὶ λήκυθον καὶ στλεγγίδα καὶ τἆλλα πάντα κατὰ τὸν αὐτὸν λόγον, τῶν μὲν ἀλλοτρίων μὴ ἅπτεσθαι, τὰ δὲ ἑαυτοῦ ἕκαστον ἐργάζεσθαί τε καὶ πράττειν, Charm. 161e10-162a2); per lo

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stesso concetto cf. anche Resp. 2.369e3-370a4, e da ultimo sulla questione Donovan (2003), che ipotizza sia nel Carmide che nella Repubblica un riferimento ad Ippia. Il discorso è articolato in due parti principali: la prima (368b6-c7) elenca gli oggetti di produzione materiale, la seconda invece le creazioni e le abilità intellettuali (368c8-d7). Si tratta del brano del dialogo che ebbe maggiore fortuna nell’antichità, diventando l’immagine canonica di Ippia e del modello di saggezza che egli incarna: cf. Cic. De or. 3.32.127, dove il sofista è citato da Catulo come esempio positivo di un sapere più ampio; e D. Chrys. Or. 71.2, dove invece, in maniera più vicina agli intenti di Platone, si afferma che la competenza nelle singole τέχναι non è di pertinenza del filosofo (cf. 71.5). 368a8 ἴθι δή «Orsù». Come i precedenti φέρε δή e λέγε δή, anche questo imperativo segna l’avvio di una nuova sezione argomentativa: cf. supra, 366a6 e 366c5 con note ad locc. L’uso di ἴθι (δή), classificato come colloquialismo da Thesleff (1967), 89, è frequente nei dialoghi dei tre periodi: e.g. Euthyphr. 9a1, Prot. 332d1, Ion 538e2, Resp. 2.369e9, Theaet. 148d4, Soph. 224c9, Leg. 1.629b8. 368a8 ἀνέδην «senza ulteriore indugio»; ma le rese in traduzione sono varie: «à loisir», Croiset (1920); «generally», Fowler (1926); «tranquillamente», Cambiano (1970); «senza sosta», Centrone, Petrucci (2012). L’avverbio, difficile da tradursi letteralmente, è da intendersi in questo caso con un valore idiomatico, cf. LSJ s.v. ἀνέδην, II «without more ado, simply, absolutely», con rinvio a Gorg. 494e10. 368a8-b1 κατὰ πασῶν τῶν ἐπιστημῶν Lett. «attraverso tutte le scienze». Dopo aver portato alcuni esempi, Socrate esorta l’interlocutore a considerare la categoria nel suo insieme, passando in rassegna tutti i casi possibili: cf. e.g. νυνὶ εἰπέ, εἰ κατὰ πασῶν τῶν τεχνῶν οὕτω σοι δοκεῖ, Ion 538a1-2; συλλήβδην δὲ σκόπει περὶ πασῶν τῶν αἰσθήσεων εἴ τίς σοι δοκεῖ κτλ., Charm. 167d7. Per l’espressione cf. anche κατὰ πασῶν τῶν τεχνῶν, Ion 537d1 con Rijksbaron (2007) ad loc. («κατά ... suggests that Socrates will ‘go through’ the arts»). 368b1 εἴ που ... ἢ οὕτως Lett. «(per vedere) se da qualche parte le cose stanno diversamente da così (come si è detto)». La formulazione εἴ που ἔστιν ἄλλως ἔχον è da considerarsi equivalente a εἴ που ἄλλως ἔχει, con la perifrasi ἔστιν ... ἔχον, piuttosto che una forma brachilogica per εἴ πού ἐστί τί, ὃ ἄλλως ἔχει, come ritiene Calogero (1938) ad loc.; cf. εἰ δὴ ταῦτα οὕτως ἔχοντά ἐστιν, Leg. 9.860e5, richiamato da Smith (1895) ad loc. 368b2-3 πάντως ... ἀνθρώπων «senz’altro tu sei il più sapiente di tutti gli uomini nel maggior numero di arti». L’insistenza su πάντως ... πλείστας ... πάντων sottolinea ironicamente le pretese di onniscienza del sofista; cf. d’al-

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tronde anche la sicurezza di sé prima dimostrata da Ippia, 364a8-9 e nota ad loc. 368b3 ὡς ἐγώ ... μεγαλαυχουμένου «come io una volta ti ho udito vantarti». Socrate si riferisce dunque ad una precedente visita di Ippia ad Atene, in occasione della quale aveva avuto modo di ascoltare una sua pubblica esibizione. Si noti che egli, nel discorso che Socrate ha udito, non dava direttamente prova della propria maestria nelle arti, ma raccontava dell’esibizione tenuta in un’altra occasione ancora, a Olimpia (cf. infra, 365b5-6), cosa che, secondo Goffi (1989), 239, dà adito al sospetto che Ippia sia in realtà un millantatore. 368b3-4 πολλὴν ... διεξιόντος «quando descrivevi in dettaglio la tua grande ed invidiabile sapienza». Il tema dell’invidia (σοφίαν … ζηλωτήν), parte dell’ironico elogio della sapienza dell’interlocutore, è al centro anche del discorso che Socrate tiene a Ione all’inizio dell’omonimo dialogo, dicendo di invidiarne l’arte e la conoscenza di Omero, di cui il seguito dell’argomentazione dimostrerà che il rapsodo non è in realtà in possesso: καὶ μὴν πολλάκις γε ἐζήλωσα ὑμᾶς τοὺς ῥαψῳδοὺς ... τῆς τέχνης κτλ., Ion 530b5 ss.; cf. ζηλωτόν ἐστι, 530c1, e ταῦτα οὖν πάντα ἄξια ζηλοῦσθαι 530c6, con Murray (1996) ad loc.. Sul legame tra i due passi, che conferma la stretta vicinanza dei due dialoghi, cf. Flashar (1958), 28. Per il significato del verbo, cf. LSJ s.v. διέξειμι, II («in counting or recounting, go through in detail, relate circumstantially»). 368b4-5 ἐν ἀγορᾷ ἐπὶ ταῖς τραπέζαις «nella piazza del mercato, vicino ai banchi dei cambiavalute». Le τράπεζαι, ovvero appunto i banchi dei cambiavalute (cf. LSJ s.v. τράπεζα, II, «money-changer's counter»), occupavano un’area precisa dell’agorà ateniese, da collocarsi nella zona nord-ovest, lontana dalla maggiore concentrazione di botteghe che si aveva invece probabilmente sul lato orientale: cf. Thomson, Wycherley (1972), 171 n. 12. Era abitudine di Socrate, a quanto pare, intrattenervisi: cf. διὰ τῶν αὐτῶν λόγων ... δι’ὧνπερ εἴωθα λέγειν καὶ ἐν ἀγορᾷ ἐπὶ τῶν τραπεζῶν, Ap. 17c7-8, con De Strycker, Slings (1994) ad loc. 368b5 ἔφησθα δὲ κτλ. «Dicevi...». Inizia il resoconto del discorso di Ippia. 368b5 εἰς Ὀλυμπίαν Delle proprie esibizioni a Olimpia, in occasione dei giochi panellenici, Ippia ha già parlato all’inizio del dialogo: cf. supra, 363c7 ss. e note ad locc. 368b6 σαυτοῦ ἔργα Lett. «tue opere», «oggetti di tua fabbricazione». Il Leitmotiv del discorso di Ippia: cf. infra, σαυτοῦ ... ἔργον, 368b7-c1; σὸν ἔργον, 368c2; αὐτὸς ἠργάσω, 368c2-3. 368b6 πρῶτον μὲν κτλ. «Innanzitutto...». Inizia qui, all’interno della prima sezione dedicata alla produzione materiale del sofista (368b6-c7), la pri-

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ma serie degli oggetti esibiti da Ippia, composta da accessori esterni alla persona (368b6-c3). Per la struttura generale del discorso cf. supra, nota introduttiva ad 368a8-369a3. 368c1 ὡς ... γλύφειν «in quanto tu sapevi cesellare anelli», o meglio «in quanto tu avresti saputo...», per mantenere la sfumatura soggettiva della causale; cf. «perché dicevi di sapere come si cesellano gli anelli», Centrone, Petrucci (2012). 368c1-2 καὶ ἄλλην σφραγῖδα ... καὶ λήκυθον «e un altro anello con il sigillo, anche questo opera tua, e lo strigile e l’ampolla». La σφραγίς è propriamente il sigillo: «in quanto esso era incastonato a sua volta in un anello, si spiega l’ἄλλην», Calogero (1938) ad loc. La στλεγγίς, ovvero lo «strigile» («scraper, to remove the oil and dirt from the skin in the bath or after the exercises of the Palaestra», LSJ s.v. στλεγγίς, A), e la λήκυθος, recipiente per unguenti («oil-flask», LSJ s.v. λήκυθος, A), appartengono invece al corredo dell’atleta, ma sono anche comuni oggetti di uso quotidiano: per la loro combinazione, cf. οὐδ’ἐστὶν αὕτη στλεγγὶς οὐδὲ λήκυθος, Aristoph. fr. 214 PCG, citato dagli scolii platonici (schol. TW ad loc.); cf. «σ. and λήκυθος are freq. coupled as typical articles of everyday use», LSJ s.v. στλεγγίς, A. I due termini στλεγγίς e λήκυθος, comunque, ricorrono altrove nel corpus platonico solo in Charm. 161e12-13, sul cui rapporto con Ippia cf. supra, nota ad 368a8-369a3. 368c3 ἔπειτα κτλ. «Poi», «In secondo luogo...». La congiunzione introduce, all’interno della prima sezione del discorso dedicata alla produzione materiale del sofista (368b6-c7), la seconda serie delle opere da lui esibite (per la prima cf. supra, 368b6 e nota ad loc.), passando dagli oggetti che Ippia porta in mano, gli anelli e l’ampolla, al suo abbigliamento, ciò che porta, dunque, avvolto sul suo stesso corpo. 368c3-4 ὑποδήματα ... καὶ τὸ ἱμάτιον ... καὶ τὸν χιτωνίσκον «le calzature che indossavi dicesti di averle fabbricate tu stesso, e di aver tessuto il mantello e la tunica». Lo ἱμάτιον si indossava sopra il χιτών («a piece of dress; in usage always of an outer garment, formed by an oblong piece of cloth worn above the χιτών», LSJ s.v. ἱμάτιον, A). Anche per questa sequenza cf. Charm. 161e11-12 (supra, nota introduttiva ad 368a8-369a3). Da segnalare, almeno, la proposta di Hirschig di integrare l’articolo ὑποδήματα, che potrebbe essere facilmente caduto per aplografia dopo ἔπειτα: nella sezione precedente (368a7-c2), tuttavia, nessuno dei termini è introdotto dall’articolo, per quanto esso figuri nei successivi (τὸ ἱμάτιον ... τὸν χιτωνίσκον; cf. anche τὴν ζώνην, 368c6). 368c4-6 ὅ γε πᾶσιν ἔδοξεν ἀτοπώτατον ... ἐπειδὴ τὴν ζώνην ἔφησθα κτλ. Lett. «e, cosa che parve a tutti la cosa più incredibile e prova della più grande sapienza, quando dicesti che la cintura...». Il culmine del discorso corri-

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sponde anche al punto centrale della figura di Ippia: la cintura, che suscita particolare ammirazione fra il pubblico. Il passo è leggermente anacolutico, in quanto, dopo la relativa ὅ γε πᾶσιν ἔδοξεν ... ἐπίδειγμα, ci si aspetterebbe una dichiarativa introdotta da ὅτι, sottinteso e.g. ἦν («quel che parve a tutti più incredibile ... fu che»), oppure direttamente la proposizione principale, intendendo la relativa come appositiva di quest’ultima («e, cosa che parve a tutti più incredibile, dicesti...»); segue, invece, una subordinata introdotta da ἐπειδή (368c6). Diversi sono stati perciò i tentativi di intervenire sul testo per normalizzare la sintassi, dalla semplice espunzione di ἐπειδή (Ast), reso sospetto anche dalla vicinanza con ἐπίδειγμα, dal quale potrebbe essere derivato per dittografia e iotacismo, come ipotizza Wilamowitz (1919-20), II, 343, alla sua correzione in una formula coordinante: ἔτι δὲ, Beck, o in un participio, secondo la proposta dallo Schanz (ἐπιδεικνὺς vel ἐπιδείξα, che trova conforto anche nella testimonianza dionea: καὶ ἄλλα ἐπιδεικνὺς ἔργα, D. Chrys. Or. 71.2). L’anacoluto può tuttavia trovare giustificazione nella struttura retorica del passo, con la funzione di attirare l’attenzione sul momento centrale del discorso di Ippia: «è il moto spontaneo della riflessione che, dopo aver ricordato, anticipando, come la cosa da enunciare avesse destato particolare sorpresa e ammirazione, dà all’enunciato stesso la forma di una giustificazione di quest’ultimo fatto», Calogero (1938) ad loc. Per il costrutto, in forma regolare, cf. e.g. τὸ δ’ἔσχατον πάντων, ὅτι ... θόρυβον παρέχει καὶ ταραχὴν κτλ., Phaed. 66d3 ss.; ὃ θαυμασιώτερόν γε ἔτι, ὅτι καὶ κτλ., Euthyd. 299e6 ss., e ὃ δὲ καὶ σοὶ μάλιστα προσήκει ἀκοῦσαι, ὅτι κτλ., ibid. 304c3 ss.; καὶ τό γε θειότατον πάντων, τὸ καὶ βασιλέα εἰς τοῦτο ἀπορίας ἀφικέσθαι, κτλ., Menex. 244d5-7; ὃ μὲν πάντων θαυμαστότερον ἀκοῦσαι, ὅτι ἓν ἕκαστον κτλ., Resp. 6.491b7 ss. 368c7 οἷαι αἱ Περσικαὶ τῶν πολυτελῶν Lett. «come le cinture persiane, di quelle di lusso»: «like the Persian girdles of the costliest kind», Fowler (1926); «identique à ce qui se fait en Perse de plus riche», Croiset (1920); semplicemente quindi «le lussuose cinture persiane», Cambiano (1970). Con αἱ Περσικαί è da sottintendersi ζῶναι (cf. supra, 368c6 τὴν ζώνην), e ugualmente in seguito ζωνῶν, intendendo il genitivo τῶν πολυτελῶν come partitivo; improbabile «le cinture persiane, quelle delle ricche signore», come intende Calogero (1938) ad loc.: «il nominativo sottintende ζῶναι e il genitivo γυναικῶν». 368c8 πρὸς δὲ τούτοις κτλ. «E oltre a queste cose...». Solo come aggiunta alla fabbricazione materiale di oggetti è presentata quella che dovrebbe essere la produzione più rilevante di Ippia, di natura intellettuale: un ordine anticlimactico in cui è probabilmente da vedersi un tocco ironico da parte di Platone, come nel caso della successiva battuta di Socrate che solo alla

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fine menziona, fingendo di averla dimenticata, la mnemotecnica di Ippia (cf. infra, 368d6-7 e nota ad loc.). Quest’ordine va perso sia nella ripresa di Cicerone che in quella di Dione, i quali invertono la sequenza ponendo in rilievo l’insolita abilità di Ippia anche sul piano materiale: nec solum has artes, quibus liberales doctrinae atque ingenuae continerentur, ... sed anulum quem haberet etc, Cic. De or. 3.32.127; οὐ μόνον ποιήματα ... ἀλλὰ καὶ ἄλλα ἐπιδεικνὺς ἔργα κτλ., D. Chrys. Or. 71.2. 368c8 ποιήματα «composizioni poetiche». Non indica in senso stretto i poemi epici (cf. invece supra, ποίημα τῷ Ὁμήρῳ, 363b2-3), ma in generale la produzione in versi, i cui generi sono subito dopo ulteriormente specificati (368c8-d1), per contrapposizione con la produzione di discorsi in prosa (368d1). 368c8-d1 καὶ ἔπη ... διθυράμβους «e cioè poemi epici, tragedie e ditirambi». Il primo καί è epesegetico, in quanto si specificano ora i generi dei ποιήματα (cf. supra, nota precedente). Per quel che riguarda le composizioni poetiche di Ippia, tuttavia, si ha in realtà notizia solamente di un’elegia che il sofista fu chiamato a comporre per le statue che gli abitanti di Messina dedicarono a Olimpia in memoria di un coro di fanciulli naufragati nel tragitto per Reggio, opera dello scultore Calone di Elide (Paus. 5.25.4 = 86 B 1 DK = 36 D 4 Laks-Most). 368d1-2 καὶ καταλογάδην ... συγκειμένους «discorsi in prosa numerosi e variamente composti». Il riferimento è ai discorsi epidittici di cui Ippia parla già all’inizio del dialogo, dichiarando di essere solito giungere a Olimpia con materiali preparati per le proprie esibizioni (cf. supra, 363d2-3 e nota ad loc.). La varietà della composizione, espressa dall’aggettivo παντοδαπός, può riferirsi alla varietà dei temi affrontati, per es. «Reden des mannigfachsten Inhalts», Apelt (1918), o più genericamente, «of all sorts», Fowler (1926) e «de toute espèce», Croiset (1920); ma forse può intendersi anche come riferita alla forma dei discorsi, cf. «composti in vari modi», Cambiano (1970) e «in modi del tutto vari», Centrone, Petrucci (2012). Ippia presenta altrove i suoi discorsi come particolarmente curati in relazione alle scelte lessicali e alla disposizione dei termini (ἔστι γάρ μοι ... παγκάλως λόγος συγκείμενος, καὶ ἄλλως εὖ διακείμενος καὶ τοῖς ὀνόμασι, Hipp. mai. 286a5-6); in quest’ultimo senso sembra intendere il termine anche Dione nella sua parafrasi del brano (λόγους ... ποικίλους, D. Chrys. Or. 71.2; cf. anche λόγοις ποικίλοις καὶ πεφροντισμένοις εὖ, Philostr. V. Soph. 1.11.7 = 86 A 2 DK, r.9 = 36 P 5 Laks-Most). Per l’uso di καταλογάδην in senso tecnico, ad indicare la prosa («in prose», LSJ s.v. καταλογάδην, A), cf. Symp. 177b3, dove si ricorda la stesura di encomi in prosa da parte dei sofisti (Ἡρακλέους καὶ ἄλλων ἐπαίνους καταλογάδην συγγράφειν, 177b2-3); per la distinzione in questi termini fra

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poesia e prosa, cf. anche τῶν μετὰ μέτρου ποιημάτων καὶ τῶν καταλογάδην συγγραμμάτων, Isocr. Or. 2.7.3-4. 368d2-3 καὶ περὶ τῶν τεχνῶν ... ἔλεγον «anche delle arti di cui parlavo poco fa...». Ovvero il calcolo (366c5 ss.), la geometria (367d6 ss.) e l’astronomia (367e8 ss.). 368d3 ἐπιστήμων Si deve allo Stephanus la necessaria correzione nell’aggettivo ἐπιστήμων, contro il genitivo plurale ἐπιστημῶν tràdito dai mss. 368d4-5 περὶ ῥυθμῶν ... ὀρθότητος «a proposito della correttezza di ritmi, armonie e lettere», dove περί va con ὀρθότητος che regge a sua volta i tre genitivi precedenti, ῥυθμῶν καὶ ἁρμονιῶν καὶ γραμμάτων. Questo campo è indicato come un ambito di studio in cui Ippia eccelle anche in Hipp. mai. 285c7-d3 (ἐκεῖνα ἃ σὺ ἀκριβέστατα ἐπίστασαι ἀνθρώπων διαιρεῖν, περί τε γραμμάτων δυνάμεως καὶ συλλαβῶν καὶ ῥυθμῶν καὶ ἁρμονιῶν = 86 A 11 DK, rr. 33 ss. = 36 D 14a Laks-Most). Il problema della correttezza linguistica è comunque, in generale, un aspetto centrale delle ricerche dei sofisti, testimoniato in particolare per Protagora, del quale è esplicitamente indicato l’interesse per l’ὀρθοέπεια, forse titolo di una sua opera (cf. Plat. Phaedr. 267c = 80 A 26 DK = 31 D 22a Laks-Most), e per Prodico, di cui Platone menziona più volte l’arte della sinonimica (cf. 84 A 11-18 DK = 34 D 5a-c; 34 D 13 e D 22-25 Laks-Most, che includono ulteriore materiale rispetto a Diels e Kranz): cf. in generale almeno Classen (1976); Pfeiffer (1968), 37-42; Guthrie (1969), 219-23; Bonazzi (2010), 60-65; sull’ὀρθοέπεια di Protagora nello specifico, cf. Brancacci (2002); Corradi (2012), 133-76. Per quel che riguarda Ippia, non si hanno ulteriori testimonianze sulla natura delle sue ricerche, ma da questo passo e da Hipp. mai. 285c7-d3 si desume che esse riguardavano in primo luogo gli elementi primari del linguaggio, γράμματα e συλλαβαί (cf. Hipp. mai. 285c7-d2 = 86 A 11 DK, rr. 34-35 = 36 D 14a Laks-Most), ovvero lo studio prima delle lettere singolarmente considerate e poi della loro unione in sillabe, cui fa seguito l’analisi dei ritmi (ῥυθμῶν), nel senso della sequenza di sillabe brevi e lunghe, e infine quella delle armonie (ἁρμονιῶν), secondo quelle che erano considerate le tre parti costitutive della melodia (τὸ μέλος ἐκ τριῶν ἐστιν συγκείμενον, λόγου τε καὶ ἁρμονίας καὶ ῥυθμοῦ, Resp. 3.398d1-2). Lo studio del linguaggio risulta quindi inserito in una prospettiva di tipo ritmico-musicale, un aspetto che sembrerebbe costituire un’innovazione tra i sofisti: cf. Pfeiffer (1968), 53 («Hippias seems to have been the first ‘literary’ man, not a musician, to treat language together with music»). 368d6 καίτοι κτλ. «Ma ecco...». Per l’uso di καίτοι avversativo, cf. Denniston (1954²), 557 (καίτοι I.ii, «Used by a speaker in pulling himself abruptly»).

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368d6-7 τό γε μνημονικὸν ... τέχνημα «dimenticavo, a quanto pare, proprio la tua arte mnemonica». Un’analoga battuta in Hipp. mai. 285e9-10: ἀλλ’ἐγὼ οὐκ ἐνενόησα ὅτι τὸ μνημονικὸν ἔχεις. Per la mnemotecnica di Ippia, cf. anche Xen. Symp. 4.62 (= 86 A 5a DK = 36 D 13 Laks-Most), dove si dice che Callia ha appreso dal sofista quest’arte (Ἱππίᾳ τῷ Ἠλείῳ, παρ’οὗ οὗτος καὶ τὸ μνημονικὸν ἔμαθεν), che va dunque concepita come un sistema strutturato che può, appunto, essere oggetto di insegnamento. La memoria dovette rivestire un ruolo centrale non solo in rapporto agli interessi antiquari del sofista, per i quali è chiamata in causa nel già citato passo dell’Ippia maggiore (285d6 ss.), ma anche per l’apprendimento delle numerose arti che gli vengono attribuite, in accordo con la concezione nozionistica del sapere che sembra contraddistinguere il suo enciclopedismo: sulla mnemotecnica di Ippia, cf. in generale Blum (1969), 48-55. Dal punto di vista di Platone, naturalmente, non può che essere negativa una conoscenza basata su un apprendimento mnemonico anziché sulla comprensione razionale e sull’indagine dialettica, come la successiva battuta metterà in luce: cf. infra, 369a7-8 e nota ad loc. 368e1 ἀλλ’ὅπερ ἐγὼ λέγω κτλ. «Ma, tornando a quel che voglio dire...». Segna il ritorno all’argomentazione e al punto che Socrate vuole mettere in luce attraverso la rassegna delle arti di Ippia. Sintatticamente, la frase è da intendere come un inciso: «ma – quello che voglio dire – considerando sia le conoscenze tecniche che hai tu stesso ecc.», Calogero (1938) ad loc. 368e3-4 ἐκ τῶν ὡμολογημένων ἐμοί τε καὶ σοί «in base a quel che è stato concordato da me e te», quindi «in base a quel che io e te abbiamo concordato». Il participio τὰ ὡμολογημένα indica in senso tecnico le premesse di un’argomentazione, ovvero le proposizioni su cui gli interlocutori hanno in precedenza raggiunto l’assenso e dalle quali viene in seguito tratta la conclusione: cf. e.g. Phaed. 72a9, Prot. 358e4, Gorg. 479b4, Resp. 5.459d7, etc.; des Places (1964), s.v. ὁμολογεῖν, 1°; per formulazioni analoghe, cf. anche infra, ἐκ τῶν εἰρημένων, 375d5, e Stemmer (1992), 128 e nn. 1-2. 368e4-5 ὅπου ἐστὶν ... ὁ αὐτός «(un caso) in cui una sia la persona veritiera, un’altra quella falsa, separatamente e non la stessa». Si ritorna ora alla questione della ricerca di un caso contrario ai risultati finora raggiunti, scopo per il quale era stata introdotta la rassegna di scienze e tecniche ora conclusa: cf. supra, εἴ που ἔστιν ἄλλως ἔχον ἢ οὕτως, 368b1. 368e5-369a1 ἐν ᾗτινι ... σοφίᾳ ... ἢ πανουργίᾳ ἢ ὁτιοῦν χαίρεις ὀνομάζων «in qualsivoglia sapienza o furbizia o comunque ti piaccia chiamarla». Cf. εἴτε γὰρ ἡδὺ εἴτε τερπνὸν λέγεις εἴτε χαρτόν, εἴτε ὁπόθεν καὶ ὅπως χαίρεις τὰ τοιαῦτα ὀνομάζων, Prot. 358a5-b2, in polemica con le distinzioni sinonimiche di Prodico (358a6-7). Il riferimento è qui a 365e4, dove è stato usato il termine πανουργία, sulla cui valenza dispregiativa cf. supra, nota ad loc.

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L’esatto uso dei termini non è, per Socrate, una questione importante: l’interlocutore può ricorrere al termine che preferisce, purché sia chiaro che cosa egli intende quando lo pronuncia (ἀλλ’ἐγώ σοι τίθεσθαι μὲν τῶν ὀνομάτων δίδωμι ὅπῃ ἂν βούλῃ ἕκαστον· δήλου δὲ μόνον ἐφ’ὅτι ἂν φέρῃς τοὔνομα ὅτι ἂν λέγῃς, Charm. 163d5-7). 369a1 ὦ ἑταῖρε «amico (mio)». È la prima volta, nel dialogo, che Socrate si rivolge a Ippia con il termine ἑταῖρος, che porta su un piano di maggiore familiarità: ciò è senz’altro dovuto al momento particolarmente delicato, in cui egli deve far accettare al suo interlocutore l’ineluttabilità del risultato raggiunto e, pertanto, la confutazione della sua tesi. Sull’uso di questo caratteristico vocativo socratico, cf. Halliwell (1995), 94-96, con particolare attenzione alla funzione all’interno dei dialoghi, dove Socrate lo adopera «to express a willingness and desire to engage in a common pursuit of philosophical collaboration with his interlocutor». Significativamente, però, il vocativo ὦ ἑταῖρε, frequente nei dialoghi di tutti i periodi, si trova adoperato per interlocutori quali Eutifrone (Euthyphr. 5c4, 6d1, 11d3, 15e5), Carmide (Charm. 161e6), Crizia (Charm. 154b8, 167c4, 175a3), Menone (Men. 71c3, 98a4), tutti personaggi con cui Socrate è in rapporti di amicizia o comunque di evidente confidenza, oltre che naturalmente per i discepoli più stretti che lo circondano nel Fedone (cf. e.g. Phaed. 67b7, 68b3, 76d1, 82c5 etc.), ma non si trova mai riferito ad altri sofisti, né ad Eutidemo e Dionisodoro, né a Protagora o Gorgia. Nel Protagora ὦ ἑταῖρε è usato da Socrate solo una volta, per il giovane Ippocrate (Prot. 313c8), e nell’Eutidemo per l’amico Critone (Euthyd. 293a8); nel Gorgia si può anzi notare come questo vocativo sia evitato per il retore più famoso, mentre è usato normalmente per gli interlocutori più giovani, suoi allievi, Polo e Callicle (rispettivamente, Gorg. 469b1, 473a2; 482a5, 491d4, 508a3, 519d5). Ippia è invece a più riprese apostrofato alla stessa maniera anche nell’Ippia maggiore (284b3 e b5, 290e7, 295a1, 296a8, 300d3), un ulteriore segno del tono di maggiore confidenza con cui Platone tratta la sua figura in confronto ad altri pensatori, più vicino al trattamento riservato al rapsodo Ione, per il quale è usato appunto lo stesso vocativo (Ion 532c5). Per altri vocativi stilisticamente connotati, cf. infra, 370e10 e 373b6 con note ad locc. 369a2 ἐπεὶ σὺ εἰπέ «allora, parla». La congiunzione ἐπεί unita all’imperativo ha il valore di un semplice γάρ (cf. KG I, 239); cf. e.g. ἐπεὶ λέγε μοι, Charm. 165e; ἐπεὶ εἰπέ, Euthyd. 287c1 e ἐπεὶ ἀπόκριναι, ibid. 287c4; cf. anche infra, 373b8 e nota ad loc. 369a3 οὐκ ἔχω ... νῦν γε οὕτως «Non lo so dire, perlomeno adesso, così (i.e. così su due piedi)». Ippia è costretto ad ammettere di non saper replicare a Socrate, come avviene del resto anche ad altri interlocutori che, al termine della prima confutazione, perdono la sicurezza iniziale: cf. e.g. οὐκ

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ἔχω ἔγωγε ὅπως σοι εἴπω ὃ νοῶ, Euthyphr. 11b6-7; οὐκ ἔχω σοι περὶ τούτου ἀντιλέγειν, Ion 533c4; οὐχ ἔχω ὅτι ἀποκρίνωμαί σοι, Men. 80b1-2; οὐκ ἔχω ... νῦν γε οὕτως εἰπεῖν, Resp. 2.380d7; Goldschmidt (1947), 35 n. 3. Cf. anche Hipp. mai. 295a4 ss., dove il sofista sostiene che, se vi riflettesse in solitudine, sarebbe in grado di trovare una risposta alle domande di Socrate (ἐγὼ μὲν οὖν εὖ οἶδ’ὅτι, εἰ ὀλίγον χρόνον εἰς ἐρημίαν ἐλθὼν σκεψαίμην πρὸς ἐμαυτόν, ἀκριβέστερον ἂν αὐτό σοι εἴποιμι τῆς ἁπάσης ἀκριβείας, Hipp. mai. 295a4-6; cf. 297e1-2). Sul passo cf. anche Szlezák (1985), 99, secondo il quale si tratterebbe di una parodia dell’atteggiamento «esoterico» del filosofo che, invece, sarebbe in grado di apportare nuovi argomenti, ma per il momento non li rivela all’interlocutore.

