[Platone], Assioco: Saggio Introduttivo, Edizione Critica, Traduzione E Commento a Cura Di Andrea Beghini 3896658867, 9783896658869


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Italian Pages 395 [397] Year 2020

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Saggio introduttivo
1. Un testo enigmatico
2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica
3. La questione delle fonti
4. L’incompiutezza dell’opera
5. Il disordine testuale
6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa
7. La fine di un’epoca
La tradizione del testo
1. La prima famiglia: A
2. Il problema della seconda famiglia: Vv
3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW)
4. La posizione di Par
5. La stirps vaticana e la recensio Plethonis
6. La stirps parigina e la posizione di Y
7. Codices deperditi vel qui deperditi creduntur
8. La tradizione indiretta
9. Le traduzioni latine anteriori all’Aldina
10. Le principali edizioni
11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum
Criteri editoriali ed ortografici
Conspectus siglorum
ΑΞΙΟΧΟΣ
ASSIOCO
Commento
Prologo (364a1-c8)
Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7)
Primo argomento dell’insensibilità (365d1-e2)
Primo argomento dell’immortalità dell’anima (365e2–366b1)
Il suicidio e l’ignoranza di Socrate (366b2-c5)
L’ἐπίδειξις di Prodico e le età della vita (366c5–367b7)
Il giudizio degli dèi e dei poeti sulla vita umana (367b7–368a7)
Le attività umane e la politica (368a7–369b5)
Secondo argomento dell’insensibilità (369b5–370b1)
Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4)
Il mito di Gobria (371a1–372a3)
Epilogo (372a3–16)
Sigle e abbreviazioni
Bibliografia
Index nominum et rerum notabilium
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[Platone], Assioco: Saggio Introduttivo, Edizione Critica, Traduzione E Commento a Cura Di Andrea Beghini
 3896658867, 9783896658869

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Diotima. Studies in Greek Philology

Andrea Beghini

[Platone], Assioco Saggio introduttivo, edizione critica, traduzione e commento a cura di Andrea Beghini

ACADEMIA

|4

Andrea Beghini

[Platone], Assioco Saggio introduttivo, edizione critica, traduzione e commento a cura di Andrea Beghini

https://doi.org/10.5771/9783896658876

Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli

Volume 4

Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)

https://doi.org/10.5771/9783896658876

Diotima. Studies in Greek Philology

Andrea Beghini

[Platone], Assioco Saggio introduttivo, edizione critica, traduzione e commento a cura di Andrea Beghini

ACADEMIA

https://doi.org/10.5771/9783896658876

|4

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The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN

978-3-89665-886-9 (Print) 978-3-89665-887-6 (ePDF)

British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN

978-3-89665-886-9 (Print) 978-3-89665-887-6 (ePDF)

Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Beghini, Andrea [Platone], Assioco Saggio introduttivo, edizione critica, traduzione e commento a cura di Andrea Beghini Andrea Beghini 395 pp. Includes bibliographic references and index. ISBN

978-3-89665-886-9 (Print) 978-3-89665-887-6 (ePDF)

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1st Edition 2020 © Academia Verlag within Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, Germany 2020. Printed and bound in Germany. This work is subject to copyright. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage or retrieval system, without prior permission in writing from the publishers. Under § 54 of the German Copyright Law where copies are made for other than private use a fee is payable to “Verwertungs­gesellschaft Wort”, Munich. No responsibility for loss caused to any individual or organization acting on or refraining from action as a result of the material in this publication can be accepted by Nomos or the author. Visit our website www.academia-verlag.de

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Indice

Premessa

7

Saggio introduttivo

11

1. Un testo enigmatico

11

2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica

22

3. La questione delle fonti

30

4. L’incompiutezza dell’opera

42

5. Il disordine testuale

48

6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

67

7. La fine di un’epoca

81

La tradizione del testo

89

1. La prima famiglia: A

91

2. Il problema della seconda famiglia: Vv

95

3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW)

100

4. La posizione di Par

106

5. La stirps vaticana e la recensio Plethonis

111

6. La stirps parigina e la posizione di Y

117

7. Codices deperditi vel qui deperditi creduntur

130

8. La tradizione indiretta

134

9. Le traduzioni latine anteriori all’Aldina

143

10. Le principali edizioni

147

11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum

153

5 https://doi.org/10.5771/9783896658876

Indice

Criteri editoriali ed ortografici

159

Conspectus siglorum

165

ΑΞΙΟΧΟΣ

169

ASSIOCO

185

Commento

193

Prologo (364a1-c8)

194

Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7)

217

Primo argomento dell’insensibilità (365d1-e2)

236

Primo argomento dell’immortalità dell’anima (365e2–366b1)

240

Il suicidio e l’ignoranza di Socrate (366b2-c5)

252

L’ἐπίδειξις di Prodico e le età della vita (366c5–367b7)

264

Il giudizio degli dèi e dei poeti sulla vita umana (367b7–368a7)

284

Le attività umane e la politica (368a7–369b5)

290

Secondo argomento dell’insensibilità (369b5–370b1)

308

Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4)

315

Il mito di Gobria (371a1–372a3)

326

Epilogo (372a3–16)

345

Sigle e abbreviazioni

349

Bibliografia

351

Index nominum et rerum notabilium

393

6 https://doi.org/10.5771/9783896658876

Premessa

La storia, cioè la vita, non si può dividere in compartimenti stagni Giorgio Pasquali Questo libro nasce da una profonda rielaborazione della mia tesi di dottorato discussa presso l’Università di Pisa nell’aprile del 2018, in co-tutela con l’École Pratique des Hautes Études. Si tratta di uno studio globale dell’Assioco. Il saggio introduttivo, lo studio della tradizione, l’edizione critica, la traduzione e il commento sono stati concepiti come parti di un unico sforzo di comprensione di questo testo. Nel concreto svolgimento del lavoro, i problemi che di volta in volta emergevano sono stati fatti dialogare tra di loro, nel profondo convincimento che gli uni potessero illuminare gli altri e che soltanto in questo modo si potesse in una certa misura progredire nella conoscenza. È così che dalla combinazione di minuti problemi di critica testuale e di esegesi è stato possibile pervenire ad una ricostruzione, che si spera plausibile, dell’ambiente e delle dinamiche storico-culturali in cui quest’opera è nata. A sua volta il definirsi dei contorni di un preciso contesto storico ha permesso una comprensione forse migliore di aspetti del testo poco chiari. Lo studio della tradizione manoscritta, quello della storia degli studi e della fortuna del testo, d’altra parte, si sono rivelati una sorta di reagente attraverso cui far emergere problemi di questo testo non del tutto evidenti. Come ha efficacemente scritto Luciano Canfora, «accade … che il medesimo evento, in epoche differenti, sia assunto come oggetto privilegiato di riflessione, da osservatori diversi e con effetti tutt’affatto diversi. Guardando perciò a questo processo di comprensione/fraintendimento con il distacco dovuto alla lontananza temporale si può anche essere portati a concludere che, a rigore, ogni ondata contribuisce comunque a far emergere qualcosa che c’è dentro l’oggetto considerato».1 La mole dei problemi che un lavoro di questo genere solleva è considerevole: essi investono la storia letteraria, la storia delle istituzioni, la storia della lingua, quella della tradizione e della cultura; e non riguardano soltanto la produzione letteraria greca, ma anche quella latina, bizantina e umanistica. Alla luce di ciò le indagini da me condotte e la documentazio-

1 Canfora (1989), vi.

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Premessa

ne raccolta, per ciò che riguarda sia le fonti primarie, sia la bibliografia secondaria, sono state di necessità parziali. Gli stessi problemi esaminati e discussi sono ben lungi dall’esaurire le numerose questioni che questo testo pone. I miei sforzi si sono maggiormente concentrati laddove nel corso del lavoro pareva che si aprisse uno spiraglio per la soluzione di un determinato problema. Sono certo che molto ancora si potrà dire sull’Assioco, molto si potrà aggiungere e molto si potrà capire meglio. Spero solo che questo mio libro venga letto e giudicato non per ciò che ha omesso o per i problemi che non ha risolto, ma per le risposte che ha cercato di dare. *** Al termine di questo lavoro mi è gradito ricordare le istituzioni e le persone che a vario titolo lo hanno visto crescere e lo hanno reso migliore. Fondamentale è stata per me la frequentazione quotidiana della Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa, della Biblioteca di Antichistica dell’Università di Pisa e, durante il mio soggiorno parigino, della Biblioteca dell’École Normale Supérieure della rue d’Ulm. Meno assidua, ma non meno importante, è stata la frequentazione della Biblioteca Apostolica Vaticana, della Bibliothèque Nationale de France e della Biblioteca dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes di Parigi. Una parte di questo lavoro ha poi beneficiato di un soggiorno di tre settimane nella meravigliosa cornice della Fondation Hardt. La fase di revisione ha coinciso in larga parte con i periodi di studio e di ricerca che ho svolto presso l’Istituto Italiano di Studi Storici di Napoli e che da ultimo sto conducendo presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Desidero rivolgere un pensiero riconoscente al personale di tutte queste istituzioni. Profondo è il mio debito nei confronti del Prof. Mauro Tulli che mi ha avviato allo studio dell’Assioco e ha seguito questo lavoro in tutte le sue fasi fino ad accoglierne i frutti nella collana da lui diretta: senza il suo generoso magistero e la sua guida sicura e capace esso non sarebbe stato possibile. A Parigi, nella prestigiosa sede dell’École Pratique des Hautes Études, ho potuto beneficiare della supervisione del Prof. Philippe Hoffmann, il quale non mi ha mai fatto mancare il sostegno della sua dottrina e della sua squisita umanità. Il Prof. Tiziano Dorandi mi ha fatto l’onore di leggere questo lavoro nella sua interezza mettendo a mia disposizione la sua erudizione e le sue straordinarie competenze nella tecnica dell’edizione dei testi antichi: per questo e per l’interesse con cui da tempo segue le miei ricerche gli sono profondamente grato. Al Prof. Walter Lapini devo ben più della riconoscenza per l’acume e l’impareggiabile acribia con cui ha letto questo lavoro:

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Premessa

quello nei suoi confronti è un debito intellettuale e umano che ha radici profonde e che non si estingue nel tempo. Desidero poi menzionare alcuni dei maestri e degli studiosi con cui mi sono confrontato su diversi aspetti di questo lavoro, e che sono per me un punto di riferimento importante, non solo dal punto di vista scientifico: il Prof. Giuseppe Cambiano, il Prof. Antonio Carlini, il Prof. Bruno Centrone, il Prof. Daniel Delattre, il Prof. Carlos Lévy, il Prof. Stefano Martinelli Tempesta, la Prof. ssa Brigitte Mondrain. Per il tempo che mi hanno dedicato e per i preziosi consigli che mi hanno offerto sono loro grato. Non voglio dimenticare le persone che nel corso di questo lavoro, in momenti e modi diversi, mi sono state vicine, mi hanno ascoltato, consigliato e aiutato: Matteo Agnosini, Flaminia Beneventano Della Corte, Sergio Brillante, Marco Catrambone, Nicola Comentale, Giulia D’Alessandro, Silvia Di Vincenzo, Marco Donato, Francesco Giancane, Ruggiero Lionetti, Alessandra Palla, Paolo Persano, Simone Rendina, Silvia Venturelli. Per ciò che hanno fatto per me siano qui ringraziati. Nella preparazione del volume ho beneficiato della professionalità di Alexandra Beutelmann del “Nomos Verlag”, che voglio qui ringraziare insieme al Dr. Steffen Burk. Naturalmente la responsabilità di ogni difetto o errore è soltanto mia. Questo libro è dedicato ai miei genitori Patrizia e Angelo e a mio fratello Alberto. Pisa, 28/02/2020

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Saggio introduttivo

Non è l’errare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver forza di pensare Pietro Giordani

1. Un testo enigmatico 1.1. Il 3 agosto del 1546 sulla piazza Maubert a Parigi fu impiccato e bruciato l’umanista francese Étienne Dolet. L’accusa era quella di blasfemia, sedizione e tentativo di vendere libri proibiti. Il 4 novembre del 1544 la Facoltà di Teologia di Parigi aveva imputato a Dolet di aver inserito nella sua traduzione di uno scritto platonico una frase «quae quidem iudicata fuit haeretica, conspirans opinioni Saduceorum et Epicureorum».2 Lo scritto in questione è l’Assioco pseudo-platonico e le parole incriminate sono «après la mort tu ne seras rien du tout». Così, infatti, Étienne Dolet rendeva il greco σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ, una frase ripetuta da Socrate (365e2, 369c3) nelle due sezioni del dialogo in cui cerca di convincere Assioco del fatto che, se si ammette che quando si muore sopraggiunge una condizione di completa insensibilità, la morte non può essere considerata un male. Agli occhi dei suoi accusatori Étienne Dolet aveva intenzionalmente alterato il senso delle parole di Platone in modo da far dire a Socrate che l’anima è mortale: «Quant à ce Dialogue mis en francoys, intitulé Achiochus [sic], ce lieu et passage, c’est assavoir “actendu que tu ne seras plus rien du tout”, est mal traduict, et est contre l’intention de Platon, auquel n’y a ny en grec, ni en latin ces mots: rien du tout». Evidentemente gli accusatori credevano di poter estrapolare da un semplice “non sarai” il senso di “non

2 Tutti i documenti riguardanti il processo di Étienne Dolet sono stati raccolti da Longeon (1977), da cui sono stati citati. In generale su Étienne Dolet cf. Christie (1880); Chevalier (1915), 126–129; Longeon (1978), 9–52; Worth (1988); Bocquet (2012), 137–149 e Beghini (2019), 243–247; un cenno anche in Chiarini (1995), 655. Secondo Worth (1988), 77–81 la traduzione dell’Assioco fu condotta non sul testo greco (non sembra che Dolet abbia avuto una sufficiente conoscenza del greco), ma su una traduzione latina: a giudicare da alcune corrispondenze puntuali si tratterebbe della traduzione di Rodolfo Agricola (su cui cf. infra pp. 131 e 146).

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Saggio introduttivo

sarai come sei ora, unione di anima e corpo, ma sarai anima soltanto”. Étienne Dolet, invece, avrebbe aggiunto le parole “rien du tout” proprio per escludere questa peraltro assai forzata interpretazione del testo.3 Ciò doveva sembrare tanto più grave in quanto sia per Dolet sia per i suoi accusatori l’Assioco era opera autentica di Platone: la traduzione dell’umanista francese, una delle prime traduzioni dell’Assioco in lingua moderna, rischiava di diffondere pericolosamente l’idea che per Socrate e Platone l’anima non fosse immortale. 1.2. Paradossalmente, l’interesse di Étienne Dolet nei confronti dell’Assioco era stato mosso proprio dalla fede nei confronti dell’immortalità dell’anima che affiora nel corso del dialogo4. Certo, quella dell’Assioco non è una fede concepita nei termini di un’ortodossia confessionale: essa è una persuasione a cui si giunge dopo aver considerato anche la possibilità che l’anima non sopravviva. È degno di nota a questo proposito che proprio la sezione “epicurea” dell’Assioco, che avrebbe portato alla condanna di Étienne Dolet, era stata ripresa nel 1516 da Cornelio Agrippa nel Dialogus de homine dove veniva conciliata con l’idea dell’immortalità dell’anima.5 D’altra parte, fu proprio la fede nell’immortalità dell’anima che emerge nel corso del dialogo a stimolare il grande interesse che l’Assioco suscitò durante l’Umanesimo e il Rinascimento. Nella prima metà del XV secolo, il dialogo fu tradotto in latino da Rinuccio Aretino, Cencio de’ Rustici e Antonio Cassarino.6 Cencio dedicò la sua traduzione al cardinale Giordano

3 Cf. Christie (1880), 446: «The crime of Dolet was thus having added to the text of Plato the words “rien du tout”, words which if they are not to be found in the original, or in the Latin translation, in no way alter the sense of the text, but only express more clearly the author’s meaning, and the censure was made by theologians ignorant even how to spell correctly the title of the book they condemned». 4 Cf. quanto Dolet afferma nell’argomento anteposto alla sua traduzione: «Ce dialogue de Platon n’est autre chose qu’une remonstrance divine que Socrates faict à Axiochus: lequel avoit esté en son temps homme de grand’ sapience et vertu. Mais se trouvant à la mort, il se troubloit l’esprit, et ne demeuroit en sa gravité premiere. Or, cette remonstrance de Socrates consiste en la probation evidente de l’immortalité de l’ame: et en la declaration des maulx qui sont en la vie humaine. Desquelz maulx nous sommes delivrez par la mort: et retournos au manoir eternel, où toute felicité et beatitude abonde pour ceulx qui auront vertueusement vescu». L’argomento e la traduzione di Dolet si possono leggere nella ristampa del 1830 della raccolta di scritti curata da Dolet stesso con il titolo Le Second Enfer, apparsa a Lione nel 1544 (oltre all’Assioco vi si trova la traduzione dell’Ipparco). 5 Il testo del Dialogus si può leggere in Zambelli (1965), 295–305 (a p. 303 la ripresa dell’Assioco). Devo la segnalazione di questo passo a Dario Gurashi, il quale presto offrirà una nuova edizione di questo testo di Cornelio Agrippa. 6 Sulle prime traduzioni latine dell’Assioco cf. infra pp. 143-147.

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1. Un testo enigmatico

Orsini, il quale era stato colpito da una malattia che lo avrebbe portato di lì a poco alla morte. Per Cencio il Socrate dell’Assioco mostrava che «mortem non solum non timendam sed exoptandam esse».7 Il dialogo, dunque, era concepito dall’umanista romano come un’opera consolatoria ancora efficace. Inoltre, la dedica al cardinale Orsini mostra che Cencio non doveva trovare gli argomenti dell’insensibilità sviluppati da Socrate nel corso dialogo troppo sconvenienti per un principe della Chiesa. Vennero poi le traduzioni latine di Marsilio Ficino e di Rodolfo Agricola. Nuovamente l’Assioco era concepito come efficace mezzo di consolazione. Ficino lesse la sua traduzione a Cosimo il Vecchio in punto di morte.8 È conservato l’autografo di quella traduzione: nel punto in cui Socrate, riportando il discorso tenuto da Prodico a casa di Callia, enumera i mali della vecchiaia, Ficino ha annotato a margine che Cosimo, quando sentì queste parole, esclamò: «o quam vera sententia».9 Nel 1497 la traduzione del Ficino fu pubblicata a stampa da Aldo Manuzio in un volume che raccoglieva anche altri scritti tutti variamente connessi con la dottrina platonica e cristiana dell’immortalità dell’anima, un volume che riprendeva la tradizione delle artes moriendi medievali, rinnovata nella prospettiva platonica ficiniana.10 Non a caso nella Theologia Platonica Ficino riprese la sezione dell’Assioco in cui dall’osservazione delle opere umane si conclude che nell’uomo è presente un’anima immortale. Per Ficino l’Assioco offriva un argomento della natura divina e immortale dell’anima umana e con ciò della sua grandezza e potenza.11 Completamente diverso è l’uso che del dialogo fece Leon Battista Alberti. Nel Theogenius l’Alberti riprese dall’Assioco la feroce critica alla volubilità del δῆμος, la sezione in cui Socrate insiste sulle varie cause di sofferenza che segnano ogni stagione della vita umana e l’exemplum di Agamede e Trofonio, i due architetti del tempio di Apollo a Delfi che furono compensati dal dio con la morte, massimo dono che gli dèi possono concedere agli

7 Così scrive Cencio nella praefatio alla traduzione dell’Assioco, per la quale cf. Morel-Fatio (1885), 99–100 e Lehnerdt (1901), 163–164. 8 Sulle traduzioni del Ficino e di Agricola cf. anche infra pp. 131 e 145-146. 9 Cf. Carlini (1999), 15–16. L’autografo della traduzione del Ficino è conservato dal Parisinus suppl. gr. 212. 10 Cf. Deitch (2003), 164–165; sull’interesse storico-culturale di questa silloge pubblicata da Manuzio cf. Garin (1991), 9 e n. 8. Sulla tradizione delle artes moriendi cf. Grosse (2012), 185-187. 11 Cf. Gentile (19403), 76–81.

13 https://doi.org/10.5771/9783896658876

Saggio introduttivo

uomini.12 Per Alberti, dunque, l’Assioco offriva materiale utile a sostenere l’idea della radicale infelicità che in vario modo caratterizza la condizione umana.13 Nel Quattrocento e nel Cinquecento l’Assioco, trasmesso insieme alle opere di Platone, era ritenuto esso stesso opera di Platone o di suo allievo e ciò era tanto più significativo per chi cercava nelle opere degli antichi una sapienza che si armonizzasse con la rivelazione cristiana. Non è un caso, dunque, che Erasmo arrivasse a pensare che il dialogo fosse stato composto proprio da un cristiano.14 Il pessimismo intorno alla condizione umana che emerge da alcuni passi del dialogo e che aveva colpito la sensibilità di 12 Cf. Theogenius I, p. 78, 15–19 (ed. Grayson): «Dicea Assioco, presso a Platone la plebe altro essere nulla che incostanza, inferma, instabile volubile, lieve, futile bestiale, ignava, quale solo si guidi con errore, inimica sempre alla ragione, e piena d’ogni corrotto iudizio» (cf. Ax. 369a7-b1); Theogenius II, p. 90, 16–19 (ed. Grayson): «Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo» (cf. Ax. 366d7–367a2); Theogenius II, p. 104, 3–7 (ed. Grayson): «Trofonio e Agamede, scrive Platone, simili dalli dii riceverono premio pel tempio quale edificorono» (cf. Ax. 367c2–4). Prima dell’exemplum di Agamede e Trofonio Alberti ricorda quello analogo di Cleobi e Bitone. Esso è presente anche nell’Assioco. Tuttavia, ci sono ragioni per credere che in questo caso Alberti non dipenda dal nostro dialogo bensì dal primo libro delle Tusculanae (nell’Assioco non si fa il nome di Cleobi e Bitone, in Cicerone e in Alberti sì; nell’Assioco non si fa riferimento al ritardo delle bestie da soma, in Cicerone e in Alberti sì). In verità, è forte il sospetto che Alberti abbia tratto da Cicerone anche l’episodio di Agamede e Trofonio. Ciò pare suggerito dall’ordine degli exempla (nell’Assioco prima si ha l’episodio di Agamede e Trofonio, poi quello di Cleobi e Bitone; in Cicerone e nell’Alberti l’ordine è invertito) e da precisi echi testuali tra Cicerone e Alberti che non trovano riscontro nell’Assioco (simili precatione … petiverunt mercedem non parvam / “simile dalli dii riceverono premio”). È ragionevole, dunque, pensare che Alberti abbia attinto anche in questo caso a Cicerone. Nel fare ciò, però, egli dovette ricordarsi che questo exemplum era presente anche nell’Assioco e per questa ragione vi inserì il riferimento a Platone come fonte. È invece possibile che Alberti abbia ripreso dall’Assioco (367d8-e1) la citazione omerica di Il. XVII 446–447 (cf. Theogenius II, p. 89, 32–34 ed. Grayson). Soltanto la prima delle riprese dell’Assioco è stata notata da Grayson (1966), 412–418. Alberti leggeva l’Assioco nella traduzione latina di Rinuccio Aretino: cf. Boschetto (1993), 8 n. 11. 13 Sul Theogenius e il pessimismo albertiano fondamentale resta Garin (1975), 133– 181 (e.g. p. 147: « la vita umana in genere, travolta dalla forza cieca della fortuna, è presentata tutta come una sventurata vicenda di malvagità e di infelicità»). 14 Erasmo fu spinto a fare questa considerazione dalle parole di Ax. 365b4 (παρεπιδημία τίς ἐστιν ὁ βίος): cf. Adagia, centuria XL 3974 (ed. Wesseling): «‘Peregrinatio quaedam est vita’. Socrates in Axiocho Platonis adfert hanc sententiam ut vulgo apud omnes decantatam, quanquam is dialogus habetur inter nothos. Videtur esse potius hominis Christiani qui Platonem voluerit imitari». Ma già l’erudi-

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1. Un testo enigmatico

Alberti, in altri casi parve coerente con la fede nella salvezza ultraterrena offerta dalla rivelazione religiosa. Nello stesso periodo, l’Assioco cominciava ad essere tradotto anche nelle lingue moderne, per lo più a partire dalle traduzioni latine. Della metà del XV secolo è la traduzione spagnola di Péro Diaz de Toledo, della prima metà del XVI quelle in francese di Guillaume Postel e di Étienne Dolet,15 della metà del XVI quella in italiano di Vincenzo Belprato e della fine del XVI quella in inglese di Edmund Spenser.16 Ciò contribuì enormemente alla fortuna dell’Assioco: basta pensare alla ripresa che, tramite la traduzione di Spenser, ne fece Shakespeare in As you like it (II 7, 139–166).17 1.3. A questa fortuna continuò ad accompagnarsi la varietà degli interessi che il dialogo suscitava nei suoi lettori.18 Ad esempio, esso fu letto ed apprezzato da uomini impegnati nel campo della medicina. Si può ricordare Adolph Occo, copista e possessore di uno dei più recenti manoscritti greci del dialogo, o Hermannus Rayanus Welsdalius, professore di medicina a Colonia intorno alla metà del XVI secolo, che nel 1568 pubblicò una propria traduzione annotata del dialogo.19 L’interesse del Rayanus era rivolto al fatto che nel dialogo Socrate appare come un vero e proprio medico che corre al capezzale di Assioco malato: il medico e il filosofo impiegano le proprie risorse intellettuali per la cura degli uomini.20 D’altra parte, nel 1577 apparve a stampa a Basilea un volume intitolato Doctrina recte vivendi ac moriendi. Tra le diverse opere in esso contenute è presente anche il testo dell’Assioco con una nuova traduzione latina accompagnata da note esegetiche. Il volume apparve anonimo, ma è cer-

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to notarios patriarcale Giovanni Cortasmeno aveva notato delle affinità tra questo passo dell’Assioco e luoghi delle Sacre Scritture: cf. infra pp. 125-126 n. 336. Sulla traduzione di Postel cf. Secret (1966), 109–111. Per Étienne Dolet cf. supra pp. 11-12. L’attribuzione a Spenser di questa traduzione inglese pubblicata nel 1592 fu sostenuta dal suo primo editore moderno Frederick M. Padelford nel 1934, ma non è stata accettata da tutti. C’è, infatti, chi l’ha attribuita ad Anthony Munday: cf. Freyd, Padelford (1935), 903–913. Per la traduzione di Péro Diaz de Toledo cf. González Rolán, Saquero Suárez-Somonte (2000), 157–197; per la traduzione del Belprato cf. Chevalier (1915), 5–6. La notevole somiglianza con Ax. 366d-367b è stata notata da Furley (1986), 79 n. 7. Cf. inoltre Hutchinson (1992), 328–330. Su questo fenomeno cf. in particolare Deitch (2003), 163–170 e Deitch (2012), 353–362. Sul Rayanus cf. Hankins (1991), II 806 e Deitch (2012), 360–361. Su Adolph Occo cf. anche infra p. 125 n. 335 e p. 131. Cf. Deitch (2012), 361.

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Saggio introduttivo

to che il suo autore era Hieronymus Wolf.21 Particolarmente interessante è la continuazione del titolo: ad mores pie ac honeste conformandos etiam adultis, ad linguae utriusque exercitia iuvenibus potissimum conducens. Emerge qui, accanto ad una funzione consolatoria e moralizzatrice, una funzione pedagogica. Questo interesse pedagogico nei confronti dell’Assioco fu particolarmente marcato nel sistema scolastico tedesco del XVIII secolo. Oggi l’Assioco è completamente uscito dal circuito non solo delle letture scolastiche dei classici, ma anche da quello dei corsi universitari. Nel Settecento, invece, l’Assioco conobbe una straordinaria fioritura in tal senso. Tra il 1753 e il 1788 Johann Friedrich Fischer22 pubblicò il dialogo pseudo-platonico ben cinque volte, una volta in un volume a sé e quattro volte insieme al De virtute e all’Erissia. La prima edizione uscì a Lipsia nel 1753. Si tratta di un’edizione in usum scholarum. Il Fischer era uomo di scuola: in quegli anni ricopriva la carica di co-rettore della “Thomasschule”, antico e prestigioso ginnasio di Lipsia, allora diretto da Johann August Ernesti.23 Per Fischer si trattava di fissare un vero e proprio canone di letture per gli studenti, che giovassero loro tanto nella conoscenza della lingua greca quanto nella formazione morale.24 Egli riteneva che il De virtute, l’Erissia e l’Assioco potessero rispondere ad entrambe queste funzioni: «opportune, puto, in dialogos hos Socraticos, egregia Attici dicendi generis specimina, incidi, qui cum propter argumenta a vitae quotidianae rebus petita facile intellegi ab adulescentulis, tum ad studia virtutis, humanasque res, singulatim divitias, atque mortem adeo despiciendam contemnendamque multum conferre queant»25. In questo modo i tre dialoghi entravano a far parte dei programmi di greco della “Thomasschule”, accanto all’Iliade, al Pluto, agli opuscoli di Senofonte e ad alcuni scritti di Isocrate.

21 Su quest’opera del Wolf cf. anche infra pp. 148-149. 22 Qualche cenno sul Fischer in Sandys (1908), 14 il quale lo ricorda come allievo dell’Ernesti; cf. inoltre infra p. 150. 23 Sul ruolo dell’Ernesti e della “Thomasschule” di Lipsia nell’ambito del Neoumanesimo tedesco del XVIII secolo cf. Chiarini (1995), 682–686. 24 Per questa stessa ragione il Fischer non affiancò al testo greco una traduzione latina, diversamente dai suoi immediati predecessori (cf. praef. 5: «Sed versionem Latinam, quam Vir ille doctus [scil. Horreus] in sua editione novam et elegantem sane adiecerat, quia tironibus haec nostra editio parabatur, quorum diligentiam et in litteris Graecis profectum vehementer impediri Latinis versionibus e regione positis experti sciebamus, removendam censuimus»). 25 Fischer (1753), praef. 4.

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1. Un testo enigmatico

D’altro canto, l’uso “pessimistico” dell’Assioco, rappresentato nel Quattrocento dall’Alberti, ebbe in seguito altri campioni. Ad esempio, sembra che Campanella abbia tenuto presente in uno dei suoi madrigali il passo in cui Socrate enumera i mali della vecchiaia.26 Per parte sua, nello Zibaldone Leopardi ricorda l’Assioco tra i testimoni del passo del Cresfonte euripideo da cui risulta che «quand on songe … à la destinée qui attend l’homme sur la terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau»; e ancora tra i testimoni della vicenda di Cleobi e Bitone, da cui risulta che «les dieux n’avoient pas de plus grand bien à nous accorder, que d’abréger nos jours».27 Ma la storia dell’Assioco non è stata costellata soltanto di apprezzamenti. È sufficiente ricordare la stroncatura che del dialogo fece Montaigne (Essais II, 10): «Quand je me trouve dégoûté de l’Axiochè de Platon, comme d’un ouvrage sans force, eu égard à un tel auteur, mon jugement ne s’en croit pas: il n’est pas si sot, de s’opposer à l’autorité de tant d’autres fameux jugements anciens, qu’il tient ses régents et ses maîtres, et avec lesquels il est plutôt content de faillir».28 Questo percorso all’interno della storia della fortuna dell’Assioco non ha alcuna pretesa di completezza. Da un lato, esso ci permette di farci un’idea dell’influenza che questa operetta oggi assai poco letta ha avuto sulla cultura europea. Dall’altro, ci pone di fronte al fatto che l’Assioco ha dato adito a reazioni ed interpretazioni tra loro estremamente varie, a volte persino opposte. Da ciò l’interrogativo: queste difformità che emergono nella storia della ricezione dell’opera sono dovute esclusivamente alle diversità dei pre-

26 Madrigale 78, 5 vv. 3–6 (ed. Gentile2): «rendiam queste atre fasce / al Fato omai, ch’usura tanta esige, / ch’avanza il capital con tante ambasce. / L’udito, i denti vuol, la vista cara» (cf. Ax. 366b2–5). Cf. Gentile (19392), 167. 27 Rispettivamente Zibaldone 2671 (II p. 1424, ed. Pacella), nota dell’8 febbraio 1823, e Zibaldone 2675 (II pp. 1426–1427, ed. Pacella), nota del 25 febbraio 1823. Nello Zibaldone (4153, II p. 2275 ed. Pacella) è contenuto un terzo riferimento all’Assioco datato al 22 novembre del 1825. Questa volta, però, si tratta di un appunto filologico, di valore tutt’altro che trascurabile, che prende le mosse da una nota del Fischer (Leopardi in questo caso utilizza la seconda edizione dell’Aeschinis Socratici dialogi tres del Fischer del 1766, ma conosceva anche l’edizione di Horreus: cf. Pacella, Timpanaro (1969), 606). Cf. infra il commento a 367a6 (τοῖς ὕστερον χαλεποῖς). Questa nota filologica della fine del 1825 è stata registrata da Pacella, Timpanaro (1969), 611. Essa si inserisce assai bene nel particolare interesse del poeta di Recanati per la produzione moralistica di età ellenistica che si sviluppa proprio negli anni tra il 1824 e il 1826, anni dedicati soprattutto alle Operette morali: cf. Timpanaro (19973), 109–114. 28 Montaigne aveva forse nella memoria il giudizio di Cic. Tusc. I 17, 39, Errare mehercule malo cum Platone, quem tu quanti facias scio et quem ex tuo ore admiror, quam cum istis [scil. gli Epicurei] vera sentire.

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Saggio introduttivo

supposti culturali ed ideologici a partire dai quali di volta in volta nel corso del tempo essa è stata letta? O è almeno in parte dovuta alla natura stessa di quest’opera enigmatica? C’è il sospetto che le contraddizioni che nel complesso emergono dalla storia della ricezione dell’Assioco abbiano un non trascurabile valore diagnostico dei problemi oggettivamente presenti nella comprensione di questo dialogo. 1.4. Una conferma di ciò sembra venire dalla constatazione che altrettante contraddizioni si osservano nella storia degli studi che sono stati dedicati all’Assioco negli ultimi secoli. La paternità platonica dell’opera non è mai stata sostenuta seriamente: già al tempo dell’astronomo e grammatico dell’età di Tiberio Trasillo l’Assioco era unanimemente ritenuto spurio (Diog. Laert. III 62). D’altra parte, l’attribuzione a Senocrate di Calcedonia avanzata da Marsilio Ficino sulla base del fatto che il secondo successore di Platone scrisse un Περὶ θανάτου risulta debole e non ha trovato se non pochissimo seguito.29 Nella prima metà del Settecento ebbe un certo credito l’ipotesi che l’Assioco trasmesso insieme alle opere di Platone fosse da identificare con l’omonimo dialogo composto dal socratico Eschine di Sfetto, di cui ci parlano alcune fonti antiche.30 Tuttavia, a partire dall’edizione dell’Assioco del 1758 il Fischer, che pure in precedenza aveva aderito a questa ipotesi, si accorse che i dati offerti dalle fonti antiche sull’Assioco di Eschine non erano compatibili con il dialogo conservato.31 Una confutazione sistematica della

29 Sull’attribuzione dell’Assioco a Senocrate da parte del Ficino cf. anche infra pp. 115-116 n. 299 e p. 145. Al di là dei numerosi problemi che elementi interni al dialogo pongono a questa attribuzione, nulla fa pensare che il Περὶ θανάτου di Senocrate fosse un dialogo e tantomeno un dialogo intitolato Assioco. Peraltro, è verosimile che il titolo originale del dialogo pseudoplatonico fosse solo Ἀξίοχος. Soltanto in età tardo-antica sarebbe stato aggiunto il titolo ἀπὸ τοῦ πράγματος “περὶ θανάτου” (cf. il commento al titolo). Per una svista Senocrate è diventato Senofonte in Benitez (2019). 30 La paternità eschinea del dialogo fu sostenuta dal Clericus nella sua edizione del 1711 e fu ripresa da Horreus nel 1718 e da Fischer nell’edizione del 1753 (cf. anche infra p. 150). 31 Cf. Poll. VII 135 (= SSR VI A 58 = T 87 Pentassuglio), κυνηγεῖσθαι, ἰξεύεσθαι. τάχα δ’ ἂν τούτοις προσήκοιεν καὶ “οἱ ἀλεκτρυονοτρόφοι”, οὓς ὠνόμασεν ἐν Ἀξιόχῳ Αἰσχίνης, Ath. V 220c (= SSR VI A 56 = T 85 Pentassuglio), ἐν δὲ τῷ Ἀξιόχῳ πικρῶς Ἀλκιβιάδου κατατρέχει ὡς οἰνόφλυγος καὶ περὶ τὰς ἀλλοτρίας γυναίκας σπουδάζοντος, Priscian. IG. XVIII 296 (= SSR VI A 57 = T 86 Pentassuglio), Αἰσχίνης Ἀξιόχῳˑ καὶ τοσούτῳ ἐκεῖνο τούτου διαφέρειν ἐνόμιζον, ὅσον κρείττων ἐστὶν ἀνὴρ γυναικός. Il Clericus naturalmente non ignorava l’esistenza di queste testimonianze, ma pensava di potersene sbarazzare con le seguenti spiegazioni: 1)

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1. Un testo enigmatico

paternità eschinea fu sviluppata qualche anno più tardi dal Meiners.32 Alla luce di questi fatti, il tentativo di Karl Buresch, che nell’ultimo quarto del XIX secolo cercò nuovamente di attribuire ad Eschine l’Assioco conservato, risulta perlomeno attardato.33 Da allora sembra che la critica attribuzionistica abbia deposto le armi. I filologi e gli storici della filosofia antica hanno preferito limitarsi al tentativo di inserire l’Assioco in un contesto cronologico e culturale il più preciso possibile. Tuttavia, anche questa meno ambiziosa aspirazione non ha portato a risultati condivisi. Alla fine del XIX secolo nei Programme della “Staatliche Realschule” di Cuxhaven uscì uno studio di Herold Feddersen che criticava la tesi del Buresch e, enfatizzando soprattutto l’influenza che Crantore di Soli avrebbe esercitato sul dialogo, implicitamente escludeva che l’Assioco potesse essere stato composto prima della metà del III secolo.34 L’anno seguente Otto Immisch produsse, oltre ad un’importante edizione critica dell’Assioco, uno studio storico-critico in base al quale collocava il dialogo nell’Accademia di Polemone, tra la fine del IV e il primo quarto del III secolo.35 Circa vent’anni più tardi uscirono contemporaneamente due lavori monografici sull’Assioco: in Francia fu pubblicata la tesi dottora-

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i testimoni antichi possono aver commesso un errore di memoria, attribuendo all’Assioco di Eschine ciò che apparteneva ad un’altra opera; 2) i testimoni antichi possono essere affetti da guasti; 3) Eschine può aver composto due dialoghi intitolati Assioco (quest’ultimo punto era già stato prospettato dallo Stephanus). Cambiano (2018), 122 n. 71 ricorda che già Stanley (17013), 123 aveva notato l’incompatibilità tra l’Assioco conservato e le testimonianze indirette sull’omonimo dialogo di Eschine, e che, nonostante ciò, l’attribuzione prospettata dal Clericus fu recepita da Brucker (1742), I 575–576. La dissertazione del Meiners è del 1782: la si può leggere nella ristampa contenuta nell’edizione del Fischer del 1786. Cf. Buresch (1886), 9–20. Come meglio vedremo, Buresch ipotizzava che il testo fosse in più punti lacunoso. Ma questa ipotesi, diversamente da ciò che credeva Buresch, non giova molto all’attribuzione del dialogo ad Eschine: non si vede, infatti, come poter integrare nel testo a noi noto le informazioni che i testimoni antichi ci conservano; basta pensare che da Ateneo capiamo che nell’Assioco di Eschine qualcuno criticava Alcibiade per il fatto di essere un ubriacone e un donnaiolo: non solo nell’Assioco conservato non è presente alcun riferimento ad Alcibiade, ma è ben difficile individuare un punto del dialogo in cui, anche sforzandosi, uno riuscirebbe ad inserire un riferimento del genere. Cf. Feddersen (1895), 31: «Ich finde dieses nicht allein in dem Nachweis, dass der Verfasser des Dialogs “Axiochos”, der nebenbei auch wohl als ungeschickter Kompilator entlarvt sein dürfte, in eine weit spätere Zeit zu setzen ist, als Buresch es will, usw.». Sul lavoro del Feddersen cf. la breve recensione di Zeller (1898), 164. Cf. Immisch (1896), 70: «Mit dem bereits 314 verstorbenen Xenocrates hat also Marsiglio Ficino zwar sicherlich vorbeigegriffen, die Sphäre aber, in die das

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Saggio introduttivo

le di Jacques Chevalier, mentre in Germania compariva la dissertazione dottorale di Martin Meister.36 I due studiosi, che non sapevano l’uno del lavoro dell’altro, pervennero entrambi ad un risultato profondamente diverso da quello di Immisch: non è possibile definire con precisione l’ambiente in cui il dialogo è stato composto, tuttavia esso è da collocare non prima del I secolo a.C., periodo a cui rimanderebbe anche la lingua dell’opera.37 La dissertazione del Meister, nonostante l’enorme mole di riferimenti e paralleli che contiene, è stata quasi del tutto dimenticata dagli studi successivi, complice anche il fatto che l’autore si era lasciato eccessivamente influenzare dalla moda “pamposidoniana” di quegli anni.38 Al contrario, la monografia dello Chevalier ha fatto scuola ed è tuttora uno dei principali lavori di riferimento negli studi sull’Assioco.39 Fatta eccezione per alcuni contributi apparsi su rivista nei decenni successivi, bisogna aspettare gli anni Ottanta per avere un nuovo contributo complessivo sul dialogo: si tratta della traduzione inglese con introduzione e note di commento di Jackson P. Hershbell. Lo studioso americano è rimasto molto influenzato dalla tesi dello Chevalier, ma ha comunque rite-

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Schriftchen gehört, hat er instinctiv richtig bezeichnet, denn Xenocrates’ Schule gehört es an, der Academie des Polemon». Segnalo che, poco tempo dopo l’apparizione di questi lavori, in Italia Antonibon (1917) pubblicò un’edizione annotata dell’Assioco per le scuole. Alcuni anni più tardi, sempre in Italia, Martini (1928) fece uscire in un unico volumetto la traduzione del Fedone e dell’Assioco con uno stringato apparato di note. In Gran Bretagna Blakeney (1937) pubblicò una traduzione inglese annotata del solo Assioco (non ho potuto vedere quest’ultimo volume: cf. la recensione di Tate (1937), 175– 176). Cf. Chevalier (1915), 115: «l’Axiochos se rattache au mouvement d’idées représenté par le néo-pythagorisme, et ne paraît pas être antérieur au début du Ier siècle av. J.-C.» e Meister (1915), 9: «non ita multum ante Christum natum scriptum». Meister (1915), 126–127, sulla scorta di Corssen (1881), 506–523, arrivava alla conclusione che tutto il materiale contenuto nell’Assioco proveniva dal perduto Protrettico di Posidonio. Per una equilibrata e condivisibile critica della tesi del Meister cf. Philippson (1917), 376–380 (praesertim col. 379: «Und doch ist schon öfters mit Recht davor gewarnt worden, Schriften, besonders wenn sie kein einheitliches Gepräge tragen, auf eine Quelle zurückführen zu wollen»). Sul “pamposidonismo” di Meister cf. anche Theiler (1982), II 342. La tesi dello Chevalier, ad esempio, è stata recepita da Souilhé nella “Notice” dell’edizione Budé (1930), ma ha esercitato un’influenza notevole ancora sul recente studio di Männlein-Robert (2012). Sul lavoro dello Chevalier cf. inoltre la recensione di Ruyssen (1916), 218.

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nuto più prudente avanzare come orizzonte cronologico di massima per il dialogo un arco di tempo compreso tra il II e il I secolo a.C.40 A partire dall’inizio del Ventunesimo secolo l’interesse per l’Assioco ha trovato nuova vitalità. Nel 2005 sono usciti gli atti del convegno tenutosi a Bamberg nel 2003 sui dialoghi pseudo-platonici: ben tre contributi sono stati interamente dedicati all’Assioco.41 Nel 2012 è uscito in Germania il volume monografico dedicato all’Assioco a cura di Irmgard Männlein-Robert: esso comprende un’ampia introduzione, il testo greco rivisto, una nuova traduzione tedesca e un ricco corredo di note esegetiche; in aggiunta a ciò, il volume include sei saggi di altri autori dedicati ad aspetti specifici del dialogo.42 Infine, nel 2015 è apparsa una monografia di Mariella Menchelli, di cui circa metà è interamente dedicata a problemi di interpretazione e di tradizione dell’Assioco. Questa sezione della monografia è stata ripubblicata dalla Menchelli nel 2016 sotto forma di articolo con alcuni aggiornamenti.43 Con questo revival degli studi sull’Assioco si è imposta l’idea, con rare eccezioni, che il dialogo sia stato composto all’interno dell’Accademia. Tuttavia, non c’è stato un superamento definitivo degli antichi problemi. Da un lato, è tornata in auge la vecchia ipotesi di una datazione alta, sostanzialmente in sintonia con l’idea di Immisch di una composizione del dialogo nell’Accademia di Polemone, ma con una maggiore propensione per l’Ac-

40 Cf. Hershbell (1981), 20–21: «it seems fairly certain that the Axiochus was written after the rise of major philosophies of the Hellenistic period: Epicureanism, Stoicism, and Cynism … The Axiochus’ language, vocabulary and syntax also points to the second-first centuries B.C., and there seem to be no good reasons to reject the views of Chevalier and Souilhé. In general, the dialogue is characteristic of the syncretism which preceded and continued into the Christian era». 41 Si tratta di Erler (2005), 81–95; Joyal (2005), 97–117 e Tulli (2005), 255–271 (quest’ultimo contributo riprende e amplifica in tedesco un lavoro precedentemente apparso in italiano in Tulli (2004), 199–212). 42 Cf. Männlein-Robert (2012): l’introduzione ad opera della stessa Männlein-Robert copre le pp. 3–41; il testo e la traduzione tedesca, sempre della Männlein-Robert, le pp. 44–59; il ricco apparato di note, realizzato a quattro mani dalla Männlein-Robert e da Oliver Schelske, le pp. 60–92; i saggi sono: Erler (2012), 99–115; Nesselrath (2012), 117–126; Poplutz (2012), 127–140; Feldmeier (2012), 141–153; Lohmar (2012), 155–181 e Grosse (2012), 183–206. 43 La parte della monografia della Menchelli dedicata all’Assioco è in Menchelli (2015), 67–156 (con alcune parti sull’Alcione pseudo-platonico), ripreso in Menchelli (2016), 87–159.

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Saggio introduttivo

cademia di Arcesilao (264–244/3).44 Dall’altro, la Männlein-Robert propende con cautela per l’Accademia del I secolo a.C., senza escludere l’influenza di Antioco di Ascalona, mentre la Menchelli pensa all’Accademia scettica tra il II e I secolo a.C.45 Le cose non vanno molto meglio se si guarda alla valutazione complessiva dell’opera. Da un lato, infatti, l’Assioco è stato giudicato un’opera confusa priva di alcun valore, dall’altro vi sono state viste una complessa architettura argomentativa e una raffinata cura letteraria.46 In queste pagine si cercherà di fare chiarezza intorno a questi problemi.

2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica 2.1. In un contributo recente Elisabeth Irwin ha tentato un’interpretazione originale dell’Assioco. Secondo la Irwin l’autore dell’Assioco avrebbe voluto mettere a confronto diverse concezioni della vita e della morte che avevano

44 Cf. Tulli (2005), 268: «Auf diese Weise passt er die Lehrinhalte der Akademie an das Klima und den Geschmack der hellenistischen Zeit an und nimmt, vielleicht von Arkesilaos angeregt, eine Position Epikurs auf» e Aronadio (2008), 80–81: «vi sono buone ragioni per porre il dialogo in stretta relazione con l’atmosfera culturale caratteristica dell’inizio del III secolo, che probabilmente aveva fatto breccia anche nell’Accademia, sempre più orientata verso la filosofia pratica e interessata a contrastare la tendenza di altre scuole ad appropriarsi dell’immagine di Socrate». 45 Cf. Männlein-Robert (2012), 6–7: «Es bleibt zu konstatieren, dass der pseudo-platonische Axiochos mit guten Gründen (s.u.) in späthellenistische Zeit, vermutlich in das erste Jahrhundert v. Chr., zu datieren ist» (per l’influenza di Antioco di Ascalona cf. Männlein-Robert (2012), 36). D’altra parte cf. Menchelli (2016), 128: «la struttura del dialogo e le modalità delle argomentazioni sembrano essere legate qualche decennio prima agli allievi della scuola di Carneade (da Clitomaco a Metrodoro e Filone di Larissa, tra i più noti), proprio nella padronanza dell’uso e della tecnica delle argomentazioni stesse. La datazione di Hershbell tra II e I secolo appare in questo senso la più convincente». 46 Da un lato, Feddersen (1895), 31 parla di «ungeschickter Kompilator», Wilamowitz (1895), 979 di «armseliger Scribent», Chevalier (1915), 40 di «insuffisance de la pensée de l’auteur» e di «composition … très maladroite»; dall’altro Erler (2012), 100 osserva: «Versteht man diese Bezüge nun nicht als Beleg für einen Mangel an Originalität des Autors, sondern als bewusst gestaltetes Spiel mit einer literarisch-philosophischen Vorlage, die zum Vergleich auffordert, so fällt in der Tat inhaltlich wie auch literarisch eine Palintonos Harmonia von Konvergenz und Differenz auf, die vor dem Hintergrund poetologischer und philosophischer Überlegungen vor allem im Hellenismus an Profil gewinnt und den Text in der Tat zu einem interessanten Dokument für eine Art des Umgangs mit “klassischen” Vorbildern macht, die in der Nachahmung bewusst den Kontrast sucht».

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2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica

corso alla fine del V secolo mostrando i loro effetti pratici di carattere etico-politico. Secondo la studiosa, l’insegnamento del sofista Prodico avrebbe alimentato nel popolo di Atene l’idea che la vita umana non abbia valore, e gli effetti deleteri di questa concezione si sarebbero visti in modo clamoroso durante il processo delle Arginuse. Questo fatto sarebbe all’orgine della paura della morte di Assioco, a cui Socrate riuscirebbe a porre rimedio instillando in lui la persuasione che l’uomo giusto non ha nulla da temere dalla morte. Attraverso il superamento di questa paura da parte di Assioco l’autore del dialogo alluderebbe ai rivolgimenti politici che di lì a poco si sarebbero prodotti ad Atene (l’ascesa al potere dei Trenta) e al possibile ruolo svolto da Assioco in quei frangenti. Al rifiuto degli insegnamenti del sofista Prodico si accompagnerebbe, dunque, il rifiuto del regime politico democratico in cui quegli insegnamenti avevano preso piede.47 Questa ricostruzione molto suggestiva del clima spirituale dell’Atene dell’ultimo decennio del V secolo si fonda quasi esclusivamente su un ragionamento circolare, ovvero su una interpretazione, spesso molto forzata, dello stesso testo dell’Assioco48. Ma al di là di questo, essa presuppone da parte dell’autore e dei suoi destinatari un gioco di allusioni e ammiccamenti che non si spiegano se non pensando che entrambi abbiano vissuto in prima persona i fatti narrati, cosa che porta a collocare l’Assioco al più tardi nella prima metà del IV secolo.49 Giova pertanto ribadire alcuni dei molti elementi che inducono ad escludere una datazione così alta dell’opera: 1) Nella sezione della ἐπίδειξις di Prodico dedicata alle diverse età della vita si fa riferimento ad una serie di istituzioni che sono del tutto estranee

47 Cf. Irwin (2015), 63–85. 48 Basta pensare alla connessione stabilita tra la paura della morte che sconvolge Assioco e gli effetti deleteri della diffusione dell’insegnamento di Prodico (cf. Irwin (2015), 80: «The subtext of the dialogue, I argue, is an argument that what has brought upon Axiochus’ fear of death is less what might await him in the afterlife, but rather the situation at Athens, and in particular the consequences of an elite view becoming popular, that is, what happens when Prodicu’s views on death become those of the many, and they believe that it does not matter how one chooses to live»). 49 Cf. Irwin (2015), 63 n. 3: «It should become clear from what follows … that I believe nothing in this dialogue requires the Axiochus to be later than Plato, and in fact it could be one of the earliest Sokratikoi logoi in our possession», e Irwin (2015), 84: «While it has not been the aim of this article to argue for a date at which the Axiochus was composed … its rich and detailed engagement with the political events and climate of the late fifth-century Athens argue for a very early date ideed, when the memory of such issues and associations were still vivid».

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Saggio introduttivo

alla realtà dell’Atene classica e che compaiono soltanto alla fine del IV secolo: basta pensare al κοσμητής (366e4) e ai σωφρονισταί (367a2).50 2) La sezione in cui Socrate mette in bocca a Prodico l’argomento secondo cui la morte non è un problema di cui l’uomo debba curarsi (369b5-c7) dipende, direttamente o indirettamente, dall’Epistola a Meneceo.51 3) La presenza delle Danaidi nell’Aldilà tra i “grandi dannati” e la loro associazione alla pena dell’eterno riempimento di un orcio forato (371e6) non sembra testimoniata con sicurezza prima del I secolo a.C.52 4) La lingua dello pseudo-Platone tradisce l’influenza della κοινή: cfr e.g. 364d1 (ὡς δὲ θᾶττον), 365e1 (ἦς), 366a1–2 (πρὸς κακοῦ), 366a3 (εἰς πλείους ὀδύνας ἀνακεκραμένα), 366b3–4 (ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ διαφέρων), 366b6 (ἡ πληθύς).53 Tuttavia, la Irwin ha avuto il merito di richiamare l’attenzione su una serie di elementi che mostrano come l’autore del dialogo fosse ben informato sull’Assioco storico, meglio delle fonti in nostro possesso che ci parlano di lui. Ad esempio lo pseudo-Platone, oltre a riunire tre personaggi (Assioco stesso, Carmide e Damone) che a vario titolo furono coinvolti nello scandalo della profanazione dei misteri del 415 (364a4–5), è in grado di indicare l’ubicazione precisa dell’abitazione di Assioco (365a5), ricorda il coinvolgimento di Assioco nella difesa degli strateghi delle Arginuse (369a1–2), allude alla possibile appartenenza di Assioco ad una congregazione religiosa che si occupava del culto delle dee di Eleusi (371d7-e1).54 Tuttavia, ciò non significa necessariamente che l’autore fosse contemporaneo ai fatti narrati. Si può pensare, infatti, che egli leggesse fonti che noi non abbiamo più.55 Non ci sono elementi concreti per individuare in mo-

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Cf. il commento ad locc. Cf. il commento ad loc. Cf. il commento ad loc. Cf. il commento ad locc. È poco probabile che tutte queste informazioni sull’Assioco storico siano state inventate dallo pseudo-Platone. Esse, infatti, non sono strettamente necessarie allo sviluppo del tema principale dell’Assioco (“perché non si deve aver paura della morte”). Se fossero state inventate ci si sarebbe aspettati una connessione più stretta con il tema (su tutti questi passi cf. il commento ad locc.). 55 Vengono in mente le considerazioni svolte a proposito del Περὶ πολιτείας pseudoerodiano da Albini (1968), 21–22: «Evidentemente, chi ha composto il περὶ πολιτείας ha attinto a fonti dell’epoca, e non solo letterarie, e non solo ateniesi … In altri termini, se lingua e stile negano al V secolo il περὶ πολιτείας, non è detto che la conoscenza delle questioni tessale rivelata dalla declamazione costituisca insormontabile ostacolo» (cf. anche Joël (1901), 176 n. 2, la cui tesi generale sull’Assioco, tuttavia, non può essere accettata: cf. infra p. 41 n. 105.

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2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica

do preciso queste fonti, tuttavia il perduto Assioco di Eschine di Sfetto, il quale fu contemporaneo dei fatti narrati dallo pseudo-Platone, potrebbe essere uno dei candidati più plausibili.56 È verosimile, infatti, che un autore che avesse deciso di scrivere un Assioco molto tempo dopo quei fatti cercasse del materiale utile per ricostruire l’ambiente della fine del V secolo. E quale opera poteva essere più adatta a questo scopo dell’unico altro Assioco di cui si abbia notizia? Lo stesso fatto che come protagonista di questo dialogo sia stato scelto proprio Assioco, un personaggio citato solo di sfuggita nel corpus Platonicum, depone a favore dell’ipotesi che lo pseudo-Platone disponesse di fonti più antiche ora perdute che davano risalto a questa figura per ragioni che potevano essere rilevanti per il tema del dialogo.57 2.2. Decisamente più fondata è la proposta di collocare l’Assioco tra la fine del IV e l’inizio del III secolo. Come si è accennato, questa proposta di datazione fu sostenuta con particolare forza da Otto Immisch alla fine del XIX secolo.58 Immisch insisteva soprattutto su quei Realien appena ricordati che sembrano rimandare alla realtà ateniese della fine del IV secolo.59 Secondo Immisch, cioè, l’autore dell’Assioco avrebbe commesso una serie di anacronismi che tradiscono l’epoca in cui il dialogo è stato composto. Il problema di questa conclusione è che non siamo di fronte ad una svista occasionale. Ciò pare tanto più strano se si considera che con buona verosimiglianza un autore vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III secolo poteva disporre ancora di molto ottimo materiale della fine del V secolo che avrebbe potuto permettergli di fare un lavoro più accurato. A ben vedere, dunque, gli anacronismi su cui Immisch ha giustamente insistito non si adattano ad un autore dell’altezza cronologica da lui propo-

56 Sull’Assioco di Eschine cf. Pentassuglio (2017), 119–124. 57 Cf. anche infra p. 28 n. 70. È degno di nota a questo proposito che a 364c1–2 lo pseudo-Platone allude all’abitudine di Socrate di consolare Assioco (ὠς εἴωθας), mentre a 364c7–8 (καὶ γὰρ ἤδη πολλάκις αὐτῷ γέγονεν συμπτώματος ἀνασφῆλαι) si fa riferimento ad altre circostanze in cui ad Assioco è capitato di recuperare la salute (ovvero di essere consolato da Socrate). In entrambi i casi lo pseudo-Platone potrebbe alludere a delle fonti in cui queste situazioni erano meglio sviluppate (cf. anche il commento ad locc.). 58 Cf. Immisch (1896), 13–17. Questa proposta è stata recentemente ripresa da Tulli (2005), 255–271 e da Aronadio (2008), 74–81, anche se sulla base di altri argomenti, tra cui soprattutto la possibile influenza del Περὶ πένθους di Crantore. Ma questa ipotetica influenza, peraltro di per sé piuttosto problematica (cf. infra pp. 33-38), non implica necessariamente la contemporaneità dei due autori: anche Cicerone e l’autore della Consolatio ad Apollonium pseudo-plutarchea, infatti, furono influenzati da Crantore. 59 Cf. il paragrafo precedente.