369a4-c8 Ma quali sono le conseguenze di questo ragionamento sul problema che si esaminava in principio? Evidentemente, se falso e veritiero non sono due persone diverse, ma la stessa, Achille e Odisseo non potrebbero essere distinti fra loro così come sosteneva Ippia: al contrario, se uno dei due è falso, deve essere anche veritiero, e viceversa l’altro, in una completa parità. Ippia protesta con veemenza davanti a tale conclusione, sostenendo di poter dimostrare che Achille è raffigurato da Omero sincero e migliore di Odisseo, quest’ultimo, invece, bugiardo e peggiore. Egli sfida dunque Socrate a controbattere e sostenere la tesi contraria: sarà il pubblico a decidere chi dei due tiene il discorso migliore. La confutazione giunge al suo passo finale, quello che Robinson (1953), 38, definisce «main step», ovvero il momento in cui sono tratte le conseguenze del ragionamento svolto fino a questo punto (μέμνησαι ὃ ἡμῖν συμβαίνει ἐκ τοῦ λόγου, 369a4-5), con l’estensione dei risultati raggiunti mediante l’argomentazione al problema iniziale del confronto tra i personaggi di Achille e Odisseo, i quali dovrebbero risultare entrambi sia falsi che veritieri. Ippia, che fino a questo punto ha accettato la tesi secondo cui mendace e veritiero coincidono senza mostrare di concepirla come assurda o paradossale, e ammettendo anzi di non saper trovare alcun caso contrario (369a3), rifiuta ora per la prima volta la conclusione, ribellandosi all’argomentazione socratica. Ma con i personaggi di Achille e Odisseo, infatti, si abbandona il campo delle scienze e delle tecniche finora considerate, per passare ad un ambito diverso, ovvero quello morale. In questo caso, ci si dovrà chiedere se la mendacità possa ancora essere considerata frutto di conoscenza e capacità o non sia da considerarsi, al contrario, una forma di incapacità, derivante dall’ignoranza nell’ambito più importante, la scienza del bene e del male: cf. su questo punto 365d6-366a1 con nota introdutti-

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va. La conclusione ora raggiunta da Socrate determina la prima aporia del dialogo, in cui le proteste di Ippia segnano ora una cesura (369b8 ss.) che si ripeterà poi davanti alla conclusione della superiorità di Odisseo su Achille (371e4-5; cf. 371e9 ss.). 369a5 ὃ ... ἐκ τοῦ λόγου «ciò che consegue per noi dal ragionamento». Il verbo συμβαίνω è termine tecnico per indicare la conseguenza logica che discende dalle premesse: e.g. Charm. 164c8, Gorg. 459b5; τὰ συμβαίνοντα ἐκ τοῦ λόγου, Gorg. 479c5; cf. des Places (1964), s.v. συμβαίνειν, 3°, «“s’ensuivre, résulter” logiquement», e Stemmer (1992), 129 e nn. 5-7 per ulteriori paralleli. 369a6 οὐ πάνυ ... ὃ λέγεις «Non capisco bene, Socrate, quel che intendi». Per οὐ πάνυ τι come forma attenuativa, cf. οὐ πάνυ τι μέντοι μοι δοκεῖ οὕτως ἔχειν, Crat. 386a6-7; οὐ πάνυ τι (scil. καταμανθάνω), Lach. 191e12; οὐ πάνυ τι μανθάνω, Euthyd. 286e9. 369a7-8 νυνὶ γὰρ ἴσως κτλ. «Forse ora non fai uso dell’arte mnemonica – evidentemente credi che non ve ne sia bisogno». Per la mnemotecnica di Ippia, cf. supra, 368d6-7 e nota ad loc. La battuta mira a colpire l’inutilità della memoria quando si tratta, piuttosto, di comprendere l’argomentazione: la stessa critica si cela dietro la battuta del tutto analoga che Socrate rivolge a Ione, al quale, in quanto rapsodo, sarebbe richiesta una buona memoria per ricordare i versi di Omero, ma che, a quanto pare, non ricorda quello che si è detto nel corso della discussione dialettica, o, in altri termini, non lo ha affatto capito: cf. ἢ οὕτως ἐπιλήσμων εἶ; καίτοι οὐκ ἂν πρέποι γε ἐπιλήσμονα εἶναι ῥαψῳδὸν ἄνδρα, Ion 539e7-9, con Murray (1996) ad loc. Per lo stesso tema nel dialogo, cf. anche infra, 371c6 con nota ad loc., dove sarà Achille, l’eroe prediletto da Ippia, a ricevere ironicamente la qualifica di ἐπιλήσμων. 369a8 οἶσθα ὅτι τὸν μὲν Ἀχιλλέα ἔφησθα κτλ. «sai che dicevi che Achille...». Cf. supra, 364e7 ss. e in part. 365b4-5. 369b3 νῦν οὖν αἰσθάνῃ κτλ. «Ora dunque ti rendi conto che...». Sostanzialmente analogo ad ὁρᾷς (cf. 367c7 e nota ad loc.), αἰσθάνῃ è colloquialismo tuttavia meno frequente, che si incontra principalmente nei dialoghi del primo e secondo periodo (Euthyphr. 15b11, Phaed. 92b4, Crat. 432b1, Symp. 207a8, Euthyd. 277d5, Gorg. 479c5, Resp. 10.596d5), mentre scompare in quelli del terzo. 369b4-5 εἰ ... καὶ ψευδής «(cosicché) se Odisseo era bugiardo, diventa anche sincero, e se Achille era sincero, anche bugiardo». La conclusione secondo cui mendace e veritiero coincidono, fino ad ora accettata da Ippia (cf. supra, 369a3, e prima ancora 367d3, 368a7), applicata al caso di Achille e Odisseo dà luogo ad un esito evidentemente paradossale. Per l’uso del co-

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siddetto «imperfetto filosofico» (ἦν, 369b4) ad indicare punti precedentemente stabiliti nel corso di un’argomentazione, cf. Cooper (1998), I, 623. 369b6-7 οὐ διάφοροι ... ἀλλ’ὅμοιοι «i due eroi non sono diversi né opposti tra loro, ma simili?». Cf. supra, ἄλλους ... καὶ ἐναντιωτάτους ἀλλήλοις, 366a5-6, e nota ad loc. 369b8 ὦ Σώκρατες L’uso enfatico del vocativo in posizione incipitaria, che trova corrispondenza nella risposta di Socrate (369d1), rivela una certa irritazione da parte di Ippia, sottolineando così un momento di crisi del dialogo. Per l’uso del vocativo incipitario nel medesimo contesto, cf. e.g. Charm. 161d1, Gorg. 461c5 e 473e6; come qui, in coppie, cf. Gorg. 481c5 e 482c4, Prot. 334c8 e 335a4, Men. 94e3 e 95a2. 369b8-c2 ἀεὶ ... ὁ λόγος ᾖ «tu intrecci sempre dei discorsi di questo genere, e prendendo separatamente il punto più difficile del ragionamento ti ci aggrappi attaccandolo a poco a poco, e non gareggi affrontando nella sua interezza la questione su cui verte il discorso». Per le proteste degli interlocutori contro il metodo di Socrate, un motivo ricorrente nei dialoghi, cf. anche Euthyphr. 11c-d, Gorg. 497b-c e 511a, Men. 79e-80b, Resp. 1.338d e 341d, oltre che infra, 373b4-5; ma si vedano in particolare, per tutto il passo, le proteste di Ippia in Hipp. mai. 301b2 ss. e 304a ss., in part. τὰ μὲν ὅλα τῶν πραγμάτων οὐ σκοπεῖς, οὐδ’ἐκεῖνοι οἷς σὺ εἴωθας διαλέγεσθαι, κρούετε δὲ ἀπολαμβάνοντες τὸ καλὸν καὶ ἕκαστον τῶν ὄντων ἐν τοῖς λόγοις κατατέμνοντες, 301b2-5, dove è tuttavia difficile negare, al di là della polemica contro la brachilogia socratica comune al passo di Hipp. min., la presenza di un lessico che rimanda a questioni ontologiche (τὰ μὲν ὅλα τῶν πραγμάτων, 301b2-3; cf. subito infra, μεγάλα καὶ διανηκῆ σώματα τῆς οὐσίας πεφυκότα, 301b6-7), pace Woodruff (1982) ad loc; cf. Heitsch (2011), 92. Il passo in questione dell’Ippia maggiore è ora incluso nuovamente tra le testimonianze di Ippia da Laks, Most (2016), sulla scorta già di Untersteiner (1948), come testimonianza del pensiero di Ippia (Hipp. mai. 301b + 304a = 36 D C 2 Laks-Most), anche se sarebbe bene usare una certa prudenza dal momento che il lessico metafisico è caratteristico dell’Ippia maggiore nel suo insieme, costituendo proprio uno degli elementi distintivi rispetto agli altri dialoghi aporetici di sicura autenticità: cf. Tarrant (1928), lx-lxviii, con riferimento anche al lessico adoperato in queste battute da Ippia. 369c1 κατὰ σμικρόν «a poco a poco» («little by little», LSJ s.v. μικρός, 4.b). A differenza delle più frequenti espressioni adoperate per descrivere il metodo socratico, quali κατὰ βραχύ vel διὰ βραχέων (cf. e.g. rispettivamente Prot. 329b3-4 e 338a2, Gorg. 449b8; Prot. 336a7, Gorg. 449a1), dove l’aggettivo βραχύς indica la brevità delle domande e delle risposte, il sintagma κατὰ σμικρόν sembra qui riferirsi piuttosto al fatto che le domande di Socrate insistono su questioni minute, soffermandosi su quelli che sono apparente-

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mente dettagli anziché appunto, come gli rimprovera Ippia, considerare il problema nella sua interezza (οὐχ ὅλῳ ... τῷ πράγματι, 369c1-2). Cf. ἐρώτα δὴ σὺ τὰ σμικρά τε καὶ στενὰ ταῦτα, Gorg. 497c1, dove è Callicle a muovere il rimprovero, ricevendo tuttavia da Socrate la scherzosa risposta che, evidentemente, egli dev’essere stato iniziato ai grandi misteri prima che ai piccoli (c3-4). Per l’uso di quest’espressione ad indicare il metodo brachilogico, in contrasto con la macrologia che caratterizza l’epidissi sofistica, cf. comunque μὴ κατὰ σμικρὸν ἔπος πρὸς ἔπος ... ἀλλ’ἐκτείναντα ἀπομηκύνειν λόγον συχνὸν ... οἷον ἐπίδειξιν, Soph. 217d9-e3; κατὰ σμικρὸν ἀποκρινόμενος, Prot. 338e5. Cf. anche κατὰ σμικρὸν μεταβαίνων, Phaedr. 262a2, e μεταβιβάζειν κατὰ σμικρόν, ibid. 262b5-6, detto a proposito della maggiore facilità di ingannare fuorviando poco alla volta, piuttosto che a grandi passi; per la possibilità di vedere nel passo del Fedro un’allusione proprio al metodo socratico, cf. Friedländer (19643), 133; Centrone (1998), n. 182. 369c1 ἀγωνίζῃ «gareggi». Ippia intende la discussione con Socrate come una competizione, secondo la caratteristica maniera degli agoni verbali che è già stata sottolineata all’inizio del dialogo: cf. supra, ἀγωνιούμενος, 364a5, e ἀγωνίζεσθαι, 364a8, e in generale 363c7-d4 e 364a7-9, con note ad locc., per la partecipazione di Ippia alle Olimpiadi. 369c3 ἐπὶ πολλῶν τεκμηρίων ... ἱκανῷ λόγῳ Lett. «ti dimostrerò sulla base di molte prove, con un discorso adeguato». Al metodo socratico Ippia contrappone quello tipico dei sofisti, proponendo una dimostrazione (ἀποδείξω) fondata su numerose prove (ἐπὶ πολλῶν τεκμηρίων) e svolta per mezzo di un adeguato discorso (ἱκανῷ λόγῳ). Quest’ultima espressione va probabilmente intesa in relazione all’esaustività delle prove addotte, cui si è appena fatto riferimento, come nelle traduzioni «esauriente discorso, appoggiato da molti esempi», Calogero (1938), e «by satisfactory argument», Fowler (1926); cf. LSJ s.v. ἱκανός, II.2: «sufficient, satisfactory, “ἱ. μαρτυρίαν παρέχεσθαι”, Pl. Smp. 179b; “ἱ. λόγῳ ἀποδεῖξαι”, Id. Hp.mi. 369c». Altri intendono invece in relazione alla forma, nel senso di un discorso continuo che permetta all’oratore di svolgere compiutamente la propria tesi, come equivalente, in sostanza, a μακρὸς λόγος: «en bonne forme», Croiset (1920); cf. infra, μακρὸν μὲν οὖν λόγον εἰ ’θέλεις λέγειν, 373a2. 369c4 Ὅμηρον Ἀχιλλέα πεποιηκέναι κτλ. «che Omero ha raffigurato Achille migliore di Odisseo ed estraneo alla menzogna, l’altro invece infido e in atto di dire molte menzogne e peggiore di Achille». Ippia esplicita ora il giudizio sottinteso alla valutazione degli eroi proposta fin dall’inizio (364e7 ss.), fornendo una chiara risposta al quesito iniziale, quale dei due eroi omerici fosse da ritenere migliore e per quale motivo (363b7-c1; cf. 364b3-5).

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PRIMA FASE DIALETTICA (365D6-369C8)

L’aggettivo δολερός qui usato per Odisseo copre una gamma semantica più ampia del successivo verbo ψεύδεσθαι (πολλὰ ψευδόμενον), che si limita alla menzogna verbale: δόλος è, in generale, qualsiasi tipo di inganno («any trick or stratagem», LSJ s.v. δόλος); cf. δόλιον καὶ παλίμβολον τὸ ἦθος, schol. ad Od. 1.1 l1 Pontani, rr. 8-9, sul cui rapporto con l’Ippia minore cf. supra, nota ad 364d7-365b6. 369c6 σὺ αὖ ἀντιπαράβαλλε ... παρὰ λόγον «tu contrapponi discorso a discorso». La contrapposizione di discorsi a sostegno di due tesi opposte sullo stesso argomento richiama la pratica sofistica che va sotto il nome di «antilogica», della quale sono esempio i Ragionamenti duplici (Δισσοὶ λόγοι, 90 DK = 41 Laks-Most) e alla quale dovettero appartenere anche le Antilogie e i Καταβάλλοντες λόγοι di Protagora (80 B 1 e B 5 DK = 31 D 3 e R 1 LaksMost); cf. Kerferd (1981), 63-67. Per l’espressione, con l’idea di una contrapposizione agonistica di discorsi di una certa estensione, cf. anche ἀντικατατείναντες ... λόγον παρὰ λόγον, Resp. 1.348a7-8; πρὸς αὐτὸν ἄλλον (scil. λόγον) ἀντιπαρατεῖναι, Phaedr. 257c4. 369c6-7 ὡς ... ἐστί «(per dimostrare) che è migliore l’altro». Socrate, in realtà, non ha sostenuto la superiorità di Odisseo su Achille, bensì la parità dei due eroi (οὐ διάφοροι ... ἀλλ’ὅμοιοι, 369b6-7), e questa sarà sulle prime la sua tesi anche quando si passerà all’esame dei poemi omerici (cf. 370e1-3): è l’atteggiamento agonistico di Ippia che lo porta ad attribuire al suo avversario la tesi opposta alla propria; cf. Blundell (1992), 153. Alla fine della lettura di Omero, comunque, Socrate finirà per affermare effettivamente la superiorità di Odisseo, in un completo ribaltamento delle tesi del suo interlocutore: cf. infra, 371e4-5. 369c6-8 καὶ μᾶλλον ... λέγει «e giudicheranno meglio (lett. sapranno meglio) costoro chi di noi tiene il discorso migliore». Il dimostrativo οὗτοι (369c7), al plurale, rivela chiaramente che assistono alla discussione fra Socrate e Ippia anche altre persone, oltre all’Eudico che compare all’inizio del dialogo, per quanto si debba comunque trattare di un gruppo ristretto: cf. supra, 363a4 e nota ad loc. Nell’Ippia maggiore, il sofista chiede a Socrate di portare con sé altri ascoltatori che siano in grado di giudicare il suo discorso (καὶ ἄλλους ... οἵτινες ἱκανοὶ ἀκούσαντες κρῖναι τὰ λεγόμενα, Hipp. mai. 286c1-2), e in altri dialoghi come il Protagora il pubblico interviene più volte, applaudendo i discorsi dei contendenti (οἱ παρόντες ἀνεθορύβησαν ὡς εὖ λέγοι, Prot. 334c7-8; cf. anche 337c5-6, 339d10-e1).

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LETTURA DI OMERO (369D1-372A5) La sezione centrale del dialogo è dedicata, come nel Protagora (339a-347a), alla lettura e all’esegesi di un testo poetico, che è in questo caso l’Iliade e più in particolare il libro IX, da cui Ippia ha tratto inizialmente i versi che dovrebbero provare la sincerità di Achille e la mendacità di Odisseo (Il. 9.308-314). Anche in questo caso, come nel Protagora, è il sofista a proporre il passaggio ad un terreno a lui più congeniale (369c2 ss.), che egli pone nell’ottica di un confronto agonistico (cf. ἀγωνίζῃ, 369c1; cf. supra, nota ad loc.), in cui si impegna a dimostrare la propria tesi, ovvero la sincerità di Achille e la sua superiorità sul mendace Odisseo, sfidando Socrate a dimostrare la tesi contraria, vale a dire la superiorità di quest’ultimo, secondo il modello della contrapposizione di due discorsi, che spetterà poi al pubblico giudicare (369c6-8; cf. supra, note ad locc.). In realtà, il ritorno al problema omerico era stato compiuto proprio da Socrate, il quale, al termine della prima fase dialettica, ne aveva esteso i risultati al caso di Achille e Odisseo, concludendo che, se mendace e veritiero coincidono, i due eroi dovrebbero essere del tutto simili e pari tra loro (οὐ διάφοροι ἀλλήλων οἱ ἄνδρες οὐδ’ ἐναντίοι, ἀλλ’ὅμοιοι, 369b5-6), ed è alla dimostrazione di questa tesi che Socrate si attiene in un primo momento anche nell’esame del testo omerico, sulla base del quale tenta di dimostrare, con opportune citazioni, che anche Achille è mendace, riprendendo così la provocatoria domanda in cui chiedeva ad Ippia se l’eroe non fosse stato raffigurato anch’egli πολύτροπος da Omero (cf. 364e5-6 e nota ad loc.). Achille, infatti, si rivela bugiardo perché sia nel corso dell’Ambasceria nel libro IX dell’Iliade, rispondendo ad Odisseo, sia in precedenza, nel corso della lite con Agamennone, dichiara di voler lasciare la guerra e fare ritorno a Ftia (Il. 1.169-71; 9.357-63), ma non dà poi alcun seguito concreto alle proprie parole; anzi, si contraddice già nel corso della stessa Ambasceria, comunicando ad Aiace un proposito diverso, ovvero quello di restare finché Ettore non sarà giunto alle navi, facendo strage di Achei (Il. 9.650-55). Ippia tenta di giustificare l’eroe affermando che egli si contraddice involontariamente, perché costretto dalla situazione a rimanere e a prestare soccorso all’esercito (370e) e perché persuaso a cambiare opinione per via della sua bontà d’animo (371d-e). A questo punto, Socrate accoglie la giustificazione, ma solo per contraddire nuovamente il suo interlocutore, concludendo che allora Odisseo, che inganna invece deliberatamente, è superiore ad Achille (ἀμείνων ἄρ’ἐστίν, ὡς ἔοικεν, ὁ Ὀδυσσεὺς Ἀχιλλέως, 371e4-5), con un ribaltamento della posizione iniziale di Apemanto, condivisa da Ippia, che vuole invece Achille migliore di Odisseo (ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Ὀδυσσέως, 364b3-4).

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L’esegesi omerica condotta da Socrate è stata generalmente considerata come una provocazione priva di un significato serio («contraffazione del metodo sofistico», Calogero (1984), 289; «farcical treatment of Homer», Blundell (1992), 154), laddove l’interpretazione di Ippia, che propone una soluzione etico-psicologica del comportamento di Achille, è parsa più rispettosa del testo omerico (Wilamowitz (1919-20), 138; cf. anche Luzzatto (1996), 296 e n. 63). L’analisi di Socrate, tuttavia, coglie un’effettiva contraddizione del personaggio di Achille, che è notata anche negli scolii omerici (cf. Giuliano (1995), 50-53; cf. anche infra, 370e5-371d7 con nota introduttiva); inoltre, anche la provocatoria tesi di un Achille πολύτροπος può trovare un fondo di verità, poiché non è assente nelle parole dell’eroe una forma di scaltrezza, dal momento che la minaccia della partenza, con la sua evidente esagerazione, mira ad alzare la posta in gioco nella contesa con Agamennone: per un’interpretazione di questo tipo, sulla scia dell’Ippia minore, cf. Schmiel (1983/4) e Mitsis (2010). Da un punto di vista formale, la discussione ricalca una struttura per ἀπορήματα e λύσεις, sviluppata in forma dialogica: il primo interlocutore, in questo caso Socrate, individua una difficoltà, che riguarda qui la raffigurazione del personaggio di Achille (una contraddizione: cf. proprio ἐναντία λέγειν, 371a6, con nota ad loc.), mentre il secondo, Ippia, ne fornisce una soluzione di tipo etico-psicologico. Lo stesso schema, a parti inverse, è seguito nel Protagora, dove è il sofista a sostenere che vi sia una contraddizione all’interno del carme di Simonide (339a-d) e Socrate a proporne, invece, una soluzione (341d-347a). Sul carattere tecnico dell’esegesi omerica dell’Ippia minore, cf. Giuliano (1995), 16-17 («Nell’Ippia minore … Platone scopre un’ἀπορία nella composizione omerica e ne fornisce la λύσις»); Luzzatto (1996), 294-96. Sul confronto tra i due personaggi e la risposta che si può desumere nel dialogo, cf. Introduzione, 5. «Il confronto tra Achille e Odisseo».

369d1-370e4 Socrate non mette in dubbio la superiore sapienza di Ippia, e prova ne è proprio il fatto che gli ponga tante domande: è sua abitudine, infatti, essere insistente nell’interrogare coloro che gli sembrano sapienti, nella speranza di apprendere da loro. Gli sembra strano, però, che nei versi che Ippia ha prima citato, nei quali Achille si rivolge a Odisseo mostrando di considerarlo un bugiardo, quest’ultimo, in realtà, non risulti affatto aver mentito, mentre è Achille a rivelarsi scaltro: perlomeno, dice il falso. Subito dopo aver manifestato la propria avversione per chi mente, infatti, l’eroe dichiara di voler partire l’indomani, e lo stesso aveva fatto in precedenza, nel corso della lite con Agamennone; da nessuna parte nel resto

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del poema, tuttavia, lo si vede prepararsi alla partenza. Per questa ragione Socrate ritiene difficile giudicare quale dei due eroi sia migliore, e gli sembra piuttosto che essi siano pari, sia per quel che riguarda la veridicità e la menzogna sia per il resto della virtù. Mentre Ippia aveva citato un unico passo a sostegno del proprio giudizio su Achille e Odisseo (365a1-b2 = Il. 9.308-10 + 312-14), considerandolo esemplificativo del carattere di entrambi gli eroi (cf. 365b3-6), Socrate amplia ora l’analisi all’esame dell’intero episodio delle Λιταί (Iliade IX) e più in generale dell’Iliade nel suo complesso, mettendo in luce quella che è in effetti un’apparente contraddizione nel comportamento di Achille, il quale, in ben due occasioni (Il. 9.357-63, come già prima in Il. 1.169-71), minaccia di fare ritorno a Ftia, senza che poi tale proposito abbia alcun seguito concreto. La tesi di Socrate, secondo cui si tratta di una deliberata menzogna da parte dell’eroe, è evidentemente paradossale e non manca una coloritura ironica nella sua presentazione, come nella notazione che Achille spregia nobilmente il dire la verità (πάνυ γενναίως ὀλιγωρῶν τοῦ τἀληθῆ λέγειν, 370d5-6). L’ovvia soluzione, e cioè che sia appunto una minaccia e non l’espressione di un reale proposito, sorprendentemente non è però presa in considerazione neppure da Ippia, il quale darà un’altra spiegazione prendendo comunque alla lettera la volontà di partire manifestata di Achille (cf. infra, 370e5-9). Una soluzione in questo senso è invece suggerita, nel libro IX dell’Iliade, dal testo omerico stesso, in cui Odisseo riferisce le parole di Achille adoperando il verbo ἀπειλέω, «minacciare»: αὐτὸς δ’ἠπείλησεν ἅμ’ἠοῖ φαινομένηφι / νῆας ἐϋσσέλμους ἅλαδ’ἑλκέμεν ἀμφιελίσσας, Il. 9.682-83 con Hainsworth (1993) ad loc. Per il primo passo, in cui Achille rivolge la minaccia direttamente ad Agamennone, cf. anche schol. b ad Il. 1.169b, dove è notato come l’intento di Achille sia intimidire quest’ultimo (ἐκφοβῶν τὸν βασιλέα τοῦτό φησι). 369d1 ὦ Ἱππία Il vocativo risponde a quello usato da Ippia: sulla posizione enfatica incipitaria, cf. supra, 369b8 e nota ad loc. 369d1-2 ἐγώ τοι οὐκ ἀμφισβητῶ κτλ. «io non contesto affatto che tu sia più sapiente di me...». L’ironico tributo alla sapienza dell’interlocutore, che si è già incontrato all’inizio del dialogo (364a1 ss.; 364b1-3), si ripete ora in un momento di crisi, per indure Ippia a proseguire la discussione. Cf. poi anche infra, 372a6 ss. 369d2 ἐπειδάν ... λέγῃ τι Non semplicemente «quando qualcuno dice qualcosa», ma «dice qualcosa di sensato», «di interessante» (cf. LSJ s.v. λέγω, III.6: «λ. τι say something, i.e. speak to the point or purpose»). 369d3-4 ἄλλως τε καὶ ... ὁ λέγων «soprattutto nel caso in cui chi parla mi sembri essere sapiente». Cf. infra, 372a6 ss. (λιπαρής εἰμι πρὸς τὰς ἐρωτήσεις

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τῶν σοφῶν). Per l’uso di ἄλλως τε καί ad introdurre una subordinata, cf. supra, 363a3-4 e nota ad loc. Il dialogo con Ippia è un esempio dell’interrogazione dei presunti sapienti di cui Socrate parla in Ap. 21b9 ss., raccontando di aver iniziato ad interrogare tutti coloro che avevano fama di essere sapienti per provare il senso dell’oracolo che lo aveva proclamato il più sapiente degli uomini (Ap. 21a5-7); per questo, dice Socrate, egli va alla ricerca di tutti coloro, cittadini e stranieri, che gli sembrano essere sapienti, mostrando poi quando rivelino di non esserlo (περιιὼν ζητῶ καὶ ἐρευνῶ ... καὶ τῶν ἀστῶν καὶ ξένων ἄν τινα οἴωμαι σοφὸν εἶναι· καὶ ἐπειδάν μοι μὴ δοκῇ, ... ἐνδείκνυμαι ὅτι οὐκ ἔστι σοφός, Ap. 23b5-7). Per il richiamo al passo dell’Apologia, cf. Pohlenz (1913), 59-60. 369d4 ἐπιθυμῶν ... ὅτι λέγει «desiderando comprendere ciò che dice», dove μανθάνω significa in questo caso in primo luogo appunto «comprendere», ma ha anche il valore di «apprendere»: cf. supra, 364e4-5 con nota ad loc. Come già all’inizio del dialogo (cf. 364c8 ss., in part. 364c9-d1 e nota ad loc.), Socrate giustifica la propria insistenza nell’interrogare con il desiderio di comprendere ciò che dice il suo interlocutore, tema ricorrente di tutto il brano: cf. infra, ἵνα μάθω, 369d5, e ancora ἵνα μαθών τι ὠφεληθῶ, 369e1-2; cf. poi anche l’inizio del secondo discorso che Socrate terrà per placare il suo interlocutore (372a6 ss.), e in part. 372c2-8 (οὐ γὰρ αἰσχύνομαι μανθάνων ... οὐ γὰρ πώποτε ἔξαρνος ἐγενόμην μαθών τι ... ἀλλ’ἐγκωμιάζω τὸν διδάξαντά με ὡς σοφὸν ὄντα, ἀποφαίνων ἃ ἔμαθον παρ’αὐτοῦ). Cf. Longo (2000), 55-56; per lo stesso tema del desiderio di apprendere dai sapienti, cf. e.g. Euthyphr. 5a3 ss. e 5c4 ss. (μαθητὴς ἐπιθυμῶ γενέσθαι σός, 5c5). 369d4-5 διαπυνθάνομαι καὶ ἐπανασκοπῶ καὶ συμβιβάζω τὰ λεγόμενα «lo interrogo minutamente, riesamino e confronto le cose dette», Cambiano (1970). Per quanto il contesto richieda, in questo caso, un’interpretazione piuttosto generica, è da sottolineare che nei tre verbi si può vedere anche una puntuale descrizione del metodo socratico e delle sue fasi: l’interrogazione iniziale, mediante la quale Socrate si informa dettagliatamente sull’opinione dell’interlocutore (διαπυνθάνομαι, dove il δια- suggerisce l’idea di un’interrogazione sistematica: «I question him thoroughly», Fowler (1926); l’esame successivo, nel corso del quale il problema in questione è indagato «da cima a fondo» (ἐπανασκοπέω); e infine il «mettere insieme» quanto è stato detto (συμβιβάζω), ovvero il momento conclusivo in cui sono messe a confronto le affermazioni via via asserite dall’interlocutore per trarre le conseguenze dell’argomentazione; cf. «rapprocher [des paroles]», des Places (1964), s.v. συμβιβάζειν, 2°.

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Per tutto il brano, cf. la descrizione dell’ἔλεγχος fatta nel Sofista, dove si possono distinguere le stesse tre tappe (interrogazione, esame, confronto) ed è inoltre reso esplicito che tale metodo conduce a mettere in evidenza la contraddittorietà delle opinioni erronee dell’interlocutore: διερωτῶσιν ὧν ἂν οἴηταί τίς τι πέρι λέγειν λέγων μηδέν· εἶθ’ἅτε πλανωμένων τὰς δόξας ῥᾳδίως ἐξετάσουσι, καὶ συνάγοντες δὴ τοῖς λόγοις εἰς ταὐτὸν τιθέασι παρ’ἀλλήλας, τιθέντες δὲ ἐπιδεικνύουσιν αὐτὰς αὐταῖς ἅμα περὶ τῶν αὐτῶν πρὸς τὰ αὐτὰ κατὰ ταὐτὰ ἐναντίας, Soph. 230b4-8. In generale per il passo del Sofista (230a-d) in rapporto al metodo socratico, cf. Goldschmidt (1947), 29-31; Robinson (1953), 12-13; Vlastos (1994), 17-18 («What we get in this retrospective view of Socrates is an authentic, if partial, representation of Socrates»). 369d5 ἵνα μάθω «per comprendere», «per capire». Cf. supra, 369d4 e nota ad loc. 369d5-6 ἐὰν δὲ φαῦλος κτλ. «nel caso in cui, invece, chi parla mi sembri una persona di poco conto...». Benché φαῦλος, detto di persone, possa avere anche una valenza morale (cf. des Places (1964) s.v. φαῦλος, b: «mauvais, méchant», associato a κακός, πονηρός, μοχθηρός, e contrapposto ad ἀγαθός e σπουδαῖος), non è chiaramente questo il caso: φαῦλος si contrappone qui a σοφός nel senso di «dappoco, mediocre», secondo il significato proprio del termine («low in rank, mean, common» dal punto di vista sociale; «inefficient, bad», senza valore necessariamente morale, in altri campi: cf. LSJ s.v. φαῦλος, II e II.b). Per la stessa contrapposizione φαῦλος / σοφός in Platone, cf. e.g. Theaet. 181b3-4 (φαύλους ... πασσόφους ἄνδρας), Lys. 204a6-7 (οὐ φαῦλος ... ἀλλ’ἱκανὸς σοφιστής). Cf. anche infra, 372b2 e nota ad loc. 369d8-e1 εὑρήσεις ... παρ’αὐτοῦ Lett. «troverai infatti che sono insistente sulle cose dette da uno di costoro e che lo interrogo». Da notare il passaggio dal plurale, adoperato nella frase precedente (οὓς ... σοφοὺς, d7-8), al singolare (ὑπὸ τούτου ... παρ’αὐτοῦ), laddove, come nota Calogero (1938) ad loc., «il plurale indica una collettività e il singolare uno dei membri di essa», donde la traduzione che si è qui preferita «uno di costoro». 369d8 λιπαρῆ «insistente» («persisting or persevering in a thing, earnest, indefatigable», LSJ s.v. λιπαρής). L’aggettivo λιπαρής e i termini ad esso correlati λιπαρῶς e λιπαρέω – fuorviante Radice (2003), in cui le occorrenze di λιπαρής sono erroneamente inserite s.v. λιπαρός – sono usati di frequente ad indicare l’insistenza di Socrate nell’interrogare i suoi interlocutori e, più in generale, la sua perseveranza nella ricerca, spesso non senza, come qui, una sfumatura ironica, in relazione al desiderio di esaminare i presunti sapienti: cf. λιπαρῶς ἔχων ἀκούειν τοῦ Προδίκου – πάσσοφος γάρ μοι δοκεῖ ἁνὴρ εἶναι καὶ θεῖος, Prot. 315e6-316a1; ibid. 335b4, Ion 541e6, Crat. 391c2, 413a2 e 413c1, oltre che qui infra, 372b1; cf. anche [Clitoph.] 410b4 e, in

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generale sul tema di «Socrate λιπαρὴς περὶ τὰ λεγόμενα», Giannantoni (2005), 61 n. 63. 369e1-2 ἵνα μαθών τι ὠφεληθῶ «per trarne giovamento, imparando qualcosa». Cf. supra, ἐπιθυμῶν μαθεῖν, 369d4 e nota ad loc. 369e2 ἐπεὶ καὶ νῦν ... ἄτοπόν μοι δοκεῖ κτλ. «mentre tu parlavi, mi è venuto in mente che (...) mi pare sia strano, se tu dici il vero, che...». Il periodo ha una struttura leggermente ridondante, con «una specie di reduplicazione del verbo designante il ‘pensare’, l’‘opinare’ [ἐννενόηκα, 369e2; ἄτοπόν μοι δοκεῖ, 369e4]», Calogero (1938) ad loc. Per il motivo di Socrate cui viene in mente una riflessione mentre il suo interlocutore parla, cf. ἐννενόηκά τι σμῆνος σοφίας, Crat. 401e6, con cui è introdotta l’importante sezione dello «sciame etimologico»; τόδε δέ σου ἐνενόησα ἅμα λέγοντος καὶ πρὸς ἑμαυτὸν σκοπῶ, Euthyphr. 9c1-2. 369e3 ἄρτι «poco fa»: cf. supra, 365a1-b2. 369e3-4 ἐνδεικνύμενος ... ὡς ἀλαζόνα ὄντα «mostrando che Achille si rivolge ad Odisseo come se questi fosse un bugiardo». L’intento di Ippia nel citare i versi di Omero doveva propriamente essere, in origine, soltanto quello di dimostrare la sincerità di Achille, ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος (364d7 ss.), ma la citazione assolveva poi lo scopo di indicare anche la mendacità di Odisseo, presupponendo che Achille, nell’allontanare la menzogna da se stesso, biasimi indirettamente quest’ultimo: su questa interpretazione e la sua legittimità sulla base del testo omerico, cf. supra, 365b4-5 e nota ad loc. 369e4 ἀλαζόνα Lett. «impostore, ciarlatano». Ricorre qui per la prima volta, in riferimento a Odisseo, un termine che, insieme al verbo ἀλαζονεύομαι e al sostantivo ἀλαζονεία, costituisce una parola chiave dell’esegesi omerica di Socrate (cf. infra, πρὸς τῇ ἀλαζονείᾳ, 371a3; ἀλαζονευόμενος, 371a6; τοὺς ἀλαζόνας, 371d2). Benché tali termini siano usati nel brano accanto a ψεύδεσθαι e ψεῦδος (ψεύδεται, 370a2; περὶ ψεύδους, 370e2; ψεύδεσθαι, 371a2-3 e 371d6), apparentemente senza alcuna differenza, l’aggettivo ἀλαζών ha una sfumatura differente, in quanto non significa semplicemente «bugiardo», ma appunto anche «millantatore», «ciarlatano» («charlatan, quack, esp. of Sophists» e «boastful, pretentious», LSJ s.v. ἀλαζών, II), ed è caratteristico termine di denigrazione nel lessico comico, specialmente in Aristofane: cf. e.g. Ach. 87, 109, 135, 605; Eq. 269, 290, 903; Nub. 102, 449, 1492; Av. 1016; Ran. 908-10; MacDowell (1990). Non sarà casuale, quindi, che l’uso di questo e altri termini affini figuri solo in bocca a Socrate ed esclusivamente in questa sezione, che presenta evidenti toni scherzosi: l’aggettivo ψευδής, usato nel corso della precedente argomentazione (cf. 365d6 ss. etc.) e, all’inizio, da Ippia per descrivere Odisseo (cf. 365b5), è anzi ora addirittura evitato da Socrate, un punto che sfugge a

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MacDowell (1990), 291 («In Plato ... it is hard to perceive anything more in the words ἀλαζών and ἀλαζονεία than ‘liar’ and ‘falsehood’. ... In the Lesser Hippias, when Sokrates is discussing with Hippias whether Achilles and Odysseus are ἀληθής or ψευδής, he several times uses ἀλαζών as a synonym for ψευδής»). Nel resto del corpus platonico, l’aggettivo è usato soprattutto come attributo di λόγος, «discorsi mendaci» (οἱ ἀλαζόνες λόγοι, Resp. 8.560c7; cf. ibid., 560c2, Phaed. 92d3-4, Lys. 218d2-3); cf. ancora MacDowell (1990), 291. 369e5-370a1 ὁ μὲν Ὀδυσσεὺς ... ψευσάμενος «da nessuna parte Odisseo risulta mentire», o, attribuendo all’aoristo un pieno valore temporale (per il testo cf. infra, nota seguente), «risulta aver mentito». Come sottolinea Giuliano (1995), 14 n. 11, l’affermazione non si riferisce, naturalmente, alla raffigurazione di Odisseo nei poemi omerici nel loro complesso, come pure intendono alcune traduzioni, per es. «nulle part chez Homère», Croiset (1920) e ora anche Fronterotta (2005), un’affermazione che sarebbe impossibile da sostenere, ma è circoscritta all’episodio richiamato da Ippia (ἐν τοῖς ἔπεσιν οἷς σὺ ἄρτι ἔλεγες, 369e2-3), in relazione al quale Socrate può sostenere questa tesi con una qualche fondatezza, riferendosi, in particolare, al fatto che Odisseo ha riportato fedelmente ad Achille la proposta di riconciliazione di Agamennone (Il. 9.225 ss.), come notato anche dai commentatori moderni: cf. Hainsworth (1993) ad loc. («on this occasion he [i.e. Odysseus] has faithfully conveyed the sense of the Achaean council»); Friedrich (2011), 274 («Yet there is nothing in what Odysseus says or does, before and after the Presbeia, that would give cause for such assumptions [i.e. che Odisseo sia mendace]»); Schmiel (1983/4), 41 («I find nothing that he says to be untrue», a parte il fatto che nel riportare il discorso egli «conveniently omits the angry coda in Agamemnon’s generous offer [158-61]»). 370a1 ψευσάμενος Secondo Vancamp (1996a), 32, la lezione ψευδόμενος di F (contro l’aoristo ψευσάμενος tràdito da TW) si spiega come un facile errore da minuscola, di quelli che dimostrerebbero, appunto, come F non sia direttamente esemplare di traslitterazione, ma presupponga almeno un passaggio intermedio. Ma si può naturalmente pensare anche ad una semplice banalizzazione, anche queste non rare in F, senza ricorrere ad una specifica ragione tipo paleografico. 370a1-2 πολύτροπός τις «un imbroglione». Per il valore dell’uso di τις con aggettivi, cf. LSJ s.v. τις, II.7 («with Adjs. τις combines to express the idea of a Subst. used as predicate»). 370a2 κατὰ τὸν σὸν λόγον Per l’espressione, cf. supra, 365e2 e nota ad loc.