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Saggio introduttivo

sta, ma a qualcuno che visse molto tempo dopo, non solo rispetto alla data fittizia del dialogo, ma anche rispetto all’epoca a cui risale la maggior parte delle realtà anacronistiche del dialogo. Un autore vissuto assai più tardi della fine del IV secolo, infatti, avrebbe potuto con facilità cadere nell’inconveniente di proiettare sull’Atene della fine del V secolo Realien della fine del IV, in quanto entrambe queste epoche erano ormai per lui distanti e, perciò, potevano facilmente essere confuse.60 Tuttavia, in almeno un caso l’autore dell’Assioco ha commesso una “svista” che tradisce l’epoca sua e che conferma questa spiegazione degli altri anacronismi che rimandano alla fine del IV secolo. A 367a3, infatti, lo pseudo-Platone parla di ἡ ἐπὶ τοὺς νέους αἵρεσις τῆς ἐξ Ἀρείου πάγου βουλῆς. Una siffatta realtà non sembra altrimenti attestata.61 Il confronto più plausibile risale al I secolo d.C. e ciò fa verosimilmente pensare che il riferimento sia ad una realtà sviluppatasi ad Atene nella tarda età ellenistica quando l’influenza di Roma incominciò a condizionare la vita istituzionale della città.62 2.3. Nel suo influente studio sull’Assioco, Jacques Chevalier cercò di mostrare che il dialogo “n’est pas d’un Académicien”. A suo avviso, infatti, «il est inadmissible qu’un Académicien ait pu développer d’une manière aussi banale et insuffisante les preuves de l’immortalité de l’âme, alors qu’il avait à sa disposition toutes les ressources de la dialectique platonicienne et toute la richesse métaphysique de la doctrine des Idées».63 La debolezza di questa posizione emerge da una serie di elementi: 1) La veste letteraria del dialogo, curata soprattutto nel prologo, rivela un’attenzione a particolari minuti della composizione dei dialoghi di Platone.64 2) Il dialogo alterna forma narrativa e forma drammatica: in particolare, fino a 365b8 prevale la forma narrativa (con l’eccezione delle due battute di 364c3–8), mentre da 365c1 alla fine del dialogo si ha esclusivamente la forma drammatica. Ciò può essere in parte dovuto all’incompiu60 Analogo argomento contro la datazione proposta da Immisch in Chevalier (1915), 31–32: «l’auteur de l’Axiochos s’est préoccupé de donner à son oeuvre une couleur attique … Il n’y a réussi qu’à moitié, d’ailleurs: car en cherchant à être précis il a commis des erreurs ou des confusions qui seraient bien singulières de la part d’un Athénien du IVe siècle». 61 Cf. il commento ad loc. 62 Per i cambiamenti istituzionali introdotti ad Atene per influenza di Roma in questo periodo storico cf. Candiloro (1965), 135–145. 63 Cf. Chevalier (1915), 41. Di parere analogo era Couvreur (1896), 78, dal quale non a caso Chevalier mostra di dipendere (p. 41 n. 2). 64 Cf. i diversi lemmi del commento al prologo.

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2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica

tezza dell’opera.65 Ma non si può escludere un’alternanza consapevole. Lo stesso Platone, infatti, ha esplicitamente tematizzato la differenza tra queste due prassi compositive (cf. Theaet. 143b-c)66 e ha praticato un’alternanza tra queste due prassi nel Parmenide.67 L’influenza di questa distinzione si evince dal fatto che Cicerone in apertura delle Tusculanae ha tematizzato e applicato questa alternanza passando dall’introduzione di carattere narrativo al dialogo drammatico: Sed quo commodius disputationes nostrae explicentur, sic eas exponam, quasi agatur res, non quasi narretur (Tusc. I 4, 8). 3) Alcune espressioni utilizzate dall’autore dell’Assioco sembrano riflettere un impegno esegetico sui dialoghi platonici: è il caso ad esempio di 366a1, dove la rappresentazione del corpo come φρούριον sembra presupporre una particolare interpretazione dell’immagine della φρουρά di Plat. Phaed. 62b; o quello di 371c2 dove il luogo in cui i giudici ultramondani giudicano le anime viene chiamato Πεδίον Ἀληθείας con una

65 Su cui cf. infra pp. 42-48. 66 Per una discussione di questo aspetto compositivo del Teeteto cf. Tulli (2011), 121–133. Più in generale sul rapporto tra forma narrativa e forma drammatica nei dialoghi platonici cf. Capra (2003), 3–30. 67 Cf. Capra (2003), 18: «Questo dialogo, rispetto agli altri narrati, ha una notevole particolarità: la narrazione indiretta è presente solo nelle prime undici pagine (126a–137c), mentre il seguito -quaranta pagine scarse- è in forma drammatica pura». Capra (2003), 28–39 conclude: «in Platone la narrazione indiretta è strettamente legata all’esigenza di rendere “presentabili” – nel senso della tecnica narrativa ma anche nell’accezione estetico-morale del termine- aspetti della realtà “impresentabili” perché caotici e poco degni, ma certo indispensabili al ritratto verace della vita e della missione mondana del filosofo». Questa spiegazione dell’alternanza delle due forme compositive è in effetti compatibile con quanto si osserva nell’Assioco: qui la cornice narrativa offre da un lato la rappresentazione del filosofo nel corso della vita quotidiana, dall’altro la smodata manifestazione del dolore psichico di Assioco; lo svolgimento drammatico del dialogo copre, invece, il più controllato sviluppo della dinamica consolatoria. La prassi compositiva dell’Assioco in un certo senso, dunque, suggerisce che l’intuizione di Andrea Capra sulla funzione delle diverse forme dialogiche platoniche era già stata colta dagli antichi e da loro messa in pratica. Ciò, tuttavia, implica un’elevata attenzione e una riflessione sulla prassi compositiva di Platone. Tale atteggiamento si inserisce bene all’interno dell’Accademia platonica (cf. la discussione nel presente paragrafo). Ciò naturalmente non esclude che almeno in parte questo fenomeno sia dovuto a problemi di natura compositiva: nell’Assioco, infatti, si ha un’oscillazione ripetuta tra forma narrativa e forma drammatica che non si osserva nel Parmenide e che si spiega facilmente pensando all’incompiutezza dell’opera (cf. infra p. 47 e n. 123).

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studiata identificazione tra il λειμών di Plat. Gorg. 524a e il πεδίον ἀληθείας di Plat. Phaedr. 248b.68 4) A 366b6–7 Socrate si definisce ζητητικὸς τῶν πραγμάτων. Questa espressione non si trova altrove nel CP. In compenso, essa richiama una delle caratteristiche, la centralità della ζήτησις, tradizionalmente riconosciute dall’erudizione più tarda alla riflessione scettica.69 Se quest’ultimo punto sembra tradire da parte dello pseudo-Platone la volontà di attribuire a Socrate una caratteristica che egli riconosceva a sé medesimo, gli elementi contenuti nei punti (1), (2) e (3) sembrano presupporre una frequentazione attenta dei dialoghi platonici e una conoscenza di un dibattito filosofico ed esegetico che coinvolge aspetti anche molto puntuali di alcune delle opere di Platone. È possibile che tutto ciò sia semplicemente dovuto allo zelo di un appassionato lettore di Platone? Pare più verosimile pensare a qualcuno che fosse direttamente inserito in un fermento di lettura, esegesi e discussione filosofica sui dialoghi platonici.70 Ma quale 68 Cf. il commento ad locc. 69 Cf. il commento ad loc. 70 Sull’attività esegetica dei dialoghi platonici nell’Accademia scettica cf. Glucker (1978), 46–47 e n. 116; Lévy (1993), 139–156 e Bonazzi (2003), 97–138 (con particolare attenzione a Filone di Larissa). Si può pensare che nell’ambito di questo impegno esegetico ci fosse anche la necessità di chiarire a lettori distanti di secoli dalla composizione di quelle opere chi fossero i personaggi che popolano i dialoghi del fondatore della scuola. Nel fare ciò gli Accademici verosimilmente avranno operato in modo non molto diverso da quei grammatici autori di liste di κωμῳδούμενοι, vere e proprie “prosopografie” di personaggi menzionati nella commedia attica, utili strumenti per una migliore comprensione di testi i cui riferimenti all’attualità inevitabilmente sfuggivano ai posteri. Autori di opere del genere furono ad esempio i grammatici Erodico di Babilonia, Antioco di Alessandria, Ammonio di Alessandria. La concreta necessità di ricorrere a questi strumenti ci è illustrata e.g. da Plut. QConv. VII 712a, ὥσπερ ἐν τοῖς ἡγεμονικοῖς δείπνοις ἑκάστῳ παρέστηκε τῶν κατακειμένων οἰνοχόος, οὕτω δεήσει γραμματικὸν ἑκάστῳ τὸ καθ’ ἕκαστον ἐξηγεῖσθαι, τίς ὁ Λαισποδίας παρ’ Εὐπόλιδι καὶ ὁ Κινησίας παρὰ Πλάτωνι καὶ ὁ Λάμπων παρὰ Κρατίνῳ καὶ τῶν κωμῳδουμένων ἕκαστος· ὥστε γραμματοδιδασκαλεῖον ἡμῖν γενέσθαι τὸ συμπόσιον ἢ κωφὰ καὶ ἄσημα τὰ σκώμματα διαφέρεσθαι. In generale su queste opere erudite cf. Steinhausen (1910) e D’Alessandro (2020), 23–26. Nella necessità di spiegare chi era l’Euclide del Teeteto si è imbattuto ad esempio l’anonimo autore del commento conservato da PBerol. inv. 9782 (= CPF III 9, col. III, l. 50 – col. IV l. 6 Bastianini-Sedley). Ora, Assioco non ha mai un ruolo importante nei dialoghi platonici autentici. Però è menzionato nell’Eutidemo come padre di Clinia (Euthyd. 271b e 275a): questa menzione era sufficiente perché un esegeta avvertisse l’esigenza di documentarsi su questo personaggio vissuto nella seconda metà del V secolo (ciò depone anche a favore dell’idea che l’autore dell’Assioco abbia avuto a disposizione fonti ora perdute: cf. anche supra pp. 24-25).

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2. L’Assioco e l’Accademia ellenistica

luogo era più indicato per questo tipo di attività della scuola fondata da Platone? È degno di nota, inoltre, che alcuni degli argomenti impiegati dallo pseudo-Platone sembrano influenzati da dottrine e argomenti che circolavano nell’Accademia antica (cf. in particolare 365e2–366b1 e 370b2-c6).71 È verosimile, dunque, che l’autore abbia recuperato scritti della fase più antica dell’Accademia per riutilizzarli in qualità di antiche testimonianze sull’immortalità dell’anima. Ma per effettuare questi recuperi quale luogo sarebbe stato più indicato dell’Accademia stessa? Infine, non è trascurabile il fatto che il dialogo è stato trasmesso insieme alle opere di Platone. Chi più di un membro dell’Accademia avrebbe avuto la possibilità di inserire un’opera spuria, ma chiaramente ispirata al fondatore della scuola, all’interno del corpus delle opere platoniche? In definitiva, Chevalier ha giustamente respinto la tesi di Otto Immisch, secondo cui l’Assioco sarebbe stato composto nell’Accademia antica alla fine del IV secolo o agli inizi del III.72 Nel far questo, però, ha trascurato l’evoluzione interna all’Accademia nel corso dei secoli successivi, cosa che gli ha impedito di notare i dati che portano a collocare il dialogo all’interno della scuola di Platone. L’Accademia di età ellenistica era impegnata nella comprensione delle opere del fondatore e nel confronto con le nuove problematiche filosofiche che emergevano nel corso del tempo. In questo contesto dinamico la riflessione filosofica si accompagnava all’interpretazione del pensiero del fondatore della scuola.73 Nulla di strano, dunque, nel desiderio di produrre a distanza di tempo un’opera che si presentasse come opera di Platone. Si trattava indubbiamente di produrre un “falso”, creato per dare l’impressione che Platone medesimo, per così dire, fosse già intervenuto nel dibattito filosofico successivo. Tuttavia, questa operazione era legittimata dalla convinzione che i nuovi sviluppi teoretici nascevano anche da una corretta interpretazione dell’opera del maestro, erano in un certo senso già presenti nel pensiero di Platone.74

71 Cf. il commento ad locc. 72 Su Immisch cf. supra p. 19. 73 Su questa dialettica tra interpretazione della filosofia del maestro e sua attuazione nel presente, sia nei dibattiti interni all’Accademia sia nel confronto con altre scuole cf. Lévy (1993), 139–156; Brittain (2001), 169–248 e Bonazzi (2003), 118– 129. 74 Per l’idea che i dialoghi pseudo-platonici nascano all’interno dell’Accademia e riflettano il fermento intellettuale qui descritto cf. Carlini (1962), 33–63; Müller (1975), 9–44 e Alesse (2000), 123–124 e n. 43.

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Dal punto di vista artistico gli effetti di questa operazione sono essenzialmente di tipo “manieristico”. C’è scrupolo nell’imitazione del modello letterario e nella ricostruzione del contesto materiale e spirituale della fine del V secolo. Tuttavia, almeno nell’Assioco, il recupero di notazioni erudite e l’accumulo a volte un po’ scriteriato di informazioni, anziché produrre un effetto di verosimiglianza, tradiscono la mancanza di spontaneità, l’artificio, lo sforzo di calarsi in una realtà ormai lontana.75

3. La questione delle fonti 3.1. Già nel 1542 il Perionius (Joachim Périon) aveva notato le forti somiglianze tra l’Assioco e il primo libro delle Tusculanae di Cicerone, al punto da ipotizzare una dipendenza diretta di Cicerone dall’Assioco.76 In effetti è 75 Si può pensare ad esempio alla concentrazione di indicazioni di noti luoghi ateniesi nei primissimi righi del dialogo (il Cinosarge, l’Ilisso, la fonte Calliroe), all’indicazione quasi esasperatamente puntuale dell’ubicazione della casa di Assioco (364d1–365a1), all’accumulo di luoghi inferi classici nella rappresentazione della regione degli empi nel mito di Gobria (371e5, cf. anche il commento ad loc.). 76 Così il benedettino Perionius scriveva nell’epistola dedicatoria indirizzata al vescovo di Saint Malo François Boher: «Hunc autem ad te librum mitto hoc tempore: quem tibi eo iucundiorem, caeterisque omnibus fore spero, quod locos permultos, quos Cicero inde sumptos commode et eleganter convertit in lib. 1. Tusculanarum quaestionum, cum Graecis notavi. Quae me sane spes ab hoc Platonis libro potissimum inciperem, impulit, cum praesertim locos illos nec Joachimus Camerarius, qui unde Cicero multa exempla et dicta mutuatus sit, magna cum diligentia invenit, nec quisquam alius quod sciam animadverterit». Il Camerarius, cui il Perionius fa riferimento, aveva pubblicato nel 1538 un commento alle Tusculanae. Sul Perionius cf. Maillard, Kecskeméti, Magnien, Portalier (1999), 349– 350. La prima edizione della sua traduzione annotata dell’Assioco è del 1542, seguirono altre due edizioni nel 1543 e nel 1548 (cf. Maillard, Kecskeméti, Magnien, Portalier (1999), 365–366, 369 e 376; cf. inoltre Deitsch (2012), 356–357). In seguito il confronto tra il primo libro delle Tusculanae e l’Assioco, senza che sia stato condotto sistematicamente, è stato indicato come proficua via di ricerca da Philippson (1939), 1143–1146; Luck (1953), 42 ed Erler (2005), 87. Sorprende che il fatto non sia stato rilevato da Menchelli 2016, nonostante il giusto peso dato dalla studiosa alla testimonianza di Cicerone nella valutazione dell’Assioco. Un confronto sistematico tra le due opere era invece stato avviato da Corssen (1881), 506–523. Tuttavia, la sua conclusione secondo cui le somiglianze tra i due autori sarebbero dovute ad una comune dipendenza da Posidonio (non a caso la tesi del Corssen fu ripresa dal Meister: cf. supra p. 20 n. 38) non è condivisibile. Per una critica della tesi che il primo libro delle Tusculanae dipenda da Posidonio cf. Miller-Jones (1923), 202–238.

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3. La questione delle fonti

sufficiente “collazionare” i due testi per accorgersi delle loro impressionanti somiglianze: 1) A 365d1–7 Socrate mostra ad Assioco che, se pensa che la morte comporti la perdita di ogni forma di sensibilità, è contraddittorio da parte sua temere che la morte sia un male; lo stesso ragionamento Socrate conduce nell’ἔλεγχος di 369e3–370b1, nel momento in cui Assioco torna a dire di temere la perdita dei beni della vita. Analogamente, in Tusc. I 36, 88–37, 90 Cicerone sviluppa più di una volta questo tipo di ἔλεγχος di fronte ad un interlocutore fittizio che, credendo di formulare nuove obiezioni, in verità ricade sempre nella stessa contraddizione. 2) A 369b5-c4 lo pseudo-Platone attraverso la maschera di Prodico mette in bocca a Socrate il celebre passo dell’Epistola a Meneceo in cui si dimostra che, se si parte dal presupposto che la morte comporta la perdita di ogni forma di sensibilità, la morte non è un male per l’uomo. Lo stesso passo epicureo è ripreso da Cicerone in Tusc. I 38, 91. 3) A 365d7-e2 Socrate accosta la condizione che segue la morte a quella che precede la nascita; sulla base di questa analogia Socrate fa osservare ad Assioco che, così come non si possono avvertire i mali che si verificano prima della nascita, allo stesso modo non si possono percepire i mali che si verificheranno dopo la morte: Assioco, che non era ancora nato al tempo di Dracone e di Clistene, non avrebbe potuto patire i mali che si fossero verificati allora. A 369c4–7 Socrate, dopo aver argomentato che la morte non è un problema reale per l’uomo se si ammette che con essa viene meno ogni forma di sensibilità, paragona la paura della morte alla paura suscitata da creature immaginarie come Scilla o il Centauro. Quest’uso di analogie in relazione al tema della morte come completa insensibilità si trova anche in Cicerone: in Tusc. I 37, 90, dopo aver sviluppato l’ἔλεγχος, Cicerone combina l’analogia tra la paura della morte e la paura di creature immaginarie (ad esempio l’Ippocentauro) con l’analogia tra la condizione che precede la nascita a quella che segue la morte attraverso l’esempio di Marco Furio Camillo. 4) A 365e2–366b1 Socrate sviluppa il primo argomento dell’immortalità dell’anima fondato sul principio per cui il simile si ricongiunge con il simile: l’uomo è composto di anima e di corpo; anima e corpo non sono composti della stessa sostanza; quando si muore anima e corpo si separano e si comportano secondo la natura della sostanza di cui sono composti; così il corpo rimane legato alla terra e al suo ciclo di generazione e corruzione, mentre l’anima si ricongiunge con le realtà celesti immortali di cui condivide la natura. In Tusc. I 18, 42–19, 43 Cicerone sviluppa un argomento analogo.

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5) A 365e5–366a1 lo pseudo-Platone, connettendo un passo dell’Alcibiade I con uno del Fedone, fa operare a Socrate un’identificazione tra l’anima e la natura umana, mentre il corpo è abbassato al rango di mero contenitore. Il medesimo concetto è ripreso da Cicerone in Tusc. I 22, 52.77 6) A 370c6-d6 Socrate riprende l’argomento dell’immortalità dell’anima osservando che, una volta liberatasi dai vincoli del corpo, l’anima può finalmente dedicarsi interamente alle attività intellettuali che le sono proprie, unica fonte di reale appagamento per l’uomo. D’altra parte, già a 366a1–4 Socrate aveva fatto riferimento agli impedimenti che il corpo esercita sull’anima. In Tusc. I 19, 44 Cicerone sviluppa un tema analogo. 7) A 370b1-c6 Socrate presenta un argomento dell’immortalità dell’anima a partire dall’osservazione delle opere prodotte dall’uomo: solo un intelletto immortale può arrivare a risultati accostabili a quelli che l’intelletto divino ha realizzato nell’organizzazione del cosmo. Questo stesso argomento è sviluppato anche da Cicerone in Tusc. I 25, 61–26, 65. 8) A 367b7–368a7, nell’ambito della lunga ἐπίδειξις di Prodico, lo pseudoPlatone inserisce una sezione di casi esemplari da cui emerge che sia gli dèi sia i poeti ritengono che per gli uomini la morte è preferibile alla vita. Tra questi casi esemplari si hanno quello della morte di Cleobi e Bitone, quello della morte di Agamede e Trofonio e un verso di un celebre passo del Cresfonte di Euripide. Cicerone, in Tusc. I 47, 113–48, 115, riprende una serie di luoghi comuni utilizzati dai retori per mostrare che la morte è preferibile alla vita. Tra di essi si trovano nuovamente il caso della morte di Cleobi e Bitone, quello della morte di Agamede e Trofonio e il passo del Cresfonte di Euripide. Si direbbe che quasi tutto l’Assioco sia “contenuto” nel primo libro delle Tusculanae. Come si spiega questo fenomeno? Dobbiamo concludere con il Perionius che l’Assioco fu fonte di Cicerone? Ciò, come meglio vedremo, è molto probabile, ma non è una risposta sufficiente. Il primo libro delle Tusculanae, infatti, è assai più lungo e più ricco di materiale rispetto all’Assioco. Inoltre, anche nelle corrispondenze che abbiamo osservato si riscontrano delle differenze che impediscono di pensare ad una dipendenza meccanica tra le due fonti. Emblematici a questo proposito sono i casi del punto (4) e del punto (8).

77 Il nesso con il passo dell’Alcibiade I in Cicerone è molto meno marcato. Che, tuttavia, l’Arpinate avesse in mente proprio questo passo è reso plausibile dalla ripresa diretta che egli ne faceva già nel Somnium Scipionis (cf. il commento ad 365e5– 6).

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3. La questione delle fonti

Nel primo caso, infatti, Cicerone dipende chiaramente da una fonte stoica: egli si configura la sostanza dell’anima come una inflammata anima e riconduce esplicitamente questa dottrina a Panezio (ut potissimum video Panaetio78); al contrario lo pseudo-Platone, nella sezione corrispondente a quella ciceroniana, istituisce una somiglianza tra la sostanza dell’anima e l’etere celeste, idea che sembra piuttosto rimandare alla speculazione dell’Accademia antica.79 L’argomento è lo stesso (“il simile si ricongiunge con il simile”), ma Cicerone e lo pseudo-Platone sembrano riprenderne due versioni diverse. Nel secondo caso, invece, si può osservare che la vicenda di Cleobi e Bitone è molto più elaborata in Cicerone di quanto avvenga nello pseudo-Platone (oltretutto solo Cicerone fa il nome dei due ragazzi); lo stesso si può dire per la citazione del Cresfonte che in Cicerone è molto più lunga. Se ne deve concludere che, almeno per ciò che concerne queste sezioni, tra le due opere non c’è un rapporto diretto di dipendenza. 3.2. Una spiegazione alternativa è quella della derivazione da una fonte comune. Il candidato più plausibile è Crantore di Soli, autore di un perduto ma celeberrimo Περὶ πένθους.80 La debolezza di questa tesi emerge già dal fatto che nessuno dei frammenti sicuramente attribuibili a Crantore trova corrispondenza nell’Assioco.81 La principale ragione che ha fatto sospettare una dipendenza dello pseudo-Platone da Crantore è che materiale simile a quello che si trova nell’Assioco e nel primo libro delle Tusculanae si trova anche nella Consolatio ad Apollonium.82

78 L’integrazione probari si deve a Giusta (1984), 33. 79 Cf. anche il commento ad loc. Questa osservazione è sufficiente a mettere in crisi la tesi di una dipendenza dell’Assioco da un’opera perduta di Posidonio come invece aveva voluto il Meister (cf. supra p. 20 e n. 38). 80 Questa tesi è stata sostenuta soprattutto da Feddersen (1895), 21. Sul debito comune dell’autore dell’Assioco e di Cicerone nei confronti di Crantore cf. anche Barigazzi (1950), 22–29 (per la seconda parte del primo libro delle Tusculanae); Violante (1984), 314 e, più recentemente, Tulli (2005), 265–266. 81 D’altra parte la ricostruzione del Περὶ πένθους di Crantore è questione estremamente problematica e non sarebbe possibile trattarla estesamente in questa sede. Come meglio vedremo, ciò è dovuto alle stesse caratteristiche del genere letterario a cui il Περὶ πένθους è almeno in parte da ricondurre, quello delle consolazioni filosofiche. Sintomatica di questi problemi è la profonda diversità tra le edizioni dei frammenti di quest’opera: è sufficiente osservare le differenze che corrono tra la stringata edizione di Kayser (1841) e la farraginosa edizione di Mette (1984), differenze dovute appunto alla difficoltà che si riscontra nell’individuazione di criteri il più possibile obiettivi per la selezione dei frammenti di quest’opera. 82 Lo pseudo-Plutarco non menziona mai il titolo dell’opera di Crantore. Tuttavia, ci sono buone ragioni per pensare che si tratti proprio del celebre Περὶ πένθους (non a caso ciò non è mai stato messo in dubbio dai diversi editori dei frammenti

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Saggio introduttivo

Queste corrispondenze riguardano soprattutto la sezione di testo comprendente gli exempla da cui emergerebbe il giudizio degli dèi sulla vita umana. Diversamente dallo pseudo-Platone, infatti, Cicerone (Tusc. I 48, 115) e lo pseudo-Plutarco (Cons. Apoll. 109b-d) comprendono l’exemplum di Elisio ed Eutinoo. Cicerone, introducendo questo exemplum, dice esplicitamente: simile quiddam est in Consolatione Crantoris. Lo pseudo-Plutarco, invece, non fa il nome dell’autore da cui trae l’esempio (τὰ δὲ περὶ τὸν Ἰταλὸν Εὐθύνοον τοιαῦτά φασι γενέσθαι).83 Sia nelle Tusculanae sia nella Consolatio ad Apollonium l’episodio di Elisio ed Eutinoo è inserito in una ricca successione di exempla. In Cicerone si hanno nell’ordine: la vicenda erodotea di Cleobi e Bitone, la morte di Trofonio e Agamede, la massima silenica secondo cui non nascere sarebbe la cosa migliore per l’uomo, cinque versi del Cresfonte di Euripide, l’episodio di Elisio ed Eutinoo. Nella Consolatio ad Apollonium abbiamo la successione seguente: l’episodio di Cleobi e Bitone, la vicenda di Agamede e Trofonio (attribuita a Pindaro),84 un episodio sulla morte di Pindaro e, infine, la vicenda di Elisio ed Eutinoo. Alla luce di queste corrispondenze c’è chi ha concluso che tutta questa sezione di esempi si sarebbe trovata originariamente in Crantore e da quest’ultimo sarebbe passata a Cicerone e allo pseudo-Plutarco.85 Per “proprietà transitiva” ne consegue che anche lo pseudo-Platone, per gli exempla che si trovano anche in Cicerone e nello pseudo-Plutarco, discenderebbe da Crantore. Poste queste premesse diventa facile ricondurre tutte le somiglianze tra l’Assioco e Cicerone a questa fonte comune. Tuttavia, per quale ragione Cicerone avrebbe detto simile quiddam est in Consolatione Crantoris soltanto per l’ultimo exemplum? Se Crantore avesse incluso nel suo Περὶ πένθους anche gli altri exempla -e se così era Cicerone

di Crantore: il problema è dato semmai dalla determinazione dell’estensione dei frammenti: cf. la nota precedente). 83 Nel complesso, però, la versione dello pseudo-Plutarco è più dettagliata di quella di Cicerone. 84 Sull’attribuzione a Pindaro di questa vicenda cf. il commento ad 367c2–5. 85 Cf. e.g. Pohlenz (1909), 18 n. 1 e Pohlenz (1912), 124: «Für diese Geschichte von Elysios sagt C. selbst, daß sie bei Krantor stand. Das gilt auch für die übrigen». Dal canto suo Mullach (1860–1881), III 148 da un lato affermava che dalla testimonianza di Cicerone si può arguire che soltanto l’episodio di Elisio ed Eutinoo può essere riferito a Crantore, dall’altro, nella ricostruzione esemplificativa della struttura e del contenuto del Περὶ πένθους, dava spazio anche agli altri exempla (cf. Mullach (1860–1881), III 135–138).

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3. La questione delle fonti

avrebbe dovuto saperlo bene visto che ne aveva letto l’opera86- per quale ragione non renderne conto? Invece Cicerone è esplicito nel dire che l’episodio di Cleobi e Bitone viene da Erodoto (Herodoto auctore) e i versi del Cresfonte da Euripide (qua est sententia in Cresphonte usus Euripides). Tutto ciò fa pensare che solo l’episodio di Elisio ed Eutinoo, tra quelli menzionati, si trovasse in Crantore.87 In ogni caso, l’ipotesi che Crantore sia la fonte diretta comune di Cicerone, dello pseudo-Plutarco e dello pseudo-Platone non permette di rendere conto adeguatamente delle differenze che in questi tre autori sussistono nell’ordine, nel numero e nella forma degli esempi.88 3.3. Questo intrico di somiglianze e differenze tra l’Assioco e il primo libro delle Tusculanae (cui si può aggiungere la Consolatio ad Apollonium pseudo-plutarchea) si spiega meglio pensando ad una dinamica più complessa. Cicerone, aprendo l’intera sezione degli exempla in questione (Tusc. I 47, 113), afferma: num igitur etiam rhetorum epilogum desideramus? E alla richiesta dell’interlocutore (sed quinam est iste epilogus?) Cicerone spiega: deorum immortalium iudicia solent [scil. i retori] in scholis proferre de morte, nec vero ea fingere ipsi, sed Herodoto auctore aliisque pluribus. Per stessa ammissione di Cicerone, dunque, il materiale contenuto nell’epilogus è analogo a quello utilizzato dai retori nelle loro lezioni (scholae).89 Essi, dopo aver individuato un determinato argomento (nel caso specifico il giudizio degli dèi sulla morte), selezionano da autori del passato una serie di casi esemplari che permettono loro di illustrare il tema.

86 Cf. Cic. Acad. pr. 135, Legimus omnes Crantoris veteris Academici De luctu. Cicerone assunse Crantore come punto di riferimento nella composizione della Consolatio rivolta a se stesso per la morte della figlia: cf. Plin. NH. praef. 22 (= fr. 7 Müller = fr. 4 Vitelli). 87 Cf. Kayser (1841), 45–46; Kuiper (1901), 361; Kassel (1958), 78–79 e Hani (19721), 169 n. 1. Dal canto suo Mette (1984), 35 ritiene che a Crantore risalissero sicuramente l’exemplum di Elisio ed Eutinoo e la fabella Sileni (che reputa amplificata da Cicerone mediante la citazione da Euripide). Per ciò che concerne gli altri exempla comuni a Cicerone e allo pseudo-Plutarco conclude: «für die beiden restlichen Paradeigmata läßt sich weder Gewißheit noch Wahrscheinlichkeit erreichen». 88 Questa osservazione vale anche contro l’argomento in base al quale si danno casi in cui lo pseudo-Plutarco riprende con certezza Crantore senza citarlo esplicitamente (cf. e.g. fr. 3a Mette, con Mette (1984), 35). 89 Su questo punto cf. Douglas (1995), 199–203.

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Saggio introduttivo

Questo modo di procedere presuppone l’esistenza di repertori di esempi più o meno canonici trasmessi all’interno delle scuole di retorica.90 Grazie a strumenti del genere, infatti, l’euristica degli esempi doveva risultare più facile. Non doveva, però, trattarsi di modelli rigidi, bensì di una specie di canovaccio. Questo fatto rendeva possibile modificare i repertori a discrezione, allargandoli o riducendoli o mutando l’ordine degli exempla, a seconda degli interessi e del gusto di chi si trovava ad operare con essi. Una conferma di questa realtà si trova per l’età imperiale nel secondo trattato di Menandro Retore, nella parte appunto dedicata al λόγος παραμυθητικός.91 Il professore di retorica di età imperiale insegnava che nella composizione del λόγος παραμυθητικός occorreva fare ricorso ad esempi canonici come i celebri versi del Cresfonte di Euripide o l’episodio erodoteo di Cleobi e Bitone. È verosimile che questi due exempla siano citati solo come illustri specimina tra i molti possibili. In un certo senso, dunque, Menandro Retore fornisce un saggio di quei repertori che saranno stati utilizzati nelle scuole di retorica per la composizione di λόγοι παραμυθητικοί.92 A giudicare dal fatto che Cicerone sembra aver presente una precettistica analoga a questa, si può concludere che Menandro Retore altro non ha fatto che formalizzare in età imperiale una dottrina e una prassi in uso nelle scuole di retorica già perlomeno alla fine dell’età ellenistica.

90 Quando si parla di repertori non si intende necessariamente un supporto scritto: molti esempi avranno fatto parte della tradizione orale dell’insegnamento scolastico; ma è difficile pensare che tale tradizione non si appoggiasse anche sull’uso di antologie e gnomologi. Nel pensare alla trasmissione di questo materiale tradizionale non vanno neppure trascurati gli appunti presi a lezione dagli allievi. 91 Cf. Men. Rhet. II 413-414 (= p. 162 Russell-Wilson), ἐπὶ δεύτερον ἥξει μέρος τοῦ λόγου τὸ παραμυθητικόν, ἄρξεται δὲ οὕτω πωςˑ θαυμάζω δὲ εἰ μὴ ἐπελήλυθεν ὑμῖν, ὦ παρόντες γονεῖς, ἐννοεῖν, ἅ φησιν ἄριστος ποιητὴς Εὐριπίδης, ἄξιος ὡς ἀληθῶς Μουσῶν νομίζεσθαι τρόφιμοςˑ χρὴ γὰρ τὸν μὲν “φύντα θρηνεῖν εἰς ὅσ’ ἔρχεται κακά· / τὸν δ’ αὖ θανόντα καὶ πόνων πεπαυμένον / χαίροντας, εὐφημοῦντας ἐκπέμπειν δόμων”. οὐ θήσεις δὲ ἐξ ἅπαντος τὰ ἰαμβεῖα διὰ τὸ εἶναι αὐτὰ συνήθη τοῖς πολλοῖς καὶ γνώριμα, ἀλλὰ παρῳδήσεις μᾶλλονˑ καὶ ὅσα Ἡροδότῳ περὶ Κλεόβιδος καὶ Βίτωνος εἴρηται. καὶ φιλοσοφῆσαι δὲ ἐπὶ τούτοις οὐκ ἀπειρόκαλον καθόλου περὶ φύσεως ἀνθρωπίνης, ὅτι τὸ θεῖον κατέκρινε τῶν ἀνθρώπων τὸν θάνατον κτλ. 92 D’altra parte, l’indicazione per cui la citazione euripidea non deve essere fatta per esteso, ma solo attraverso un breve richiamo (οὐ θήσεις δὲ ἐξ ἅπαντος τὰ ἰαμβεῖα διὰ τὸ εἶναι αὐτὰ συνήθη τοῖς πολλοῖς καὶ γνώριμα, ἀλλὰ παρῳδήσεις μᾶλλον), mostra che chi opera con questi repertori di esempi canonici può modificare a propria discrezione anche la lunghezza dei singoli esempi. È come se lo pseudo-Platone avesse seguito alla lettera il precetto riportato da Menandro Retore: del passo del Cresfonte egli cita solo un verso (368a5).

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3. La questione delle fonti

A questa stessa tradizione avrà fatto riferimento anche l’autore della Consolatio ad Apollonium. Ciò sembra suggerito dal modo in cui la serie di esempi è introdotta dallo pseudo-Plutarco (108e): λέγεται δὲ τούτοις [scil. le testimonianze citate in precedenza sul fatto che la morte non è un male] μαρτυρεῖν καὶ τὸ θεῖον. πολλοὺς γὰρ παρειλήφαμεν δι’ εὐσέβειαν παρὰ θεῶν ταύτης τυχόντας τῆς δωρεᾶς. ὧν τοὺς μὲν ἄλλους φειδόμενος τῆς συμμετρίας τοῦ συγγράμματος παραλείψω, μνησθήσομαι δὲ τῶν ὄντων ἐμφανεστάτων καὶ πᾶσι διὰ στόματος. In nome della συμμετρία dello scritto, lo pseudoPlutarco dichiara di omettere alcuni esempi dando la preferenza a quelli noti a tutti.93 Si tratta di un’operazione di selezione che ben si adatta a chi opera su repertori tradizionali. Il repertorio a cui lo pseudo-Plutarco attingeva sarà stato simile, ma non identico, a quello cui attingeva Cicerone, al netto di innovazioni, ampliamenti e contrazioni prodotti dai due autori in persona. È degno di nota che la somiglianza non riguarda soltanto il contenuto del repertorio, ossia i singoli esempi tratti da diverse fonti, ma anche il “contenitore”, ossia il tema intorno al quale gli esempi sono raccolti: evidentemente i deorum immortalium iudicia … de morte di Cicerone e la μαρτυρία offerta da τὸ θεῖον sui κακὰ τὰ μέγιστα di cui parla lo pseudo-Plutarco presuppongono il medesimo sistema di classificazione degli esempi. È interessante notare che a sua volta lo pseudo-Platone, introducendo gli exempla, ricorre ad una formulazione che sembra presupporre un “contenitore” analogo a quello utilizzato da Cicerone e dallo pseudo-Plutarco (367b7-c2, διὰ τοῦτο καὶ οἱ θεοὶ τῶν ἀνθρωπείων ἐπιστήμονες, οὓς ἂν περὶ πλείστου ποιῶνται θᾶττον ἀπαλλάττουσι τοῦ ζῆν). 3.4. Che si abbia a che fare con repertori convenzionali utilizzati all’interno della tradizione scolastica è suggerito anche da altri indizi. Clemente Alessandrino (Strom. III 3, 15-16) riferendosi a quei φιλόσοφοι pagani che vedevano nella vita terrena un male adduce una serie di esempi, tra cui la massima teognidea sul non nascere come cosa preferibile per l’uomo, i versi del Cresfonte di Euripide e il caso di Cleobi e Bitone (non esplicitamente ma in forma allusiva: ταὐτὸν δὴ τούτοις φαίνεται καὶ Ἡρόδοτος ποιῶν λέγοντα τὸν Σόλωνα). A sua volta Sesto Empirico (P. III 230-231), prenden-

93 Cf. anche [Plut.] Cons. Apoll. 119d (ed. Hani2), πλὴν πολλῶν ὄντων παραδειγμάτων {τῶν} διὰ τῆς ἱστορίας ἡμῖν παραδεδομένων τῆς τε Ἑλληνικῆς καὶ τῆς Ῥωμαικῆς τῶν γενναίως καὶ καλῶς ἐν ταῖς τῶν ἀναγκαίων τελευταῖς διαγενομένων ἀποχρήσει τὰ εἰρημένα πρὸς τὴν ἀπόθεσιν τοῦ πάντων ἀνιαροτάτου πένθους καὶ τῆς ἐν τούτῳ πρὸς οὐδὲν χρήσιμον ματαιοπονίας (cf. inoltre Hani (19721), 50). Sull’attenzione da parte dello pseudo-Plutarco per questi aspetti compositivi cf. Audano (2014a), 21 e 24.

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Saggio introduttivo

do in esame il caso di coloro che ritengono sia meglio morire che vivere (βέλτιον εἶναι τὸ ἀποθανεῖν τοῦ ζῆν ἡμᾶς ὑπολαμβάνουσιν), ricorda tra gli altri esempi i versi del Cresfonte, la massima teognidea e la vicenda erodotea di Cleobi e Bitone (anche in questo caso solo accennata: ἅ φησιν ὁ Ἡρόδοτος ἐν τῷ περὶ τῆς Ἀργείας ἱερείας λόγῳ). Infine, lo Stobeo nella sezione dedicata all’ἔπαινος θανάτου (IV 52b), tra gli altri passi, cita la massima teognidea, i versi del Cresfonte, un passo tratto dal perduto Ὅτι καὶ γυναῖκα παιδευτέον di Plutarco (fr. 133 Sandbach), a sua volta contenente un riferimento alla vicenda di Agamede e Trofonio (con un’elegia sugli stessi) e un’allusione alla vicenda erodotea di Cleobi e Bitone (τὸ αὐτὸ καὶ Ἡρόδοτος ἐν τῷ πρώτῳ λόγῳ τῆς ἱστορίας).94 Le corrispondenze, dunque, non si limitano ai tre testi dello pseudo-Platone, di Cicerone e dello pseudo-Plutarco, ma coinvolgono altri autori. Le somiglianze sembrano dovute alla condivisione di una sorta di griglia o canovaccio di esempi che, però, è di volta in volta modificato. Questo fenomeno non si adatta alla dipendenza da un modello comune come potrebbe essere il Περὶ πένθους di Crantore, ma rimanda assai meglio ad una tradizione scolastica dove sono trasmessi repertori convenzionali di esempi.95 Ciò naturalmente non significa che tra l’opera di Crantore e questa tradizione non ci siano relazioni, ma significa che, più verosimilmente, il Περὶ πένθους di Crantore, le cui caratteristiche originarie ci sfuggono, sarà stato a sua volta utilizzato dalla tradizione scolastica c o m e f o n t e d a c u i t r a r r e m a t e r i a l e u t i l e p e r i r e p e r t o r i c o n s o l a t o r i. Ciò sembra confermato dal fatto che l’exemplum di Elisio ed Eutinoo è stato inserito da Cicerone e dallo pseudo-Plutarco, indipendentemente l’uno dall’altro, all’interno di una serie di esempi tradizionali. Se ne conclude che le somiglianze contenutistiche che si osservano tra lo pseudo-Platone e Cicerone (oltre che con altre fonti) non vanno spiegate immaginando la dipendenza da una fonte comune, ma pensando all’influenza di repertori impiegati in una medesima tradizione scolastica.

94 A rigore, dunque, la testimonianza dello Stobeo vale per l’opera perduta di Plutarco e per lo Stobeo stesso. 95 Alcune di queste corrispondenze sono state notate da Avezzù (1982), 68–69, il quale ha ipotizzato che Cicerone si servisse «di una raccolta di sentenze in lode della morte, simile a quella costituita da Stob. IV, 52». Cf. inoltre Philippson (1917), 379: «Nach meiner Meinung sind die gemeinsame, mittelbare oder unmittelbare Quelle für alle diese Trostschriften und so auch für den Axiochos Anthologien, wie sie uns vornemlich in der des Stobäus erhalten sind, bei dem sich denn auch das meiste wiederfindet was jene bieten». Cf. anche Philippson (1939), 1143–1146 e la citazione di Hani riportata infra p. 39 n. 97.

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3. La questione delle fonti

3.5. Il fatto che un autore attinga ad una tradizione come quella consolatoria che si alimenta di repertori di argomenti convenzionali complica fortemente la tradizionale operazione di ricerca delle fonti. Non è un caso che negli studi sull’Assioco questo tipo di ricerca fino ad ora non abbia portato a risultati unanimemente condivisi. È evidente, infatti, che la stessa “fluidità” del canale dei repertori utilizzati nell’ambito delle scuole espone il materiale in esso contenuto ad un continuo processo di modificazione: aggiunte, tagli, conflazioni e alterazioni di vario genere.96 Lo stesso fatto che un autore faccia ricorso a dei repertori, inoltre, non implica necessariamente che egli non abbia accesso e non impieghi direttamente alcune delle opere da cui è stato tratto materiale per questi repertori. Si può pensare che un autore, nelle fasi preliminari della composizione della propria opera, si crei il proprio repertorio: raccoglie da diverse fonti (inclusi repertori preesistenti che facilitavano l’euristica del materiale) un insieme di argomenti; quindi distribuisce gli argomenti raccolti in nuclei concettuali secondo il piano dell’opera immaginato. Questa operazione combinatoria di materiali preesistenti è espressamente tematizzata, ad esempio, nella Consolatio ad Apollonium: 121e, ταῦτά σοι συναγαγών, Ἀπολλώνιε φίλτατε, καὶ συνθεὶς μετὰ πολλῆς ἐπιμελείας ἀπειργασάμην τὸν παραμυθητικόν σοι λόγον.97

96 Le stesse opere letterarie e filosofiche che, come l’Assioco, utilizzano il materiale tradizionale di questi repertori, fanno a loro modo parte di questo processo: esse sono fonti di nuove modifiche sul materiale tradizionale e allo stesso tempo lo allargano alla luce di letture e ricerche personali. A loro volta poi queste opere possono in parte confluire nel canale dei repertori contribuendo ulteriormente alla sua fluidità: ciò, come si è visto, è verosimilmente accaduto al Περὶ πένθους di Crantore; ma è accaduto anche all’Assioco nel momento in cui ampi estratti di questo dialogo sono passati nello Stobeo o nelle sue fonti. 97 L’uso dei verbi συνάγειν e συντιθέναι è la spia di un modus operandi nella composizione dell’opera analogo a quello che abbiamo appena descritto. Opportunamente a proposito di queste parole Hani (19721), 195 n. 1 notava: «le premier mot [scil. συναγαγών] désigne le rassemblement des idées et des citations, et certainement, comme on l’a vu, à partir de Gnomologia … le second [scil. συνθείς] vise la composition, l’organisation de la lettre». Cf. anche Plut. Tranqu. an. 464f-465a, ἀνελεξάμην περὶ εὐθυμίας ἐκ τῶν ὑπομνημάτων ὧν ἐμαυτῷ πεποιημένος ἐτύγχανον, Cohib. 457d-e, διὸ καὶ συνάγειν ἀεὶ πειρῶμαι καὶ ἀναγιγνώσκειν οὐ ταῦτα δὴ μόνα τὰ τῶν φιλοσόφων, οὕς φασι χολὴν οὐκ ἔχειν οἱ νοῦν ἔχοντες, ἀλλὰ μᾶλλον τὰ τῶν βασιλέων καὶ τυράννων. Va peraltro osservato che questo modus operandi si adatta particolarmente bene alla composizione delle consolationes: cf. Cic. Tusc. III 31, 76, sunt etiam qui haec omnia genera consolandi colligant – alius enim alio modo movetur-, ut fere nos in Consolatione omnia in consolationem unam coniecimus.

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Saggio introduttivo

È lecito aspettarsi che anche lo pseudo-Platone abbia proceduto alla composizione della propria opera in questo modo.98 Oltretutto, questo particolare modus operandi si adatta particolarmente bene ai presupposti filosofici dell’ambiente in cui l’Assioco verosimilmente è stato composto. Se, come pare, l’Assioco è da collocare nell’Accademia scettica, il fatto che la composizione materiale dell’opera sia passata per la creazione di un vero e proprio repertorio di argomenti di varia natura e provenienza è motivato anche dall’esigenza di non affermare una dottrina definita, ma di esaminare la validità di posizioni preesistenti in relazione ad un determinato problema.99 3.6. In definitiva, alla luce di tutti questi problemi, per quanto riguarda la questione delle fonti dell’Assioco, difficilmente si può andare molto oltre queste linee di massima: 1) Gli argomenti esposti da Socrate in 365b1–8, con il richiamo alla serena e virile accettazione della necessità della φύσις, risentono genericamente della morale “naturalistica” delle scuole filosofiche ellenistiche.100

98 Cf. Dorandi (2007), 65: «Un autore leggeva le proprie fonti, prendeva appunti, preparava raccolte di materiale; cominciava poi la redazione del suo testo; spesso dettava i propri pensieri o, meno di frequente, li scriveva di propria mano. Elaborava un brogliaccio, una prima stesura di un’opera che poteva presentarsi sotto forme diverse: canovacci o schizzi (παρασκευαί, ὑποτυπώσεις), note o promemoria (ὑπομνήματα). Conviene notare, fin d’ora, che tali redazioni potevano rappresentare agli occhi del loro autore una stesura già definitiva della propria opera, riservata tuttavia a una diffusione limitata a uno o pochi amici o discepoli che gliela avevano richiesta, e non destinata a una vera e propria circolazione in pubblico (οὐ πρὸς ἔκδοσιν σύγγραμμα)». 99 Cf. già Usener (1887), lvi-lvii: «Non mirabimur in locis ex Academia petitis [il riferimento è ai passi delle opere di Cicerone che dipendono da fonti accademiche] eruditionem. Dic enim quo tibi modo Academicorum, in primis Carneadis scholas celeberrimas fingas haberi solitas? Qui cum sciri non posse docerent, unus disserendi modus maxime necessarius erat, ut quem cumque locum tractarent, celeberrimi cuiusque philosophi sententias falsas esse evincerent. Facere hoc non poterant nisi quodam sententiarum ex dogmaticorum libris selectarum apparatu instructi». 100 Cf. Lévy (1997), 7: «Certes, il n’y a rien de commun entre la nature parfaitement rationelle des Stoïciens, celle atéléologique, des Epicuriens, ou encore celle de Pyrrhon, faite d’un équilibre d’apparences contradictoires, mais ces trois systèmes considèrent la phusis comme la norme de toute vie philosophique, alors que pour les Néoacadémiciens, et en tout cas pour Carnéade, elle est aussi -et peut-être principalement- source d’irrationelité et de violence. Ces doctrines évidemment excluent donc toute forme de transcendance. Elles ont également ceci de commun qu’elles envisagent comme possible la réalisation d’un boheur absolu».

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3. La questione delle fonti

2) L’argomento ripetuto dell’insensibilità (365d1-e2 e 369e3–370b1), pur non essendo di matrice esclusivamente epicurea,101 dopo la diffusione dell’insegnamento di Epicuro non poteva non essere sentito come collegato alla dottrina epicurea.102 3) L’argomento per cui la morte non è un vero problema per l’essere vivente (369b5–369c7) è chiaramente tratto, direttamente o indirettamente, dall’Epistola a Meneceo. 4) I due argomenti dell’immortalità dell’anima (365e2–366b1 e 370b1-d6) potrebbero essere stati influenzati da scritti dell’Accademia antica.103 5) L’ἐπίδειξις di Prodico è composta da materiale tratto da più fonti (366d1–368d4): repertori consolatori e scritti moralistici accostabili alla cosiddetta “diatriba cinico-stoica”;104 a questo proposito particolarmente significative sono le somiglianze con Telete (fr. V Hense = fr. V Fuentes González) per ciò che riguarda la sezione sulle età della vita (366d1– 367b7).105 101 Cf. le osservazioni di Carlini (1970), 49–56. 102 Per Männlein-Robert (2012), 67–68 n. 31 «Denkbar wäre, dass der Verfasser des Axiochos hier auf einen zeitgenössischen, interschulischen Diskurs über die Wahrnehmung anspielt». Tuttavia, con la diffusione dell’Epistola a Meneceo per qualsiasi lettore l’argomento dell’insensibilità sarà stato naturaliter collegato al nome di Epicuro. 103 Cf. soprattutto Alfonsi (1950) e il commento ad locc. La possibilità che lo pseudo-Platone abbia ripreso dottrine riconducibili all’Accademia antica (ad esempio del primo Aristotele, ma anche di Senocrate), non significa naturalmente che, come pensava Immisch (cf. supra p. 19), il dialogo sia stato composto nell’Accademia antica. Basta pensare alla forte presenza del primo Aristotele nello stesso Cicerone (e in particolare proprio nel primo libro delle Tusculanae). Le dottrine elaborate nell’Accademia antica continuarono a circolare nei secoli successivi, tramite la lettura diretta delle opere degli Accademici o tramite la mediazione di manuali dossografici (cf. e.g. Giusta (1964–1967), I 346–351). Senza contare che, se, come pare probabile, l’Assioco è stato composto sì nell’Accademia, ma in una fase successiva a quella dell’Accademia antica (cf. supra pp. 26-30 e infra pp. 75 e 84-86), scritti composti durante quella prima fase dell’istituzione saranno comunque stati conservati e meditati, pur nella diversità delle impostazioni. 104 Su questo “genere” della letteratura filosofica ellenistica dai confini assai difficili da definire cf. il punto di Fuentes González (1998), 44–78. Caratteristiche frequenti di questi scritti sono la critica dei costumi e delle credenze diffuse attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana, lo stile vivace, colloquiale, provocatorio. 105 Per questa ragione Dümmler (1889), 169 arrivava a parlare a proposito dell’Assioco di “kynischer Dialoge” (un tentativo sistematico, ma non convincente, di ricondurre l’Assioco all’influenza del cinismo è stato compiuto da Joël (1901), 154–206). Telete sembra riportare una critica all’edonismo risalente a Cratete di Tebe (SSR V H 45, con Giannantoni (1990), 567–569), il quale potrebbe essere

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Saggio introduttivo

6) Il mito di Gobria (371a1–372a3) è fortemente influenzato dai miti platonici dell’Aldilà, in particolare da quello del Gorgia. 7) I riferimenti alla realtà ateniese della fine del V secolo e le notizie sull’Assioco storico dipendono verosimilmente da una fonte molto ben documentata su questi fatti.

4. L’incompiutezza dell’opera 4.1. Leggendo attentamente l’Assioco è possibile isolare con una certa facilità le seguenti sezioni tematiche: 1) Da 364a1 a 364c8 abbiamo il prologo con l’incontro tra Socrate e Clinia lungo le rive dell’Ilisso, incontro da cui la vicenda prende le mosse. 2) Da 364d1 a 365c7 abbiamo il cambio di scena dalle rive dell’Ilisso alla casa di Assioco e la prima interlocuzione tra Socrate e Assioco. 3) Da 365d1 a 365e2 Socrate, a partire dal presupposto della morte come perdita di ogni sensibilità, mostra ad Assioco che la paura della morte è irragionevole. 4) Da 365e2 a 366b1 Socrate argomenta che la morte non deve essere temuta, ma desiderata, in quanto l’anima è immortale e la morte è una liberazione dai mali del corpo. 5) Da 366b2 a 366c5 Assioco reagisce all’argomento dell’immortalità chiedendo provocatoriamente a Socrate perché, se è convinto di ciò,

la fonte comune di Telete e dell’autore dell’Assioco (così e.g. O’Sullivan (2009), 88 e n. 105). Ma si è anche pensato che il testo di Cratete sia pervenuto a Telete mediante Bione di Boristene (cf. Hense (19092), 49), ipotesi interessante in quanto elementi bionei possono essere individuati anche in altre sezioni di questa ἐπίδειξις dell’Assioco (cf. il commento a 367b2–6 e a 368b6–7). Dal canto suo, Bignone (1939), 128–130 aveva pensato ad una dipendenza di Cratete e dell’autore dell’Assioco dal Protrettico di Aristotele. Prudentemente Fuentes González (1998), 455 sottolinea che non è scontato che tutto il testo del frammento contenga una ripresa di Cratete: Telete può avere sviluppato suo Marte uno spunto crateteo. Per quanto riguarda i rapporti tra Telete e l’Assioco Fuentes González (1998), 455 arriva alla conclusione per cui «les coïncidences entre notre texte et l’Axiochos peuvent simplement obéir en partie au fait que l’un et l’autre décrivent le même cursus de formation et de services, en partie à l’emploi de lieux communs». Le somiglianze tra i due testi sono tali che forse questa conclusione è riduttiva. Tuttavia, anche in questo caso la verosimile circolazione di questi argomenti in repertori di argomenti convenzionali rende pressoché impossibile una ricostruzione plausibile dei rapporti tra questi due testi (cosa che, peraltro, permette di spiegare anche la proliferazione di ipotesi tra loro contrastanti).

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4. L’incompiutezza dell’opera

non si toglie la vita. Socrate replica chiarendo che egli non conosce nulla, ma che tutto ciò che ha detto lo ha ascoltato da Prodico. 6) Da 366c5 a 367b7 Socrate introduce un nuovo argomento tratto proprio da una ἐπίδειξις di Prodico, che si apre con una deploratio vitae strutturata secondo le diverse età dell’uomo. 7) Da 367b7 a 368a7 alla sezione della ἐπίδειξις sulle età dell’uomo segue una sezione sui giudizi degli dèi e i giudizi dei poeti sulla vita umana, la sezione che più apertamente è debitrice nei confronti della tradizione consolatoria.106 8) Da 368a7 a 369b5 l’ἐπίδειξις continua con una sezione in cui sono criticate more catalogico diverse attività umane; il culmine della sezione è rappresentato da una tirata contro l’attività politica. 9) Da 369b5 a 370b1 Socrate, ricorrendo ancora una volta alla maschera di Prodico, introduce nuovamente un argomento che parte dal presupposto che la morte comporta la perdita completa della sensibilità. 10) Da 370b1 a 370e4 Socrate sviluppa un nuovo argomento secondo cui la morte non deve essere temuta perché l’anima è immortale; nel far questo Socrate introduce anche un argomento dell’immortalità dell’anima (a partire dall’osservazione delle attività intellettuali e pratiche dell’uomo, che non si spiegherebbero se non in quanto l’uomo è animato da un afflato divino). 11) Da 371a1 a 372a3 Socrate sviluppa il mito di Gobria. 12) Da 372a3 a 372a16 si ha l’epilogo del dialogo. È abbastanza impressionante la facilità con cui è ancora possibile individuare i diversi nuclei tematico-argomentativi da cui il dialogo è composto. A questo fatto bisogna aggiungere un fenomeno curioso: a volte la transizione da una sezione all’altra è problematica dal punto di vista stilistico e testuale. Ciò è particolarmente evidente nella transizione dalla sezione (8) alla sezione (9) e dalla sezione (9) alla sezione (10). Non a caso per entrambi questi passi è stato avanzato il sospetto di guasti testuali. 4.2. Per quanto riguarda la transizione da (8) a (9), già Karl Buresch aveva rilevato che il passaggio di 369b4–5 da τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; a ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ. è decisamente abrupto.107 Per questa ragione egli postulava una lacuna dopo οὐ φευκτάς. Feddersen replicò a questa posizione, cercando di giustificare lo scarto. Secondo Feddersen, se tutte le attività umane non sono beni rea-

106 Cf. supra pp. 33-39. 107 Cf. Buresch (1886), 13: «Quis umquam ad rem diversissimam tam praeruptum transitum ferre sustinuit, a regendae rei publicae arte ad mortem?».

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Saggio introduttivo

li, come ha appena sostenuto Socrate sulla scorta di Prodico, ed anzi sono piuttosto causa di sofferenze, è logico concludere che la morte non è un male in quanto ci libera dai mali della vita. Dunque, il nesso con la massima attribuita a Prodico subito dopo sarebbe rappresentato dall’idea per cui la morte non è un male: da un lato la morte non è un male perché libera dai mali, dall’altro la morte non è un male perché non può essere percepita.108 Questa interpretazione ha ricevuto il plauso di Hershbell il quale ritiene che Feddersen abbia confutato una volta per tutte l’ipotesi di una lacuna in questo punto.109 A ben vedere, però, lo sforzo esegetico di Feddersen è vanificato dal fatto che egli stesso si vede costretto ad inserire un passaggio che nel testo non è espresso, ossia la conclusione secondo cui la morte libera dai mali della vita («denn er befreit uns ja von ihnen»). Il problema non è stato ignorato da Wilamowitz, il quale, però, se ne liberava con la comoda spiegazione dell’incompetenza dello pseudo-Platone («armseliger Scribent»).110 Per quanto riguarda la seconda transizione, da (9) a (10), già Karl Friedrich Hermann aveva trovato problematico l’improvviso passaggio all’argomento dell’immortalità dell’anima e per questo era arrivato a sospettare un turbamento dell’ordine originale degli argomenti del dialogo.111 Tuttavia, alla fine metteva a tacere i suoi sospetti con la spiegazione che anche altrove nel dialogo erano presenti delle stranezze del genere. Meno ottimisticamente Buresch concludeva che il passo era affetto da una lacuna prima di πρὸς τῷ in quanto: 1) la frase segna un passaggio abrupto tra due argomenti fondati su presupposti tra loro opposti (il primo presuppone la mortalità, il secondo l’immortalità dell’anima); 2) è del tutto inverosimile che Assioco, il quale critica il fatto di non essere stato in alcun modo consolato fino a 369d1-e2, cambi radicalmente opinione «paucis versibus» (370d7e4).112

108 Cf. Feddersen (1895), 10: «Wenn nun also alle Künste und Beschäftigungen verabscheuungswürdig sind, so kann der Tod überhaupt kein Übel sein, denn er befreit uns ja von ihnen. Es ist aber der Tod auch an und für sich betrachtet nicht einmal ein Übel, wenn anders Prodikus mit seinem Ausspruch, dass der Tod weder die Lebenden noch die Toten berühre, Recht hat». 109 Cf. Hershbell (1981), 63 n. 51. 110 Cf. Wilamowitz (1895), 979: «Sein Sokrates [scil. dello pseudo-Platone] gibt weiter von sich aus eine Kritik der Lebensrufe, insbesondere der Politik; dann soll es wieder philosophische deduktion geben». 111 Cf. Hermann (1839), 583: «Fast wäre man versucht, eine Versetzung des Ganzen anzunehmen». 112 Cf. Buresch (1886), 14.

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4. L’incompiutezza dell’opera

A questi argomenti cercò di replicare Feddersen: 1) il passaggio da un argomento all’altro non è intollerabile («vielmehr ist die ganze Stelle des Verfassers des Axiochos durchaus würdig»): Socrate, infatti, dopo aver dimostrato ad Assioco che non c’è nulla da temere dalla morte se si parte dal presupposto che dopo la morte non rimane alcuna sensibilità, continua ad argomentare mostrando che si perviene alla medesima conclusione anche partendo dal presupposto opposto, quello dell’immortalità dell’anima; 2) non sembra che lo pseudo-Platone si sia particolarmente curato di evitare ripetizioni e contraddizioni (a questo proposito Feddersen ricorda il passaggio non meno abrupto di 365e2 da σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ περὶ ὃν ἔσται a πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι, anch’esso un passaggio dal presupposto dell’insensibilità a quello dell’immortalità); 3) in fondo non è così breve la distanza che separa il punto in cui Assioco dice di non aver trovato affatto consolazione negli argomenti di Socrate e il punto dell’avvenuta consolazione; inoltre, è lo stesso Assioco a dire che i due discorsi che fanno presa su di lui sono il λόγος οὐράνιος e il mito (372a11–12, οὕτω με οὗτος ὁ λόγος, ὡς καὶ ὁ οὐράνιος, πέπεικεν).113 Tutti questi argomenti rivelano la loro fragilità nel momento in cui lo stesso Feddersen riconosce di ammettere per lo pseudo-Platone una serie di incoerenze che non concederebbe a nessun altro autore.114 Inoltre, Feddersen, anche senza postulare una lacuna, per farsi tornare i conti si vedeva costretto a forzare il senso della frase. Secondo Feddersen, infatti, essa implicitamente significherebbe: «Dazu kommt, dass es noch keineswegs sicher ist, ob die Empfindungslosigkeit (ἀναισθησία) wirklich eintritt».115 È interessante notare che persino Wilamowitz, che pure non era molto generoso nel giudicare le doti dello pseudo-Platone, tuttavia accettava l’idea di una lacuna prima di πρὸς τῷ κτλ.116 4.3. Occorre, dunque, postulare due lacune? Una prima lacuna nel passaggio dalla sezione (8) alla sezione (9) e una seconda nel passaggio dalla sezione (9) alla sezione (10)? Anziché ricorrere a questa soluzione, sembra preferibile adottare un’altra spiegazione di questi fenomeni, spiegazione,

113 Cf. Feddersen (1895), 8–10. 114 Cf. Feddersen (1895): «Was bei jedem andern Schriftsteller sicherlich auffallend wäre, ist es bei dem Verfasser des Axiochos nicht». Non sembra del tutto ingiustificata l’ironica sufficienza con cui Immisch (1896), 39–40 reagiva alla posizione di Feddersen: «Wer das auch nur mit einer Schwäche des Verfassers verteidigt, mit dem ist nicht zu streiten». 115 Feddersen (1895), 8–9. 116 Cf. Wilamowitz (1895), 980. Per gli altri problemi posti da questa frase cf. il commento ad loc.

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Saggio introduttivo

che, come vedremo meglio in seguito, già Otto Immisch aveva intravisto, ma che in seguito è stata del tutto dimenticata: l ’ A s s i o c o è u n ’ o p e r a i n c o m p i u t a. Sia il fenomeno della facile riconoscibilità dei diversi nuclei argomentativo-concettuali, sia quello del carattere abrupto del passaggio da un nucleo all’altro si può facilmente spiegare in questo modo: lo pseudo-Platone ha distribuito il materiale da lui raccolto in diversi nuclei argomentativoconcettuali che, in seguito, ha rifinito s e p a r a t a m e n t e p r i m a d i a s s e m b l a r l i i n u n t u t t o o r g a n i c o; in questo tipo di operazione è evidente che i punti più vulnerabili finiscono per essere le fasi di transizione da una sezione all’altra, cioè le parti dell’opera su cui l’autore sarebbe dovuto intervenire nella fase definitiva della composizione, quando le singole sezioni sarebbero state connesse secondo il piano complessivo che l’autore andava formando nella sua mente. A ben vedere l’ipotesi dell’incompiutezza dell’opera permette di rendere ragione di tutta una serie di fenomeni di cui i problemi che concernono la transizione dalla sezione (8) alla sezione (9) e quella dalla sezione (9) alla sezione (10) rappresentano soltanto due casi, forse neppure i più eclatanti: a) Le sezioni (6), (7) e (8) dovrebbero rappresentare l’ἐπίδειξις di Prodico; tuttavia, se è ben chiaro dove questa ἐπίδειξις inizia (366d1), non è altrettanto chiaro dove l’ἐπίδειξις finisce; è evidente, infatti, che a partire da 368d4–5 Socrate non sta più riferendo l’ἐπίδειξις di Prodico,117 tuttavia, ci si sarebbe aspettati un riferimento esplicito alla chiusura della ἐπίδειξις;118 allo stesso tempo le tre parti di cui l’ἐπίδειξις è composta sono giustapposte tra loro in modo piuttosto meccanico;119 anche in questo caso ci si sarebbe aspettati delle transizioni più armoniche da una sezione dell’ἐπίδειξις ad un’altra; e ci si sarebbe aspettati qualche richiamo a Prodico nel corso della lunga battuta di Socrate. b) Le sezioni (3) e (9) contengono due battute in cui Socrate “confuta” la paura della morte partendo dal presupposto che dopo la morte non rimane alcuna sensibilità; il problema non è tanto il fatto che Socrate ri-

117 Cf. anche il commento ad loc. 118 Ci si sarebbe aspettati, cioè, qualcosa di analogo a ciò che troviamo alla fine dell’esposizione del mito di Gobria da parte di Socrate (372a3–4): ταῦτα μὲν ἐγὼ ἤκουσα παρὰ Γωβρύου. 119 Il nesso tra la sezione (6) e la sezione (7) è rappresentato da un algido διὰ τοῦτο, mentre quello tra le sezioni (7) e (8) è inesistente: la transizione si appoggia interamente sulla formula di chiusura della sezione riservata alle citazioni poetiche (ἀλλὰ παύομαι, μή ποτε παρὰ τὴν ὑπόσχεσιν μηκύνω καὶ ἑτέρων μιμνησκόμενος).

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4. L’incompiutezza dell’opera

corre due volte allo stesso argomento,120 ma che in entrambi i casi la battuta inizia esattamente con le stesse parole (365d1–2, Συνάπτεις γὰρ, ὦ Ἀξίοχε, παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν {ἀνεπιλογίστως} vs. 369e3, Συνάπτεις γὰρ, ὦ Ἀξίοχε, ἀνεπιλογίστως).121 c) Decisamente sgraziata e dall’aspetto posticcio è la frase con sui si apre la sezione (10): πρὸς τῷ πολλοὺς καὶ καλοὺς εἶναι λόγους περὶ τῆς ἀθανασίας τῆς ψυχῆς.122 d) Il dialogo si apre in forma narrativa per poi passare alla forma drammatica (364c3); quindi torna alla forma narrativa (365a1) per poi passare nuovamente alla forma drammatica (365c1) che è mantenuta ininterrottamente fino alla fine dell’opera.123 Nei confronti di alcune di queste anomalie vale quanto è stato osservato a proposito delle fasi di transizione da (8) a (9) e da (9) a (10). A tutta prima, infatti, si potrebbero postulare dei guasti testuali, ad esempio delle lacune tra le sezioni (6) e (7), (7) e (8); tuttavia sarebbe una coincidenza per lo meno curiosa che la tradizione fosse affetta i n m o d o p r e s s o c h é s i s t e matico da una serie di lacune proprio nei tratti di giuntura tra diversi nuclei tematico-argomentativi del dialog o. La spiegazione dei guasti testuali, pertanto, non è soddisfacente. In alternativa ci si potrebbe rivolgere alla comoda spiegazione dell’“armseliger Scribent”: i problemi segnalati sono dovuti all’incompetenza dell’autore. Purtroppo, però, questa spiegazione si trova in contraddizione con il fatto

120 Su questo punto cf. meglio infra pp. 64-66 e n. 155. 121 Nel primo caso è forse possibile individuare nel testo un tentativo da parte dell’autore di differenziare meglio le due battute, segno di una revisione incompiuta: cf. il commento ad loc. 122 Cf. il commento ad loc. 123 Si può pensare che l’autore avesse effettivamente in mente di costruire un prologo narrativo di un dialogo complessivamente drammatico, cioè di alternare le due forme canoniche del dialogo (cf. supra pp. 26-27 e n. 67). Tuttavia, è curioso che la sezione proemiale si apra in forma narrativa e si chiuda in forma drammatica e che la seconda sezione del dialogo a sua volta si apra in forma narrativa e si chiuda in forma drammatica e che il resto del dialogo sia in forma drammatica. Si può pensare che l’autore inizialmente abbia lavorato sul prologo e abbia deciso che la forma narrativa dovesse concludersi a 364c3 e che il dialogo dovesse continuare in forma drammatica. In seguito, lavorando sulla seconda sezione, l’autore avrebbe cambiato i suoi piani e avrebbe deciso che la forma drammatica sarebbe iniziata soltanto nella seconda sezione a 365c1. Tuttavia, l’autore non è più potuto tornare sulla sezione proemiale per apportare le modifiche conseguenti a questo cambiamento di decisione. Così quando tutte le sezioni sono state messe insieme è rimasto un doppio passaggio dalla forma narrativa a quella drammatica.

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Saggio introduttivo

che in altri punti dell’opera lo pseudo-Platone mostra una certa perizia letteraria: basta pensare alla costruzione della sezione proemiale (1).124 L’impressione, dunque, non è tanto quella di un’incompetenza di fondo dello pseudo-Platone, quanto quella di un impegno distribuito in modo diseguale sulle diverse parti dell’opera, fatto che inevitabilmente si verifica se un’opera rimane incompiuta. È lecito aspettarsi che, se lo pseudo-Platone avesse portato a termine il suo lavoro, molti dei problemi che abbiamo segnalato in questo capitolo sarebbero stati risolti.

5. Il disordine testuale 5.1. Nel passare dalla sezione (3) alla sezione (4) Socrate, dopo aver sviluppato un ragionamento che presuppone l’idea che la morte esclude ogni forma di sopravvivenza, si lancia in un argomento consolatorio fondato sulla tesi dell’immortalità dell’anima. La transizione da una sezione all’altra avviene attraverso l’espressione πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι. A cosa si riferisce esattamente Socrate dicendo τὸν τοιόνδε φλύαρον?125 Poco prima Socrate ha argomentato che, se si parte dal presupposto che la morte comporta la perdita di ogni sensibilità, la paura della morte è assurda. Alla luce di questo fatto viene da pensare che il φλύαρος, la “sciocchezza” additata da Socrate, sia appunto la paura della morte. Ciò, tuttavia, è in contraddizione con il contenuto della sezione (4). Infatti, nella sezione (3) Socrate ha mostrato che Assioco si contraddice in quanto pensa che la morte comporti la perdita di ogni sensibilità e, allo stesso tempo, teme la morte come un male. Dunque, se il φλύαρος consiste nella paura della morte che il ragionamento di Socrate ha rivelato essere il frutto di una contraddizione concettuale, ciò che ci si aspetta è che Socrate, dopo le parole πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι, ribadisca che l’insensatezza della paura di Assioco d e r i v a p r o p r i o d a l l a p r e m e s 124 Cf. il commento a questa sezione del dialogo. Una variante della spiegazione dell’“armseliger Scribent” si trova in O’Keefe (2006), 404: «I admit, then, that the dialogue is flawed in its construction. The impression created by these passages is that the Axiochus is a fairly crude cut-and-paste job, of the sort sometimes turned in by plagiarists who are too unskilled to smooth out the discrepancies between what’s being copied». Ma subito dopo lo stesso O’Keefe (2006), 404 sembra ammettere l’insufficienza di questa spiegazione: «The dialogue is a pastiche, and sometimes the seams show. However, the dialogue is not merely a pastiche; instead, it shows signs that these elements are put together with some care». 125 Cf. anche il commento ad loc.

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5. Il disordine testuale

s a d a l u i i m p l i c i t a m e n t e a c c e t t a t a, cioè che la morte comporta la perdita totale della sensibilità. Non ci si aspetta, invece, il brusco cambiamento di presupposto che ci restituisce la tradizione medievale e che comporta l’introduzione da parte di Socrate della tesi dell’immortalità dell’anima126. Si potrebbe, però, pensare che φλύαρος non si riferisca alla paura, cioè alla contraddizione, di Assioco, ma al presupposto a partire dal quale Socrate ha sviluppato il proprio ἔλεγχος, cioè l’idea che la morte comporti la perdita completa della sensibilità. Se così fosse, avrebbe senso che dopo le parole πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι Socrate, messo da parte il vecchio presupposto, ne introducesse uno nuovo, quello appunto dell’immortalità dell’anima. Il problema di questa interpretazione, tuttavia, è che una transizione siffatta appare ingiustificata i n q u e s t o p u n t o d e l dialogo. Per quale ragione, infatti, Socrate squalificherebbe il presupposto della morte come totale insensibilità prima che Assioco abbia replicato al suo ἔλεγχος? Ciò che ci si sarebbe aspettati è che Assioco replicasse o non si accontentasse dell’ἔλεγχος di Socrate fondato sul presupposto della morte come ἀναισθησία e che, p e r q u e s t a r a g i o n e, Socrate si vedesse costretto a passare ad un altro presupposto. La replica di Assioco contenuta in 366b2–4, infatti, serve esclusivamente a mostrare l’incredulità di Assioco nei confronti dell’argomento consolatorio fondato sulla tesi dell’immortalità dell’anima che Socrate ha sviluppato in 366e2-b1.127 È per questo che Socrate, subito dopo, dice di essere ignorante in materia di περιττά, un termine quest’ultimo che ha senso nella misura in cui si riferisce ai contenuti dell’argomento dell’immortalità dell’anima, non certo all’ἔλεγχος della precedente battuta.128 Di fatto, dunque, l’ἔλεγχος della sezione (3) rimane “pendente”. 5.2. Nella sezione (6) Socrate introduce l’ἐπίδειξις di Prodico che si sviluppa, pur con tutti i suoi problemi di coerenza interna, nelle sezioni (6), (7) e (8). La ratio complessiva di questa ἐπίδειξις è quella di mostrare che la

126 In astratto si può pensare che l’argomento dell’insensibilità non sia del tutto incompatibile con quello dell’immortalità dell’anima. Si può, cioè, pensare che il primo argomento valga esclusivamente in riferimento alla sensibilità corporea, a prescindere dall’esistenza o meno di un’anima immortale. Gli argomenti “epicurei” del dialogo furono intesi in questo modo e.g. da Cornelio Agrippa e dai teologi accusatori di Étienne Dolet (cf. supra pp. 11-12). Si tratta, tuttavia, di una palese forzatura (cf. anche Benitez (2019), 21–22 n. 12). 127 Cf. il commento ad loc. 128 Cf. il commento ad loc.

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Saggio introduttivo

vita è fatta principalmente di mali e, dunque, non può essere ritenuta un bene della cui perdita valga la pena di dolersi. Attraverso una transizione decisamente abrupta,129 dalla sezione (8) si passa alla sezione (9), dove Socrate, dietro la maschera di Prodico, introduce il concetto secondo cui la morte non riguarda né i vivi né i morti in quanto quando c’è la morte non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è la morte. In questo modo la morte è ridotta ad uno pseudo-problema alla stregua di mostri partoriti dalla fantasia come Scilla o il Centauro. Il presupposto su cui si basa questo concetto è pur sempre che la morte comporta la perdita di ogni sensibilità. A questa affermazione Assioco replica con profonda irritazione, come se Socrate si stesse prendendo gioco di lui: quelli di Socrate sono solo giochi di parole che non rimuovono il dolore che sorge dal pensiero di dover morire. In questo caso, dunque, Assioco mette effettivamente in discussione l’efficacia consolatoria dell’argomento socratico fondato sul presupposto della morte come perdita di ogni sensibilità. A sua volta Socrate replica a questa battuta osservando che Assioco, dicendo di provare dolore al pensiero di dover perdere i beni della vita, cade in contraddizione in quanto pensa allo stesso tempo che con la morte si perda ogni sensibilità e che, una volta morti, l’essere privati dei beni della vita sia un male. A questa affermazione segue la sezione (10), connessa alla precedente in modo estremamente abrupto.130 Questa articolazione argomentativo-concettuale presenta alcuni problemi di coerenza interna: a) Nella sezione (3) Socrate ha sviluppato un ἔλεγχος fondato sul presupposto che dopo la morte non esiste nessuna forma di sopravvivenza; a questo argomento è stato connesso in modo poco consequenziale un argomento fondato su un presupposto diametralmente opposto, cioè che l’anima è immortale (4); dopo la lunga ἐπίδειξις che copre le sezioni (6), (7) e (8), con la sezione (9) Socrate torna su un argomento che presuppone l’idea che con la morte viene meno ogni forma di sopravvivenza; quindi nella sezione (10) presenta nuovamente un argomento che presuppone l’immortalità dell’anima, proprio come se ciò non fosse già stato fatto in precedenza. b) Come si è visto, nella sezione (9) Assioco afferma che è per lui fonte di dolore il pensiero di dover essere privato dei beni della vita. Ebbene, nel corso delle tre sezioni precedenti, sezioni che compongono la lunga ἐπίδειξις di Prodico, Socrate ha lungamente insistito sull’idea che la vita

129 Cf. supra pp. 43-44. 130 Cf. supra pp. 44-45.

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5. Il disordine testuale

è esclusivamente costellata da mali. È, dunque, quasi grottesco che ora Assioco affermi di provare dolore al pensiero di dover essere privato d e i b e n i d e l l a v i t a. Ciò potrebbe avere una sua coerenza se queste parole di Assioco fossero una replica d i r e t t a alla lunga ἐπίδειξις di Prodico, cioè se Assioco negasse che la vita è un coacervo di mali e rivendicasse con ciò la sua comprensibile pretesa di lamentare la perdita dei beni della vita. Tuttavia, ciò non avviene. Assioco non replica alla lunga ἐπίδειξις ed anzi arriva a dare il suo consenso a Socrate riconoscendo che la politica, la più alta delle attività umane, non è un vero bene. Il lamento per la στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν avviene soltanto dopo che Socrate ha introdotto l’argomento secondo cui la morte non deve essere temuta perché chi è stato privato di ogni forma di sopravvivenza non può patire alcun male e, dunque, è come se per lui la morte non esistesse. È contro questo argomento che è diretta la replica di Assioco in cui riemerge inopinatamente il tema della στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν, come se la ἐπίδειξις fosse passata invano, n o n o s t a n t e c h e A s s i o c o n o n v i a b b i a a p e r t a m e n t e r e p l i c a t o.131 5.3. Questi problemi possono essere risolti t r a s l o c a n d o la sezione (9) tra la sezione (3) e la sezione (4), ottenendo così la successione (1), (2), (3), (9), (4), (5), (6), (7), (8), (10), (11), (12). Cosa risulta da questa operazione? a) I due punti del dialogo in cui Socrate sviluppa un argomento fondato sul presupposto che con la morte non sopravvive nessuna forma di sensibilità sono saldati tra loro; in questo modo viene meno la stranezza per cui tra i due argomenti fondati sul presupposto dell’immortalità dell’anima delle sezioni (4) e (10) è frapposto un argomento fondato sul

131 Sorprende che parte della critica, che pure ha prestato attenzione alla struttura del dialogo, non abbia avvertito l’esigenza di rendere ragione dei problemi qui segnalati, come se questo contorto svolgimento argomentativo fosse un tutto perfettamente coerente: cf. e.g. Souilhé (1930), 118–119: «Socrate développe trois arguments pour persuader Axiochos qu’il ne faut point redouter la perte de la vie terrestre et des bien d’ici-bas … Socrate abandonnant les thèmes précédents va chercher à suggérer directement le bonheur de l’âme après la mort», Männlein-Robert (2012), 16–17: «Der ganze Dialog gliedert sich, abgesehen von der szenischen Rahmung, im Wesentlichen in zwei Teile», e soprattutto Menchelli (2016), 136–137: «A sezioni di risposta e opposizione, si giustappone la costruzione dell’argomento platonico. Alle dottrine di stampo prevalentemente cinico-stoico si aggiungono le dottrine epicuree, alle quali è dedicato rilievo assai maggiore nell’economia del dialogo, con una fitta rete di ipotesi e approfondimenti da parte di Socrate nelle sue risposte; le sole dottrine convincenti sono tuttavia le dottrine platoniche».

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Saggio introduttivo

presupposto del tutto opposto, quello dell’insensibilità contenuto nella sezione (9). b) Dal punto di vista argomentativo-concettuale la successione (3) – (9) è del tutto consequenziale in quanto la massima secondo cui la morte non esiste né per i vivi né per i morti è il naturale sviluppo dell’idea con cui si chiudeva la sezione (3), ossia che la condizione che segue la morte è analoga a quella che precede la vita: (3ex.) ὡς οὖν ἐπὶ τῆς Δράκοντος ἢ Κλεισθένους πολιτείας οὐδὲν περὶ σὲ κακὸν ἦν—ἀρχὴν γὰρ οὐκ ἦς, περὶ ὃν ἂν ἦν—οὕτως οὐδὲ μετὰ τὴν τελευτὴν γενήσεται· σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ περὶ ὃν ἔσται. + (9in.) ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος ὅτι ὁ θάνατος οὔτε πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς μετηλλαχότας κτλ. c) Nel momento in cui si costituisce un unico blocco fondato sul presupposto che la morte comporta la perdita di ogni forma di sopravvivenza e dunque di sensibilità, viene meno anche la stranezza per cui l’ἔλεγχος con cui si chiude la sezione (3) rimane “pendente”. Al contrario, anticipando la sezione (9) tra le sezioni (3) e (4), l’irritata replica di Assioco di 369d1-e2 chiude un blocco argomentativo-concettuale di per sé omogeneo, il che, a questo punto, rende del tutto giustificato da parte di Socrate il passaggio dal presupposto secondo cui la morte comporta la perdita di ogni sensibilità a quello dell’immortalità dell’anima contenuto nella sezione (4). d) Le parole πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι con cui nella sezione (4) si passa all’argomento dell’immortalità dell’anima acquistano un senso più puntuale alla luce della replica di Assioco contenuta nella sezione (9). Assioco, infatti, ha accusato Socrate di φλυαρολογία. Nel dire πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι di fatto Socrate ribalta su Assioco l’accusa di φλυαρολογία. e) La successione (4), (5), (6), (7), (8), (10), (11), (12) viene a costituire un blocco organico che non è più spezzato dall’inopinato ritorno al presupposto della morte come completa insensibilità una volta che l’argomento dell’immortalità dell’anima è stato introdotto nella sezione (4). Allo stesso tempo viene meno la stranezza per cui nella sezione (9), dopo la lunga ἐπίδειξις composta dalle sezioni (6), (7) e (8), senza che Assioco vi abbia replicato ed anzi avendo Assioco dato il suo assenso alla critica dell’attività politica, inopinatamente egli torna a lamentare la στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν, quando la stessa lunga ἐπίδειξις aveva proprio l’obiettivo di mostrare che la vita è composta esclusivamente da mali. 5.4. Con la traslocazione della sezione (9) tra le sezioni (3) e (4), dunque, la consequenzialità argomentativo-concettuale migliora nettamente e una

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considerevole congerie di problemi è eliminata in una volta sola. Ma i vantaggi di questa operazione non si limitano a quanto abbiamo osservato nel paragrafo precedente. Una delle difficoltà che Buresch aveva sollevato per postulare una lacuna tra la sezione (8) e la sezione (9), infatti, concerneva l’economia complessiva dell’opera. Buresch, cioè, si stupiva del fatto che a 369d1-e2 Assioco non solo diceva di non essere affatto consolato dalle parole di Socrate, ma era convinto del fatto che Socrate non sarebbe mai stato in grado di trovare degli argomenti convincenti (369d3–5, ἐμὲ δὲ ἡ στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν λυπεῖ, κἂν πιθανωτέρους τούτων λόγους ἀρτικροτήσῃς, ὦ Σώκρατες). Eppure, non molti righi dopo, a 370d7-e4, Assioco è ormai passato in uno stato d’animo diametralmente opposto. È vero che questo è l’effetto dell’argomento fondato sul presupposto dell’immortalità dell’anima, ma si rimane comunque colpiti dalla m e c c a n i c i tà con cui questo argomento agisce su Assioco. E ciò è tanto più strano se si considera che il precedente argomento dell’immortalità dell’anima (365e2–366b1), invece, non aveva sortito un effetto analogo. È degno di nota che Buresch non è stato il primo ad essere disturbato da questa stranezza nello svolgimento della “dinamica consolatoria”. Sul margine destro del f. 9 del Parisinus gr. 2110 (V), codice del XIV secolo,132 in corrispondenza della battuta di Assioco di 370d7-e4, si legge la seguente annotazione: δοκεῖ τι λείπειν, πῶς γὰρ οὔτως ἐμπέδως δόξαν κρατοῦσαν εἷς ἐκίνησε λόγος; Un lettore bizantino piuttosto attento,133 cioè, ha notato la stranezza della repentinità della conversione di Assioco: un solo discorso è stato in grado di produrre in Assioco una convinzione tanto ferma quale quella che si legge a 370d7-e4 (per questo significato di κινέω cf. LSJ s.v. II.2). Evidentemente questo lettore aveva ben presente che fino a poco prima Assioco era scettico circa la possibilità di essere convinto da Socrate. Donde la stranezza. La diagnosi del dotto bizantino denota un certo acume: sembra che il testo abbia subito un guasto che ha comportato la perdita di una parte del dialogo.134 La ratio di questa diagnosi è che la supposta parte perduta avrebbe dovuto contenere un ampliamento della “dinamica

132 Su questo codice cf. infra pp. 95-100 e n. 224. 133 La mano sembra la stessa dello scriba che ha vergato il testo: si confronti la legatura tra δ ed ω in ἐμπέδως con l’analoga legatura nell’ἐμπέδως del testo a 372a5. 134 Questo marginale è stato notato anche da Menchelli (2016), 98 n. 33 (ma cf. già Belli (1953), 557). Per nessuna ragione, però, mi pare che si possa parlare di «una curiosa annotazione contro Assioco che si è fatto subito convincere dal λόγος οὐράνιος». La stranezza della rapidità della conversione di Assioco è stata notata anche da Nesselrath (2012), 126: «Die Hinwendung zu platonischen, vor

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consolatoria”, un ampliamento tale, cioè, da far apparire meno strana la repentina conversione di Assioco. Ora, questo problema scompare se si pensa che nelle intenzioni dell’autore la sezione (9) avrebbe dovuto trovarsi tra le sezioni (3) e (4). Come si è osservato nel paragrafo precedente, infatti, la successione che risulta dallo spostamento della sezione (9) costituisce un blocco organico: dopo che Assioco ha lamentato l’inefficacia consolatoria degli argomenti fondati sul presupposto che la morte esclude ogni forma di sopravvivenza, Socrate cambia presupposto e introduce un primo argomento dell’immortalità dell’anima, quello della sezione (4); questo argomento, tuttavia, lascia Assioco incredulo: egli, infatti, non è convinto dalla svalutazione della vita inclusa nell’argomento dell’immortalità dell’anima esposto da Socrate; si spiega, dunque, per quale ragione Socrate decida di insistere su questo punto introducendo la lunga ἐπίδειξις di Prodico, ἐπίδειξις che ha proprio l’obiettivo di mostrare che la vita è un coacervo di mali e che culmina con la condanna dell’attività politica, condanna con la quale Assioco si dice d’accordo. Spostando la sezione (9) tra le sezioni (3) e (4), la sezione (8) si salda direttamente alla sezione (10): una volta che Assioco ha dato il suo assenso a Socrate circa la negatività dell’attività politica si passa al secondo argomento dell’immortalità dell’anima, cioè all’argomento in seguito al quale Assioco si dice finalmente convinto. Di fatto, dunque, il blocco dialogico che va dalla sezione (4) alla sezione (10) rappresenta un’unità che si apre con un argomento dell’immortalità dell’anima e si chiude con un altro argo-

allem im Phaidon zu findenden Gedanken ruft bei Axiochos eine außerordentlich rasche und tiefgreifende Wandlung von abgrundtiefer (und alle Bemühungen, sie zu lindern, mit verzweifelten Sarkasmen kommentierender) Todesfurcht zu einer völlig entgrentzen und bedingungslosen Todessehnsucht hervor». Tuttavia, la spiegazione addotta da Nesselrath di una parodia della letteratura consolatoria non convince (Nesselrath è studioso di Luciano: forse si è fatto troppo influenzare dalla lettura del Περὶ πένθους dello scrittore di Samosata, quello sì veramente parodistico). La spiegazione “parodistica” è stata recentemente avanzata anche da Benitez (2019), 30–32, il quale, tuttavia, per primo sembra esserne poco convinto (cf. Benitez (2019), 32: «If the Axiochus is a parody, however, it is not mere parody»). È degno di nota che anche in questo caso una delle ragioni che inducono ad avanzare l’artificiosa spiegazione della parodia è la repentinità della “conversione” di Assioco, quale risulta dall’ordine tradizionale degli argomenti (cf. Benitez (2019), 30: «These dramatic about-faces are laughably unrealistic. Genuine transformation from fear to acceptance is a slow and ultimately quiet process»). Più interessante è l’idea che la dinamica consolatoria dell’Assioco sia condizionata dall’impostazione scettica dell’Accademia ellenistica (cf. Benitez (2019), 32–34). Per questo aspetto cf. meglio infra pp. 67-76.

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mento dell’immortalità dell’anima. In mezzo c’è la deploratio vitae, un tema in un certo senso complementare della prospettiva metafisica dell’immortalità dell’anima: per consolare Assioco della perdita della vita non è sufficiente, infatti, mostrare che l’anima è immortale, occorre anche mostrare che la vita corporea è deplorevole;135 d’altra parte è stato lo stesso Assioco a sollecitare un approfondimento sul tema dei mali della vita con la replica di 366b2–4. 5.5. Dal punto di vista argomentativo-concettuale, dunque, è perfettamente logico che l’argomento della deploratio vitae contenuto nella ἐπίδειξις di Prodico sia incastonato tra due argomenti dell’immortalità dell’anima. Questo fatto, tuttavia, ha un’incidenza profonda sulla “dinamica consolatoria” complessiva del dialogo. Con lo spostamento della sezione (9) tra le sezioni (3) e (4), infatti, la conversione di Assioco contenuta nella battuta di 370d7-e4 della sezione (10), di fatto, non appare più come il prodotto esclusivo dell’argomento dell’immortalità dell’anima contenuto in 370b1-e6 della sezione (10), bensì come il risultato dell’intero blocco dialogico che va dalla sezione (4) alla sezione (10). La stranezza che era stata rilevata da Buresch, e prima ancora dall’annotatore del Parisinus gr. 2110, è così rimossa: tra la battuta in cui Assioco dichiarava che Socrate non sarebbe mai riuscito a convincerlo e la battuta in cui Assioco dichiara di essere stato convinto non corre più la breve distanza che rendeva poco verosimile questa conversione; al contrario, la stessa lunghezza e la complessità non priva di coerenza concettuale del blocco argomentativo che va dalla sezione (4) alla sezione (10) rendono del tutto naturale il fenomeno di conversione che si produce in Assioco n e l c o r s o d e l l ’ a s c o l t o d e l l a l u n g a b a t t u t a d i S o c r a t e. In questo modo, inoltre, acquistano un senso plausibile le parole che Assioco impiega nella battuta della sua conversione a 370e2–3 (πάλαι μετεωροπολῶ καὶ δίειμι τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον). L’avverbio πάλαι, infatti, suona strano se si riferisce esclusivamente all’argomento dell’immortalità dell’anima immediatamente precedente (370b1-e6), a maggior ragione se, secondo la successione tradizionale delle sezioni del dialogo, a sua volta questo argomento è di poco preceduto dalla battuta in cui Assioco ha dichiarato che difficilmente Socrate riuscirà a convincerlo. Al contrario, l’avverbio πάλαι è del tutto verosimile se si pensa che il processo di conversione sia avvenuto nel corso del lungo blocco dialogico compreso tra la sezione (4) e la sezione (10), con la sezione (9) tra le sezioni (3) e (4). Ciò è tanto

135 Cf. anche Joël (1901), 183: «Die Schatten des Diesseits und das Licht des Jenseits bedingen sich gegenseitig», e il commento ad loc.

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più vero se si considera che, come si è detto, questo “nuovo” blocco dialogico si apre e si chiude con un argomento dell’immortalità celeste dell’anima. Ha senso, dunque, che a 370d7-e4 Assioco dica che da tempo (πάλαι) egli si sta prefigurando la vita celeste dell’anima.136 È naturale pensare che questo riferimento vada al primo argomento dell’immortalità, quello della sezione (4), di cui il secondo argomento dell’immortalità, quello della sezione (10), non costituisce altro che una ripresa e un approfondimento. Il primo argomento getta nell’animo di Assioco il seme della prospettiva della sopravvivenza dell’anima. Questo seme, per così dire, germoglia in Assioco nel corso del blocco dialogico che passa per la lunga ἐπίδειξις contenente la deploratio vitae e culmina nel secondo argomento dell’immortalità dell’anima. A questa ipotesi si obietterà che a 366b2–4 della sezione (5) Assioco replica al primo argomento dell’immortalità dell’anima sollevando contro Socrate l’obiezione del suicidio. Ciò, a prima vista, potrebbe sembrare in contraddizione con l’idea qui sostenuta che il processo di persuasione di Assioco avviene gradualmente nel corso del blocco argomentativo-concettuale che incomincia di fatto con il primo argomento dell’immortalità dell’anima della sezione (4). Tuttavia, questa ipotetica obiezione viene meno se si considera che la replica di Assioco di 366b2–4 della sezione (5) è ben diversa dalla replica di 369d1-e2 della sezione (9), replica quest’ultima con la quale Assioco respinge la validità consolatoria degli argomenti fondati sul presupposto che la morte comporta l’assenza di ogni forma di sopravvivenza. Quando Assioco solleva l’obiezione del suicidio, infatti, egli non vuole dire che non vorrebbe credere alla tesi dell’immortalità dell’anima, ma solo che, per il momento almeno, questo argomento lo lascia incredulo.137 Inoltre, propriamente, l’obiezione di Assioco non riguarda tanto l’idea che l’anima sopravviva, quanto l’idea che la vita sia un male (per quanto le due idee siano strettamente correlate). Proprio per questo, infatti, subito dopo Socrate introduce la lunga deploratio vitae contenuta nella ἐπίδειξις delle sezioni (6), (7) e (8), cioè per rimuovere da Assioco l’incredulità che egli aveva espresso a 366b2–4. Solo dopo questo passaggio Socrate può tornare a sviluppare il tema dell’immortalità dell’anima. A questo punto, Assioco si dice convinto: anche il senso di incredulità che il primo argomento dell’immortalità dell’anima aveva lasciato in lui è stato rimosso ed egli si sente

136 Cf. anche il commento ad loc. 137 Su questo punto cf. anche il commento ad loc.

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libero di dare il suo consenso ad una tesi dalla quale fin da subito, cioè dall’argomento dell’immortalità dell’anima della sezione (4) (cf. il πάλαι di 370e2), si era sentito attratto. Tuttavia, in un certo senso l’argomento più forte a favore dello spostamento della sezione (9) tra la sezione (3) e la sezione (4) resta l’esperienza stessa della lettura. Chi si prenderà il tempo di leggere il dialogo secondo l’ordine delle sezioni qui argomentato sperimenterà direttamente la verosimiglianza di questa ricostruzione della “dinamica consolatoria’ contenuta nell’opera. 5.6. Come si può spiegare il fenomeno appena descritto? In genere, quando si diagnostica un disordine testuale che interessa ampie porzioni di testo come quelle coinvolte nel nostro caso, il primo sospettato è ovviamente la tradizione. Un guasto come questo, infatti, in teoria potrebbe facilmente essere avvenuto per l’erroneo spostamento di un foglio di un codice.138 Tuttavia, nella tradizione medievale conservata non si hanno tracce di un fenomeno del genere. Allo stesso modo lo Stobeo non ci permette di capire se conosceva un Assioco le cui sezioni fossero disposte diversamente dall’ordine restituito dalla tradizione medievale: non ci ha conservato, infatti, estratti che coprano i punti di transizione delle sezioni coinvolte nella dislocazione che abbiamo supposto.139 Non è questo, tuttavia, che ci permette di escludere che questo fenomeno si sia verificato per un accidentale spostamento di un foglio di un codi-

138 È il caso ad esempio dell’Anthologium dello Stobeo dove, osservando che ampie porzioni di testo che avrebbero dovuto trovarsi nelle Ecloghe si trovano invece nel Florilegio, Wachsmuth ipotizzò che nell’archetipo si fosse verificato uno spostamento di alcuni fogli dalle Ecloghe al Florilegio e che, di conseguenza, l’archetipo consisteva in un unico grande codice che comprendeva tutto l’Anthologium: cf. Wachsmuth (1882), 73–80 (per una spiegazione alternativa del fenomeno cf. Dorandi (2019a), 24–25). Simile è anche il caso del Guelferbytanus Gudianus lat. 2° 70 (sec. IX, siglato γ) di Virgilio dove i vv. 145–170 del III libro delle Georgiche si trovano dopo il v. 122. Questo fenomeno è stato convincentemente spiegato da Giulia Ammannati ap. Ammannati, Pittà (2013), 66–67 in questi termini: «Una spiegazione verosimile è che l’ascendente di γ che copiò dal manoscritto tardoantico, finita di trascrivere la pagina con i vv. 132–144 (un recto), abbia girato per sbaglio due fogli insieme, passando al verso non dello stesso foglio ma di quello successivo e dunque omettendo i 26 versi intermedi (appunto 145– 170). Se così fu, è possibile che a un certo punto il copista si sia accorto del suo errore … abbia quindi recuperato i versi omessi e li abbia aggiunti su un foglio inserto, predisponendo un sistema di richiami. In seguito lo scriba di un ulteriore apografo (nel caso γ stesso) fraintese probabilmente la situazione e ricollocò malamente i versi aggiunti, alterando la sequenza». 139 Per lo Stobeo cf. infra pp. 135-137 e 154-156.

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ce. Il vero problema è che la sezione che si suppone fuori posto interessa una porzione di testo che è a n c h e u n n u c l e o a r g o m e n t a t i v o - c o n c e t t u a l e d o t a t o d i u n a s u a c o e r e n z a i n t e r n a c o m p l e s s i v a. Uno spostamento accidentale di un foglio di un codice che non spezza una frase alla fine del foglio precedente e all’inizio del foglio seguente, ma che isola perfettamente una porzione di testo dotata di una certa autonomia come fosse un estratto non sarà impossibile, ma bisogna ammettere che è un caso decisamente fortunato. La questione cambia se si considera che l’Assioco è un’opera incompiuta. Come si è osservato in precedenza, infatti, ciò risulta in modo particolarmente evidente dalla possibilità che ancora adesso abbiamo di identificare con facilità i diversi nuclei argomentativo-concettuali che compongono il dialogo. Come si è visto, è ragionevole pensare che l’autore, pur avendo in mente il piano complessivo dell’opera, abbia elaborato questi nuclei (o almeno alcuni di essi) separatamente. Per fare questo tipo di operazione, tuttavia, la cosa più semplice da immaginare è che lo pseudo-Platone abbia lavorato su delle schede, ciascuna delle quali conteneva una sezione dell’opera.140 Una volta terminato il lavoro sulle singole schede il loro contenuto avrebbe dovuto essere copiato su un rotolo di papiro andando a formare un tutto organico s e c o n d o l ’ o r d i n e d e l l e s e z i o n i c h e l ’ a u t o r e a v e v a i n m e n t e. Se si immaginano queste premesse materiali, anche il problema della traslocazione si spiega con facilità: nel momento in cui le singole schede sono state ordinate e trasferite sul rotolo di papiro, una scheda, quella contenente la sezione (9), è finita nel punto sbagliato, ossia tra (8) e (10), mentre era stata concepita per essere collocata tra (3) e (4). Se così è stato, è inevitabile trarre la conseguenza che non solo l’autore non ha completato l’opera, ma, come è naturale aspettarsi in casi del genere, non è stato neppure lui a curarne la “pubblicazione”, ossia la redazione che è poi confluita nella tradizione medievale. Verosimilmente lo pseudo-Platone è morto prima di po140 Per fenomeni analoghi a quello qui ipotizzato, connessi alle prime fasi compositive dell’opera cf. Prentice (1930), 117–127; Canfora (1972), 129–131; Canfora (1981), 299–315 e Dorandi (2007), 13–28. Naturalmente queste “schede” possono essere di varia natura: «Non è difficile citare la testimonianza di numerosi autori che confermano un ricorso alquanto frequente a foglietti o tavolette, almeno nella prima fase della composizione di un’opera letteraria, come supporto per gli appunti presi leggendo le fonti e talora anche per la stesura di brogliacci o per stesure iniziali di testi di estensione limitata» (Dorandi (2007), 18–19). Ciò che qui preme sottolineare è anzitutto il processo che più verosimilmente può aver generato questo disordine testuale, a prescindere dall’effettiva natura dei supporti utilizzati per la composizione dell’opera.

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ter ultimare l’opera e prima che la redazione a noi nota fosse messa in circolazione. Ne consegue che tale redazione, nella quale si è prodotta l’erronea dislocazione della sezione (9), è stata realizzata da qualcuno che ha avuto accesso al Nachlass dell’autore dopo la morte di questi141. 5.7. Come si è visto, questa ricostruzione ha il vantaggio di risolvere una notevole serie di problemi macro-strutturali dell’opera e alcuni problemi di esegesi più minuta. Non risolve, tuttavia, il problema per cui alcune transizioni da una sezione ad un’altra rimangono abrupte. Caso emblematico è quello del passaggio dalla sezione (8) alla sezione (10): 369b4–5, τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; + 370b1–2, πρὸς τῷ πολλοὺς καὶ καλοὺς εἶναι λόγους περὶ τῆς ἀθανασίας τῆς ψυχῆς. Tuttavia, questo problema non infirma la validità della nostra ipotesi. Come si è visto, infatti, i punti di transizione da una sezione e all’altra del dialogo sono problematici q u a l e c h e s i a l ’ o r d i n e d e l l e s e z i o n i. Ciò, infatti, dipende dall’incompiutezza dell’opera. Si è, però, anche visto che almeno in un caso, cioè nel passaggio dalla sezione (3) alla sezione (9), la transizione è meno abrupta di quella che si ha nel passaggio dalla sezione (8) alla sezione (9): (8ex.) + (9in.) = 369b4–5 + 369b5–7

(3ex.) + (9in.) = 365e1–2 + 369b5–7

τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; + ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος ὅτι ὁ θάνατος οὔτε πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς μετηλλαχότας.

οὕτως οὐδὲ μετὰ τὴν τελευτὴν γενήσεται· σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ περὶ ὃν ἔσται. + ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος ὅτι ὁ θάνατος οὔτε πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς μετηλλαχότας.

141 Naturalmente, in astratto, non si possono escludere altre dinamiche: ad esempio, che l’autore abbia fatto circolare una versione dell’opera ancora incompiuta dove, per una svista, la sezione (9) era stata collocata male (basta pensare al caso del De gloria, che Cicerone inviò ad Attico in una redazione in cui aveva erroneamente inserito il proemio del III libro degli Academica: cf. Pecere (2015), 116–117). Tuttavia, nel caso dell’Assioco la possibilità di una “edizione postuma” sembra più plausibile. Da un lato, infatti, dalla tradizione medievale è stata tramandata la redazione con la sezione (9) collocata male: se l’errore fosse stato dell’autore ci si sarebbe aspettati che lo avesse in seguito corretto (naturalmente questo principio non è valido in assoluto: basta pensare ai celebri esempi di errori d’autore che Cicerone cercò di correggere, ma che sono rimasti nella tradizione medievale: cf. Losacco (2016), 358–359). Dall’altro, come meglio vedremo, lo pseudo-Platone verosimilmente fece sì circolare un brogliaccio dell’Assioco ancora incompiuto, ma questo testo doveva presentare la sezione (9) al posto giusto (cf. infra pp. 79-81).

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La frase di apertura della sezione (9), ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ., merita maggiore attenzione. Per Immisch era naturale riferire il καί a τοῦ Προδίκου λέγοντος: “ho sentito anche Prodico dire che etc.”. Questa costruzione, tuttavia, implica che il concetto secondo cui la morte non è un problema per il vivente sia stato espresso anche subito prima.142 Ma ciò avviene appunto se si anticipa la sezione (9) tra (3) e (4). Non avviene, invece, con l’ordine degli argomenti trasmesso dalla tradizione medievale. La sezione (8) che immediatamente precede, infatti, non contiene un concetto analogo a quello che Socrate attribuisce a Prodico in apertura della sezione (9), ma consiste nella parte finale della deploratio vitae, in particolare nella parte finale di quella sezione dedicata alla condanna delle diverse attività umane. In polemica con l’interpretazione di Immisch, Wilamowitz avanzò un’interpretazione alternativa: il καί mostra che Socrate, a questo punto, aggiunge un altro discorso di Prodico dopo quello ascoltato in casa di Callia: “una volta ho sentito da Prodico anche che etc.”.143 Tale interpretazione

142 In questo caso il καί può essere considerato in combinazione con il precedente δέ (δὲ ... καί). Sembra che questo cluster di particelle possa servire per introdurre una “variazione sul tema”, ossia un’aggiunta per certi aspetti simile ad un concetto precedentemente espresso (cf. Denniston (19542), 305 e Zaccaria (2016), 150– 151 e n. 30, cf. e.g. Diog. Laert. VI 12, ἀναγράφει δ’ αὐτοῦ καὶ Διοκλῆς ταυτί, su cui cf. Zaccaria (2016), 150–151 n. 30: «In conclusion, the καί means here nor “and” (it is not a simple addition), neither “also” (it is not the same content): it rather introduces a sort of “variation on the theme”»). In tal caso il senso sarebbe qualcosa come “Una volta ho sentito Prodico che a sua volta diceva che etc.”, senso coerente con l’interpretazione di Immisch. 143 Cf. Wilamowitz (1895), 979: «Aber man kann es auch so betonen und demnach verstehen, dass τοῦ Προδίκου λέγοντος eingeschoben ist, also “ich habe auch mal von Prodikos gehört”, so dass “auch” den Inhalt des Gehörten angeht». Questa interpretazione è stata accolta da Meister (1915), 19, il quale, in modo poco plausibile, intende τοῦ Προδίκου λέγοντος come fosse un genitivo assoluto: «expeditur haec difficultas, si cum Wilamowitzio intellegimus: “Audivi autem olim etiam hoc, Prodico dicente”, ita ut τοῦ Προδίκου λέγοντος quasi in interclusione positum sit». È interessante notare che talvolta le più recenti traduzioni sembrano presupporre piuttosto l’interpretazione di Immisch: cf. e.g. Hershbell (1981): «I once heard even Prodicus say that death concerns neither the living not those who have passed away»; Männlein-Robert (2012): «Ich hörte aber einmal auch den berühmten Prodikos sagen, dass der Tod etc.». Si tratta di una coincidenza perché nessuno di questi interpreti mostra di seguire l’interpretazione di Immisch. Tuttavia la coincidenza è sintomatica della “naturalezza” dell’interpretazione sintattica di Immisch. Per contro, si allinea all’interpretazione di Wilamowitz Souilhé (1930): «j’ai entendu dire aussi un jour à Prodicos que la mort n’interesse ni ceux qui vivent, ni ceux qui ont disparu».

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a prima vista sembra istituire una certa coerenza con l’ordine degli argomenti: infatti poco prima Socrate ha esposto l’ἐπίδειξις di Prodico ascoltata in casa di Callia. Il problema è che per avere questo senso ci si sarebbe aspettati un’altra più naturale costruzione. Non ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ., ma qualcosa come ἤκουσα δέ ποτε τοῦ Προδίκου καὶ τοῦτο λέγοντος κτλ.: cf. e.g. Xen. Mem. II 4, 1, ἤκουσα δέ ποτε αὐτοῦ καὶ περὶ φίλων διαλεγομένου ἐξ ὧν ἔμοιγε ἐδόκει κτλ., Mem. II 5, 1, ἤκουσα δέ ποτε καὶ ἄλλον αὐτοῦ λόγον ὃς ἐδόκει μοι κτλ., Oec. 1, ἤκουσα δέ ποτε αὐτοῦ καὶ περὶ οἰκονομίας τοιάδε διαλεγομένου κτλ.144 È degno di nota che lo stesso Wilamowitz non negava la plausibilità dell’interpretazione di Immisch.145 Tuttavia, egli la respingeva perché pregiudizialmente non riteneva accettabili le conseguenze che siffatta interpretazione comportava, ossia la necessità di ammettere che l’ordine delle sezioni del dialogo restituitoci dalla tradizione medievale non è quello voluto dall’autore. In ogni caso, i problemi di natura argomentativo-concettuale e quelli legati alla “dinamica consolatoria” complessiva dell’opera che sono stati osservati in precedenza sono tanti e tali che non possono che prevalere sulla difficoltà opposta dal Wilamowitz all’interpretazione che Immisch dava della frase ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ. E ciò è vero a maggior ragione in quanto l’interpretazione di Immisch n o n è d i p e r s é i m p o s s i b i le. Tuttavia, se questa frase significa qualcosa come “una volta ho sentito anche Prodico che diceva che etc.”, la sezione (9) così introdotta non può che essere stata pensata per trovarsi subito dopo la sezione (3), cioè dopo un argomento di cui quello introdotto da Socrate all’inizio della sezione (9) non è altro che una variazione. 5.8. Contro questa ricostruzione si potrebbe obiettare che nella sezione (5) Prodico è presentato in modo articolato, mentre nella sezione (9) il sofista è menzionato in modo molto cursorio. Ciò può far pensare che la menzione della sezione (9) presupponga la presentazione della sezione (5), cosa che, evidentemente, sarebbe d’ostacolo all’inversione dell’ordine di queste due sezioni. A ben vedere, però, non si tratta di un’obiezione insormontabile. Infatti:

144 Si potrebbe pensare, in via del tutto teorica, di correggere: ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος, ὅτι κτλ. dove ovviamente sarebbe da intendere “Ho sentito una volta Prodico dire anche questo”, cioè il τοῦτο retto da λέγοντος e non da ἤκουσα. L’errore sarebbe facile da spiegare, tuttavia non sono persuaso che questa sia la soluzione giusta, in quanto rinunciando alla traslocazione della sezione (9) rimangono aperti tutti i problemi macro-strutturali dell’opera. 145 Cf. Wilamowitz (1895), 979: «Das kann bedeuten: “ich hörte einmal auch den Prodikos sagen”, so dass es auch andere gesagt hätten».

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Saggio introduttivo

1) La presentazione di Prodico contenuta nella sezione (5) non deve necessariamente coincidere con la prima menzione in assoluto del sofista all’interno del dialogo; è possibile, infatti, che dapprima Socrate menzioni Prodico solo cursoriamente, quindi, nel momento in cui Assioco solleva il problema dell’origine della dottrina di Socrate, quest’ultimo riprenda la figura del sofista nominato in precedenza e la presenti in modo più articolato. A ben vedere, una dinamica del genere è a s s a i m e n o b a n a l e del suo contrario. 2) Non si può escludere che anche questo fenomeno sia in qualche modo legato all’incompiutezza dell’opera; è possibile, ad esempio, che lo pseudo-Platone avesse originariamente pensato di inserire una sola menzione di Prodico, quella della sezione (5), ma che in seguito si sia risolto ad inserire anche un’altra menzione, quella della sezione (9);146 il fatto di non aver potuto terminare l’opera gli ha impedito di armonizzare questi due riferimenti al sofista. D’altra parte è evidente che se, come è probabile, lo pseudo-Platone ha lavorato alle singole sezioni dell’opera su schede separate, non è affatto detto che l’autore, nella fase compositiva dell’opera, abbia lavorato alle singole sezioni nell’ordine in cui pensava che sarebbero state disposte a prodotto finito, tanto meno nell’ordine in cui ci sono state trasmesse.147 3) Dopo che Socrate ha sviluppato il primo argomento dell’immortalità dell’anima nella sezione (4) e dopo che Assioco ha presentato a Socrate l’obiezione del suicidio nella sezione (5), sempre nella sezione (5) Socrate si schermisce dicendo di non essere lui la fonte originaria degli argomenti che ha appena sviluppato, ma il sofista Prodico. Le parole di Socrate sono: καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω Προδίκου ἐστὶν τοῦ σοφοῦ ἀπηχήματα κτλ. Ora, ταῦτα e λέγω non possono che riferirsi a ciò che è stato detto in precedenza: Socrate, infatti, dopo aver dichiarato che ciò che ha appena detto non è frutto di una sua personale conoscenza, deve spiegare da dove ha preso tutta quella dottrina.148 Inoltre, la combinazione di particelle καὶ ... δέ in genere permette di esprimere un’aggiunta rispetto a ciò che è stato detto in precedenza, cioè può significare “anche”.149 È

146 147 148 149

Ma non si può escludere la dinamica inversa: prima (9), poi (5). L’ipotesi (1) e l’ipotesi (2) non si escludono a vicenda. Cf. anche il commento ad loc. Cf. Denniston (19542), 199–202 e Lapini (2013a), 181: «Questo abbinamento di particelle è usato in Diogene Laerzio soprattutto nelle rassegne di doxai, per indicare aggiunta. Potremmo tradurre “del resto”, “poi”, oppure “anche”, come fa ora Hook (2005), 28: “and he said also”, dove “also” non è la traduzione di καί bensì di δέ».

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5. Il disordine testuale

verosimile, dunque, che le parole καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω Προδίκου ἐστὶν τοῦ σοφοῦ ἀπηχήματα κτλ. significhino qualcosa come “anche queste cose che ho appena detto sono echi degli insegnamenti del sapiente Prodico”. Ma ciò vuol dire che già in precedenza Socrate ha riferito una dottrina e s p l i c i t a m e n t e a t t r i b u i t a a P r o d i c o d i C e o. E ciò è vero, ancora una volta, soltanto a condizione che la sezione (9) sia stata pensata per essere collocata tra la sezione (3) e la sezione (4). Il fatto che la presentazione di Prodico della sezione (5) segua la menzione del sofista della sezione (9), dunque, non è un problema reale per la nostra ricostruzione. Al contrario, esso ci aiuta a capire meglio la ragione per cui si è prodotto il disordine testuale: nell’ipotesi che l’opera, nella forma a noi nota, sia stata “pubblicata” da un redattore dopo la morte dell’autore, infatti, si può pensare che il redattore si sia lasciato ingannare dalle due menzioni di Prodico. Questi, riordinando i fogli del Nachlass dell’autore, avrà visto che la sezione (5) conteneva un’articolata presentazione del sofista, mentre la sezione (9) riportava soltanto una cursoria menzione di Prodico; come se ciò non bastasse, il καί dell’incipit della sezione (9), ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ., poteva essere interpretato nel modo in cui è stato interpretato da autorevoli studiosi moderni, ossia come spia di un’aggiunta ad una dottrina prodicea p r e c e d e n t e m e n t e e s p r e s s a.150 La somma di questi fattori avrà tratto in inganno il redattore il quale ha finito per collocare la sezione (9) non dove l’autore aveva pensato, cioè tra la sezione (3) e la sezione (4), ma tra la sezione (8) e la sezione (10). 5.9. L’ipotesi che ci troviamo di fronte ad «eine übel angefertigte Redaktion noch nicht völlig ins Reine gebrachter Konzeptzettel»151 era già stata avanzata da Otto Immisch, ma essa è stata dapprima respinta dalla critica e in seguito del tutto dimenticata.152 Parte dell’ostilità che questa diagnosi attirò su di sé è verosimilmente dovuta all’abuso che di essa fece lo stesso Immisch. Egli, infatti, non si accorse che la maggior parte dei problemi da lui evidenziati nella coerenza argomentativa del dialogo potevano essere risolti 150 Cf. supra pp. 60-61. 151 Immisch (1896), 43. 152 Critici nei confronti della tesi di Immisch furono in particolare Wilamowitz (1895), 977–982; Chevalier (1915), 31–42 e Meister (1915), 10–23. Curiosamente il contributo di Wilamowitz apparve come recensione del volume di Immisch sul fascicolo di dicembre delle “Göttingische gelehrte Anzeigen” del 1895, mentre il volume di Immisch, stampato da Teubner a Lipsia, reca la data del 1896. Non mi è chiaro se il volume di Immisch, pur recando la data del 1896, sia uscito già alla fine del 1895, oppure se l’ultimo fascicolo del 1895 delle “Göttingische gelehrte Anzeigen” abbia visto la stampa in realtà nei primi mesi dell’anno successivo.