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370a2 ψεύδεται γοῦν «perlomeno, dice il falso». La particella limitativa γοῦν introduce una prova di una precedente affermazione: per l’uso di γοῦν «part proof», cf. Denniston (1954²), 451. 370a3 ἅπερ καὶ σὺ εἶπες ἄρτι Cf. supra, 365a4-b1. 370a4-5 = Il. 9.312-13. Socrate riporta ora solo i due versi centrali del brano citato in precedenza da Ippia (Il. 9.308-10; 312-13 = Hipp. min. 365a1b2), che più chiaramente riassumono il suo atteggiamento di odio, almeno a parole, per la menzogna. 370b1-2 οὔτ’ἀναπεισθείη ... τοῦ Ἀγαμέμνονος «che non si sarebbe lasciato persuadere da Odisseo ed Agamennone». Immediatamente dopo aver pronunciato i versi prima citati da Ippia (Il. 9.312-13), Achille dichiara infatti che né Agamennone né altri greci riusciranno a persuaderlo a tornare in battaglia (οὔτ’ ἔμεγ’ Ἀτρεΐδην Ἀγαμέμνονα πεισέμεν οἴω / οὔτ’ ἄλλους Δαναούς, 315-16), e lo stesso ribadirà anche altre volte nel seguito del discorso (cf. 345 e 386). Alla fine, tuttavia, l’eroe si lascerà almeno in parte persuadere, smentendo così le proprie dichiarazioni, come il prosieguo della discussione metterà in luce: cf. infra, ἀναπεισθείς, 371e1 e nota ad loc. 370b2-3 οὔτε μένοι ... ἐν τῇ Τροίᾳ «e che non sarebbe affatto rimasto a Troia». L’espressione τὸ παράπαν è colloquialismo frequente nei dialoghi dei tre periodi, generalmente all’interno, come qui, di proposizioni negative, in funzione di rafforzativo, donde la scelta dell’italiano «affatto» per la sua valenza idiomatica nelle espressioni «non … affatto», «nient’affatto»: cf. LSJ s.v. παράπαν, 2: «freq. with neg. … not at all»; Ap. 26c3 con De Strycker, Slings (1994) ad loc. 370b4-c3 = Il. 9.357-63. Socrate cita il culmine del discorso di Achille, ovvero il momento in cui l’eroe minaccia la partenza per Ftia (ripetuta anche più avanti, 393 ss.): «Domani, fatti i sacrifici a Zeus e a tutti gli dèi, / ben caricate le navi, dopo averle tratte in mare, / vedrai, se lo vuoi e se ti sta a cuore, / di buon’ora le mie navi navigare sul pescoso Ellesponto, / e in esse uomini desiderosi di remare; / e se il glorioso Ennosigeo concedesse buona navigazione, / nel giro di tre giorni potrei giungere a Ftia dalle ricche zolle». Il periodo, in accordo con la concitazione che esprime, è leggermente anacolutico: i primi due participi (ῥέξας, 357; νηήσας, 358) si riferiscono infatti al soggetto della subordinata ἐπὴν ... προερύσσω (358); Achille passa poi tuttavia a rivolgersi in seconda persona al suo interlocutore (ὄψεαι, 359), per tornare, alla fine del passo, a parlare in prima persona (ἱκοίμην, 363); cf. Hainsworth (1993) ad 357-59. Il testo riportato da Platone diverge solo lievemente da quello della vulgata omerica: cf. infra, 370b6 e nota ad loc.

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370b4 φησί Il verbo è incidentale ed extra metrum, come sempre quando inserito in una citazione; cf. Labarbe (1949), 39. Il soggetto sottinteso non è Achille, come vuole invece Traglia (1949) ad loc. «Il soggetto di questo verbo è, naturalmente, Achille», che è già soggetto di λέγει nell’introduzione della citazione (370b1), ma un soggetto generico quale «il poeta» o più semplicemente «il testo», con un uso quasi impersonale del verbo, come in altri casi in cui non sarebbe possibile sottintendere un soggetto di terza persona singolare: cf. e.g. Ion 538c2, Resp. 3.391b3-4, Leg. 3.681e4; per altri casi dubbi con un soggetto di terza singolare, cf. Ap. 28c8 con de Strycker, Slings (1994) ad loc. 370b6 ὄψεαι, αἴ κ’ἐθέλῃσθα κτλ. (= Il. 9.359). I mss. platonici principali convergono sostanzialmente sulla lezione αἴ κ’(ε) (αἴ κ’ TW : αἴ κε F), laddove la vulgata omerica (cui si accorda il Ven. 189, sul cui comportamento cf. supra, nota ad 365a1-b2, numerus versuum) legge invece ἢν, lezione testimoniata anche dal resto della tradizione indiretta (Porph. In Il., p. 142,4 Schrader; Eustath. In Il. 756,6) ed accolta dagli editori più recenti van Thiel (1996) e West (1998); per αἴ κ’ optavano invece Allen (1920³) e Mazon (1947); cf. anche Chantraine (1942-53), II, 281 ss. Lo stesso verso è ripetuto in Il. 4.353, dove i mss. leggono concordemente ἢν ἐθέλῃσθα, mentre in Il. 8.471 e Od. 24.511, in cui ricorre solo il primo emistichio, è attestata solamente la lezione αἴ κ’, per quanto la variante ἢν sia registrata, per il primo caso, negli scolii (ἐν ἄλλῳ „ἢν ἐθέλῃσθα‟, schol. A ad Il. 8.471). In tutti gli altri casi, ἐθέλῃσθα non è mai legato ad ἤν, ma sempre ad αἴ κ’ (Il. 13.260, 18.457, 19.147; Od. 3.92, 4.322 e 391, 12.49, 20.233). Van der Valk (1964), II, 313-14, osserva però che solo in Il. 9.359 (= Il. 4.353) la congiunzione αἴ κ(εν) ricorrerebbe due volte nello stesso verso e in entrambi i casi in iato, concludendo che la lezione originaria sia in questo caso ἤν, che sarebbe stata introdotta congetturalmente in schol. ad Il. 8.471, laddove il testo di Platone deriverebbe da un errore di memoria, causato dall’ αἴ κεν immediatamente successivo (ibid., 314); cf. anche Lohse (1965), 257, secondo il quale si tratterebbe di un’alterazione volontaria da parte di Platone per la ragione stilistica di ottenere un parallelismo con l’emistichio seguente. La genuinità della lezione αἴ κ’ è invece difesa da Labarbe (1949), 67-70, secondo il quale la variante ἤν, originata da ragioni fonetiche per la difficoltà della pronuncia della sequenza ὄψεαι αἴ κ’, deriva dalla tradizione rapsodica orale. Sul problema cf. anche Rengakos (1993), 130-31, che mostra come l’antichità delle due lezioni sia confermata da Apollonio Rodio, che le testimonia entrambe (ἤν, nella forma mista ἤν κ’ attestata anche da alcuni mss. di Omero, in Apoll. Rh. 3.304, ἤν κ’ἐθέλῃσθα; αἴ κ’ in 1.706, αἴ κ’ἐθέλωσι).

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370c3 ἤματί κεν ... ἱκοίμην «nel giro di tre giorni potrei giungere a Ftia dalle ricche zolle». Lo stesso verso (Il. 9.363) è citato anche in Crit. 44b2, con la modifica tuttavia del verbo dalla prima alla seconda persona singolare ἵκοιο, mediante la quale Platone trasforma il verso in profezia dell’imminente morte di Socrate, pronunciata da una figura femminile apparsa in un sogno: ἐδόκει τίς μοι γυνὴ προσελθοῦσα καλὴ καὶ εὐειδής, λευκὰ ἱμάτια ἔχουσα, καλέσαι με καὶ εἰπεῖν· ὦ Σώκρατες, ἤματί κεν τριτάτῳ Φθίην ἐρίβωλον ἵκοιο, Crit. 44a10-b2 con Burnet (1924) ad loc. Sul significato della citazione nel Critone, che così alterata potrebbe sottintendere una velata critica al personaggio di Achille, il quale, nel verso in questione, esprime in realtà il proposito contrario alla decisione di morire scelta invece da Socrate, cf. Hobbs (2000), 186. 370c4 πρὸς τὸν Ἀγαμέμνονα λοιδορούμενος εἶπεν Probabilmente, come osserva Berger (2012) ad loc., «disse ad Agamennone, oltraggiandolo», piuttosto che «disse, oltraggiando Agamennone», come invece generalmente inteso nelle traduzioni: «when he was reviling Agamemnon», Fowler (1926); «quand il injuriait Agamemnon», Croiset (1920); «oltraggiando Agamennone», Cambiano (1970); «ingiuriando Agamennone», Centrone, Petrucci (2012); «im Streit mit Agamemnon», Pinjuh (2014); il complemento πρὸς τὸν Ἀγαμέμνονα si dovrebbe dunque legare ad εἶπεν e non a λοιδορούμενος. Il verbo λοιδορέω, infatti, che all’attivo regge l’accusativo, al medio regge generalmente il dativo semplice, unico costrutto effettivamente adoperato da Platone (Phaedr. 257d4, Charm. 154a2, Resp. 1.329e8, 3.395d7 e 6.500b3), mentre non si troverebbe altrove con πρός + acc.: cf. LSJ s.v. λοιδορέω, II, dove come unico esempio della reggenza πρός τινα è dato un passo molto tardo, ἐλοιδορεῖτο ὁ λαὸς πρὸς Μωυσῆν λέγοντες, Septuag. Ex. 17.2.1, in cui peraltro non si può escludere che πρὸς Μωυσῆν sia retto invece da λέγοντες, o comunque si spieghi con una reggenza ἀπὸ κοινοῦ. Per il normale πρὸς ... εἶπεν, cf. invece subito infra, εἰπὼν ... πρὸς τοὺς ἑαυτοῦ ἑταίρους, 370d2-3, con preciso parallelismo rispetto a questo passo. Il riferimento è, naturalmente, alla lite nel I libro dell’Iliade, da cui sono tratti i versi citati (cf. infra, nota seguente). Il discorso, di poco successivo, in cui Achille sfoga la sua ira ingiuriando Agamennone (Il. 1.225 ss.) sarà condannato da Platone in Resp. 3.389e12-390a2 come esempio di νεανιεύματα ἰδιωτῶν εἰς ἄρχοντας (390a2). 370c6-d1 = Il. 1.169-71. I versi citati da Socrate chiudono il secondo dei tre discorsi che Achille rivolge ad Agamennone in Iliade 1.149-71. Anche questo, come quello di Il. 9.308 ss., culmina nella minaccia della partenza: «Ora me ne vado a Ftia, poiché è molto meglio / tornare in patria con le navi ricurve, e non intendo, / restando qui privo di onore, accumulare per te beni e ricchezze», dove ὀΐω (lett. «credo che...», qui reso con «intendo»)

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comporta «the idea of personal prediction (amounting sometimes, as here, almost to intention)»: cf. Kirk (1985) ad loc., oltre che infra, nota ad loc., per l’interpretazione del verso. Il testo platonico presenta una sola variante rispetto alla vulgata omerica, per cui cf. nota seguente. 370c6 λώϊόν Il testo offerto da Platone reca in maniera sostanzialmente concorde la lezione λώϊον, divergendo da quello della vulgata omerica, che ha invece φέρτερον. Secondo Labarbe (1949), 71-79, si tratta di una variante formulare antica (cf., nel primo emistichio, ἦ πολὺ λώϊόν ἐστι, Il. 1.229; come qui, invece, nel secondo, τόδε λώϊόν ἐστι, Od. 2.169; cf. anche ἐπεὶ πολὺ λώϊον οὕτω, Hes. Op. 433), più rara rispetto a quella del tipo ἐπεὶ ἦ πολὺ φέρτερ(ος) (εἶναι), ma in questo caso, secondo Labarbe, più adatta al contesto, in quanto φέρτερόν ἐστι indicherebbe un’opzione in sé non positiva, ma nonostante tutto preferibile (cf. Od. 12.109 e 20.154), laddove λώϊόν ἐστι implicherebbe invece l’idea che l’opzione sia in sé vantaggiosa. Contra, cf. tuttavia van der Valk (1964), II, 312-313, secondo il quale la lezione λώϊον è invece inappropriata perché di stile più basso, come mostrano le altre occorrenze del termine (in bocca a Paride, Il. 6.339; ai Proci, Od. 2.169; e negli Erga esiodei, cit. supra), connotazione che si giustifica invece nel successivo discorso di Achille (ἦ πολὺ λώϊόν ἐστι κατὰ στρατὸν εὐρὺν Ἀχαιῶν / δῶρ’ἀποαιρεῖσθαι, Il. 1.229 ss.), in cui l’eroe ha ormai perso il controllo e si rivolge in maniera ingiuriosa ad Agamennone. Potrebbe ugualmente trattarsi, in tal caso, di una variante formulare antica, ma non si può escludere una semplice confusione con il secondo passo (Il. 1.229 ss.), e quindi un errore di memoria da parte di Platone: cf. Lohse (1965), 259-60. 370c7-d1 οὐδέ σ’ὀΐω ... ἀφύξειν «e non intendo, / restando qui privo di onore, accumulare per te beni e ricchezze» (= Il. 170-71). La traduzione qui proposta presuppone, come in genere nelle traduzioni e nei commenti moderni, σ’ = σοι, dativo di vantaggio riferito ad Agamennone, e così intende anche schol. T ad Il. 1.170 (οὐδὲ σοι τὸ τέλειον). Da notare tuttavia che in un altro scolio σ’ è invece inteso come forma elisa di σε, che sarebbe allora soggetto dell’infinitiva: «non credo che tu (scil. Agamennone) accumulerai beni e ricchezze» (οὐχ ὑπολαμβάνω δέ σέ φησιν ἐμοῦ ἀπόντος καταστρέψαι τὴν Ἴλιον καὶ πλοῦτον πολὺν σχεῖν, schol. A ad Il. 1.169-70), interpretazione tuttavia difficile da sostenere sul piano grammaticale, in quanto il soggetto è ancora Achille, al quale si riferisce il participio al nominativo (ἐνθάδ’ἄτιμος ἐὼν). 370d2-3 τοτὲ μὲν ... τοτὲ δὲ «una volta ... l’altra». Chiasticamente, il primo membro si riferisce alla seconda delle due citazioni, il secondo alla prima. 370d2 ἐναντίον τῆς στρατιᾶς ἁπάσης «davanti all’esercito intero». La lite fra Achille e Agamennone si svolge infatti nel corso dell’assemblea dell’e-

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sercito greco, chiamato in adunanza da Achille (ἀγορήνδε καλέσσατο λαὸν Ἀχιλλεύς, Il. 1.54). 370d3 πρὸς τοὺς ἑαυτοῦ ἑταίρους «rivolto ai suoi compagni». Gli ambasciatori sono all’inizio salutati da Achille con l’appellativo di φίλοι, e indicati come gli eroi a lui più cari (χαίρετον· ἦ φίλοι ἄνδρες ἱκάνετον· ἦ τι μάλα χρεώ, / οἵ μοι σκυζομένῳ περ Ἀχαιῶν φίλτατοι, Il. 9.197-8; οἱ γὰρ φίλτατοι ἄνδρες ἐμῷ ὑπέασι μελάθρῳ, 204), anche se non è del tutto chiaro a chi si riferisca tale qualifica: quello dell’uso dei duali in questi versi è infatti, come noto, uno spinoso problema, e c’è anche chi ha ipotizzato, come Nagy (1979), 49-53, che Achille voglia in tal modo escludere dal saluto un terzo ambasciatore, nella fattispecie Odisseo, in ragione di un particolare astio nei suoi confronti. Per obiezioni a questa interpretazione cf. tuttavia Griffin (1995), 51-53, con ulteriore bibliografia, e ora anche Friedrich (2011), 272 e 276 ss. 370d3 οὐδαμοῦ φαίνεται κτλ. Lett. «da nessuna parte egli appare...», i.e. «da nessuna parte risulta che egli...». Socrate individua quindi un’incoerenza tra le parole e le azioni di Achille, che non dà alcun seguito concreto alle proprie dichiarazioni. Per l’avverbio di luogo (οὐδαμοῦ) in riferimento ai loci di un testo, cf. supra, πολλαχοῦ, 365c2 e nota ad loc. 370d3-4 οὔτε παρασκευασάμενος ... τὰς ναῦς «(risulta) né che abbia fatto dei preparativi né che abbia tentato di trarre in mare le navi». È qui offerta una precisa parafrasi di quanto detto da Achille all’inizio del primo dei due discorsi citati da Socrate (Il. 9.357 ss.): καθέλκειν τὰς ναῦς è infatti espressione tecnica per indicare l’azione con cui le navi, che si trovavano in secca sulla spiaggia, venivano tratte nuovamente in mare per la navigazione («draw to the sea, launch», LSJ s.v. καθέλκω, 1; lat. deducere naves), e corrisponde alla formulazione poetica προερύσσαι νῆας ἅλαδε (ἐπὴν ἅλαδε προερύσσω, Il. 9.358), glossando il raro verbo προερύω, attestato solo in Omero (Il. 1.308 e 435, Od. 9.73 e 15.497; cf. Hesych. π 3427, προέρυσσεν· καθείλκυσεν). Il verbo παρασκευάζω, che indica genericamente i preparativi («prepare oneself, make preparations», LSJ s.v. παρασκευάζω B.II), comprende invece probabilmente tanto i sacrifici agli dei da effettuare prima della partenza, di cui Achille parla nel verso precedente (ἱρὰ Διὶ ῥέξας καὶ πᾶσι θεοῖσιν, Il. 9.357), quanto l’atto di caricare le navi (νηήσας ... νῆας, 358), dove il verbo νηέω ha appunto il significato più ristretto di «riempire, caricare» («pile, load», LSJ s.v. νηέω, II) ed è anch’esso, come il precedente προερύσσω, un termine appartenente alla lingua omerica (in questa accezione, cf. anche Il. 9.137 e 279; cf. σωρεύσας, ἤτοι φορτίσας, Eustath. In Il. 2.729,2 van der Valk). 370d5-6 πάνυ γενναίως ὀλιγωρῶν scil. φαίνεται. Lett. «(dimostra) di spregiare proprio nobilmente...». L’osservazione è, naturalmente, ironica. Cf.

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invece Ap. 28b9 ss., dove si descrive in termini analoghi, ma in modo del tutto serio, il disprezzo di Achille per la morte ed il pericolo, che è preso a modello da Socrate stesso (τοῦ μὲν θανάτου καὶ τοῦ κινδύνου ὠλιγώρησε, scil. ὁ τῆς Θέτιδος ὑός, Ap. 28c9). Sul significato del richiamo al modello eroico di Achille nell’Apologia, cf. in generale Hobbs (2000), 178-86. 370d6-7 ἐξ ἀρχῆς ... ἀπορῶν «fin dall’inizio ... ti interrogavo perché ero in dubbio», lett. «essendo in difficoltà». Cf. supra, 363b5 ss. Nel Protagora, Socrate tenta di placare l’irritazione del proprio interlocutore sostenendo di dialogare con l’intento di esaminare solo le questioni a proposito delle quali è egli stesso in difficoltà (ἃ αὐτὸς ἀπορῶ ἑκάστοτε, ταῦτα διασκέψασθαι, Prot. 348c6-7); su questa strategia socratica, cf. Giannantoni (2005), 131. Il verbo ἀπορέω, che ricorre solo qui nel dialogo, è, insieme al sostantivo correlato ἀπορία e all’aggettivo ἄπορος, un termine chiave dei primi dialoghi platonici: cf. Charm. 167b7, 169c3 e d1; Lach. 194c3-5, 196b2 e 200e5; Lys. 207a7, 216c5-6, 223b2; Euthyd. 275d6, 292e6, 293a1 e b2, 301a2, b1, b3 e c1, 302b6, 306d3; Prot. 324d2, 324e1-2, 326e3; Gorg. 462b4, 522a1 e b7; Men. 72a6, 75c6, 78e5 ed e7, 80a1-2, 80a4, c8, c9 e d1, 84a7, b1, b6, c5 e c10; Hipp. mai. 286c5 e d2, 289d3, 297d11, 298c6, 304c2 e c3; cf. Opsomer (2001). 370e1-4 ἀμφοτέρω ... παραπλησίω ἐστόν «ritenendo che fossero entrambi eccellenti e che fosse difficile giudicare quale dei due fosse migliore, sia per quel che riguarda menzogna e veridicità sia per il resto della virtù: anche sotto questo aspetto, infatti, sono entrambi allo stesso livello». Questa è, effettivamente, la risposta corretta dal punto di vista omerico, in cui non è mai affermata la superiorità di uno dei due eroi sull’altro, ma piuttosto la loro parità (cf. supra, 363b3-4 e nota ad loc.). Al contempo, Socrate fornisce la sua reale opinione a proposito dei due eroi, da intendersi in maniera ironica: Achille e Odisseo sono effettivamente, dal suo punto di vista, sullo stesso livello, ma ciò significa solo che entrambi sono parimenti privi della vera virtù, intesa come conoscenza morale del bene e del male. Per un’interpretazione in questo senso, cf. Blundell (1992), 162 («This passage exemplifies what Vlastos calls ‘complex irony’»).

370e5-371d7 Secondo Ippia, tra le menzogne dei due eroi esiste una differenza, in quanto Achille dice il falso senza volere, costretto dal corso degli eventi a rimanere e far ritorno in battaglia, mentre Odisseo, quando mente, lo fa di proposito. Socrate però ribatte mostrando come Achille si sia contraddetto già nello stesso episodio dell’ambasceria: poco dopo aver manifestato ad Odisseo il proposito di partire,

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infatti, ad Aiace dice il contrario, preannunciando che sarebbe rientrato in battaglia quando Ettore fosse giunto all’accampamento dei Mirmidoni. Quale ragione si può trovare per questa contraddizione, insinua Socrate, se non che Achille mente sfrontatamente e pensa di poter imbrogliare Odisseo? Prosegue la provocatoria lettura di Omero da parte di Socrate, che assume ora toni apertamente scherzosi (cf. 371a2-7 e 371c6-d7 con note ad locc.). L’osservazione di fondo è tuttavia esatta, e smentisce la giustificazione addotta da Ippia, mostrando che Achille si contraddice (cf. ἐναντία λέγειν, 371a7) all’interno dello stesso episodio dell’Ambasceria, dal momento che, in un discorso successivo a quello prima citato, risulta aver già abbandonato il proposito di partire (Il. 9.650-55). La stessa contraddizione, come sottolinea Giuliano (1995), 51, è rilevata anche negli scolii omerici (ὅρα δὲ ὡς πρὸς μὲν Ὀδυσσέα ἀπιέναι φησίν [scil. Il. 9.356-63], πρὸς Φοίνικα δὲ μένειν [cf. Il. 9.618-19], μὴ μέντοι πολεμήσειν, πρὸς Αἴαντα δὲ πολεμήσειν [scil. Il. 9.650-55], ἀλλ’ὅταν ἀνάγκη καλῇ, schol. AbT ad Il. 9.309c Erbse), nei quali è offerta poi una soluzione di tipo psicologico analoga a quella che sarà alla fine proposta anche da Ippia (cf. 371e1-2 e note ad loc.), incentrata sull’effetto che i discorsi degli ambasciatori hanno sortito su Achille: πρὸς μὲν Ὀδυσσέα ἀποπλεύσεσθαί φησιν (ἔτι γὰρ αὐτὸν σφόδρα ἡ ὀργὴ ἐξέμαινε), πρὸς δὲ Φοίνικα ἤδη πραϋνόμενος σκέψασθαι περὶ τοῦ μένειν, τὸν δὲ Αἴαντα αἰδεσθεὶς τότε ἐπαμυνεῖν, ἡνίκα ἂν πλησίον γένωνται οἱ πολέμιοι, schol. bT ad Il. 9.651-52 Erbse; cf. anche [Plut.] De Hom. 2.169, 9-11. In generale sulle caratteristiche dei oratori che intervengono nell’episodio cf. Dentice (2012), 168-202, e in part. 202 n. 109 per la progressiva persuasione di Achille per effetto dei loro discorsi. Platone omette tuttavia il discorso di Fenice, punto cruciale del canto e decisivo per il mutamento dei propositi di Achille: cf. infra, 371b4-5 e nota ad loc. 370e6 ἐξ ἐπιβουλῆς «di proposito». Il nesso non significa soltanto «intenzionalmente» (opposto ad ἄκων, 370e7), ma più specificamente «con intento insidioso», come rende Calogero (1938) ad loc., «con dolo». L’espressione è usata nel linguaggio giuridico ad indicare l’intenzionalità, la premeditazione di un crimine: cf. e.g. ἀποδείξω ἐξ ἐ. καὶ προβουλῆς τὴν τούτων μητέρα φονέα οὖσαν τοῦ ἡμετέρου πατρός, Antiph. 1.3.2, cf. anche 2.1.5.2, 5.25.8; Demosth. Or. 38.3.2 (μετ’ἐπιβουλῆς); Thuc. 8.92.2, Xen. An. 6.4.7.4; per la stessa valenza giuridica nel corpus platonico, cf. Leg. 9.867a4 e d1 (μετ’ἐπιβουλῆς). 370e7-8 διὰ τὴν συμφορὰν ... βοηθῆσαι «costretto per via della disperata situazione dell’esercito a rimanere e prestare soccorso». Ippia prende dunque alla lettera l’intento di partire da parte di Achille, senza rilevare che si tratta di una minaccia (cf. supra, nota ad 369d1-370e4). Non si fa inoltre ac-

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cenno alla ragione fondamentale della decisione dell’eroe di far ritorno in battaglia, ovvero, naturalmente, la morte di Patroclo, tragica ed imprevista conseguenza del suo ritiro che lo conduce a pentirsi della scelta precedente (Il. 18.98 ss.). In questo modo, si noti che la giustificazione viene a coincidere esattamente con il piano preannunciato invece da Achille stesso in Il. 9.650-55, rendendo facile la smentita da parte di Socrate: cf. infra, 371b8c5. 370e10-11 ἐξαπατᾷς με ... μιμῇ «Mi inganni ... e tu stesso imiti Odisseo». L’accusa di ingannare, rivolta da Socrate, è un motivo frequente nei primi dialoghi platonici, dove introduce ironicamente quella che è in realtà una critica all’interlocutore, di cui viene smascherata un’inconsapevole incoerenza: cf. μὴ παίζῃς πρός με καὶ ἑκὼν ἐξαπατᾷς, Hipp. mai. 300d3; Gorg. 452a4 e 499c1-2, Ion 541e4; cf. anche [Hipparch.] 225d5, 228a6, a9, 229b1, b2, e1, e5. 370e10 ὦ φίλτατε Ἱππία «carissimo Ippia». Il vocativo affettuoso suona qui ironico. Esso figura altrove, nel corpus platonico, anche in Crat. 434e4 e in Symp. 173e1 (in questo secondo caso con sfumatura quasi sarcastica, nel contesto di uno scambio polemico), solo qui tuttavia in bocca a Socrate. Cf. Halliwell (1995), 90 n. 5, il quale rimanda anche a Xen. Ap. 28 per un uso analogo dello stesso vocativo. 371a1 λέγεις δὴ τί καὶ πρὸς τί; «Che cosa intendi e in riferimento a che cosa?». 371a2 ὅτι οὐκ ἐξ ἐπιβουλῆς φῂς κτλ. «Per il fatto che tu dici che Achille non mente di proposito...». 371a3 γόης καὶ ἐπίβουλος «imbroglione e impostore». Il γόης è alla lettera «lo stregone», definizione che Platone usa altrove specialmente per la figura del sofista (cf. τῶν γοήτων ἐστί τις, Soph. 235a1; cf. 235a8 e 241b7) ed è immagine che si incontra anche altrove ad indicare l’oratore, con allusione al potere di fascinazione della retorica visto in maniera dispregiativa come stregoneria: cf. δεινὸν καὶ γόητα καὶ σοφιστήν, Demosth. Or. 18.276.4 con Yunis (2001) ad loc.; cf. anche ῥήτωρ ἢ σοφιστὴς ἢ γόης, ibid. 29.3.2. L’agg. ἐπίβουλος significa invece soltanto «insidioso» («treacherous», LSJ s.v. ἐπίβουλος), e, al di fuori del corpus platonico, è attestato solo in Senofonte e nell’oratoria (Xen. Mem. 3.1.6.7 e Cyropaed. 1.6.27.4; [Demosth.] Or. 39.34.2 e 43.1; Aeschin. 2.54.5); cf. anche supra, ἐξ ἐπιβουλῆς, 370e6 e nota ad loc. 371a3 πρὸς τῇ ἀλαζονείᾳ «oltre al parlare a vuoto», dove il dativo è correzione del Bekker (τὴν ἀλαζονείαν codd.). I due termini γόης καὶ ἐπίβουλος indicano evidentemente un qualcosa in più rispetto alla semplice ἀλαζονεία (cf. LSJ s.v. πρός, B.III: «[with dat.] to express union or addition ... in addition to»), aggiungendo all’idea del «parlare a vuoto» quella

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dell’abitudine all’inganno deliberato: «oltre alla sua bugiarda iattanza, anche così ciarlatano ed imbroglione», Calogero (1938); «lui qui non seulement affirme à la légère, mai qui est représenté par Homère comme un vrai charlatan et un trompeur intentionnel», Croiset (1920); «not only a deceiver, but ... also such a cheat and plotter», Fowler (1926). Per l’uso di ἀλαζονεία e altri termini affini nel corso dell’esegesi omerica di Socrate, cf. supra, nota ad 369e4. 371a4-7 ὥστε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως ... καὶ ἐλάνθανεν τὸν Ὀδυσσέα «a tal punto … che si rivela essere così più furbo di Odisseo, quanto allo sfuggirgli facilmente con le sue menzogne, da osare contraddirsi dinnanzi a lui, e sfuggì effettivamente all’attenzione di Odisseo». Il periodo è piuttosto faticoso, con una successione di due proposizioni consecutive (ὥστε ... φαίνεται, 371a4-6; ὥστε ... ἐτόλμα, 371a6-7) che sottolinea il culmine della paradossale tesi di Socrate: Achille sembra superiore nell’imbrogliare allo stesso Odisseo, dal momento che arriva a contraddirsi al suo cospetto, sicuro, evidentemente, che l’altro non se ne sarebbe accorto. Cosa che, in effetti, puntualmente avviene: per quest’ultima allusione (καὶ ἐλάνθανεν τὸν Ὀδυσσέα, 371a7), cf. infra, 371a7-b1 e nota ad loc. 371a5 φρονεῖν πλέον «essere più furbo». Il regolare comparativo di μέγα φρονεῖν è, propriamente, μεῖζον φρονεῖν (cf. LSJ s.v. φρονέω, II.2.b), ma per la stessa forma con πλέον cf. anche Soph. Phil. 818 e Xen. Anab. 6.3.18. 371a6 ἀλαζονευόμενος Per l’uso del verbo ἀλαζονεύω e altri termini affini nel corso dell’esegesi omerica di Socrate, cf. supra, nota ad 369e4. 371a7 ἐναντία λέγειν «contraddirsi». La discussione prende quasi esplicitamente la forma di una tipologia classica di aporia, la contraddizione (τὰ δ’ὑπεναντίως εἰρημένα, Aristot. Poet. 1461b15-16); cf. Gudeman (1927), col. 2517; sul carattere tecnico di questo passo, cf. Giuliano (1995), 16-17, e Luzzatto (1996), 296. In questo caso, si tratterebbe della contraddizione tra due diverse affermazioni enunciate da uno stesso personaggio: per la stessa terminologia, cf. anche ἐναντία λέγει αὐτὸς αὑτῷ ὁ ποιητής, Prot. 339b8-9 (cf. anche 340b4 e c8); αὐτὸς αὐτῷ πάλιν περὶ τῶν αὐτῶν τἀναντία λέγει, Men. 96a3-4. Quello dell’ἐναντία λέγειν è comunque motivo frequente in contesti elenctici, e quindi soprattutto nelle prime opere di Platone: cf. e.g. Ap. 27a4-5, Lach. 196b4, Gorg. 482c1-2, 483a1-2, 487b4 etc.; cf. anche Soph. 238d6-7 e 241e5. 371a7-b1 οὐδὲν γοῦν ... ὁ Ὀδυσσεύς «Odisseo, perlomeno, non risulta avergli detto nulla con l’aria di essersi accorto che egli mentiva». Per l’uso di γοῦν, cf. supra, 370a2 e nota ad loc. L’osservazione è esatta, in quanto Οdisseo non interviene più nel seguito dell’episodio, e, al momento di riferire l’esito dell’ambasceria ad Agamennone e agli altri capi achei (Il. 9.677 ss.), riporterà unicamente la prima risposta ottenuta da Achille (Il. 9.308

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ss.), annunciando che questi non intende dismettere l’ira, ma minaccia, al contrario, di partire, senza apparentemente rilevare il successivo mutamento di opinione. Quest’ultimo punto era discusso già dalla critica antica (schol. bT ad Il. 9.682-3 Erbse; Porph. Hom. Quaest. in Il., p. 141, 18 ss. Schrader), nella quale si pone il problema di un’accusa di falsa ambasceria ad Odisseo (παραπρεσβεία, Porph. Hom. Quaest. in Il., p. 141, 30, un’aporia che veniva risolta con il fatto che l’eroe riporta solo quanto Achille ha detto direttamente a lui stesso e che, comunque, presentando le parole di Achille come minaccia mostra di aver inteso anche le risposte date a Fenice e ad Aiace (cf. Il. 9.682, ἀπείλησεν, e su questo punto cf. supra, nota introduttiva ad 369d1-370e4). Per l’interpretazione in questo senso dell’allusione presente nel dialogo, cf. Giuliano (1995), 18 e 52. 371b3 λέγων ὕστερον ἢ ὡς κτλ. Lett. «parlando in un momento posteriore a quando...», quindi, più semplicemente, «dopo aver detto». 371b4 ἅμα τῇ ἠοῖ «al sorgere dell’alba». È qui scelta da Platone, in luogo dell’attico ἕως, la forma omerica ἠώς, che è hapax platonico; per la normale forma ἕως, cf. invece Symp. 220d3, Leg. 6.760d2, 7.807e1 e 811c7; cf. Ast, Lexicon, s.v.; si segnala che in Radice (2003) le occorrenze del sostantivo ἕως sono riportate senza distinzione insieme a quella della congiunzione. L’indicazione richiama non tanto il passo che Socrate ha prima citato, dove Achille dice di voler partire l’indomani di buon’ora (Il. 9.357 ss.; cf. αὔριον, 357, ed ἦρι μάλ’, 360), quanto piuttosto la successiva replica a Fenice (Il. 9.607 ss.), omessa da Platone (cf. infra, nota seguente), dove ricorre proprio quest’espressione (ἅμα δ’ἠοῖ φαινομένηφι, 618), che sarà poi ripresa anche da Odisseo al momento di riferire la risposta dell’eroe, con una sovrapposizione dei due passi (αὐτὸς δ’ἠπείλησεν ἅμ’ἠοῖ φαινομένηφι / νῆας ἐϋσσέλμους ἅλαδ’ἑλκέμεν ἀμφιελίσσας, 682-3). 371b4-5 πρὸς τὸν Αἴαντα ... λέγει Lett. «ad Aiace non dice di nuovo che sarebbe salpato, ma dice altre cose». Forse per rendere più netto il contrasto, Socrate passa direttamente all’ultimo discorso di Achille, in replica ad Aiace, nel quale il proposito di partire appare definitivamente abbandonato, tralasciando del tutto il secondo discorso, quello pronunciato da Fenice (Il. 9.434 ss.), che è citato invece in altri dialoghi (Resp. 2.364d7-e2, 365e2-4 e 3.390e5-8, Leg. 10.906e1-2; cf. supra, nota ad 364e8), e che costituisce il vero e proprio culmine dell’episodio, in quanto porta già Achille ad un primo segno di ravvedimento, inducendolo a mitigare la minaccia dell’immediata partenza per passare alla proposta di decidere insieme se partire o meno (φρασσόμεθ’ἤ κε νεώμεθ’ἐφ’ἡμέτερ’ἤ κε μένωμεν, 619). Sul valore persuasivo dell’intervento di Fenice, cf. Dentice (2012), 187-98; la sua omissione da parte di Platone è evidenziata da Giuliano (1995), 17. Cf. anche supra, nota introduttiva ad 370e5-371d7.