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Saggio introduttivo

semplicemente traslocando la sezione (9) tra la sezione (3) e la sezione (4). Diversamente, Immisch postulava due grosse trasposizioni e tre ampie lacune. In aggiunta a ciò Immisch riteneva che due sezioni del dialogo fossero in realtà due varianti autoriali della medesima sezione. Lo scetticismo che l’ipotesi ricostruttiva di Immisch suscitò, dunque, è del tutto comprensibile. Molti degli interventi postulati da Immisch, in effetti, si prestano a spiegazioni allo stesso tempo molto meno invasive e assai più significative per la comprensione complessiva del dialogo. Particolarmente istruttivo è il caso della supposta variante d’autore. Per ben due volte, all’interno del dialogo, Assioco lamenta la perdita dei beni della vita e per ben due volte Socrate sviluppa in forma di ἔλεγχος l’argomento dell’insensibilità (a 365d1–e2 e a 369e3–370b1). La stranezza è accresciuta dal fatto che i due argomenti si aprono esattamente con le stesse parole. Immisch ipotizzò che le due sezioni fossero due varianti alternative della stessa sezione del dialogo: l’autore morì prima di terminare l’opera e un redattore, mettendo insieme le carte dell’autore, fece entrare nel dialogo entrambe le redazioni della medesima sezione. Come si è detto, il problema della ripetizione delle medesime parole in apertura delle due sezioni si può facilmente spiegare alla luce dell’incompiutezza dell’opera: l’autore andando avanti nella lavorazione dell’opera avrebbe provveduto ad attenuare le ripetizioni.153 Resta, tuttavia, strano che lo pseudo-Platone abbia sviluppato per ben due volte il lamento della perdita dei beni della vita e il conseguente argomento dell’insensibilità nella forma dell’ἔλεγχος. Wilamowitz, respingendo la spiegazione di Immisch, troncava la questione osservando: «Natürlich ist das eine Wiederholung; das war dem Verfasser klar, und er schärft es seinen Lesern durch die Wiederkeher derselben Wendungen ein. Ist das wirklich so dumm? Ich dächte, es käme vor, daß trostbedürftige Menschen ihre Klagen wiederholen und also auch dieselben Trostworte zu hören bekommen. Ich halte dies für viel verzeihlicher als solche Wiederholungen zu Dittographien zu stempeln».154 Quello di Wilamowitz è un argomento già di per sé molto ragionevole, ma quel che più conta è che esso è confermato in modo estremamente preciso dalla testimonianza del primo libro delle Tusculanae di Cicerone. 5.10. Nella sezione in cui si propone di mostrare che la morte non deve essere temuta se si esclude ogni forma di sopravvivenza e sensibilità (Tusc. I 34, 82–46, 111), infatti, Cicerone ripete più volte lo stesso argomento nella forma dell’ἔλεγχος, in quanto un interlocutore fittizio, pensando di avanza-

153 Cf. supra pp. 46-47 e n. 121. 154 Wilamowitz (1895), 980.

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5. Il disordine testuale

re obiezioni diverse, in realtà ricade sempre nello stesso errore logico. Ciò che è più interessante notare è che Cicerone tematizza apertamente questo fenomeno: quamquam hoc quidem nimis saepe, sed eo quod in hoc inest omnis animi contractio ex metu mortis (Tusc. I 37, 90).155 La spiegazione che Cicerone adduce per queste ripetizioni è sostanzialmente analoga a quella individuata da Wilamowitz: la paura della morte ottenebra la capacità di comprendere a fondo il fatto che la perdita di ogni percezione impedisce la possibilità di avvertire questa stessa perdita; di conseguenza chi ha bisogno di essere consolato dalla paura della morte sarà portato a commettere più volte lo stesso errore logico. Da ciò la ripetizione tanto in Cicerone, quanto nello pseudo-Platone. Si aggiunga poi che tra le due presunte ripetizioni dell’Assioco c’è una differenza. A 365c5–7 Assioco aveva lamentato 1) la paura di perdere i beni della vita; 2) la paura di dover sopportare il dolore della decomposizione

155 È degno di nota che la ripetizione è tematizzata anche nella sezione iniziale del primo libro dove Cicerone si propone di mostrare al suo interlocutore che la morte non è un male per coloro che sono morti (Tusc. I 5, 9–7, 13). Secondo l’interlocutore, infatti, la morte è un male per i defunti perché essi sono ridotti al nulla. Cicerone ha buon gioco a mostrare che l’interlocutore si contraddice: egli infatti mostra di accettare il presupposto che i morti sono nulla, ma se essi sono nulla è impossibile che la morte sia per loro un male: sarebbe un male se essi fossero qualcosa e non nulla (cum enim miserum esse dicis, tum eum qui non sit dicis esse). L’interlocutore, indotto in contraddizione, pensa di non essersi espresso bene e torna altre volte sullo stesso concetto di partenza formulandolo di volta in volta diversamente: 1) miserum esse verbi causa M. Crassum, qui illas fortunas morte dimiserit, miserum Cn. Pompeium, qui tanta gloria sit orbatus, omnis denique miseros, qui hac luce careant; 2) non dico fortasse quod sentio; nam istuc ipsum, non esse cum fueris, miserrimum puto. Cicerone ogni volta evidenzia nell’interlocutore la medesima contraddizione: egli afferma che la stessa cosa allo stesso tempo è e non è: 1) revolveris eodem. sint enim oportet, si miseri sunt; tu autem modo negabas eos esse qui mortui essent. si igitur non sunt, nihil possunt esse; ita ne miseri quidem sunt; 2) pugnantia te loqui non vides? Quid enim tam pugnat, quam non modo miserum, sed omnino quicquam esse qui non sit? Va detto che questo passo è particolarmente congestionato dal continuo ritorno dello stesso modulo dialogico, tanto che Giusta (1969), 437–499 (praesertim 462–464) pensava che una di queste sezioni risalisse ad una precedente redazione del passo erroneamente inserita nel testo definitivo. E una cosa analoga Giusta pensava per le ripetizioni contenute in Tusc. I 34, 82–46, 111 (cf. la soluzione editoriale adottata da Giusta (1984) in entrambe queste sezioni del primo libro delle Tusculanae). Tuttavia, anche ammettendo questa eventualità, la stessa movenza argomentativa ricorrerebbe pur sempre più di una volta; e, soprattutto, il motivo della ripetizione è esplicitamente tematizzato da Cicerone, fatto che induce ad essere particolarmente prudenti, in questo caso, nel postulare l’intrusione di materiale proveniente da diverse redazioni della stessa opera.

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Saggio introduttivo

del corpo. A 369d3–4, invece, Assioco lamenta solo 1) la paura di perdere i beni della vita. Non può essere un caso che, dei due argomenti dell’insensibilità sviluppati sotto forma di ἔλεγχος da parte di Socrate, soltanto il primo, quello di 365d1–e2, contenga un riferimento alla decomposizione del corpo, del tutto assente nel secondo (369e3–370b1), incentrato soltanto sul tema del dolore e della privazione a livello più generale. Si ha, dunque, l’impressione che questa differenza rappresenti una vera e propria progressione nel processo di consolazione di Assioco: il primo argomento dell’insensibilità riesce per lo meno a liberarlo dalla paura della decomposizione del corpo. Tuttavia, Assioco non accetta la portata più generale del ragionamento di Socrate e così torna a lamentare la paura della perdita dei beni della vita, una reazione di fronte alla quale Socrate sviluppa nuovamente l’ἔλεγχος precedente, prima di cambiare presupposto e affrontare il tema dell’immortalità dell’anima. L’ipotesi di Immisch della variante autoriale, dunque, è da rigettare. E lo stesso si può dire delle altre sue proposte di traslocazione.156 Tuttavia, il comprensibile scetticismo che la ricostruzione di Immisch ha sollevato ha

156 Immisch riteneva che soltanto l’ultima parte della sezione (9) costituisse una variante d’autore. Il resto della sezione, a partire da ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος era da lui considerato la naturale prosecuzione dell’argomento dell’insensibilità, come anche noi abbiamo sostenuto. Di conseguenza, Immisch stampava su due colonne affiancate gli argomenti di 365d1-e2 e di 369e3– 370b1, cui faceva seguire il resto della sezione (9). Non tutta la sezione, però: Immisch, infatti, riteneva che la battuta di Assioco di 369d1-e2 non fosse la replica all’argomento secondo cui la morte non è un problema né per i vivi né per i morti, bensì la replica all’ἐπίδειξις di Prodico. Di conseguenza questa battuta di Assioco era a sua volta scorporata dalla sezione (9) e collegata alla fine della sezione (8): per favorire la sutura tra la sezione (8) e la battuta di Assioco di 369d1e2 Immisch postulava una lacuna tra queste due parti del dialogo. Allo stesso tempo Immisch riteneva che il primo argomento dell’immortalità dell’anima, quello della sezione (4), non potesse precedere l’ἐπίδειξις di Prodico. Di conseguenza il primo argomento dell’immortalità dell’anima era trasposto da Immisch immediatamente dopo la battuta di Assioco di 369d1-e2, che, come si è visto, a sua volta era stata trasposta dopo la sezione (8). Così facendo l’argomento dell’immortalità dell’anima della sezione (4) veniva a trovarsi a contatto con l’argomento dell’immortalià dell’anima della sezione (10) che lo seguiva immediatamente, anche se, per rendere meno abrupto il passaggio da un argomento all’altro, Immisch postulava l’esistenza di una seconda lacuna. D’altra parte, dopo queste due trasposizioni, la sezione (9), si trovava ad essere trasposta nella prima parte del dialogo fino a 369d1 e ad essere seguita dalla battuta di Assioco di 366b2–4 della sezione (5), la quale, però, presuppone che poco prima Socrate abbia detto che la vita è un male, cosa che non avviene nella parte della sezione (9) che termina a 369c7. Ciò induceva Immisch a postulare una terza lacuna tra

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6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

avuto il torto di trascurare la validità diagnostica dell’ipotesi dell’incompiutezza dell’opera, del disordine testuale e della “pubblicazione” postuma del dialogo.

6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa 6.1. Il metodo consolatorio adottato dal Socrate dell’Assioco è di carattere pragmatico-empirico. Egli osserva nel suo interlocutore un forte disagio provocato dalla paura della morte. Per risolvere questo disagio Socrate non adotta una soluzione univoca. Egli ha a disposizione una serie di argomenti, di cui si tratta di provare l’efficacia concreta. Nel fare ciò Socrate verifica che alcuni di essi non hanno effetto sul suo interlocutore. Sia l’esortazione ad accettare la morte come un fatto naturale (365b1–8), sia il ragionamento epicureo sull’insensibilità (365d1-e2, 369b5–370b1) non raggiungono l’obiettivo di liberare Assioco dall’infelicità che gli procura la consapevolezza di dover morire, per quanto razionalmente egli riconosca ad essi un certo valore.157 Assioco non dice perché questi argomenti non lo consolano. Ciò è presentato come un dato di fatto. queste due parti del dialogo. La ragione che spingeva Immisch a compiere questa serie di trasposizioni era che egli pensava che l’ἐπίδειξις con la deploratio vitae dovesse essere annoverata tra gli argomenti che non sortiscono alcun effetto su Assioco. Di conseguenza, era necessario che l’ἐπίδειξις fosse seguita da una battuta in cui Assioco mostrava la sua insoddisfazione e, allo stesso tempo, era necessario che i due argomenti dell’immortalità dell’anima non fossero separati dall’ἐπίδειξις. In verità, come si è detto supra pp. 54-55, l’ἐπίδειξις può benissimo essere inclusa tra gli argomenti che alla fine convincono Assioco, non essendo per nulla incompatibile con la tesi dell’immortalità dell’anima (cf. anche il commento a 366a8-b1). Né, come si è visto, la battuta di Assioco di 366b2–4 implica un vero e proprio rifiuto del primo argomento dell’immortalità dell’anima. Invece, ammettendo la trasposizione della sezione (9) secondo la nostra proposta, il primo argomento dell’immortalità dell’anima si trova ad essere idealmente collegato al secondo argomento dell’immortalità dell’anima passando per l’ἐπίδειξις di Prodico. Questa nostra spiegazione rende del tutto superflua la trasposizione del primo argomento dell’immortalità dell’anima e della battuta di Assioco di 369d1-e2, e permette di evitare la complicazione delle lacune postulate da Immisch. Resta piuttosto abrupto il passaggio dalla sezione (8) alla sezione (10), ma, come si è detto, ciò si verifica in ogni caso, a prescindere, cioè, dall’ordine adottato e si può spiegare facilmente in ragione dell’incompiutezza dell’opera. 157 Cf. 365c1–4, Ἀληθῆ ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων, ἀλλ’ οὐκ οἶδ’ ὅπως παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν γενομένῳ οἱ μὲν καρτεροὶ καὶ περιττοὶ λόγοι ὑπεκπνέουσιν λεληθότως καὶ ἀτιμάζονται, e 369d1–3, Σὺ μέν ἐκ τῆς

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Saggio introduttivo

Allora Socrate ricorre all’argomento dell’immortalità dell’anima. In questo modo egli riesce a liberare Assioco dalla paura della morte.158 Tuttavia, anche in questo caso Assioco non dice perché l’argomento dell’immortalità dell’anima lo consola. Semplicemente ciò accade. Socrate, dunque, rivolge ad Assioco diversi argomenti tradizionalmente utilizzati per risolvere il problema della paura della morte. Al termine del processo osserva che solo quello dell’immortalità dell’anima risolve il problema del suo interlocutore. La validità dei singoli argomenti non è assunta a priori, ma si mostra concretamente nella loro efficacia nel liberare dalla paura della morte. Questo metodo è coerente con la prudenza scettica con cui Socrate si pone nei confronti del primo argomento dell’immortalità dell’anima. Egli afferma di non avere alcuna conoscenza certa intorno ai contenuti dell’argomento da lui presentato ma di dipendere dall’insegnamento del sofista Prodico.159 Socrate, cioè, si limita ad applicare gli strumenti culturali approntati per affrontare il problema della morte che trova intorno a sé.160 Questo atteggiamento non comporta un’adesione ai loro contenuti. Allo

ἐπιπολαζούσης τὰ νῦν λεσχηνείας τὰ σοφὰ ταῦτα προῄρηκας· ἐκεῖθεν γάρ ἐστιν ἥδε ἡ φλυαρολογία πρὸς τὰ μειράκια διακεκοσμημένη. Cf. Warren (2004), 214: «Axiochus admits that these are clever arguments, but he remains critical of their therapeutic powers». 158 Cf. 370d7-e4, Εἰς τοὐναντίον με τῷ λόγῳ περιέστακας· οὐκέτι γάρ μοι θανάτου δέος ἔνεστιν, ἀλλ’ ἤδη καὶ πόθος· -ἵνα τι κἀγὼ μιμησάμενος τοὺς ῥήτορας περιττὸν εἴπω- {καὶ} πάλαι μετεωροπολῶ καὶ δίειμι τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον, ἔκ τε τῆς ἀσθενείας ἐμαυτὸν συνείλεγμαι καὶ γέγονα καινός. 159 Cf. 366b5-c1, Ἀξίοχε, σὺ δὲ οὐκ ἔτυμά μοι μαρτυρεῖς, οἴει δὲ καθάπερ Ἀθηναίων ἡ πληθύς, ἐπειδὴ ζητητικός εἰμι τῶν πραγμάτων, ἐπιστήμονά του εἶναί με· ἐγὼ δὲ εὐξαίμην ἂν τὰ κοινότατα εἰδέναι, τοσοῦτον ἀποδέω τῶν περιττῶν· καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω Προδίκου ἐστὶν τοῦ σοφοῦ ἀπηχήματα. 160 La maggior parte degli argomenti utilizzati da Socrate viene fatta risalire a Prodico: ciò vale tanto per gli argomenti dell’insensibilità (369b6–8, ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος κτλ.), quanto per quelli dell’immortalità dell’anima (cf. 366c1, καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω Προδίκου ἐστὶν τοῦ σοφοῦ ἀπηχήματα). Il secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-d6) non è attribuito esplicitamente a Prodico. Tuttavia, nella ricostruzione dell’ordine delle sezioni del dialogo qui proposta, esso si collega direttamente alla deploratio vitae attribuita a Prodico. E, in ogni caso, l’espressione con cui questo secondo argomento dell’immortalità dell’anima è introdotto (370b1–2, πρὸς τῷ πολλοὺς καὶ καλοὺς εἶναι λόγους περὶ τῆς ἀθανασίας τῆς ψυχῆς) fa pensare alla ripresa di un argomento già circolante. Infine, il mito dell’Aldilà è stato riferito a Socrate dal mago persiano Gobria. Inoltre, si tenga conto del fatto che l’argomento dell’insensibilità è introdotto da Socrate nella forma dell’ἔλεγχος: egli, cioè, asseconda un presupposto (quello dell’insensibilità) implicitamente assunto dal suo interlocutore. Solo nel momento in cui questo presupposto risulta completamente (e ripetutamen-

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6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

stesso modo, Socrate espone il mito di Gobria come testimonianza dell’antica sapienza degli Iperborei intorno a ciò che attende gli uomini dopo la morte. Tuttavia, Socrate non aderisce incondizionatamente a questo racconto: esso si presenta come una narrazione intorno all’immortalità dell’anima diversa e alternativa rispetto ad altre narrazioni, con le quale ha in comune la sola fede nell’immortalità dell’anima. Socrate, dunque, applica un filtro critico al mito di Gobria, ne prende le distanze con prudenza scettica, limitandosi a constatare l’efficacia consolatoria degli argomenti dell’immortalità dell’anima di fronte alla paura della morte.161 6.2. Come si vede, nell’Assioco l’effetto consolatorio è anzitutto un dato di fatto che prescinde dalla verità dei presupposti dei singoli argomenti. Tuttavia, nel processo consolatorio l’efficacia dell’argomento dell’immortalità dell’anima porta con sé, come una sorta di effetto collaterale, la persuasione della verità dei presupposti di questo argomento. Alla base di questa dinamica c’è l’assunto per cui la felicità non può essere in contrasto con la verità. Tuttavia, data l’impostazione scettica del dialogo, la verità in quanto tale non è conoscibile: in un certo senso, dunque, è la felicità prodotta dai singoli argomenti a dare una misura della verità contenuta negli argomenti medesimi. Ciò, tuttavia, comporta che alla persuasione di questa verità non si perviene per via razionale, ma in modo fondamentalmente istintivo.162

te) inefficace, si passa agli argomenti dell’immortalità dell’anima. Ciò spiega anche perché nella dinamica del dialogo la validità dell’argomento dell’insensibilità venga messa alla prova prima rispetto a quello dell’immortalità dell’anima. Cf. anche Benitez (2019), 19 e n. 9, il quale giustamente contesta l’assunto di O’Keefe (2006), 388–396 secondo cui gli argomenti di Socrate sarebbero presentati in propria persona. 161 Cf. 372a3–8, ταῦτα μὲν ἐγὼ ἤκουσα παρὰ Γωβρύου, σὺ δ’ ἂν ἐπικρίνειας, Ἀξίοχε. ἐγὼ γὰρ λόγῳ ἀνθελκόμενος τοῦτο μόνον ἐμπέδως οἶδα, ὅτι ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος· ἡ δὲ ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα καὶ ἄλυπος. ὥστε ἢ κάτω ἢ ἄνω εὐδαιμονεῖν σε δεῖ, Ἀξίοχε, βεβιωκότα εὐσεβῶς. Lo stesso Socrate sperimenta l’efficacia consolatoria degli argomenti dell’immortalità dell’anima. Tale efficacia si unisce ad una forte fede nella stessa immortalità dell’anima (su questa connessione tra efficacia consolatoria e fede nell’immortalità dell’anima cf. meglio infra pp. 69-72 e 85-86). Tuttavia, non si può escludere che il passo ὅτι ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος· ἡ δὲ ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα καὶ ἄλυπος sia corrotto e che l’affermazione dell’immortalità dell’anima da parte di Socrate sia meno decisa di quel che appare (cf. il commento ad loc.). 162 A questa dimensione istintiva e irrazionale nel dialogo si allude in modo vago attraverso i termini νοῦς e ψυχή (365c4–5, ἀντίσχει δὲ δέος τι ποικίλως περιαμύττον τὸν νοῦν, 366c8, ἐξ ἐκείνου θανατᾷ μου ἡ ψυχή, 369d5–6, οὐκ ἐπαΐει γὰρ ὁ νοῦς ἀποπλανώμενος εἰς εὐεπείας λόγων, 369d8-e2, τὰ δὲ παθήματα

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Saggio introduttivo

Così Assioco respinge gli argomenti dell’insensibilità in quanto non lo consolano e perciò istintivamente sente che sono privi di verità.163 Al contrario l’argomento dell’immortalità dell’anima è in grado di consolare concretamente Assioco, il quale, istintivamente è portato a convincersi che c’è della verità in questi argomenti.164 In questo modo, tuttavia, Assioco è anche portato a credere più nell’immortalità dell’anima che nella morte come completa insensibilità.165 Non si può, infatti, arrivare alla certezza razionale né che l’anima sia immortale né che non lo sia, senza cadere in un dogmatismo spiritualistico o materialistico. Però, la tesi dell’immortalità dell’anima è consolatoria, mentre quella della morte come completa insensibilità no, o comunque molto di meno. In ogni caso, per quel che si può vedere, l’adesione istintiva all’argomento più consolatorio non nasce da una sorta di illuminazione mistica. Essa sembra piuttosto ancorata ad una serie di convinzioni profonde più o meno inconsciamente assunte come evidenti, intuitive. Si tratta di convinzioni legate al senso comune: la morte è un male ed è inevitabilmente fonte di infelicità. Per questa ragione gli argomenti dell’insensibilità, gli argomenti epicurei, non riescono a liberare dalla paura della morte. Essi, per quanto possano apparire razionalmente consequenziali, con la loro pretesa di rendere felici appaiono illusori, perché è controintuitivo e innaturale elimina-

σοφισμάτων οὐκ ἀνέχεται, μόνοις δὲ ἀρκεῖται τοῖς δυναμένοις καθικέσθαι τῆς ψυχῆς). In questi casi i termini νοῦς e ψυχή non individuano una realtà precisa come avviene altrove, dove ψυχή indica un ente preciso, dotato di suoi attributi come quello dell’immortalità (ad esempio a 365e4, 365e6, 366a6, 370a7–8, 370b2, 370c5, 372a5). Essi si limitano, bensì, ad evocare in modo indefinito il centro delle attività spirituali umane, delle convinzioni e dei desideri più profondi, che altrettanto imprecisamente potremmo chiamare “spirito” o “animo” (cf. anche il commento ad locc.). È particolarmente interessante che a questo scopo sia utilizzato il termine νοῦς, tradizionalmente connesso alla dimensione intellettiva e razionale. Ciò sembra presupporre una visione non rigidamente dicotomica tra razionalità e irrazionalità, intelletto e istinto, ma una loro sostanziale, profonda compenetrazione. 163 Cf. 369d5-e2, οὐκ ἐπαΐει γὰρ ὁ νοῦς ἀποπλανώμενος εἰς εὐεπείας λόγων, οὐδὲ ἅπτεται ταῦτα τῆς ὁμοχροίας, ἀλλ’ εἰς μὲν πομπὴν καὶ ῥημάτων ἀγλαϊσμὸν ἀνύτει, τῆς δὲ ἀληθείας ἀποδεῖ· τὰ δὲ παθήματα σοφισμάτων οὐκ ἀνέχεται, μόνοις δὲ ἀρκεῖται τοῖς δυναμένοις καθικέσθαι τῆς ψυχῆς. 164 Cf. 372a9–13, τοσοῦτον γὰρ ἀποδέω τοῦ δεδοικέναι τὸν θάνατον, ὥστε ἤδη καὶ ἔρωτα αὐτοῦ ἔχειν· οὕτως με καὶ oὗτος ὁ λόγος, ὡς καὶ ὁ οὐράνιος, πέπεικε· καὶ ἤδη περιφρονῶ τοῦ ζῆν, ἅτε εἰς ἀμείνω οἶκον μεταστησόμενος. Cf. anche 370d7e4, citato supra p. 68 n. 158. 165 Lo stesso vale per Socrate, il quale nel condurre la consolazione, perviene a sua volta alla medesima persuasione.

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re la paura della morte senza eliminare concretamente la morte medesima.166 Al contrario, l’argomento dell’immortalità dell’anima promette un concreto superamento dell’esperienza della morte, non solo una sua sospensione logica. Per questo esso produce un’effettiva consolazione, soddisfacendo l’assunto intuitivo del senso comune per cui la consapevolezza di dover morire è inevitabilmente fonte di infelicità.167 Posto che non è possibile avere conoscenza certa né intorno all’immortalità dell’anima, né intorno alla morte come totale annullamento, a meno di non aderire, come si è detto, ad un dogmatismo o spiritualistico o materialistico, la consolazione

166 I limiti del ragionamento epicureo intorno alla morte sono stati rilevati, da punti di vista anche diversi tra loro, nell’antichità (cf. [Plut.] Cons. Apoll. 110a (=Arcesil. T 10 Mette = fr. 63 Vezzoli), χαρίεν γὰρ τὸ τοῦ Ἀρκεσιλάου· “τοῦτο” φησί “τὸ λεγόμενον κακὸν ὁ θάνατος μόνον τῶν ἄλλων τῶν νενομισμένων κακῶν παρὸν μὲν οὐδένα πώποτ’ ἐλύπησεν, ἀπὸν δὲ καὶ προσδοκώμενον λυπεῖ”; cf. inoltre Plut. Suav. 1091e-1092d e 1104c-1105b) e in età moderna (cf. Fallot (1977), 77 e n. 2; Timpanaro (1982), 188–189 e n. 48; Furley (1986), 75–91; Timpanaro (1988), 390–391; Warren (2004), 213–221 (ma tutto il volume di Warren offre una disamina analitica degli argomenti epicurei contro la paura della morte); Lohmar (2012), 155-181; per una convinta difesa di questi argomenti cf. invece Alberti (1990), 151–206). È particolarmente degno di nota che l’argomento epicureo contro la paura della morte fu discusso nell’ambito dell’Accademia ellenistica (oltre al frammento di Arcesilao, che curiosamente Mette colloca nella sezione “T”, occorre tenere presente che il Non posse plutarcheo sembra essere stato influenzato da fonti accademiche: cf. il commento a 366a2–4). Sarebbe troppo facile ironizzare come fa O’Keefe (2006), 397–398 n. 14 sulla pochezza intellettuale di Assioco che non si lascia consolare dagli argomenti “epicurei”, troppo astratti per lui, mentre accetta quelli dell’immortalità dell’anima. In generale, il contributo di O’Keefe (2006) è inficiato dall’assunto del tutto infondato che l’autore dell’Assioco abbia voluto rappresentare la consolazione di un soggetto particolarmente stupido, refrattario al pensiero razionale (cf. le giuste obiezioni di Benitez (2019), 26–30). 167 È degno di nota a questo proposito che il primo argomento dell’immortalità (365e2–366b1) lascia Assioco interdetto (cf. anche il commento ad loc.). Solo il secondo argomento dell’immortalità (370b2–370d6) sblocca definitivamente la situazione (per quanto la dinamica consolatoria abbia uno sviluppo più complesso: cf. supra pp. 55-56). La differenza tra il primo e il secondo argomento dell’immortalità dell’anima sta nel fatto che il primo espone dogmaticamente un’antropologia fondata su una teoria degli elementi, mentre il secondo fa appello all’esperienza e al senso comune, richiama cioè l’attenzione di Assioco a tutta una serie di esperienze legate alle capacità umane, per le quali è difficile trovare una spiegazione pienamente evidente ed esaustiva in termini puramente fisico-materialistici.

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Saggio introduttivo

prodotta dalla speranza dell’immortalità dell’anima innesca una fede istintiva in questa immortalità. Ma anche questa fede non pare un’acquisizione definitiva. Alla fine del dialogo, Assioco dopo essersi detto pienamente convinto dall’argomento dell’immortalità dell’anima, afferma che tornerà a meditare su quegli argomenti, chiedendo a Socrate di recarsi nuovamente da lui verso mezzogiorno, verosimilmente per riprendere la conversazione.168 Anche l’efficacia dell’argomento dell’immortalità dell’anima, dunque, richiede un continuo processo di riflessione e di ricerca compatibile con la prospettiva scettica mostrata da Socrate in altri luoghi del dialogo: la fede nell’immortalià dell’anima è una persuasione che si confronta continuamente con l’insorgere del dubbio.169 6.3. La dinamica consolatoria dell’Assioco presenta una forte somiglianza con quella del primo libro delle Tusculanae di Cicerone. Non si tratta di una somiglianza di contenuti, che pure esiste ed è stata notata dalla critica. Questa somiglianza, come si è visto, non è particolarmente produttiva per chiarire i rapporti tra questi due testi.170 Si tratta, invece, di una fortissima vicinanza strutturale tra queste due opere. Sia nell’Assioco sia nel primo libro delle Tusculanae si possono individuare due macro-sezioni legate a due visioni della realtà diametralmente opposte: da un lato si argomenta che la morte non è un male in quanto con la morte viene meno ogni forma di sensibilità; dall’altro si argomenta che la morte non è un male in quanto l’anima è immortale e con la morte incomincia una vita migliore di quella terrena.171 Questo schema argomentati-

168 Cf. 372a13–14, νυνὶ δὲ ἠρέμα κατ’ ἐμαυτὸν ἀναριθμήσομαι τὰ λεχθέντα. ἐκ μεσημβρίας δὲ παρέσῃ μοι, ὦ Σώκρατες. 169 Il tema della persuasione emerge in punti particolarmente sensibili del dialogo (369d3–5, ἐμὲ δὲ ἡ στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν λυπεῖ, κἂν πιθανωτέρους τούτων λόγους ἀρτικροτήσῃς, ὦ Σώκρατες, 372a11–12, οὕτως με καὶ oὗτος ὁ λόγος, ὡς καὶ ὁ οὐράνιος, πέπεικε). Sulla centralità del tema della persuasione nell’Accademia ellenistica a partire da Carneade cf. e.g. Brittain (2001), 270, con ulteriori riferimenti bibliografici. 170 Cf. supra pp. 30-42. 171 Nell’Assioco l’argomento dell’insensibilità è sviluppato in 365d1-e2 e in 369b5– 370b1, mentre quello dell’immortalità dell’anima in 365e2–366b1 e in 370b1– 370de4. In Cicerone l’argomento dell’immortalità dell’anima è sviluppato in Tusc. I 12, 26–33, 81, quello dell’insensibilità in Tusc. I 34, 82–46, 111 (quest’ultimo era già stato sviluppato in Tusc. I 5, 9–7, 13, ma in quel caso si discuteva del problema se la morte sia un male per chi è già morto, una sorta di preambolo rispetto al tema principale del libro, se, cioè, la morte debba essere temuta da chi è vivo). Ciò non significa naturalmente che lo sviluppo di questo schema di fon-

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vo fa parte della tradizione consolatoria e lo si può far risalire almeno all’Apologia platonica.172 Tuttavia, l’Assioco e il primo libro delle Tusculanae sono accomunati dal fatto che la macro-sezione che sviluppa il tema della morte come completa insensibilità assume la forma dell’ἔλεγχος. L’interlocutore sembra accettare il presupposto secondo cui la morte comporta la completa ἀναισθησία. Quindi, sia lo pseudo-Platone, sia Cicerone mostrano che avere paura della morte è contraddittorio rispetto al presupposto di partenza.173 D’altra parte, la macro-sezione che sviluppa il tema dell’immortalità dell’anima si artido sia in tutto e per tutto lo stesso nei due testi: in Cicerone, infatti, i due argomenti sono sviluppati per mostrare che in ogni caso, quale che sia la posizione di partenza sulla questione della sopravvivenza dell’anima, la morte non è un male (cf. Tusc. I 11, 23, efficiet enim ratio ut, quaecumque vera sit earum sententiarum quas exposui, mors aut malum non sit aut sit bonum potius). Nell’Assioco questa impostazione è in un certo senso presupposta, ma resta sullo sfondo (cf. infra pp. 76-77 n. 185): non si nega che l’argomento dell’insensibilità abbia una sua validità “razionale” (altrimenti non si vedrebbe perché lo pseudo-Platone lo faccia ripetere a Socrate: cf. anche Isnardi Parente (1961), 39 e il frammento di Arcesilao citato supra p. 71 n. 166), ma assai più che nel primo libro delle Tusculanae emergono i limiti della forza consolatoria dell’argomento epicureo e il maggiore valore consolatorio della tesi dell’immortalità dell’anima. Questa differenza può essere almeno in parte ricondotta alla diversità delle situazioni in cui i due dialoghi sono stati ambientati: nel caso di Cicerone, nonostante la gravità del tema, abbiamo a tutti gli effetti una distesa discussione tra amici che si svolge nel tempo libero passato in una villa di campagna, nell’Assioco invece Socrate deve intervenire con urgenza al capezzale di un Assioco che è effettivamente sconvolto dalla paura della morte. Data la diversità delle situazioni concrete è naturale che le due conversazioni, pur strutturate in astratto secondo un analogo schema argomentativo, presentino due svolgimenti leggermente diversi. 172 Cf. Plat. Ap. 40c-e. Naturalmente ciò non significa che l’Apologia a sua volta non riutilizzasse uno schema già formato (sulla questione cf. de Strycker, Slings (1994), 216–232). Si tratta della cosiddetta “alternativa socratica” (l’espressione si deve a Hoven (1971), 114: «alternative socratique»). In generale su questo schema cf. Kuiper (1925), 116; Kassel (1958), 76–77 e n. 1; Hoven (1971), 114 e nn. 1–8; Kurth (1995), 109–110; Setaioli (1997), 328 e 330–331 e Setaioli (1999), 151. Sul suo riuso nell’Assioco cf. Isnardi Parente (1961), 38. Per quel che si può vedere da ciò che si è conservato della letteratura greco-latina, solo lo pseudo-Platone e Cicerone sviluppano lo schema dell’alternativa socratica in forma dialogica: la loro è di fatto una drammatizzazione del contenuto tradizionale dei discorsi consolatori (cf. anche O’Keefe (2006, 400: «The Axiochus dramatizes a therapeutic argumentative practice»). 173 In questa sezione del libro (Tusc. I 34, 82–46, 111) l’ἔλεγχος non vede la partecipazione diretta dell’interlocutore: Cicerone ricorre all’espediente di un interlocutore fittizio che non riesce a convincersi del fatto che la morte non deve essere temuta perché una volta morto non potrà neppure dolersi dell’essere morto.

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Saggio introduttivo

cola in entrambi i casi in una serie di argomenti provenienti da diverse fonti: attraverso la presentazione di questi argomenti lo pseudo-Platone e Cicerone mostrano che, se l’anima sopravvive, non bisogna avere paura della morte, la quale non solo non risulta essere un male, ma è anzi un bene. Nei due autori, inoltre, si trovano un’impostazione metodologica e un orientamento filosofico di fondo estremamente simili.174 Anche Cicerone deve convincere il suo interlocutore del fatto che la morte non deve essere temuta. Per far questo egli non presenta una soluzione univoca, ma sviluppa degli argomenti fondati su presupposti opposti tra loro. Nessuno di questi argomenti è presentato a priori come certo. Nondimeno, nel corso della discussione emerge che alcuni argomenti sono più convincenti di altri.175 Nel corso dell’esposizione l’interlocutore di Cicerone non solo si convince del fatto che la morte non deve essere temuta, ma mostra la propria preferenza per l’argomento dell’immortalità dell’anima rispetto a quello dell’insensibilità.176 Tuttavia, Cicerone avverte il suo interlocutore del fatto che, per quanto l’argomento dell’immortalità dell’anima gli sia parso convincente, l’oscurità della materia trattata non mette al riparo da vacillamenti e incertezze.177 Lo stesso interlocutore di Cicerone ha a suo tempo sperimentato che persino gli argomenti dell’immortalità dell’anima contenuti nel Fedone non mettono al riparo dall’insorgere del dubbio e dal ritorno della paura.178 Ciò significa che anche quando un argomento pare pienamente convincente, il processo di riflessione su un determinato problema non può essere ritenuto concluso. Anche l’argomento dell’immortalità dell’anima, dunque, andrà rimeditato e la sua persuasività nuovamente verificata ogni

174 Cf. anche Erler (2005), 87: «In der Tat erinnert der Axiochos nicht nur bei bestimmten Topoi, sondern auch methodisch an die Tusculanen Ciceros». 175 Cf. Tusc. I 9, 17, Geram tibi morem et ea quae vis, ut potero, explicabo, nec tamen quasi Pythius Apollo, certa ut sint et fixa quae dixero, sed ut homunculus unus e multis probabilia coniectura sequens. ultra enim quo progrediar, quam ut veri similia videam, non habeo; certa diceant ii, qui et percipi ea posse dicunt et se sapientis esse profitentur. Su questo passo cf. Lévy 1992, 447. 176 Cf. Tusc. I 17, 39, Errare mehercule malo cum Platone, quem tu quanti facias scio et quem ex tuo ore admiror, quam cum istis [scil. gli Epicurei] vera sentire, Tusc. I 32, 78, me nemo de inmortalitate depellet. 177 Cf. Tusc. I 32, 78, Movemur enim saepe aliquo acute concluso, labamus mutamusque sententiam clarioribus etiam in rebus; in his est enim aliqua obscuritas. id igitur si acciderit simus armati. 178 Cf. Tusc. I 11, 24, citato infra p. 78. A ben vedere quella prospettata da Cicerone non è soltanto una posizione teoretica, ma anche un metodo di lettura dei dialoghi platonici, i cui contenuti andranno continuamente interrogati.

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6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

volta in cui il dubbio e la paura prendono il sopravvento. Ma questa impostazione intellettuale è molto simile a quella che si è potuta osservare nell’Assioco. 6.4. La profondità di queste somiglianze non può essere ridotta ad un semplice rapporto tra testi, quale potrebbe essere la dipendenza di Cicerone dall’Assioco o dei due autori da un modello comune.179 Essa si spiega meglio alla luce del fatto che l’Assioco e il primo libro delle Tusculanae risentono dello stesso milieu culturale.180 Ora, come è noto Cicerone fu allievo di Filone di Larissa durante il periodo romano di quest’ultimo. Sembra, inoltre, che da Filone Cicerone abbia appreso quella forma di probabilismo e di scetticismo moderato che caratterizza larga parte della sua produzione filosofica.181 Proprio nelle Tusculanae è stata rinvenuta con buone ragioni l’impronta dell’impostazione filosofica di Filone.182 Alla luce di tutto ciò, pare più che ragionevole ritenere che l’Assioco sia nato nell’ambito della scuola di Filone di Larissa, ultimo scolarca dell’Accademia. In questa direzione sembra andare anche il fatto che l’Assioco è compatibile con l’interesse di Filone per problemi di etica pratica. Filone paragonava il ruolo del filosofo a quello del medico. Come il medico si occupa della

179 Ciò naturalmente non esclude che un rapporto diretto tra questi due testi ci sia stato. Ma questo fatto di per sé non è sufficiente a spiegare la ragione per cui Cicerone avrebbe deciso di riprendere proprio quest’opera (cf. infra pp. 77-79). 180 Le somiglianze che abbiamo osservato sono di tale entità che viene da chiedersi se non si possa pensare che l’autore dell’Assioco sia Cicerone stesso (come è noto, Cicerone compose in greco un ὑπόμνημα sul proprio consolato: cf. Lendle (1967), 90–100; sulla conoscenza del greco da parte di Cicerone cf. inoltre Boyancé (1956), 122; Kaimio (1979), 232–234 e Dubuisson (1992), 194). Tuttavia, grazie all’enorme produzione che di Cicerone è sopravvissuta, e soprattutto grazie all’epistolario, siamo informati sulla sua vita (e sulla sua produzione letteraria) tanto quanto, e forse anche più di quanto siamo informati su personaggi storici vissuti anche solo un secolo fa. Eppure, non ci sono indizi, nella pur copiosa documentazione, che possano far pensare che le forti corrispondenze tra l’Assioco e il primo libro delle Tusculanae siano dovute alla coincidenza dell’autore. 181 Sul debito di Cicerone nei confronti di Filone cf. e.g. Moreschini (1969), 433– 434 e Lévy (1992), 96–126. In generale sul rapporto tra Cicerone e il probabilismo accademico cf. anche Cambiano (2002), 77. Grilli (1971), 301–306 e Schofield (2002), 91–107 hanno visto nello schema di etica pratica di Filone conservato dallo Stobeo (cf. infra n. 183) una sorta di piano di lavoro seguito da Cicerone per la composizione delle proprie opere filosofiche (dove le Tusculanae rappresenterebbero il λόγος θεραπευτικός). 182 Cf. Lévy (1992), 446–467; Lévy (2002), 23–31 e Brittain (2001), 338 n. 79. Hirzel (1883), 479–492 aveva addirittura pensato che le Tusculanae riprendessero un’opera precisa di Filone.

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Saggio introduttivo

salute del corpo, così la filosofia cerca di assicurare il benessere interiore. In particolare, nell’ambito del λόγος θεραπευτικός, Filone indicava come compito del filosofo quello di eliminare dall’animo del paziente le opinioni generatesi in modo falso che affliggono la facoltà di giudizio (δι’ ἃς τὰ κριτήρια νοσοποιεῖται τῆς ψυχῆς) e di introdurre opinioni salutari.183 Per conciliare questo metodo di etica pratica con lo scetticismo moderato di Filone, lo si è accostato a quello praticato dai medici empirici, complice anche l’analogia sviluppata da Filone tra medicina e filosofia. Le opinioni vere (e quelle false) sono ritenute tali da un punto di vista pragmatico-empirico, non alla luce di un sistema di dottrine. In questo senso, tra le opinioni valide sul piano pragmatico-empirico rientrano anzitutto quelle conformi al senso comune. In ogni caso, si tratta di soluzioni che è sempre possibile rivedere alla luce dell’esperienza e del loro effetto pratico.184 Ora, questa impostazione presenta forti somiglianze con il metodo sviluppato dallo pseudo-Platone nell’Assioco. Ciò vale naturalmente per l’analogia tra medicina e filosofia, ma soprattutto per il metodo di cura di tipo pragmatico-empirico praticato da Socrate in cui, come si è visto, ha un peso non trascurabile il rispetto di nozioni intuitive, legate al senso comune, e in cui anche la cura si presta sempre a revisioni e ripensamenti.185

183 Stob. II 7, 2 (= T XXXII Brittain). 184 Cf. Brittain (2001), 255–295. Pare inoltre verosimile che Filone parlando di opinioni salutari intendesse le opinioni probabili, ovvero persuasive, e parlando di opinioni generatesi in modo falso intendesse posizioni dogmatiche (cf. Alesse (2013), 190). Questa lettura non è incompatibile con quella che accosta il metodo di etica pratica di Filone con quello dei medici empirici (cf. lo stesso Brittain (2001), 259–261). 185 Ciò senza togliere che, mentre il λόγος θεραπευτικός di Filone è concepito per contrastare una particolare forma di afflizione generata da opinioni sbagliate (nel senso che si è detto), la dinamica consolatoria dell’Assioco, come si è visto, si muove su due livelli: un livello primario circa la temibilità o meno della morte e un livello secondario sull’individuazione della ragione più persuasiva per cui la morte non deve essere temuta. Questa duplicità di livelli si riflette nella particolare forma argomentativa messa in opera dallo pseudo-Platone. Essa è stata accostata alla tecnica ampiamente praticata nell’Accademia scettica della disputatio in utramque partem (cf. Menchelli (2016), 123–128). Questo accostamento ha il merito di ricondurre il dialogo all’interno dell’ambiente dell’Accademia ellenistica. Tuttavia, non coglie pienamente nel segno. Nell’Assioco, infatti, non è presentata una discussione pro e contra rispetto ad una certa tesi, da cui risulta una sostanziale equipollenza tra una tesi e il suo contrario. Se così fosse si perverrebbe all’esito paradossale per cui non ci sono ragioni dirimenti per stabilire se la morte sia o non sia un male, debba o non debba essere temuta. La tecnica sviluppata dallo pseudo-Platone è dunque un’altra. Essa è piuttosto accostabile al contra propositum disputare (cf. Cic. Fat. 4; Fin. II 1, 1–2 e Tusc. I 4, 8). La tesi posta è “la

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6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

6.5. Tutto ciò naturalmente non esclude che Cicerone abbia anche effettivamente letto l’Assioco, come già pensava il Perionius. Quando Cicerone esorta il suo interlocutore a trovare conforto nella lettura del Fedone di Pla-

morte è un male e deve essere temuta”, l’obiettivo è mostrare che questa tesi è falsa. A tale scopo si ricorre ad ogni tipo di argomento, anche a quelli che presentano tra loro evidenti incompatibilità dottrinali, come l’argomento epicureo dell’insensibilità e quello dell’immortalità dell’anima. È questo fatto che può trarre in inganno e far parlare di disputatio in utramque partem. È pur vero, tuttavia, che, come si è visto, il dialogo presenta un’ulteriore dinamica interna: i diversi argomenti presentati da Socrate non sono semplicemente accumulati (e qui sta la differenza fondamentale con il tradizionale genere consolatorio); l’interlocutore di Socrate reagisce ad essi e orienta in questo modo la dinamica del dialogo. Da ciò emerge che alcuni argomenti sono più convincenti di altri. In particolare, nella dinamica del dialogo, si attiva un confronto indiretto tra i presupposti incompatibili degli argomenti addotti da Socrate (insensibilità vs. immortalità dell’anima). In questo senso, per certi aspetti, si recupera all’interno del contra propositum disputare anche qualcosa della disputatio in utramque partem. Resta fermo, tuttavia, che non è quest’ultima la struttura portante del dialogo. Senza contare che anche in quella sorta di surrettizia disputatio in utramque partem che vi si può rintracciare non si produce un’equipollenza tra le tesi contrapposte, ma una preferenza per una tesi specifica, quella dell’immortalità dell’anima. Questo intreccio di tecniche argomentative può essere messo in relazione con la natura del problema sollevato, cioè con un problema di etica pratica (come si fa concretamente ad essere felici, nonostante la consapevolezza di dover morire?). In questa situazione concreta va da sé che il metodo privilegiato non può essere la disputatio in utramque partem, ma il contra propositum disputare, una tecnica che permette di affrontare direttamente le ragioni di infelicità senza ricadere in una problematica sospensione del giudizio. Sull’uso di queste due tecniche argomentative nell’Accademia cf. Brittain (2001), 336–339. Da Cic. Fin. II 1, 2, risulta che il metodo del contra propositum disputare non era praticato da Arcesilao, ma fu introdotto in una fase più recente dell’Accademia, che continuava all’epoca di Cicerone. È ragionevole pensare con Lévy (2007), 17–21 e Maso (2014), 87–90 che Cicerone abbia appreso questo metodo da Filone di Larissa (sul debito che Cicerone ha nei confronti di Filone nella composizione delle Tusculanae cf. meglio supra p. 75 e nn. 181-182). O’Keefe (2006), 400–401, dopo aver osservato che «The most obvious parallel to the Axiochus lies in the writings of the skeptical academy, since both the Axiochus and the skeptical academy lay out the arguments of various philosophical schools on a topic», non ha sviluppato questa intuizione proprio sulla base del fatto che nell’Assioco non verrebbe sviluppata la tecnica della disputatio in utramque partem. Tuttavia, come si è visto, questa non era l’unica tecnica argomentativa praticata all’interno dell’Accademia scettica. Senza contare che O’Keefe (2006), 402–403 sottovaluta decisamente il carattere quantomento problematico di una risposta scettica “ortodossa” alla concreta paura della morte («suspending judgment on philosophical questions … such as whether there is an afterlife and whether death is by nature good or bad»).

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Saggio introduttivo

tone l’interlocutore risponde con una frase che è la ripresa puntuale della prima risposta di Assioco a Socrate: Ax. 365c1–3

Tusc. I 11, 24

Ἀληθῆ ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων, ἀλλ’ οὐκ οἶδ’ ὅπως παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν γενομένῳ οἱ μὲν καρτεροὶ καὶ περιττοὶ λόγοι ὑπεκπνέουσιν λεληθότως καὶ ἀτιμάζονται.

Feci mehercule, et quidem saepius, sed nescio quo modo, dum lego, adsentior, cum posui librum et mecum ipse de inmortalitate animorum coepi cogitare, adsensio omnis illa elabitur.

È poco verosimile che questa somiglianza sia dovuta a due riprese indipendenti di una fonte comune perduta. Non abbiamo qui, infatti, l’esposizione di una dottrina, la presentazione di un motto celebre o un luogo comune qualsiasi, ma una stessa movenza dialogica in cui due personaggi esprimono uno stato d’animo sostanzialmente identico.186 Pare molto difficile che sia esistito un terzo dialogo perduto che presentava un’analoga situazione ripresa in modo indipendente dallo pseudo-Platone e da Cicerone. Così come difficile pare che i due autori siano pervenuti indipendentemente l’uno dall’altro a questa formulazione. La conclusione più ragionevole, dunque, è che Cicerone abbia letto e utilizzato l’Assioco nella composizione del primo libro delle Tusculanae.187 186 La somiglianza tra i due passi è stata notata anche da Erler (2005), 88 e n. 45. 187 In astratto non sarebbe impossibile che fosse stato lo pseudo-Platone a riprendere Cicerone e non viceversa (e.g. sulla possibile conoscenza diretta dell’opera di Cicerone da parte di Plutarco cf. Scardigli (1979), 115). Tuttavia, con ogni verosimiglianza questa possibilità va esclusa. Cicerone, infatti, nel secondo libro delle Tusculanae ha ripreso anche il seguito della nostra battuta rivolta da Assioco a Socrate: Ax. 365c3–5, ἀντίσχει δὲ δέος τι ποικίλως περιαμύττον τὸν νοῦν εἰ στερήσομαι τοῦδε τοῦ φωτὸς καὶ τῶν ἀγαθῶν, cf. Cic. Tusc. II 4, 10, Etsi enim mihi sum conscius numquam me nimis vitae cupidum fuisse, t a m e n i n t e r d u m o b i ciebatur animo metus quidam et dolor cogitanti fore aliquando finem huius lucis et amissionem omnium vitae commodor u m (questa ripresa da parte di Cicerone era già stata notata da Grilli (1987), 202, il quale però pensava ad una dipendenza comune dei due autori da Crantore: sulla Krantorsfrage cf. supra pp. 33-38). Dobbiamo pensare che lo pseudo-Platone, avendo letto i primi due libri delle Tusculanae, abbia deciso di collegare questi due distinti luoghi ciceroniani, per di più provenienti da due libri diversi? Pare più verosimile che sia stato Cicerone ad aver letto l’Assioco e ad averne ripreso in due luoghi distinti due parti complementari dello stesso passo. Ciò pare tanto più probabile se si considera che la corrispondenza tematica e strutturale tra i due testi riguarda soltanto il primo libro delle Tusculanae e non anche il se-

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6. L’Assioco e l’Accademia di Filone di Larissa

Data l’impressionante somiglianza strutturale tra queste due opere pare verosimile che Cicerone abbia utilizzato lo pseudo-Platone come una sorta di traccia per la composizione del primo libro delle Tusculanae. Ciò non solo è perfettamente compatibile con l’idea di una composizione dell’Assioco all’interno dell’Accademia di Filone di Larissa, ma la conforta ulteriormente. Nell’antichità, infatti, l’Assioco non è mai stato un “classico” della letteratura filosofica come il Fedone o lo stesso Περὶ πένθους di Crantore. P e r quale ragione, dunque, Cicerone avrebbe ripreso l’impostazione di un’opera poco nota, se non per il fatto che quella particolare impostazione filosofica e argoment a t i v a e r a p e r l u i a t t u a l e e , p e r c o s ì d i r e , a g g i o r n a t a?188 Il fatto che Cicerone abbia ripreso l’Assioco e ne abbia seguito a grandi linee l’impostazione nella composizione di un’opera (il primo libro delle Tusculanae) che risente dell’insegnamento di Filone di Larissa si spiega proprio se si pensa che l’Arpinate sapeva che quella era l’impostazione del suo maestro accademico. 6.6. Questa conclusione permette di trovare un’ulteriore conferma alla nostra tesi sui problemi strutturali dell’Assioco.189 Cicerone, infatti, distingue molto accuratamente i due momenti della cosiddetta “alternativa socratica”, ovvero la sezione in cui si mostra che la morte non è un male se si parte dal presupposto che l’anima è immortale, e quella in cui si perviene alla medesima conclusione a partire dal presupposto che dopo la morte non esiste alcuna forma di sopravvivenza. Nell’Assioco ciò avviene solo a condizione di ammettere i problemi genetici che abbiamo osservato, cioè che la sezione (9) fosse stata pensata dall’autore per essere collocata tra le sezioni (3) e (4) e che l’errata dislocazione sia dovuta ad una “pubblicazione” non sorvegliata dall’autore. Se, tuttavia, Cicerone ha letto l’Assioco e l’ha utilizzato come “traccia” per la composizione del primo libro delle Tu-

condo, che tratta non del problema della morte, ma di quello del dolore. Non si vede, cioè, perché lo pseudo-Platone avrebbe dovuto fare questa “incursione” nel secondo libro delle Tusculanae. Al contrario ha senso che Cicerone, verso l’inizio del secondo libro, abbia alluso ancora una volta al testo che gli aveva offerto le linee guida per la composizione del primo libro (ciò senza contare che una sottile eco di un altro passo dell’Assioco (366a1) si può forse già osservare nel Somnium Scipionis: cf. il commento ad loc.). 188 Che Cicerone facesse attenzione ad essere aggiornato nella sua produzione filosofica, oltre ad essere un fatto di per sé verosimile, è suggerito e.g. da Acad. post. 4, 13, Certe enim recentissima quaeque sunt correcta et emendata maxime. 189 Cf. supra pp. 48-67.

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Saggio introduttivo

sculanae è verosimile che egli conoscesse una versione dell’Assioco in cui la sezione (9) era collocata tra le sezioni (3) e (4). Come si è visto, uno degli argomenti più forti a favore dello spostamento della sezione (9) dopo la sezione (3) è la continuità tematica e argomentativa che si produce nel passaggio da una sezione all’altra: dopo aver esemplificato l’argomento dell’insensibilità mediante il ricorso all’analogia con il tempo che precede la nascita, infatti, lo pseudo-Platone introduce una variazione del medesimo argomento mettendo in bocca a Prodico la massima epicurea secondo cui la morte non è un vero problema. Ebbene, un analogo movimento argomentativo si osserva anche nel primo delle Tusculanae: (3ex.) + (9in.) = 365e1–2 + 369b6–8

Tusc. I 38, 91

ὡς οὖν ἐπὶ τῆς Δράκοντος ἢ Κλεισθένους πολιτείας οὐδὲν περὶ σὲ κακὸν ἦν—ἀρχὴν γὰρ οὐκ ἦς, περὶ ὃν ἂν ἦν—οὕτως οὐδὲ μετὰ τὴν τελευτὴν γενήσεται· σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ περὶ ὃν ἔσται. + ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος ὅτι ὁ θάνατος οὔτε πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς μετηλλαχότας.” “Πῶς φῄς, ὦ Σώκρατες;” “Ὅτι περὶ μὲν τοὺς ζῶντας οὐκ ἔστιν, οἱ δὲ ἀποθανόντες οὐκ εἰσίν κτλ.

Natura vero se sic habet, ut, quo modo initium nobis rerum omnium ortus noster adferat, sic exitum mors, ut nihil pertinuit ad nos ante ortum, sic nihil post mortem pertinebit. + In quo quid potest esse mali, cum mors nec ad vivos pertineat nec ad mortuos? Alteri nulli sunt, alteros non attinget.

Se nella composizione del primo libro delle Tusculanae Cicerone ha tenuto presente la struttura dell’Assioco è verosimile che lo abbia fatto anche in questo punto. Ma, se così è, è ragionevole pensare che la copia dell’Assioco a lui nota presentava la sezione (9) proprio tra la sezione (3) e la sezione (4). Tuttavia, come si può conciliare questo fatto con la dislocazione della sezione (9), verosimilmente prodottasi al momento della “pubblicazione” dell’opera da parte di un redattore, e rimasta nella tradizione manoscritta? Si può immaginare che lo pseudo-Platone, quando stava lavorando alla composizione dell’Assioco, abbia fatto circolare un primo brogliaccio dell’opera in una cerchia di persone a lui familiari magari per ricevere pareri e suggestioni. Nel fare ciò egli dispose il materiale di lavoro secondo l’ordine argomentativo-concettuale che aveva in mente e che non corrisponde a

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7. La fine di un’epoca

quello conservato dalla tradizione medievale. Tuttavia, ciò implica che lo pseudo-Platone e Cicerone condividevano in qualche modo lo stesso milieu intellettuale.190 Si potrebbe persino supporre che il rapporto fosse diretto, cioè che lo pseudo-Platone abbia fornito direttamente a Cicerone una copia di quel suo dialogo ancora in fieri e che in seguito Cicerone l’abbia messa a frutto per la composizione del primo libro delle Tusculanae. Ma non si può escludere un altro tipo di mediazione. In una lettera ad Attico dell’8 marzo del 45, poco tempo dopo la morte della figlia Tullia e prima della composizione delle Tusculanae, Cicerone dichiara di aver letto tutto ciò che era stato scritto sul tema de maerore minuendo e dice di averlo fatto proprio nella biblioteca personale di Attico (Ep. Att. XII 14, 3, Quod me ab hoc maerore recreari vis, facis ut omnia; sed me mihi non defuisse tu testis es. nihil enim de maerore minuendo scriptum ab ullo est quod ego non domi tuae legerim). Certo l’Assioco poteva rientrare in questa categoria di scritti. Non si può escludere, dunque, che il bibliofilo Attico fosse in possesso di una copia del dialogo ancora incompiuto messa in circolazione dall’autore tra persone a lui note prima di morire.191

7. La fine di un’epoca 7.1. La critica delle varie attività della vita svolta da Socrate nella sezione centrale dell’Assioco culmina in una radicale svalutazione della vita politica (368c5–369b2). Questa svalutazione è rivolta più contro il δῆμος di Atene

190 Cf. Dorandi (2007), 65 citato supra p. 40 n. 98; cf. inoltre Canfora (2012), 18–19. 191 Va tenuto presente, inoltre, che le letture filosofiche di Cicerone non furono limitate alle tappe della sua formazione e al suo ritiro dalla vita politica negli ultimi anni di vita (45–44) a.C. Con maggiore e minore intensità, queste letture si protrassero per tutta la sua vita. La stessa composizione di un così gran numero di opere filosofiche da parte dell’Arpinate in un periodo di tempo molto contratto come quello compreso tra il 45 e il 44 si spiega verosimilmente con il riuso di appunti realizzati a partire dagli studi della gioventù e di letture fatte nel corso di una vita (certo senza trascurare l’ausilio di una allenatissima memoria): cf. Boyancé (1936), 288–309; Gould (1968), 83–96 e Timpanaro (19984), lxxviilxxxviii. Se dobbiamo prestar fede alle sue stesse parole, Cicerone non interruppe mai la sua consuetudine con le opere filosofiche anche quando egli era nel pieno della sua attività politica: cf. Acad. post. 3, 11, Ego autem -dicam, enim, ut res est- dum me ambitio, dum honores, dum causae, dum rei publicae non solum cura, sed quaedam etiam procuratio multis officiis implicatum et constrictum tenebat, haec (scil. philosophiae studia: cf. Reid (1885), 104) inclusa habebam et, ne obsolescerent, renovabam, cum licebat, legendo.