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371b6 ποῦ δή; Per l’avverbio di luogo in riferimento a un testo, cf. supra, πολλαχοῦ, 365c2 e nota ad loc. 371b8-c5 = Il. 9.650-55. Si tratta delle ultime parole pronunciate da Achille nell’episodio dell’ambasceria: «Non mi darò pensiero della guerra cruenta / prima che il figlio del saggio Priamo, Ettore glorioso, / sia giunto alle tende e alle navi dei Mirmidoni / facendo strage degli Argivi, e abbia dato fuoco alle navi: / davanti alla mia tenda e alla nera nave / penso che Ettore si fermerà, benché bramoso di battaglia». Il discorso di Aiace (Il. 9.624 ss.) ha colpito nel segno, come Achille stesso ammette (644 ss.), ma il ricordo dell’offesa è ancora troppo cocente e gli impedisce, per il momento, di acconsentire a far ritorno in battaglia. L’eroe abbandona comunque la sua risposta iniziale, indicando un nuovo messaggio (ἀγγελίην, 649) che gli ambasciatori dovranno riferire agli achei, costituito dai versi ora citati da Socrate, nei quali non si accenna più all’eventualità della partenza. Sull’efficacia dell’intervento di Aiace, l’oratore a cui è affidata la conclusione dell’ambasceria e che riesce ad ottenere di più da Achille, cf. Dentice (2012), 198-202. Per le varianti che il testo platonico offre rispetto alla vulgata omerica cf. infra, note seguenti. 371b8 μεδήσομαι (Il. 9.650) I mss. più autorevoli (TW) conservano l’esatta lezione μεδήσομαι, laddove la variante μελήσομαι di F, che non altera il significato del verso, è probabilmente uno degli errori da maiuscola non rari in questo ms., per cui cf. Vancamp (1996a), 31, e Vancamp (1996b), 37-38, o forse una semplice banalizzazione, mentre la lezione μεθήσομαι del Par. 1811 è spiegabile come un errore dovuto ad una pronuncia erronea del δ, che finisce con l’attribuire al verso un significato del tutto opposto a quello richiesto («non abbandonerò la guerra»): cf. Labarbe (1949), 80; così anche Lohse (1965), 261. 371c3 κατά τε φλέξαι (Il. 9.653) La lezione qui offerta dai mss. platonici (con la consueta eccezione del Ven. 189, su cui cf. supra, nota ad 365a1-b2, numerus versuum) è una semplice banalizzazione del più raro verbo κατασμύχω, confermato anche dalla tradizione indiretta (Et. Gud. 266,47; Eust. 780,61), che ha in Omero una sola attestazione oltre a questo passo, nella forma semplice σμύχω (Il. 22.411). Si tratta comunque di una variante antica, testimoniata anche dagli scolii omerici ad loc. (γρ. schol. A Did. / Ariston. ad Il. 9.653 Erbse): cf. Labarbe (1949), 80-84, e Lohse (1965), 262. Alla variante con il verbo καταφλέγω allude anche Apoll. Rh. 4.392 (νῆα καταφλέξαι διά τ’ἀμφαδὰ πάντα κεάσσαι): cf. Rengakos (1993), 133. 371c4 μιν (Il. 9.654) La tradizione del testo platonico converge sulla medesima lezione μιν (TW), dalla quale la variante μήν (F) è derivata per iotacismo, e non viceversa, come nota Labarbe (1949), 84. Il pronome di terza

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persona singolare, non potendo essere retto dalla preposizione ἀμφί dalla quale dipende il successivo dativo (τῇ ’μῇ κλισίῃ), dovrebbe intendersi come prolettico rispetto al sostantivo Ἕκτορα (655), soggetto di σχήσεσθαι: la costruzione sarebbe tuttavia piuttosto ardua, ed è probabile che, come ritiene Labarbe (1949), 84-89, la variante offerta dal testo platonico derivi da una confusione meccanica, da attribuirsi quindi probabilmente alla tradizione orale, in cui la locuzione ἀμφὶ δέ τοι, che ricorre solo in questo caso, è stata sostituita con la ben più frequente ἀμφὶ δέ μιν (9 x Iliade e 9 x Odissea), dove il pronome è sempre regolarmente retto dalla preposizione. 371c6 πότερον οὕτως κτλ. Lett. «pensi forse che il figlio di Teti, allevato dal sapientissimo Chirone, fosse così smemorato che, dopo aver poco prima insultato i bugiardi con l’ingiuria più grave, subito dopo avrebbe detto a Odisseo che sarebbe partito, ad Aiace invece che sarebbe rimasto, e non con l’intento di imbrogliare e senza ritenere che Odisseo fosse un rimbambito e che lo avrebbe superato in questa stessa arte dell’imbrogliare e mentire?». Il periodo è piuttosto faticoso (sulla sintassi, cf. anche infra, 371d4-5 e nota ad loc.) e riprende, nella struttura, quello precedente (371a2 ss.) in cui Socrate sosteneva che Achille fosse a tal punto abile nella menzogna da riuscire ad ingannare lo stesso Odisseo (cf. supra, note ad locc.). Ora, invece, egli presenta ironicamente, al solo scopo di escluderla, la paradossale ipotesi che l’eroe sia soltanto smemorato, e perciò si contraddica solo per dimenticanza di quel che ha detto poco prima. 371c6 ἐπιλήσμονα «smemorato». Cf. Prot. 339d3-4, con Simonide che «dimentica» quanto detto pochi versi prima (ὀλίγον δὲ τοῦ ποιήματος εἰς τὸ πρόσθεν προελθὼν ἐπελάθετο). Il termine ἐπιλήσμων ricorre spesso in senso ironico nei dialoghi, dove Socrate si finge smemorato (cf. Prot. 334c8-9, 334d2 e 336d4; cf. anche Symp. 194a8) o accusa il proprio interlocutore di esserlo (cf. Ion 539e7-8, oltre che supra, 369c7-8 e nota ad loc., dove la battuta colpisce la mnemotecnica che Ippia si vanta di possedere). Al di fuori del corpus platonico, il suo uso è limitato alla prosa e alla commedia: cf. e.g. Aristoph. Nub. 485, 629, 790 e Lys. 1288; Xen. Mem. 4.8.8.4 e Ap. Socr. 6.4; Lys. Or. 12.87.2; Aeschin. Or. 1.72.2 con Fisher (2001) ad loc. per il topos oratorio consistente nell’accusare l’avversario, per smascherarne una menzogna, di ritenere evidentemente smemorata la giuria. 371d1-2 τὸν τῆς Θέτιδός ... πεπαιδευμένον Lett. «lui che è figlio di Teti ed è stato allevato dal sapientissimo Chirone». Le stesse doti di Achille, ovvero l’origine divina e l’educazione ricevuta, sono ricordate da Platone anche nella Repubblica al fine di rigettare azioni moralmente sconvenienti attribuite all’eroe da Omero, con l’aggiunta dell’indicazione della discendenza anche dal ramo paterno (θεᾶς ὢν παῖς καὶ Πηλέως, ... καὶ ὑπὸ τῷ σοφωτάτῳ Χείρωνι τεθραμμένος, Resp. 3.391c1-3). Per l’educazione di Achil-

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le da parte di Chirone, cf. già Il. 11.831-32, oltre che Pind. Pyth. 6.23 ss. e Nem. 3.44 ss., Eur. I.A. 708-10 e 926-27; Escher (1893), col. 225. 371d2-3 ὀλίγον πρότερον ... τῇ ἐσχάτῃ λοιδορίᾳ «dopo aver poco prima insultato i bugiardi con l’ingiuria più grave». Il riferimento è sempre ai versi Il. 9.312-13, citati inizialmente da Ippia (365a1-b2 = Il. 9.308-13) e ripresi poi da Socrate (370a4-5), in cui Achille definisce chi mente «odioso come le porte dell’Ade» (ἐχθρὸς ... ὁμῶς Ἀίδαο πύλῃσιν, 312). Per l’uso di ἀλαζών e altri termini affini nel corso dell’esegesi omerica di Socrate, cf. supra, nota ad 369e4. 371d4-5 ἀλλ’οὐκ ἐπιβουλεύοντά τε κτλ. «non con l’intento di imbrogliare...». Il secondo membro dell’alternativa, che dopo il πότερον iniziale (371c6) ci si aspetterebbe introdotto piuttosto dalla disgiuntiva ἢ, è invece formulato come un’avversativa (πότερον οὕτως ἐπιλήσμονα οἴει εἶναι ... ἀλλ’οὐκ ἐπιβουλεύοντά τε κτλ.). Con lieve anacoluto, i due participi si riferiscono ora al soggetto della consecutiva ὥστε ... φάναι («pensi dunque che fosse così smemorato da dire ... ma non con l’intento di imbrogliare etc.?»). Su ἀλλ’οὐ(κ), dove, in traduzione, ἀλλά può essere omesso o reso con un semplice «e», cf. supra, nota ad 365c4 (ἀλλ’οὐχ ὁ αὐτός). 371d5 ἀρχαῖον Lett. «antiquato», nel senso di «stolto» (εὐήθη ἢ ἁπλοῦν, schol. TPexW ad loc.; «old-fashioned, antiquated», e quindi anche «simple, silly», LSJ s.v. ἀρχαῖος, A.2 e 2.b). Per mantenere la semantica originaria del termine in greco, si può rendere come «rimbambito», Cambiano (1970); «behind the times», Fowler (1926). In questa accezione, l’aggettivo rimanda indiscutibilmente al lessico della commedia: cf. Aristoph. Nub. 915 e 1469; nei dialoghi platonici, cf. anche ἀρχαιότερος εἶ τοῦ δέοντος, Euthyd. 295c11. Su questo tipo di insulto scherzoso, cf. anche Tarrant (1958), la quale, pur senza fare riferimento al parallelo dell’Ippia minore, richiama per il termine ἀρχαιότερος nell’Eutidemo l’uso comico di Κρόνος «as a title of ridicule» (Tarrant 1958, 158), attestato in Aristofane (Aristoph. Vesp. 1480 e Nub. 1070), e di cui si può trovare un esempio, non indicato da Tarrant (1958), anche nel corpus platonico, se in Lys. 205c6 è da leggersi, appunto, κρονικώτερα, «anticaglie dell’età di Crono» (κρονικώτερα TW : χρονικώτερα B); cf. Martinelli Tempesta (2003) ad loc. 371d6-7 καὶ αὐτοῦ ... περιέσεσθαι «e (scil. ritenendo) che lo avrebbe superato in questo stesso tramare ed ingannare?». Cf. supra, 371a3-6. L’uso del verbo τεχνάζω («use art or cunning, deal subtly, use subterfuges», LSV s.v., A.II) è limitato alla prosa e alla commedia, e trova nel corpus platonico altre due occorrenze in Leg. 9.879b1-2 e 11.921b6, oltre che in [Epin.] 989c8.

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371d8-372a5 Ippia non è d’accordo: Achille cambia parere perché si lascia persuadere, per via del suo buon carattere; Odisseo, invece, che inganni o dica il vero, lo fa sempre di proposito. Ma allora, conclude Socrate, dovrebbe essere addirittura migliore quest’ultimo, dal momento che chi dice il falso intenzionalmente è risultato essere superiore a chi lo fa senza volere. Ippia protesta vivamente, ritenendo inammissibile l’idea di considerare migliore chi trama inganni e commette ingiustizia volontariamente, quando anche le leggi sono più indulgenti verso chi sbaglia senza volere. La lettura di Omero giunge alla sua conclusione, con l’accettazione, da parte di Socrate, della giustificazione di Ippia, in base alla quale la contraddizione di Achille dipenderebbe dalla bontà d’animo dell’eroe (cf. 371e1 e nota ad loc.), e la conseguente paradossale affermazione della superiorità di Odisseo in virtù delle sue deliberate menzogne: tale conclusione è tratta tuttavia da Socrate con una limitazione (ὡς ἔοικεν, 371e4; cf. nota ad loc.), e dipende dal presupposto, inammissibile nella prospettiva socratica, secondo cui esistono persone che ingannano e compiono il male volontariamente, come Ippia evidentemente ritiene sia il caso di Odisseo (cf. οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι, 371e9-372a1). Il paradosso anticipa dunque quello su cui si chiuderà il dialogo, con l’insinuazione che una persona che compie volontariamente il male, in realtà, non esiste affatto (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, 376b5-6). Su questo punto e sul ruolo della figura di Odisseo nel dialogo, cf. supra, Introduzione, 5. «Il confronto tra Achille e Odisseo». 371d8-e2 αὐτὰ ταῦτα ... ἄλλα εἶπερ ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα Lett. «queste stesse cose ... ad Aiace le disse diverse che ad Odisseo». 371e1 ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθείς «perché indotto a mutare opinione per via del suo buon carattere». Cf. πραϋνόμενος e αἰδεσθείς in schol. bT ad Il. 651-52 (supra, nota ad 370e5-371d7). Ippia offre ora una nuova giustificazione del comportamento di Achille, riconducendolo a una bontà naturale del carattere (per ὑπὸ εὐηθείας cf. infra, nota seguente), per quanto, come nota opportunamente Schmiel (1983/4), 42, la decisione finale di Achille, con l’auspicio che gli Achei siano posti in ginocchio dai Troiani guidati da Ettore espresso nell’ultimo discorso (Il. 9.950-55), «accords ill with goodness of hearth», derivando piuttosto dal desiderio di Achille di vedere riconosciuta la propria superiorità. Dal punto di vista socratico, comunque, questa nuova giustificazione costituisce un’aggravante rispetto alla precedente (370e5-9): se prima, infatti, si presupponeva che Achille avesse agito contro la propria volontà, costretto da contingenze esterne (ἀναγκασθείς, 370e7-8), si ammette ora invece che egli non sia rimasto fermo nelle pro-

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prie intenzioni, ma, appunto, si sia lasciato persuadere a mutare proposito (ἀναπεισθείς), dimostrando di non agire secondo una ferma volontà, ma in maniera inconsapevole, e quindi senza la guida sicura del λόγος alla base delle sue azioni. Su questo punto e la critica ad Achille, cf. supra, Introduzione, 5. «Il confronto tra Achille e Odisseo». 371e1 ὑπὸ εὐηθείας La lezione εὐηθείας, testimoniata da TW, è giustamente ripristinata a testo da Vancamp (1996a), come già da Croiset (1920), laddove Burnet (19092) preferiva invece la variante εὐνοίας di F (presente come variante marginale anche in W), probabilmente una glossa nata dalla necessità di specificare l’accezione positiva con cui il termine εὐήθεια è in questo caso utilizzato: cf. Giuliano (1995), 55; ad un errore da maiuscola pensa invece, meno convincentemente, Vancamp (1994), 38; cf. anche Vancamp (2001), 33. Altrove, Platone si sofferma sul recupero del significato etimologico del termine, per indicarne una valenza positiva che era dunque evidentemente al suo tempo già quasi scomparsa: cf. οὐχ ἣν ἄνοιαν οὖσαν, scil. εὐήθειαν, ὑποκοριζόμενοι καλοῦμεν, ἀλλὰ τὴν ὡς ἀληθῶς εὖ τε καὶ καλῶς τὸ ἦθος κατασκευασμένην διάνοιαν, Resp. 3.400e1-3; in generale sulla nozione platonica di εὐήθεια, cf. Gaudin (1981). L’uso del termine in questo passo, tuttavia, non può essere considerato espressione di una valutazione positiva su Achille da parte di Platone stesso, come ritiene Giuliano (1995), 17: si tratta infatti del punto di vista, indubbiamente favorevole ad Achille, di Ippia, in cui l’εὐήθεια di Achille si oppone alla πολυτροπία di Odisseo, intesa negativamente come doppiezza di carattere (cf. supra, 365bb4-5 e nota ad loc.). 371e3 ἐπιβουλεύσας ἀεί «sempre con intento premeditato». Cf. supra, ἑκών τε καὶ ἐξ ἐπιβουλῆς, 370e8-9. 371e4-5 ἀμείνων ... Ἀχιλλέως «È dunque migliore, a quanto pare, Odisseo di Achille». La conclusione ribalta quella che Socrate aveva presentato, all’inizio del dialogo, come opinione tradizionale, sostenuta da Apemanto (ἀμείνων Ἀχιλλεὺς Ὀδυσσέως, 363b3-4), e alla quale anche Ippia si era associato, dapprima definendo Achille ἄριστον della spedizione achea (364c5) e sostenendo poi apertamente la tesi della sua superiorità su Odisseo (Ἀχιλλέα ... ἀμείνω Ὀδυσσέως, 369c4). Ma sul valore di questa conclusione cf. supra, nota introduttiva ad 371d8-372a5, oltre che Introduzione, 5. «Il confronto tra Achille e Odisseo». 371e4 ὡς ἔοικεν «a quanto pare». Un’implicita presa di distanza dalla tesi affermata, che è solo quanto consegue dalle affermazioni del suo interlocutore; cf. anche supra, 365c3, 365e1, 365e6, 366a7. 371e7-9 οὐκ ἄρτι ... οἱ ἄκοντες; «Non era risultato poco fa che coloro che dicono volontariamente il falso sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente?». La superiorità dell’errore intenzionale non era in

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realtà stata affermata nel corso della precedente argomentazione, ma è diretto corollario della tesi che solo il σοφός è in grado di dire, quando lo voglia, anche il falso (366e4-367a2). Sul legame tra le due parti dell’argomentazione, cf. Weiss (1981), 287-88. 371e9-372a2 καὶ πῶς ἄν … τῶν ἀκόντων «Ma, Socrate, come potrebbero coloro che compiono ingiustizia e tramano inganni e compiono il male volontariamente essere migliori di quelli che lo fanno involontariamente…?». La riformulazione ora data da Ippia, che introduce per primo nel dialogo il termine ἀδικεῖν, come nota Weiss (1981), 296 e 300-301, presenta la conclusione appena raggiunta in termini palesemente contrastanti con il principio socratico secondo cui nessuno commette volontariamente il male, preannunciando l’esito generale del dialogo. Cf. infra, 375d3-4 (dove si ripete identica la reazione di Ippia), e 376b4-6. 372a2-3 οἷς ... ποιήσῃ «verso i quali si ritiene che vi sia grande indulgenza, qualora uno commetta un’ingiustizia o dica una menzogna o commetta qualche altro reato senza saperlo». Per questo luogo comune, cf. e.g. τοῖς γὰρ ἄκουσιν ἁμαρτοῦσι μέτεστι συγγνώμης, οὐ τοῖς ἐπιβουλεύσασι, Demosth. Or. 23.49.3; cf. anche Id. Or. 24.67.3 e 18.274.3-4 con Yunis (2001) ad loc.; Aristot. E.N. 5.1135b16-35; [Aristot.] Rhet. ad Al. 4.89. Il concetto sarà poi sfruttato da Socrate per ribattere ironicamente al suo interlocutore: cf. infra, 373b8 e nota ad loc. 372a3-5 καὶ οἱ νόμοι ... τοῖς ἄκουσιν «Anche le leggi sono certamente molto più severe nei confronti di chi commette il male ed inganna volontariamente, piuttosto che di coloro che lo fanno involontariamente». A questo principio, che rimonta alla distinzione draconiana tra omicidio intenzionale e preterintenzionale, si appella nell’Apologia anche Socrate, il quale sostiene che, se corrompe i giovani, lo fa involontariamente, e non deve perciò essere punito, ma, piuttosto, istruito (Ap. 26a1 ss.). Può destare qualche perplessità il richiamo all’autorità delle leggi in bocca ad Ippia, che in base ad altre testimonianze sembra invece essersi schierato, nel dibattito su νόμος e φύσις, a favore della seconda contro il primo: cf. Prot. 337c-338b (= 86 C 1 DK), in part. ὁ δὲ νόμος, τύραννος ὢν τῶν ἀνθρώπων, πολλὰ παρὰ τὴν φύσιν βιάζεται, 337d2-3; cf. anche Xen. Mem. 4.4, 5-25 (solo parzialmente incluso da Diels e Kranz: Mem. 4.4, 5-7 = 86 A 14 DK), dove Ippia si mostra critico nei confronti del νόμος inteso come legge positiva, evidenziandone i limiti di precarietà e arbitrarietà: νόμους δ’, ἔφη, ὦ Σώκρατες, πῶς ἄν τις ἡγήσαιτο σπουδαῖον πρᾶγμα εἶναι ἢ τὸ πείθεσθαι αὐτοῖς, οὕς γε πολλάκις αὐτοὶ οἱ θέμενοι ἀποδοκιμάσαντες μετατίθενται; (Mem. 4.4.14, non incluso da Diels e Kranz). Per una ricostruzione del pensiero politico di Ippia nel discorso del Protagora, in cui sarebbe elaborata una dottrina della fratellanza tra gli uomini, limitata però ai

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sapienti, cf. Brancacci (2013). Questo aspetto del pensiero del sofista non emerge però nel dialogo e in questo passo il riferimento è da vedersi probabilmente solo in una prospettiva agonistica, in cui il richiamo alla communis opinio è un mezzo per affermare la vittoria su Socrate.

INTERMEZZO (372A6-373C5) L’intermezzo, speculare a quello del Protagora (334c-338e), in cui tuttavia esso precede anziché seguire la sezione dedicata all’esegesi poetica, segna una netta cesura all’interno del dialogo: da questo momento, infatti, il tema della mendacità ed il confronto tra gli eroi omerici non saranno più presi in considerazione, e l’argomentazione svolta nella seconda parte (373c ss.) si concentrerà unicamente sulla tesi della superiorità dell’errore intenzionale, su cui Socrate sofferma l’attenzione (372d-e). La ricomparsa di Eudico (373a-c), che aveva all’inizio introdotto la conversazione tra Socrate ed Ippia (363a-c) e si trova ora a dover richiamare il sofista all’impegno preso, contribuisce inoltre a determinare un nuovo inizio, con una sorta di seconda introduzione; cf. Hoerber (1962) 129: «The brief appearance of Eudicus in the opening paragraphs (363a-c) and again around the middle of the treatise (373a-c) seems to be a dramatic clue that there are two parts to the discussion, with an appearance of Eudicus introducing each of the two parts». Per il parallelo, a parti inverse, con il Protagora, cf. Pohlenz (1913), 82-83; cf. anche Introduzione, 1. «Il tema e la struttura del dialogo». Ritornano qui anche le questioni, accennate già nel prologo, del contrasto tra macrologia e brachilogia, discorso sofistico e dialogo socratico, con la più esplicita indicazione del giovamento (una vera e propra «cura dell’anima») che l’interlocutore può trarre dal secondo (cf. 373a2-5). In generale sugli intermezzi platonici, in cui spesso sono svolte riflessioni di metodo, cf. Dalfen (1989).

372a6-373a8 Socrate tenta di placare il suo interlocutore, ribadendo la propria abitudine ad interrogare con insistenza coloro che ritiene più sapienti. Sul momento, nella fattispecie, egli è come preda di un attacco di malattia e gli sembra che le cose stiano tutt’al contrario di come ritiene Ippia: perciò lo prega di guarirlo, purché voglia ancora conversare per domande e risposte, e non intenda tenere un lungo discorso. A tal fine Socrate chiama in aiuto anche Eudico, che all’inizio lo aveva spinto

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a dialogare con Ippia garantendo la disponibilità di quest’ultimo a rispondere alle domande. Come già in 369d1 ss., l’elogio della sapienza dell’interlocutore, unito alle professioni d’ignoranza di Socrate, ha lo scopo di superare un momento di crisi, in cui la prosecuzione della discussione sembra essere messa a rischio: sulla funzione strategica dell’ironia socratica, cf. in generale Giannantoni (2005), 124 ss., e Longo (2000), 52-69, in part. sull’Ippia minore 54-57; sul valore protrettico del discorso di Socrate, specialmente per l’idea del dialogare come via per la cura dell’anima (372e6 ss.), cf. invece Gaiser (1959), 165-68. Tutto il discorso di Socrate presenta nell’insieme evidenti punti di contatto con il racconto dell’Apologia (21b-22e) per il tema del «non sapere» e l’esame dei falsi sapienti: per più precise reminiscenze, anche verbali, cf. in part. infra, 372b4-6 e 372b6-7 con note ad locc.; sulla raffigurazione del non sapere socratico nell’Apologia, cf. invece almeno Boder (1973), 37-42. 372a6 ὁρᾷς κτλ. «Lo vedi, Ippia, che dico il vero...». Per l’espressione ὁρᾷς ὅτι κτλ., cf. supra, 367c7 e nota ad loc. 372a6 λέγων ὡς λιπαρής εἰμι κτλ. «quando dico che sono insistente...». Cf. supra, εὑρήσεις γάρ με λιπαρῆ ὄντα κτλ., 369d8 ss., con nota ad loc. 372b1 κινδυνεύω Lett. «rischio», quindi «potrei», «forse». Per questa accezione del verbo, cf. supra, 365b7 e nota ad loc. 372b2 ἓν ... ἀγαθόν Lett. «di avere questo solo di buono», i.e. «questa è forse la mia unica buona qualità». Il τοῦτο si riferisce al concetto espresso prima, cioè l’insistenza di Socrate nell’interrogare. Per la stessa formulazione cf. anche infra, 372c2-3 (dove il τοῦτο è però prolettico). 372b2 τἆλλα ... φαῦλα «mentre per il resto valgo poco», lett. «ho solo cattive qualità». Riferito a cose, φαῦλος (cf. anche supra, 369d5-6 e nota ad loc.) ha semplicemente il significato di «di scarso valore» (LSJ s.v. φαῦλος, I.2, «simple, ordinary … but freq. poor»). Per un concetto simile cf. anche Lys. 204b8 ss., dove Socrate dice di valere poco, tranne che per un’unica qualità, ovvero la capacità di riconoscere chi ama e chi è amato (εἰμὶ δ’ἐγὼ τὰ μὲν ἄλλα πάνυ φαῦλος καὶ ἄχρηστος, τοῦτο δέ μοί πως ἐκ θεοῦ δέδοται, ταχὺ οἵῳ τ’εἶναι γνῶναι ἐρῶντά τε ἐρώμενον, Lys. 204b8-c2). 372b3-4 τῶν μὲν πραγμάτων ... ὅπῃ ἐστί Lett. «mi sbaglio sulle cose, come stanno, e non so come stanno», dove ἔσφαλμαι regge il genitivo τῶν πραγμάτων che è poi da sottintendere come soggetto delle due subordinate ᾗ ἔχει e ὅπῃ ἐστί, scil. τὰ πράγματα. 372b4 τεκμήριον δὲ τούτου ἱκανόν «Prova sufficiente di questo». τεκμήριον δέ è espressione ellittica che può costituire, come qui, una proposizione indipendente a sé stante («now the proof of it is this», «take this as a proof», LSJ s.v. τεκμήριον, II.2, «τεκμήριον δέ as an independent clause»; cf.

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anche KG I, 656,1). Il dimostrativo τούτου si riferisce alla proposizione precedente, nella quale Socrate ha espresso la tesi di cui ora si accinge a fornire la prova. Tutto il giro del ragionamento, nel complesso, riprende quello del primo discorso: cf. in part. 369d7 ss. (καὶ γνώσῃ τούτῳ κτλ.). 372b4-6 ἐπειδὰν συγγένωμαι ... τῆς σοφίας Lett. «quando mi trovo insieme a qualcuno di voi che siete rinomati per sapienza e che avete tutti i Greci a testimoni della vostra sapienza». Un’evidente ripresa del passo si trova in due luoghi dell’Ippia maggiore, come evidenzia Longo (2000), 57-58 n. 38, unica a segnalare il parallelo: ὁπότε ... ὑμῶν τῳ τῶν σοφῶν ἐντύχοιμι, Hipp. mai. 286d5, e εὐδοκιμοῦντι δὲ ἐπὶ σοφίᾳ ἐν πᾶσι τοῖς Ἕλλησιν, scil. σοί, ibid. 291a7-8. Cf. anche ἦλθον ἐπί τινα τῶν δοκούντων σοφῶν εἶναι, Ap. 21b9, con cui inizia il racconto dell’interrogazione dei presunti sapienti da parte di Socrate, e ancora οἱ μὲν μάλιστα εὐδοκιμοῦντες, ibid. 22a3. Il riferimento a οἱ Ἕλληνες πάντες, significativamente, è presente sia qui che in Hipp. mai. 291a8, ma non nel passo dell’Apologia, in quanto sottolinea il carattere panellenico dei sofisti, laddove i σοφοί cui Socrate fa riferimento nell’Apologia sono invece principalmente i suoi concittadini: cf. Pohlenz (1913), 60: «In der Apologie war naturgemäß die Prüfung der Bürger in den Vordergrung getreten». 372b6-7 φαίνομαι οὐδὲν εἰδώς «risulto non sapere nulla». Nel racconto di Ap. 21b9 ss., si dice esplicitamente come siano in realtà coloro che Socrate interroga, e che hanno fama di essere sapienti, a rivelare la propria ignoranza: Socrate dice dunque di considerarsi più sapiente di loro nella misura in cui, non sapendo, neppure presume di sapere (οὗτος μὲν οἴεταί τι εἰδέναι οὐκ εἰδώς, ἐγὼ δέ, ὥσπερ οὖν οὐκ οἶδα, οὐδὲ οἴομαι, Ap. 21d4-6). La formulazione richiama il ben noto detto socratico del «sapere di non sapere» (ἕν οἶδα, ὅτι οὐδὲν οἶδα), il quale tuttavia non si trova in realtà mai espresso in tali termini nell’opera platonica, facendo la sua prima comparsa solo in fonti tarde (εἰδέναι μηδὲν πλὴν αὐτὸ τοῦτο εἰδέναι, Diog. Laert. 2.32; nihil se scire dicat nisi id ipsum, Cic. Acad. 1.16, cf. ibid. 1.44-45), al punto che si è dubitato se si possa effettivamente attribuire tale detto a Socrate: cf. Fine (2008). Per interpretazioni del significato dell’ignoranza socratica, cf. lo studio classico di Vlastos (1994), 39-66, e le più recenti panoramiche di Bett (2011) e McPartland (2013). 372b7-c1 ὡς ἔπος εἰπεῖν «per così dire», o meglio «praticamente». Un’espressione attenuativa dopo οὐδέν ripetuto in 372b6 e 7 (cf. LSJ s.v. ἔπος, II.4: «almost, practically, qualifying a too absolute expression, esp. with πᾶς and οὐδείς»; KG II, 508, 3). È frequente nei dialoghi dei tre periodi: cf. in part., per l’analogo contesto, ἐμαυτῷ γὰρ συνῄδη οὐδὲν ἐπισταμένῳ, ὡς ἔπος εἰπεῖν, Ap. 22c9-d1, dove Socrate si riferisce alla propria ignoranza in ambito tecnico.

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372c1 καίτοι «E, appunto...?». La particella καίτοι non ha qui il più frequente valore avversativo, bensì connettivo, ad introdurre il passaggio conclusivo di un’argomentazione; cf. καίτοι «Logical», Denniston (1954²), 561-64. In questi casi, la proposizione introdotta da καίτοι è espressa, come qui (cf. infra, 372c1-2), «often in the form of a rhetorical question»: cf. ancora Denniston (1954²), 562. 372c2-3 ἓν ... ἀγαθόν Lett. «questa sola cosa meravigliosa ho di buono». Cf. supra, 372b2, con l’aggiunta enfatica di un ulteriore aggettivo (θαυμάσιον). Il dimostrativo τοῦτο (372c2) si riferisce qui proletticamente al concetto espresso in seguito. 372c3 οὐ ... μανθάνων «non mi vergogno di apprendere». L’ostacolo della vergogna, che impedisce all’interlocutore di affrontare schiettamente la confutazione, è altrove direttamente messo in evidenza nei dialoghi: così Crizia, ἅτε οὖν εὐδοκιμῶν ἑκάστοτε, ᾐσχύνετο τοὺς παρόντας ... ἔλεγέν τε οὐδὲν σαφές, ἐπικαλύπτων τὴν ἀπορίαν, Charm. 169c6-d1; cf. anche la descrizione degli effetti del procedimento elenctico nel Sofista, in cui si dice che, come primo passo, esso conduce chi vi si sottopone ad una condizione di vergogna (τὸν ἐλεγχόμενον εἰς αἰσχύνην καταστήσας, Soph. 230d1-2), con Goldschmidt (1947), 31 n. 14, per ulteriori paralleli. In questo senso, l’affermazione di Socrate assume un chiaro valore protrettico nei confronti di Ippia, che non dovrebbe vergognarsi di essere confutato, liberandosi così dei propri pregiudizi e aprendosi alla possibilità di un vero percorso di conoscenza. 372c4 πυνθάνομαι καὶ ἐρωτῶ Cf. anche supra, 369d4-5. 372c4-5 χάριν ... χάριτος «serbo molta gratitudine per colui che mi risponde, e non ho mai lasciato nessuno privo di ringraziamento». Il ringraziamento tributato da Socrate non è del tipo cui i sofisti sono abituati, ovvero il compenso in denaro (cf. supra, 364d4 e nota ad loc.), ma consiste, come si dirà poco oltre, nell’elogio della sapienza di colui che ha offerto i suoi insegnamenti a Socrate (372c7 ss.; cf. nota ad loc.). Per lo stesso tema, cf. lo scambio tra Socrate e Trasimaco in Resp. 1.337d5 ss., e in part. ἐκτίνω γὰρ ὅσῃ δύναμαι, δύναμαι δὲ ἐπαινεῖν μόνον· χρήματα γὰρ οὐκ ἔχω, 338b6-7. 372c6 ἔξαρνος ἐγενόμην «rinnegai», «non ho mai negato». L’espressione ἔ. γίγνομαι vel ἔ. εἰμι (= ἐξαρνέομαι), costruita qui con il participio predicativo μαθών, è frequente nell’oratoria («negare» con particolare veemenza, riferito a una colpa): e.g. Αeschin. 1.91.5, Demosth. Or. 34.43.2, 57.14.7 e 21.174.1, Lys. Or. 1.19.1 etc.; la costruzione normale è con un’infinitiva o con un accusativo di relazione, cf. Martinelli Tempesta (2003) ad Lys. 205a4. Nel corpus platonico, si incontrano indifferentemente sia il verbo ἐξαρνέομαι (Symp. 192e6, Prot. 342b2, Resp. 5.465c3, Leg. 12.949a5) che, come in questo caso, le forme perifrastiche (ἔ. γίγνομαι, Soph. 260d1, Euthyd.

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283c5; ἔ. εἰμι, Charm. 158c5, Lys. 205a4, Euthyd. 283c4, Prot. 317b6, Hipp. mai. 288c2 e 290d3). 372c6 ἐμαυτοῦ ποιούμενος κτλ. «appropriandomi», dove ποιέω, al medio, è usato in senso analogo a προσποιέομαι (cf. LSJ s.v. ποιέω, C; προσποιέω, II.2 «take to oneself what does not belong to one»). 372c6-7 τὸ μάθημα ... ὡς εὕρημα «(appropriandomi) dell’insegnamento ricevuto come di una mia scoperta». Per l’opposizione μανθάνειν / εὑρίσκειν come vie di apprendimento, ovvero l’insegnamento da parte di altri e la scoperta frutto di ricerca individuale, frequente in Platone, cf. Phaed. 85c7-8 e 99c8-9, Crat. 438a8 e 439b4-5, Theaet. 150d7-8, Lach. 186c5-6 e 186e2-3, Prot. 320b7-8; Centrone (2000), n. 91. 372c7-8 ἀλλ’ἐγκωμιάζω κτλ. «ma elogio come sapiente colui che mi ha istruito, mostrando ciò che ho appreso da lui». Nell’Eutifrone, Socrate promette ironicamente al suo interlocutore che, se riuscirà a dimostrargli perché la sua azione contro il padre è da considerarsi giusta per gli dei, egli non smetterà mai di lodarlo per la sua saggezza (κἄν μοι ἱκανῶς ἐνδείξῃ, ἐγκωμιάζων σε ἐπὶ σοφίᾳ οὐδέποτε παύσομαι, Euthyphr. 9b2-3); cf. anche supra, nota ad 372c4-5. 372c8 καὶ δὴ καὶ νῦν κτλ. «Anche ora infatti...». Dopo il lungo preambolo, nel quale ha giustificato in generale il proprio atteggiamento verso i sapienti presentandolo come segno della propria inferiorità e della stima nei loro confronti, Socrate fa ritorno al caso presente, la discussione con Ippia. Per il nesso καὶ δὴ καί, che introduce di solito, come qui, una transizione dal generale al particolare, cf. Denniston (1954²), 255-56 («The idea conveyed is one of a climax, ‘and actually’, ‘and in fact’», 256). 372d1-2 οὐχ ὁμολογῶ ... πάνυ σφόδρα «non sono d’accordo con te, ma sono in completo disaccordo». Cf. poi infra, ἐμοὶ γὰρ φαίνεται ... πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις, 372d3-4. 372d2-3 δι’ἐμὲ ... οἷόσπερ εἰμί «a causa mia ... perché sono così come sono». La causale introdotta da ὅτι specifica il complemento di causa precedente, δι’ἐμέ. Per il concetto cf. anche infra, 372d8-e1. 372d3 ἵνα ... εἴπω Nel senso di «per non dire di me qualcosa di peggio», come traduce Cambiano (1970), piuttosto che come espressione di modestia «per non dire nulla di più grande», cf. «not to give myself any greater title», Fowler (1926). Anche questa notazione appartiene infatti al tono ironicamente autodenigratorio di tutto il discorso di Socrate. 372d4-7 οἱ βλάπτοντες ... ἢ οἱ ἄκοντες «(mi sembra infatti che) coloro i quali danneggiano le persone, commettono ingiustizia, mentono, ingannano e sbagliano volontariamente, e non involontariamente, siano migliori di quelli che lo fanno senza volere». Cf. supra, 371e9-372a12. Anche Socrate usa ora termini dal chiaro connotato morale: non solo ἀδικεῖν, già intro-

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dotto da Ippia (οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες, 371e9), ma anche l’espressione βλάπτειν τοὺς ἀνθρώπους, «danneggiare gli uomini» (cf. LSJ s.v. βλάπτω, III: «after Hom., damage, hurt»); cf. Weiss (1981), 296 n. 34. La tesi, formulata in questi termini, non può certo essere condivisa da Socrate, che infatti poco oltre accenna al fatto che a volte gli sembra vero il contrario (cf. 372e7-8 e nota ad loc.) e attribuisce ai ragionamenti appena svolti la responsabilità dell’opposta conclusione (αἰτιῶμαι δὲ τοῦ νῦν παρόντος παθήματος τοὺς ἔμπροσθεν λόγους αἰτίους εἶναι, 372e3 ss.). 372d6 ἀλλὰ μὴ ἄκοντες «e non involontariamente». Per quest’uso di ἀλλά, cf. supra, ἀλλ’οὐχ ὁ αὐτός, 365c4, e nota ad loc. 372d7 βελτίους εἶναι scil. φαίνονται (cf. supra, φαίνεται, 372d4). 372d7-8 ἐνίοτε ... τούτων «talvolta, in realtà, mi pare vero anche il contrario di queste cose». Socrate accenna qui per la prima volta a un possibile disaccordo rispetto ai risultati dell’argomentazione, che preannuncia il rifiuto finale (οὐδὲ γὰρ ἐγὼ ἐμοί, scil. ἔχω ὅπως συγχωρήσω ταῦτα, 376b8). Propriamente, per Socrate, non è però corretto neanche il contrario, e cioè che coloro che compiono il male senza volere siano migliori di quelli che lo fanno volontariamente, poiché questo presuppone comunque la possibilità che qualcuno compia volontariamente il male: cf. Prot. 345d6 ss., dove il poeta Simonide è criticato per aver lodato chi volontariamente non compie alcun male, come se esistessero altri che lo compiono, invece, volontariamente (οὐ γὰρ οὕτως ἀπαίδευτος ἦν Σιμωνίδης, ὥστε τούτους φάναι ἐπαινεῖν, ὃς ἂν ἑκὼν μηδὲν κακὸν ποιῇ, ὡς ὄντων τινῶν οἳ ἑκόντες κακὰ ποιοῦσιν, 345d6-9). Cf. anche infra, 376b4-6 con nota ad loc. 372d8 πλανῶμαι «sono in dubbio», lett. «vago» («wander», e quindi «to be in doubt or at a loss», LSJ s.v. πλανάω, II.5; lat. erro). Cf. infra, 376c2, c3, c4, c6 (τῆς πλάνης). Per l’associazione del verbo πλανάομαι e del sostantivo πλάνη alla condizione aporetica, cf. πλανῶμαι μὲν καὶ ἀπορῶ ἀεί, Hipp. mai. 304c2; cf. anche Lys. 213e2-3 e soprattutto [Alc. I] 117a-118b, dove è sviluppato con maggior ampiezza il motivo del πλανᾶσθαι in connessione all’ignoranza, in quel caso non di Socrate ma del suo interlocutore (ἐπειδάν τίς τί μὴ εἰδῇ, ἀναγκαῖον περὶ τούτου πλανᾶσθαι τὴν ψυχήν, 117b2-3; per il verbo, cf. anche 117a10, a11, c3, d2, d5, 118a14; cf. anche infra, nota seguente). Nei dialoghi successivi, l’immagine è usata anche per la condizione propria dell’anima legata al corpo (Phaed. 79c7, cf. πλάνης καὶ ἀνοίας, 81a6), e per indicare la fallacia dei sensi (τὴν ... πλάνην τῆς ὄψεως, Resp. 10.605d1). Sull’uso platonico dei termini appartenenti a quest’area semantica, cf. Löwenclau (1965). 372d8-e1 διὰ τὸ μὴ εἰδέναι «per il fatto di non sapere». Cf. in part. καὶ ἐγὼ διὰ τὴν ἐμὴν φαυλότητα ἠπορούμην τε καὶ οὐκ εἶχον αὐτῷ κατὰ τρόπον ἀποκρίνασθαι, Hipp. mai. 286d2-3; cf. anche la conclusione aporetica del

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Carmide, in cui Socrate si addossa ironicamente la responsabilità dell’apparente fallimento della ricerca: ταῦτ’οὖν πάνυ μὲν οὖν οὐκ οἴομαι οὕτως ἔχειν, ἀλλ’ἐμὲ φαῦλον εἶναι ζητητήν, Charm. 175e5-6. Uno stretto parallelo, anche sul piano verbale, in Alc. I 117a10-11: δῆλον ὅτι διὰ τὸ μὴ εἰδέναι περὶ αὐτῶν, διὰ ταῦτα πλανᾷ. 372e1 νυνὶ ... ἐν τῷ παρόντι «ora ... in questo momento». L’indicazione del carattere provvisorio dell’argomentazione ritorna con particolare insistenza in tutto il brano, preannunciando la conclusione del dialogo: cf. subito infra, τοῦ νῦν παρόντος παθήματος, 372e3-4, e di nuovo νῦν ἐν τῷ παρόντι, 372e5; cf. poi νῦν γε, 376c1. Su questo motivo cf. Szlezák (1985), 99, secondo il quale simili indicazioni alluderebbero al possesso, da parte del filosofo, di argomenti più importanti (τιμιώτερα) con cui venire in soccorso dell’argomentazione. Cf. anche Erler (1987), 128, per l’interpretazione del passo in tal senso. 372e1-2 ὥσπερ κατηβολὴ περιελήλυθεν «mi è come sopraggiunto un attacco della mia malattia». La metafora è tratta dal linguaggio medico: κατηβολή, la cui grafia in questa accezione è propriamente καταβολή (cf. LSJ s.v. κατηβολή), indica la «crisi» di una malattia, come un accesso di febbre (ἡ τοῦ πυρετοῦ περίοδος, schol. TW ad loc.; «periodical attack of illness», LSJ s.v. καταβολή, III), mentre il περι- del verbo περιελήλυθεν «favorisce l’idea della periodicità con la quale – al pari di ricorsi di febbre in uno stato morboso – sopraggiungono a Socrate questi momenti di crisi», Calogero (1938) ad loc. Per l’immagine nel corpus platonico, cf. anche ἡ καταβολὴ ... τῆς ἀσθενείας, Gorg. 519a4. 372e3-4 αἰτιῶμαι ... αἰτίους εἶναι Lett. «dell’attuale condizione accuso i discorsi di poco fa di essere causa». Continua l’immagine medica iniziata prima con la κατηβολή (cf. supra, 371e1-2 e nota ad loc.): accanto al significato generico di «condizione», il termine πάθημα ha infatti anche quello specificamente medico di «affezione», anche se generalmente al plurale («Medic., pl., troubles, symptoms», LSJ s.v. πάθημα, II.2). Il concetto sottinteso è che, così come i discorsi corretti possono guarire l’anima, secondo un tema diffuso nei dialoghi (cf. infra, μὴ φθονήσῃς ἰάσασθαι τὴν ψυχήν μου, 372e7 e nota ad loc.), quelli scorretti ne causano la malattia. 372e5 νῦν ἐν τῷ παρόντι «ora, sul momento». Cf. supra, νυνὶ ἐν τῷ παρόντι, 372b1, e nota ad loc. 372e6-7 σὺ οὖν χάρισαι κτλ. «tu dunque usami una cortesia...». Cf. supra, ἆρ’ἄν τί μοι χαρίσαιο τοιόνδε κτλ., 364c8, dove il tono è ugualmente ironico. Per la richiesta all’interlocutore di rispondere, presentata da Socrate come un favore, cf. anche e.g. καὶ τόδε τοίνυν μοι χάρισαι ἀποκρινάμενος, Gorg. 516b5; ἀλλὰ ἐμοί τε χαρίζου ἀποκρινόμενος, Resp. 1.338a2, e ἀλλὰ δὴ καὶ τόδε μοι χάρισαι καὶ λέγε, ibid. 351c7.

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372e7 καὶ μὴ φθονήσῃς κτλ. «e non rifiutarti di curare la mia anima». Per l’uso fraseologico di φθονέω ad indicare una richiesta cortese, cf. supra, οὐ φθονήσει, 363c4 e nota ad loc. 372e7 ἰάσασθαι τὴν ψυχήν μου Per questo tema ed in part. per l’idea della dialettica (cf. infra, διαλέγεσθαι, 373a7) come strumento per la cura dell’anima, che emergerà esplicitamente alla fine del brano (373a4-5), cf. soprattutto Charm. 155e-157c, dove Socrate parla di un φάρμακον (155e6), il quale non può tuttavia essere somministrato se non accompagnato da un’ἐπῳδή (155e5), un incantesimo che consiste appunto nei bei discorsi (θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ... ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ’ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς, 157a3-5). Un significativo parallelo viene dal Protagora, dove, proprio in un contesto simile come la dimostrazione del fatto che l’errore deriva solo dall’ignoranza, Socrate presenta ironicamente i sofisti presenti, ovvero Protagora, Prodico e lo stesso Ippia, come sedicenti medici di tale ignoranza: ἀμαθία ἡ μεγίστη, ἧς Πρωταγόρας ὅδε φησὶν ἰατρὸς εἶναι καὶ Πρόδικος καὶ Ἱππίας, Prot. 357e2-4. Cf. anche περὶ τὴν ψυχὴν ... ἰατρικός, ibid. 313e3. 372e7-373a2 πολὺ ... τὸ σῶμα «Mi procurerai infatti un bene assai maggiore liberando(mi) l’anima dall’ignoranza che il corpo da una malattia». Quello dell’ignoranza, così come dell’ingiustizia, quale malattia dell’anima è tema caro a Platone: cf. Gorg. 464b2 ss. e 477b5 ss., con Dodds (1959) ad 447b7; Resp. 4. 444c6 ss.; Tim. 88b5 e 86b3 ss. 373a2 μακρὸν μὲν οὖν λόγον κτλ. «se hai intenzione di pronunciare un lungo discorso...». Cf. quanto detto da Ippia supra, ἀποδείξω σοι ἱκανῷ λόγῳ κτλ., 369c3. La posizione incipitaria di μακρόν mette in evidenza l’oggetto della critica di Socrate, la macrologia sofistica, per cui Platone conia anche il termine μακρολογία (cf. Prot. 335b8, 336b9); cf. viceversa infra, διαλέγεσθαι, 373a7, ad indicare il metodo socratico. Per la contrapposizione tra brachilogia e macrologia, centrale nei dialoghi con i sofisti, cf. soprattutto Prot. 329a-b (μακροὺς λόγους ... εἰπεῖν, ... ἀποκρίνασθαι κατὰ βραχύ, 329b2-4) e tutto l’intermezzo 334c-336d (cf. in part. διαλεγέσθω ἐρωτῶν τε καὶ ἀποκρινόμενος, μὴ ἐφ’ἑκάστῃ ἐρωτήσει μακρὸν λόγον ἀποτείνων, 336c4-6); Gorg. 449b-c; oltre che supra, 364b5 ss., per l’impossibilità di porre domande nel corso dell’epidissi; cf. in generale Giannantoni (2005), 41-88. 373a3 οὐκ ... ἀκολουθήσαιμι «infatti non riuscirei a seguirti». Cf. supra, ἀπελείφθην σου τῶν λεγομένων, 364b6. Nel Protagora, Socrate finge di non riuscire a seguire i discorsi troppo lunghi, perché smemorato (ὦ Πρωταγόρα, ἐγὼ τυγχάνω ἐπιλήσμων τις ὢν ἄνθρωπος, καὶ ἐάν τίς μοι μακρὰ λέγῃ, ἐπιλανθάνομαι περὶ οὗ ἂν ᾖ ὁ λόγος, 334c8-d1), con un’ironia subito smascherata da Alcibiade (336d2-4); cf. anche νῦν δ’ἐστὶν ὥσπερ δέοιό μου

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INTERMEZZO (372A6-373C5)

Κρίσωνι τῷ Ἱμεραίῳ δρομεῖ ἀκμάζοντι ἕπεσθαι, κτλ., ibid. 335e2 ss. e, sulla critica alla macrologia in questi passi, Giannantoni (2005), 63-64. 373a4 ὥσπερ ... ἀποκρίνεσθαι «se invece accetti, come prima, di rispondermi», dove ἄρτι si riferisce evidentemente alla prima parte della discussione (365d6 ss.), e non a quanto precede nell’immediato, in cui Ippia aveva tentato invece un principio di macrologia (371e9 ss.). 373a4-5 πάνυ ὀνήσεις ... βλαβήσεσθαι «mi gioverai molto, e credo che neanche tu ne sarai danneggiato». Solo alla fine del passo, e introdotto dall’attenuazione οἶμαι («credo che...»), compare un indiretto accenno al fatto che è in realtà proprio l’interlocutore di Socrate che potrà trarre maggior beneficio dalla discussione, guarendo, s’intende, dalla propria presunzione di sapere. Cf. Szlezák (1985), 85: «ist Hippias derjenige, der eine Heilung seiner Seele nötig hätte, was ihm der wissende Sokrates auch sanft bedeutet». 373a5 δικαίως δ’ἂν καὶ σὲ παρακαλοίην κτλ. «a buon diritto potrei chiamare in soccorso anche te». Il verbo παρακαλέω («call in, ... summon», LSJ s.v. παρακαλέω) è usuale per il coinvolgimento di un altro personaggio nella discussione: cf. e.g. ὅτι δ’ἡμᾶς μὲν συμβούλους παρακαλεῖς ..., Σωκράτη δὲ τόνδε οὐ παρακαλεῖς, θαυμάζω, Lach. 180b7-c1; più frequentemente per una richiesta, come qui, da parte di Socrate, cf. e.g. βούλει οὖν καὶ Νικίαν τόνδε παρακαλῶμεν κτλ., ibid. 194b8 ss.; ὦ Πρόδικε, ... δοκῶ οὖν μοι ἐγὼ παρακαλεῖν σέ, κτλ., Prot. 339e6-340a2, dove l’appello a Prodico assume uno scherzoso tono epico (cf. ὥσπερ ἔφη Ὅμηρος τὸν Σκάμανδρον πολιορκούμενον ὑπὸ τοῦ Ἀχιλλέως τὸν Σιμόεντα παρακαλεῖν, κτλ., Prot. 340a2 ss.); cf. anche Phaed. 89c7-10. Non è pertinente il rinvio, fatto da Jantzen (1989), 70 n. 10, alla «βοήθεια-Situation» che sarebbe secondo Szlezák (1985), 66-71, una struttura portante dei dialoghi platonici, dal momento che si tratterebbe comunque, in questo caso, non di «portare soccorso» al ragionamento tramite nuove argomentazioni, ma semplicemente di un intervento «diplomatico» che permetta la prosecuzione della discussione, una scena ricorrente nei dialoghi giovanili (cf. infra, nota introduttiva ad 373a9-c5). 373a6 ὦ παῖ Ἀπημάντου «o figlio di Apemanto», cioè Eudico: cf. supra, τοῦ σοῦ πατρὸς Ἀπημάντου, 363b1-2, con nota ad loc. Il vocativo ὦ παῖ seguito dal genitivo ha un tono solenne, spesso da intendersi con una sfumatura ironica, come probabilmente in questo caso («The phrase ὦ παῖ Ἀπημάντου is chosen ... to give a kind of mock heroic air to the appeal for aid», Smith (1895) ad loc.), benché si possa talora spiegare semplicemente con la giovane età dell’interlocutore, che viene dunque indicato con il nome del padre, una giustificazione che anche qui non può essere del tutto esclusa. Per altre occorrenze di questo vocativo nel corpus platonico, cf.

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COMMENTO

Crat. 384a8 e 406b8, Phil. 19b5, Symp. 198a5, Charm. 158b1 e 169b5, Lys. 204b5, 207b8 e 209a5, Euthyd. 278e2 e 279d1, Prot. 328d8, 335d6-7, Men. 76e6, Resp. 4.427c6 (solo una volta pronunciato da un personaggio diverso da Socrate, Lach. 180d7), e in generale sul suo uso cf. Halliwell (1995), 98-100. 373a6 σὺ γάρ με ἐπῆρας κτλ. «sei tu infatti ad avermi spinto...». Cf. supra, 363a1 ss. 373a7 διαλέγεσθαι «dialogare». Il verbo, che ricorre solo qui nel dialogo, indica lo scambio di domande e risposte (ἐρωτᾶν καὶ ἀποκρίνεσθαι) caratteristico della dialettica socratica, in contrapposizione al precedente μακρὸν ... λόγον (373a2), che designa invece la modalità del discorso continuo preferita dai sofisti (cf. supra, nota ad loc.): cf. Kahn (1996), 303: «In the Hippias minor we find what is probably the earliest methodologically marked use of dialegesthai for the technique of question and answer». 373a7-8 ἐὰν μή μοι ἐθέλῃ ... ὑπὲρ ἐμοῦ «se Ippia non vuole rispondermi, pregalo tu per me». Cf. l’identica richiesta che Socrate rivolge a Callia nel Protagora: εἰ οὖν ἐπιθυμεῖς ἐμοῦ καὶ Πρωταγόρου ἀκούειν, τούτου δέου, ὥσπερ τὸ πρῶτόν μοι ἀπερκίνατο διὰ βραχέων τε καὶ αὐτὰ τὰ ἐρωτώμενα, οὕτω καὶ νῦν ἀποκρίνεσθαι, Prot. 336a5-b1; per il parallelo, cf. Pohlenz (1913), 83.

373a9-c5 Eudico ricorda a Ippia l’impegno preso, invitandolo a proseguire la discussione secondo le modalità concordate. Questi, alla fine, accetta, ma non senza protestare ancora sui metodi adottati da Socrate e sottolineando di proseguire solo per gentilezza nei confronti di Eudico stesso. Anche in altri dialoghi, in momenti di crisi, si rende necessario l’intervento di terzi affinché la discussione possa proseguire: su queste vere e proprie «scene tipiche», cf. Longo (2000), 84-90, mentre sul ruolo di mediatore e “garante del dialogo” svolto da Eudico cf. cf. supra, 363a1-c3 e nota ad loc. In generale, quando il dialogo si svolge in un’abitazione privata, ad intervenire sono in primo luogo i padroni di casa, come Callia nel Protagora (Prot. 335c8 ss.) e Glaucone nella Repubblica (Resp. 1.337d9 ss.), ma si tratta a volte anche di altri astanti (cf. Gorg. 458c3 ss., dove prima Cherefonte e poi Callicle pregano Gorgia di proseguire la discussione; ibid., 497b4 ss., dove è ora Gorgia a convincere Callicle a rispondere a Socrate). Nel Protagora, che rispetto all’Ippia minore presenta una situazione a parti inverse, in cui Socrate sembra volersene andare interrompendo la discussione con Protagora (335b3 ss.), intervengono a trattenerlo e tentare una riconcilia-

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INTERMEZZO (372A6-373C5)

zione numerosi personaggi, in un intermezzo particolarmente lungo (Alcibiade, 336b7 ss.; Crizia, 336d6 ss.; Prodico, 337a1 ss.; e lo stesso Ippia, 337c6 ss.). 373a9 οὐδὲν δεήσεσθαι ... δεήσεως «penso che Ippia non avrà alcun bisogno della nostra preghiera». Eudico vincola in anticipo il sofista ad assecondare la richiesta di Socrate: cf. supra, ἀλλὰ δῆλον ὅτι οὐ φθονήσει Ἱππίας κτλ., 363c4. Da notare il gioco di parole reso possibile dal futuro δεήσεσθαι con il sostantivo δεήσεως. 373b1-2 οὐ γὰρ ... ἐρώτησιν «non erano infatti tali le sue dichiarazioni di prima, ma (diceva) che non si sarebbe sottratto alla domanda di nessuno». Cf. supra, 363c7-4. Anche Gorgia è costretto a continuare a rispondere a Socrate in ragione della disponibilità dichiarata all’inizio del dialogo (αἰσχρὸν δὴ τὸ λοιπόν, ... γίγνεται ἐμέ γε μὴ ἐθέλειν, αὐτὸν ἐπαγγειλάμενον ἐρωτᾶν ὅτι τις βούλεται, Gorg. 458d7-8, dove si fa riferimento a quanto aveva garantito Callicle in 447c6-8). 373b2 ἦ γάρ «Vero?». Per la formula ἦ γάρ come richiesta di assenso, cf. supra, 363c5 e nota ad loc. L’intervento di Eudico ripete esattamente, nella struttura, il primo (363c4-6). 373b4-5 ἀεὶ ... ἐν τοῖς λόγοις «porta sempre confusione nei ragionamenti». Per questo tipo di accuse a Socrate, cf. supra, 369b8 ss. e note ad locc. 373b5 ἔοικεν ... κακουργοῦντι «sembra che si comporti come chi commette una cattiva azione». Rispetto ad altri interlocutori, Ippia «avanza timidamente l’accusa» secondo Calogero (1938) ad loc., ulteriormente mitigata dalla formula attenuativa ἔοικεν ὥσπερ. Per l’uso del verbo κακουργέω nello stesso contesto, cf. Resp. 1.338d3 (κακουργήσαις ... τὸν λόγον), 341a7 (ἐν λόγοις κακουργοῦντα), 341b1 e b9. 373b6 ὦ βέλτιστε Ἱππία Lett. «ottimo Ippia». Il vocativo ὦ βέλτιστε è un altro caratteristico vocativo socratico, frequente soprattutto nei dialoghi del primo e del secondo periodo (Euthyphr., Ap., Crit. Phaed., Crat., Symp., Phaedr., Charm., Lach., Euthyd., Prot., Gorg., Hipp. mai., Ion, Resp. 1.337e4 e 338c6; cf. però anche Pol. 263a5 e 295b7); sulle sfumature di significato assunte da questo vocativo, cf. Halliwell (1995), 105-6. Il suo uso è comunque attestato anche al di fuori del corpus platonico, soprattutto in commedia (Aristoph. Ach. 929, Eq. 622, Vesp. 387, Plut. 631 e 1172), oltre che, più raramente, anche nell’oratoria (Lys. Or. 10.18.3 e [Demosth.] Or. 42.27.10), ed è perciò considerabile un colloquialismo; cf. Thesleff (1967), 87. Sull’enfatica posizione incipitaria del vocativo, cf. supra, 369a8 e nota ad loc. 373b6-7 οὔτι ἑκών γε ... ἀλλ’ἄκων «non lo faccio volontariamente ... ma senza volere». Il richiamo da parte di Socrate all’involontarietà dell’errore, che rimanda qui indirettamente al principio dell’involontarietà del male in esame nel dialogo, è un motivo ricorrente nei dialoghi socratici: cf. Gorg.

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COMMENTO

488a2 ss., dove Socrate ribadisce di sbagliare senza volere (οὐχ ἑκὼν ἁμαρτάνω ἀλλ’ἀμαθίᾳ τῇ ἐμῇ, 488a3-4) e prega perciò ironicamente Callicle di correggerlo e istruirlo (488a4 ss.); cf. anche Resp. 1.336e2-4 (εἰ γὰρ ἐξαμαρτάνομεν ἐν τῇ τῶν λόγων σκέψει ἐγώ τε καὶ ὅδε, εὖ ἴσθι ὅτι ἄκοντες ἁμαρτάνομεν), oltre che tutto l’intermezzo dell’Eutifrone (11b9 ss.; cf. in part. ἄκων εἰμὶ σοφός, 11d7). Su questo passo, cf. anche Szlezák (1985), 85, e 112-13 per il parallelo dell’Eutifrone. 373b7 σοφὸς ... κατὰ τὸν σὸν λόγον «altrimenti sarei sapiente e abile, secondo la tua tesi». La caratteristica professione d’ignoranza socratica (sul significato del passo nel suo insieme cf. supra, nota precedente), ma anche un rimando polemico alla tesi di Ippia, secondo cui chi compie il male è, appunto, abile e sapiente: cf. supra, 365e8 ss. (καὶ μάλα σφόδρα ἐπίστανται· διὰ ταῦτα κακουργοῦσιν. ... σοφοὶ μὲν οὖν αὐτά γε ταῦτα, ἐξαπατᾶν, 365c8-366a1). Per l’espressione κατὰ τὸν σὸν λόγον, cf. supra, 365e1 e nota ad loc. 373b7 σοφὸς … καὶ δεινὸς «sapiente e abile». Ricorre solo qui, nel dialogo, l’agg. δεινός nel senso di «clever, skilful» (LSJ s.v. δεινός, III), con il quale Platone non si riferisce mai alla vera sapienza: esso può indicare invece, piuttosto, un’abilità tecnica o presunta tale (περὶ Ὁμήρου … δεινός, Ion 531a1-2; τῶν περὶ τοὺς λόγους τοὺς εἰς τὰ δικαστήρια δεινῶν, Euthyd. 304d6), e può assumere anche valore negativo (Theaet. 176d2). La stessa coppia di aggettivi, in part., è adoperata per Protagora: σοφὸς καὶ δεινός, Prot. 341a. Al di fuori del corpus platonico, cf. e.g. ἀνὴρ δεινός τε καὶ σοφός, Herod. 5.23; detto di Odisseo, γλώσσῃ … δεινοῦ καὶ σοφοῦ, Soph. Phil. 440. 373b8 ὥστε ... συγγνώμην ἔχε «sicché abbi indulgenza». Per il tema di Socrate che chiede ironicamente comprensione all’interlocutore, cf. Euthyd. 273e7-274a1 e 304d1; ἐλεεῖσθαι οὖν ἡμᾶς πολὺ μᾶλλον εἰκός ἐστίν που ὑπὸ ὑμῶν τῶν δεινῶν ἢ χαλεπαίνεσθαι, Resp. 1.337a1-2; cf. anche la promessa fatta da Ippia, supra, 364d5-6. Per l’imperativo in dipendenza da ὥστε, cf. KG I, 239 (con rinvio anche a questo passo). 373b8-9 φῂς γὰρ ... ἔχειν «dici infatti che si deve aver indulgenza per chi sbagli senza volere». Cf. supra, 372a2-3. 373c1 καὶ μηδαμῶς γε ... ποίει «Non fare assolutamente in altro modo». L’espressione μὴ ἄλλως ποίει, qui con il rafforzativo μηδαμῶς, è convenzionale forma di esortazione di uso frequente nei dialoghi platonici, soprattutto del primo e secondo periodo (cf. e.g. Crit. 45a3, Phaed. 117a3, Lach. 181c3, Resp. 1.328b7, 328d4-5 e 338a1-2, etc.; cf. comunque anche Parm. 136e8; con il rafforzativo, μηδαμῶς ἄλλως ποίει, Crit. 46a8). Eccetto che in Resp. 2.369b4, dove è usato da solo, accompagna sempre un comando positivo: cf. Adam (1902) ad Resp. 1.328b7.

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373c1-2 καὶ ἡμῶν ... λόγων «sia per riguardo a noi che per coerenza con le tue precedenti dichiarazioni». Ippia è indotto a sottomettersi nuovamente all’interrogazione socratica sia per coerenza rispetto alle proprie affermazioni (cf. supra, 373b1-2 e nota ad loc.), sia per riguardo nei confronti dei presenti, probabilmente non solo gli stessi Eudico e Socrate, ma anche altre persone (cf. supra, 369c7 e nota ad loc.), che si presumono interessate ad ascoltare. La richiesta di proseguire la discussione per compiacere un desiderio del pubblico è costante in queste situazioni: cf. μηδαμῶς, ὦ Καλλίκλεις, ἀλλ’ἀποκρίνου καὶ ἡμῶν ἕνεκα, ἵνα περανθῶσιν οἱ λόγοι, Gorg. 497b4-5; δέομαι οὗν σου παραμεῖναι ἡμῖν, Prot. 335d3-4; nell’omonimo dialogo, Gorgia tenta di appellarsi al pubblico, al contrario, per interrompere la discussione, ostentando la preoccupazione di non annoiare i presenti, che hanno già ascoltato la sua lunga conferenza (Gorg. 458b4 ss.), ma questi si mostreranno invece favorevoli alla prosecuzione (458c3-5), costringendolo a non sottrarsi all’interrogazione socratica. 373c3 ἀποκρίνου «rispondi». A differenza di Socrate, che usa preferibilmente il più cortese imperativo aoristo (ἀπόκριναι, 365d3, 336e3, 375d7-8), situandosi in una posizione di inferiorità rispetto al sofista, Eudico usa ora l’imperativo presente, intimando a Ippia di tener fede alla sua promessa: cf. Lallot (2000), 52. 373c4 σοῦ γε δεομένου «perlomeno perché sei tu a chiederlo». Ippia accetta alla fine di proseguire il dialogo, ma non manca di sottolineare, in implicita polemica con Socrate, che si tratta di una cortesia nei confronti di Eudico: anche questo è tratto costante in situazioni analoghe, cf. ἀλλ’εἰ δοκεῖ τουτοισί, διαλέγου τε καὶ ἐρώτα ὅτι βούλει, Gorg. 458e1-2; ἐρώτα δὴ σὺ ... ἐπείπερ Γοργίᾳ δοκεῖ οὕτως, 497c1-2, cf. ἵνα σοι περανθῇ ὁ λόγος καὶ Γοργίᾳ τῷδε χαρίσωμαι, 501c7-8. 373c4-5 ἀλλ’ἐρώτα ... βούλει «Chiedi pure ciò che vuoi». La risposta di Ippia riecheggia quella data in 365d5, sottolineando il parallelismo tra le due situazioni e determinando quindi l’avvio della nuova fase di interrogazione dialettica. Più polemica l’analoga risposta di Callicle (cf. anche supra, nota precedente), che coglie l’occasione per rimarcare le proprie critiche al metodo di interrogare di Socrate: ἐρώτα δὴ σὺ τὰ σμικρά τε καὶ στενὰ ταῦτα, Gorg. 497c1-2. Sull’utilizzo dell’imperativo presente, che ribadisce la posizione di superiorità di Ippia, cf. ancora Lallot (2000), 52.

SECONDA FASE DIALETTICA (373C6-376C6) La seconda fase dialettica si sviluppa in forma epagogica, ovvero attraverso una lunga rassegna di casi che mira a verificare, per via induttiva, il princi-

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pio emerso dalla precedente dimostrazione, secondo cui cioè chi sbaglia intenzionalmente è superiore a chi lo fa senza volere (cf. 373c6-8), approdando infine, per estensione analogica, alla conclusione che anche in ambito etico dovrebbe essere migliore chi compie volontariamente il male, il quale anzi non potrebbe essere altri che la persona buona stessa (376b4-6). I casi esaminati nel corso dell’epagoge sono suddivisibili in una serie di gruppi, per ciascuno dei quali si arriva a formulare una generalizzazione: si tratta, dapprima, delle capacità e attività fisiche (373c-374b; cf. ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ τῇ τοῦ σώματος χρείᾳ, 375a7), cui fanno seguito altri atteggiamenti esteriori, ovvero l’εὐσχημοσύνη (374b5-c1); in secondo luogo sono considerati gli organi corporei (374c-d), da cui si passa poi agli strumenti materiali, con una terza generalizzazione (374d-e), e infine al possesso, strumentalmente inteso, dell’anima (ψυχὴν κεκτῆσθαι, 375a1), prima dell’anima di animali (375a1 ss.) e poi di quella umana (375a7 ss.). Si considerano nuovamente a questo proposito, come nella prima fase dialettica, una serie di scienze e tecniche, viste ora come attività dell’anima, con la conclusione che anche in questi casi è migliore l’anima che sbaglia volontariamente (375c1-3). Il passaggio cruciale avviene quando, alla fine della sezione, dopo aver esaminato la questione in relazione all’anima degli schiavi (375c3 ss.), Socrate pone la domanda per quel che riguarda la nostra stessa anima (τὴν ἡμετέραν αὐτῶν, 375c6-7): non sarà forse migliore anche in questo caso quella che compia il male volontariamente? La conclusione non incontra, questa volta, l’assenso dell’interlocutore (375d3-4). L’argomentazione procede però con l’esame del caso della giustizia (375d7 ss.), arrivando apparentemente a confermare il paradossale risultato: se infatti la giustizia è una capacità (δύναμις) o una scienza (ἐπιστήμη) o entrambe le cose, come appare necessario che essa sia (375d8-e1), deve valere anche in questo caso lo stesso principio dei precedenti, e quindi la persona che commette ingiustizia volontariamente non può essere altri che la persona buona, cioè quella che conosce la giustizia (376b4-6). Per critiche all’argomentazione socratica, che sarebbe viziata da un’ambiguità di fondo, consistente nella confusione tra l’uso di ἀγαθός (insieme ai comparativi βελτίων e ἀμείνων) in senso tecnico-prestazionale da un lato e in senso morale dall’altro, cf. e.g. Guthrie (1975), 195, secondo il quale Socrate «plays on ambiguities all the way through, especially on ‘good’ (agathos) as good at a technical accomplishment and as morally good»; cf. anche Hoerber (1962), 127; Sprague (1962), 74-77; Mulhern (1968), 287; Kahn (1996), 117 n. 19, che riprende l’analisi di Sprague (1962); Beversluis (2000), 108-9; secondo Petrucci (2012), l’ambiguità tra semantica prestazionale e prospettiva morale è centrale nel dialogo. L’ambiguità terminologica, tuttavia, può trovare giustificazione nella prospettiva socratica secondo

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cui la virtù è conoscenza, come d’altronde osservava già O’Brien (1967), 100 n. 11: «is Socrates’ “equivocal” use of “good” really equivocal if we grant the Socratic assumption that virtue is an ability or knowledge (cf. 375d)?». La transizione in questo senso è preparata dalla domanda relativa alla nostra anima su cui si è già posta l’attenzione (τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν, 375c6-7): non più, dunque, l’anima impegnata in una specifica attività tecnica, ma l’anima dell’uomo in quanto tale, il cui àmbito specifico è individuato nel passaggio successivo nella giustizia (δικαιοσύνη). Su questo punto, cf. Weiss (1981), 302: «In all the arts and sciences, the good man is the good artist or scientist, the man with skill or ability in his area of expertise. But to find simply ὁ ἀγαθός ... we need to find the skill of man qua man. This is δικαιοσύνη». Per un’analisi su questa linea, cf. anche Jantzen (1989), 101-4. Per un’interpretazione dell’argomentazione nel suo insieme, cf. Introduzione, 4. «L’inganno e la volontarietà del male».