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Saggio introduttivo

che contro i politici. Lo pseudo-Platone distingue uomini politici che rimangono vittima del δῆμος (Milziade, Temistocle, Efialte, gli strateghi delle Arginuse) e demagoghi che sfruttano la violenza del δῆμος per perseguire scopi personali (Teramene e Callisseno). Ma il bersaglio principale sia di Socrate sia di Assioco è il popolo di Atene (cf. 368d2–369b2).192 È curioso che l’autore dell’Assioco dedichi tanto spazio alla polemica contro il δῆμος senza un’esigenza precisa. Ciò fa sospettare che questa tirata non sia un’amplificazione retorica gratuita o l’eco pedissequa della tendenza antidemocratica di una fonte da cui lo pseudo-Platone traeva informazioni sull’attività politica di Assioco, ma nasca da una motivazione contingente. Negli anni 88/7, nel pieno della prima guerra mitridatica, Atene attraversò una serie di rivolgimenti politici che portarono alla ribalta figure di tiranni-filosofi come il peripatetico Atenione e l’epicureo Aristione.193 Sotto la loro guida Atene, che fino ad allora aveva avuto una politica sostanzialmente filoromana, si schierò dalla parte di Mitridate. Ateneo conserva parte del resoconto che di quegli eventi fece il filosofo Posidonio, contemporaneo ai fatti (Ath. V 211d-215b = FGrHist 87 F 36 = fr. 247 Theiler = fr. 253 Edelstein-Kidd2). Tra le informazioni conservate c’è il racconto della presa del potere da parte di Atenione. Posidonio, riferendo un discorso di Atenione, mostra che costui faceva leva soprattutto sul sostegno delle masse popolari alimentando il rancore che queste nutrivano nei confronti dei possidenti e dei nuovi ricchi che avevano beneficiato degli accordi commerciali con i Romani.194 La politica estera filomitridatica e antiromana di Atenione, dunque, si accompagnò ad una politica interna che produsse una spaccatura tra il δῆμος di Atene insofferente nei confronti della dominazione romana e un’élite dirigente che con Roma condivideva interessi e legami.195

192 Cf. 368d2–369b2. Sui problemi di dettaglio posti da questa sezione del dialogo cf. il commento ad loc. 193 Cf. Candiloro (1965), 145–147. Per la distinzione delle due figure di Atenione ed Aristione cf. in particolare Candiloro (1965), 146 n. 45; cf. anche Bugh (1992), 108–123 (con ulteriore bibliografia). 194 Cf. e.g. Ath. V 213e, πολλῶν οὖν καὶ τοιούτων λεχθέντων ὑπὸ τοῦ οἰκότριβος, συλλαλήσαντες αὑτοῖς οἱ ὄχλοι καὶ συνδραμόντες εἰς τὸ θέατρον εἵλοντο τὸν Ἀθηνίωνα στρατηγὸν ἐπὶ τῶν ὅπλων, e Ath. V 214a, εὐθέως καὶ οὗτος τοὺς μὲν εὖ φρονοῦντας τῶν πολιτῶν [...] ἐκποδὼν εὐθὺς ἐποιήσατο. 195 Per un’analisi socio-politica del discorso di Atenione cf. Candiloro (1965), 145– 157.

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7. La fine di un’epoca

Almeno a partire dalla seconda metà del II secolo a.C. l’Accademia aveva sviluppato un saldo legame con la nobilitas romana.196 Non stupisce, dunque, che in quel frangente, di fronte ai rivolgimenti politici di Atene, lo scolarca in carica dell’Accademia, Filone di Larissa, abbia preso una decisione inaudita: dopo trecento anni di pressoché ininterrotta attività, i continuatori della scuola di Platone abbandonarono Atene e la storica sede dell’Accademia.197 La destinazione fu Roma dove lo scolarca si trasferì e riprese ad insegnare. Qui ebbe modo di avere tra i suoi allievi proprio il giovane Cicerone. La scelta di Roma non fu casuale. Essa si poneva in linea di continuità con lo stretto legame che l’Accademia aveva con l’intellighenzia romana. Difficilmente dei sostenitori del tiranno Atenione o di Mitridate avrebbero scelto di trasferirsi a Roma. Al tempo stesso, difficilmente Filone avrà approvato la politica demagogica antiromana in atto ad Atene. Più che al popolo di Atene sobillato dai suoi nuovi capi Filone si sarà sentito vicino alla vecchia classe dirigente filoromana. Non sarà un caso che quando Filone lasciò Atene egli non lo fece in solitudine, ma insieme ai rappresentati della vecchia élite dirigente.198 Vista alla luce di questi eventi si può comprendere la polemica condotta dall’autore contro il δῆμος di Atene. L’animosità che emerge dalle parole dello pseudo-Platone ha senso se si pensa alla sconvolgente esperienza vissuta: il rovesciamento del regime politico ha sovvertito la vita di una città, di un’istituzione secolare e degli uomini che ad esse erano legati. L’ostilità nei confronti dell’antico δῆμος ateniese del V secolo che mandava in esilio o condannava a morte ingiustamente i suoi strateghi, magari perché sobillato da demagoghi senza scrupoli, era animata dall’ostilità viva nei confron-

196 Cf. Lévy (1992), 74–96. 197 Dieci anni dopo l’assedio di Silla l’Accademia non era più sede della scuola: cf. Cic. Fin. V 1, 1, Cum autem venissemus in Academiae non sine causa nobilitata spatia, solitudo erat ea quam volueramus. Per un’accurata interpretazione del passo ciceroniano cf. Glucker (1978), 242. In generale cf. Caruso (2013), 53. 198 Cf. Cic. Brut. 89, 306, eodemque tempore [88 a.C.] cum princeps Academiae Philo cum Atheniensium optimatibus Mithridatico bello domo profugisset Romamque venisset etc. Per l’atteggiamento delle scuole filosofiche ateniensi in quel frangente storico cf. Candiloro (1965), 158–161 e Ferrary (1988), 435–494 (sull’Accademia cf. in particolare pp. 447–448 e 471–473). Con ciò non si vuole dire che l’Accademia di Filone fosse impegnata politicamente (contro una simile idea cf. Brittain (2001), 58–64). È degno di nota che Meister (1915), 115–116 aveva colto il carattere personale dell’ostilità dello pseudo-Platone nei confronti del δῆμος di Atene, ma aveva ricondotto questo fenomeno alla dipendenza dell’autore da Posidonio, notoriamente filoromano (cf. Zecchini (1989), 111–114).

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Saggio introduttivo

ti del contemporaneo δῆμος di Atene che, con i suoi capi, aveva portato la città alla distruzione. L’autore ha rivissuto la lontana storia dell’Atene del V secolo e ha ripreso i toni polemici di una lunga tradizione antidemocratica per dare voce ai sentimenti suscitati in lui dalla condotta politica del δῆμος di Atene nel corso della guerra mitridatica.199 7.2. Se l’Assioco fu composto da un Accademico influenzato dall’insegnamento di Filone di Larissa occorre prendere l’inizio dello scolarcato di Filone (110/9) come terminus post quem per la composizione del dialogo.200 Il terminus ante quem è invece rappresentato dalla data di composizione del primo libro delle Tusculanae (45 a.C.), che presuppone la conoscenza dell’Assioco da parte di Cicerone. Tuttavia, il fatto che Cicerone abbia in qualche modo potuto accedere ad una redazione del dialogo più corretta rispetto a quella che ci è pervenuta per tradizione diretta fa pensare che l’autore dell’Assioco sia stato attivo a Roma dopo la fuga di Filone da Atene. In questa direzione sembra andare anche la possibile eco delle vicende ateniesi della guerra mitridatica. Tutto ciò suggerisce di abbassare all’88 a.C. il terminus post quem per la composizione del dialogo. È difficile dire chi fu questo Accademico che morì prima di terminare il dialogo, questo Accademico strettamente legato alla cerchia di Cicerone tanto che Cicerone stesso potrebbe aver letto un brogliaccio dell’Assioco prodotto prima che l’opera fosse finita, questo Accademico che si confor-

199 Che la retorica politica dell’Atene classica (non solo quella antidemocratica) fosse ben presente in quel frangente storico emerge dallo stesso discorso di Atenione riportato da Posidonio (cf. Canfora (1999), 56: «per quanto caricaturale, l’intervento di Atenione aiuta a comprendere un meccanismo storico: come quel “grande passato” venisse purtuttavia usato politicamente -in un momento di riscossa- in una Atene di cui proprio le parole di Atenione documentano quanto fossero decadute le strutture e il costume dell’antica democrazia»). Lo stesso Posidonio allude a Dem. Or. 19 (De falsa legatione) 314 paragonando Atenione a Pitocle: cf. Canfora (1999), 55. 200 Per la cronologia della vita di Filone cf. Dorandi (1991), 17–20 e Brittain (2001), 38–70. Secondo la ricostruzione tradizionale Filone sarebbe vissuto per 74 (Dorandi) o 75 (Brittain) anni. Recentemente Kilian Fleischer ha scoperto che nella colonna 33 di PHerc. 1021 si legge per due volte che Filone visse per 63 anni (cf. Fleischer (2017a), 335–366). Tuttavia, lo stesso Fleischer sembra propendere per l’idea che questa indicazione sia errata e che si debba conservare la cronologia tradizionale. Inoltre, se anche si accetta il dato dei 63 anni, ciò comporterebbe un abbassamento della data di nascita, non l’alterazione della data di inizio dello scolarcato o della data di morte (84/3). Va da sé che se l’Assioco fosse stato composto da Filone medesimo prima di morire, ciò vorrebbe dire che è stato composto tra l’88 e l’84/3 a.C.

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7. La fine di un’epoca

mava all’insegnamento di Filone di Larissa. La risposta più semplice è che si tratti di Filone medesimo. Si può immaginare Filone che, dopo aver abbandonato Atene ed essersi trasferito a Roma, si confronta con una nuova realtà in cui filosofie concorrenti come l’epicureismo avevano ampio seguito. Negli ultimi anni di vita il vecchio scolarca, segnato e ancora amareggiato dai fatti di Atene di qualche anno prima, decide di intraprendere una riflessione su un problema di etica pratica: come si può superare l’infelicità causata dalla paura della morte? Il tema gli offre la possibilità di rimarcare i limiti dell’epicureismo e di ribadire la preferibilità di uno scetticismo moderato. Il vecchio scolarca si sente alla guida di un’istituzione unitaria che ai suoi occhi non si è mai allontata dall’insegnamento di Platone. Il suo stesso scetticismo moderato vuole essere la corretta interpretazione e l’attuazione nel presente della filosofia di Platone. Per questo la nuova opera sulla morte dovrà presentarsi come un’opera di Platone medesimo e, come tale, essere inserita nel corpus. Tuttavia, Filone non riesce a portare a termine i suoi progetti: la morte, su cui stava meditando, lo coglie nell’84/3 a.C.201 Qualche fidato allievo raccoglie le sue carte e fa in modo che quell’ultimo sforzo del vecchio scolarca, ancorché incompiuto, entri nel corpus delle opere del fondatore della scuola. Purtroppo questa ipotesi resta una suggestione. Non si può dire, infatti, che l’Assioco sia opera di Filone di Larissa in persona più che di un suo allievo.202 In ogni caso, questo dialogo rappresenta l’esito ultimo della vicenda dell’Accademia scettica. In esso si avverte un’inquietudine che segna la fine di un’epoca e una metamorfosi in seno alla stessa eredità platonica. Si avverte una dinamica spirituale estremamente delicata in cui forse anche uomini di altre epoche possono riconoscersi. È quella dinamica in cui pessimismo, scetticismo e fede coesistono ad un alto livello di instabilità. Per quanto ci si trovi sempre sostanzialmente all’interno di una prospettiva scettica, si scorgono evoluzioni di questa prospettiva apparentemente inso-

201 Per la cronologia della vita di Filone cf. la nota precedente. 202 Da Philod. Acad.Hist. col. XXXIV, ll. 6–19 apprendiamo i nomi di 10 discepoli greci di Filone (elenco in Fleischer (2017b), 85 n. 65, ma tutto il contributo di Fleischer va visto per una nuova edizione e un’analisi di questa colonna di PHerc. 1021), cui vanno aggiunti diversi allievi romani (cf. Fleischer (2017b), 84 n. 64). Filodemo fornisce anche l’indicazione di un successore ufficiale di Filone. Tuttavia, dovette trattarsi di una figura di scarso spessore che non riuscì a tenere alto il prestigio della scuola. Di fatto, dunque, fu Filone l’ultima vera e propria guida ufficiale dell’Accademia (cf. anche Fleischer (2017b), 77–79).

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Saggio introduttivo

spettabili: lo scetticismo e il pessimismo sono sul punto di trapassare in una fede spiritualistica.203 Motore di questa dinamica è il problema dell’infelicità. L’Accademico scettico filoniano affronta il problema dell’infelicità pragmaticamente, cercando la soluzione che risulta concretamente più efficace, a prescindere dalla verità dei suoi presupposti, che per lui in fondo non è accertabile. Tuttavia, questo modus operandi innesca in modo più o meno consapevole la fede in una determinata rappresentazione della realtà. È come se l’efficacia pratica di una soluzione legittimasse anche la verità non accertabile dei presupposti della soluzione che risulta più efficace. Il problema affrontato nell’Assioco, ossia il problema dell’infelicità procurata dalla consapevolezza di dover morire, implica una serie di interrogativi riguardanti la natura dell’uomo e la sua sorte dopo la morte. Così l’argomento dell’immortalità dell’anima, nella misura in cui risulta più efficace per liberare dalla paura della morte, apre la strada alla fede nell’immortalità dell’anima, in una realtà spirituale che, non essendo pienamente conoscibile, almeno apparentemente non contraddice i limiti che l’Accademia scettica pone alla conoscenza e alla condizione umana. Per una sorta di eterogenesi dei fini l’Accademia scettica, in linea di principio rifiutandosi di dare una risposta a queste domande, è trascinata dall’impellente problema dell’infelicità ad aderire ad una precisa visione della realtà aprendosi allo spiritualismo e alla trascendenza, dimensioni che interesseranno in misura sempre crescente il platonismo delle epoche successive.204

203 Si tratta di una dinamica spirituale per la quale si possono trovare analogie in altri momenti della storia: cf. e.g. Landucci (1961), 637–640 (praesertim p. 638 a proposito «della possibilità di una utilizzazione dell’agnosticismo a fine apologetico-fideistico»). 204 È degno di nota che c’è chi ha visto nell’autore dell’Assioco un medio-platonico: cf. e.g. Courcelle (1965), 412. Più verosimilmente egli è l’espressione di un’epoca di crisi e di trasformazione della stessa tradizione platonica, che pone le premesse spirituali per il successivo sviluppo medio-platonico (cf. anche Feldmeier (2012), 142-145 e 148-150 e Männlein-Robert (2012), 21 e 81 n. 93). Non a caso lo stesso Cicerone può essere considerato un’espressione di questa realtà: «dans le De re publica comme dans les Tusculanes … Platon, chronologiquement antérieur, arrive en fin de parcours, comme si toute la philosophie héllenistique, scepticisme compris, n’était qu’une longue préparation à la révélation du platonisme, un platonisme lui-même reformulé en fonction de ce parcours. Reste à savoir qui a pu le premier élaborer cette structure. Aucun des deux maîtres académiciens de Cicéron n’est un candidat satisfaisant. Antiochus n’a jamais assumé l’anthropologie du Premier Alcibiade et rien ne permet d’affirmer que Philon de Larissa soit allé si loin dans une présentation dogmatique de la pensée de Platon. Par ailleurs, sa présence chez Philon d’Alexandrie conduit à écarter l’hy-

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7. La fine di un’epoca

Per un caso singolare la tradizione manoscritta ci ha conservato l’Assioco in fondo al corpus platonico. Questo prodotto postremo della scuola fondata da Platone chiude la raccolta delle opere del fondatore dell’Accademia.

pothèse selon laquelle il s’agirait d’une innovation cicéronienne» (Lévy (2016), 428–429). In base a quanto abbiamo osservato in questo studio, la rilessione sviluppata da Filone di Larissa, soprattutto in materia di etica pratica, ha verosimilmente contribuito in modo non trascurabile a questa trasformazione (per le premesse contenute nello scetticismo di Filone per un’evoluzione del platonismo in senso dogmatico cf. anche Sedley (1981), 72–73 e Tarrant (1985); Tarrant, in particolare, è arrivato sostanzialmente a fare di Filone un primo rappresentante del medio-platonismo: cf. il punto di Chiesara (2003), 99–101). D’altra parte, è ormai largamente riconosciuto il debito che il platonismo di età imperiale ha nei confronti della riflessione dell’Accademia scettica (cf. e.g. Opsomer (1998), con la recensione di Bonazzi (2000), 437–444 e le puntualizzazioni di Donini (2002), 248–273).

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La tradizione del testo

In operette brevi molto lette e quindi di tradizione complicata può avvenire che i prolegomeni riescano più estesi che il testo stesso; ma solo persone superficiali se ne dorranno o ne rideranno Giorgio Pasquali La ricognizione dei manoscritti è stata condotta tramite gli indici di manoscritti platonici di Post (1934), Wilson (1962), Brumbaugh-Wells (1968), integrato con Brumbaugh-Wells (1990), e la banca dati “Pinakes” dell’IRHT di Parigi. Sono stati individuati 34 manoscritti che trasmettono (o trasmettevano) l’Assioco per intero e 3 manoscritti che contengono excerpta del dialogo.205 Tutti i manoscritti sono stati collazionati o direttamente sull’origi-

205 Secondo Warner, Gilson (1921), 187, il manoscritto Londiniensis Royal 16 C.XXV (Lond), datato tra il XV e l’inizio del XVI secolo, contenente estratti da numerosi dialoghi del corpus platonico ai ff. 53–61v, comprende anche un estratto dall’Assioco (donde l’analoga indicazione in Wilson (1962), 388 n. 64). In verità, al f. 58 è sì presente l’inscriptio ἐκ τοῦ διαλόγου οὗ ἡ ἐπιγραφὴ Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου, ma il breve estratto che segue tale inscriptio non proviene dall’Assioco, bensì da Rp. I 328d7-e1 (χαίρω διαλεγόμενος τοῖς σφόδρα πρεσβύταις). In genere si pensa che Lond discenda da Laur. 85.9 (cf. e.g. Martinelli Tempesta (2003), 78). Il problema, tuttavia, è se questa derivazione sia diretta o meno. Il caso dell’inscriptio dell’Assioco con estratto errato (quale che sia la causa di questo fenomeno) fa pensare che il modello di Lond contenesse effettivamente un breve estratto dall’Assioco di cui Lond ha conservato solo l’inscriptio. Ciò depone a favore dell’idea che la derivazione da Laur. 85.9 sia stata mediata da un testimone perduto o non identificato. Si potrebbe portare qualche luce in più su questo problema tramite l’osservazione del Matritensis 4573 (Matr), del secolo XV, osservazione che non mi è stato possibile fare. C’è, infatti, la possibilità che Matr sia un gemello di Lond a partire da un modello perduto (cf. Boter (1989), 148– 149). Se così fosse, Matr potrebbe dare delle informazioni aggiuntive sullo stato del modello di Lond. Tuttavia, l’idea maggioritaria è che Matr derivi da Lond (cf. Martinelli Tempesta (2003), 79 e n. 343). Inoltre, da quel che si può vedere dai cataloghi di Iriarte (1769), 139–141 e de Andrés (1987), 52–54, Matr non contiene nessun estratto dall’Assioco. Anche l’indicazione di Wilson secondo cui il Vaticanus gr. 1733 (n. 218 di Wilson) conterrebbe anche l’Assioco non trova conferma. Il codice è stato controllato direttamente e dell’Assioco non v’è traccia

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nale o tramite riproduzione digitale o fotografica. Si tratta della collazione più estesa effettuata fino ad ora per questo dialogo.206 In generale sono stati confermati i risultati stemmatici cui era pervenuto Levi A. Post (1934). Tuttavia, in molti casi è stato possibile definire meglio i rapporti tra i singoli manoscritti ad ogni livello dello stemma. Il dato più sensibile riguarda la posizione di Vv. Già Post, infatti, individuava in V un ramo di tradizione del tutto indipendente da A. Alla luce dei risultati di questo studio ciò pare molto probabile, anche se rimangono alcuni dubbi. Si è comunque deciso di considerare Vv come testimoni primari per la constitutio textus. Come si vedrà, infatti, per l’Assioco non è possibile una scelta meccanica delle varianti. Ciò mette al riparo dal rischio di una sopravvalutazione della posizione stemmatica di Vv. Occorre, infatti, valutare le varianti caso per caso, tenendo sempre presente che comunque Vv rappresentano una recensione dotta con una forte propensione all’alterazione congetturale del testo.207 L’edizione critica che risulta da questo studio, dunque, è fondata su basi nuove e sperabilmente più salde rispetto a quelle delle due più recenti edizioni dell’Assioco tuttora di riferimento, quella oxoniense di Burnet (1907, 19132) e quella della collezione Budé di Souilhé (1930), i quali non avevano potuto utilizzare i risultati di Post. Già Trasillo conosceva l’Assioco tra i dialoghi spuri del corpus Platonicum, collocati al di fuori dell’odine tetralogico. La tradizione medievale ha mantenuto questo assetto del corpus, per quanto l’Appendix nota per tradizione diretta sia decisamente ridotta rispetto a quella nota a Trasillo. Tuttavia, nel corso della tradizione medievale dell’Assioco alla prevalente Korpusüberlieferung si affianca l’Einzelüberlieferung. Questo secondo fenomeno interessa tra l’altro proprio la famiglia rappresentata da Vv. È difficile capire se esso rifletta anche una condizione pretradizionale o si sia prodotto soltanto in

(cf. anche Giannelli (1961), 117, cui pure Wilson rimanda). Nel codice sono invece presenti le Definizioni, fatto che Wilson non segnala. È verosimile che le Definizioni siano state scambiate con l’Assioco. Infine, non si è tenuto conto del Vaticanus Palatinus gr. 173 che riporta soltanto gli scolii all’Assioco (in una versione scorciata), né del Vossianus gr. O 20, del XVI secolo, che contiene una parafrasi dell’Assioco, ma di cui sono venuto a conoscenza troppo tardi per poterlo utilizzare in questo lavoro. 206 Post non conosceva il contenuto di Vat. 2236 (cf. Post (1934) 78). Conosceva il contenuto, ma non sembra che disponesse delle collazioni di Urb. 80, Mon. 408 e Mon. 313. 207 Cf. infra pp. 98-99.

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età bizantina.208 Tuttavia, può essere interessante notare che tra tutti i dialoghi dell’Appendix le varianti che per contaminazione pretradizionale confluiscono sui margini di O e del modello di Par si concentrano soprattutto sull’Assioco. Una maggiore quantità di varianti di origine pretradizionale rispetto agli altri dialoghi dell’Appendix può essere indizio di una circolazione maggiore -e dunque separata dal resto del corpus- anche a livello pretradizionale.

1. La prima famiglia: A La prima famiglia dei codici dell’Assioco è rappresentata dal più antico codice platonico interamente conservato, il Parisinus gr. 1807 (A), del terzo quarto del IX secolo,209 appartenente alla cosiddetta “collezione filosofica”.210 L’antichità del codice e l’assenza di evidenti errori di minuscola fanno legittimamente pensare che il codice sia una copia di traslitterazione.211 La questione dell’origine del modello di A è molto problematica. Di un certo interesse è l’ipotesi che tale modello provenisse dalla scuola neoplatonica di Alessandria.212 Su A si registrano più fasi diortotiche. La più antica, A2, è verosimilmente da identificare con il copista del testo stesso.213 Con lo stesso maiuscolet-

208 Sulle modalità di circolazione dei dialoghi dell’Appendix in età bizantina cf. Menchelli (2014a), 169–196. 209 Sul codice cf. Omont (1888), 145–146 e Perria (1991), 56–62. Sulla storia di A cf. Saffrey (2007), 3–28, con le precisazioni di Tinti (2012), 166–171; Speranzi (2013), 89–90 e Menchelli (2016), 139–140. L’Assioco è ai ff. 341v-344v. 210 Status quaestionis sulla collezione filosofica con riferimento agli studi più antichi in Perria (1991), 46–56; cf. inoltre Rashed (2002), 693–717; Cavallo (2007), 155– 165; Ronconi (2013), 119–140; Marcotte (2014), 145–165 e Cavallo (2017), 3–64. 211 Cf. Schanz (1878), 305–306. Contra, Moore-Blunt (1985), vi, la quale ritiene di poter addurre come prova di errore di minuscola Ep. XII 359d3 dove all’errato ἁπάντων di A si oppone il corretto ἦσαν τῶν di O 4. Non vedo come le lettere ησ e απ si confondano più facilmente in minuscola che in maiuscola. 212 Cf. Westerink (1990), 105–123 e Rashed (2002), 693–717. Contra cf. Boter (1992), 82–86 (soprattutto n. 1). Altrettanto problematica e dibattuta è la questione delle caratteristiche del modello di A: cf. Schanz (1878), 303–307; Clark (1918), 386–395 (praesertim p. 392); Post (1934), 6; Irigoin (1986), 1–36; Irigoin (1997), 152 e Boter (1989), 81. 213 Cf. Boter (1989), 81–82; Menchelli (2016), 137 e Jonkers (2017), 155. Si segue la scelta di Boter (1989), 83–84 (per la Repubblica) e Jonkers (2017), 150–153 (per Timeo e Crizia) di non distinguere all’interno di A2 più fasi diortotiche. In precedenza era stata operata una distinzione ulteriore tra gli interventi di Ac e quelli

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to degli scolii A2 verga lettere o parole brevi supra lineam che devono essere integrate o sostituite a quelle scritte da A.214 Inoltre, A2 verga la maggior parte degli accenti e degli spiriti ed effettua una serie di correzioni, prevalentemente in textu, mediante rasura e riscrittura in minuscola o aggiunta di una lettera (ma effettua anche semplici correzioni di accento).215 È difficile stabilire se A2 abbia effettuato tutti questi interventi a partire dallo stes-

di A2 a seconda che gli interventi fossero stati recepiti da O o meno (su questa linea, sia pure con differenze l’uno dall’altro, cf. Post (1934), 6–7; Tarán (1975), 172 e Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 181–182 e n. 7). Al di là delle obiezioni mosse a questa distinzione da Boter (1989), 82–83, nel caso dell’Assioco il metodo di distinzione della stratigrafia delle mani di A fondato sulla testimonianza dei suoi discendenti è applicabile solo con molta prudenza. Ciò è dovuto al fatto che O ha perso quasi interamente questo dialogo e che i discendenti di O risentono della contaminazione effettuata su O a partire da almeno una fonte indipendente da A (cf. infra pp. 101-103). Ne consegue che la testimonianza di queste fonti non può valere sempre automaticamente per ricostruire la precisa lezione che O ereditava da A (cf. meglio infra pp. 109-110). Lo stesso vale per Par, il quale discende da A verosimilmente attraverso un anello perduto (o conservato, ma che ha perduto gli Spuria) e che era stato a sua volta contaminato con una fonte indipendente da A (cf. meglio infra pp. 109-110). Ciò rende particolarmente problematica soprattutto la valutazione delle correzioni di 367a5, 368c2 e 370a5 che non trovano seguito né in Par né nei discendenti di O. Il problema è che, trattandosi di correzioni effettuate mediante rasura, difficilmente esse potevano essere ignorate da O o dal modello di Par. D’altra parte, dal punto di vista del tipo di correzione, difficilmente queste correzioni possono essere attribuite ad A4: per questa ragione si è deciso di attribuirle dubitativamente ad Apc (cf. le due note seguenti). 214 Per l’Assioco si possono osservare i seguenti casi (si segnalano con “pc” in apice, i casi dubbi): 364a2 Εἰλισὸν Aut vid : Ἰλισσὸν Apc (ἰ et σσ Apc), 364a5 Χαρμίδης Aut vid : Xαρμίδου Apc (ου Apcsl), 364a6 ἑταιρείας A : ἑταιρίας A2 (ι A2sl), 365c4 δέος A : δέος τι Α2 (τι A2sl), 366a1 θνητῷ A : ἐν θνητῷ A2 (ἐν A2sl), 366d2 τῶν ἀνιαρῶν A : οὐ τῶν ἀνιαρῶν A2 (οὐ A2sl), 366d7 ταύτης A : ταύτην A2 (ν A2sl), 367a3 Ἀρείου πάγου A : ἐξ Ἀρείου πάγου A2 (ἐξ A2sl), 367a5 τὴν A : τίς A2 (ις A2sl), 367a7 στρατεῖαι A : στρατεῖαί τε Α2 (τε A2sl), 367b1 ὑπῆλθεν A : ὑπεισῆλθεν Α2 (εις A2sl), 367c8 τὸν νεώ A : τὸν νεών A2 (ν A2sl), 368b2 ποριζομένων A : ποριζομένους A2 (ους A2sl), 368d7 ἐπηρόμην A : ἐπῃρόμην A2 (ι A2sl), 369d2 προῄρηκας Aut vid : προείρηκας A2, 369d3 στέρησις A : ἡ στέρησις A2 (ἡ A2sl), 370a8 περιτίθεῖς Aut vid : περιτίθης A2 (η A2sl), 370d1 ἁπασῶν Apc (ῶ Apcsl et ras), 371b4 πρόπολα A : πρόθυρα A2 (θυ et ρ A2sl), 371c8 παντοῖαι A : παντοῖοι A2 (οι A2sl), 371d2 εὐμελῆ A : εὐμενῆ A2 (ν A2sl), 372a13 μεταστησάμενος A : μεταστησόμενος A2 (ο A2sl). 215 Per l’Assioco si possono osservare i seguenti casi (si segnalano sempre con “pc” in apice i casi dubbi): 365c4 ἀντίσχει τε Aut vid : ἀντίσχει A2 (τε del. A2), 365d7–8 ἢ Κλεισθένους A2 (ἢ Κλει A2), 366a1 καθειρεμένον Aut vid : καθειργμένον A2, 366a6 παρέσπαρμενη Aut vid : παρεσπαρμένη A2, 366a8 χωρείας Aut vid : χορείας A2,

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so modello di A, cioè rivedendo il testo del modello e sanando gli errori commessi durante la copiatura o se abbia attinto ad un modello differente.216 Tuttavia, a giudicare dagli interventi di A2, un eventuale altro modello avrebbe dovuto essere pressoché identico al primo modello di A (esattamente con le stesse lacune, che saranno sanate soltanto grazie al modello cui attingeva A3), il che non è impossibile, ma è almeno sospetto. Difficile, inoltre, è capire se tra le correzioni di A2 vi siano delle congetture e, in tal caso, quali esse siano.217 Si può, però, notare che tra le correzioni attribuite ad A2 non ce n’è una che non potrebbe essere stata fatta per congettura. Ad una mano più tarda, A4, è da attribuire una serie di correzioni eseguite con un inchiostro pallido mediante rasura e riscrittura, correzioni che in genere consistono nell’alterazione di sillabe omofone (soprattutto la desinenza della seconda persona singolare del medio).218

366b6 εἰμὶ Aut vid : εἰμι A2, 366c1 ἔστιν Aut vid : ἐστὶν A2, 366c4 διὰ παντὸς Aut vid : διαπαντὸς A2, 366c4 ἔστιν Aut vid : ἐστὶν A2, 366d6 κλαυμυριζόμενον A : κλαυθμυριζόμενον Α2, 367a5 ἐνστήσονται A : ἐνστήσεται Apc, 368c2 οὐκ Aut vid : del. A2, 368c7 ἕχουσαν Aut vid : ἔχουσα A2, 370a5 ἄλλως γέ πως A : ἁμωσγέπως Apc, 370e3 δίιμι Aut vid : δίειμι A2, 371b3 ὕπερθεν Aut vid : ὑπένερθεν Α2, 371b6 Ἀχέρων ἐκδέχεται A2 (χέρων ἐκ A2ras, δε add. ante χεται A2), 371c2 παιδίον Aut vid : πεδίον A2, 371c3 ἀφικνούμενων Aut vid : ἀφικνουμένων A2, 371c9 ἐαριζόμενοις Aut vid : ἐαριζομένοις A2, 371d6 κἄκεισε Aut vid : κἀκεῖσε A2, 371e4 ἠλάσθη Aut vid : ἠλάθη A2, 372a1 περιλειχμώμενοι Aut vid : περιλιχμώμενοι A2, 372a11 οὕτως ὁ A : oὗτος ὁ A2. Ad A2 va verosimilmente attribuita anche la correzione di 365c4 ἀτιμάζον A : ἀτιμάζονται Α2 (ν A2sl et ται A2marg). Si è pensato di attribuire questo intervento ad A3 (cf. Menchelli (2016), 95). Tuttavia, per la diversità del tratteggio e del colore dell’inchiostro è più verosimile escludere A3. Lo stesso si può dire per la natura della correzione. Normalmente, infatti, A3 o colma delle fenestrae nel testo lasciate da A o aggiunge a margine delle varianti con il γρ (su A3 cf. infra p. 94). Particolarmente notevole, poi, è l’ottima correzione di 370a5 ἄλλως γέ πως A : ἁμωσγέπως Apc. La giusta lezione ἁμωσγέπως è conservata soltanto da Vv ed è stata ripristinata verosimilmente per congettura (ἄλλως γέ πως non è una combinazione di particelle accettabile ed è errore frequente) su Par. 2010 (cf. infra p. 118 n. 306). 216 Cf. Boter (1989), 88–91 (per la Repubblica) e Jonkers (2017), 159–162 (per Timeo e Crizia). 217 Cf. i contributi citati alla nota precedente. 218 La recenziorità di A4 rispetto ad A2 e A3 (sul quale ultimo cf. infra p. 94) è dedotta dall’osservazione che negli apografi più antichi di A sono recepiti soltanto il primo o i primi due livelli di intervento: cf. Boter (1989), 85. Inoltre, in almeno un caso (Tim. 33c2), A3 non presuppone la giusta correzione di A4: cf. Jonkers (2017), 156. A causa del fatto che O ha perso quasi interamente l’Assioco e che gli apografi di O risentono della contaminazione effettuata sui margini di O, questo criterio non può essere applicato con altrettanta facilità a questo dialogo (cf. anche supra pp. 91-92 n. 213). Lo stesso vale per Par il quale deriva da A verosi-

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Tuttavia, gli interventi più degni di nota sono quelli tradizionalmente attribuiti ad A3, mano dell’inizio del X secolo solitamente identificata con O3 (su cui cf. infra pp. 100-105).219 A3, infatti, colma nel testo una serie di fenestrae che erano state lasciate da A (e da A2) in quanto il suo modello in quei punti non doveva più essere leggibile. A parte colmare una piccola lacuna a 364d1 (ᾔειμεν), questi interventi si concentrano soprattutto nella sezione di testo di 367c1-c6 dove il copista principale di A ha lasciato una serie di spazi bianchi.220 Ne consegue che A3 attingeva ad un modello diverso da quello di A. È ragionevole pensare che sempre da questo modello provenissero anche le varianti riportate da A3 sui margini di A con il γρ.221 Con A5, infine, si identificano gli interventi di Costantino di Ierapoli.222 Sul testo dell’Assioco A5 interviene con un inchiostro rossastro ripassando lettere e accenti, vergando la sottoscrizione finale e scrivendo δέος supra li-

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milmente attraverso un anello perduto o un anello che ha perduto gli Spuria, ma che in ogni caso era stato a sua volta contaminato con una fonte indipendente da A (cf. infra pp. 109-110). Per l’Assioco si registrano i seguenti casi di A4 : 364c2 ἀστενακτεὶ A : ἀστενακτὶ A4 (ὶ A4), 365b1–2 ἐπιλογιεῖ A : ἐπιλογιῇ A4 (ῇ A4), 365c1 φαίνει A : φαίνῃ A4 (ῃ A4), 365c6 ἀειδὴς A : ἀηδὴς A4 (prius η A4), 365e2 ἔσει A : ἔσῃ A4 (ῃ A4), 367b4 ἐνεχυράζῃ A : ἐνεχυράζει A4 (ει A4), 370d2 ἀφίξει A : ἀφίξῃ A4 (ῃ A4). Come è noto, Lenz (1933), 193–218 propose di identificare A3 con la mano di Areta di Cesarea. La proposta è stata guardata con favore da Des Places (1951), ccvii-ccxvi; Lemerle (1971), 215 n. 35 e Boter (1989), 85, mentre è stata respinta da Post (1934), 9; Wilson (1983), 129 n. 13; Irigoin (1986), 12 n. 19; Luzzatto (2008), 34 n. 13 e Menchelli (2016), 138. Non sembra prendere posizione Jonkers (2017), 66. Per un’accurata descrizione delle caratteristiche di A3 cf. Menchelli (2016), 141–145. Cf. la trascrizione di Menchelli (2016), 96. Per l’Assioco si registrano i seguenti casi: 366a1 φρουρίῳ A : χωρίῳ A3γρmarg, 366a2 ἐνήδοντα ἀμυχιαῖα A : τὰ μὲν ἥδοντα μυχιαῖα A3γρmarg, 366c4–5 ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβε τι A : τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι A3γρmarg, 367c4 ἔσεσθαι A : γενέσθαι A3?γρmarg. Tuttavia, il tratteggio di quest’ultima annotazione, attribuita ad A3 da Menchelli (2016), 95, ha un aspetto diverso da quello delle altre, al punto che Burnet l’attribuiva alla mano di Costantino di Ierapoli (su cui cf. infra in questa stessa pagina). La mano di Costantino deve essere a mio avviso esclusa per diversità di inchiostro e di ductus. Tuttavia, a meno di non pensare ad una variante corsiveggiante di A3, l’impressione che si tratti di una mano diversa da quella che ha vergato le altre varianti marginali resta forte. Mi pare, in ogni caso, che siano da escludere per diversità di tratteggio delle lettere (e.g. il ν) le mani più tarde a2marg (cf. e.g. Leg. V 737b5) e a3marg (cf. e.g. Leg. IV 706a1 e Leg. IV 708d2). In generale su queste due mani cf. Post (1934), 7. Cf. Boter (1989), 85; Menchelli (2016), 139–140 (la quale, su base paleografica, propone di abbassare la datazione di questa mano, solitamente collocata nel XII secolo, alla fine del X o agli inizi dell’XI secolo) e Jonkers (2017), 65 (in altri casi

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2. Il problema della seconda famiglia: Vv

neam a 370b3, in corrispondenza della vox nihili di A (δυους). Si tratta verosimilmente di un infelice tentativo di aggiustare per congettura il passo corrotto. A presenta alcuni errori palesi a fronte del resto della tradizione.223

2. Il problema della seconda famiglia: Vv L’indipendenza del Parisinus gr. 2110 (V), del XIV secolo,224 dal resto della tradizione medievale fu sostenuta per la prima volta da Levi Arnold Post ed

si è utilizzato il meno pratico siglum “a”: cf. e.g. Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 180). 223 Cf. 364d1 Ἰτωνίαις] Ἰτωνυμίαις A, 365b4 κοινὸν] καινὸν A, 365c2 παρ’ αὐτὸ] παρὰ ταὐτὸ A, 366b5 ἔτυμα] ἕτοιμα A, 367d8 ὀϊζυρώτερον] ὀϊζυρότερον A, 367e1 ὅσσα] ὅσα A, 369a1–2 Εὐρυπτόλεμος] Ἐρυπτόλεος A, 369a7 ἰόντες] ὄντες A, 369d5 γὰρ] δὲ A, 371a6 Ἑκάεργος] Ἑκάεργε A, 371c9 ἐαριζόμενοι] ἐαριζομένοις A, 372a11 με] μὴν A, 372a11 ὁ οὐράνιος] οὐράνιος A. 224 In precedenza il codice era datato al XV secolo (cf. e.g. Omont (1888), 196; Post (1934), 61 e Dodds (1959), 48). La datazione è da abbassare sulla base della scrittura e delle filigrane (cf. Coenen (1977), lvii). Per la descrizione del codice cf. Coenen (1977), lvii e Bompaire (1993), cvi (oltre a Omont (1888), 196). L’Assioco è ai ff. 1–10v. Nella mano che ha vergato l’Assioco sono state viste somiglianze con quella dello scriba patriarcale Giorgio Galesiotes nella sua variante corsiva (cf. Menchelli (2006), 211–212 n. 75 e Menchelli (2016), 97–98). Sulla storia del codice cf. Coenen (1977), lvii-lviii. Secondo Dodds (1959), 48, dalla numerazione dei fascicoli e dalla diversità delle mani risulterebbe che V è costituito da due manoscritti distinti, collegati insieme sotto il regno di Enrico II: il primo avrebbe contenuto soltanto l’Assioco, il secondo tutto il resto. Non ho trovato conferma di questo dato. La numerazione dei fascicoli attualmente visibile è in alfabeto latino (con un’eccezione per il terzo fascicolo dove si ha Γ). Inoltre, la mano che ha vergato Assioco, Gorgia, Iuppiter tragoedus, Iuppiter confutatus, Piscator pare la stessa. Le uniche oscillazioni riguardano la grandezza del modulo della scrittura (cf. anche Coenen (1977), lviii e Menchelli (2006), 211–212 n. 75). Va, invece, notato che il Gorgia termina al f. 83v, cui seguono cinque fogli bianchi. Lo Iuppiter tragoedus inizia solo al f. 89 in corrispondenza dell’inizio di un nuovo fascicolo. Una mano recenziore ha occupato la fine del f. 83v e il f. 84 con la parte iniziale del Tyrannicida pseudo-lucianeo. Ciò può far pensare che, prima che i fascicoli che compongono la sezione platonica e quelli che compongono la sezione lucianea più antica (Iuppiter tragoedus, Iuppiter confutatus, Piscator) fossero uniti a formare un unico codice, ci fosse l’intenzione di aggiungere un’altra opera (platonica?) dopo il Gorgia. L’associazione dell’Assioco al Gorgia è curiosa. Essa si inserisce nel più generale fenomeno dell’Einzelüberlieferung delle opere del CP, fenomeno che, a sua volta, è la spia dell’interesse che l’età medio e tardobizantina maturò per quest’opera. Nella fattispecie, nell’associazione di questi

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La tradizione del testo

è stata recentemente ribadita da Mariella Menchelli,225 la quale ha richiamato l’attenzione anche sul fratello di V, il Laurentianus plut. 11.13 (v), del primo terzo del secolo XIV.226 L’indipendenza di V e v l’uno dall’altro è mostrata dalla presenza di errori separativi dell’uno contro l’altro e viceversa (nel complesso v è una copia molto più scorretta di V).227 La dipendenza di V e v da un modello comune, invece, è assicurata dalla presenza di errori congiuntivi.228 L’indipendenza di Vv dal resto della tradizione sembra confermata da una serie di indizi: 1) come notato già da Post a proposito del solo V,229 non si può dimostrare la dipendenza diretta o indiretta di Vv da nessun altro manoscritto conservato.

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due dialoghi può avere giocato un ruolo il fatto che l’Assioco e il Gorgia terminano con due grandi miti dell’Aldilà e del giudizio delle anime molto simili tra loro (al punto che verosimilmente il mito del Gorgia è stato uno dei principali modelli dell’autore dell’Assioco per il mito di Gobria: cf. il commento ad loc.). Entrambi i dialoghi, inoltre, contengono una forte critica ai regimi democratici. L’associazione dell’Assioco a opere lucianee, invece, si osserva anche in v. Cf. Post (1934), 61–62 e 64 e Menchelli (2016), 97–102 (Post non conosceva v). In precedenza Immisch (1896), 81 aveva scartato la possibilità che V rappresentasse un ramo indipendente della paradosi («Er zeigt nur zu oft den willkürlichen, aber gelehrten Redactor»). Anche Immisch non conosceva v. Alla stessa conclusione perveniva per quanto riguarda il Gorgia Dodds (1959), 48–53. Va in ogni caso notato che Dodds non escludeva del tutto la prima ipotesi, ma riteneva più prudente la seconda (cf. Dodds (1959), 53). I risultati di una collazione di V (limitatamente all’Assioco) furono pubblicati da Belli (1953), 556–559. Per una descrizione del codice cf. Coenen (1977), lvii (la datazione è possibile in base alle filigrane) e Bompaire (1993), civ (oltre a Bandini (1764), coll. 509–510). Dal monocondilio ai ff. 58 e 125v si ricava che il copista si chiamava Giorgio. L’Assioco è ai ff. 125v-129v. Per gli errori particolari di V cf. 366d6 κλαυθμυριζόμενον] κλαθμυριζόμενον V, 368a6 παύομαι] παύσομαι V, 369a1 μόνος] μόνοις V, 370a6 πτυρείης] πυρείης V. Per gli errori particolari di v cf. 364c4 μου] με v, 364c5–6 εἰ γὰρ οὕτως ἔχει] ἐὰν γὰρ οὕτως ἔχη v, 366a6 παρεσπαρμένη] κατεσπαρμένη v, 366d6 κλαυθμυριζόμενον] κλαυθμηρυζόμενον v, 367b1 ὑπεισῆλθεν] ἐπεισῆλθε v, 367b2 δυσαλθὲς] δυσαληθές v, 367d2 περὶ] παρὰ v, 368c1 πᾶς] παῖς v, 369d5 ἀρτικροτήσῃς] κροτήσης ἄρτι v, 370a6 πτυρείης] πτοηθείης v, 370e3 τὸν ἀίδιον] om. v, 371d6 ἐστίν τις] ἐπί τε v. Cf. 365a1 πρὸς τῇ Ἀμαζονίδι στήλῃ] om. Vv, 370a8-b2 τῇ δὲ στηρέσει … τῆς ψυχῆς] om. Vv, 370c1–2 τροπὰς … ἀνέμους] om. Vv (gli ultimi due sono tipici casi di saut du même au même). Cf. Post (1934), 61.

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2. Il problema della seconda famiglia: Vv

2) come è stato notato dalla Menchelli,230 Vv recano a testo lezioni che sono state registrate sui margini di A da A3 (e verosimilmente sui margini di O da O3) a partire da un modello diverso da quello di A.231 3) in due casi Vv concordano in errore con lo Stobeo contro il resto della tradizione medievale.232 4) Vv presentano possibili errori di maiuscola assenti nel resto della tradizione.233 Tuttavia, va detto che nessuno di questi errori non potrebbe essersi prodotto anche in un passaggio da minuscola a minuscola o per una semplice svista. Senza contare che, considerato che si tratta sempre di scambi semplici, occorre tenere presente «la persistenza di caratteri maiuscoli in un archetipo o in un capostipite minuscolo».234

230 Cf. Menchelli (2016), 100. 231 366a2 τὰ μὲν ἥδοντα ἀμυχιαῖα JRW Stob. (ἀμυχαῖα Stob) : τὰ μὲν ἥδοντα μυχιαῖα Α3γρmarg Par Vv : ἐνήδοντα ἀμυχιαῖα A, 366c4–5 ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβε***τι A : τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι A3γρmarg : ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι Vv. Se nel primo caso si può pensare che una variante marginale sia stata preferita ad un testo manifestamente corrotto come quello di A (è il caso, ad esempio di Par, che mette a testo τὰ μὲν ἥδοντα μυχιαῖα verosimilmente per evitare l’insensato ἐνήδοντα ἀμυχιαῖα di A), nel secondo caso ciò è più difficile. Infatti, il testo ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβε τι dà senso e non si vede per quale ragione qualcuno avrebbe dovuto sostituirvi ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις (non a caso ciò non si verifica mai altrove nella tradizione dell’Assioco, anche quando la variante è nota). Su A3/O3 cf. supra p. 94 e infra p. 100. 232 Cf. 367a1 ἀμετρίαι A : ἀμετρία Vv Stob, 371a1 εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον A : εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον ἀκοῦσαι Vv Stob. Tuttavia, il primo può essere senza difficoltà un caso di poligenesi. Il secondo è più interessante, per quanto non si possa escludere del tutto la contaminazione extrastemmatica (a questa eventualità pensava Immisch (1896), 81; per la valutazione di questa variante cf. anche il commento ad loc.). A questi casi se ne possono aggiungere altri in cui Vv concordano con lo Stobeo in lezione corretta contro il resto della tradizione (365b4 κοινὸν Vv Stob. : καινὸν A, 367b7 διὰ τοῦτο Vv Clem. Stob. : καὶ τοῦτο A, 367d8 οὐ μὲν γάρ τί Vv Stob. Hom. : om. γάρ A, 371a6 μετὰ Vv Stob. : κατὰ A). In tutti questi casi la lezione corretta può essere stata ripristinata per congettura (o per contaminazione extrastemmatica nel caso della citazione omerica di 367d8). A questi casi si può aggiungere 367a2 πόνος A : χρόνος Vv JRW Stob, dove, tuttavia, la coincidenza con lo Stobeo può essere dovuta a contaminazione con JRW, con la loro fonte o con lo Stobeo stesso. 233 Cf. 364c5 ἐπειγώμεθα δ’ οὖν] ἐπειγώμεθα οὖν Vv (aplografia ΑΔ > Α; questo errore è presente anche su Par e nella sua discendenza: caso di poligenesi), 369b4 τίθεσαι] τίθεσθαι Vv (dittografia ЄC > ЄCΘ), 372a13 ἀναριθμήσομαι A Vpc (ν Vpcsl) : ἀπαριθμήσομαι Vv (scambio Ν > Π, su cui cf. Ronconi (2003), 93). 234 Così Ronconi (2003), 126 (cf. anche pp. 121–123).

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La tradizione del testo

5) A 365c4 la lezione di A è ἀντίσχει δὲ δέος τι, mentre Vv hanno ἀντιχεῖται δὲ δέος τι. Tuttavia, su A ἀντίσχει è seguito da una rasura che occupa uno spazio di circa tre lettere. Questa situazione si può spiegare pensando che all’origine ci fosse un archetipo che aveva qualcosa come ἀντίσχει τε δὲ δέος τι, dove τε era una variante di δέ intrusa nel testo. Inizialmente A ha riprodotto il testo dell’archetipo; in seguito, di fronte all’errata sequenza τε δέ, un correttore di A ha soppresso il τε. Su Vv, invece, si è prodotta la lezione ἀντιχεῖται δὲ δέος τι (complice l’omofonia tra τε e -ται).235 A ben vedere ognuno di questi punti, preso isolatamente, presta il fianco ad alcune obiezioni e non prova con certezza che Vv riflettano un ramo tradizionale indipendente. Tuttavia, la compresenza di questi fattori rende perlomeno probabile questa conclusione. Dunque, se si ammette che A è copia di traslitterazione,236 se ne conclude che Vv, se sono indipendenti dal resto della tradizione, discendono da una traslitterazione indipendente, fatto che sembra confermato dalla presenza su Vv di possibili errori di maiuscola di cui non si ha traccia nel resto della tradizione. Nondimeno, occorre pensare che tra Vv e la traslitterazione siano esistiti almeno due passaggi intermedi. La presenza in Vv di errori comuni di minuscola,237 infatti, mostra che il modello di Vv era scritto in minuscola ed era stato copiato a sua volta su un modello in minuscola. Anche se è probabile che Vv discendano da un ramo tradizionale indipendente, tuttavia nella valutazione delle loro varianti occorre la massima prudenza. Il giudizio negativo che Otto Immisch aveva dato di V, per quanto forse eccessivo, non era tuttavia privo di fondamento.238 Vv, infatti, rappresentano comunque una recensione dotta con una forte propensione alla normalizzazione e alla congettura banalizzante.239 Ciò getta un sospetto anche sui molti casi in cui Vv testimoniano una lezione almeno apparente-

235 Escluderei invece che la lezione di Vv dipenda da A prima della correzione. L’eliminazione del τε, infatti, sembra da attribuire ad A2, cioè forse al copista stesso di A (cf. supra pp. 92-93 n. 215). Bisognerebbe, dunque, pensare che Vv discendano da una copia di A realizzata prima dell’intervento del correttore. Non a caso questa correzione è stata recepita da O (si trova in tutti i suoi discendenti) e da Par (sui problemi posti da questo criterio rispetto alla stratigrafia delle correzioni di A cf. supra pp. 91-92 n. 213 e pp. 93-94 n. 218). 236 Cf. supra p. 91. 237 Cf. 371a5 ὦπις] ἄπις Vv, 371d3 ἀλυπία] ὀλυμπία Vv. 238 Cf. supra p. 96 n. 225. 239 Cf. 364b4 ὁ γὰρ πατὴρ A : μοι post γὰρ add. Vv, 365a2 ἤδη μὲν συνειλεγμένον A : συνειλεγμένον μὲν ἤδη Vv, 365a3 τῷ σώματι A : τὸ σῶμα Vv, 365c2 παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν] μοι post αὐτὸ add. Vv, 365c4 ποικίλως περιαμύττον A : ποικίλως μοι

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2. Il problema della seconda famiglia: Vv

mente superiore rispetto al resto della tradizione:240 si può sempre sospettare, infatti, o contaminazione o congettura, anche se si tratta di un’ottima congettura che ripristina il testo corretto.241 V reca il titolo Πλάτωνος Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου.242 Verosimilmente questo fenomeno non va interpretato come un’attribuzione di natura filologica dell’Assioco a Platone. Esso sarà piuttosto legato al fenomeno della Einzelüberlieferung che caratterizza questo ramo della tradizione: nel momento in cui il dialogo è stato estrapolato dal corpus243 non è stato fatto caso al titolo del corpuscolo cui il dialogo apparteneva (Πλάτωνος νοθευόμενοι), ma esclusivamente all’autore sotto il cui nome il corpus era trasmesso.244 Ciò può essere stato dovuto a semplice disattenzione. Ma non si può escludere l’operazione più o meno volontaria di mettere sotto l’auto-

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περιαμύττον Vv, 365e3 ἀποσκέδασαι] ἀποσκεύασαι Vv, 365e3 συγκρίσεως] συγκράσεως Vv, 366e2 αὐξανομένου] αὐξομένου Vv, 367a3 ἐπὶ τοὺς νέους] ἐπὶ τοῖς νέοις Vv, 367a3 ἐξ Ἀρείου πάγου] ἐν Ἀρείῳ πάγῳ Vv, 367a4 ἄντικρυς] αὖθις Vv, 367a6 τὰ πρῶτα παιδικὰ] μικρὰ τὰ παιδικὰ Vv, 367c1 ἐπιστήμονες] ἐπιστήμονες ὄντες Vv, 369b2 μακρῷ] πολλῷ Vv, 370d7 περιέστακας] περιέστησας Vv. Cf. 364a1 alterum μοι A : om. Vv, 364b3 καιρὸς Vv : ὁ καιρὸς A, 365a4 τε Vv : δὲ A, 365b4 κοινὸν Vv : καινὸν A, 365b8 ἐστίν Vv : ἔχειν A : ἔχει JRW, 365c1 ἀληθῆ ταῦτα Vv : ταῦτα A, 365c6 ἄπυστος Vv : ἄγευστος A, 365d6 μεταβαλῶν Vv : μεταβάλλων A, 365d7 τῇ Vv : om. A, 367b7 διὰ Vv Clem. Stob. : καὶ A, 367d8 γάρ Vv Stob. Hom : om. A, 369c6 μετὰ Vv : περὶ A, 370a1 τὸν Vv : τὸ A, 370b3 τοσόνδε ἂν ἤρατο Vv : τόσον δυους διήρατο A, 370c7 μεταβαλεῖς Vv : μεταβάλλεις A, 371a6 μετὰ Vv : κατὰ A Stob. Cf. Wilamowitz (1895), 985: «Falls er [scil. V] … von einem Quattrocentisten [in verità V è del XIV secolo: cf. supra p. 95 n. 224] korrigiert ist, so haben wir einen höchst respektabeln Kollegen anzuerkennen». Un’eccezione forse si può fare per 365c6 ἄπυστος Vv : ἄγευστος A, dove la corretta lezione ἄπυστος implica una relazione intertestuale con un verso omerico (cf. anche il commento ad loc.). Forse l’individuazione di questo collegamento andava oltre le capacità divinatorie di un bizantino. Riconoscere una congettura nella tradizione manoscritta è sempre un problema, spesso insolubile, soprattutto se si è di fronte a una buona congettura (in generale cf. Maas (1935), 299–307; Maas (1936), 27–31; Canfora (1982), 367 e Pontani (1995), 341–343; e.g. sulle congetture di Giorgio Pachimere sul testo del Simposio platonico del Parisinus gr. 1810 cf. Brockmann (1992), 96–100). Trascurabile è l’indicazione sintetica Πλάτωνος di v, dovuta alla scarsa cura con cui è stato copiato il testo. Essa presuppone un titolo analogo a quello di V. Quale sia esattamente questo momento è difficile dire: cf. supra pp. 90-91. Un fenomeno analogo sembra che si verifichi nello Stobeo il quale cita regolarmente gli estratti dall’Assioco (e dagli altri dialoghi dell’Appendix platonica) con il genitivo Πλάτωνος: cf. Carlini (2005), 29. Che il verificarsi di queste “pseudoattribuzioni” sia condizionato anche dalle circostanze materiali della trasmissione (quale di fatto è la presenza di un’opera spuria nel corpus di un autore) si può illustrare ad esempio con ciò che è capitato a Lattanzio nelle Divinae Institutiones

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La tradizione del testo

revole egida di Platone uno scritto da cui risulta che la credenza nell’immortalità dell’anima è il rimedio più efficace contro la paura della morte.

3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW) Il Vaticanus gr. 1 (O), fine IX-inizio X secolo, ha perduto circa 23 quaternioni nella parte iniziale (al f. 33 il nuovo fascicolo reca il numero ΚΗ)245 e gli ultimi fogli dell’ultimo quaternione che contenevano l’Assioco (di cui si conservano al f. 189v solo i primi righi fino a ἀπαν[τᾶν di 364b1). O è copia di A a partire da Leg. V 746b8, dunque anche per gli Spuria.246 L’interesse di O nella parte in cui è apografo di A sta nei suoi ricchi marginalia. Tradizionalmente su O si distinguono tre fasi diortotiche: O2 che appone correzioni interlineari a partire da una fonte diversa dal modello principale di O; O3 che verosimilmente è la stessa mano di A3; e O4 che riporta nei margini le varianti tratte dal cosiddetto libro del patriarca o del patriarcato.247 Dal momento che O ha perduto quasi interamente l’Assioco non è

(I 11). Ivi Lattanzio cita una testimonianza dello storico di età ellenistica Aglaostene a proposito di un prodigio che precedette lo scontro tra Zeus e i Titani. Lattanzio dice di trarre questa testimonianza da Caesar in Arato, vale a dire dalla traduzione dei Fenomeni di Arato realizzata da Germanico. Ora, in tale traduzione che si è conservata per tradizione diretta non c’è traccia di questa testimonianza di Aglaostene. Essa faceva invece parte degli scolii di commento alla traduzione, a loro volta per lo più tratti dai Catasterismi di Eratostene. Verosimilmente Lattanzio avrà avuto a disposizione un codice contenente l’opera di Germanico dotato di un apparato marginale di scolii anonimi. Lattanzio, che non era mosso in questo caso da un particolare interesse filologico, ha per così dire sovrapposto l’oggetto, il codice, al suo contenuto attribuendo all’autore dell’opera anche il commento (cf. Robert (1878), 9 n. 11 e Martin (1956), 40–41). In ogni caso, era tutt’altro che inevitabile che un dialogo νοθευόμενος del corpus platonico, pur estrapolato dall’Appendix, perdesse la sua connotazione di scritto spurio: ad esempio Par. 2010, che appunto presenta questa situazione, reca l’inscriptio Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου Πλάτωνος εἰ καὶ γνήσιος (cf. infra p. 118 n. 306). 245 Il codice intero, dunque, forse conteneva anche la VII e l’VIII tetralogia. Se ciò è vero, O si presentava come un codice complementare per contenuto del Bodleianus Clarkianus 39 che contiene le prime VI tetralogie. Sulla storia del codice cf. Rabe (1908). 246 La derivazione di O da A è stata dimostrata da Post (1934), 8–14. Per quanto riguarda l’Assioco nei più diretti discendenti di O (JRW) si osservano alcuni errori di A (365b4 κοινὸν] καινὸν A JRW, 369d5 γὰρ] δὲ A JRW, 372a11 ὁ οὐράνιος] οὐράνιος A JRW, 372a11 με] μὴν A JRW). 247 Questa è la stratigrafia tradizionale sancita da Post (1934), 8–10. Per una proposta di identificazione di O2 e O4 cf. infra p. 102 n. 252. Le varianti marginali di

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3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW)

possibile verificare se erano presenti delle annotazioni sui margini di O e, nel caso, quali esse fossero. Tuttavia, i discendenti di O presentano alcune varianti adiafore o superiori rispetto ad A che non sempre possono essere spiegate come congetture. Se ne conclude che sui margini di O dovevano essere state segnate delle varianti successivamente messe a testo dalla discendenza di O (cf. infra pp. 104-105). La presenza su O di varianti di O3, d’altra parte, è ragionevolmente certa, in quanto su A si registrano degli interventi di A3 e, come è noto, in linea di massima ad interventi di A3 su A corrispondono interventi di O3 su O. Ci si aspetta di conseguenza che O3 abbia vergato sui margini di O almeno le stesse varianti che A3 ha vergato sui margini di A. Ciò sembra confermato dal fatto che la discendenza di O a 366a2 ha a testo τὰ μὲν ἥδοντα248 che è anche la lezione di A3, mentre a 367c4 ha γενέσθαι che è riportato come variante marginale su A, forse sempre per mano di A3 (sul problema di quest’ultima annotazione cf. supra p. 94 n. 221). Resta il fatto che le varianti comuni dei discendenti di O sono molto più numerose delle varianti di A3/O3. Ciò fa legittimamente pensare che sui margini di O fossero presenti anche altre varianti che non trovano corrispondenza su A. A quale delle diverse fasi diortotiche di O devono essere fatte risalire queste varianti? È stato osservato che le annotazioni di O4, ossia le lezioni del cosiddetto libro del patriarca, diversamente da quelle di O3, non si riscontrano oltre le Definizioni.249 Tuttavia, ciò non è verificabile nel caso dell’Assioco a causa del danno subito da O. Non ci sarebbe da stupirsi se le varianti di O4, dopo un silenzio sui margini degli altri Spuria, fossero riapparse sui margini dell’Assioco. Rispetto agli altri dialoghi dell’Appendix platonica, infatti, l’Assioco è stato maggiormente letto e apprezzato nella tarda antichità e in epoca bizantina (cf. infra pp. 134-143). Ci si aspetta che questo interesse, con la conseguente maggiore circolazione del dialogo, abbia comportato una altrettanto maggiore produzione di varianti. Per parte sua Post attribuiva proprio ad O4 la correzione di 364a3, περιστραφεὶς O :

O4 sono dette del patriarca o del patriarcato in base allo scioglimento della sigla che le accompagna: τοῦ π(ατ)ρι(άρ)χ(ου) τὸ βι(βλίον) oppure τοῦ π(ατ)ρι(αρ)χ(είου) τὸ βι(βλίον). Una diversa interpretazione (non “libro del patriarca” o “libro del patriarcato”, ma “libro del patrizio”) è stata tentata da Luzzatto (2008), 29–85. 248 La variante marginale è stata sostituita all’impossibile testo di A (ἐνήδοντα), ma la discendenza di O ha conservato la giusta lezione ἀμυχιαῖα presente anche su A contro il μυχιαῖα di A3. La variante marginale è stata, cioè, “contaminata” con il testo. 249 Cf. Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 187–188.

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La tradizione del testo

ἐπιστραφεὶς Opc (ἐπι Opcsl), uno dei pochi dati che si possano ricavare direttamente dalla cortissima sezione di testo conservata su O.250 In effetti, la lezione ἐπιστραφείς sembra superiore ed è testimoniata anche da Vv.251 D’altra parte, la tipologia dell’intervento interlineare farebbe pensare piuttosto ad O2, anche se lo stesso Post ammetteva che O2 e O4 sono difficili da distinguere.252 Per quanto non si possa escludere che sui margini dell’Assioco fossero intervenuti O2 o O4, pare più ragionevole far risalire a O3 le varianti comuni ai discendenti di O che non siano evidenti errori di copia.253 Infatti, né sui discendenti di O, né su Laur. 59.1, su cui è probabile che siano confluite alcune delle varianti marginali di O (cf. infra p. 119), si trova mai traccia delle sigle che abitualmente accompagnano le varianti tratte dal cosiddetto libro del patriarca.254 Inoltre, non è un fenomeno insolito che O3 intervenga su O più frequentemente di quanto faccia A3 su A.255 Che sui margini di 250 Cf. Post (1934), 52. Di O4 l’intervento in questione condivide l’inchiostro scuro. Allo stesso correttore forse è da attribuire anche l’aggiunta dello iota sottoscritto a διῇξε di 364a2. 251 Per la probabile indipendenza di Vv cf. supra pp. 96-98. Per la superiorità della lezione ἐπιστραφείς cf. il commento ad loc. 252 Cf. Post (1934), 10. Come è stato opportunamente sottolineato da Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 185, dalla ricostruzione di Post risulta che «O2 non è una mano, bensì un “contenitore”». Su questa base Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 183–191 ha proposto di identificare O2 e O4. Non entro nel merito di questa proposta. Tuttavia, non mi pare di poter seguire Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 188 quando afferma: «se O2 è lo stesso correttore che interviene isolatamente sugli Spuria, nessun intervento rilevante sui precedenti testi può essergli attribuito; rimarrebbe allora più credibile una tesi diversa, per cui sugli Spuria sarebbe intervenuto un nuovo correttore, con interessi e spessore del tutto diversi da O2/O4». Non mi sembra, infatti, che questa tesi renda adeguatamente conto del dato di 364a3 dell’Assioco. Per quanto le osservazioni di Post paiano ragionevoli, considerata la scarsità dei dati che permettano un confronto diretto, ho deciso di rinunciare ad attribuire la correzione di 364a3 ad una delle fasi diortotiche di O convenzionalmente riconosciute, limitandomi ad indicarla come Opc (lo stesso ha fatto Menchelli (2016), 99 n. 37). 253 Per una loro ricognizione cf. infra p. 105 n. 266. 254 In verità questo argomento deve essere utilizzato con molta cautela, almeno per ciò che concerne i discendenti di O. Ad esempio, risulta che J ha sistematicamente sostituito alle indicazioni caratteristiche delle varianti del patriarca la semplice sigla γρ (cf. Post (1934), 17). 255 Limitatamente alle Definitiones e agli Spuria si registrano i seguenti casi: Deff. 414a4, λεγομένου AO : λογιζομένου O3γρmarg, Demod. 383d6, ἐμφαίνουσι AO : ἐμφανιοῦσι O3γρmarg, 386a4, ἀγνῶσιν AO : ἀγνώμωσι O3γρmarg, Halc. 2, 8, ἀλκυόνας AO : ἀλκυονίδας O3γρmarg, Halc. 2, 10, ὡς αἴθρια AO : αἰθριαίτατα O3γρmarg.

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3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW)

O fossero presenti, per l’Assioco, varianti con il γρ(άφεται), sembra suggerito anche dalla testimonianza di J. Tendenzialmente, infatti, i discendenti di O hanno omesso l’apparato marginale (sia gli scolii, sia le varianti), tranne che in pochi casi. Uno di questi si registra appunto su J, il quale, oltre ad avere a testo una serie cospicua di varianti rispetto ad A (condivise da R e W), a 366e1 (γραμματισταί) registra a margine con il γρ(άφεται) la variante γυμνασταί. Alla luce di quanto si è detto, pare ragionevole supporre che tale variante fosse già registrata sui margini di O. Tirando le somme: le varianti registrate su O e passate a testo nei suoi discendenti provenivano da un modello perduto diverso da A, verosimilmente da identificare con lo stesso modello da cui A3 ha tratto alcune varianti marginali e ha colmato le fenestrae di A. Ne consegue che, come già aveva rilevato Post,256 i discendenti di O hanno contaminato la linea tradizionale di A con una linea tradizionale indipendente da A: laddove recano varianti che ragionevolmente sono da far risalire a questa linea tradizionale (e solo in questi casi: cf. meglio infra p. 105), i discendenti di O hanno valore di testimoni primari. I più diretti discendenti di O, ovvero il Vaticanus gr. 1031 (J), dell’inizio del XIV secolo,257 il Vaticanus gr. 1029 (R), del XIV secolo,258 e il Vindobonensis suppl. gr. 20 (W), vergato nel 1468 a Firenze da Giovanni Scutario-

256 Cf. Post (1934), 62. 257 Sul codice cf. Post (1934), 15 (l’Assioco è ai ff. 141v-145v). Al corpo principale del codice sono stati aggiunti tre fogli (ff. I-II e 113) contententi un testo innografico vergato da una mano che si è proposto di identificare con quella del copista del registro patriarcale Giorgio Galesiotes, cosa che collegherebbe J all’ambiente del Patriarcato (cf. Bianconi (2005), 169–171 e nn. 174–171). Sul f. 1 è presente la nota di possesso Χρυσολωρᾶ. Tuttavia, è incerto a quale Crisolora si faccia riferimento (cf. Bianconi (2005), 169; Mercati (1931), 102 n. 4 ipotizzava che si trattasse di Giovanni Crisolora, figlio di Manuele e suocero del Filelfo; l’ipotesi è ripresa da Post (1934), 17 e Berti (1992), 72). È fino ad ora passato inosservato che ai ff. 192v-193, subito dopo le Epistulae è presente un estratto di Aezio Amideno (Libri medicinales III 164, sezione περὶ ἐπισημασιῶν). L’inscriptio dell’estratto è Ἀδαμαντίου τοῦ σοφιστοῦ. Da un Περὶ ἀνέμων di Adamanzio Aezio dice di trarre il capitolo immediatamente precedente. Ciò può spiegare l’errore. Su Matrit. 4616 (olim N-84) ff. 119v-120v è riportato l’estratto che Aezio dice di trarre dal Περὶ ἀνέμων di Adamanzio, cui segue senza soluzione di continuità l’estratto περὶ ἐπισημασιῶν (come se anche quest’ultimo fosse attribuito ad Adamanzio): cf. Rose (1864), 52 e de Andrés (1987), 127. 258 Sul codice cf. Petrucci (2014), 333–370. Tomo unico in origine, R è stato diviso in due tomi distinti (A, ff. 1–488 e B, ff. 1–519). L’Assioco è ai ff. 512v-517 del tomo B. Sui margini di R sono state individuate la mano di Niceforo Gregora e forse quella di Teodoro Metochite. Per le opere da 33 (Leggi) a 43 (Assioco), cioè il contenuto di O prima che O perdesse l’Assioco, dipende da O (cf. Post (1934), 34).

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La tradizione del testo

ta,259 sono tra di loro indipendenti. Su J, infatti, gli Spuria sono anticipati rispetto alle Epistulae e alle Definitiones e l’ordine solito di queste due opere è a sua volta invertito (prima Definitiones, poi Epistulae). Anche l’ordine interno degli Spuria è alterato con lo spostamento dell’Assioco dall’ultima alla prima posizione.260 R e W, invece, presentano l’ordine tradizionale dei dialoghi.261 Tuttavia, R non può derivare da W per ragioni cronologiche, mentre W non deriva da R in quanto non ne presenta le innovazioni singolari.262 Di solito si ritiene che questi tre codici siano copie dirette di O, effettuate in tempi diversi (nel caso di W a grande distanza geografica e temporale rispetto a J e R).263 Questo fatto permette di risalire, con buona verosimiglianza, alle lezioni di O laddove J, R e W hanno innovazioni comuni ri-

259 Come si desume dalla sottoscrizione al f. 272v. Sul codice cf. Post (1934), 45 e Hunger (1957), 22. Sullo Scutariota cf. Martinelli Tempesta (2010), 171–186. L’Assioco è ai ff. 265v-270. 260 Questo fenomeno si riscontra altrove soltanto su Y e la sua discendenza (cf. infra p. 121 n. 314). È difficile spiegare questa coincidenza tra il ramo di J e quello di Y. Non risulta, infatti, che, almeno per gli Spuria, ci sia qualche relazione tra questi due rami (né in verticale, né in orizzontale). Una spiegazione che ci si può dare è che si tratti di un fenomeno poligenetico favorito dall’interesse che la cultura bizantina ha nutrito nei confronti di questo dialogo, indubbiamente superiore all’interesse per gli altri scritti dell’Appendix. È difficile, infatti, trovare un tema più fondamentale e più condizionante per l’uomo del tema della morte. E proprio questo fatto può aver indotto qualcuno ad anteporre al corpuscolo degli Spuria un’opera che affronta la domanda “la morte deve essere temuta?”. Dopotutto, anche Cicerone decise di porre la trattazione sulla paura della morte in testa alle sue Tusculanae Disputationes. Proprio la centralità del tema avrà reso il fenomeno della dislocazione dell’Assioco in apertura del corpuscolo degli Spuria facilmente ripetibile in circostanze tra loro del tutto indipendenti. 261 Per il resto, J è una copia estremamente corretta rispetto a R e W. A 366b6 si ha un errore di inversione (Ἀθηναίων ἡ πληθύς] ἡ πληθὺς Ἀθηναίων J), che, tuttavia, è stato successivamente corretto, forse dal copista medesimo, mediante l’aggiunta supra lineam dei numerali β´ (sopra πληθύς, non è chiaro se la correzione includa anche l’articolo o meno: cf. infra pp. 111-112 e nn. 285 e 286) e α´ (sopra Ἀθηναίων). Oltre alla variante marginale di 366e2, forse la stessa mano di J ha corretto supra lineam l’impossibile Ἐρυπτόλεμος in Εὐρυπτόλεμος. Nessuna di queste innovazioni si riscontra su R e W. 262 Cf. 364b3 Σώκρατες] ὦ Σώκρατες R, 364b4 πρὸς] ὑπὸ R, 365a6 ἔφην] ἔφη R, 365c6 εὐλὰς] εὐχὰς R, 368c5 ἢ κρύος] om. R, 370c8 εἰλικρινεστέραν] εἰλικρινεστάτην R, 372a11 prius καὶ om. R. RW presentano due errori comuni (366e2 αὐξανομένου] αὐξανόμενον RW, 367a5 ἐνστήσονται] ἐνστήσωνται RW). Si tratta verosimilmente di poligenesi. 263 Cf. e.g. Post (1934), 62 e Moore-Blunt (1985), viii, x e xviii (limitatamente a J e a R).

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3. La posizione di O e dei suoi più diretti discendenti (JRW)

spetto ad A. Tuttavia, come si è detto, è generalmente accettato che O è una copia di A, sui cui margini sono state riportate da A3/O3 delle varianti provenienti da un’altra fonte. Si è anche visto che, pur essendo A3/O3 verosimilmente la stessa mano che attinge alla medesima fonte, gli interventi di O3 su O sono più numerosi di quelli di A3 su A. Alla luce di ciò emerge un problema circa la ricostruzione stemmatica tradizionale. Gli apografi di O, infatti, non presentano pressoché alcuna variante marginale. In compenso, presentano direttamente nel testo un cospicuo numero di varianti rispetto ad A. Ora, se queste varianti erano state vergate sui margini di O da O3, come è possibile che J, R e W abbiano scelto per tre volte, indipendentemente ciascuno dagli altri due, esattamente le stesse varianti da mettere a testo? Non c’è difficoltà a pensare che J, R e W abbiano ereditato da O, indipendentemente l’uno dagli altri due, i loro errori comuni264 o le innovazioni che correggono palesi errori di A:265 queste innovazioni difficilmente corrispondevano a varianti di O3, ma, più verosimilmente, erano errori o correzioni eseguite direttamente da O. Più problematico è il caso di una serie di varianti che non sono errori palesi e che non correggono errori palesi di A.266 Da questa aporia si può uscire in due modi: 1) le varianti di O3, che secondo la ricostruzione stemmatica tradizionale, erano segnate sui margini di O, in verità erano già a testo su O; 2) J, R e W non sono copie dirette di O, ma copie di una copia perduta di O su cui era stata compiuta la scelta delle varianti da mettere a testo, scelta che è poi passata su J, R e W. L’ipotesi (2) pare più ragionevole, ma per fare meglio chiarezza su questo punto occorrerebbe un riesame del comportamento di O rispetto ad A e rispetto ad A3 e O3 , e di JRW rispetto ad O/O3, per tutti gli Spuria (e forse non solo).

264 Cf. e.g. 364d1 τὴν A : om. JRW, 365a4 δὲ A : om. JRW, 369a6 ἴσμεν A : om. JRW (spatium reliquit J). 265 Cf. e.g. 365b8 ἔχειν A : ἔχει JRW, 366b5 ἕτοιμά A : ἔτυμά JRW, 371c9 ἐαριζομένοις A : ἐαριζομένοι JRW. 266 Cf. e.g. 364d1 Ἰτωνυμίαις A : Ἰτωνίαις JRW, 367a2 πόνος A : χρόνος JRW, 367c4 ἔσεσθαι Α : γενέσθαι JRW, 369d1 ἐκ μὲν τῆς A : σὺ μὲν ἐκ τῆς JRW, 370d4 ἄπονος A : ἄγονος JRW, 371d2 εὐμελῆ A : ἐμμελῆ JRW, 372a11 oὗτος ὁ λόγος A : ὁ σὸς λόγος JRW, 372a15 κἀγὼ δὲ A : κἀγὼ γὰρ JRW.

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4. La posizione di Par Sul Parisinus gr. 1808 (Par), datato al XI-XII secolo,267 Stefano Martinelli Tempesta ha distinto diverse fasi diortotiche. La prima di esse può essere attribuita al copista stesso che interviene in tempi diversi non molto distanti fra loro, durante e dopo la copiatura del testo (Par2). Questi interventi sanano per lo più errori banali. Tutte le correzioni di Par2 si sono riversate negli apografi di Par. C’è poi un altro gruppo di correzioni, introdotte da più mani in tempi diversi, raggruppabili nel contenitore Par3: esse sono state recepite solo da alcuni discendenti di Par.268 Il criterio per distinguere Par2 e Par3, dunque, è essenzialmente filologico269. Nel caso dell’Assioco Par presenta una serie di errori che rendono immediatamente riconoscibile la sua discendenza.270

267 Su Par cf. Omont (1888), 146 e Martinelli Tempesta (2003), 47 (con ulteriore bibliografia). A lungo il codice è stato datato al XIII secolo (cf. e.g. Omont (1888), 146 e Post (1934), 53). Su basi paleografiche la datazione è stata inizialmente abbassata ai secoli XI-XII da Brockmann (1992), 26 ed è stata successivamente precisata alla seconda metà dell’XI secolo da Pérez Martín (2005), 116–117 e n. 16. Poco chiaro, tuttavia, è il richiamo che la Pérez Martín fa a Irigoin (1985–1986), 692, cui attribuisce la datazione del codice alla seconda metà dell’XI secolo. Nel luogo citato di Irigoin, infatti, è sì indicata una datazione alla seconda metà dell’XI secolo, ma essa riguarda il Vindobonensis phil. gr. 7 di Platone e non Par. Né ho trovato altri luoghi in cui Irigoin si sarebbe occupato della datazione di Par. L’Assioco è ai ff. 354–356. 268 All’interno di Par3 Martinelli Tempesta ha ulteriormente individuato, almeno nel caso del Liside, tre distinti correttori (a, b, c). Nel caso dell’Assioco il materiale è troppo scarso per tentare una simile differenziazione. 269 Su questa base nel caso dell’Assioco si possono attribuire a Par2 le seguenti correzioni, recepite da tutti i discendenti di Par: 364b2 δακρυμένος Parut vid : δεδακρυμένος Par2, 364b4 πρὸς Par2sl et ras, 366e1 παιδοτρίβαι Par2 (τρ Par2). Invece, può senza dubbio essere attribuita a Par3 la correzione di 371d6 ἁγιωστίας Parut vid : ἁγιστίας Par3, in quanto ἁγιωστίας è la lezione di Ang, mentre gli altri discendenti di Par (C Par. 2010 Laur. 59.1 Vat. 226) hanno ἁγιστίας. È difficile decidere se attribuire a Par2 o a Par3 la correzione di 370c2 χειμῶνας Par : χειμῶνος Parpc (ο Parpcsl) in quanto Ang ha omesso interamente questa sezione di testo (cf. infra p. 117 n. 303). 270 Cf. 365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par, 367c5 ὁμοίως] om. Par, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par, 369c5–6 τῶν μήτε ὄντων] τῶν μήτε ὄντων νῦν Par, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par, 370b3 τόσον δυους] τόσον δοιοὺς Par, 370b3 μεγεθουργίας] μεθουργίας Par, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par.

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4. La posizione di Par

È generalmente accettato che per le prime sette tetralogie Par deriva dal Marcianus graecus Append. Class. IV.1 (T).271 Tuttavia, attualmente T non contiene gli Spuria. Per questo corpuscolo di testi, dunque, la questione del modello di Par è molto più complicata. Sia pure dubitativamente, Post sostenne che, nel caso degli Spuria, Par discenderebbe da A.272 Tuttavia, egli restava incerto sul problema se la dipendenza di Par da A fosse diretta o indiretta. Avanzava quindi l’ipotesi che T avesse contenuto originariamente anche gli Spuria e che Par fosse derivato da A tramite T.273 Tuttavia, secondo Post il caso dell’Assioco è ancora più complicato: «B [= Par] has in Ax. a few readings that do not come from A, but are supported by the copies of O … they may be due to the correction of an intermediary copy of A, or alternatively B [= Par] may derive from a manuscript very close to A, but not from A itself».274 In relazione al problema del modello di Par per ciò che concerne l’Assioco bisogna tenere conto dei seguenti elementi: 1) Par ha un comportamento eclettico nei confronti delle correzioni di A.275 2) Par presenta quasi tutti i marginali di A (gli scolii e i marginalia di A3);276 in più, ha due scolii assenti nel resto della tradizione dell’Assioco (eccezion fatta, ovviamente, per alcuni discendenti di Par).277

271 La dimostrazione fu fornita da Schanz (1877), 47–51. 272 Cf. Post (1934), 52–53. 273 Cf. Post (1934), 53: «Spp. may also have come from T, though it does not have them now. They seem to derive from A». 274 Post (1934), 53 (cf. anche p. 62). 275 Presenta a testo la maggior parte delle correzioni attribuibili ad A2 o ad A4. In un caso Par presenta una correzione supra lineam in forma pressocché analoga ad A2 (371b4 πρόπολα A : πρόθυρα A2 (θυ et ρ A2sl) : πρόπυλα Par (θ et ρ Parsl). In un caso Par presenta a margine una correzione di A2sl: 367a5 τὴν A Par : τίς A2 (ίς A2sl) Par (τίς Parmarg). Inoltre, Par non recepisce le correzioni di 367a5, 368c2 e 370a5 (cf. supra pp. 91-92 n. 213). Delle annotazioni di A3, Par riproduce a margine 366c4–5 γρ. τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι (come A3) e 367c4 γρ. γενέσθαι (come A3?), mentre mette a testo τὰ μὲν ἥδοντα μυχιαῖα, vergato da A3 sul margine con γρ. Infine, a 366a1 Par ha a margine χώρῳ senza il γρ (A3 ha γρ. χωρίῳ), con un segno di richiamo a forma di “s” ripetuto sopra φρουρίῳ (questo segno si può interpretare sia come segno di sostituzione, sia come indicazione di una glossa: nel primo modo è utilizzato da Par a 367a5, nel secondo a 365b6, dove σχεδόν, ἐγγύς glossa e non sostituisce μονονουχί). Le varianti marginali e gli scolii sono scritti dalla stessa mano di Par (non si ha dunque una stratigrafia di mani diverse come su A). 276 Manca l’annotazione relativa al motto di Biante di Priene: ση(μείωσαι) τὸν περὶ τῶν ναυτικῶν τοῦ Βίαντος λόγον (schol. [Plat.] Ax. 368b Greene). L’omissione è verosimilmente collegata al fatto che si tratta dell’unico scolio non esegetico. 277 Il primo scolio, già segnalato da Greene (schol. [Plat.] Ax. 368b), spiega il termine βαναύσους ed è analogo (con alcune varianti) a schol. Plat. Theaet. 176c (= 141

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La tradizione del testo

3) Par condivide errori e lezioni di A contro Vv o contro i discendenti di O (o contro entrambi).278 4) Par condivide lezioni di Vv o dei discendenti di O (o di entrambi) contro A (in genere correggendo errori di A).279 Cufalo). L’altro, invece, era sfuggito a Greene, pur essendo uno scolio di grande interesse. Esso, infatti, spiega l’espressione proverbiale di 367b6–7 δὶς παῖδες οἱ γέροντες adducendo una ricca serie di paralleli: ἐπὶ τῶν πρὸς τῷ γήρᾳ εὐηθεστέρων εἶναι δοκούντων· μέμνηται δὲ αὐτῆς Κρατῖνος ἐν Δηλιάσι λέγων· “ἦν ἄρα ἀληθὴς ὁ λόγος, δὶς παῖς ὡς ἔστιν ὁ γέρων” (Cratin. PCG IV fr. 28)· καὶ Πλάτων ἐν Nόμων α´· “οὐ μόνον ἄρα, ὡς ἔοικεν, ὁ γέρων δὶς παῖς γίγνεται, ἀλλὰ καὶ ὁ μεθυσθεὶς” (Plat. Leg. I 646a)· καὶ Μένανδρος Χήρᾳ (Men. PCG VI.2 fr. 408) καὶ Ἀριστοφάνης Νεφέλαις α´ (cf. PCG III.2, p. 216). Si tratta di uno scolio paremiografico la cui Deutung è nota anche da altre fonti (cf. e.g. Diogen. IV 18, ἐπὶ τῶν πρὸς τὸ γῆρας εὐηθεστέρων). Tuttavia, nessun’altra fonte nota presenta come in questo caso la Herleitung, ossia l’indicazione dei loci classici da cui il proverbio secondo il paremiografo avrebbe avuto origine. Inoltre, Par (e la sua discendenza) è l’unica fonte conservata del frammento delle Deliadi di Cratino. Tuttavia, i marginalia di Par (compreso questo) sono in parte mutili a causa della rifilatura dei fogli: ciò rende necessario ricorrere alla discendenza di Par per recuperare la lezione integra di questo materiale. L’esistenza di questo secondo scolio nella sua forma completa fu segnalata per la prima volta da Bast ap. Böttinger (1838), 197–198 sulla base della sola testimonianza del Parisinus gr. 1809 (C), discendente di Par. Il rango primario della testimonianza di Par per la trasmissione di questo scolio fu riconosciuto da Luppe (1968), 51–52 (sulla base delle comunicazioni fornitegli da Charles Astruc). Sul contributo di Luppe si sono basati Rudolf Kassel e Colin Austin per l’edizione del frammento di Cratino e più recentemente Bianchi (2016), 170–173. Occorre tuttavia tenere presente che: 1) Par e C non sono gli unici manoscritti che recano questo scolio (esso, infatti, è presente anche in altri discendenti di Par come Laur. 59.1 e Ang); 2) diversamente da quel che sosteneva Luppe (1968), 51, A non contiene la pericope ἐπὶ τῶν πρὸς τῷ γήρᾳ εὐηθεστέρων εἶναι δοκούντων. 278 Cf. 364a3 ἐπιστραφεὶς Vv OpcJpc RW (ἐπι Opcsl Jpcsl) : περιστραφεὶς A OJ Par, 364d1 Ἰτωνίαις JRW : Ἰτωνυμίαις A Vv Par, 365b4 κοινὸν Vv Stob. : καινὸν A Par JRW, 367a2 χρόνος Vv JRW Stob. : πόνος A Par, 369a9 σύγκλυδος Vv JRW : συγκλύδωνος A Par, 370d4 ἄγονος Vv JRW : ἄπονος A Par, 372a11 oὗτος ὁ λόγος A Vv Par : ὁ σὸς λόγος JRW. 279 Cf. 365c2 παρ’ αὐτὸ Par JRW (παρὰ R) Vv: παρὰ ταὐτὸ A, 366b5 ἔτυμά μοι Par JRW Vv : ἕτοιμά μοι A, 367c1 οὓς ἂν Par JRW Vv : καὶ ante οὓς add. A, 367d8 ὀϊζυρώτερον Par JRW Vv : ὀϊζυρότερον A, 367e1 ὅσσα Par JRW Vv : ὅσα A, 369a1–2 Ἐρυπτόλεμος Par JRW Vv : Ἐρυπτόλεος A, 369a7 ἰόντες Par JRW Vv : ὄντες A, 369d1 σὺ μὲν ἐκ τῆς Par JRW : σὺ μὲν ὦ Σώκρατες ἐκ τῆς Vv : ἐκ μὲν τῆς A, 369d2 προείρηκας A : εἴρηκας Par JRW Vv, 369d5 γὰρ Par Vv : δὲ A JRW, 370d5 φύσιν καὶ φιλοσοφῶν Par JRW Vv : καὶ om. Α, 371a6 Ἑκάεργος Par JRW Vv : Ἑκάεργε Α, 371c9 ἐαριζόμενοι Par JRW Vv : ἐαριζομένοις A, 372a11 με Par Vv : μὴν A JRW. In alcuni di questi casi la concordanza con le lezioni di Vv e di JRW può essere dovuta a congettura poligenetica. In un caso Par concorda con

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4. La posizione di Par

Evidentemente Par per ciò che concerne l’Assioco è una recensione dotta che contamina più fonti e forse ricorre anche alla correzione ope ingenii. Non si può escludere che A sia stato tra le fonti di Par. Ciò è suggerito dal precedente punto 3 e soprattutto dal fatto che Par presuppone tutte le annotazioni di A 3. Par, infatti, sembra presupporre tra i suoi modelli un codice che aveva le caratteristiche di A + A3. È poco verosimile che sia esistito un codice indipendente da A che presentava allo stesso tempo gli errori significativi di A e i marginali di A3. Dunque, si può escludere la prima ipotesi di Post, cioè che Par derivi da un codice perduto indipendente da A. Resta la aperta la seconda ipotesi di Post, cioè che Par derivi da un discendente di A contaminato con altre fonti. Teoricamente si potrebbe pensare ad O. Lo stesso Post notava delle convergenze tra Par e i discendenti di O. Tuttavia, la discendenza di O non presenta gli scolii aggiuntivi che si leggono su Par e le affinità tra Par e i discendenti di O possono essere dovute alla vicinanza di Par alla fonte di O3, non necessariamente ad O. Tuttavia, se Par deriva in forma mediata da A, ma non deriva da O, bisogna concludere che Par discende da una copia perduta di A. La soluzione più ragionevole è quella di estendere all’Assioco l’ipotesi, formulata sempre da Post, di una derivazione di Par da T per gli Spuria. Per il Clitofonte e per la Repubblica T deriva (forse indirettamente) da A dopo l’intervento di A3 (nella Repubblica fino a 389d7, dove incomincia la sezione più recente di T, del XV secolo).280 Come si è detto, Post aveva ipotizzato che T a suo tempo avesse contenuto anche gli Spuria. Questa ipotesi fu ripresa con maggiore convinzione da Aubrey Diller il quale concludeva: «The format and contents of codex T suggest that it originally was a complete Plato of some four hundred leaves».281 Dunque, se si ammette che in origine T conteneva anche gli Spuria è ragionevole aspettarsi che (diretta-

A e Vv contro i discendenti di O (372a15 δὲ A Par Vv : γὰρ JRW). In 372a11 Par (e la sua discendenza) reca, insieme a V, la forma corretta ὁ οὐράνιος, laddove il resto della tradizione omette l’articolo (può trattarsi di una congettura poligenetica: l’articolo è necessario). A 366e1 Par ha la lezione γυμνασταί contro γραμματισταί del resto della tradizione; γυμνασταί ricompare soltanto sul margine di J (e nella sua discendenza) con il γρ (cf. supra p. 103). 280 Cf. Boter (1989), 111–118. 281 Cf. Diller (1980), 322–324 (la citazione è da pp. 323–324, cf. inoltre n. 10); cf. anche Boter (1989), 118 n. 7, il quale aggiunge: «of course, it is possible that Par. 1808 does not go back to the lost part of T in Spp. but borrowed Spp. from another source». Non mi pare che ci siano elementi che facciano pensare che una tale possibilità, oltre che teoricamente ammissibile, sia anche preferibile all’ipotesi di Diller.

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La tradizione del testo

mente o indirettamente) T derivasse gli Spuria da A, come per il Clitofonte e per parte della Repubblica. Questa ipotesi soddisfa pienamente il requisito generale richiesto dal modello di Par, ossia la sua discendenza da A + A 3 ed inoltre è coerente con il fatto che Par deriva da T per le prime VII tetralogie. Ma l’ipotesi permette anche di spiegare la presenza su Par di scolii aggiuntivi rispetto ad A. Infatti, T presenta un corpus scoliastico più ricco di quello del resto della tradizione manoscritta platonica.282 In particolare, T presenta in più degli scolii di natura paremiografica, quale è appunto il più interessante dei due scolii aggiuntivi di Par. Dunque, anche questa caratteristica di Par è coerente con le caratteristiche generali di T e depone a sua volta a favore del fatto che Par abbia derivato gli Spuria da una sezione di T ora perduta. Si può pensare che Par dopo aver copiato le prime sette tetralogie, ossia la sezione di T il cui contenuto corrisponde al primo tomo di un Platone completo, sia passato direttamente al corpuscolo degli scritti spuri “saltando” le restanti due tetralogie (VIII e IX) che per la loro mole avrebbero occupato uno spazio non inferiore alle prime sette.283 Restano da spiegare le convergenze tra Par e i discendenti di O. La spiegazione più semplice è che Par abbia contaminato T con una fonte prossima, se non identica, a quella da cui provengono i marginali di O. In conclusione, Par non può valere come testimone primario, ma, in quanto reca le tracce di una fonte indipendente perduta, deve essere comunque considerato per la constitutio textus.284

282 Cf. Diller (1980), 324 e Cufalo (2007), lxi-lxii e ci-cii. 283 Un fenomeno analogo si può osservare nel caso del Parisinus gr. 3009 (Z, su cui cf. infra p. 112 n. 290), su cui sono state omesse le Leggi, verosimilmente presenti sul modello da cui Z è stato copiato, proprio in ragione della loro estensione (cf. Müller (1979), 245 n. 40: «Der große Block aller 12 Bücher ergibt dagegen eine hinreichende Begründung für die Auslassung»). 284 In passato sono state messe in evidenza convergenze tra Par e le citazioni dell’Ecloga vocum Atticarum di Thomas Magister: cf. Carlini (1972), 167–168 e Menchelli (2002), 186 n. 136. Per ciò che concerne l’Assioco queste convergenze non sono confermate. Anzi, si può escludere che Par sia stato il modello da cui l’erudito bizantino ha tratto le due citazioni di questo dialogo: Thom. Ecl. p. 70, 10–11 Ritschl (= 367c3–4), εὐξάμενοι τὸ κράτιστον αὑτοῖς γενέσθαι, Thom. Ecl. p. 115, 7–8 Ritschl (= 364a3–4), ἐπιστραφεὶς δὲ Κλεινίαν ὁρῶ τὸν Ἀξιόχου. Nel primo caso si può avere qualche dubbio sull’esistenza o meno di un rapporto tra Par e Thomas, in quanto il testo di Par presenta l’infinito ἔσεσθαι, mentre γενέσθαι è riportato in margine come variante con γρ. Ma il secondo caso è dirimente: Par, infatti, ha περιστραφείς, laddove ἐπιστραφείς è lezione tipica della discendenza di O e di Vv.

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5. La stirps vaticana e la recensio Plethonis

5. La stirps vaticana e la recensio Plethonis Tra i più diretti discendenti di O, J è il codice con il maggior numero di copie conservate. Da J derivano, infatti, il Laurentianus conv. soppr. 78 (Laur.conv.soppr. 78), dell’inizio del XIV secolo,285 il Laurentianus plut. 80.17 (L), della metà del XΙV secolo,286 e il Marcianus gr. 188 (K), della metà del XIV secolo.

285 Sul codice cf. Rostagno, Festa (1893), 149 e Manfrin (2017), 17–18 e nn. 52–53. L’Assioco è ai ff. 21–23. Laur.conv.soppr. 78 presenta l’ordine degli Spuria che si trova su J e le innovazioni caratteristiche di J: a 366b6 (Ἀθηναίων ἡ πληθύς) Laur.conv.soppr. 78 ha ἡ Ἀθηναίων πληθύς, frutto della correzione che J ha apposto per rimediare all’errato ἡ πληθὺς Ἀθηναίων (cf. supra p. 104 n. 261); a 366e1 (γραμματισταί) Laur.conv.soppr. 78 segna supra lineam γυμνασταί, verosimilente ripreso dal marginale di J (γρ γυμνασταί); a 369a1–2 Laur.conv.soppr. 78 ha Ἐρυπτόλεμος corretto in Εὐρυπτόλεμος con υ supra lineam, proprio come avviene su J. Non presenta le innovazioni degli altri discendenti di J. Laur.conv.soppr. 78 presenta alcuni errori che si trovano anche altrove nella tradizione dell’Assioco, ma non negli altri discendenti di J (364a1 Ἐξιόντι] Ἀξιόντι Laur.conv.soppr. 78 Μarc. 590, 365d1 ἀνεπιστασίαν] ἐπιστασίαν Laur.conv.soppr. 78 W, 368b1 τὰς χειρωνακτικὰς] τοὺς χειρωνακτικοὺς Laur.conv.soppr. 78 Marc. 186pc). Si tratta di tre casi di poligenesi. Particolarmente sorprendente è il primo errore che investe proprio la prima lettera del dialogo. Esso si sarà prodotto per assonanza (e forse anche confusione grafica) con il titolo (Ἀξίοχος) che precede immediatamente la prima parola del dialogo (si tenga inoltre presente che sia su Laur.conv.soppr. 78 sia su Marc. 590 la lettera iniziale è stata scritta in un secondo momento dal rubricatore; un errore in senso contrario si verifica nell’indice latino del f. a di Urb. 32, dove il titolo del nostro dialogo diventa Exiochus: cf. Martinelli Tempesta (1997), 21). L’errore di 365d1 è anch’esso facilissimo: chi non coglie il senso che la preposizione παρά ha in questo contesto è portato a mutare ἀνεπιστασίαν nel suo contrario. Infine, l’errore di 368b1 è facilmente indotto dal successivo βαναύσους. Curiosamente su Laur.conv.soppr. 78 manca l’Erissia che invece è presente in J. Un fenomeno analogo si verifica su Y dove l’Assioco è in prima posizione e manca l’Erissia. Anche in questo caso sembra ragionevole pensare a poligenesi (cf. anche infra p. 121 n. 314). Per la dipendenza di Laur.conv.soppr. 78 da J cf. anche Post (1934), 59. 286 Sul codice cf. Bandini (1768), 207; Post (1934), 22–28; Fryde (1996), 287, 363– 364, 803 e Pagani (2007–2008), 1039. Lungamente il codice è stato datato all’inizio del XV secolo (cf. e.g. Post (1934), 2 e 69 e Moore-Blunt (1985), ix). La retrodatazione, effettuata sulla base delle filigrane e della scrittura, si deve a Bianconi (2005), 168–169 (così come l’identificazione della mano con quella dello scriba F, celebre copista dei ff. 3–128 del Laurentianus plut. 31.8 di Eschilo). L’Assioco è ai ff. 266v-272. L presenta l’ordine degli Spuria di J e le sue innovazioni: a 366b6 (Ἀθηναίων ἡ πληθύς) L ha ἡ Ἀθηναίων πληθύς, frutto della correzione che J ha apposto per rimediare all’errato ἡ πληθὺς Ἀθηναίων (cf. supra p. 104 n. 261); a 366e1 (γραμματισταί) L segna nel margine γυμνασταί (la lezione è preceduta da

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K presenta dei problemi simili a quelli di O.287 Attualmente, infatti, K non contiene l’Assioco in quanto ha subito una perdita considerevole di fogli tra Epin. 988b1 e Dem. 380a7, perdita che ha “inghiottito” circa 1/5 dell’Epinomide, l’Assioco, il De iusto, il De virtute, e i primi righi del Demodoco. In seguito il danno è stato riparato (forse dal cardinale Bessarione) solo per ciò che concerne l’Epinomide e il Demodoco.288 Dunque, per farsi un’idea del testo perduto di K occorre fare riferimento alle caratteristiche comuni della sua discendenza, sorta prima che K perdesse l’Assioco. Da K discendono l’Escorialensis Ψ.I.1 (Esc), vergato a Corfù da Demetrio Trivolis nel 1462,289 il Parisinus gr. 3009 (Z), del XV secolo,290 il Vaticanus gr.

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un dicolon, segno che è replicato sopra γραμματισταί), ripreso dal marginale di J (γρ γυμνασταί); a 369a1–2 L ha Εὐρυπτόλεμος secondo la correzione supra lineam di J. Non presenta le innovazioni degli altri discendenti di J. Aggiunge errori propri (365b6 οὕτως] οὕτω L, 368c4 ἐπομβρίας] ἐπομβρίαν L, 371a2 ἀνὴρ μάγος] μάγος ἀνὴρ L). Degna di nota è l’innovazione di 367b6 dove, contro il resto della tradizione manoscritta che ha ἀκμάζουσιν, L ha ἀπακμάζουσιν, lezione condivisa dallo Stobeo e da Psello. Il sospetto è che questa lezione sia stata recuperata da L per contaminazione extrastemmatica. È difficile, infatti, pensare che si tratti di una congettura (cf. anche il commento ad loc.). L’ipotesi di contaminazione con lo Stobeo è possibile, ma desta qualche perplessità il fatto che L abbia registrato soltanto questa variante, nonostante che lo Stobeo, in questi stessi righi, riporti altre varianti degne di nota. L’impressione è che L, che per il resto non presenta lezioni significative, sia venuto a conoscenza della sola variante ἀπακμάζουσι(ν). Ma questa è di fatto la situazione che si trova nella citazione di Psello. Il sospetto, dunque, è che L abbia in questo punto contaminato il suo modello principale con una fonte che conteneva soltanto queste poche parole dell’Assioco (Psello o un’altra fonte che riportava solo questa breve sezione del dialogo). Sulla possibilità che L sia stato tenuto presente dal Ficino per la sua traduzione dell’Assioco cf. infra pp. 145-146 e n. 416. Per la dipendenza di L da J cf. anche Post (1934), 22–24. Su K cf. Mioni (1981), 300. K presenta l’ordine degli Spuria di J (cf. supra p. 104). Inoltre, la sua discendenza presenta le altre innovazioni di J (su cui cf. supra p. 104 n. 261), mentre non reca gli errori propri di Laur.conv.soppr. 78 e di L (cf. le due note precedenti). Per la dipendenza di K da J cf. anche Post (1934), 18–19. Su queste vicende di K, oltre al già citato Post (1934), 18–19, cf. Petrucci ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 201. Su questo codice cf. de Andrés (1967), 2; Brockmann (1992), 19 e Manfrin (2014), 10 e n. 27. L’Assioco è ai ff. 194–195v. Esc presenta la successione degli Spuria di J e della sua discendenza. Per la dipendenza di Esc da K cf. anche Post (1934), 59 (dubitativamente) e Müller (1979), 237–251. Su questo codice cf. Omont (1902), II 1118 e Menchelli (2008), 290 (con ulteriore bibliografia). L’Assioco è ai ff. 198v-203v. Z presenta l’ordine degli Spuria di J e della sua discendenza. Per la dipendenza di Z da K cf. anche Post (1934), 22 e Müller (1979), 237–251.

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2236 (Vat. 2236), vergato da Raoul Demetrio Kavakis nel XV secolo,291 e il Laurentianus plut. 28.29 (Laur. 28.29), vergato da Alessio Celadeno (1450– 1517).292 Laur. 28.29 è un apografo di Vat. 2236.293 Invece, Esc Z e Vat. 2236 sono tra loro indipendenti.294 Tuttavia, presentano considerevoli tratti comuni, il più significativo dei quali è una vera e propria riscrittura della sezione cosmologica del mito di Gobria (371a2-b3):295

291 Su questo codice cf. Lilla (1985), 348–359. L’Assioco è ai ff. 120–125. Su Raoul Demetrio Kavakis cf. Keller (1957), 367 e Speranzi (2015), 210 n. 38. Questo codice non era noto a Post. 292 Laur. 28.29 era stato in precedenza assegnato da Harlfinger (1974), 30 all’Anonymus δ-καί, la cui mano è stata in seguito identificata con quella del Celadeno da Speranzi (2009), 105–123. Sul Celadeno cf. inoltre Speranzi (2015), 119–213. L’Assioco è ai ff. 37v-44v. 293 Post (1934), 60–61 e 68 si limitava a rilevare la dipendenza di Laur. 28.29 da K e l’indipendenza reciproca di Laur. 28.29 da Z e di Z da Laur. 28.29, nonostante la presenza di innovazioni congiuntive tra i due (Post non conosceva Vat. 2236). Diller (1956), 40 individuò in Vat. 2236 il modello di Laur. 28.29 per gli escerti straboniani ivi contenuti. Questa relazione è confermata nel caso dell’Assioco. Laur. 28.29, infatti, presenta gli errori caratteristici di Vat. 2236. A questi errori Laur. 28.29 aggiunge degli errori propri. Particolarmente interessanti sono gli errori di 366c4–5 (ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει] ἃ δὲ χεὶρ ταχὺ ῥανίζει Laur. 28.29), 368d3 (ποππυσθείη] ποππυθείη Laur. 28.29) e di 369c5 (Σκύλλης] κύλλης Laur. 28.29). Nel primo caso, infatti, Laur. 28.29 produce un errore secondario per effetto dell’errore di primo grado contenuto nel suo modello (366c4–5 ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει] ἃ δὲ χεὶρ τα χεῖρα νίζει Vat. 2236), nel secondo e nel terzo caso l’errore si produce per mélecture del ductus di Raoul Demetrio Kavakis il quale riduce il sigma di ποππυσθείη e il primo sigma di Σκύλλης ad un piccolo occhiello attaccato in basso a sinistra alla lettera seguente. A margine di 364c1–2 dove παρηγόρησον è stato omesso da Vat. 2236 e da Laur. 28.29, Alessio Celadeno ha scritto πείθε (sic), imperativo richiesto dal senso della frase. 294 Esc presenta errori assenti in Z e in Vat. 2236 (cf. e.g. 364a3 περιεσκόπουν] περιεσκόπου Esc, 365c4 ἀτιμάζονται] ἀτιμάζοντας Esc, 368d3 ποππυσθείη] ποπτυσθείη Esc, 368d4 συριττόμενον] συριττούμενον Esc, 371b1 prius τοῦ om. Esc). Z presenta errori assenti in Esc e in Vat. 2236 (cf. e.g. 365a6 ποῦ] τοῦ Z, 365d7 τῆς] τοῦ Z, 366a1 δὲ] om. Z, 366d1 φράσαιμι] φράσαι μοι Z, 371c2–3 καθέζονται] καθέκαθέζονται Z, 371d7 πῶς οὖν ἐν σοὶ] πῶς οὖν ἐν σοὶ πῶς οὖν ἐν σοὶ Z, 372a11 οὕτως] ὥστε Z). Vat. 2236 presenta errori assenti in Esc e in Z (cf. e.g. 364c1–2 παρηγόρησον] om. Vat. 2236, 369e4 ἀντεισάγων κακῶν] om. Vat. 2236, 371a4 τηρήσειε] τηρήσειν Vat. 2236, 372a2 αἰκίαν] om. Vat. 2236, cf. anche la nota precedente). Sulle relazioni tra questi codici cf. anche infra p. 114 n. 296. 295 A ciò vanno aggiunte altre innovazioni comuni, molte delle quali sono semplici errori del modello comune. In altri casi, però, è più verosimile pensare ad interventi diortotici congetturali ascrivibili al medesimo correttore che ha alterato la sezione cosmologica del mito di Gobria (e.g. 366d1 ἃ μνημονεύσω] ἂν μνημονεύσω Esc Z

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La tradizione del testo

AJ

Esc Z Vat. 2236 (Laur. 28.29)

ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν τὸν πάππον αὑτοῦ καὶ ὁμώνυμον, πεμφθέντα εἰς Δῆλον, ὅπως τηρήσειε τὴν νῆσον ἄσυλον ἐν ᾗ οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο, ἔκ τινων χαλκέων δέλτων, ἃς ἐξ Ὑπερβορέων ἐκόμισαν Ὦπις τε καὶ Ἑκάεργος (Ἑκάεργε A) ἐκμεμαθηκέναι κατὰ τὴν τοῦ σώματος λύσιν τὴν ψυχὴν εἰς τὸν ἄδηλον χωρεῖν τόπον, κατὰ τὴν ὑπόγειον οἴκησιν, ἐν ᾗ βασίλεια Πλούτωνος -οὐχ ἥττω τῆς τοῦ Διὸς αὐλῆς-, ἅτε τῆς μὲν γῆς ἐχούσης τὰ μέσα τοῦ κόσμου, τοῦ δὲ πόλου ὄντος σφαιροειδοῦς, οὗ τὸ μὲν ἕτερον ἡμισφαίριον θεοὶ ἔλαχον οἱ οὐράνιοι, τὸ δὲ ἕτερον οἱ ὑπένερθεν

ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν τὸν πάππον αὑτοῦ καὶ ὁμώνυμον, πεμφθέντα εἰς Δῆλον, ὅπως τηρήσειε τὴν νῆσον ἄσυλον ἐν ᾗ Ἀπόλλωνος (Ἀπόλωνος Z Vat. 2236) ἱερὸν ἁγιώτατον, ἔκ τινων χαλκέων δέλτων, ἃς ἐξ Ὑπερβορέων ἐκόμισαν Ὦπις τε καὶ Ἑκάεργος ἐκμεμαθηκέναι κατὰ τὴν τοῦ σώματος λύσιν τὴν ψυχὴν εἰς τὸν Ἅδου (sic) χωρεῖν τόπον, κατὰ τὴν ὑπέργειον οἴκησιν, ἐν ᾗ βασίλεια Πλούτωνος – παραπλήσια τῆς τοῦ Διὸς αὐλῆς-, ἅτε τῆς μὲν γῆς ἐχούσης τὰ μέσα τοῦ κόσμου, τοῦ δὲ πόλου ὄντος σφαιροειδοῦς, οὗ τὸ μὲν ἐξωτάτω τῆς σφαίρας θεοὶ ἔλαχον οὐράνιοι, τὸ δὲ εἴσω οἱ ὑπένερθεν

Non è conservato alcun discendente di J con le caratteristiche elencate. È ragionevole concludere che tali innovazioni risalgano al perduto Assioco di K.296 K appartenne al filosofo Giorgio Gemisto Pletone, maestro del Bessarione e guida del cenacolo filosofico di Mistrà. Proprio intorno a Pletone si mossero anche Demetrio Trivolis, copista di Esc e Raoul Demetrio Kavakis,

Vat. 2236, 370b2 οὐ γὰρ δή γε θνητή γε φύσις] alterum γε om. Esc Z. Vat. 2236, 370b3 τόσον δυους διήρατο A J : τοσόνδε διήρατο Esc Z Vat. 2236). 296 Si aggiunga che Esc Z e Vat. 2236 (e Laur. 28.29) non presentano le innovazioni proprie degli altri discendenti noti di J (Laur.conv.soppr. 78 e L). Müller (1979), 237–251 ha mostrato che tra K e questa sotto-famiglia di codici è esistita una Zwischenstufe (ψ). Un altro anello intermedio comune (ζ) è da postulare tra ψ e Z e Vat. 2236. Si registrano, infatti, errori comuni tra Z e Vat. 2236 contro Esc (cf. e.g. 367a1 ῥάβδοι Esc : ῥαῦδοι Z Vat. 2236, 368c4 νυνὶ δὲ ἐπίκαυσιν Esc : om. Z Vat. 2236). A ciò si aggiunga che Z e Vat. 2236 sostituiscono al titolo Ἀξίοχος il titolo Κλεινίας, a fronte del regolare Ἀξίοχος di Esc, e che entrambi a 367a6 hanno λυπηροῖς a testo e in margine γρ χαλεποῖς (assente in Esc). Già Müller (1979), 237–251 era andato in questa direzione, ma, non conoscendo Vat. 2236, si era basato sulla testimonianza del suo apografo Laur. 28.29. Più difficile è capire se nel caso dell’Assioco anche tra ψ ed Esc è esistito un anello intermedio (ε) come avviene secondo Müller per il De virtute, l’epitafio del Menesseno e il V libro delle Leggi (l’Assioco, infatti, è assente nel Monacensis gr. 490).

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copista di Vat. 2236. Ma il dato più interessante è che fu proprio Pletone ad eseguire la minuziosa diortosi di K e allo stesso tempo fu lui a censurare mediante rasura interi passi di diversi dialoghi. In alcuni casi alla rasura egli fece seguire una vera e propria riscrittura del passo (cf. e.g. Epin. 986e3–987c7). Questa falsificazione del testo platonico era finalizzata ad «eliminare passaggi non in linea con la teologia di Mistrà».297 Dunque, è ragionevole pensare che anche la riscrittura della sezione cosmologica del mito di Gobria dell’Assioco, così come gli interventi diortotici che si riscontrano in altri punti del dialogo, risalgano alla manipolazione che Giorgio Gemisto Pletone effettuò su K. Non a caso la sezione dell’Assioco riscritta presenta delle caratteristiche comuni ai luoghi di altri dialoghi erasi o riscritti da Pletone. È stato notato, infatti, che «l’attività censoria appare connotata da una sostanziale uniformità, data dal suo colpire tendenzialmente passi platonici contenenti miti (Gorgia, Repubblica, Leggi) o comunque narrazioni di vario tipo aventi per oggetto le divinità (Leggi)»; e che «un’analisi del lessico presente nelle porzioni di testo erase porta a individuare la notevole occorrenza di un campo semantico dell’antico e dell’origine».298 La riscrittura pletoniana del mito di Gobria dell’Assioco dovrà, dunque, essere aggiunta alle manipolazioni già individuate che Pletone operò sul corpus platonico. Anche R ha una sua discendenza, meno articolata di quella di J. Da R deriva il Vindobonensis phil. gr. 109 (Vind. 109), del XIV secolo.299 Si tratta di una recensione dotta in cui si possono osservare innovazioni ope inge-

297 Cf. Pagani (2008), 37. Per il riconoscimento della mano di Pletone su K cf. Pagani (2006), 5–20. 298 Le due citazioni sono tratte da Pagani (2009), 186. 299 Sul codice cf. Hunger (1961), 217–218 e Menchelli (2002), 147–150. L’Assioco è ai ff. 52–55. Vind. 109 presenta gli errori di R (cf. 364b3 Σώκρατες] ὦ Σώκρατες R Vind. 109, 364b4 πρὸς] ὑπὸ R Vind. 109, 365c6 εὐλὰς A] εὐχὰς R Vind. 109, 366e2 αὐξανομένου] αὐξανόμενον R Vind. 109, 367a5 ἐνστήσονται] ἐνστήσωνται R Vind. 109, 368c5 ἢ κρύος] om. R Vind. 109, 370c8 εἰλικρινεστέραν] εἰλικρινεστάτην R Vind. 109, 372a11 prius καὶ] om. R Vind. 109). Aggiunge errori propri (cf. 365c6 ὁποίποτε] ὁπήποτε Vind. 109, 367c5 αὐτοῖς] αὐτῆς Vind. 109, cf. inoltre la nota successiva). Per la discendenza di Vind. 109 da R cf. anche Post (1934), 60 e Menchelli (2014a), 188–189. Una mano più recente ha vergato sopra al titolo (Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου) le parole Ξενοκράτης περὶ θανάτου (il dato è stato messo in rilievo soprattutto da Menchelli (1989), 355–358 e Carlini (1999), 15–18; ma cf. già Immisch (1896), 2–4). Si tratta di una vera e propria attribuzione del dialogo pseudo-platonico al secondo successore di Platone. Essa risente dell’influenza del Ficino, il quale attribuiva l’Assioco a Senocrate (cf. Carlini (1999), 16; questa dinamica pare più probabile di quella che va nella direzione inversa, cioè un’influenza di queste annotazioni sul Ficino, prospettata a suo

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La tradizione del testo

nii300 e tracce di contaminazione con almeno un’altra fonte.301 Da Vind. 109 deriva il breve estratto della parte iniziale dell’Assioco, da 364a1 (Ἐξιόντι) a 364c6 (δεῖ), contenuto nel Vindobonensis suppl. gr. 39 (F), fine XIII-inizio XIV secolo.302

tempo da Menchelli (1989), 356; cf. inoltre infra p. 146 n. 417). Non a caso la mano umanistica che ha vergato queste due annotazioni è stata recentemente accostata a quella di Zanobi Acciaiuoli, amico del Ficino (cf. Menchelli (2014a), 188–189 n. 61). Inoltre, va tenuto in conto che Vind. 109 potrebbe essere stato utilizzato dal Ficino stesso come modello (insieme ad altri) per la sua traduzione della Repubblica (cf. Boter (1989), 275 e Menchelli (1989), 355–356 e n. 5). È possibile che anche nel caso dell’Assioco Vind. 109 sia stato impiegato dal Ficino, insieme ad altri modelli, per la traduzione del dialogo (cf. infra p. 146 n. 417). 300 Cf. e.g. 369a7 οἱ διὰ πείρας ἰόντες] οἱ διὰ πείρας θεώμενοι Vind. 109, 370b2 οὐ γὰρ δή γε θνητή γε] οὐ γὰρ δή που θνητή γε Vind. 109. Cf. anche la nota seguente. 301 Si registra una serie di casi in cui Vind. 109 segue la linea tradizionale che discende da Par (che si indica qui semplicemente come Par): 364a3 ἐπιστραφεὶς R : περιστραφεὶς Par Vind. 109, 367a2 χρόνος R : πόνος Par Vind. 109, 369d2 φλυαρολογία R : φορολογία Par Vind. 109, 370b3 τόσον δυοὺς διήρατο R : τόσον δοιούς διήρατο Par Vind. 109. È degno di nota che Vind. 109 segue la linea tradizionale di Par anche in errore (369d2 e 370b3). È difficile dire esattamente quale rappresentante della famiglia di Par sia stato utilizzato come fonte per la contaminazione. Tuttavia, si può osservare che Laur. 85.9, discendente indiretto di Par (cf. infra p. 120 e n. 311) e portatore di queste lezioni, è stato utilizzato da Vind. 109 come fonte per il libro X della Repubblica e per lo pseudo-Timeo Locro (cf. Menchelli (1989), 357–358 n. 14). Dunque, è ragionevole pensare che proprio Laur. 85.9 sia la fonte impiegata per contaminare la lezione di R. In un caso (365b4) Vind. 109 presenta la lezione corretta contro R e contro la discendenza di Par (καινὸν] κοινὸν Vind. 109). Questa lezione è assente in Laur. 85.9. Verosimilmente la lezione corretta è stata ripristinata da Vind. 109 per congettura (per l’attività congetturale di Vind. 109 cf. anche la nota precedente). 302 Sul codice cf. Hunger (1957), 33 (dove però manca l’indicazione dell’estratto dall’Eutifrone e di quello dal Protagora). Il copista di F è stato identificato con il cosiddetto “Anonimo gamma” (su cui cf. Menchelli (2010), 495–496; su F cf. inoltre Mondrain (2007), 174–177). L’estratto dell’Assioco è al f. 263v. Per i dialoghi che contiene in forma integrale F è testimone primario. Così non è per l’estratto dell’Assioco. Menchelli (2014a), 188–189 ha ricondotto l’estratto di F alla linea tradizionale di R e Vind. 109. Che F dipenda proprio da Vind. 109 (e non da R) risulta da 364a3 dove F ha περιστραφείς con Vind. 109 contro ἐπιστραφείς di R. Ciò permette di assestare la datazione dell’estratto dall’Assioco di F al XIV secolo.