373c6-374b4 La discussione riprende con l’esame della questione appena emersa, ovvero se sia migliore chi sbaglia volontariamente o chi lo fa senza volere. Nella corsa, ad esempio, non è forse il buon corridore che può correre apposta anche lentamente, mentre il cattivo corridore lo fa involontariamente? E così nella lotta e in tutte le altre attività fisiche è colui che è migliore nel corpo a poter realizzare sia le azioni malfatte che quelle benfatte, e di conseguenza, quando compie un’azione malfatta, a compierla di proposito e non involontariamente. La prima serie di esempi, relativi alle attività fisiche (cf. ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ τῇ τοῦ σώματος χρείᾳ, 374a7). 373c6 καὶ μὴν ... διασκέψασθαι «In effetti desidero davvero ... indagare a fondo». L’uso del composto διασκέψασθαι preannuncia che l’indagine prenderà la forma di una sistematica rassegna, volta a procedere attraverso tutti i casi possibili: «examiner à fond», Croiset (1920); cf. anche supra, ἐπίσκεψαι κατὰ πασῶν τῶν ἐπιστημῶν, 368a8, e nota ad loc. Per l’uso «inceptive-responsive» di καὶ μήν, cf. supra, 363a6 e nota ad loc. 373c7 τὸ νῦν δὴ λεγόμενον «quel che si diceva poco fa». Cf. supra, 371e9-372a2, 372d4-7, e2-6. Per la grafia di νῦν δή, cf. supra, 363b1 e nota ad loc. 373c7-8 πότεροι ... ἁμαρτάνοντες «quali sono migliori, coloro che sbagliano volontariamente o involontariamente». La tesi emersa poco prima (per i riferimenti cf. supra, nota precedente) è ora riformulata da Socrate con l’uso del solo verbo ἁμαρτάνω, che può coprire un’ampia gamma semantica dal semplice errore, applicabile all’ambito tecnico, fino al com-

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mettere il male, in senso etico (cf. LSJ s.v. ἁμαρτάνω, I.2 «generally, fail of one's purpose, go wrong», e II. «do wrong, err, sin»), laddove in precedenza erano stati adoperati invece anche termini dall’univoca valenza etica come βλάπτειν e ἀδικεῖν (cf. supra, 372d4-7 e nota ad loc.). In questo modo la tesi non incontra ora l’immediata reazione di Ippia, e Socrate può riprendere la discussione esaminandola e dimostrandone anzi la validità generale, prima di ritornare alle sue conseguenze sul piano etico (375d1 ss.). 373c8-9 οἶμαι ... ἐλθεῖν «penso che in questo modo si possa procedere all’indagine nella maniera più corretta», dove l’avverbio ὧδε è da intendersi proletticamente, in riferimento a quanto segue e quindi in generale alla maniera in cui la discussione verrà condotta da Socrate nella restante parte dell’argomentazione: cf. ὧδε δὲ σκοπῶμεν, Euthyphr. 7b6; σκεψώμεθα ... τῇδέ πῃ, Phaed. 70c4 e 73b4, Resp. 1.351a7, Leg. 1.639a2. Per l’espressione ἐπὶ τὴν σκέψιν ... ἐλθεῖν, priva di esatti paralleli nei dialoghi di contro alla più frequente perifrasi σκέψιν ποιεῖν (e.g. Phaedr. 237d2, Phil. 28c9, Leg. 7.799d5 etc.), cf. comunque ἐμβεβήκαμέν γε εἴς τινα σκέψιν ἱκανήν, Leg. 3.686c5; des Places (1964), s.v. σκέψις, b. In generale per l’indicazione, da parte di Socrate, della via migliore per procedere nella ricerca, cf. τῇδε τοίνυν ... δοκεῖ μοι βελτίστη εἶναι ἡ σκέψις, Charm. 158e6; μὴ τοίνυν ... περὶ ὅλης ἀρετῆς εὐθέως σκοπώμεθα ... ἀλλὰ μέρους τινὸς πέρι πρῶτον ἴδωμεν εἰ ἱκανῶς ἔχομεν πρὸς τὸ εἰδέναι· καὶ ἡμῖν, ὡς τὸ εἰκός, ῥᾴων ἡ σκέψις ἔσται, Lach. 190c8-d1; con l’esplicita metafora di una via di ricerca, ἀλλὰ ταύτῃ μὲν μηκέτι ἴωμεν – καὶ γὰρ χαλεπή τίς μοι φαίνεται ὥσπερ ὁδὸς ἡ σκέψις κτλ., Lys. 213e3-4. 373c9 ἀλλ’ἀπόκριναι «ma rispondi». L’imperativo, che riprende la precedente battuta di Ippia (ἀλλ’ἀποκρινοῦμαι .... ἀλλ’ἐρώτα ὅτι βούλει, 373c4-5), segna l’inizio della nuova interrogazione; cf. poi infra, 375d7-8, e nota ad loc. Per l’uso dell’imperativo aoristo, usato regolarmente da Socrate e più cortese rispetto al presente, usato invece da Eudico in 373c2, cf. supra, 365d3, 366e3 e infra, 375d7-8; cf. Lallot (2000), 53-54. 373c9 καλεῖς τινα κτλ. «C’è qualcuno che chiami buon corridore?», lett. «Chiami qualcuno buon corridore?». La domanda equivale, per significato, a ἔστι τις δρομεὺς ἀγαθός; e quindi «Does there exist someone whom you call a good runner?», Rijksbaron (2007), 245 n. 256. Si tratta di una formulazione caratteristica nell’interrogazione socratica per introdurre un nuovo oggetto all’interno dell’argomentazione: prima di passare ad indagarne le proprietà, Socrate si assicura l’assenso del suo interlocutore sull’esistenza stessa di un oggetto cui entrambi attribuiscono lo stesso nome. Cf. e.g. ἡγούμεθά τι τὸν θάνατον εἶναι; Phaed. 64c2 con Rowe (1993) ad loc.; cf. anche ἀφροσύνην τι καλεῖς; (Prot. 332a4), καλεῖς τι μεμαθηκέναι; (Gorg. 454c7) e σῶμά που καλεῖς τι καὶ ψυχήν; (ibid. 464a1), etc.

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373d5 ἀλλὰ τί μέλλει; «Certo», lett. «Che (altro) potrebbe (essere)?». Per questo tipo di risposta ellittica, cf. supra, 365c5 e nota ad loc., e per l’uso di ἀλλά affermativo, ancora supra, 363c4 e nota ad loc. 373d8-e1 εἰ δὲ ποιεῖν ... ἐργάζεσθαί τι «Se è fare, non è anche realizzare qualcosa?». Non è ancora presente, in Platone, la specializzazione del verbo ποιεῖν ad indicare la produzione materiale, distinta dall’azione, che sarà teorizzata da Aristotele (E.N. 6.4.1140a1 ss.). Cf. invece la faziosa distinzione tra i due verbi proposta da Crizia in Charm. 163b3 ss., in base alla quale il ποιεῖν si applicherebbe esclusivamente alle tecniche artigianali, laddove l’ἐργάζεσθαι indicherebbe le azioni che si accompagnano ad un certo decoro sociale (ποίημα μὲν γίγνεσθαι ὄνειδος ἐνίοτε, ... ἔργον δὲ οὐδέποτε οὐδὲν ὄνειδος· τὰ γὰρ καλῶς τε καὶ ὠφελίμως ποιούμενα ἔργα ἐκάλει, 163c1-3), distinzione subito bollata da Socrate come insegnamento di matrice prodicea (163d3-4), inutile per la sostanza della discussione (163d5 ss.). 373e2 πῶς γὰρ οὔ; «Come no?». Per questo tipo di risposta affermativa, cf. supra, 365c5 e nota ad loc. 373e5 ἔοικέν γε «Sembra». Nel momento in cui inizia a profilarsi l’esito del ragionamento, Ippia passa ad una forma attenuata di assenso; cf. anche infra, 374a3, a6, b3. 373e6-374a1 ἐν δρόμῳ μὲν ἄρα … ἢ ὁ ἑκών; «Nella corsa, dunque, è peggiore colui che compie involontariamente azioni malfatte rispetto a chi la compie volontariamente?». Si chiude qui l’argomentazione relativa al primo esempio, che raggiunge ora una conclusione (ἄρα, 373e6). 374a1 ἢ ὁ ἑκών «rispetto a quello (scil. che compie un’azione malfatta) volontariamente». L’ἢ è in questo caso comparativo (πονηρότερος ... ἢ), e non disgiuntivo come nei casi precedenti, in cui si tratta di interrogative introdotte da πότερος (373c7-8, 373d5-6): è ora infatti formulata la conclusione relativa all’esempio in questione (cf. supra, nota precedente), sulla quale Socrate chiede l’assenso di Ippia. 374a1 ἐν δρόμῳ γε «Perlomeno nella corsa». Ippia dà il suo assenso solo limitatamente al caso considerato: cf. supra, ἐνταῦθά γε, 367d3 e nota ad loc., oltre che infra, 374b3-4, 374d7, 375b4. 374a1 τί δ’ἐν πάλῃ; «E nella lotta?». L’introduzione di un nuovo esempio avviene in quasi tutta la sezione attraverso la combinazione di particelle τί δέ (cf. 374a1, a7, b5, c2, d2, e3; 375a1, b4, b7, c6; τί δὲ δή, 375a7), adoperata come formula di transizione: «And what of this that follows?», Denniston (1954²), 176; cf. Cooper (1998), II, 1033-34; KG II, 518 n. 4; LSJ s.v. τίς, B.I.8.f («serving to pass on quickly to a fresh point ... τί δέ, εἰ...; ‘but what, if..?’»). Poiché dunque il termine seguente è strettamente connesso a τί δέ, è preferibile porre segno di interpunzione, come fa qui Burnet (19092), dopo l’intero sintagma introdotto da τί δέ, distinguendo in tal modo quest’uso

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da quello del τί δέ esclamativo, frequente negli scambi dialogati, «expressing surprise and incredulity» in reazione ad una precedente battuta: «‘What?!’», Denniston (1954²), 175. Nelle edizioni moderne non è tuttavia adottato un criterio uniforme, ma si incontra talora segno di interpunzione direttamente dopo τί δέ anche in presenza in un evidente τί δέ transizionale, nei casi in cui il termine successivo non costituisca un complemento isolabile dalla frase seguente: per l’interpunzione dopo l’intero sintagma, oltre che questo passo, cf. supra, τί δὲ τὰ ψευδῆ περὶ τῶν αὐτῶν τούτων; (366de1-2), e infra, τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ ... χρείᾳ; (374a7), τί δὲ κατ’εὐσχημοσύνην, ὦ Ἱππία; (374b5), e, con un’intera proposizione, τί δὲ φωνῆς πέρι λέγεις; (374c2); ma, viceversa, cf. τί δέ; ἀμβλυωπία οὐ πονηρία ὀφθαλμῶν; (374d2), τί δέ; ὀργάνων ποτέρων βελτίων ἡ κοινωνία κτλ. (374e3), τί δέ; ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου κτλ. (375a1), τί δὲ δή; ἀνθρώπου ψυχὴν κτλ. (375a7); e poi di nuovo τί δ’ἐν ἰατρικῇ; (375b4), ma: τί δέ; ἡ κιθαριστικωτέρα κτλ. (375b7 ss.) e τί δέ; τὴν ἡμετέραν αὐτῶν κτλ. (375c6 ss.); cf. anche infra, τί δ’εἰ ἐπιστήμη; (375e4) e τί δ’εἰ ἀμφότερα; (375e6). Sulla questione cf. Rijksbaron (2007), 243-57, in part. 244-49 per l’analisi Hipp. min. 373c8-376b6, il quale sostiene la necessità di uniformare la punteggiatura ponendo in tutti i casi segno di interpunzione dopo il sintagma introdotto da τί δέ, sulla scorta di KG II, 518 n. 4 («Um den Gegenstand der Frage ... hervorzuheben, werden oft die Worte, welche diesen Gegenstand bezeichnen, mit τί δέ vorangestellt»), scelta che si è preferita anche nella presente edizione, anche se con divergenze rispetto alle proposte di Rijksbaron (2007) in due punti, 375a1 e 375a7-8, per cui cf. infra, note ad locc. 374a3 ὡς ἔοικεν «a quanto pare». Cf. supra, 373e5 e nota ad loc. 374a3-4 πονηρότερον ... ἢ τὸ καταβάλλειν; «È cosa peggiore e più disdicevole, nella lotta, cadere o far cadere?». In questo caso ἤ è nuovamente disgiuntivo e non comparativo (cf. supra, 374a1 e nota ad loc.), a differenza di quanto intendono invece alcune traduzioni, per es. «N’est-il pas moins bon et moins honorable, à la lutte, de tomber que de renverser son adversaire?», Croiset (1920), e ora «n’est-il pas plus pénible et plus honteux de tomber par terre que d’y jeter son adversaire?», Fronterotta (2005); cf. anche la replica di Ippia, che indica l’alternativa prescelta (τὸ πίπτειν, 374a4), che impropriamente Croiset (1920), fuorviato dall’interpretazione scorretta della domanda precedente, traduce come formula di assenso, «En effet». 374a6 ἢ ὁ ἄκων Comparativo, e non disgiuntivo (cf. supra, ἢ ὁ ἑκών, 374a1 e nota ad loc.). 374a6 ἔοικεν «Sembra». Cf. supra, 373e5 e nota ad loc. 374a7 τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ ... χρείᾳ; «E in ogni altro esercizio del corpo?». Dopo aver esaminato i due esempi della corsa e della lotta, Socrate tenta di raggiungere una prima generalizzazione, estendendo le conclusioni a tutte

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le attività fisiche, come avverrà in seguito per ciascuna delle categorie via via esaminate: cf. infra, πάντα ... εἷς λόγος συνέχει, 374d8-9; καὶ τἆλλα σύμπαντα, 374e6; καὶ τῶν ἄλλων ζῴων πάντων, 375a6-7; καὶ τἆλλα πάντα τὰ κατὰ τὰς τέχνας τε καὶ τὰς ἐπιστήμας, 375b8-c1. 374a7-8 ὁ βελτίων ... ἀμφότερα ἐργάζεσθαι «Il migliore dal punto di vista fisico è in grado di realizzare entrambi i tipi di azione». Cf. supra, ὁ ἀγαθὸς καὶ σοφὸς γεωμέτρης δυνατώτατός γε ἀμφότερα, 367e2-3. La superiorità consiste non tanto nel realizzare in modo volontario le azioni scorrette, ma piuttosto nella capacità di realizzare le azioni sia correttamente che scorrettamente, avendo quindi la possibilità di scegliere secondo l’occorrenza; cf. Cambiano (1991²), 76. 374a8-b1 καὶ τὰ ἰσχυρὰ ... καὶ τὰ καλά «sia le forti che le deboli, sia le belle che le brutte». Sulla coppia τὰ αἰσχρὰ καὶ τὰ καλά, da intendersi qui genericamente, cf. infra, 374b5 e nota ad loc. 374b1-3 ὥστε ... ἄκων «cosicché qualora compia azioni malfatte in relazione al corpo, chi è fisicamente migliore le compie volontariamente, chi è peggiore involontariamente». Propriamente, la conclusione del ragionamento dovrebbe essere che chi compie volontariamente azioni malfatte è chi è superiore, chi invece le compie involontariamente è chi è inferiore fisicamente, come supra, ὁ ἑκὼν τὰ πονηρὰ καὶ αἰσχρὰ ἐργαζόμενος βελτίων παλαίστης ἢ ὁ ἄκων, 374a5-6. Socrate sembra però presupporre che la persona fisicamente superiore, almeno nella misura in cui è tale, non possa mai sbagliare realmente, in maniera involontaria, ma, se sbaglia, lo faccia solo volontariamente: cf. supra, ὁ μὲν ἀγαθὸς δρομεὺς ἑκὼν τὸ κακὸν τοῦτο ἐργάζεται κτλ. 373e4-5. In Resp. 1.340c-e si ammette, in realtà, che anche l’esperto possa sbagliare, nel senso comune di commettere involontariamente un errore, ma si precisa che quando si parla di un tecnico non lo si definisce tale riferendosi al momento in cui sbaglia, ma nella misura in cui, in quanto tecnico, è infallibile (τὸ δ᾽οἶμαι ἕκαστος τούτων, καθ᾽ὅσον τοῦτ᾽ἔστιν, ὃ προσαγορεύομεν αὐτόν, οὐδέποτε ἁμαρτάνει, Resp. 1.340d9-e1). 374b3-4 ἔοικεν ... οὕτως ἔχειν Lett. «Sembra che ... stiano così», dove il soggetto è τὰ κατὰ τὴν ἰσχύν, per cui cf. nota seguente; più liberamente, «Sembra che le cose stiano così anche per quel che riguarda la forza». Per la forma limitativa d’assenso da parte di Ippia, cf. supra, 373e5 e nota ad loc. 374b3 καὶ τὰ κατὰ τὴν ἰσχὺν Lett. «anche le cose che riguardano la forza». Lo scopo di Socrate era estendere le conclusioni del ragionamento ad ogni tipo di attività fisica (cf. supra, 374a7 e nota ad loc.); Ippia invece limita ancora una volta (cf. supra, ἐν δρόμῳ γε, 374a1 e nota ad loc.) le conseguenze al singolo ambito considerato, quello della forza. Secondo il testo tràdito concordemente dai testimoni primari (TWF), τὰ κατὰ τὴν ἰσχύν è soggetto dell’infinitiva οὕτως ἔχειν («sembra che anche le cose che riguar-

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dano la forza stiano così»), mentre alcuni recenziori, e con essi lo Schanz, omettono καὶ τὰ (Vat. 226, Par. 1812; τὰ om. Coisl. 155, Par. 1811 et Ven. 186) lasciando il solo κατὰ τὴν ἰσχύν come complemento di relazione («Sembra che per quel che riguarda la forza sia così»).

374b4-375a1 Di fronte alla riluttanza del suo interlocutore, Socrate prosegue con l’esame di altri casi ancora, dalla grazia fisica agli organi del corpo e agli strumenti in generale: Ippia deve convenire che è preferibile possedere organi e strumenti con i quali si sbagli volontariamente, piuttosto che realmente difettosi. La seconda serie di esempi, in cui si passa dagli organi del corpo, il cui possesso è quindi interno al soggetto (cf. τῶν σαυτοῦ, 375d6), agli strumenti materiali (ὀργάνων, 375e3), il cui possesso è ovviamente estrinseco rispetto all’agente. 374b5 τί δὲ κατ’εὐσχημοσύνην «E per quel che riguarda la grazia?». A causa della resistenza opposta da Ippia (cf. supra, 374b3-4 e nota ad 374b3), Socrate aggiunge un altro esempio che prosegue ancora la serie delle attività fisiche, estendendo però il ragionamento a un campo non riconducibile a quello della forza cui Ippia aveva prima limitato il suo assenso (τὰ κατὰ τὴν ἰσχύν, 374b3). È possibile che l’esempio dell’εὐσχημοσύνη («grazia», «bel portamento») intenda riprendere il καὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ τὰ καλά di 374b1, lasciato fuori dalla risposta di Ippia che pone l’accento solo su τὰ ἰσχυρὰ καὶ τὰ ἀσθενῆ (374a8-b1), come ipotizza Smith (1895) ad loc.; tuttavia, come obietta Calogero (1938) ad loc., l’aggettivo αἰσχρός è usato anche in precedenza nel brano accanto a κακός e πονηρός in maniera generica per tutti i tipi di azioni considerate (cf. 373e1, e4-5 374a3, a5), senza uno specifico riferimento alla grazia esteriore. 374b5-7 οὐ τοῦ βελτίονος σώματός ... ἄκοντος; « Non è forse proprio del corpo migliore assumere volontariamente le posture brutte e scorrette, di quello peggiore l’assumerle involontariamente?». Dal genitivo τοῦ σώματος sono i attratti ἑκόντος (b6) e ἄκοντος (b7), che dovrebbero essere invece all’accusativo, dal momento che si riferiscono al sogg. sottinteso dell’infinitiva. 374b8-c1 ἡ μὲν ἑκούσιος ... πρὸς πονηρίας σώματος Lett. «quella volontaria (scil. ἀσχημοσύνη) dipende da una qualità, quella involontaria da un difetto del corpo». Con il genitivo, πρός può indicare la dipendenza di un effetto dalla causa (cf. LSJ s.v. πρός, A.II: «of effects proceeding from what cause soever»). I termini ἀρετή e πονηρία sono qui usati senza alcuna valenza morale: cf. Resp. 1.353b3 ss., dove si parla di ἀρετή e, viceversa, κακία di

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organi del corpo (ὀφθαλμῶν, 353b6; ὤτων, b8); des Places (1964), s.v. ἀρετή, 1°, «qualité, perfection», e s.v. πονηρία, a, «défaut», con riferimento in entrambi casi anche a questo passo. 374c2 τί δὲ ... λέγεις; «E che cosa dici a proposito della voce?». È qui formulata per esteso la domanda introdotta da τί δέ transizionale (su cui cf. supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1 e nota ad loc.), in cui anche negli altri casi è spesso da sottintendere un verbum sentiendi: «e che cosa pensi a proposito di... ?» (cf. infra, 374e3 e nota ad loc.). 374c2 φωνῆς πέρι «a proposito della voce». L’uso dell’anastrofe si incontra con maggiore frequenza nelle opere tarde, ma, benché raro, non è del tutto assente in quelle del primo periodo: cf. Brandwood (1990), 115-22. Con il caso della voce si entra nella seconda serie esaminata da Socrate, quella delle funzioni e degli organi del corpo, che si concluderà a 374d8e2. 374c5 δέξαιο δ’ἂν πότερον κτλ. «Preferiresti possedere le cose buone o le cattive?». La domanda conferisce un nuovo corso all’argomentazione, in cui da questo momento si pone la questione non più di chi sia superiore tra chi sbaglia volontariamente e chi invece involontariamente, ma di che cosa sia preferibile possedere, se organi e strumenti con cui sbagliare volontariamente o involontariamente (πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι κτλ., 374c6 ss.; ποτέρους οὖν ἂν βούλοιο ὀφθαλμοὺς κεκτῆσθαι κτλ., 374d3 ss.; ποτέρων scil. ὀργάνων, βελτίων ἡ κοινωνία, 374e3 ss.; cf. anche 375a2 e 375a8 con note ad locc.). 374c7 πόδας ... ἑκουσίως χωλαίνοντας Lett. «piedi ... che zoppicano volontariamente», o meglio «con cui zoppicare volontariamente»; direttamente «aimerais-tu mieux boiter volontairement ou involontairement?», Croiset (1920). Aristotele (Metaph. 5.29.1025a9-13) si soffermerà proprio su questo esempio per criticare il ragionamento ora svolto da Socrate, che può essere considerato valido solo se per volontariamente zoppo si intende chi imita volontariamente lo zoppicare, e non chi volontariamente si rende zoppo, il quale sarebbe senz’altro peggiore (τοῦτο δὲ ψεῦδος λαμβάνει διὰ τῆς ἐπαγωγῆς – ὁ γὰρ ἑκὼν χωλαίνων τοῦ ἄκοντος κρείττων – τὸ χωλαίνειν τὸ μιμεῖσθαι λέγων, ἐπεὶ εἴ γε χωλὸς ἑκών, χείρων ἴσως). 374d1 χωλεία δὲ ποδῶν οὐχὶ πονηρία κτλ. «Ma lo zoppicare dei piedi non è un difetto e una deformità?». La posizione di ποδῶν prima della negazione fa supporre che sia legato a χωλεία e non al successivo πονηρία (cf. invece infra, πονηρία ὀφθαλμῶν, 374d3), benché, come nota Berger (2012) ad loc., l’espressione χωλεία ποδῶν risulti ridondante in quanto il termine χωλεία, di uso medico (hapax platonico ed attestato solo qui nella letteratura di età classica), indica già di per sé l’essere zoppi nei piedi (da χωλός, «lame in the feet», LSJ s.v. χωλός, A); cf. comunque χωλὸς ... τῷ σκέλει, Ari-

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stoph. Thesm. 24, richiamato dallo stesso Berger (2012) ad loc., e χωλεία τοῦ σκέλους, Galen. 92.18.100, 2 Kuhn (cf. anche 17.4 364, 12). 374d2 τί δὲ ἀμβλυωπία; «E che dire della debolezza della vista?». Il termine ἀμβλυωπία, di uso medico come il precedente χωλεία (cf. anche infra, ἀμβλυώττοι, e nota ad loc.), indica la «vista debole», «offuscata» («dimsightedness», LSJ s.v. ἀμβλυωπία), come quando si passa dalla luce diretta all’oscurità: il verbo è adoperato da Platone nel famoso passo della Repubblica in cui il paragone con l’offuscamento della vista illustra il passaggio dell’anima dalla conoscenza noetica al mondo sensibile (ὀφθαλμοί, ... ὅταν μηκέτι ἐπ’ἐκεῖνά τις αὐτοὺς τρέπῃ ὧν ἂν τὰς χρόας τὸ ἡμερινὸν φῶς ἐπέχῃ, ἀλλὰ ὧν νυκτερινὰ φθέγγη, ἀμβλυώττουσί τε καὶ ἐγγὺς φαίνονται τυφλῶν, Resp. 6.508c4-7; lo stesso termine ritorna poi nella ripresa dell’immagine nel mito della caverna, Resp. 7.516e9, 517d6). Per la punteggiatura qui adottata, che si discosta da quella tradizionale in cui il segno di interpunzione è posto dopo τί δέ (τί δέ; ἀμβλυωπία οὐ πονηρία κτλ.), cf. Rijksbaron (2007), 245, oltre che supra, τί δ’ἐν πάλῃ; 374a1, e nota ad loc.: la struttura sintattica ripete infatti quella dei casi precedenti, dove Burnet (19092) e gli altri editori stampano invece punto interrogativo dopo l’intero sintagma introdotto da τί δέ (cf. supra, τί δ’ἐν πάλῃ; 374a1, τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ ... χρείᾳ; 374a6, τί δὲ κατ’εὐσχημοσύνην, ὦ Ἱππία; 374b5). Si noti che nella domanda precedente, che non è introdotta da τί δέ, vi è però come connettivo un δέ posposto a χωλεία (χωλεία δὲ ποδῶν οὐχὶ πονηρία κτλ., 374d1). Il nominativo ἀμβλυωπία sarebbe comunque da intendersi come anticipazione della sintassi della frase successiva: per altri casi, in cui già Burnet (19092), a differenza che in questo passo, poneva segno di interpunzione dopo il nominativo introdotto da τί δέ, soggetto dell’interrogativa seguente, cf. τί δέ οἱ θεοί, ὦ Εὐθύφρων; οὐκ εἴπερ τι διαφέρονται κτλ., Euthypr. 7d8; cf. anche infra, 375d6-7 e nota ad loc., per un caso simile con l’accusativo. 374d4 ποτέροις συνεῖναι «con i quali (vorresti) convivere»; cf. «letteralmente: “con i quali essere assieme”, cioè “di quali disporre”», Calogero (1938) ad loc.; «live with», Fowler (1926); «disposer pendant tout ta vie», Croiset (1920), laddove il soggetto, evidentemente coincidente con l’anima, è concepito come distinto e soltanto convivente con il corpo ed i suoi organi; cf. anche infra, κοινωνία, 374e3. Il ricorso alla nozione di κοινωνία e συνουσία in riferimento al rapporto tra l’anima e il corpo, come due entità distinte, sarà frequente nei dialoghi successivi, in part. nel Fedone: cf. e.g. τῷ σώματι ... συνοῦσα, scil. ψυχή, Phaed. 81b2, cf. ibid., ἡ ὁμιλία τε καὶ συνουσία τοῦ σώματος, 81c5; ἀπολύων ... τὴν ψυχὴν ἀπὸ τῆς τοῦ σώματος κοινωνίας, 65a1-2, cf. 65c8, 67a4, 80e3, Resp. 5.462c11 e 10.611c1.

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374d5 ἀμβλυώττοι ... παρορῴη «possa veder poco e veder male». I due verbi non sono sinonimi, in quanto col primo si intende l’avere la vista offuscata (cf. supra, 374d2 e nota ad loc.), con il secondo l’avere la visione distorta (genericamente «see amiss, see wrong», LSJ s.v. παροράω, III; cf. «false vision», LSJ s.v. παρόρασις, A): per l’uso medico dei termini e la loro distinzione ad indicare due differenti disturbi della vista, cf. ἐν ὀφθαλμοῖς μὲν τυφλότητές τε καὶ ἀμβλυωπίαι καὶ παροράσεις τινές, Galen. 7.56.11 Kuhn. Il verbo παροράω ricorre altrove nel corpus platonico in Theaet. 157e3-4, dove è affiancato ad altri verbi indicanti percezioni distorte (παρακούειν ἢ παρορᾶν ἤ τι ἄλλο παραισθάνεσθαι) e 195a7, oltre che in Hipp. mai. 300c8, ma in quest’ultimo caso in senso figurato. Per l’esempio di un uso volontariamente scorretto proprio dell’occhio e della vista, cf. anche Aristot. E.E. 8.1.1246a28-29, dove si parla più precisamente di «storcere» gli occhi (οἷον εἰ ὀφθαλμὸς ἰδεῖν ἢ καὶ ἄλλως παριδεῖν διαστρέψαντα). 374d6-7 βελτίω ... ἢ τὰ ἀκουσίως; «Ritieni dunque migliori, tra le tue parti del corpo, quelle che funzionano male volontariamente piuttosto che quelle che lo fanno involontariamente?». L’espressione τῶν σαυτοῦ si riferisce agli organi del corpo: cf. «tra le tue parti», Cambiano (1970); «parts ... of yourself», Fowler (1926). 374d7 ἢ τὰ ἀκουσίως Comparativo, dopo βελτίω, e non disgiuntivo. 374d7 τὰ γοῦν τοιαῦτα Si può intendere come accusativo di relazione, «perlomeno in cose di questo genere», come nella maggior parte delle traduzioni: «in tali cose», Cambiano (1970); «in matters of that sort», Fowler (1926); «in solchen Dingen», Schleiermacher (1805); oppure, meglio, come effettivo complemento oggetto («perlomeno le cose di questo genere»), che presuppone la sintassi della domanda precedente, in cui Socrate ha chiesto ad Ippia se preferisca, per quel che riguarda gli organi del suo corpo, quelli che sono malfunzionanti solo volontariamente: «Oui, je les préfère», Croiset (1920). Si noti che la risposta di Ippia limita la conclusione agli organi e funzioni corporee appena considerati, laddove Socrate aveva adoperato la più generica espressione τῶν σαυτοῦ (374d6). Per l’atteggiamento di Ippia, che nel corso dell’epagoge concede il suo assenso limitandolo di volta in volta ai singoli casi, cf. anche supra, ἐν δρόμῳ γε, 374a1 e nota ad loc. 374d8-9 οὐκοῦν πάντα ... εἶς λόγος συνέχει «Un unico ragionamento, dunque, comprende tutte queste cose, come orecchie, naso, bocca e tutti gli organi di senso», dove αἰσθήσεις, al plurale, indica appunto i sensi (cf. LSJ s.v. αἴσθησις, A: «in pl., the senses»). Una seconda generalizzazione (cf. supra, 374a7 e nota ad loc.), che chiude l’esame della categoria degli organi di senso.