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

6. La stirps parigina e la posizione di Y Da Par è sorta un’ampia e ramificata famiglia. I suoi più diretti discendenti sono l’Angelicus gr. 107 (Ang), fine del XIII-inizio del XIV secolo,303 il Laurentianus plut. 59.1 (Laur. 59.1), della prima metà del XIV secolo,304 il Parisinus gr. 1809 (C), dell’inizio del XIV secolo,305 il Parisinus gr. 2010 (Par.

303 Sul codice cf. Franchi de’ Cavalieri, Muccio (1896), 143–144 e Martinelli Tempesta (2003), 58 (con ulteriore bibliografia; in precedenza Ang era datato al XII secolo; tuttavia, presenta una grafia arcaizzante di età paleologa: cf. Martinelli Tempesta (1997), 97 e n. 285). Ang reca gli errori di Par (365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par Ang, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par Ang, 367c5 ὁμοίως] om. Par Ang, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par Ang, 369c5–6 τῶν μήτε ὄντων] τῶν μήτε ὄντων νῦν Par Ang, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par Ang, 370b3 μεγεθουργίας] μεθουργίας Par Ang, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par Ang). Non presenta gli errori degli altri discendenti di Par. Presenta, invece, errori propri (e.g. 370c1 (τροπὰς)-c3 (καταφορὰς) om. Ang: l’omissione corrisponde ad un rigo di Par). Sulla dipendenza di Ang da Par cf. anche Post (1934), 55–56 (per gli Spuria) e Martinelli Tempesta (2003), 58 (per il Liside). Si tratta del più antico dei discendenti conservati di Par. Ang, infatti, è l’unico di essi a recepire solo le correzioni di Par2 e non anche quelle di Par3. L’Assioco è ai ff. 353v-356. 304 Sul codice cf. Bandini (1768), 485–488; Menchelli (2002), 180–203 (la quale individua come terminus post quem per la realizzazione di Laur. 59.1 gli anni 1315– 1319 osservando, a proposito dell’ambiente in cui il codice è stato prodotto, che «il cerchio sembra stringersi intorno a Gregora, Cumno, Metochite») e Jonkers (2017), 50–51 (con ulteriore bibliografia). Per la stratigrafia delle mani di Laur. 59.1 cf. Menchelli (2002), 183–185. Più recentemente Bianconi (2008), 280–288 ha proposto di identificare il copista B (da lui chiamato “Anonimo a”) con Giovanni Argiropulo (da non confondere con il noto umanista omonimo). L’Assioco è ai ff. 345v-349v. Laur. 59.1 presenta gli errori di Par (365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par Laur. 59.1, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par Laur. 59.1, 367c5 ὁμοίως] om. Par Laur. 59.1, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par Laur. 59.1, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par Laur. 59.1, 370b43μεγεθουργίας] μεθουργίας Par Laur. 59.1, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par Laur. 59.1). Non presenta gli errori degli altri discendenti di Par. Presenta, invece, degli errori propri (cf. e.g. 367b2 δυσαλθὲς] δυσαληθὲς Laur. 59.1, 368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον Laur. 59.1, 370e3 δρόμον] θρόνον Laur. 59.1). L’errore di 368d3 si trova anche su C: si tratta di poligenesi (l’errore è facilissimo: cf. e.g. Thphr. Ch. 19, 20, ed. Diggle, ἐκβαλεῖν Casub. : ἐμβαλεῖν V). Per la dipendenza di Laur. 59.1 da Par cf. anche Post (1934), 36 e 54 (per gli Spuria) e Menchelli (2002), 186 e n. 133 (per altre opere, con ulteriore bibliografia). Per le numerose correzioni che si registrano su Laur. 59.1 cf. infra pp. 118-119. 305 Sul codice cf. Omont (1888), 146 e Martinelli Tempesta (2003), 53 (con ulteriore bibliografia). Se C è stato il modello principale di Y per l’Assioco (cf. infra pp. 122-123), non si potrà escludere neppure una datazione alla fine del XIII secolo. L’Assioco è ai ff. 308–310v. C presenta gli errori di Par (365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par

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La tradizione del testo

2010), del XIV secolo,306 e il Vaticanus gr. 225–226 (Vat. 226), dell’inizio del secolo XIV.307 Su Laur. 59.1 è stata307 annotata una fitta serie di correzioni e di varianti riconducibili a due fonti distinte. Alcuni di questi interventi convergono C, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par C, 367c5 ὁμοίως] om. Par C, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par C, 369c5–6 τῶν μήτε ὄντων] τῶν μήτε ὄντων νῦν Par C, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par C, 370b3 μεγεθουργίας] μεθουργίας Par C, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par C). Non presenta gli errori degli altri discendenti di Par. Reca, invece, errori propri (cf. 364a1 τὸν] τὴν C, 365c4 δὲ] δὲ om. C, 366c5 νίζει] νίζε C, 368d2 εὐδαιμονήσειε] εὐδαιμονίσειε C, 368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον C, 368d7 ἐπηρόμην] ἐπειρώμην C, 370a5 συνυποτιθέμενος] συνυποθέμενος C, 370b1 τῷ] τὸ C, 371c2–3 καθέζονται] καθίζονται C). Per la coincidenza in errore di C con Laur. 59.1 a 368d3 cf. supra p. 117 n. 304. Per la dipendenza di C da Par cf. anche Post (1934), 57–58 (per gli Spuria). Per le correzioni di C cf. infra pp. 110-120 n. 310 e pp. 123-124. 306 Sul codice cf. Omont (1888), 178–179 e Manfrin (2014), 13–14 (con ulteriore bibliografia). L’Assioco è ai ff. 19–22v. Accanto al titolo (Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου) è presente l’indicazione Πλάτωνος εἰ καὶ γνήσιος. Tra il Critone e l’Assioco è stato lasciato un foglio bianco. Dalla numerazione dei fascicoli si evince che il codice è mutilo e ha perduto 34 fascicoli: il primo fascicolo del codice, infatti, è il n. ΛΕ. Non sappiamo che cosa contenesse la sezione perduta. Verosimilmente si trattava di 21 opere: il codice si apre con l’Apologia che reca il n. ΚΒ. L’Assioco è il numero ΚΕ. La numerazione è continua fino al n. Λ (Isocrate, Ad Demonicum). Par. 2010 presenta gli errori di Par (365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par Par. 2010, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par Par. 2010, 367c5 ὁμοίως] om. Par Par. 2010, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par Par. 2010, 369c5–6 τῶν μήτε ὄντων] τῶν μήτε ὄντων νῦν Par Par. 2010, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par Par. 2010, 370b3 μεγεθουργίας] μεθουργίας Par Par. 2010, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par Par. 2010). Non presenta gli errori degli altri discendenti di Par. Reca, invece, innovazioni proprie (cf. e.g. 365b5 post διαγαγόντας add. αὐτὸν Par. 2010, 366a8 ἐκεῖσε] ἐκεῖθεν Par. 2010, 366c5 νίζει] κνίζει Par. 2010, 369d1 ἐπιπολαζούσης] πολαζούσης Par. 2010, 369d7 ὁμοχροίας] ὁμοχροίας Par. 2010 : διανοίας Par. 2010pcsl (deleto ὁμοχροίας), 371c7 οἰκίζονται] εἰσοικίζονται Par. 2010). Per la dipendenza di Par. 2010 da Par cf. anche Post (1934), 61. A 370a5 forse il copista stesso ha segnato supra lineam l’eccellente correzione ἁμως (scil. ἁμωσγέπως), lezione che si trova su Vv ed è stata ripristinata su A da Apc (contro ἄλλως γέ πως di A e Par). Verosimilmente si tratta di una correzione congetturale. Par. 2010 è ricco di abbreviazioni, compendi, parafrasi e notabilia (a quel che pare della stessa mano che ha vergato il testo). 307 Sul codice cf. Mercati, Franchi de’ Cavalieri (1923), 295–297 e Jonkers (2017), 74–75 (con ulteriore bibliografia; per la datazione al XIV secolo cf. Prato (1994), 122–123: si tratta di un esempio di scrittura arcaizzante dell’età dei Paleologi). Il Vat. 225–226 era nella biblioteca di Niccolò V e fu diviso in due parti prima del suo ingresso nella biblioteca papale come è suggerito dal fatto che Manuele Gabala (Matteo di Efeso) ha annotato solo il Vat. 225 e Manuele Crisolora solo il Vat. 226 (cf. Martinelli Tempesta (2003), 63–64). L’Assioco è ai ff. 222–227v della

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

con le lezioni della stirps vaticana. Ora, risulta che O fu utilizzato come modello di Laur. 59.1 per la IX tetralogia e che nel caso dell’Alcione il copista di Laur. 59.1 ha annotato in margine i marginalia di O ed è stato corretto a partire da O.308 Dunque, è ragionevole ipotizzare che anche nel caso dell’Assioco sia proprio O la fonte di una parte delle varianti e delle correzioni di Laur. 59.1. Gli altri interventi, invece, riflettono lezioni riconducibili ad Y e alla sua linea tradizionale. Ora, risulta che almeno per il Timeo Y è stato la fonte di Laur. 59.1. Dunque, è ragionevole supporre che Y sia stato per Laur. 59.1 la fonte anche di queste altre varianti e correzioni.309 Anche su C si osserva una serie di correzioni, la maggior parte delle quali converge con il testo di Vv.310

seconda parte (segue un foglio bianco). Vat. 226 presenta gli errori di Par (365b2 τῷ χρόνῳ] om. Par Vat. 226, 366e1 γραμματισταὶ] γυμνασταὶ Par, 367c5 ὁμοίως] om. Par Vat. 226, 368d8 μαινομένῳ δήμῳ] δήμῳ μαινομένῳ Par Vat. 226, 369c5–6 τῶν μήτε ὄντων] τῶν μήτε ὄντων νῦν Par Vat. 226, 369d2 φλυαρολογία] φορολογία Par Vat. 226, 370b3 μεγεθουργίας] μεθουργίας Par Vat. 226, 371a8 οἴκησιν] κίνησιν Par Vat. 226). Non presenta gli errori propri degli altri discendenti di Par. Aggiunge invece errori propri, molti dei quali sono dovuti a mélecture del ductus corsiveggiante di Par (cf. e.g. 365b1–2 ἐπιλογιῇ] ἐπιλοκῆ Vat. 226, 366a8 διψᾷ] διεψᾶ Vat. 226, 366a8 ὀριγνομένη Par : συριγνομένη Vat. 226, 370d7 τοὐναντίον] τοὐναρτίον Vat. 226, 371e7 Ταντάλου] Ταρτάλου Vat. 226). Sulla derivazione di Vat. 226 da Par cf. anche Post (1934), 57 (per gli Spuria). 308 Cf. Menchelli (2002), 190–192. 309 Si indica con Laur. 59.1a il primo ordine di interventi, con Laur. 59.1b il secondo (la distinzione dei due ordini di intervento è fatta su base filologica, non paleografica); i casi incerti sono indicati con Laur. 59.1pc: 364d1 Ἰτωνυμίαις Laur. 59.1 : ταῖς Ἰτωνίαις Laur. 59.1aγρmarg : σιτωνυμίαις Laur. 59.1bγρmarg, 365b1 ὑπολέλοιπας Laur. 59.1 : ἀπολέλοιπας Laur. 59.1b (α Laur. 59.1bsl), 365b2 τοσόσδε Laur. 59.1 : τοσόσδε τῷ χρόνῳ Laur. 59.1a (τῷ χρόνῳ Laur. 59.1asl), 365b4 καινὸν Laur. 59.1 : κοινὸν Laur. 59.1a (οι Laur. 59.1asl), 365c1 ταῦτα Laur. 59.1 : ἀληθῆ ταῦτα Laur. 59.1b (ἀληθῆ Laur. 59.1bsl), 365c2 παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν Laur. 59.1 : παρ’ αὐτό μοι τὸ δεινὸν Laur. 59.1b (μοι Laur. 59.1bsl), 365c6 ἄγευστος Laur. 59.1 : ἄπυστος Laur. 59.1aγρsl, 365d7 πρὸ τῆς γενέσεως Laur. 59.1 : τῇ πρὸ τῆς γενέσεως Laur. 59.1b (τῇ Laur. 59.1bsl), 366e1 γυμνασταί Laur. 59.1 : γραμματισταί Laur. 59.1aγρmarg, 367b2 δυσαληθὲς Laur. 59.1 : δυσαλθὲς Laur. 59.1pcγρsl, 367c5 ὁμοίως] om. Laur. 59.1 : ὁμοίως Laur. 59.1asl, 369a9 συγκλύδωνος Laur. 59.1 : σύγκλυδος Laur. 59.1aγρmarg, 369d2 φορολογία Laur. 59.1 : φλυαρολογία Laur. 59.1asl, 370b3 μεθουργίας Laur. 59.1 : μεγεθουργίας Laur. 59.1a (μεγε Laur. 59.1amarg), 370d4 ἄπονος Laur. 59.1 : ἄγονος Laur. 59.1aγρmarg, 370e3 θρόνον Laur. 59.1 : δρόμον Laur. 59.1pcγρsl, 371d2 εὐμελῆ Laur. 59.1 (ν Laur. 59.1sl, scil. εὐμενῆ) : ἐμμελῆ Laur. 59.1aγρsl, 372a15 κἀγὼ δὲ Laur. 59.1 : γὰρ Laur. 59.1aγρsl. 310 Cf. 364d1 ἰτωνυμίαις] σιτωνυμίαις Cpc (σ Cpcsl), 365b1 ὑπολέλοιπας] ἀπολέλοιπας Cpc, 365b4 καινὸν] κοινὸν Cpc Vv, 365c2 παρ’αὐτὸ] παρ’αὐτὸ μοι Cpc (μοι Cpcsl), 365c4 ποικίλως] ποικίλως μὲν Cpc (μὲν Cpcsl), 365c6 ἄγευστος] ἄπυστος Cpc Vv,

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A loro volta questi più antichi discendenti di Par hanno prodotto una propria discendenza. Da Laur. 59.1 discende il Laurentianus plut. 85.9 (Laur. 85.9), della prima metà del XIV secolo.311 Da Par. 2010 è derivato il Parisinus suppl. gr. 69 (Par.suppl. 69), della fine del XV secolo.312 Da Vat.

365d6–7 τὴν αὐτὴν πρὸ τῆς γενέσεως] τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως Cpc (τῇ Cpcsl) Vv. 311 Sul codice cf. Bandini (1768), 257–266; Menchelli (2002), 141–165 e Jonkers (2017), 55–56 (con ulteriore bibliografia). In particolare, Laur. 85.9 nasce dalla collaborazione di tre copisti principali (A, B e C), cui si aggiungono diverse mani che intervengono sui margini: cf. Menchelli (2002), 157–165. La realizzazione di Laur. 85.9 è forse da mettere in relazione con la cerchia di Teodoro Metochite e la biblioteca di Chora (cf. Menchelli (2002), 178–179 e 198). È stato il modello principale della traduzione ficiniana dell’opera di Platone (cf. infra p. 145). L’Assioco è ai ff. 213–214v. Laur. 85.9 presenta gli errori di Laur. 59.1 (368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον Laur. 59.1 Laur. 85.9, 370e3 δρόμον] θρόνον Laur. 59.1 Laur. 85.9). Laur. 85.9 recepisce a testo o nell’interlinea o a margine alcune correzioni e varianti presenti su Laur. 59.1. Le varianti marginali o interlineari sono scritte in inchiostro rossastro (Laur. 85.9r): cf. 364d1 Ἰτωνυμίαις Laur. 59.1: Ἰτωνίαις Laur. 59.1aγρmarg : σιτωνυμίαις Laur. 59.1bγρmarg : ταῖσι Ἰτωνίαις Laur. 85.9rγρsl, 366e1 γυμνασταί Laur. 59.1 : γραμματισταί Laur. 59.1aγρmarg : γραμματισταί Laur. 85.9rγρmarg, 367b2 δυσαληθὲς Laur. 59.1 : δυσαλθὲς Laur. 59.1pcγρsl : δυσαλθὲς Laur. 85.9, 367c5 ὁμοίως] om. Laur. 59.1 : ὁμοίως Laur. 59.1asl Laur. 85.9, 369a9 συγκλύδωνος Laur. 59.1 : σύγκλυδος Laur. 59.1aγρmarg : σύγκλυδος Laur. 85.9rγρsl, 370b3 μεγεθουργίας Laur. 59.1a (μεγε Laur. 59.1amarg) Laur. 85.9, 370d4 ἄπονος Laur. 59.1 : ἄγονος Laur. 59.1aγρmarg : ἄγονος Laur. 85.9rγρsl. Degli interventi riconducibili a Laur. 59.1b ne è stato ripreso uno solo: 365c2 παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν Laur. 59.1 : παρ’ αὐτό μοι τὸ δεινὸν Laur. 59.1b (μοι Laur. 59.1bsl) ed è stato scritto in un inchiostro bruno diverso da quello degli interventi di Laur. 85.9r. Presenta inoltre degli errori propri (e.g. 365b6 παιανίζοντας] παίζοντας Laur. 85.9, 366e2 τυραννοῦντες] om. Laur. 85.9, entrambi in seguito sanati dal Ficino: cf. infra p. 145). Sulla derivazione di Laur. 85.9 da Laur. 59.1 cf. anche Post (1934), 39 e Jonkers (2017), 56 (con ulteriore bibliografia). 312 Sul codice cf. Astruc, Concasty, Bellon, Förstel (2003), 166–167 e Manfrin (2014), 40. L’Assioco è ai ff. 1–5v. Par.suppl. 69 presenta le innovazioni di Par. 2010 (cf. e.g. 365a2 καταλαμβάνομεν] κατελαμβάνομεν Par. 2010 Par.suppl. 69, 365b5 διαγαγόντας] post διαγαγόντας add. αὐτὸν Par. 2010 Par.suppl. 69, 366a8 ἐκεῖσε] ἐκεῖθεν Par. 2010 Par.suppl. 69, 366c5 νίζει] κνίζει Par. 2010 Par.suppl. 69, 369d1 ἐπιπολαζούσης] πολαζούσης Par. 2010 Par.suppl. 69, 369d7 ὁμοχροίας] ὁμοχροίας Par. 2010 : διανοίας Par. 2010pcsl (deleto ὁμοχροίας) : διανοίας Par.suppl. 69, 371c7 οἰκίζονται] εἰσοικίζονται Par. 2010 Par.suppl. 69). Aggiunge errori propri (e.g. 364d1 Ἰτωνίαις] Ἰτωνυμίαις Par. 2010 : Ἐπωνυμίαις Par.suppl. 69, 367c6 παρὰ] περὶ Par.suppl. 69, 371e2 πρότερον] πρότερος Par.suppl. 69, 371e3 παρὰ] περὶ Par.suppl. 69). Alcuni errori di Par.suppl. 69 sono dovuti all’errato

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226 discende l’Urbinas gr. 32 (Urb. 32), dell’inizio del XV secolo.313 Ma la discendenza più interessante è quella di C. Da C, infatti, derivano il Vindobonensis phil. gr. 21 (Y), datato tra la fine del XIII e i primi anni del XIV secolo,314 il Malatestianus D.XXVIII.4 (Mal), del XIV secolo,315 e l’Ambrosianus D 56 Sup. (Am), del secolo XIV.316

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scioglimento di compendi di Par. 2010. Sulla derivazione di Par.suppl. 69 da Par. 2010 cf. anche Post (1934), 61 e Manfrin (2014), 40 (per l’Eutifrone, con ulteriore bibliografia). Sulla possibilità di identificare Par.suppl. 69 con Dalb cf. infra pp. 130-132. Sul codice cf. Stornaiolo (1895), 38 e Martinelli Tempesta (2003), 61–62 (con ulteriore bibliografia). L’Assioco è ai ff. 27v-33v. Urb. 32 presenta gli errori di Vat. 226 (cf. e.g. 365b1–2 ἐπιλογιῇ] ἐπιλοκῆ Vat. 226 Urb. 32, 366a8 διψᾷ] διεψᾶ Vat. 226 Urb. 32, 366a8 ὀριγνωμένη] ὀριγνομένη Par : συριγνομένη Vat. 226 Urb. 32, 370d7 τοὐναντίον] τοὐναρτίον Vat. 226 Urb. 32, 371e6–7 Ταντάλου] Ταρτάλου Vat. 226 Urb. 32). Aggiunge errori propri (e.g. 364c1 ἐπιτωθάζων] ἐπιτωπάζων Urb. 32, 368b5 περαιούμενον] περεούμενον Urb. 32, 372a2 πυρούμενοι] ποιρούμενοι Urb. 32). Sulla derivazione di Urb. 32 da Vat. 226 cf. anche Post (1934), 59 (per gli Spuria) e Martinelli Tempesta (2003), 62 (per il Liside, con ulteriore bibliografia). Sul codice cf. Hunger (1961), 151–152; D’Acunto (1995), 261–279 e Jonkers (2017), 86–87 (con ulteriore bibliografia). Un terminus ante quem piuttosto preciso è assicurato dal riconoscimeto della mano di Massimo Planude ai ff. 30v-39v, la cui data di morte è collocata tra il 1305 e il 1310 (cf. Wendel (1950), 2203). Y è il prodotto dell’attività di 9 copisti, tra cui Massimo Planude, Niceforo Moscopulo (che pare abbia coordinato questa impresa editoriale), il filologo Giovanni, il cosiddetto “segretario di Moscopulo” e il copista Xb nel quale si è proposto di vedere Leone Bardale. A quest’ultimo si deve tra l’altro la copiatura degli Spuria (cf. D’Acunto (1995), 277 e Menchelli (2014b), 193–194; la proposta di identificazione del copista Xb con Leone Bardale si deve a Pérez Martín (1997), 77–80). L’ordine degli Spuria è alterato: l’Assioco è spostato dall’ultimo al primo posto (per una possibile spiegazione di questo fenomeno che si osserva anche in J e nella sua discendenza cf. supra p. 104 n. 260). Inoltre su Y manca l’Erissia, che ci aspetteremmo dopo l’Alcione. Curiosamente una condizione analoga si ha su Laur.conv.soppr. 78 (cf. supra p. 111 n. 285). L’Assioco è ai ff. 222v-225. Sul codice cf. Mioni (1965), 65–66. Per lo spostamento della cronologia di Mal dal XII al XIV secolo, contestualmente all’abbassamento all’inizio del XIV della cronologia di C, modello di Mal, cf. Martinelli Tempesta (1997), 107–108. L’Assioco è ai ff. 308–310v. Sul codice cf. Martini, Bassi (1906), 268 (n. 238) e Brockmann (1992), 23. L’Assioco è ai ff. 371v-376v. Cf. Post (1934), 60. Am presenta gli errori di C (cf. 366c5 νίζει] νίζε C Am, 368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον C Am, 368d7 ἐπηρόμην] ἐπειρώμην C Am, 370a5 συνυποτιθέμενος] συνυποθέμενος C Am, 370b1 τῷ] τὸ C Am). Ad essi Am aggiunge errori propri (cf. e.g. 364d1 ᾔειμεν] εἴημεν Am, 365a5 κροτήσεσι] κροτήσει Am, 365e6 ἡμεῖς μὲν γάρ] μὲν om. Am, 367c7 ὑστερήσαντος] ὑστερίσαντος Am, 368c5 πολυτίμητος] πολιτίμητος Am, 371c2 πεδίον] παιδίον Am). Inoltre, la

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La tradizione del testo

Sulla scorta di Immisch, Burnet e Souilhé hanno ritenuto che Y fosse testimone primario per l’Assioco.317 Questa idea è stata messa in discussione dal lavoro di Post ed è stata decisamente ridimensionata dagli studi degli ultimi decenni che hanno riconosciuto in Y una recensione dotta fortemente contaminata e corretta per via congetturale.318 Nel caso degli Spuria in Y è stato individuato un discendente indiretto di Par.319 Tuttavia, già Schanz aveva segnalato la vicinanza di Y a C.320 In effetti, nell’Assioco Y presenta gli errori di C.321 Ad essi Y aggiunge degli errori propri.322 Inoltre, le

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maggior parte delle correzioni di Cpc sono state recepite da Am nel testo (cf. 365b1 ὑπολέλοιπας C : ἀπολέλοιπας Cpc Am, 365c2 παρ’ αὐτὸ τὸ δεινόν C : παρ’ αὐτό μοι τὸ δεινόν Cpc (μοι Cpcsl) Am, 365c4 ποικίλως περιαμύττον C : ποικίλως μὲν περιαμύττον Cpc (μὲν Cpcsl) Am, 365c6 ἄγευστος C : ἄπυστος Cpc Am, 365d6–7 τὴν αὐτὴν πρὸ τῆς γενέσεως C : τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως Cpc (τῇ Cpcsl) Am). Tuttavia, in tre casi Am presenta la lezione corretta contro C (364a2 τὴν C : τὸν Am, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] δὲ om. C : ἀντίσχει δὲ δέος Αm, 368d2 εὐδαιμονίσειε C : εὐδαιμονήσειε Am). Inoltre, in un caso Am non recepisce una correzione di Cpc: 364d1 Ἰτωνυμίαις C Am : σιτωνυμίαις Cpc (σ Cpcsl). Ciò si può spiegare pensando che nei primi tre casi il testo sia stato sanato per congettura, mentre nel terzo caso la correzione di Cpc è stata ignorata. Tuttavia non si può escludere che Am abbia contaminato il suo modello principale con un’altra fonte. Sappiamo, infatti, che per le opere fino a Charm. 165a, Am deriva da R (cf. Martinelli Tempesta (2013), 117–118 e n. 47 e Manfrin (2017), 18–19). In un caso un correttore di Am sana un errore che C ereditava da Par (370b3 μεθουργίας Par C Am : μεγεθουργίας Ampc (γε Ampcsl). Per il Menone su Am si hanno altri casi di correzione di errori che C eredita da Par e che si suppone derivino da una fonte non identificata: cf. Vancamp (2010), 23. Cf. Immisch (1896), 106 (ma cf. anche Immisch (1903), 106); Burnet (19132), praef. s.p. e Souilhé (1930), 136. Cf. inoltre infra pp. 152-153. Cf. Post (1934), 62: «variants in Y … often represent an independent tradition». Cf. e.g. Menchelli (2014b), 203 e Menchelli (2016), 98–99. Cf. Schanz (1876a), 660 e Schanz (1879), 132; cf. inoltre Post (1934), 54 e 58 e Carlini (1964), 15–16. Cf. 364a2 τὸν] τὴν C Y, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] δὲ om. C Y, 366c5 νίζει] νίζε C Y, 368d2 εὐδαιμονήσειε] εὐδαιμονίσειε C Y, 368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον C Y, 368d7 ἐπηρόμην] ἐπειρώμην C Y, 370a5 συνυποτιθέμενος] συνυποθέμενος C Y, 370b1 τῷ] τὸ C Y, 371c2–3 καθέζονται] καθίζονται C Y. 364a2 Ἰλισσὸν] Ἐλισσὸν Y, 364a2 του] σου Y, 368a5 φύντα] φῶτα Y, 371b3 οἱ ὑπενέρθεν] οἱ om. Y, 371d5–6 μεμυημένοις] μεμνημένοις Y. A 364a3 (περιστραφεὶς A Par C : στραφεὶς Y), 370b2 (οὐ γὰρ δή γε θνητή γε φύσις A Par C : οὐ γὰρ δὴ θνητή γε φύσις Y) e 371e1 (γεννήτῃ] γενήτῃ C : γενήση Y :μύστῃ Ymarg) Y innova verosimilmente ope ingenii. Forse anche la convergenza con Vv di 364a1 (alterum μοι A Par C : om. Vv Y) è dovuta a congettura poligenetica.

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

correzioni di Cpc sono recepite da Y nel testo.323 Dunque, con ogni verosimiglianza per l’Assioco Y deriva da C.324 Come si è visto, le correzioni di Cpc convergono con le lezioni di Vv. Ora, è degno di nota che su Y sono presenti altre lezioni che convergono con il testo di Vv,325 ma che non sono riportate su C.326 Questo fenomeno si può spiegare pensando che Y sia stato copiato da C e sia stato contaminato con un esemplare vicino a Vv. Allo stesso tempo solo alcune delle lezioni di questo ramo tradizionale sono state introdotte come correzioni anche sul modello principale (C). In questo modo si può spiegare perché lezioni caratteristiche di Vv siano presenti sia su C sia su Y, mentre altre lezioni sempre caratteristiche di Vv sono presenti solo su Y.327

323 Cf. 364d1 ἰτωνυμίαις] σιτωνυμίαις Cpc Y, 365b1 ὑπολέλοιπας] ἀπολέλοιπας Cpc Y, 365b4 καινὸν] κοινὸν Cpc Y, 365c2 παρ’ αὐτὸ] παρ’ αὐτὸ μοι Cpc (μοι Cpcsl) Y, 365c4 ποικίλως] ποικίλως μὲν Cpc (μὲν Cpcsl) Y, 365c6 ἄγευστος] ἄπυστος Cpc Y, 365d6–7 τὴν αὐτὴν πρὸ τῆς γενέσεως] τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως Cpc (τῇ Cpcsl) Y. 324 Se così è, la datazione di C deve assestarsi alla fine del XIII secolo, o al massimo ai primissimi anni del XIV secolo. In alternativa, occorre postulare una derivazione di Y da un modello estremamente simile a C che dovrebbe essere o un anello intermedio tra Par e C o un gemello di C. Ma in tal caso ci si sarebbe aspettati di trovare su C errori che non si ritrovano su Y. 325 Cf. anche Menchelli (2016), 98–99, 102 e 104. Che la contaminazione sia andata precisamente in questa direzione è suggerito dal fatto che solo una piccola parte delle innovazioni proprie di Vv si trova anche su Y, mentre nessuna innovazione propria di Y si trova su Vv. Ci sono poi alcuni casi in cui innovazioni di Y e di Cpc divergono da quelle di Vv (364d1 ἰτωνυμίαις Vv : σιτωνυμίαις Cpc Y, 365b1 ὑπολέλοιπας Vv : ἀπολέλοιπας Cpc Y, 365c4 ποικίλως μοι Vv : ποικίλως μὲν Cpc Y). Ciò può essere dovuto al fatto che il modello che è servito come fonte per la contaminazione era diverso dal modello comune di Vv, oppure al fatto che si tratta di correzioni ope ingenii di Y inserite anche su C. Lo stesso si può dire per la divergenza tra Y e Vv di 365c4 (ἀντιχεῖται δὲ δέος Vv : ἀντηχεῖται δὲ δέος Y). È degno di nota che la maggior parte delle coincidenze tra Vv e Y si concentra nella sezione di testo di 365c1–6. Ciò si può spiegare tenendo conto del fatto che questo passo è affetto da un guasto patente nel resto della tradizione (il ταῦτα di 365c1 è impossibile: cf. il commento ad loc.), che doveva attirare l’attenzione di un dotto copista. 326 Cf. 364a1 alterum μοι A Par C : om. Vv Y, 365c1 ταῦτα A Par C : ἀληθῆ ταῦτα Vv Y, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] δὲ om. C : ἀντηχεῖται δὲ δέος Vv Y (ἀντιχεῖται Vv). A questi casi va aggiunto 365b2 (τοσόσδε Par C : τοσόσδε τῷ χρόνῳ A Vv Y). 327 Un analogo fenomeno si è verificato nel caso di di A3/O3 che ha riportato su A e O una serie di varianti da un modello perduto, ma in misura più consistente su O che su A (cf. supra pp. 102-103). Rispetto a questa ricostruzione dei rapporti tra C, Y e Vv, ci si sarebbe aspettati che le varianti di Vv che sono passate su Y ma non su C fossero registrate su Y come aggiunte. Invece esse si trovano diretta-

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La tradizione del testo

Mal presenta una situazione per certi aspetti simile a quella di Y.328 Mal, infatti, reca gli errori di C.329 Inoltre, le correzioni di Cpc sono recepite da Mal nel testo.330 Tuttavia, su Mal è stata apportata anche una serie di correzioni e sono state aggiunte delle varianti a partire da un’altra fonte.331 Questi interventi convergono con le lezioni della stirps vaticana. Ora, risulta che per altre opere Mal è stato corretto a partire da un altro esemplare, verosimilmente da identificare con R.332 Dunque, è ragionevole ipotizzare che anche nel caso dell’Assioco Malpc abbia attinto a R. Tuttavia, R potrebbe non essere l’unica fonte degli interventi di Malpc. A 364d1 si registrano, infatti, due interventi: prima il σιτωνυμίαις di Mal (ereditato da Cpc) è stato corretto in

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mente a testo. Ciò potrebbe far pensare all’esistenza di un anello intermedio perduto tra C e Y. Secondo Post (1934), 56, che riprendeva Schanz (1877), 104, nel caso degli Spuria Mal deriverebbe da Par. Tuttavia Post (1934), 54 aveva individuato delle affinità che avvicinano Mal a C e a Y. Per la derivazione di Mal da C per le prime VII tetralogie, forse attraverso un intermediario, cf. Martinelli Tempesta (2003), 35 e n. 109 (con ulteriori riferimenti). Cf. 364a2 τὸν] τὴν C Mal, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] δὲ om. C Mal, 366c5 νίζει] νίζε C Mal, 368d2 εὐδαιμονήσειε] εὐδαιμονίσειε C Mal, 368d3 ἐκβαλλόμενον] ἐμβαλλόμενον C Mal, 368d7 ἐπηρόμην] ἐπειρώμην C Mal, 370a5 συνυποτιθέμενος] συνυποθέμενος C Mal, 370b1 τῷ] τὸ C Mal, 371c2–3 καθέζονται] καθίζονται C Mal (alcuni di questi errori sono stati oscurati da Malpc: cf. infra n. 331). Cf. 364d1 ταῖς ἰτωνυμίαις] σιτωνυμίαις Cpc Mal, 365b1 ὑπολέλοιπας] ἀπολέλοιπας Cpc Mal, 365b4 καινὸν] κοινὸν Cpc Mal, 365c2 παρ’ αὐτὸ] παρ’ αὐτὸ μοι Cpc (μοι Cpcsl) Mal, 365c4 ποικίλως] ποικίλως μὲν Cpc (μὲν Cpcsl) Mal, 365c6 ἄγευστος] ἄπυστος Cpc Mal, 365d6–7 τὴν αὐτὴν πρὸ τῆς γενέσεως] τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως Cpc (τῇ Cpcsl) Mal (anche in questo caso alcune di queste lezioni sono state oscurate da Malpc: cf. la nota seguente). Cf. 364a2 τὴν Mal : τὸν Malpc, 364d1σιτωνυμίαις Mal : ἰτωνυμίαις Malpcras : ἰτωνίαις Malpcγρmarg, 365b4 κοινὸν Mal : καινὸν Malpc, 365c4 ἀντίσχει δέος Mal : ἀντίσχει δὲ δέος Malpc (δὲ Malpcsl), 365c4 ποικίλως μὲν Mal : ποικίλως Malpcras, 365c6 ἄπυστος Mal : ἄγευστος Malpc, 366c5 νίζε Mal : νίζει Malpc, 366e1 γυμνασταί Mal : γραμματισταί Malpcγρmarg, 366e2 αὐξανομένου Mal : αὐξανόμενον Malpc, 367a2 πόνος Mal : χρόνος Malpc, 367c4 ἔσεσθαι Mal : γενέσθαι Malpc, 367c5 ὁμοίως] om. Mal : ὁμοίως add. Malpcsl, 369a9 συγκλύδωνος Mal : σύγκλυδος Malpcsl, 369c6 ὕστερον] om. Mal : ὕστερον Malpcsl, 369d2 φορολογία Mal : φλυαρολογία Malpc (λυ Malpcsl), 370a5 συνυποθέμενος Mal : συνυποτιθέμενος Malpc (τι Malpcsl), 370b3 μεθουργίας Mal : μεγεθουργίας Malpc (γε Malpcsl), 370d4 ἄπονος Mal : ἄγονος Malpc (γ Malpcsl), 371c4 βίωκε Mal : βεβίωκε Malpc (βε Malpcsl), 372a15 δὲ Mal : γὰρ Malpcγρsl. Molte di queste correzioni hanno eliminato lezioni ed errori che Mal aveva ereditato da C+Cpc ed errori propri di Mal. Cf. Martinelli Tempesta (1997), 110–111.

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

Ἰτωνυμίαις, poi è stata aggiunta la variante marginale Ἰτωνίαις. Tuttavia, R ha soltanto la lezione Ἰτωνίαις. Dunque, Mal è stato corretto anche sulla base di una fonte ulteriore che, tuttavia, è difficile identificare.333 A loro volta alcuni di questi più recenti discendenti di Par hanno dato origine ad una loro discendenza. Da Laur. 85.9 derivano gli estratti dell’Assioco del Leidensis Voss. gr. Q. 54 (Voss), vergato tra il XV e il XVI secolo.334 Da Par.suppl. 69 discende il Monacensis gr. 313 (Mon. 313), della fine del XV secolo.335 Da Am deriva l’Urbinas gr. 80 (Urb. 80), dell’inizio del XV secolo.336 Ma la discendenza più ricca e articolata è quella di Y. Da Y derivano gli ampi estratti dell’Assioco contenuti nel Bruxellensis 11360–11363 333 Inoltre, è difficile distinguere su base paleografica i due livelli di intervento in quanto sembra che siano stati effettuati in tempi diversi dalla stessa mano. Per risolvere questo problema occorrerebbe uno studio più esteso di Mal e dei suoi correttori. 334 Sul codice cf. de Meyier (1955), 163–172 e Jonkers (2017), 58 (con ulteriori riferimenti). Si tratta di estratti molto brevi riportati sul f. 446: 365b4 (παρεπιδημία)-8 (ἡλικίαν ἔχειν), 369a8 (ἀχάριστον)-b2 (μακρῷ), 369b6 (θάνατος)c1 (εἰσίν). Voss condivide un errore peculiare di Laur. 85.9 a 365b5 (παιανίζοντας] παίζοντας Laur. 85.9 Voss). Per la derivazione di Voss da Laur. 85.9 cf. anche Jonkers (2017), 58 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). 335 Sul codice cf. Hardt (1806), 263–267 e Mondrain (1988), 172. L’Assioco è ai ff. 6– 10v. Presenta gli errori particolari di Par.suppl. 69 (cf. e.g. 365d1 Ἰτωνίαις] Ἰτωνυμίαις Par. 2010 : Ἐπωνυμίαις Par.suppl. 69 Mon. 313, 367c6 παρὰ] περὶ Par.suppl. 69 Mon. 313, 371e2 πρότερον] πρότερος Par.suppl. 69 Mon. 313, 371e3 παρὰ] περὶ Par.suppl. 69 Mon. 313). Ad essi Mon. 313 aggiunge errori propri (e.g. 365a8 ἐν] ἐν ἐν Mon. 313, 366a1 καθειργμένον] κατειργμένον Mon. 313, 366a6 παρεσπαρμένη] παρεσπαμένη Mon. 313, 366c4 διαπαντὸς] διαπαντὼς Mon. 313, 366c4 δὲ] om. Mon. 313, 369d4 πιθανωτέρους] πιθανoτέρους Mon. 313, 371a5 ἐκόμισαν] ἐκόμησαν Mon. 313, 371c2 Ῥαδάμανθυν] Ῥαδάμανθην Mon. 313, 372a4 Γωβρύου] Γοβρύου Mon. 313). A 368a3, nella citazione di Hom. Od. XV 246, Mon. 313 aveva παντοίῃ φιλότητι come Par.suppl. 69. La prima lezione è stata successivamente corretta in παντοίην φιλότητ’. La correzione si deve allo stesso Occo I il quale ha anche scritto a margine ἐν τῇ ο´ τῆς Ὀδυσσίας (nella biblioteca di Adolph Occo I, copista e possessore del codice, era presente un’Odissea contenuta nel Monacensis gr. 519B, su cui cf. Mondrain (1988), 169– 170 e Pontani (20112), 323–326). Sono presenti annotazioni latine. 336 Sul codice cf. Stornaiolo (1895), 111–127 e Martinelli Tempesta (2003), 62–63 (con ulteriori riferimenti). L’Assioco è ai ff. 242–245. Il codice è una raccolta organizzata e in parte copiata da Giovanni Cortasmeno (1370–1436/7). La sezione degli scritti platonici è la n. XX, vergata dal copista U7. È incerto se U7 rappresenti una variante della scrittura del Cortasmeno o la mano di un suo collaboratore. Indizi filologici fanno propendere per questa seconda possibilità (cf. Canart, Prato (1981), 177 e Martinelli Tempesta (1997), 63–64). Urb. 80 presenta errori particolari di Am (364d1 ᾔειμεν] εἴημεν Am Urb. 80, 365a5 κροτήσεσι] κροτήσει Am Urb. 80, 365e6 μὲν] μὲν om. Am Urb. 80, 367c7 ὑστερήσαντος]

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La tradizione del testo

(Brux), del XIV secolo,337 il Marcianus gr. 590 (Marc. 590), del secondo quarto/metà del XIV secolo,338 e indirettamente il Monacensis gr. 408 (Mon. 408), copiato a Creta nel 1490 da Antonio Damilas.339

ὑστερίσαντος Am Urb. 80, 371c2 πεδίον] παιδίον Am Urb. 80). Aggiunge errori propri (e.g. 365e3 συγκρίσεως] συγγρίσεως Urb. 80, 366b8 κοινὰ] κοινῆ Urb. 80, 366c4 ἁ] οὐ Urb. 80, 368c5 πολυτίμητος] om. Urb. 80). Nell’interlinea sono riportate alcune varianti (364d1 εἴημεν] ἤειμεν Urb. 80γρsl, 365a5 δακρύοις] δάκρυσι Urb. 80γρsl, 367a5 ἐνστήσονται] γρ ἐνστήσεται Urb. 80γρsl, 369a9 ἐκ συγκλύδωνος] ἐκ σύγκλυδος Urb. 80sl). Non è chiaro da quale fonte provengano queste varianti (δάκρυσι non è testimoniato da altre fonti note). Sui margini sono stati vergati degli scolii, per lo più di natura retorico-parafrastica, che non trovano riscontro altrove (interessante lo scolio ad 365b4 παρεπιδημία] ὅμοιον τῷ “πάροικος ἐγώ εἰμι ἐν τῇ γῇ” (Psalm. CXVIII 19, 1) καὶ “οἴμοι ὅτι ἡ παροικία μου ἐμακρύνθη” (Psalm. CXIX 5, 1); proprio sulla base dell’immagine della παρεπιδημία, Erasmo ipotizzò che l’autore dell’Assioco potesse essere un cristiano: cf. supra p. 14). Per altri scritti platonici dipende indirettamente da T (cf. Martinelli Tempesta (1997), 56–66). Verosimilmente quando su Urb. 80 è stato copiato l’Assioco T aveva già perduto la sezione comprendente gli Spuria (cf. supra pp. 109-110). 337 Sul codice cf. Omont (1884), 376–377 e Jonkers (2017), 46 (con ulteriori riferimenti). Brux è stato vergato forse da Matteo di Efeso (Manuele Gabala): cf. Menchelli (2006), 214 e n. 85. L’Assioco è ai ff. 57v-62v. Gli estratti dell’Assioco contenuti in Brux coprono quasi la totalità del dialogo: 364a1 (Ἐξιόντι)-366b1 (μεταβολή), 366c5 (καὶ πρῴην)-367c2 (τοῦ ζῆν), 368a7 (ποίαν)-368d7 (στρατηγοί), 369b5 (ἤκουσα)-371a2 (διάβασιν), 371c2 (ἐνταυθοῖ)-372a16 (μετεκλήθην). Brux presenta le innovazioni e gli errori di Y (sui quali cf. le due note seguenti). Non presenta gli errori propri di altri discendenti di Y. Pochissime le innovazioni proprie (365e3 συγκρίσεως] συγγράσεως Brux, 366d1 ἃ μνημονεύσω] ἂν μνημονεύσω Brux). La prima si trova anche su Vv (nella forma corretta συγκράσεως). La seconda si trova anche nella recensio Plethonis (cf. supra pp. 113-114 n. 295). Si tratta di due casi di poligenesi. Non presenta le innovazioni proprie di altri discendenti di Y. Sulla dipendenza di Brux da Y cf. anche Post (1934), 60 e 87 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 46 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). 338 Sul codice cf. Mioni (1985), 511–512 e Jonkers (2017), 85–86 (con ulteriori riferimenti; per la datazione cf. in particolare Menchelli (2002), 152). L’Assioco è ai ff. 297–300v. Marc. 590 presenta gli errori e le innovazioni di Y (cf. e.g. 364a2 Ἰλισσὸν] Ἐλισσὸν Y Marc. 590, 364a2 του] σου Y Marc. 590, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] ἀντηχεῖται δὲ δέος Y Marc. 590, 368a5 φύντα] φῶτα Y Marc. 590, 371b3 οἱ ὑπενέρθεν] οἱ om. Y Marc. 590, 371d5–6 μεμυημένοις] μεμνημένοις Y Marc. 590). Aggiunge errori propri (364a1 Ἐξιόντι] Ἀξιόντι Marc. 590, 365c4 περιαμύττον] περιαμίττον Marc. 590, 368b5 περαιούμενον] περαιούμενοι Marc. 590, sul primo errore cf. supra p. 111 n. 285). Non presenta le innovazioni di altri discendenti noti di Y. Per la dipendenza di Marc. 590 da Y cf. anche Post (1934), 58 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 85–86 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). 339 Sul codice cf. Hardt (1810), 255–261 e Jonkers (2017), 62 (con ulteriori riferimenti; per la datazione cf. in particolare Brockmann (1992), 24; per l’apparte-

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

Da Mon. 408 a sua volta è derivato il Zittaviensis gr. A 2 (Zitt), copiato tra il 1495 e il 1500.340 Invece, da Marc. 590 discende il Marcianus gr. 189 (Marc. 189), del XIV secolo.341 A sua volta Marc. 189 ha dato origine al

nenza del codice ad Antonio Eparco cf. Mondrain (1993), 236). L’Assioco è ai ff. 422–426. Mon. 408 presenta gli errori e le innovazioni di Y (cf. e.g. 364a2 Ἰλισσὸν] Ἐλισσὸν Y Mon. 408, 364a2 του] σου Y Mon. 408, 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος] ἀντηχεῖται δὲ δέος Y Mon. 408, 368a5 φύντα] φῶτα Y Mon 408, 371b3 οἱ ὑπενέρθεν] οἱ om. Y Mon. 408, 371d5–6 μεμυημένοις] μεμνημένοις Y Mon. 408; particolarmente interessante il caso di 371e1 dove Mon. 408 aveva scritto in origine γενήση, cioè la lezione (errata) che Y ha a testo, per poi correggere γενήση in γε μύστη in base all’annotazione marginale di Y, μύστῃ). Non presenta innovazioni di altri discendenti noti di Y. Aggiunge errori propri (e.g. 365a2 ἤδη] ἤθη Mon. 408, 365c4 ποικίλως] ποκίλλως Mon. 408, 371a5 Ὑπερβορέων] Ὑπερβορίων Mon. 408, 372a11 πέπεικε] πεποίηκε Mon. 408). Sulla derivazione di Mon. 408 da Y cf. anche Post (1934), 59 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 62 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). Tuttavia, questa derivazione non è diretta: come ha osservato D’Acunto (1995), 37–38, se Y è stato portato in Occidente da Simone Atumano intorno alla metà del XIV secolo, come è possibile che Antonio Damilas abbia copiato Mon. 408 da Y a Creta nel 1490? È ragionevole pensare che Mon. 408 derivi da una copia perduta di Y. 340 Sulle caratteristiche e la storia di Zitt cf. Foerster (1921), 469–472 e Jonkers (2017), 90 (con ulteriori riferimenti). L’Assioco è ai ff. 369v-373v. Zitt presenta gli errori di Mon. 408 (e.g. 365a2 ἤδη] ἤθη Mon. 408 Zitt, 365c4 ποικίλως] ποκίλλως Mon. 408 Zitt, 371a5 Ὑπερβορέων] Ὑπερβορίων Mon. 408 Zitt, 372a12 πέπεικε] πεποίηκε Mon. 408 Zitt). Aggiunge errori propri (e.g. 370a4 Ἀξίοχε] Ἀξίμαχε Zitt, 370c7 ἀφαίρεσιν] ἀφαίνεσιν Zitt, 371e6–8 καὶ Ταντάλου … γεννώμενα] om. Zitt). Post (1934), 59, sulla scorta di Foerster, si limitava ad osservare la derivazione da Y. Per la dipendenza di Zitt da Mon. 408 cf. anche Jonkers (2017), 90 (con ulteriori riferimenti). 341 Sul codice cf. Mioni (1981), 301 e Jonkers (2017), 83–84 (con ulteriori riferimenti). L’Assioco è ai ff. 244v-247v. Marc. 189 presenta gli errori di Marc. 590 (365c4 περιαμύττον] περιαμίττον Marc. 590 Marc. 189, 368b5 περαιούμενον] περαιούμενοι Marc. 590 Marc. 189). Marc. 189 non segue Marc. 590 in 364a1, dove Marc. 590 ha l’errato Ἀξιόντι, mentre Marc. 189 ha il corretto Ἐξιόντι. Verosimilmente Marc. 189 ha corretto l’errore per congettura (ma si tenga anche conto del fatto che l’iniziale di Ἀξίοντι è stata scritta su Marc. 590 dal rubricatore: Marc. 189 potrebbe essere stato copiato prima dell’intervento di quest’ultimo). Aggiunge errori propri (cf. 364a2 Ἰλισσὸν] Ἐλισσὸν Marc. 590 : Εἰλισσὸν Marc. 189, 368c3, λύπης] λύπος Marc. 189, 369b4 ἀπευκταιοτάτην] ἀπευκταιότατον Marc. 189, 370a9 καταλήψεσθαι] καταλείψεσθαι Marc. 189, 371c2 κλῄζεται] κλύζεται Marc. 189, 372a12 τοῦ] τὸ Marc. 189). Per la derivazione di Marc. 189 da Marc. 590 cf. anche Post (1934), 58 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 85–86 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). Marc. 189 è una recensione dotta. Presenta una serie di correzioni e una variante marginale (364a1 γενομένῳ Marc. 189 : γενομένῳ μοι Marc. 189pc (μοι Marc. 189pcsl), 364a3 στραφεὶς Marc. 189 : περιστραφεὶς Marc. 189pc (περι Marc. 189pcsl), 365c4

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La tradizione del testo

Marcianus gr. 186 (Marc. 186), della metà del XV secolo.342 Marc. 186 è la copia di lavoro del cardinale Bessarione, realizzata dai suoi collaboratori, a più riprese annotata e corretta dal cardinale stesso sia ope ingenii sia, più spesso, a partire da altre fonti. Numerosissime sono le correzioni effettuate dal copista e dal Bessarione medesimo.343 Sui margini, oltre agli scolii e numerose altre note (parafrasi, notabilia), si trovano le seguenti varianti:

ἀντηχεῖται δὲ Marc. 189 : ἀντίσχει Marc. 189pcγρmarg, 365e6 ἡμεῖς γάρ ἐσμεν Marc. 189 : ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν Marc. 189pc (μὲν Marc. 189pcsl), 366b3–4 ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς Marc. 189 : ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ Marc. 189pc (τῷ νῷ Marc. 189pcsl). In alcuni casi si tratta di errori che potevano essere sanati a partire dallo stesso Marc. 590. In altri casi si è verificata contaminazione con un’altra fonte. Per diverse opere non contenute in Y Marc. 189 dipende da Laur. 85.9 (cf. Jonkers (2017), 84, con ulteriori riferimenti). È verosimile che quest’ultimo sia anche la fonte di molte di queste correzioni e della variante marginale. Marc. 189, inoltre, presenta innovazioni ope ingenii (364a5 ἤστην δὲ αὐτῷ] ἤστην δὲ αὐτῶν Marc. 189, 366e2 αὐξανομένου] αὐξομένου Marc. 189, 368d7 στρατηγοί] βασιλεῖς καὶ στρατηγοί Marc. 189). Brockmann (1992), 126 ha individuato la mano di Pletone sui margini e nell’interlinea di Marc. 189. Non sembra, tuttavia, che le correzioni che si osservano sul testo dell’Assioco siano da ricondurre alla mano di Pletone (specimina della scrittura di Pletone in Brockmann (1992), t. 29 e Martinelli Tempesta (2004), t. lix). 342 Sul codice cf. Mioni (1981), 297–298 e Jonkers (2017), 81–82 (con ulteriori riferimenti). L’Assioco è ai ff. 241v-244r. Sul manoscritto sono state individuate sei mani, delle quali sono state riconosciute quelle di Andronico Callisto, Demetrio Xantopulo e del Bessarione. Ad esse va aggiunta una settima mano in cui è forse da vedere Demetrio Sguropulo (per lo status quaestionis cf. Martinelli Tempesta (2003), 68). La mano principale che ha vergato anche l’Assioco non è stata per il momento identificata. Marc. 186 presenta gli errori e le innovazioni di Marc. 189 (cf. 364a2 Ἰλισσὸν] Ἐλισσὸν Marc. 590 : Εἰλισσὸν Marc. 189 Marc. 186, 364a5 ἤστην δὲ αὐτῷ] ἤστην δὲ αὐτῶν Marc. 189 Marc. 186, 366e2 αὐξανομένου] αὐξομένου Marc. 189 Marc. 186, 368c3, λύπης] λύπος Marc. 189 Marc. 186, 368d7 στρατηγοί] βασιλεῖς καὶ στρατηγοί Marc. 189 Marc. 186, 369b4 ἀπευκταιοτάτην] ἀπευκταιότατον Marc. 189 Marc. 186, 370a9 καταλήψεσθαι] καταλείψεσθαι Marc. 189 Marc. 186, 371c2 κλῄζεται] κλύζεται Marc. 189 Marc. 186, 372a12 τοῦ] τὸ Marc. 189 Marc. 186; la maggior parte di questi errori sono stati poi corretti da Marc. 186pc). Inoltre, recepisce le correzioni e il marginale di Marc. 189pc. Aggiunge numerosi errori in seguito per lo più corretti (cf. la nota seguente). Per la derivazione di Marc. 186 da Marc. 189 cf. anche Post (1934), 58–59 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 82 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). 343 Cf. 364d1 σιτωνυμίαις Marc. 186 : Ἰτωνίαις Marc. 186pc, 365c4 ποικίλως μὲν Marc. 186 : μὲν del. Marc. 186pc, 365c4 περιαμίττον Marc. 186 : περιαμύττον Marc. 186pc, 365d7 τοῦ Marc. 186 : τῆς Marc. 186pc, 365e1 ἦ Marc. 186 : ἦν Marc. 186pc (ν Marc. 186pcsl), 366d7 τὴν Marc. 186 : τῆς Marc. 186pc, 366e2 κριτικοὶ Marc. 186 : del. Marc. 186pc, 366e4 χειρῶν Marc. 186 : χείρων Marc. 186pc, 367a2

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6. La stirps parigina e la posizione di Y

365c4, γραι ἀντίσχει δὲ, 366e1 γρ γραμματισταί, 367c5, γρ οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς, 369b1, γραι φλυάρων. La più notevole di queste annotazioni è senza dubbio quella di 367c1 (γρ οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς), di mano del cardinale Bessarione.344 Da Marc. 186 è derivato il Marcianus gr. 184 (Marc. 184), della metà del XV secolo.345

πόνος Marc. 186 : χρόνος Marc. 186pc, 367c4 ἔσεσθαι Marc. 186 : γενέσθαι Marc. 186pc, 368a5 φῶτα Marc. 186 : φῦντα Marc. 186pc, 368b1 τὰς χειρωνακτικὰς Marc. 186 : τοὺς χειρωνακτικοὺς Marc. 186pc, 368c3 λύπος Marc. 186 : λύπης Marc. 186pc, 368d7 ἐπειρώμην Marc. 186 : ἐπηρόμην Marc. 186pc, 369a9 συνηρασμένον Marc. 186 : συνηρανισμένον Marc. 186pc, 369b4 ἀπευκταιότατον Marc. 186 : ἀπευκταιοτάτην Marc. 186pc, 369a9 συγκλύδωνος Marc. 186 : σύγκλυδος Marc. 186pc, 369b1 φλυάρων Marc. 186 : φλυαριῶν Marc. 186pc, 369c2 ἔστι Marc. 186 : ἔσται Marc. 186pc, 370b3 μεθουργίας Marc. 186 : μεγεθουργίας Marc. 186pc, 369d2 φορολογία Marc. 186 : φλυαρολογία Marc. 186pc, 370a9 καταλείψεσθαι Marc. 186 : καταλήψεσθαι Marc. 186pc, 370c4 πρὸς Marc. 186 : εἰς Marc. 186pc, 371c2 κλύζεται Marc. 186 : κλῄζεται Marc. 186pc, 371b3 ὑπένερθεν Marc. 186 : οἱ ὑπένερθεν Marc. 186pc, 371b5 κλεισὶ Marc. 186 : κλεισὶν Marc. 186pc, 371c2–3 καθίζονται Marc. 186 : καθέζονται Marc. 186pc, 371d5–6 μεμνημένοις Marc. 186 : μεμυημένοις Marc. 186pc, 371e1 γενήσῃ Marc. 186 : γενήτῃ Marc. 186pc, 372a12 τὸ Marc. 186 : τοῦ Marc. 186pc. Sulla difficoltà di distinguere la mano del copista da quella del Bessarione cf. Martinelli Tempesta (1997), 67. Sembra che il Bessarione conoscesse e utilizzasse Par e Mal (cf. Martinelli Tempesta (1997), 70–71). Mal in particolare potrebbe essere una fonte di molte di queste correzioni, dopo che su di esso erano state riportate le lezioni di R (cf. supra pp. 124-125). 344 Che si tratti di un intervento del Bessarione è suggerito, oltre che dal ductus e dallo spessore del tratto (su quest’ultimo criterio per distinguere la mano del Bessarione da quella del copista cf. Martinelli Tempesta (1997), 67; per uno specimen della scrittura del Bessarione cf. RgK 1.C n. 41), anche dal fatto che la stessa annotazione (non più come variante ma come integrazione) è stata scritta dalla stessa mano sul margine di Marc. 184 (cf. anche la nota seguente). Per la valutazione di questo marginale cf. il commento ad loc. 345 Sul codice cf. Mioni (1981), 295–296 e Jonkers (2017), 80–81 (con ulteriori riferimenti). Si tratta di un tomo sontuoso che comprende tutto il corpus platonico, trascritto da Giovanni Rhosos per conto del cardinale Bessarione (di cui si ha la nota di possesso al f. 1v). L’Assioco è ai ff. 474v-476v. Marc. 184 non riporta a margine né gli scolii né le varianti: verosimilmente è stato copiato prima che questi fossero vergati su Marc. 186 (cf. anche Martinelli Tempesta (2003), 68). Recepisce, invece, le correzioni a testo di Marc. 186 (cf. supra pp. 128-129 n. 343). Inoltre, omette ἀντηχεῖται δὲ (365c4) e τῆς Ἀργείας ἥρας ἱερεῖς (367c5) che sono stati sottolineati su Marc. 186 in segno di espunzione. Tuttavia, le parole espunte non sono state sostituite, cosa che si spiega pensando che le lezioni marginali sostitutive non fossero ancora state segnate sul modello. Soltanto nel secondo caso (367c5) il cardinale Bessarione ha successivamente riportato a margine la medesima annotazione da lui vergata su Marc. 186 (οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς), senza l’indicazione γρ, ma con segno di integrazione in corrispondenza della lacuna

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La tradizione del testo

7. Codices deperditi vel qui deperditi creduntur 7.1. Johann Hartung (1505–1579) nelle Decuriae locorum quorundam memorabilium del 1559 riferiva dell’esistenza di un exemplar Dalburgianum (Dalb) conservato a Ladenburg sul Neckar (Lademburgij ad Nicrum).346 Si trattava di un manoscritto conservato nella biblioteca di Johann von Dalberg (1455–1503), umanista e vescovo di Worms.347 Questo codice conteneva anche l’Assioco e Hartung segnalava che vi si leggeva la lezione ἐπωνυμίαις in luogo della lezione vulgata Ἰθωνίαις (sic).348 Si tratta di Ax. 364d1.349 Ora, la lezione ἐπωνυμίαις si legge soltanto in due codici noti dell’Assioco, Par.suppl. 69 e il suo apografo Mon. 313. Si può senz’altro escludere che Dalb sia da identificare con Mon. 313 che Hartung non avrebbe potuto vedere nella biblioteca dalburgiana di Ladenburg.350 Resta invece aperta la possibilità che Dalb sia da riconoscere in

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(per altri casi di questo modus operandi del Bessarione sui margini di Marc. 186 e Marc. 184 cf. Martinelli Tempesta (1997), 74. Sulla variante in questione cf. il commento ad loc.). Per la dipendenza di Marc. 184 da Marc. 186 cf. anche Post (1934), 41 e 59 (per gli Spuria) e Jonkers (2017), 80–81 (per altre opere, con ulteriori riferimenti). Cf. Hartung (1559), 12. La nota di Hartung è segnalata da Fischer (1786), 114. Il testo di Hartung è riprodotto anche in Gruter (1604), II 634. Sull’umanesimo del vescovo von Dalberg cf. Walter (2005), 89–152. Da quel che ho potuto vedere, la testimonianza di Hartung non è nota a chi si è occupato della biblioteca di von Dalberg. Il dato non è secondario perché permette di aggiungere alla ricostruzione della biblioteca del vescovo anche una copia dell’Assioco. «Locus suspectus tamen mihi videtur, et mendosus» notava Hartung (1559), 12. Qualche anno dopo, nelle Decuriae del 1565 Hartung osservava: «Platonis exemplar in Axiocho, pro παντοίην φιλότητα, παντοίῃ φιλότητι habet: quae lectio sensui magis congruit» (cf. Hartung (1565), 11). Il riferimento è al passo omerico di Od. XV 246 (Ax. 368a3) dove la vulgata omerica ha παντοίην φιλότητα, mentre il manoscritto dell’Assioco che Hartung aveva davanti agli occhi aveva παντοίῃ φιλότητι. Hartung non fornisce altre indicazioni su questo manoscritto, ma non si può escludere che si tratti del medesimo exemplar Dalburgianum menzionato nelle Decuriae del 1559. In ogni caso, la lezione παντοίῃ φιλότητι è conservata in tutti i manoscritti noti dell’Assioco. Tutti eccetto uno, cioè Mon. 313 dove Adolph Occo I, copiando da Par.suppl. 69, dapprima scrisse παντοίῃ φιλότητι, ma, in seguito, corresse in παντοίην φιλότητ(α) sulla base del testo di Omero (cf. anche supra p. 125 n. 335). Mon. 313, infatti, faceva parte della biblioteca dell’umanista e medico tedesco Adolph Occo I (1447–1503). Il manoscritto fu donato dal nipote, Adolph Occo III (1526–1606), ad Alberto V di Baviera (1528–1579), nella cui biblioteca entrò segnato col numero 1446 (cf. Hardt (1806), 263–267 e Mondrain (1988), 172).