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374d8 οἷον καὶ ὦτα κτλ. «ad esempio orecchie etc.». Per quest’uso di οἷος, cf. LSJ s.v. οἷος, V.2.b («as for instance»). 374d9 ἀκόντως I mss. tramandano qui concordemente la lezione ἀκόντως, laddove nel corso dell’intera sezione è invece adoperato l’avverbio ἀκουσίως, in opposizione ad ἑκουσίως (che figura anche qui subito dopo, 374d2): cf. supra, 374c3, c4, c7, d6-7; infra, 375a5, a8-b1, b3-4, c4-5. La correzione di Cobet, ἀκουσίως, può perciò a prima vista apparire una banalizzazione, non vedendosi come un termine così frequente nel passo potrebbe essersi corrotto in un altro che non vi è invece attestato. L’avverbio ἀκόντως, tuttavia, non risulta del tutto appropriato per significato, in quanto significa «controvoglia, malvolentieri» («unwillingly», LSJ s.v. ἀκόντως), piuttosto che «involontariamente», come indicano le uniche altre due attestazioni del termine in età classica: cf. ὡμολόγησεν καὶ μάλ’ἀκόντως, Prot. 333b3-4; οὐκ ἀκόντως ἀλλὰ προθύμως ἐπείσθησαν, Xen. Hell. 4.8.5.2; cf. Slings (1998), 616: «ἀκόντως, which seems to mean more “reluctantly” than “involuntarily”, looks out of place here». La congettura merita dunque di essere, se non accolta a testo con Croiset (1920), perlomeno considerata. 374e1-2 ἀκτήτους ... κτητὰς Lett. «non desiderabili ... desiderabili (da possedere)», e quindi «indegni ... degni di essere posseduti», come reso nella maggior parte delle traduzioni: «undesirable ... desirable», Fowler (1926); «nicht besitzenswert ... besitzenswert» Apelt (1918); «tu n’en veux pas ... tu veux les avoir», Croiset (1920). L’aggettivo ἄκτητος è hapax platonico, e non ricorre altrove nella letteratura di età classica. Il suo opposto κτητός è usato come termine tecnico argomentativo, e non è il caso di attribuirvi il connotato stilistico elevato, come voce poetica, che vuole Thesleff (1967), 89, secondo il quale il suo uso appartiene alle categorie «Pathetic style» e «Mythic narrative style»: cf. infatti l’accostamento con il prosaico ὠνητός («to be bought, that may be bought», LSJ s.v.): τοὺς ὠνητούς τε καὶ ... κτητούς, Pol. 289d9-10; ὠνηταῖς εἴτε ... κτηταῖς, Leg. 8.841d9-e1. 374e3 τί δὲ ὀργάνων; «E che dire degli strumenti?». È ora introdotta, dopo la serie degli esercizi fisici e quella degli organi del corpo, una terza categoria, quella degli strumenti materiali (374e3-375a1). Per la punteggiatura, per la quale ci si discosta qui da quella tradizionale τί δέ; ὀργάνων ποτέρων κτλ., adottata da Burnet (19092) e riprodotta anche da Vancamp (1996a), cf. Rijksbaron (2007), 246 e supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1 e nota ad loc. Il genitivo si spiega comunque alla luce della proposizione successiva, come negli altri casi in cui τί δέ non sia seguito da un complemento teoricamente isolabile da quanto segue (cf. supra, 374d2 e infra, 375b7 e 375c6-7 con note ad locc.), per quanto sia possibile anche di per sé l’uso del genitivo insieme a τί δέ, scil. κρίνεις vel sim.; cf. KG II, 363 n. 11; Rijksbaron (2007), 247 n. 361); cf. anche ἥγησαι, supra, 374d6. Insolita sarebbe invece, con la

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punteggiatura tradizionale, la posizione di πότερος preceduto dal sostantivo cui si riferisce. 374e3 κοινωνία Lett. «comunanza»; più liberamente, «con quali (scil. strumenti) è meglio avere a che fare», come si è qui reso in traduzione: cf. e.g. «better ... to have to do with», Fowler (1926); «läßt sich besser auskommen», Apelt (1918). Cf. supra, συνεῖναι, 374d4, e nota ad loc. 374e4 οἷον «per esempio», cf. supra, 374d8 e nota ad loc. 374e5 ἢ ᾧ ἑκών; «oppure uno con cui...». Benché la posizione dopo βέλτιον possa essere fuorviante, si tratta qui di ἤ disgiuntivo, e non comparativo, come intendono invece alcune traduzioni: cf. «est-il meilleur que celui avec lequel on le fait volontairement?», Croiset (1920); giustamente invece Fowler (1926), «or one with which...», e Cambiano (1970), «o uno con il quale...». Ippia risponde infatti indicando l’alternativa prescelta (ᾧ ἑκών, 374e5). 374e6 οὐ καὶ τόξον ὡσαύτως ... καὶ τἆλλα σύμπαντα Lett. «Non (scil. sono migliori) allo stesso modo anche un arco e una lira e i flauti e tutte le altre cose (di questo genere)?». Il nominativo presuppone la sintassi della proposizione precedente (374e4-5), πηδάλιον ... βέλτιον (scil. ἐστί). Si tratta della terza generalizzazione (cf. supra, τί δὲ ἐν τῇ ἄλλῃ πάσῃ τοῦ σώματος χρείᾳ, 374a7; οὐκοῦν πάντα ... εἷς λόγος συνέχει κτλ., 374d8), che estende per analogia (ὡσαύτως) il risultato raggiunto a tutti gli strumenti in generale, chiudendo rapidamente la serie.

375a1-375d6 E che dire nel caso del possesso dell’anima di un cavallo? Non è forse preferibile possederne una con la quale si cavalchi male volontariamente piuttosto che involontariamente? E lo stesso per quel che riguarda l’anima di altri animali, o di persone esperte in una particolare arte, come ad esempio un arciere o un medico che sbaglino volontariamente? Ma allora anche nel caso della nostra anima, conclude Socrate, se desideriamo averla la migliore possibile, dovremmo preferire quella che compia volontariamente il male: a questa conclusione Ippia si ribella di nuovo, ribadendo che sarebbe tremendo considerare migliore chi commette ingiustizia volontariamente. Dal possesso e uso di organi fisici e strumenti materiali si passa ora a quello dell’anima, di animali o di persone, considerata, in quest’ultimo caso, in relazione alla sua attività in specifici ambiti tecnici; in tutti i casi, si conferma la superiorità di chi commette volontariamente un errore. Alla fine, Socrate tenta però l’estensione analogica dei risultati ad un altro caso, quello della nostra stessa anima (τὴν ἡμετέραν αὐτῶν, 375c6-7), ovvero l’a-

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nima dell’uomo in quanto tale. La mancanza della ὁμολογία da parte di Ippia (375d3-4), che ripete l’opposizione già espressa in precedenza (371e9 ss.) e prelude al rifiuto conclusivo dell’argomentazione da parte di Socrate stesso (376b8, cf. nota ad loc.), indica al lettore che non possono ora essere applicati i risultati raggiunti in precedenza: il caso della nostra anima, e della δικαιοσύνη che verrà subito dopo considerata (375d7 ss.), rappresenta una situazione differente, in cui la superiorità dell’errore volontario non è più ammissibile: cf. Introduzione, 4. «L’inganno e la volontarietà del male». La domanda di 375c6-7 può essere considerata una delle «domande segnavia» che sono spesso introdotte da Socrate nei dialoghi: cf. Pohlenz (1913), 25, il quale utilizza la definizione di «Wegmarke» a proposito della domanda di Lach. 192e1-2, in cui Socrate tenta di indurre Lachete a specificare meglio quale sia la saggezza che, nella virtù coraggio, si accompagna alla perseveranza, chiedendo se essa riguardi tutte le cose, sia quelle importanti che quelle dappoco (ἡ εἰς τί φρόνιμος; ἢ εἰς ἅπαντα καὶ τὰ μεγάλα καὶ τὰ σμικρά;). Si tratta analogamente anche qui di distinguere l’ambito delle cose importanti (τὰ μεγάλα), cioè la virtù e la giustizia, dalle τέχναι precedentemente esaminate (τὰ σμικρά), e l’aporia deriva solo, come nell’argomentazione del Lachete, dall’equiparare invece il caso della virtù alle altre tecniche. Su questa struttura argomentativa, che si ripete anche nel Carmide e nell’Eutidemo, cf. Vlastos (1994), 109-17; per un’analisi di Lachete, Carmide, Ippia minore e Protagora in questo senso cf. anche Venturelli (2014). 375a1 τί δὲ ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου; «E che dire del possedere etc.». Per analogia con i casi precedenti (cf. supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1 e nota ad loc.), Rijksbaron (2007), 247, interpunge anche in questo caso dopo il sintagma introdotto da τί δέ, qui un’infinitiva, soggetto del successivo ἄμεινον, scil. ἐστιν (375a2). La sintassi risulta tuttavia in questo caso piuttosto problematica, in quanto la successiva proposizione non può essere in alcun modo slegata dall’infinitiva ora introdotta da τί δέ, che è soggetto di ἄμεινον, scil. ἐστι (per il testo cf. nota ad 375a2, ἄμεινον): «è meglio possedere l’anima di un cavallo etc.». Probabilmente la combinazione di particelle τί δέ, quando usata come in questi casi come formula di transizione, doveva essere percepita senza soluzione di continuità con quanto seguiva, ed è perciò difficile adottare un criterio uniforme per la punteggiatura, valido in tutte le situazioni sintattiche. 375a1 ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου Lett. «possedere l’anima di un cavallo», dove ψυχή è da intendersi nel senso lato di «indole, temperamento», e il possesso è concepito come strumentale da parte di un soggetto esterno, non diversamente da come in precedenza si era parlato del possesso di strumenti come un timone (374e2 ss.). Altri intendono invece il possesso dell’anima da un punto di vista interno, cioè per il cavallo, per es. «È meglio

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per un cavallo possedere un’anima...», Centrone, Petrucci (2012), ma questa interpretazione sembra da escludersi alla luce del fatto che è successivamente esplicitato come soggetto un τις generico, con il quale si indica la persona che si serve del cavallo per cavalcare (ᾗ ἑκών τις κακῶς ἱππεύσει κτλ., 375a2). La formulazione non si può comunque considerare del tutto equivalente a ἵππον κεκτῆσθαι, οὗ ψυχῇ κτλ., come presupposto dalla maggior parte delle traduzioni, come per es. «possedere un cavallo di tal animo», Cambiano (1970); «to possess a horse of such spirit», Fowler (1926); «ein Pferd mit einer solchen Eigenart zu haben», Schleiermacher (1805); «der Besitz eines Pferdes von solcher Eigenart», Apelt (1918); il motivo centrale della sezione è infatti proprio quello del possesso della ψυχή, da cui si arriverà alla fine al possesso della propria stessa anima: cf. Calogero (1938) ad loc., oltre che infra, 375c7 e nota ad loc. L’espressione si comprende solo nel particolare contesto dell’argomentazione svolta in 374c5 ss., dove è già stata introdotta la questione del possesso di organi del corpo (δέξαιο δ’ἂν πότερον τἀγαθὰ κεκτῆσθαι ἢ τὰ κακά, 374c5-6), ai quali l’anima si trova ora equiparata. 375a2 ἄμεινον Come poco più avanti (cf. infra, 375a8 e nota ad loc.), è il solo F a conservare la lezione corretta ἄμεινον, adottata da tutti gli editori, laddove la variante ἀμείνων di TW deriva probabilmente da una confusione con la successiva battuta di Socrate in cui ἀμείνων, femminile, si riferisce al sottinteso ψυχή (ἀμείνων ἄρα ἐστίν, 375a3; cf. τῇ ἀμείνονι ἄρα ψυχῇ ἵππου κτλ., 375a3 ss.). La congettura di Rijksbaron (2007), 247 n. 362, che propone di leggere il genitivo ἀμείνον, scil. ἵππου, sulla scorta di 375a8, dove TW leggono effettivamente ἀμείνονος (ma sul testo cf. ancora infra, nota ad loc.), complica inutilmente la sintassi e rompe lo schema argomentativo seguito nel brano, in cui, a partire da 374c5 ss. (cf. supra, nota ad loc.), il primo quesito ad essere posto per ciascun esempio è che cosa sia preferibile possedere, se gli organi e gli strumenti con cui si sbaglia volontariamente o quelli con cui lo si fa involontariamente: πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως; (374c6-7), ποτέρους οὖν ἄν βούλοιο ὀφθαλμοὺς κεκτῆσθαι καὶ ποτέροις συνεῖναι; οἷς ἑκὼν ἄν τις ἀμβλυώττοι καὶ παρορῴη ἢ οἷς ἄκων; (374d3-5), ποτέρων, scil. ὀργάνων, βελτίων ἡ κοινωνία, οἷς ἑκών τις κακὰ ἐργάζεται ἢ οἷς ἄκων; (374e3). Lo stesso significato, con una formula leggermente variata, si ha anche qui, se si accetta appunto la lezione di F, ἄμεινον (scil. ἐστι), che introduce poi la stessa alternativa, ᾗ ἑκών τις κακῶς ἱππεύσει ... ἢ ἄκων, 375a2 («È meglio possedere l’anima di un cavallo con la quale uno cavalcherà male volontariamente o quella con cui, scil. lo si farà, involontariamente?»). Per questa formulazione, cf. del resto subito supra, πηδάλιον ᾧ ἄκων κακῶς τις

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κυβερνήσει βέλτιον (scil. ἐστι) ἢ οἷς ἄκων; (374e4-5), struttura che è ora ripetuta con il soggetto espresso da un’infinitiva (ψυχὴν κεκτῆσθαι ἵππου, 375a1). 375a2 ἢ ἄκων L’integrazione del pronome relativo, una facile caduta per aplografia, si deve al Bessarione, con cui è da identificarsi probabilmente la mano correttrice di Coisl. 1552; la stessa correzione si trova, ma di prima mano e direttamente a testo, anche in Ven. 186, la copia di lavoro del cardinale; cf. supra, Tradizione manoscritta, 4. «Gli apografi». Per la ripetizione del pronome in entrambi i membri dell’alternativa, cf. supra, οἷς ... ἢ οἷς, 374d4-5; ᾧ ... ἢ ᾧ, 374e4-5; infra, ἥτις ... ἢ ἥτις, 375a8-b1. 375a5 † τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς † Un locus particolarmente difficile, per quanto chiaro risulti comunque il senso generale della frase nel complesso (375a3-5), in cui si intende istituire anche nel caso del cavallo una contrapposizione tra l’anima migliore, con la quale si possono compiere volontariamente azioni malfatte, e l’anima peggiore, con la quale si compiono invece involontariamente. Burnet (19092), seguito ora da Vancamp (1996a) così come prima anche da Croiset (1920), accetta il testo di W, τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς, verso il quale sembra condurre anche il τῇ δὲ τῆς πονηρίας di T, onde evitare di dover intervenire su di esso, come sarebbe invece inevitabile con la lezione di F, τῇ δὲ τῇ πονηρᾷ, dove è necessaria almeno un’integrazione (τῇ δὲ τῇ πονηρᾷ, Schanz). L’espressione sarebbe in tal caso da intendersi come forma brachilogica per τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς , sulla scorta di τῇ ἀμείνονι ἄρα ψυχῇ ἵππου in 375a3-4, considerando dunque in questo caso ἵππος come femminile. In questa direzione vanno anche la maggior parte delle traduzioni, in cui ἵππος è però reso normalmente come maschile: «Allora con un cavallo di miglior animo ... con uno di animo cattivo», Cambiano (1970); «Then with the horse of better spirit ... but with the one of worse spirit», Fowler (1926); «Mit einem Pferd der besseren Eigenart ... mit dem der schlechten», Schleiermacher (1805); «mit der des schlechten», Pinjuh (2014). Che ἵππος sia femminile può essere tuttavia non raro in poesia (cf. LSJ s.v. ἵππος), ma certamente non lo è in prosa né nell’uso platonico, dove ἵππος, quando di genere determinabile, è sempre maschile, con un’eccezione in cui il genere femminile è però esplicitato (θήλεια δ’ἵππος, Hipp. mai. 288b8-9; cf. poi τὴν ἵππον, ibid. 288c1, e πάγκαλαι ἵπποι, 288c5). In alternativa, alcuni intendono τῆς πονηρᾶς come corrispettivo del genitivo τῆς ψυχῆς ... ταύτης del rigo precedente, sottintendendo dunque, più coerentemente anche se con una ridondanza difficile da giustificare, il termine ψυχή con entrambi i femminili: τῇ δὲ τῆς πονηρᾶς , cf. Smith (1895) e Calogero (1938) ad loc. Non sembrano tuttavia esservi ἔργα specificamente τῆς πονηρᾶς ψυχῆς, bensì ἔργα della ψυχή del cavallo in ge-

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nerale, intesi come sua propria funzione, che possono poi essere qualificati come πονηρά quando realizzati scorrettamente. Per contrapposizione con τῇ ἄμεινονι ... ψυχῇ (375a3-4) e per parallelismo con i casi precedenti, ci si aspetterebbe inoltre la presenza di un comparativo, come già congetturava Beck (τῇ δὲ πονηροτέρα): per la formulazione brachilogica del secondo membro della comparazione, con il semplice comparativo di πονηρός seguito da ἄκων, cf. del resto supra, 374b2-3 (ὁ δὲ πονηρότερος ἄκων), b7 (τοῦ δὲ πονηροτέρου ἄκοντος), e infra, 375c2-3 (ἡ δὲ πονηροτέρα ἄκουσα). L’intervento appare tuttavia forse eccessivamente normalizzante, ragion per cui è parso più prudente porre il testo tra cruces. 375a6-7 οὐκοῦν ... καὶ τῶν ἄλλων ζῴων πάντων «Non è dunque così anche (per l’anima) di un cane e di tutti gli altri animali». Cf. supra, ὡσαύτως ... καὶ τἆλλα σύμπαντα, 374e6. 375a7 τί δὲ δὴ ἀνθρώπου; «E che dire nel caso dell’uomo?». Per la punteggiatura con τί δὲ δή, analogo al semplice τί δέ, ma con maggiore enfasi: cf. Denniston (1954²), 176, cf. supra, nota ad 374a1. Rijksbaron (2007), 247, interpunge in questo caso dopo τοξότου (a8), accettando poi ἀμείνονος di TW contro ἄμεινον di F (per cui cf. infra, nota ad loc.). Con questa punteggiatura, tuttavia, rimane comunque di disturbo il sintagma ἀνθρώπου ... τοξότου, dal momento che l’uso appositivo di termini indicanti una professione è attestato unicamente con ἀνήρ, e mai con ἄνθρωπος: cf. LSJ s.v. ἀνήρ, VI. 1 «joined with titles, professions, etc.»; per l’uso platonico, cf. e.g. πελταστικὸς ἀνήρ, Theaet. 165d6, θησαυροποιὸς ἀνήρ, Resp. 7.554a1 e ἀθλητοῦ ἀνδρός, ibid. 10.620b6-7; Ast (1835-38) s.v. ἀνήρ. La soluzione preferibile appare dunque quella proposta da Sydenham, che, interpungendo dopo ἀνθρώπου, ricrea anche un preciso parallelismo con la battuta precedente di Socrate: οὐκοῦν καὶ κυνὸς καὶ τῶν ἄλλων ζώων πάντων; (375a6-7), cui fa eco adesso τί δὲ δὴ ἀνθρώπου; (375a7). 375a7-8 ψυχὴν ἐκτῆσθαι τοξότου «possedere l’anima di un arciere». Non è chiaro se si intenda qui ancora il possesso da parte di un agente esterno, come nell’esempio precedente del cavallo (375a1 ss., cf. nota ad loc.), oppure il possesso interno, da parte del soggetto stesso. Dopo l’esame delle varie tecniche, tuttavia, l’argomentazione torna ad esaminare un caso in cui s’intende chiaramente di nuovo il possesso estrinseco di anime altrui, quelle degli schiavi (τάς γε τῶν δούλων ψυχάς, 375c3-4), ed è solo alla fine che si sottolinea il passaggio al caso della nostra stessa anima (cf. infra, 375c6-7 e nota ad loc.), ragion per cui si può pensare che anche in questo caso, come nei seguenti relativi ad altre tecniche, si concepisca comunque un possesso strumentale, dalla prospettiva di chi si serve dell’operato di esperti nelle varie tecniche.

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375a8 ἐκτῆσθαι Si registra in tutto il passo una continua alternanza tra le forme κεκτῆσθαι (supra, 374c5, c7, d4, 375a1; e di nuovo infra, 375c4) ed ἐκτῆσθαι (qui, dove è corretta in κεκτῆσθαι da f, e infra, 375c7), quest’ultima meno frequente ma comunque ben attestata in Platone. Per la medesima compresenza delle due forme, cf. Theaet. 198d2-3 (ἐκτῆσθαι ... κεκτῆσθαι) e ibid. 199a7-9 (ἔκτηται ... κεκτῆσθαι), Resp. 6.505b1-2 (κεκτῄμεθα ... ἐκτῆσθαι), citati in LSJ s.v. κτάομαι, A. 375a8 ἄμεινον I mss. più autorevoli TW leggono il genitivo ἀμείνονος, introdotto da una mano posteriore anche in F. Rijksbaron (2007), 247 n. 364, ritiene possibile accettare questa lezione, legando l’aggettivo a τοξότου: «è dell’arciere migliore, i.e. appartiene all’arciere migliore, l’anima che manca volontariamente il bersaglio o quella che lo fa involontariamente?» («‘What about the soul of an archer? Is it of a better archer, the soul which misses … or which …?’ = ‘Does the soul which misses the target voluntarily belong to a better archer, or the soul which misses it involuntarily?’»; per la punteggiatura cf. supra, 375a7 e nota ad loc.). Il confronto con gli esempi precedenti, tuttavia (cf. supra, 375a2 e nota ad loc.), induce a preferire la la lezione originaria di F, che offre coerentemente in entrambi i passi il nominativo neutro ἄμεινον («è meglio possedere l’anima di un arciere che volontariamente manca il bersaglio etc.»), laddove il genitivo di TW si può facilmente spiegare come una corruttela dovuta proprio alla vicinanza di τοξότου. 375a8-b1 ἁμαρτάνει τοῦ σκοποῦ «manca il bersaglio». Il verbo ἁμαρτάνειν è qui usato nel suo senso primario, che è appunto quello di fallire, mancare il bersaglio («miss the mark, esp. of spear thrown», LSJ s.v. ἁμαρτάνω, I). L’esempio dell’arciere è probabilmente scelto non a caso da Socrate proprio per introdurre il verbo ἁμαρτάνειν, che può essere adoperato nel significato più ampio di errare e quindi anche in un’accezione più strettamente morale, come sarà nella conclusione del dialogo (cf. infra, 376b4-5). 375b4 ἐν τοξικῇ γε «Perlomeno nel tiro con l’arco». Cf. supra, ἐν δρόμῳ γε, 374a1, e nota ad loc. La risposta di Ippia limita ancora una volta la portata dell’affermazione di Socrate che, dopo aver considerato un solo caso di attività dell’anima umana, aveva già adottato una formulazione del tutto generale, potenzialmente carica di un’ambiguità con la sfera morale (καὶ ψυχὴ ἄρα ἀκουσίως ἁμαρτάνουσα πονηροτέρα ἢ ἑκουσίως, 375b3-4). 375b5 ἰατρικωτέρα «la più esperta in medicina». Il comparativo di ἰατρικός è adoperato anche da Aristot. E.N. 1.6.1097a10, mentre per il superlativo cf. Pl. Symp. 186d1. 375b6-7 [τῆς μὴ ἰατρικῆς] L’intero sintagma è sicuramente da espungere, con Vancamp (1996a), approvato da Carlini (1997), 103, come glossa

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che amplia la battuta di Socrate rispetto a quella corrispondente nell’esempio precedente (οὐκοῦν καὶ αὕτη ἀμείνων εἰς τοξικήν ἐστιν, 375b2), con un’aggiunta che risulta, prima ancora che superflua, incongrua: il punto è infatti, nell’intera argomentazione a partire da 373c6, la superiorità di chi erra volontariamente su chi lo fa involontariamente, e non dell’esperto sull’ignorante. Gli editori precedenti, da Stallbaum (1833) e Schanz (1885) fino a Burnet (19092) e Croiset (1920), accoglievano invece l’emendazione di Schleiermacher (1805), che espungeva solo ἰατρικῆς, conservando τῆς μή (scil. ἑκούσης κακὰ ἐργαζομένης, cf. 375b5); per l’attribuzione della congettura già a Schleiermacher, mentre Vancamp (1996a) la attribuisce a Stallbaum, cf. Carlini (1997), 103. L’emendazione non era tuttavia risolutiva, in quanto l’espressione τῆς μή, in questo senso, sarebbe del tutto priva di paralleli nella sezione: non solo, infatti, nelle battute che negli esempi precedenti corrispondono a questa non è presente il secondo termine di paragone (ἀμείνων ἄρα ἐστιν, 375a3; οὐκοῦν καὶ αὕτη ἀμείνων εἰς τοξικήν ἐστιν, 375b2), ma comunque esso, quando presente, in tutto il brano non è mai espresso con il genitivo, bensì con ἢ (πονηρότερος ὁ ἄκων ... ἢ ὁ ἑκών, 373e6-374a1; βελτίων ... ἢ ὁ ἄκων, 374a6; βελτίω ... ἢ τὰ ἀκουσίως, 374d6-7; πονηροτέρα ἢ ἑκουσίως, 375b3-4); inoltre, sottintendendo ἑκούσης κακὰ ἐργαζομένης si presupporrebbe un uso di ἑκών preceduto dalla negazione, μὴ ἑκούσης, anziché l’aggettivo corrispondente ἄκων vel ἀκούσιος, un uso che non è neanch’esso attestato nel brano. 375b7-c1 τί δὲ ἡ κιθαριστικωτέρα ... τὰς ἐπιστήμας; «E che dire dell’anima più abile nel suonare la cetra o il flauto e in tutto quanto riguarda le tecniche e le scienze?». I comparativi κιθαριστικωτέρα e αὐλητικωτέρα sono hapax assoluti. Per la punteggiatura, cf. Rijksbaron (2007), 248; supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1 e nota ad loc., e in part. per il nominativo cf. anche 374d2, τί δὲ ἀμβλυωπία; e nota ad loc. 375c3-5 τάς γε τῶν δούλων ... κακουργούσας «Ma senz’altro preferiremmo possedere le anime degli schiavi che sbaglino e agiscano male volontariamente piuttosto che involontariamente». Torna il motivo dello ψυχὴν κεκτῆσθαι (cf. supra, 375a1 e 375a7-8 con note ad locc.). In questo caso non è indicato uno specifico ambito tecnico, ma l’errore e il compiere del male sono verosimilmente da intendersi ancora in riferimento alle attività tecniche prima indicate: cf. infra, nota seguente. 375c6 εἰς ταῦτα Lett. «in queste cose», cf. «in queste stesse cose», Centrone, Petrucci (2012), in riferimento alle attività considerate negli esempi precedenti; non si comprenderebbe, altrimenti, il dimostrativo, che nelle traduzioni è reso piuttosto liberamente: «for their duties», Fowler (1926); «pour tous usages», Croiset (1920); «in dieser Beziehung», Apelt (1918); cf. invece più precisamente «in queste tecniche», Cambiano (1970).

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375c6-7 τί δὲ τὴν ἡμετέραν αὐτῶν; «E che dire della nostra anima?». Dopo aver considerato l’anima in rapporto a specifiche attività, dal tiro con l’arco (375a7 ss.) alla medicina (375b4 ss.) alla citaristica, l’auletica e in generale qualsiasi scienza e tecnica (375b7-c1), Socrate pone ora il quesito in relazione alla nostra anima in generale, il cui ambito d’azione è la sfera propriamente morale. Per la crucialità di questa domanda nello svolgimento dell’argomentazione, cf. supra, nota introduttiva ad 375a1-375d6. Per la punteggiatura, cf. Rijksbaron (2007), 248 n. 365, e supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1 e nota ad loc.; in part. per l’accusativo dopo τί δέ, che anticipa la sintassi della frase successiva, cf. KG II, 518 n. 4 («mit Rücksicht auf das Verb des folgenden Fragsatzes»). 375c7 οὐ βουλοίμεθ’ ... ἐκτῆσθαι «Non vorremmo possederla la migliore possibile?». Cf. supra, 374c6-7, per il comune, e naturale, desiderio di possedere beni piuttosto che mali. Si può anche vedere come implicita in questa domanda la tesi socratica secondo cui tutti gli uomini desiderano la felicità e quindi il bene, per cui cf. soprattutto Men. 78a4 ss. e Gorg. 467c5 ss.; per l’interpretazione del passo in questo senso, cf. Jantzen (1989), 98 n. 18. La questione tuttavia non è qui ulteriormente approfondita, a differenza degli altri casi, in cui Socrate, pur dichiarando di considerare ovvio il principio in questione, si sofferma ad illustrarlo; il riferimento sembra quindi qui da intendersi in senso del tutto generico. 375d3 δεινὸν μεντἂν εἴη κτλ. «Sarebbe davvero tremendo, Socrate, se coloro che commettono ingiustizia volontariamente fossero migliori di coloro che lo fanno involontariamente». La stessa protesta di Ippia che si è già incontrata di fronte alla conclusione della superiorità di Achille su Odisseo, per cui cf. supra, 371e9 ss. e nota ad loc. Di nuovo, si noti che è Ippia ad introdurre il termine ἀδικεῖν, come in 371e9-372a1, laddove Socrate aveva usato κακουργεῖν ed ἐξαμαρτάνειν, che sono applicabili anche alla sfera tecnica e proseguivano quindi sulla stessa linea degli esempi precedentemente considerati: cf. Weiss (1981), 300 e n. 49. 375d5 ἀλλὰ μὴν κτλ. Avversativo, «ma», cf. Denniston (1954²), 341-2, benché la stessa combinazione ἀλλὰ μήν sia frequente nei dialoghi platonici come espressione di assenso nel corso dell’argomentazione; cf. ancora Denniston (1954²), 343. Per un parallelo analogo a questo passo, cf. comunque ἀλλ’ἐκεῖνο μὴν δοκεῖ σοι, κτλ., Ion 541a7, richiamato da Denniston (1954²), 342, dopo reazione negativa dell’interlocutore ad un punto precedente (οὔκ αὖ μοι δοκεῖ τοῦτο, 541a6-7). 375d5 φαίνονταί γε ἐκ τῶν εἰρημένων «Ma invece risultano (scil. tali) da quanto è stato detto». La lezione φαίνονται (F), adottata sia da Burnet (19092) sia da Vancamp (1996a), con il verbo al plurale e soggetto sottinteso oἱ ἑκόνες ἀδικοῦντες, è da considerarsi difficilior rispetto a φαίνεται (TW),

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comune formula di risposta: cf. Brandwood (1990), 102 per le risposte con φαίνεται e 114 per la tabella di frequenza. Per una discussione, cf. anche Pinjuh (2014), 230. Per ἐκ τῶν εἰρημένων, cf. anche supra, ἐκ τῶν ὡμολογημένων, 368e3.

375d7-376b7 Socrate prende in esame il caso della giustizia: se, come in quelli precedenti, si tratta di una capacità o di una scienza, o di entrambe le cose, è necessario ammettere che l’anima più giusta compie volontariamente ingiustizia. La persona che compie volontariamente il male dunque, ammesso che esista una siffatta persona, non potrebbe essere altri che la persona buona stessa. Ippia rifiuta però la conclusione. L’argomentazione prosegue con una sezione che può essere considerata un terzo argomento a sé stante, in cui è abbandonato lo sviluppo esclusivamente epagogico (cf. supra, nota introduttiva ad 373c6-376c6). La prima parte della sezione segue infatti ora uno schema in parte sillogistico, deducendo, dalla premessa che la giustizia è una capacità e/o una conoscenza, le conseguenze che l’anima più capace e/o più sapiente è più giusta (375d-e; per il sillogismo, formalmente scorretto, cf. 375e1-3 e nota ad loc.). Si passa poi all’applicazione dei risultati emersi dalla precedente epagoge anche al caso della giustizia, con la conseguenza che anche in questo ambito l’anima più capace e più sapiente, in quanto migliore, dovrebbe essere quella che, quando commette uno sbaglio, lo fa volontariamente (375e9 ss.). Di qui la paradossale conclusione che la persona che commette ingiustizia volontariamente è la persona buona (376b4-6). Sull’ambiguità dell’aggettivo ἀγαθός e dei suoi comparativi (βελτίων, 375e3; ἀμείνων, 375e9, 376a6), che possono indicare tanto la «bravura» in senso tecnico quanto la «bontà» in senso morale, ambiguità che rende possibile lo slittamento dalla precedente argomentazione alle paradossali conclusioni in ambito etico, cf. Seconda fase dialettica, nota introduttiva. Nonostante l’esito per il momento aporetico (376b8-c6, cf. infra, nota introduttiva ad loc.), è possibile intuire la soluzione a partire dalle indicazioni offerte da Socrate in questo passo, ovvero che la giustizia è capacità e conoscenza e l’anima giusta, quindi, è capace e sapiente, quella ingiusta ignorante (ἡ δυνατωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα ἐστί, 375e2-3; ἡ σοφωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα, ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα, 375e4-5). Una persona che compie volontariamente il male, dunque, non esiste, come suggerisce l’inciso finale (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, 376b5-6), perché l’ingiustizia può essere dovuta solo all’ignoranza. Sul passo (375d-e) e sulla strada per la corretta soluzione

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che esso indica, cf. soprattutto Friedländer (19643), 131-32; cf. anche Szlezák (1985), 85-86, il quale riconosce che l’argomentazione «in Wirklichkeit aber Ansätze zu seiner Überwindung enthält»; Wolf (1996), 63-66. Cf. anche Introduzione, 4. «L’inganno e la volontarietà del male». 375d7-8 πάλιν δ’ἀπόκριναι «rispondi di nuovo». Cf. supra, ἀλλ’ἀπόκριναι, 373c9. Da notare di nuovo, come di consueto da parte di Socrate (cf. 365d3, 366e3, 373c9), l’uso del più cortese imperativo aoristo in luogo dell’imperativo presente: cf. Lallot (2000), 53-54. 375d8-9 ἡ δικαιοσύνη ... ἢ ἀμφότερα; «la giustizia non è dunque una forma di capacità o di scienza o entrambe le cose?». Che la giustizia, o più in generale l’ἀρετή, sia ἐπιστήμη, e nella fattispecie conoscenza del bene e del male, è tesi socratica per eccellenza: cf. e.g. Charm. 174b-c, Lach. 199c-e, Prot. 361a-b (cf. in part. πάντα χρήματά ἐστιν ἐπιστήμη, καὶ ἡ δικαιοσύνη καὶ σωφροσύνη καὶ ἡ ἀνδρεία, 361b1-2), Gorg. 509d-e, Men. 87b ss., Resp. 1.350d ss. (cf. in part. τὴν δικαιοσύνην ἀρετὴν εἶναι καὶ σοφίαν, τὴν δὲ ἀδικίαν κακίαν τε καὶ ἀμαθίαν, 350d4-5). Ma può essere definita al tempo stesso anche come δύναμις, in quanto quest’ultima è strettamente connessa all’ἐπιστήμη come risvolto operativo della conoscenza: per la virtù come δύναμις, cf. τοῦτ’ἔστιν ἄρα ... ἀρετή, δύναμις τοῦ πορίζεσθαι τἀγαθά, Men. 78b9-c1; cf. anche σοφώτεροι καὶ ἀμείνους καὶ δυνατώτεροι πράττειν οἱ δίκαιοι φαίνονται, Resp. 1.352b8-9. 375d9 ἢ ἀμφότερα «o entrambe le cose». Per l’uso generico del neutro plurale, benché i due sostantivi precedenti siano entrambi femminili, cf. e.g. φιλοχρήματος καὶ φιλότιμος, ἤτοι τὰ ἕτερα τούτων ἢ ἀμφότερα, Phaed. 68c2-3. Si tratta probabilmente non tanto di un nominativo, al pari di δύναμις ... ἢ ἐπιστήμη, quanto piuttosto di un accusativo, da intendersi come apposizione dell’intera proposizione secondo quanto indica Smith (1895) ad loc., come mostrano altri esempi in cui ἀμφότερα evidentemente non concorda nel caso con i termini precedenti: ἤτοι θεῶν ἢ ἀνθρώπων ἢ ἀμφότερα, Crat. 416c5; ἢ δώροις ἢ χάρισι ἢ ἀμφότερα, Lach. 187a3-4; ἀνίᾳ ... ἢ βλάβῃ ἢ ἀμφότερα, Gorg. 477d3. 375e1-3 οὐκοῦν εἰ μὲν δύναμίς ἐστι ... δικαιοτέρα ἐστί; «Se dunque la giustizia è una capacità dell’anima, l’anima più capace non è forse più giusta?». L’argomentazione procede esaminando ciascuna delle possibilità appena presentate (375d8-9), a partire, quindi, dall’ipotesi che la giustizia sia una forma di capacità. Il sillogismo ora formulato da Socrate è in realtà scorretto, in quanto dalla premessa che la giustizia è una capacità si potrebbe dedurre solo che l’anima più giusta è più capace, e non viceversa: cf. Pohlenz (1913), 64; sulle linee del ragionamento cf. tuttavia infra, nota seguente.

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375e3 βελτίων ... ἡ τοιαύτη «Migliore ci è infatti risultata essere ... una siffatta (scil. anima)». Il corso del ragionamento non è del tutto chiaro: il perno sembra essere costituito dal fatto che l’anima δυνατωτέρα è βελτίων, e quindi, automaticamente, se è migliore è anche δικαιοτέρα. Non sembra esservi dunque uno sviluppo strettamente sillogistico, 375e3 ὦ ἄριστε «carissimo», lett. «ottimo (uomo)». Un altro caratteristico vocativo socratico, come ὦ βέλτιστε (cf. supra, 373b6 e nota ad loc.), ma, a differenza di quest’ultimo, scarsamente attestato al di fuori del corpus platonico, dove figura solo in Aristoph. Eq. 457 e Xen. Mem. 3.5.28. Sul suo uso, cf. Halliwell (1995), 105. 375e4 τί δ’εἰ ἐπιστήμη; «E nel caso in cui sia una scienza?». La transizione al secondo caso avviene, come in tutta la precedente argomentazione, attraverso la formula τί δέ (cf. supra, τί δ’ἐν πάλῃ, 374a1, e nota ad loc.), che introduce qui un’intera proposizione, protasi del periodo ipotetico che continuerà nell’interrogativa seguente. 375e4-5 οὐχ ἡ σοφωτέρα ... ἀδικωτέρα «L’anima più sapiente non sarà più giusta, quella più ignorante più ingiusta?». Per la fallacia del sillogismo, che si ripete identica al passaggio precedente, cf. supra, 375e1-3 e nota ad loc. 375e6 La replica di Ippia è presente solo di seconda mano in alcuni recenziori (Coisl. 1552sl, Par. 18122sl), dove è frutto di correzione congetturale, ad opera, nel primo caso (Coisl. 1552), del Bessarione: cf. Vancamp (1996a), 16; per Par. 1812², cf. Vancamp (1996a), 27; cf. anche qui, Tradizione manoscritta, 4. «Gli apografi». Una formula di assenso, per quanto non necessariamente il semplice ναί, è comunque senza dubbio da integrare. 375e6 τί δ’εἰ ἀμφότερα; «E nel caso in cui fosse entrambe le cose?». Per il neutro plurale, cf. supra, 375d9 e nota ad loc. 375e7-8 ἡ δ’ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα. Dopo l’esame della prima e della seconda opzione separatamente, ovvero che la giustizia sia o una capacità (375e1 ss.) o una scienza (375e4 ss.), si sta considerando ora l’ipotesi che essa sia entrambe le cose (ἀμφότερα, 375e6): si dovrebbe dunque avere qui non ἡ δ’ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα, che si riferisce di nuovo alla sola ἐπιστήμη, ma piuttosto ἀμαθεστέρα , come stampa Vancamp (1996a) accogliendo l’integrazione di Ast, dove il secondo aggettivo potrebbe essere facilmente caduto per omeoteleuto e omeoarcto. L’integrazione appare tuttavia un po’ pedestre, come nota Calogero (1938) ad loc. («Platone poteva bene, in qualche caso, non spingere la concinnità fino al grado della pedanteria»), e non si può escludere che l’intero secondo membro sia invece da espungere, con Beck, come una facile intrusione dal rigo 375e5, da cui ἡ δὲ ἀμαθεστέρα ἀδικωτέρα sarebbe stato ricopiato qui pressoché

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identico per semplice errore meccanico. Per il ragionamento senza il secondo membro della contrapposizione, cf. anche supra, 375e2-3, dove è tratta solo la conclusione ἡ δυνατωτέρα ψυχὴ δικαιοτέρα ἐστί, nonché il prosieguo dell’argomentazione, che si concentra solo sul primo membro, ponendo come soggetto ἡ δυνατωτέρα καὶ σοφωτέρα αὕτη, 375e9 ss., dove peraltro l’uso del dimostrativo (αὕτη) sembra presupporre proprio il riferimento a un termine che precede immediatamente. 375e10-376a1 καὶ ἀμφότερα ... περὶ πᾶσαν ἐργασίαν «e (scil. è risultata) in grado di far meglio entrambi i tipi di azioni, le belle e le brutte, in ogni attività». Per la formulazione del concetto in questi termini, cf. supra, 374a7-b1. 376a3 διὰ δύναμιν καὶ τέχνην «per capacità e tecnica». τέχνη è qui usato come completo sinonimo di ἐπιστήμη, termine usato in precedenza (375d8, 375e4; cf. in part. ἐπιστήμην καὶ δύναμιν, 375e7). 376a3-4 ἤτοι ἀμφότερα ἢ τὸ ἕτερον Per il neutro, cf. supra, 375d9 e nota ad loc. 376b1-2 ἀγαθὸς ... τὴν κακήν; «è un uomo buono colui che possiede l’anima buona, cattivo quello che possiede quella cattiva?». Cf. Resp. 3.409c2-3, ὁ γὰρ ἔχων ψυχὴν ἀγαθὴν ἀγαθός: chi ha un’anima buona, è per forza buono. Nello stesso passo (Resp. 3.409a4 ss.), peraltro, si dice che il buon giudice è colui che è arrivato in tarda età a conoscere l’ingiustizia, non nella propria anima ma in quella altrui, e quindi per conoscenza e non per diretta esperienza (ἐπιστήμῃ, οὐκ ἐμπειρίᾳ οἰκείᾳ, 409b8): è dunque ammissibile, ed anzi necessario, che la conoscenza della giustizia comporti quella dell’ingiustizia, come richiede l’argomentazione dell’Ippia minore, ma questo non implica affatto che la persona giusta commetta ingiustizia, perché la conoscenza rimane a livello teorico. Per l’importanza della premessa ora stabilita, cf. Jantzen (1989), 108. 376b2-3 ἀγαθοῦ μὲν ἄρα … ἀδικεῖν «È dunque proprio dell’uomo buono commettere ingiustizia volontariamente». Cf. la discussione con Polemarco nel libro I della Repubblica, dove si considera come possibile definizione della giustizia il giovare agli amici e nuocere ai nemici, successivamente corretta con la precisazione che gli amici devono essere realmente buoni, e non apparentemente tali, e così i nemici malvagi (τὸν μὲν φίλον ἀγαθὸν ὄντα εὖ ποιεῖν, τὸν δ’ἐχθρὸν κακὸν ὄντα βλάπτειν, 335a7-8); anche lì, si arriva poi all’analoga conclusione secondo cui sarebbe allora proprio dell’uomo buono il danneggiare gli altri: ἔστιν ἄρα … δικαίου ἀνδρὸς βλάπτειν καὶ ὁντινοῦν ἀνθρώπων, Resp. 1.335b2-3. Nello sviluppo successivo della discussione, la tesi è però espressamente rigettata come impossibile e si afferma, al contrario, che non è funzione del giusto arrecare danni, né agli amici né agli altri, ma solo dell’ingiusto: οὐκ ἄρα τοῦ δικαίου βλάπτειν ἔργον …

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οὔτε φίλον οὔτ’ἄλλον οὐδένα, ἀλλὰ τοῦ ἐναντίου, τοῦ ἀδίκου, Resp. 1.335d12-13. 376b4-6 ὁ ἄρα ἐκὼν ... ἢ ὁ ἀγαθός «Chi sbaglia e commette azioni turpi e ingiuste volontariamente, o Ippia, se davvero esiste una siffatta persona, non potrebbe dunque essere altri che la persona buona». Tutta la conclusione, nella sua evidente paradossalità, rimanda al ben noto principio socratico secondo cui nessuno compie volontariamente il male, al quale, secondo la maggior parte della critica, alluderebbe l’inciso (εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος, b5-6), su cui cf. infra, nota seguente. Un significativo parallelo per la comprensione del passo è offerto dal Protagora, in cui, nella sezione centrale dedicata all’esegesi poetica, Socrate sottopone a critica un’affermazione contenuta in un carme di Simonide (Prot. 345d6 ss.) nel quale il poeta sembrerebbe lodare chi non compia volontariamente alcun male: affermazione secondo Socrate erronea perché presupporrebbe l’esistenza di altre persone che lo compiono, invece, volontariamente, laddove tutti i sapienti sanno che questo non è possibile, ma coloro che commettono ingiustizia lo fanno solo involontariamente (οὐ γὰρ οὕτως ἀπαίδευτος ἦν Σιμωνίδης, ὤστε τούτος φάναι ἐπαινεῖν, ὃς ἂν ἑκών μηδὲν κακὸν ποιῇ, ὡς ὄντων τινῶν οἳ ἑκόντες κακὰ ποιοῦσιν ἐγὼ γὰρ σχεδόν τι οἶμαι τοῦτο, ὅτι οὐδεὶς τῶν σοφῶν ἀνδρῶν ἡγεῖται οὐδένα ἀνθρώπων ἑκόντα ἐξαμαρτάνειν οὐδὲ αἰσχρά τε καὶ κακὰ ἑκόντα ἐργάζεσθαι, Prot. 345d6-e2). La questione è esattamente speculare a quella dell’Ippia minore, in cui, come si è visto, anche Ippia difende, conto le provocatorie tesi di Socrate, la preferibilità di chi compie il male involontariamente (cf. 371e9 ss.). Anche nel Protagora, poi, il problema è analogamente individuato nell’assunzione ipotetica dell’esistenza di qualcuno che compia volontariamente il male, con un dubbio molto simile, anche nella formulazione, a quello espresso in questo passo (ὡς ὄντων τινῶν οἳ ἑκόντες κακὰ ποιοῦσιν, 345d8-9; cf. εἶπερ τίς ἐστιν οὗτος, Hipp. min. 376b5-6). Soltanto, nel Protagora la soluzione è più chiaramente indicata nell’impossibilità di tale ipotesi, con l’esplicita esposizione del principio secondo cui nessuno compie volontariamente il male, laddove l’Ippia minore rimane invece più criptico. Per il parallelo, cf. Pohlenz (1913), 84. 376b5-6 εἴπερ τίς ἐστιν οὗτος «se davvero esiste una siffatta persona». In questo inciso è stata generalmente individuata la chiave per la soluzione dell’aporia, in quanto il dubbio implicherebbe un’allusione al ben noto principio socratico secondo cui una persona che compie volontariamente il male non esiste affatto: per un’interpretazione in questo senso, cf. e.g. Pohlenz (1913), 65; Taylor (1926), 37; Friedländer (19643), 131-32 n. 4; Shorey (1933), 89; Calogero (1984), 288; Sprague (1962), 76; Guthrie (1975), 198; Kahn (1996), 117. Per una differente interpretazione, cf. invece Erler (1987), 135-37, secondo il quale l’inciso non avrebbe valore negativo: certo

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un dubbio non equivale, di per sé, ad una negazione, ma il contesto (cf. supra, nota precedente) ne chiarisce sufficientemente il significato. Per un inciso analogo, indicante cioè una presa di distanza da parte di Socrate, cf. Prot. 319a8-9, dove si mette in dubbio che Protagora possegga davvero l’arte politica che dice di insegnare (ἦ καλόν, ἦν δ’ἐγώ, τέχνημα ἆρα κέκτησαι, εἴπερ κέκτησαι); cf. anche Euthyphr. 8e6 (εἴπερ ἀμφισβητοῦσιν θεοί), in cui si insinua il dissenso circa il presupposto che possa esistere contesa fra gli dei, e Gorg. 480e (εἰ ἄρα δεῖ τινα κακῶς ποιεῖν), dove è invece come qui in questione il fatto di commettere ingiustizia: per questi ultimi paralleli, cf. Hoerber (1962), 128 n. 2 («Plato presents a clue to his disagreement with a popular premise»). L’esistenza di una persona che compie il male volontariamente, cioè con piena consapevolezza delle proprie azioni, è in effetti presupposta fin dall’inizio da Ippia, secondo il quale chi inganna, compiendo con ciò un’azione malvagia, è abile e sapiente, nonché perfettamente consapevole di ciò che fa: cf. supra, 365d6-366a1 con nota introduttiva ad loc. Nel corso della lettura di Omero, l’esempio di una tale persona è, per Ippia, il personaggio di Odisseo. 376b7 οὐκ ἔχω ... ταῦτα «Non so come concederti queste conclusioni, Socrate». Per l’uso di ἔχω in questa costruzione, cf. LSJ s.v. ἔχω, III.2 («after Hom., οὐκ ἔχω folld. by a dependent clause, I know not...»). Il verbo συγχωρέω, rispetto ad ὁμολογέω, che è posto semplicemente come suo sinonimo in des Places (1964), s.v συγχωρεῖν, 2, indica non tanto l’assenso su basi logiche, quanto piuttosto una concessione soggettiva, che può quindi essere talora in contrasto con quello che il ragionamento sembra richiedere («concede or grant in argument», LSJ s.v. συγχωρέω, II.4; cf. II.3: «c. acc. rei, concede, give up»): sulla semantica e l’uso delle due differenti espressioni, cf. Adorno (1968), per quanto per una svista l’etimologia di συγχωρέω sia ivi ricondotta a χορός («accordo del coro», 154), laddove il verbo viene, naturalmente, da χώρα, indicando quindi, alla lettera, il «cedere terreno»; cf. Chantraine (1968-80), s.v. χώρα. Per tutto il passo, cf. le analoghe osservazioni svolte nel Carmide da Crizia, il quale si offre di abbandonare le premesse che possono aver condotto alle conclusioni che egli si trova ora a rifiutare: εἴ τι σὺ οἴει ἐκ τῶν ἔμπροσθεν ὑπ‘ἐμοῦ ὡμολογημένων εἰς τοῦτο ἀναγκαῖον συμβαίνειν, ἐκείνων ἄν τι ἔγωγε μᾶλλον ἀναθείμην, ... μᾶλλον ἤ ποτε συγχωρήσαιμ’ἂν κτλ., Charm. 164c8-d3.

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376b8-c6 Neanche Socrate può ammettere il risultato raggiunto: eppure, esso sembra derivare necessariamente dall’argomentazione svolta. Socrate però, dal canto suo, ha già detto di essere in difficoltà sulla questione: il problema è se persino i sapienti come Ippia sono nell’incertezza. La conclusione è breve e consiste in un’unica battuta di Socrate, a differenza di altri dialoghi aporetici che presentano scene finali più elaborate (Euthyphr. 15c-16a, Charm. 15a-176d, Lach. 199e-201c, Lys. 223a-b, Prot. 360e-362a). A determinare l’aporia non è, in questo caso, il fallimento della ricerca, ovvero la constatazione che, almeno in apparenza, non si è riusciti a trovare una risposta al quesito iniziale (cf. οὐ δυνάμεθα εὑρεῖν ... τὴν σωφροσύνην, Charm. 175b3-4; οὐκ ἄρα ηὑρήκαμεν ... ἀνδρεία ὅτι ἔστιν, Lach. 199e11; οὔπω δὲ ὅτι ἔστιν ὁ φίλος οἷοί τε ἐγενόμεθα ἐξευρεῖν, Lys. 223b7-8), ma l’inammissibilità del risultato, che pure consegue in maniera apparentemente necessaria dall’argomentazione svolta (cf. 376b8-c1 e nota ad loc.). Indicando la provvisorietà di tale risultato (νῦν γε, 376c1), Socrate allude tuttavia alla necessità di ripetere la ricerca, ritornando su quanto è già stato detto, che è più esplicitamente indicata alla fine di altri dialoghi dall’esito aporetico: cf. ἐξ ἀρχῆς ἄρα ἡμῖν πάλιν σκεπτέον τί ἐστι τὸ ὅσιον, Euthyphr. 15c11-12; δέομαι οὖν ... τὰ εἰρημένα ἅπαντα ἀναπεμπάσασθαι, Lys. 222e2-3; βουλοίμην ἂν ... πάλιν ἐπισκέψασθαι κτλ., Prot. 361c4 ss. 376b8 οὐδὲ ... ἐμοί «Neanche io a me stesso», i.e. οὐδὲ ἐγὼ ἔχω ὅπως μοι συγχωρήσω ταῦτα. Il rifiuto di Socrate è netto, e corrisponde con precisione a quello opposto da Ippia. Non si può quindi convenire con Erler (1987), 131, quando afferma che «[d]ieser Folgerung widerspricht Hippias auf das Entschiedenste (B 7). Auch Sokrates selbst ist mit dem Ergebnis nicht sehr zufrieden (B 8). Gleichwohl verwirft er es nicht» (corsivo mio): sul significato da attribuire all’indicazione della cogenza dell’argomentazione, da cui dipende l’interpretazione di Erler (1987), cf. infra, nota seguente. 376b8-c1 ἀλλ’ἀναγκαῖον ... ἐκ τοῦ λόγου «ma così è necessario che ci risulti ... dal ragionamento». Se la paradossale conclusione è inammissibile, eppure cogente sul piano logico, ciò dipende dal fatto che erronee sono le premesse a partire dalle quali è stata tratta, ovvero, come ha suggerito l’inciso inserito da Socrate nella sua precedente battuta (cf. 376b5-6 e nota ad loc.), l’esistenza di una persona che compie volontariamente il male. 376c1 νῦν γε «almeno per adesso». Non è la prima volta che Socrate accenna alla provvisorietà dell’argomentazione: cf. supra, ἐν τῷ παρόντι, 372e1, e nota ad loc.

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COMMENTO

376c1-2 ὅπερ ... ἔλεγον «come dicevo prima». Cf. supra, 372d7 ss., in part. 372d7-8 (ἐνίοτε μέντοι καὶ τοὐναντίον δοκεῖ μοι τούτων καὶ πλανῶμαι περὶ ταῦτα). 376c2 ἄνω καὶ κάτω πλανῶμαι «mi dibatto in su e in giù nell’incertezza»; mantenendo il duplice senso del verbo, «vado errando in su e in giù», Cambiano (1970). L’immagine del πλανᾶσθαι nel senso originario del termine (su cui cf. supra, 372d8 e nota ad loc.) è ora ampliata dalla locuzione ἄνω καὶ κάτω, che è espressione frequente nei dialoghi per descrivere situazioni di aporia e confusione: cf. in part., ἄνω καὶ κάτω στρέφεσθαι, detto degli interlocutori che tentano di mascherare la propria aporia e sfuggono alle domande di Socrate: cf. rispettivamente στρέφεται ἄνω καὶ κάτω, scil. Νικίας, ἐπικρυπτόμενος τὴν αὑτοῦ ἀπορίαν, Lach. 196b1-2; ὥσπερ ὁ Πρωτεὺς ... στρεφόμενος ἄνω καὶ κάτω, Ion 541e7-9 con Murray (1996) ad loc. All’attivo, ἄνω καὶ κάτω στρέφειν, è detto invece di Socrate che è accusato di portare confusione (στρέφεις ἑκάστοτε τοὺς λόγους ἄνω καὶ κάτω, Gorg. 511a4-5), ma anche nel senso positivo di rivedere i propri ragionamenti, passandoli al vaglio (Phaedr. 272b7-8, 278d9). Cf. anche la conclusione aporetica del Protagora, espressa in termini simili: ἐγὼ οὖν, ὦ Πρωταγόρα, πάντα ταῦτα καθορῶν ἄνω κάτω ταραττόμενα, πᾶσαν προθυμίαν ἔχω καταφανῆ αὐτὰ γενέσθαι, κτλ., Prot. 361c2-4; per il parallelo, cf. Pohlenz (1913), 84, mentre sull’uso del sintagma cf. in generale Heitsch (1991). L’espressione, che può essere considerata colloquiale secondo Thesleff (1967), 86, si incontra nei dialoghi giovanili e in quelli della maturità (Ion, Lach., Prot., Gorg., Phaed., Resp., Phaedr., Theaet.), mentre è del tutto assente negli ultimi (Soph., Pol., Tim., Crit., Leg.). 376c4 ἰδιώτην «profano». Il significato proprio di ἰδιώτης è quello di privato cittadino, ma il termine indica anche colui che è «inesperto» per contrasto a un professionista («one who has no professional knowledge», LSJ s.v. ἰδιώτης, III). Socrate lo usa qui con ironia per contrapporsi ai σοφοί o presunti tali: per lo stesso uso, cf. in part. Ion 532d6-e1 con Murray (1996) ad locc. (ἀλλὰ σοφοὶ μέν πού ἐστε ὑμεῖς οἱ ῥαψῳδοὶ ... ἐγὼ δὲ οὐδὲν ἄλλο ἢ τἀληθῆ λέγω, οἷον εἰκὸς ἰδιώτην ἄνθρωπον). 376c4-6 εἰ δὲ καὶ ὑμεῖς ... εἰ μηδὲ παρ’ὑμᾶς ... τῆς πλάνης «ma se anche voi sapienti andate errando, questo sarebbe tremendo anche per noi, se neanche giunti presso di voi cesseremo dal nostro errare». La figura della δείνωσις, che Ippia ha usato più volte nel corso del dialogo (cf. 363c7 ss. e note ad loc.; 364d3 ss.; cf. anche 375d3-4), compare ora per la prima volta in bocca a Socrate, assumendo una sfumatura ironica, come sottolinea Blundell (1992), 137 n. 24: mentre Ippia infatti ricorreva ad essa per garantire di saper rispondere a qualunque domanda, Socrate ne fa adesso uso proprio per mettere in dubbio l’effettiva sapienza del sofista.

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SECONDA FASE DIALETTICA (373C6-376C6)

Per la stessa ironica delusione da parte di Socrate, che non è riuscito ad ottenere risposte ai suoi interrogativi nemmeno in un σοφός come il suo interlocutore, cf. in part. l’analoga chiusa dell’Eutifrone (15e5 ss.): ἀπ’ἐλπίδος με καταβαλὼν μεγάλης ἀπέρχῃ ἣν εἶχον, ὡς παρὰ σοῦ μαθὼν τά τε ὅσια καὶ μὴ καὶ τῆς πρὸς Μέλητον γραφῆς ἀπαλλάξομαι, ἐνδειξάμενος ἐκείνῳ ὅτι σοφὸς ἤδη παρ’Εὐθύφρονος τὰ θεῖα γέγονα καὶ οὐκέτι ὑπ’ἀγνοίας αὐτοσχεδιάζω κτλ. (Euthyphr. 15e5-16a2). Nel Lachete, invece, il fallimento di Nicia, ad onta della sua reputazione di σοφός e dell’insegnamento di Damone, è fatto mettere in luce da Lachete, in una vivace schermaglia tra i due (καὶ μὴν ἔγωγε, ὦ Νικία, ᾤμην σε εὑρήσειν ...· πάνυ δὴ μεγάλην ἑλπίδα εἶχον, ὡς τῇ παρὰ τοῦ Δάμωνος σοφίᾳ αὐτὴν ἀνευρήσεις, Lach. 199e13-200a3; cf. σοφὸς γάρ τοι σὺ εἶ, ὦ Νικία, κτλ. 200c2 ss.). 376c6 τῆς πλάνης Non è davvero il caso di vedere nell’uso di questo termine un’allusione alle peregrinazioni di Odisseo, come vogliono ad es. Jantzen (1989), 70 e 119; Blundell (1992), 164; Giuliano (1995), 21 n. 25. Il sostantivo πλάνη è infatti espressione comune nei dialoghi, così come il verbo πλανᾶσθαι, ad indicare una condizione aporetica e più in generale l’errore, senza che sia possibile negli altri casi alcun riferimento all’eroe omerico; cf. supra, nota ad 372d8; Phaed. 81a5, Resp. 4.444b6 e 6.505c7; des Places (1964), s.v. πλάνη, b: «erreur, incertitude».

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Indici

Indice dei nomi e delle cose notevoli absurdum, dimostrazione per: 13. Achille: 9, 11, 15, 24, 29-36, 113-114, 121-122, 130-131, 133-134, 136-137, 140-141, 142-143, 144, 145-147, 148, 149, 150, 185-186, 188, 189, 190-191, 192, 195-196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210-211, 244. agone/agonistico: 20-21, 123, 129-130, 188-190, 213. Aiace: 31, 34, 35, 102, 122, 136, 137, 143, 144, 146, 190, 203, 206, 208, 210. Alcibiade: 137, 220, 223. Aldina, edizione: 61, 64-65. Alessandro di Afrodisia: 70. ambasceria/ambasciatore: – attività di Ippia come ambasciatore: 16, 39. – ambasceria ad Achille: 34, 144, 146, 190, 201-203, 205-207; cf. anche: πρεσβεία. ambivalenza (del sapere): 23-28. anacoluto: 70, 180, 197, 209. anastrofe: 233. Antistene: 30-33, 140-142. Apemanto: 29, 33, 94, 104, 119, 121-122, 190, 211, 221. Aristarco: 147, 148, 149. Aristotele: 12, 18, 23 n. 53, 36 n. 87, 40, 41 n. 102, 70, 112-113, 155, 159, 229, 233. Asclepio di Tralle: 70. Bessarione: 54, 62-63, 64, 66-67. brachilogia/brachilogico: 11, 116, 165, 176-177, 187-188, 213, 220, 240-241; cf. anche: macrologia. Callia: 15, 38, 118, 134, 183, 222. Callicle: 28, 114, 124, 134, 139, 184, 188, 222-225. Carmide: 184. Cefalo: 153. Cherefonte: 134, 222. chiasmo/chiastico: 149, 200. Cicerone: 70, 181.

citazione/citare: – citazioni omeriche nelle opere di Platone: 34 n. 83, 35, 49-50 n. 130, 56, 59 n. 163, 146, 190, 195, 197-198, 199-200, 206, 207. – citazioni dei dialoghi platonici da parte di autori successivi: 40, 68-72, 113, 171, 177. climax: 217. colloquiale/colloquialismo: 21, 116, 120, 151, 154, 162, 171, 177, 186, 197, 223, 252. compenso (richiesto dai Sofisti): 15, 126, 139, 216. Cornarius, Janus: 65, 66-68, 110. Cosimo il Vecchio: 61, 66. Critone: 118, 184. Crizia: 184, 216, 223, 229, 250. Cumno, Niceforo: 58 n. 157. deinosis (δείνωσις): 125, 139, 252. dicolon: 116. Diogene Laerzio: 9 n. 1, 63, 112-113, 129. Dione di Prusa: 70, 180-181. Dionisodoro: 129. Efrem: 44, 45 n. 115. Elide: 9, 15, 16 n. 26, 17, 18, 39, 94, 126, 181. elogio/elogiare: 20, 103, 117, 123, 128, 178, 214, 216, 217. enciclopedismo/enciclopedico: 18-20, 183; cf. anche: πολυμαθία. endiadi: 129, 139. epagoge/epagogico: 172, 176, 225-226, 235, 245. Ephraim: cf. Efrem. epidissi: 11, 17, 29, 37-38, 40 n., 113-114, 116-119, 120, 127, 134-137, 176, 181, 188, 220; cf. anche: ἐπίδειξις/ἐπιδείκνυμι. esoterismo/esoterico: 14, 185. Estienne, Henri: cf. Stephanus. Ettore: 102, 190, 203, 207, 210. Eutidemo: 129, 160, 184. Eutifrone: 21, 184.

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Indici Ficino, Marsilio: 61, 64-68, 73, 111, 169. Fidostrato: 37, 134. Filodemo: 70. Filostrato, Flavio: 71. glossa: 48, 51, 122, 211, 242. Gorgia: 16, 18 n. 40, 20-21, 39, 114, 116, 124-125, 127, 134, 152-153, 161, 184, 222-223, 225. hapax: 146, 206, 233, 236, 243. imperativo presente/aoristo: 153, 167, 228, 246. inciso/incidentale: 13-14, 24, 28, 168, 183, 198, 245, 249-250. interpunzione/interpungere: 229-230, 234, 238, 241. Ione: 21, 120, 123, 178, 184, 186. iperbato: 131-132, 142. Ippia di Taso: 18, 120. ironia/ironico: 10, 16, 19-21, 36, 71, 115, 117, 120, 123, 128-129, 131-135, 139-140, 167, 177-178, 180, 186, 192, 194, 201-202, 204, 208, 212, 214, 217, 219-221, 224, 252-253. Isocrate: 17 n. 36, 136. Lachete: 238, 253. Luciano: 71, 126, 145. macrologia/macrologico: 11, 117, 129, 134-135, 176, 188, 213, 220-221; cf. anche: brachilogia. makarismos (μακαρισμός): 128. Menelao: 136. Menone: 152, 153, 184. Metodio di Olimpo: 71-72. Mirmidoni: 102, 146, 203, 207. mnemotecnica: 19, 100, 102, 176, 181, 183, 186, 208. Musuro, Marco: 64-65. Nestore: 17, 29, 31, 38, 95, 122, 130-131, 136-137, 141. Neottolemo: 17, 38, 137. Nicia: 39, 253. Odisseo: 9-11, 13 n. 10, 15, 24, 29-36, 113-114, 121-122, 130-131, 133-134, 136-138, 140-146, 149-151, 156, 185-186, 188-189, 190-191, 192, 195-197, 201, 202,

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203, 204, 205, 206, 208, 210-211, 224, 244, 253. Olimpia: 18, 71, 94, 99, 125-126, 128, 133, 176, 178, 181. Olimpiadi/olimpico: 16-17, 20, 39, 94, 123, 125-126, 129, 130, 133, 188. omeoarcto: 247. omeoteleuto: 51 n. 135, 57, 143, 247. Palamede: 34 n. 81, 136. paragraphos: 116. Patroclo: 35, 204. Pletone, Giorgio Gemisto: 54. Polemarco: 153-154, 248. Porfirio: 30, 140. premessa (in un’argomentazione): 24 n. 56, 27, 156, 161, 167, 245, 246, 248. Prodico: 16, 17 n. 30, 18 n. 40, 116, 182, 183, 220, 221, 223. prolessi/prolettico: 122, 127, 208, 214. 216, 228. Protagora: 15-16, 18 n. 40, 19-21, 39, 114, 118, 129, 182, 184, 189, 220, 22, 224, 250. pubblico: 38, 50, 11-115, 117-118, 123, 126-127, 136, 180, 185, 189, 190, 225. quadratrix: 18, 173. quaestio: 122. rapsodia: 143-144. rapsodo/rapsodico: 121, 123, 178, 184, 186, 198. risposta, formule di: 132, 154, 157, 159, 229, 244-45. Roso, Giovanni: 44 n. 111, 63. saut du même au même: 51 n. 135, 146. scrittura, critica alla: 11 n. 5, 152. Senofonte: 15, 28 n. 67, 116, 120, 158, 171, 204. Serres, Jean de: 64, 66. silenzio: 38, 94, 114, 115. sillogismo/sillogistico: 27 n. 66, 245, 246, 247. Simonide: 11, 152, 153, 191, 208, 218, 249. soccorso (al dialogo): 101, 103, 152, 203, 219, 220. sottotitolo: 9, 63, 112-113. Stephanus: 10, 64-66, 73, 110, 182. stilometria/stilometrico: 41. Stobeo: 50. subarchetipo: 47-48.

Indice dei nomi e delle cose notevoli tetralogia/tetralogico (ordine): 43, 44, 45, 46, 47, 49, 54, 63, 67, 112. titolo (dei dialoghi platonici): 39, 40, 63, 68, 70, 112-113. Trasillo: 112-113.

Trasimaco: 28, 216. vocativo: 21, 115-116, 119, 124, 165-166, 167, 170, 184, 187, 192, 204, 221, 223, 247.

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Indici

Indice delle parole greche ἀγωνίζομαι: 123, 125, 129-130, 188. αἰσχρός: 232. ἀκόντως: 236. ἀλαζών/ἀλαζόνεια: 195-196, 204-205, 209. ἀλλά (affermativo): 124, 136. ἀλλ’οὐ(κ): 151, 209. ἄλλως τε … καί: 118. ἀνήρ (con termini indicanti professione): 241. ἄνω κάτω: 252. ἁπατεών: 158. ἀριθμέω: 169. ἄριστος (ὦ ἄριστε): 247. ἀρχαῖος: 209. ἀτάρ: 133. ἀφροσύνη: 158. βαβαί: 21, 138-139. βάζω: 146. βέλτιστος (ὦ βέλτιστε): 223. γε asseverativo: 128, 131-132. γόης: 35, 204. γοῦν: 197, 205, 235. δὲ δή: 115. δεινός/δεινότης: 125, 159, 224. δή dopo imperativo: 161, 162, 165, 177. διαλέγομαι: 220, 222. διάνοια: 128, 129, 153. διατριβή: 118-119. ἐάν: 139, 142. εἴπερ: 174, 175, 210, 234, 249-250. ἐλέγχειν: 117-118. ἔμβραχυ: 153-154. ἔμπειρος: 165, 175, 248; cf. anche: ἐπιστήμων. ἐναντία λέγειν: 191, 204-205. ἔνδον: 37, 118, 134. ἐξαπατάω: 157, 204. ἔξαρνος/ἐξαρνέομαι: 193, 216. ἐπιβουλεύω: 209, 211. ἐπιβουλή (ἐξ ἐπιβουλῆς): 33, 203. ἐπίβουλος: 35, 204. ἐπιδείκνυμι/ἐπίδειξις: 116-117, 127. ἐπιλήσμων: 186, 208-209, 220. ἐπιστήμη: – contrapposta a δύναμις: 226, 246.

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– contrapposta a ἐμπειρία: 248. – contrapposta a ἕξις: 155. – come sinonimo di τέχνη: 248. ἐπιστήμων: 161, 165, 175, 182. ἑταῖρος (ὦ ἑταῖρε): 21, 184. εὐήθεια: 51 n., 210-211. εὖ λέγεις: 132. ζηλωτός: 178. ἤ: – ἤ comparativo: 229, 230, 235. – ἤ disgiuntivo: 237, 163-164, 209, 230. ἦ γάρ: 158, 167, 223. ἡδέως … πυθοίμην: 120. ἠλιθιότης: 25-26, 156, 158. ἠώς: 206. θαυμάζω + εἰ/ὅτι: 128-129. ἰδιώτης: 252. ἱκανός: 188, 194, 214, 220. καὶ δὴ καί: 217. καὶ μήν: 119. καίτοι: 216. κακουργέω: 26, 156, 160, 223-224, 243, 244. καλῶς λέγεις: 132. κατὰ τὸν σὸν λόγον: 26, 143, 157-158, 159, 161, 162, 196-197, 224. καταλογάδην: 181-182. κατηβολή: 219. κεφάλαιος (ἐν κεφαλαίῳ): 162. κινδυνεύω: 150. κρανέω: 147. κρείττων: 130. κτάομαι (κέκτημαι/ἔκτημαι): 242. λιπαρής/λιπαρέω: 194-195, 214. Λιταί: 143. λογιστική/-ικός: 165-166, 171. λοιδορέω: 199. μόγις/μόλις: 139. νοέω: 153. νῦν δή: 120.

Indice delle parole greche ὁμολογέω: – ὡς … ὡμολόγεις: 170. – ὡμολογημένα, τά: 183. ὁράω (ὁρᾷς + ὅτι): 171. ὀρθότης: 182. ὀρθῶς λέγεις: 132. πανουργία: 156, 158-159, 183. παντοδαπός: 71 n. 196, 123, 181. παρακαλέω: 221. περί + acc./gen.: 168, 170-171. πλανάομαι/πλάνη: 10, 218-219, 252, 253. πολυμαθία: 18. πολυμήχανος: 144. πολύτροπος: 30-32, 138, 140-141, 142-143. πρεσβεία: 143. προερύω: 201. σοφία: 133, 158-159, 183. σοφός: 15, 137, 160, 193-194, 224, 252-253. συγχωρέω: 150. συνεπαινέω: 117. τεκμήριον (τεκμήριον δέ): 214-215. τεχνάζω: 209.

τί δέ: 167, 229-230, 233, 234, 236-237, 238, 243, 244. τί δὲ δή: 241. τρόπος: 149. τρύζω: 146. φαῦλος: 194, 214, 218-219. φησί (incidentale): 198. φθονέω (μὴ φθονήσης): 124, 220. φιλοσοφία: 118-119. φίλτατος (ὦ φίλτατε): 204. φρόνησις: 158-159 χαρίζω: 219, 225. χάρις: 216. ψυχή: – come sinonimo di διάνοια: 128. – per il motivo della cura dell’anima: 220. – per il motivo dello ψυχὴν κεκτῆσθαι: 238-239, 241. ὥς γε + εἱρῆσθαι: 142. ὡς ἔοικε(ν): 26, 33, 159, 211, 230. ὡς ἔπος εἰπεῖν: 215.

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