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7. Codices deperditi vel qui deperditi creduntur

Par.suppl. 69. In caso contrario bisogna pensare che sia esistito un parente di Par.suppl. 69 ora perduto. La prima possibilità acquista maggiore verosimiglianza se si tengono presenti i legami personali tra Johann von Dalberg, Adolph Occo I e il loro comune amico Rodolfo Agricola. Nel 1484, infatti, Rodolfo Agricola, che si trovava a Heidelberg su invito del vescovo von Dalberg, fece venire nella medesima città l’amico Adolph Occo I, il quale continuò lo studio del greco insieme a von Dalberg anche dopo la morte di Agricola (1485).351 D’altra parte, il legame tra questi personaggi era di più antica data: Rodolfo Agricola, infatti, aveva studiato a Pavia (1468?-1475) insieme a von Dalberg e successivamente a Ferrara (1475– 1479) insieme ad Adolph Occo I.352 Proprio durante questo soggiorno ferrarese, Rodolfo Agricola si era cimentato nella traduzione latina dell’Assioco, traduzione che presuppone anch’essa la lezione ἐπωνυμίαις di Par.suppl. 69 e Mon. 313 («Quo citius autem perveniremus, ea quae circa murum cognominata est, ivimus»).353 Se a questi dati si aggiungono il fatto che la copia dell’Assioco di Adolph Occo I (Mon. 313) discende da Par.suppl. 69 e il fatto che Johann von Dalberg nella sua biblioteca privata possedeva un Assioco con una lezione caratteristica di Par.suppl. 69, è ipotesi ragionevole che Par.suppl. 69 sia passato per le mani dei tre amici fino a rimanere nella biblioteca di Johann von Dalberg a Ladenburg sul Neckar. Poco si sa delle sorti della biblioteca di von Dalberg. Probabilmente parte di essa è andata perduta nel corso del tempo. Tuttavia, è possibile individuare un filo sottile che lega questa biblioteca a ciò che sappiamo di Par.suppl. 69. Questo codice fece parte della biblioteca di Pierre-Daniel Huet (1630– 1721), vescovo di Avranches, erudito e poligrafo che donò la sua biblioteca alla domus professa dei Gesuiti di Parigi nel 1692.354 Ebbene, Huet nel 1652 aveva seguito Samuel Bochart presso la corte di Cristina di Svezia, che in quegli anni richiamava intellettuali e scienziati da tutta Europa (basta pensare a Cartesio, a Grozio, a Salmasio). Qui Huet lavorò per un certo tempo

351 Cf. Mondrain (1988), 157 e 159. 352 La cronologia è ripresa da van der Laan, Akkerman (2002), 3; cf. inoltre Mondrain (1988), 158. Per il soggiorno pavese dell’Agricola e il contestuale legame con von Dalberg cf. Sottili (1988), 79–95. Sugli studi greci dell’Agricola cf. Ijsewijn (1988), 21–37 (ristampato in traduzione italiana in Ijsewijn (1996), 65–86 con modifiche e aggiornamenti). 353 Sulle vicende della traduzione dell’Assioco di Agricola cf. infra p. 146. 354 Cf. Astruc, Concasty, Bellon, Förstel (2003), 166–167.

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nella biblioteca della regina, quando vi era bibliotecario Isaac Voss, figlio dell’erudito olandese Gerhard Johannes Voss355. Ora, durante la guerra dei Trent’anni le truppe svedesi avevano occupato la città di Worms, che tennero sotto il loro controllo fino al 1635. Ciò rese possibile il passaggio a Stoccolma di molti manoscritti che ancora all’inizio del XVII secolo si trovavano a Worms. Ad esempio, proprio Isaac Voss ebbe modo di acquistare all’Aia dal medico personale della regina di Boemia un codice contenente il commentario di Origene al Vangelo di Matteo che era entrato in possesso dei soldati svedesi «in direptione Vormaciensis Bibliothecae».356 Verosimilmente proprio dalle spoliazioni della biblioteca di Worms giunsero a Stoccolma anche manoscritti che erano appartenuti al vescovo von Dalberg: è il caso, ad esempio, del Reginensis gr. 2, del Reginensis lat. 1478 e del Reginensis lat. 1584 che Cristina di Svezia portò con sé a Roma. Ma sembra che questo sia stato il caso anche del Vossianus lat. F 72 e del Vossianus gr. Q 7, codici di von Dalberg che Isaac Voss forse si procurò proprio negli anni in cui, come si è visto, in quanto bibliotecario della regina, poteva acquistare manoscritti provenienti dalla Germania.357 Ebbene, non si può escludere che proprio in queste circostanze, mentre si trovava a Stoccolma accanto ad Isaac Voss, a sua volta Pierre-Daniel Huet sia venuto in possesso di un codice proveniente da Worms, appartenuto a von Dalberg, l’attuale Par.suppl. 69.358 7.2. Come è noto, Janus Cornarius consultò un codice Hassensteinianus (Hass) per la preparazione della sua traduzione latina del corpus platonico

355 Su Isaac Voss, con particolare attenzione al suo ruolo come bibliotecario della regina di Svezia, cf. Callmer (1977), 45–57. Sulla permanenza di Samuel Bochart e di Pierre-Daniel Huet alla corte della regina cf. Callmer (1977), 70–72. 356 La notizia è tratta da Callmer (1977), 72 e 107. Di questo manoscritto proprio Pierre-Daniel Huet realizzò una copia durante il suo soggiorno a Stoccolma: cf. Callmer (1977), 72 e n. 11. 357 Su questi dati cf. Callmer (1977), 107. 358 Senza contare che nella biblioteca della regina confluì anche la biblioteca personale del padre di Isaac, Gerhard Johannes Voss, dopo la sua morte nel 1649 (cf. Blok (1974), 20–21). Il dato è interessante in quanto sembra che parte della biblioteca di von Dalberg fosse entrata in quella di Voss padre (cf. Walter (2005), 138–139 e n. 216). Dunque, anche per questo canale manoscritti appartenuti al vescovo von Dalberg poterono giungere a Stoccolma quando vi si trovava PierreDaniel Huet. Fino al 1622 Gerhard Johannes Voss tenne un catalogo dei libri della propria biblioteca. Questo catalogo è ancora esistente ed è conservato nella biblioteca universitaria di Amsterdam. Non mi è stato possible consultarlo. Tuttavia, in esso non sono riportate le acquisizioni che il Voss fece dopo il 1622 (cf. Callmer (1977), 151 e n. 1). È comunque degno di nota che Isaac Voss possedeva un codice con una parafrasi dell’Assioco (cf. supra pp. 89-90 n. 205).

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7. Codices deperditi vel qui deperditi creduntur

apparsa a Basilea nel 1561. Tale manoscritto proveniva dalla biblioteca dei Lobkowicz von Hassenstein. Fu il barone Heinrich von Wildenfels (nei pressi di Zwickau, Sassonia) a ottenere da Sebastian Lobkowicz von Hassenstein che il codice fosse messo a disposizione del Cornarius.359 Gerard Boter ha confutato la vecchia ipotesi che Hass sia da identificare con il celebre Lobcovicianus (Lobc.) di Platone. Da quanto apprendiamo dal Cornarius, infatti, Hass conteneva anche dialoghi che non sono presenti in Lobc. (tra cui l’Assioco).360 La conclusione del Boter, dunque, è che: «it is impossible to identify Hass with an extant Plato MS, so that we must conclude that Hass. has probably got lost».361 Tuttavia, Boter ritiene che per i dialoghi che Hass condivide con Y «Hass. must go back either to Y itself or to an ancestor or gemellus of Y, and not to one of Y’s collated derivatives».362 Dunque, Boter ritiene di poter escludere che Hass derivi, in parte, da un discendente di Y sulla base del fatto che in Pol. 294d8 Hass ha, con Y, μάχαις in luogo della giusta lezione ἀρχαῖς e che su Y μάχαις è stato corretto in ἀρχαῖς dalla prima mano (“ut videtur”). Il ragionamento implicito di Boter è che i discendenti di Y devono avere ἀρχαῖς, dunque Hass non può derivare da un discendente di Y. Tuttavia, in Pol. 294d8 (f. 197) Mon. 408 ha μάχαις e non ἀρχαῖς.363 Dunque, in verità, esiste almeno un discendente di Y che ha la lezione del Politico testimoniata anche da Hass. Non si può dunque escludere che Hass derivasse da un discendente conservato di Y. Per l’Assioco il Cornarius recupera da Hass le seguenti lezioni: 364a1 alterum μοι om., 364a3 στραφεὶς, 364a5 ἤστην δὲ αὐτὼ («in duali numero»), 364d1 σιτωνυμίαις, 366a2 μυχιαῖα, 370b3 τόσον δοιοὺς, 370d4 ἄπονος, 371e1 γε μύστῃ.364 Sono tutte lezioni caratteristiche di Y e dei suoi discendenti. Particolarmente degna di nota è la lezione di 371e1 (γε μύστῃ). Y, in-

359 Cf. Cornarius ap. Fischer (1771), 4: «adhibui … manu scriptum unum, quod ex Bibliotheca Hassistenia generosus Baro Heinricus Vuildefelsius a Sebastiano Heroë Hassistenio mihi impetravit». Sulla possibilità che questo manoscritto appartenesse a Bohuslav Lobkowicz von Hassenstein cf. Boter (1988), 215. 360 Cf. Boter (1988), 216. 361 Cf. Boter (1988), 216–217. 362 Cf. Boter (1988), 217. 363 Come ciò sia stato possibile è difficile dire. Questo dato, però, sembra andare nella direzione dell’esistenza di un anello intermedio tra Y e Mon. 408 (cf. supra pp. 126-127 n. 339). Tale anello intermedio, infatti, può essere stato realizzato prima che il μάχαις di Y fosse corretto in ἀρχαῖς. È lecito aspettarsi che anche Zitt (che non ho potuto controllare per il passo del Politico), in quanto discendente di Mon. 408, abbia a sua volta μάχαις. 364 Cf. Fischer (1771), 140–142.

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fatti, ha a testo l’impossibile γενήση e ha scritto a margine μύστῃ. Per contro, Mon. 408 ha dapprima scritto γενήση, ma l’ha in seguito corretto in γε μύστη, lezione che passa anche a Zitt. Anche sotto questo aspetto, dunque, Hass si avvicina alla discendenza di Y più di quanto si avvicini a Y stesso. Si può notare, inoltre, che Zitt in anni non molto lontani dalla pubblicazione della traduzione del Cornarius circolava nella stessa area geografica (la Sassonia al confine con l’attuale Repubblica Ceca) in cui si trovava anche Hass.

8. La tradizione indiretta La fonte più antica che mostra di conoscere l’Assioco è Cicerone. Egli riprende Ax. 365c1–5 in Tusc. I 11, 24 e in Tusc. II 4, 10.365 La prima menzione esplicita di questo dialogo, invece, si trova nel catalogo di Trasillo conservato da Diogene Laerzio (III 62), da cui si ricava che il titolo originario dell’opera doveva essere solo Ἀξίοχος e non anche περὶ θανάτου.366 La conoscenza del dialogo da parte di Filone di Alessandria, sostenuta da Pierre Boyancé,367 non può essere esclusa, anche se in nessuno dei diversi passi che sembrano echeggiare l’Assioco la ripresa è sufficientemente marcata da indicare una dipendenza proprio da quest’opera e non da una fonte comune o più semplicemente l’impiego di un lessico convenzionale.368 Si registrano, invece, una breve citazione di Clemente Alessandrino (IIIII secolo) e delle riprese nel Simposio di Metodio di Olimpo (III-IV secolo). Il breve estratto citato da Clemente è 367b7 (διὰ)-c2 (ζῆν) = Clem. Alex. Strom. VI 2, 17 (p. 436 Stählin). Esso è inserito in una sezione in cui si discutono i cosiddetti furta Graecorum. Tra i casi citati da Clemente c’è appunto quello di Menandro che avrebbe “plagiato” Platone (per Clemente l’Assioco è di Platone) nella celebre massima “gli dèi amano chi muore gio-

365 Cf. supra pp. 77-78 e n. 187. La seconda di queste riprese può avere un certo interesse anche per la costituzione del testo dell’Assioco (cf. il commento ad loc.). 366 Cf. il commento al titolo 367 Cf. Boyancé (1963), 8–9. 368 In particolare Boyancé rimanda all’uso del termine εἱρκτή come immagine del corpo in Phil. Somn. I 139 e in Her. 68 e 273–274 (a suo avviso si tratterebbe di una ripresa di Ax. 370d1–2: cf. anche il commento ad loc.), e alla corrispondenza (a tratti letterale) tra Phil. Det. 87–90 e Ax. 370b2-c6 (cf. il commento ad loc.). La ben più probabile ripresa dell’Assioco da parte di Cicerone rende superata la conclusione di Boyancé (1963), 8–9, secondo cui l’eco di questo dialogo in Filone sarebbe «le premier en date que nous ayons».

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vane”. Forse Clemente dipende da una antologia.369 In un punto Clemente restituisce la lezione corretta insieme allo Stobeo e a Vv contro A (367a7 διὰ Vv Clem. Stob. : καὶ A).370 Metodio non cita direttamente l’Assioco. Si possono osservare però alcune riprese piuttosto scoperte:371 365e6, ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν ψυχή, cf. Meth. Symp. 6, 4 (p. 174, 44–5 Musurillo), ἡμεῖς γὰρ κυρίως οἱ ζῶντές ἐσμεν αἱ ψυχαί; 366a6–8, ἡ ψυχὴ συναλγοῦσα τὸν οὐράνιον ποθεῖ καὶ σύμφυλον αἰθέρα, καὶ διψᾷ (forse sovrapposto a 365e4–5, τὸν οἰκεῖον ἱδρυθείσης τόπον), cf. Meth. Symp. 4, 5 (p. 138, 11 Musurillo), τὸν οὐράνιον διψῶσαι καὶ σύμφυτον τόπον; 371c8–9, παντοῖοι δὲ λειμῶνες ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι, cf. Meth. Symp. 8, 1 (p. 204, 8–10 Musurillo), τοὺς λειμῶνας αὐτοὺς τῆς ἀφθαρσίας, ἀμήχανα κάλλη καὶ ἄνθη φέροντας καὶ πεπληρωμένους (in questo caso la ripresa è meno evidente); 371d4–5, ἀλλ’ εὔκρατος ἀὴρ χεῖται ἁπαλαῖς ἡλίου ἀκτῖσιν ἀνακιρνάμενος, cf. Meth. Symp. prooem. 8 (p. 48, 68–8 Musurillo), ἀὴρ μὲν γὰρ ἐκέχυτο καθαραῖς φωτὸς βολαῖς ἀνακεκερασμένος. I passi dell’Assioco ripresi da Metodio sono tutti compresi in quelli selezionati dallo Stobeo. Ciò non significa necessariamente che Metodio attingesse ad un’antologia simile a quella dello Stobeo e non al dialogo vero e proprio. Il caso più interessante è quello di Meth. Symp. 4, 5 (p. 138, 11 Musurillo) dove non si può escludere che σύμφυτον rifletta una variante tardo-antica del testo dell’Assioco (che ha σύμφυλον).372 Lo Stobeo conserva i seguenti estratti dell’Assioco: 365b3 (ὅτι)-6 (ἀπιέναι) = Stob. IV 52b, 54 (V, p. 1096 Hense), 365e3 (ὅτι)-366b1 (μεταβολή) = Stob. IV 53, 38 (V, p. 1111 Hense), 366d1 (Ἔφη γὰρ)-368d7 (στρατηγοί) = Stob. IV 34, 75 (V, pp. 852–854 Hense), 369b6 (ὅτι)-c1 (εἰσίν) = Stob. IV 52b, 55 (V, p. 1096 Hense), 371a1 (Eἰ δὲ)-372a3 (τρύχονται) = Stob. I 49, 47 (I, pp. 414–416 Wachsmuth). A questi estratti maggiori si possono aggiungere i due brevi estratti che conservano separatamente le due parti di cui è composta la massima epicarmea di 366c4–5: Stob. III 10, 13 (III, p. 411 Hense) + Stob. III 10, 34 (III, p. 416 Hense). È interessante notare che la prima metà è attribuita ad Epicarmo, la seconda a Prodico. È difficile dire se questa operazione sia stata fatta dallo Stobeo stesso o da una fonte antologica

369 Cf. Piccione (2005), 202: «La fonte di Clemente è qui, senza ombra di dubbio, una raccolta antecedente, probabilmente tematica, sul tema del plagio». 370 Cf. il commento ad loc. 371 La ricognizione dei passi è possibile grazie all’indice di Bonwetsch (1917), 535– 537. 372 Cf. il commento ad loc. La medesima lezione potrebbe essere presupposta anche da Gregorio diacono: cf. infra p. 138.

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anteriore. In ogni caso, verosimilmente questi due estratti brevi provengono dal testo dell’Assioco.373 Gli estratti stobeani dell’Assioco interessano sia le Ecloghe (Stob. I-II), sia, prevalentemente, il Florilegio (Stob. III-IV).374 Nel complesso lo Stobeo conserva quasi metà dell’Assioco. Ciò fa sospettare che la selezione del materiale sia avvenuta non a partire da raccolte preesistenti ma sia stata fatta dallo Stobeo stesso a partire da un testo che conteneva l’Assioco per intero.375 In ogni caso l’estensione di queste citazioni rende la testimonianza dello Stobeo di estrema importanza. Essa, infatti, aiuta a cogliere la compattezza della tradizione medievale e, allo stesso tempo, fa intuire che con la sola tradizione medievale è possibile arrivare soltanto ad un testo dell’Assioco fissatosi grosso modo tra il IV e il VI secolo d.C. D’altra parte, la presenza di numerosi errori separativi suggerisce che la tradizione medievale non continua il testo dello Stobeo. Gli excerpta dell’Assioco non paiono

373 Per i complessi problemi di questo passo rimando al commento ad loc. 374 L’edizione di riferimento è ancora quella di Kurt Wachsmuth per le Ecloghe (1884) e di Otto Hense per il Florilegio (1894–1912). Come è noto, queste due sezioni dell’Anthologium presentano due tradizioni distinte. Il testo delle Ecloghe si fonda sulla testimonianza di due fonti primarie, il Neapolitanus gr. III D 15 (F) del XIV secolo e il Parisinus gr. 2129 (P) degli inizi del XVI secolo (cf. Dorandi (2019b), 51 e n. 17; in precedenza il codice era datato al XV secolo: cf. Wachsmuth-Hense (1884), xxv-xxvii e Piccione ap. Piccione, Taormina (2010), 34–35). Dorandi (2019b), 47–54 ha individuato nell’Ambrosianus A 183 Sup., datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo e contenente una cospicua parte del I libro delle Ecloghe, un antenato di P. Tuttavia, nella parte conservata dell’Ambrosiano non è compreso l’estratto dell’Assioco (da Tiziano Dorandi si attende ora una nuova edizione dei due libri delle Ecloghe). Il testo del Florilegio si fonda sul Vindobonensis phil. gr. 67 (S) della fine del X secolo, sull’Escorialensis Σ II 14 (M) del XII secolo e sul Parisinus gr. 1984 (A) della fine del XIII secolo (per un’accurata descrizione di questi codici cf. Hense (1894–1912), I vii-xxxviii e Piccione (1994), 189–196, dove per un refuso il Parigino è divenuto Par. gr. 1894). Hense tenne conto anche dei cosiddetti codici Trincavelliani, un gruppo di manoscritti di età umanistica il cui capostipite, il Vaticanus gr. 954 (D) è apografo di S (cf. Piccione ap. Piccione, Taormina (2010), 41–42). Nell’utilizzazione dell’edizione di Wachsmuth e Hense occorre un’attenzione costante all’apparato critico per avere un’idea di ciò che la tradizione stobeana realmente conserva. Talvolta, infatti, i due editori sono intervenuti correggendo il testo degli estratti dello Stobeo sulla base del testo dell’Assioco. 375 Sullo spinoso problema (con particolare riferimento proprio agli scritti pseudoplatonici) cf. Piccione (2005), 190–191. In generale sulla presenza di Platone nello Stobeo cf. Curnis (2011).

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aver subito particolari alterazioni volontarie da parte dell’antologista.376 Anzi non di rado risulta che proprio lo Stobeo conserva la vera lectio contro la tradizione medievale. Anche nel VII secolo, uno dei periodi generalmente ritenuti più problematici per la trasmissione dei testi greci, abbiamo una traccia della perdurante fortuna dell’Assioco.377 Teofilatto Simocatta nell’epistola 25 rappresenta un certo Sosistrato impegnato a consolare un certo Assioco per la morte del fratello.378 Già il fatto che una lettera fittizia di argomento consolatorio venga indirizzata ad un personaggio di nome Assioco fa pensare che Teofilatto si sia ispirato proprio allo pseudo-Platone. Una conferma puntuale viene da Theoph. Sim. Ep. 25, ll. 9–10 (ed. Zanetto), οὕτως ἐλύπει τὸν φιλόσοφον τὸ θνητὸν τουτὶ περισκήνιον (cf. Ax. 365e6–366a2, ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν ψυχή, ζῷον ἀθάνατον ἐν θνητῷ καθειργμένον φρουρίῳ, τὸ δὲ σκῆνος τουτὶ πρὸς κακοῦ περιήρμοσεν ἡ φύσις).379 In età macedone una chiara ripresa dell’Assioco si trova in un encomio di San Demetrio, pronunciato dal diacono e referendario Gregorio di Tessalonica alla corte di Leone VI (866–912) a Costantinopoli:380 § 1, ll. 18–19 De-

376 Per una valutazione complessivamente positiva dello Stobeo come fonte per il testo platonico cf. Curnis (2011), 75–76, il quale suggerisce che in questo caso si potrebbe parlare di “tradizione mediata” più che di “tradizione indiretta”. Piccione (2005), 192 e 198 ha mostrato alcuni casi in cui, proprio negli scritti pseudoplatonici, lo Stobeo ha manipolato il testo. Tuttavia, si tratta di sezioni nevralgiche come l’inizio o la fine di un excerptum o il punto di giuntura tra due excerpta, fatto che rende perfettamente comprensibile (e circoscrivibile) l’intervento dell’antologista (cf. anche il commento ad loc.). Questi casi, dunque, rispondono ad una ratio precisa che non permette di estendere il sospetto di interpolazione alla totalità delle varianti dell’excerptum. Si dovrà valutare caso per caso se si tratta di varianti tardo-antiche dell’autore citato, oppure di alterazioni volontarie dell’antologista, o ancora di innovazioni prodotte dalla tradizione medievale del testo dell’antologista (cf. anche Fränkel (1969), 50 n. 2). 377 Per una valutazione equilibrata delle condizioni culturali di questo periodo storico soprattutto nelle zone periferiche rispetto a Costantinopoli cf. Cavallo (1995), 13–22. 378 La segnalazione di questa ripresa si deve a Brinkmann (1896), 442. 379 Il passo è conservato anche dallo Stobeo, tuttavia dall’estratto dello Stobeo non si ricava che Socrate stesse consolando Assioco dalla paura della morte. Il riuso in tema consolatorio del nome di Assioco fa pensare che Teofilatto avesse presente il dialogo nella sua interezza e non il solo estratto dello Stobeo. 380 La ripresa è stata scoperta e analizzata da Brinkmann (1897), 632–633. L’encomio è stato composto in seguito alla presa di Tessalonica da parte degli Arabi (31 luglio 904) ed è stato pronunciato il giorno della festa di san Demetrio (26 ottobre) del 904 o, al più, del 905 (cf. Detoraki (2015), 6). Il testo è stato editato per

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toraki,381 αἱ ψυχαὶ ὡς ἀληθῶς τὴν σύμφυτον αὐταῖς ἀθανασίαν ζητοῦσαι καὶ τῆς ἐκεῖσε διαίτης ἐπορεγόμεναι (cf. Ax. 366a6–8, ἡ ψυχὴ συναλγοῦσα τὸν οὐράνιον ποθεῖ καὶ σύμφυλον αἰθέρα καὶ διψᾷ τῆς ἐκεῖσε διαίτης καὶ χορείας ὀριγνωμένη); § 4, ll. 73–77 Detoraki,382 ἡ τοῦ ζῆν ἀπαλλαγὴ κακοῦ τινος γίνεται εἰς ἀγαθὸν μεταβολή· ὅτι μὴ τῶν ἀγαθῶν ἀφαίρεσιν, ἀλλ’ εἰλικρινεστάτην ἕξομεν τὴν ἀπόλαυσιν. ἄπιμεν γὰρ ἐκεῖσε θαρροῦντες, ἔνθα πάντα ἀστένακτα, ἀγήρατά τε καὶ ἄπονα, γαληνὸς δέ τις καὶ κακῶν ἄγονος ὁ βίος, ἀθανάτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος (cf. Ax. 366a8-b1, ὥστε ἡ τοῦ ζῆν ἀπαλλαγὴ κακοῦ τινός ἐστιν εἰς ἀγαθὸν μεταβολή, e Ax. 370c7-d5, οὐδὲ ἀφαίρεσιν ἕξεις τῶν ἀγαθῶν, ἀλλ’ εἰλικρινεστέραν τὴν ἀπόλαυσιν, … ἐκεῖσε γὰρ ἀφίξει … ἔνθα ἄπονα πάντα καὶ ἀστένακτα καὶ ἀγήρατα, γαληνὸς δέ τις καὶ κακῶν ἄγονος βίος, ἀσαλεύτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος). Questo secondo passo non è trasmesso dallo Stobeo. È verosimile che Gregorio attingesse direttamente all’Assioco. Come Metodio anche Gregorio, nel primo passo citato, sembra presupporre la lezione σύμφυτον contro σύμφυλον della tradizione diretta dell’Assioco, per quanto potrebbe benissimo trattarsi di una innovazione indipendentemente prodotta dai due autori. Nel primo passo, il superlativo εἰλικρινεστάτην banalizza il comparativo del modello (εἰλικρινεστέραν). Si tratta di un’innovazione facile che poteva essere introdotta da Gregorio

la prima volta da Ioannu (1884), 54–66 (sulla base del solo Marcianus gr. Z 362), cui faceva riferimento Brinkmann. Il testo di Ioannu è stato più volte ristampato. Una vera edizione critica con accurato studio storico-filologico è stata prodotta recentemente da Detoraki (2015), 5–55. Il testo dell’encomio è trasmesso da sette manoscritti, tutti di primaria importanza per la costitutio textus (cf. Detoraki (2015), 23–29). Sembra che lo stesso βασιλεύς Leone VI abbia ripreso l’Assioco al termine di uno dei suoi discorsi (cf. Detoraki (2015), 22 e n. 86). Si tratta di Leo VI Hom. XXXI, ll. 149–150 (ed. Antonopoulou), ᾧ [scil. δεσπότῃ] καὶ ἡμεῖς πρασταίμεν ἐαρίζοντες τῇ αὐτοῦ γλυκείᾳ περιθάλψει τοῖς τῶν ἀρετῶν ἄνθεσι. Antonopoulou (2008), 429 richiama nell’apparato delle fonti proprio il passo di 371c8–9 (παντοῖοι δὲ λειμῶνες ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι) e Stob. I 49, 47 (p. 415 Wachsmuth), che contiene il mito di Gobria. Se ciò fosse vero, si avrebbe un’ulteriore prova del fatto che questo testo era particolarmente noto e apprezzato alla corte di Bisanzio tra la fine del IX e l’inizio del X secolo. L’eco tra i due testi è piuttosto tenue, ma è pur vero che il nesso ἐαρίζω/-ομαι ἄνθεσι sembra presente solo nell’Assioco. 381 Questa ripresa non è stata individuata da Detoraki (2015), 21–22 e 33. Era stata invece vista da Brinkmann (1897), 632. 382 Cf. Detoraki (2015), 21–22, dove, però, non è stato notato che anche la frase ἡ τοῦ ζῆν ἀπαλλαγὴ κακοῦ τινος γίνεται εἰς ἀγαθὸν μεταβολή è una ripresa di una sezione dell’Assioco.

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stesso e che non necessariamente implica una variante tradizionale.383 Diverso è il caso dell’espressione κακῶν ἄγονος βίος. La lezione di A, infatti, è ἄπονος, mentre ἄγονος compare nei discendenti di O (dunque, forse si trovava già sui margini di O) e in Vv.384 Il testo dell’Assioco presupposto da Gregorio, dunque, sembra vicino a Vv e alla tradizione che confluisce per contaminazione pretradizionale su O. Tuttavia, non è dimostrabile una dipendenza di Gregorio da O annotato da O3 o da un antenato di Vv.385 Particolarmente interessante, ma molto problematica, è la testimonianza offerta dall’interpretazione allegorica delle Etiopiche di Eliodoro nota come Fragmentum Marcianum (dal suo unico testimone manoscritto, il Marcianus gr. Z 410, della seconda metà del XII secolo). L’incipit di questo scritto è un’imitazione dell’incipit dell’Assioco: 364a1-b2

Fragmentum Marcianum (p. 49, ll. 1–10 Bianchi)386

Ἐξιόντι μοι ἐς Kυνόσαργες καὶ γενομένῳ μοι κατὰ τὸν Ἰλισὸν διῇξε φωνὴ βοῶντός του “Σώκρατες, Σώκρατες”· ὡς δὲ ἐπιστραφεὶς (Opc Vv Thom. : περιστραφεὶς A) περιεσκόπουν ὁπόθεν εἴη, Κλεινίαν ὁρῶ τὸν Ἀξιόχου θέοντα ἐπὶ Καλλιρόην μετὰ Δάμωνος τοῦ μουσικοῦ καὶ Χαρμίδου τοῦ Γλαύκωνος· ἤστην δὲ αὐτῷ ὁ μὲν διδάσκαλος τῶν κατὰ μουσικὴν, ὁ δ’ ἐξ ἑταιρείας ἐραστὴς ἅμα καὶ ἐρώμενος. Ἐδόκει οὖν μοι ἀφεμένῳ τῆς εὐθὺ ὁδοῦ ἀπαντᾶν αὐτοῖς

Ἐξιόντι μοί ποτε τὴν πύλην Ῥηγίου τὴν ἐπὶ θάλατταν ἄγουσαν καὶ γενομένῳ κατὰ τὴν τῆς Ἀφροδίτης πηγὴν διῇξε φωνὴ βοῶντός τινος καὶ καλοῦντός με ἐξ ὀνόματος. ὡς δὲ περιστραφεὶς (cod. : μεταστραφεὶς Hercher)387 περιεσκόπουν πόθεν εἴη, Νικόλαον εἶδον τὸν βασιλικὸν (D’Orville : βασιλεικὸν cod.) ἐπιγραφέα (cod. : ὑπογραφέα Brinkmann) θέοντα ἐπὶ θάλατταν μετὰ Ἀνδρέου τοῦ Φιλήτου (Taràn : φιλέτου cod.)· ἤστην (Hercher : ἤσθην cod.) δὲ ἄμφω προσφιλεστάτω ἐμοὶ ὅτι μάλιστα. ἔδοξεν οὖν μοι ἀφεμένῳ τῆς ἐπὶ θαλάττης ὁδοῦ ἀπαντῆσαι αὐτοῖς

383 Questo passaggio si verifica anche nella tradizione diretta dell’Assioco su R (donde passa a Vind. 109). 384 Questo particolare è stato notato anche da Detoraki (2015), 22 n. 87 (la quale, però, non poteva che basarsi sui dati dell’edizione di Souilhé). Sulla superiorità della lezione ἄγονος cf. il commento ad loc. 385 Merita di essere osservato che, nel secondo dei passi citati, Gregorio ha ἀθανάτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος laddove il modello ha ἀσαλεύτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος. La sostituzione di ἀθανάτῳ ad ἀσαλεύτῳ può beninteso essere una semplice variazione per evitare il raro termine ἀσάλευτος, tuttavia non si può escludere la possibilità che ἀθανάτῳ derivi da una mélecture di maiuscola: ΑCΑΛΕΥΤΩ > ΑΘΑΝΑΤΩ. 386 Si aggiunga la ripresa del raro verbo ἐπιτωθάζω pochi righi dopo (FM p. 49 l. 16 Bianchi, ἐπιτωθάζοντες, cf. Ax. 364c1, ἐπιτωθάζων). 387 È giustamente da respingere la correzione di Hercher μεταστραφείς (cf. Brinkmann (1896), 443; Lavagnini (1974), 6 n. 11; Acconcia Longo (1991), 3 n. 3; Tarán (1992), 208 n. 37 e Bianchi (2006), 16–17 n. 25).

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La tradizione del testo

Non c’è accordo tra gli studiosi sull’attribuzione e sulla cronologia di questo testo. Da un lato c’è chi lo attribuisce ad un neoplatonico del V-VI secolo. Dall’altro chi lo attribuisce a Filagato da Cerami, monaco del monastero della Nuova Odigitria di Rossano, nato nell’ultimo quarto dell’XI secolo e attivo presso la corte normanna sotto Ruggero II (1130–1154) e Guglielmo I (1154–1166).388 Entrambe le ipotesi implicano delle conseguenze notevoli per la storia del testo dell’Assioco. Infatti, se è vera la prima ipotesi, si recupera un testimone della tarda-antichità che ci documenta la conoscenza dell’Assioco in ambiente neoplatonico. Se, invece, è vera la seconda ipotesi, si recupera una prova della circolazione dell’Assioco in Italia meridionale tra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XII, epoca per la quale possediamo soltanto tre testimoni di tradizione diretta (A, O e Par), tutti di area costantinopolitana.389 Per parte sua, Michele Psello (Opusc. XVI, p. 80, 13–14 O’Meara) riprendeva alla lettera Ax. 367b6 nella forma οἱ πολυγήρως ἀπακμάζουσι καὶ τῷ

388 Per la prima ipotesi cf. e.g. Acconcia Longo (2010), 11–39 (con ulteriore bibliografia), per la seconda cf. e.g. Bianchi (2006), 7–47. 389 Non sembra che ci siano argomenti decisivi per l’una o per l’altra ipotesi. Nell’omelia per i Vangeli domenicali XXXIV di Filagato da Cerami, al § 8 (I p. 235 Rossi Taibbi), si legge: καὶ τί θαυμαστόν; ὅπου καὶ ἀνδρῶν Ἑλλήνων οἱ σοφώτεροι καὶ μᾶλλον ἡμῖν προσεγγίσαντες σπήλαιον καὶ δεσμωτήριον καὶ σῆμα τὸ σῶμα ἐκάλεσαν καὶ οἷον ἐνταφεῖσαν ἐν αὐτῷ τὴν ψυχὴν ἀποδύρονται, ἀμέλει καὶ τῶν δεσμῶν λύσιν καὶ τοῦ σπηλαίου φυγὴν τὴν ἐντεῦθεν τῆς ψυχῆς πορείαν δοξάζουσιν; ἀληθῶς γὰρ δεσμῶτις ἐνταῦθά ἐστιν ἡ ψυχή, ὥσπερ ἐν φρουρᾷ καθειργμένη τῷ σώματι. καὶ τὸ μὲν δεσμωτήριον περικλέουσι πύλαι χαλκαῖ, τῶν στοιχείων ἡ σύγκρασις, τὴν δὲ δεσμῶτιν περισφίγγουσι μοχλοὶ σιδηροῖ, τὰ μυρία πάθη τοῦ σώματος. È stato notato che l’espressione ὥσπερ ἐν φρουρᾷ καθειργμένη τῷ σώματι può essere una ripresa di Plat. Phaed. 62b, ὁ μὲν οὖν ἐν ἀπορρήτοις λεγόμενος περὶ αὐτῶν λόγος, ὡς ἔν τινι φρουρᾷ ἐσμεν οἱ ἄνθρωποι (cf. Zanetti (1971), 243). In questa direzione va senza dubbio l’espressione ὥσπερ ἐν φρουρᾷ che riprende ὡς ἔν τινι φρουρᾷ del Fedone. Viene da chiedersi, però, se non sia stato tenuto presente anche Ax. 365e6–366a1, ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν ψυχή, ζῷον ἀθάνατον ἐν θνητῷ καθειργμένον φρουρίῳ. Ciò non implica necessariamente che Filagato avesse una conoscenza diretta e integrale dell’Assioco. È degno di nota, infatti, che anche Michele Coniate sembra aver tenuto presente questo passo dell’Assioco (cf. Mich. Con. Ep. 83, 134, οὐ γὰρ ἠνέσχετο ὡς ἔν τινι φρουρᾷ τῷ γεώδει σώματι ἔτι καθείργνυσθαι). La compresenza del verbo καθείργνυμι e dell’espressione γεῶδες σῶμα (cf. Ax. 365e5) rimanda inequivocabilmente all’Assioco, mentre ὡς ἔν τινι φρουρᾷ è una ripresa letterale di Plat. Phaed. 62b. È molto curioso che sia Michele Coniate sia Filagato da Cerami abbiano fuso il passo dell’Assioco con quello del Fedone. Questa coincidenza fa pensare che i due autori dipendano da una topica comune e non direttamente dal Fedone o dall’Assioco.

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8. La tradizione indiretta

νῷ.390 La citazione è introdotta genericamente dalle parole εἰ καὶ ὁ θεσπέσιος Πλάτων φησίν. Il testo è sostanzialmente analogo a quello trasmesso dallo Stobeo: è presente la variante ἀπακμάζουσι(ν); inoltre, l’articolo οἱ e il taglio della citazione dopo τῷ νῷ presuppongono verosimilmente l’ ἀλλ’ οἱ dello Stobeo (e non l’ ἄλλοι della tradizione diretta) e la presenza di καί anche dopo τῷ νῷ come avviene nello Stobeo.391 Il sospetto principale, dunque, è che Psello dipenda dallo Stobeo o da uno gnomologio ricavato dallo Stobeo.392 Non si può, tuttavia, escludere che Psello dipendesse da una raccolta gnomologica indipendente dallo Stobeo.393 La fortuna dell’Assioco a Bisanzio in età comnena è documentata dalla testimonianza di un contemporaneo di Filagato da Cerami, Teodoro Prodromo (1115–1160), il quale in una satira intitolata Amaranto394 rappresenta il protagonista che dà il nome all’opera mentre è intento a leggere l’Assioco (§ 8, ll. 10–11 Migliorini): καὶ τὸν παρὰ Πλάτωνι Ἀξίοχον οὕτω τυχὸν ἀνεγίγνωσκον.395 Questo riferimento si accompagna a puntuali richiami testuali.396 Due secoli più tardi, Thomas Magister nell’Ecloga vocum Atticarum cita due volte l’Assioco: in Ecl. p. 70, 10–11 Ritschl, τὸ δὲ εὔχομαι, εἰ μὲν ἐστιν ἀντὶ τοῦ ὑπισχνοῦμαι ἀεὶ πρὸς μέλλοντα. Πλάτων ἐν Φαίδωνι (Phaed. 58b)· “τῷ οὖν Ἀπόλλωνι εὔξαντο, ὡς λέγεται, τότε εἰ σωθεῖεν ἑκάστου ἔτους θεωρίαν ἀπάξειν εἰς Δῆλον”. εἰ δὲ ἀντὶ τοῦ παρακαλῶ, πρὸς παρῳχημένον. Πλάτων ἐν τῷ Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου (Ax. 367c3–4)· “εὐξάμενοι τὸ

390 Stando all’apparato di O’Meara, il Vaticanus gr. 2231 (XIV secolo), unico testimone di questo opuscolo di Psello, presenta πολὺγηρως (sic). Non pare condivisibile la scelta di O’Meara di stampare πολὺ γήρως sulla base dei codici platonici (oltretutto questa informazione, verosimilmente desunta dall’apparato di Souilhé, è inesatta). 391 Diversamente, infatti, τῷ νῷ sarebbe stato collegato al successivo δὶς παῖδες e la citazione sarebbe stata tagliata dopo ἀπακμάζουσι. 392 Le citazioni dei dialoghi pseudo-platonici in Psello sono «di sapore gnomico e introdotte da una generica indicazione del nome del filosofo» (Piccione (2005), 206). 393 Su questo problema cf. anche supra pp. 111-112 n. 286. 394 L’opera è stata accuratamente editata e commentata da Migliorini (2007), 183– 247. 395 Come è stato finemente notato da Migliorini (2007), 226 l’espressione παρὰ Πλάτωνι «sembra significare proprio il dubbio di autenticità (l’opera che si trova presso gli scritti di Platone, pur senza provenire dalla sua penna)». 396 Le riprese sono state individuate da Migliorini (2007), 226: 8, l. 12 Migliorini, ἀπεδειλία τὸν θάνατον (cf. Ax. 365a8, ὡς γὰρ ἀγωνιστὴς δειλός), 8, l. 13 Migliorini, τὴν τελευτὴν ἀνάνδρως ἐμορμολύττετο (cf. Ax. 364b7, διαχλευάζων τοὺς μορμολυττομένους τὸν θάνατον).

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La tradizione del testo

κράτιστον αὐτοῖς γενέσθαι”. καὶ Δημοσθένης ἐν τῷ περὶ στεφάνου (De cor. 8)· “πρῶτον μὲν, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, τοῖς θεοῖς εὔχομαι πᾶσι καὶ πάσαις, ὅσην εὔνοιαν ἔχων ἐγὼ διατελῶ τῇ τε πόλει καὶ πᾶσιν ὑμῖν, τοσαύτην ὑπάρξαι μοι παρ’ ὑμῶν”; e in Ecl. p. 115, 7–8 Ritschl, ἐπιστρέφω397 ἐγὼ, ὡς Πλάτων {ἐν τῷ Ἀξιόχῳ ἢ περὶ θανάτου}398 (Ax. 364a3–4)· “ἐπιστραφεὶς δὲ Κλεινίαν ὁρῶ τὸν Ἀξιόχου”. καὶ ἐπιστρέφω ἕτερον, οἷον τὸ “τὰς ἁπάντων ὄψεις εἰς ἑαυτὸν ἐπιστρέψας” (Johann. Chrys. De consubstantiali, PG 48, p. 766). Nel primo caso Thomas registra diverse costruzioni del verbo εὔχομαι a seconda che significhi “promettere” o “chiedere”. Quando εὔχομαι significa “promettere”, Thomas osserva che la costruzione è con l’infinito futuro come in un passo del Fedone. Invece, quando significa “chiedere” si costruisce con l’infinito aoristo, come avviene nel passo dell’Assioco e in quello del De corona di Demostene. Nella seconda citazione Thomas registra l’uso intransitivo (con senso riflessivo) e l’uso transitivo del verbo ἐπιστρέφω. Per il primo caso Thomas trae un esempio dai primi righi dell’Assioco. Come abbiamo notato, il testo dell’Assioco presupposto da Thomas è accostabile alla discendenza di O.399 Tuttavia, non ci sono elementi sufficienti per stabilire con precisione a quale fonte egli attingesse. Contemporaneo di Thomas Magister è stato il dotto monaco Massimo Planude, impegnato in prima persona nell’opera di copiatura del codice Y.400 Il Planude realizzò una raccolta di materiale prosastico proveniente da diversi autori, la cosiddetta Συναγωγή planudea.401 Più che di veri e propri estratti, si tratta di compendi più o meno parafrastici delle opere lette dal Planude, il quale ne ha trascelto alcuni brani ritenuti particolarmente significativi sul piano concettuale e soprattuto morale.402 Diversi sono i brani dell’Assioco compendiati dal Planude (365d1-e2 = Συν. 221; 366a2–4 = Συν. 222; 366c3–5 = Συν. 223; 366d1–367c1 = Συν. 224, 1–11; 368a7-c1 = Συν. 224, 11–14; 369b9-c7 = Συν. 225; 370c5-d2 = Συν. 226). Il contributo che la Συναγωγή planudea può dare per il testo dell’Assioco è limitato: è sta-

397 Prima dell’edizione del Ritschl si correggeva in ἐπιστρέφομαι (forma che si legge anche nel Dictionarium di Varino Favorino); a difesa del tradito cf. i paralleli addotti da Ritschl (1832), cxvi. 398 Il riferimento all’Assioco è assente in parte della tradizione e nel Dictionarium di Varino Favorino; su queste basi è espunto dal Ritschl. 399 Non a Par e alla sua discendenza (cf. supra p. 110 n. 284). 400 Cf. supra p. p. 121 n. 314. 401 La sezione platonica della Συναγωγή planudea è stata recentemente studiata ed editata da Ferroni (2015). 402 Cf. Ferroni (2015), 44.

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9. Le traduzioni latine anteriori all’Aldina

to riconosciuto, infatti, che il modello principale utilizzato dal Planude è Par.403 L’interesse della Συναγωγή per l’editore dei testi in essa escerpiti è legato prevalentemente alla possibile presenza di congetture del Planude, o di “congetture involontarie”, innovazioni introdotte dal Planude sulla base del senso che egli si aspettava dal testo (e, dunque, in ogni caso innovazioni dotate di valore diagnostico).404 È certo che ricerche ulteriori negli autori bizantini porteranno alla luce molte altre riprese dell’Assioco, un testo che fu letto e apprezzato nella tarda antichità e a Bisanzio.

9. Le traduzioni latine anteriori all’Aldina Tuttavia, come in parte si è già visto,405 l’Assioco ha avuto una notevole fortuna anche nel Quattrocento italiano. Ciò è testimoniato, tra l’altro, dalle diverse traduzioni latine realizzate in questo periodo. La più antica traduzione latina databile con una certa sicurezza è quella di Rinuccio Aretino,

403 Modello principale ma non unico (cf. Ferroni (2015), 78–81). C’è un certo scetticismo circa la possibilità che il Planude abbia avuto accesso a fonti non note (cf. Ferroni (2015), 82 e n. 221). Tuttavia, Planude lavorò alla composizione di Y, il quale sembra che sia stato contaminato con il filone tradizionale di Vv (cf. supra p. 123). Non si può escludere dunque che Planude abbia avuto accesso a questo filone tradizionale (cf. anche la nota seguente). 404 Cf. Ferroni (2015), 82. Nel caso dell’Assioco sono particolarmente degni di nota i seguenti casi: 365d6 μεταβαλὼν acc. corr. Planud., Souilhé (μεταβαλῶν Vv) : μεταβάλλων A Par Y, 365e1 ἦν Vv JRW Planud. : ᾖ A Par, 366a2 ἀμυχιαῖα A JRW Stob. (ἀμυχαῖα Stob.) : μυχιαῖα Α3γρmarg Par Y Vv : μοιχιαῖα Planud., 367b7 διὰ τοῦτο Vv Clem. Stob. Planud. : καὶ τοῦτο A Par Y. Particolarmente interessante è μοιχιαῖα, che presuppone l’insensato μυχιαῖα di Par e Y. Il termine μοιχιαῖος è accostabile ai più diffusi μοίχιος, μοιχικός, significa cioè “adulterino” e, in senso lato, “adulterato”, “falso” (ad una soluzione simile perverrà Ficino: cf. infra il commento a 366a2). Negli altri casi si hanno corrispondenze in lezione corretta tra la Συναγωγή e Vv contro Par e Y. Planude può esservi giunto per congettura. Ma non si può escludere che egli abbia avuto accesso ad un modello legato a Vv (cf. anche la nota precedente). Nel caso di 367b7 (διὰ τοῦτο Vv Clem. Stob. Planud. : καὶ τοῦτο A Par Y) si può anche pensare, oltre alla congettura e all’impiego del filone tradizionale di Vv, ad una contaminazione con lo Stobeo (cf. inoltre Ferroni (2015), 82 e n. 223). 405 Cf. supra pp. 12-14.

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La tradizione del testo

realizzata tra il 1426 e il 1431 e dedicata al vescovo Angelotto Fosco.406 Il modello di questa traduzione non è stato ancora identificato.407 Di qualche anno più tardi (1436/7) è la traduzione dell’Assioco di Cencio de’ Rustici, dedicata al cardinale Giordano Orsini. Si tratta di una traduzione estremamente fortunata, al punto da essere stata utilizzata nel 1444 da Pero Díaz de Toledo come modello per una traduzione spagnola del dialogo.408 Anche il modello greco seguito da Cencio per il momento non è stato identificato.409 È particolarmente interessante la resa dell’indicazione ἐς Κυνόσαργες nell’incipit e nella chiusa del dialogo. In entrambi i casi, infat406 Si segue la datazione proposta da Hankins (1991), I 87 n. 140. In precedenza, la traduzione era stata datata tra il 1440 e il 1443 da Lockwood (1913), 54. Tuttavia, il dedicatario è semplicemente indirizzato con il titolo di “episcopus Cavensis”, carica che Angelotto Fosco ricoprì a partire dal 1426, mentre nel 1431 fu elevato al rango di cardinale di San Marco (la lettera dedicatoria si può leggere in Lockwood (1913), 103–104). 407 Secondo Belli (1954), 449: «in alcuni punti sembra accostarsi al gruppo bessarioneo, in alcuni altri se ne scosta sensibilmente» (cf. tuttavia Resta (1959), 253 n. 3; cf. e.g. 368d7 στρατηγοί] βασιλεῖς καὶ στρατηγοί Marc. 189 Marc. 186 Marc. 184, «domi principes fores duces» Rinucius). Belli (1954), 449–456 ha fornito una trascrizione del testo di questa traduzione contenuto nel Vaticanus lat. 3441. Hankins (1991), II 821 ha censito 16 manoscritti della traduzione di Cencio (un nuovo testimone è stato segnalato da Martinelli Tempesta (2005) 365–368). Nuova luce sul problema del modello di Rinuccio potrà essere gettata dagli studi in corso di Francesca Manfrin. 408 Hankins (1991), I 82 censisce 38 manoscritti e un’edizione a stampa della traduzione di Cencio. Sull’edizione a stampa uscita a Parigi nel 1557 cf. Cortesi, Fiaschi (2008), I xv e n. 14 e II 1217. Sulla traduzione spagnola di Pero Díaz de Toledo cf. González Rolán, Saquero Suárez-Somonte (2000), 181–197. 409 La traduzione di Cencio si può leggere in Belli (1954), 456–461 nella trascrizione del Chigianus L V 165 e in González Rolán, Saquero Suárez-Somonte (2000), 181–197 in un testo fondato, oltre che sulla trascrizione offerta da Belli, sulle lezioni del manoscritto della Biblioteca della Cattedrale di Burgo di Osma n. 124 e del manoscritto della Biblioteca Universitaria di Salamanca n. 2265. Belli (1954), 147–148 segnalava una serie di corrispondenze con le lezioni tipiche della stirps vaticana: 365b2 ἀνὴρ τοσόσδε τῷ χρόνῳ JRW, «vir tanta aetate» Cincius, 367a2 καὶ πᾶς ὁ τοῦ μειρακίσκου χρόνος JRW, «atque omne adulescentis tempus» Cincius, 370c2 Πλειάδων χειμῶνας JRW, «Pliadum hiemes» Cincius, 370d4 κακῶν ἄγονος βίος JRW, «vita malorum non generatrix» Cincius (ad esse si può aggiungere 372a11 ὁ σὸς λόγος JRW, «tua … oratio» Cincius). Tuttavia, a 366e1 Cencio traduce come se leggesse γυμνασταί («gimnastre») e non γραμματισταί che è la lezione che JRW e la loro discendenza hanno a testo. La lezione γυμνασταί è invece caratteristica della stirps parigina. Inoltre, essa è riportata come variante sul margine di J (con il γρ), da cui passa a L e Laur.conv.soppr.78 (cf. supra pp. 111-112 nn. 285 e 286). In entrambi questi casi è assente il γρ, inoltre su Laur.conv.soppr.78 la variante γυμνασταί è scritta nell’interlinea sopra

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9. Le traduzioni latine anteriori all’Aldina

ti, Cencio traduce con le parole «ad sepulchrorum locum».410 Di datazione incerta invece è la traduzione di Antonio Cassarino (terminus ante quem è il 1447, data di morte del Cassarino), dedicata a Giacomo Curlo.411 Anche in questo caso il modello della traduzione non è stato ancora individuato con sicurezza.412 La traduzione latina quattrocentesca più celebre è senz’altro quella del Ficino. Realizzata nel 1464, poco prima della morte di Cosimo de’ Medici, questa traduzione è in seguito stata pubblicata a stampa da Aldo Manuzio nel 1497 in un’antologia di testi variamente legati alla tradizione platonica.413 Il modello principale della traduzione del Ficino è stato individuato in Laur. 85.9, dono fatto al Ficino da Cosimo nel 1462, da identificare con il codice platonico “in carta bona” menzionato da Ficino stesso nel proprio testamento.414 Sul testo dell’Assioco di Laur. 85.9 si possono osservare due interventi marginali del Ficino che sanano due errori del codice (365b6 παίζοντας Laur. 85.9 : παιανίζοντας Ficinus, 366e2 τυραννοῦντες om. Laur. 85.9 : add. Ficinus).415 Già da questo fatto è evidente che Ficino ebbe a disposizione anche almeno un altro codice platonico contenente l’Assioco,

410 411 412 413 414 415

γραμματισταί. Questa disposizione poteva essere presa come indicazione di sostituzione anziché di variante tradizionale (cf. anche Beghini (2016), 20–23). Tuttavia, questo dato non è sufficiente per sostenere che Cencio abbia avuto come modello proprio L o Laur.conv.soppr. 78. Alcune soluzioni versorie di Cencio fanno pensare che egli abbia tenuto presenti degli scolii che non sono trasmessi dalla stirps vaticana, ma dalla stirps parigina (cf. Beghini (2016), 23 e 26). Per un tentativo di spiegazione di questo fenomeno cf. Beghini (2016), 24–27, rivisto alla luce del commento ad loc. Della traduzione del Cassarino è noto un solo manoscritto (Vaticanus lat. 3349), la cui trascrizione si può leggere in Belli (1954), 461–467. La dedica può essere letta in Garin (1955), 360 e in Resta (1959), 252. Belli (1954), 448 nota una vicinanza tra questa traduzione e i codici Marc. 184 e Marc. 186, cui si può aggiungere Marc. 189 (cf. 368d7 στρατηγοί] βασιλεῖς καὶ στρατηγοί Marc. 189 Marc. 186 Marc. 184, «imperatores et duces» Cassarinus). Cf. anche supra p. 13. Oltre all’autografo del Ficino (su cui cf. supra p. 13 n. 9), sono stati individuati 16 manoscritti che contengono questa traduzione e 17 edizioni a stampa (inclusa quella Aldina del 1497): cf. Hankins (1991), II 820. Cf. Hankins (1991), I 267 e Carlini (1999), 5–6. Cf. Carlini (1999), 21.

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La tradizione del testo

che si è pensato di identificare con L.416 A Ficino, inoltre, si deve l’originale, ma implausibile, attribuzione dell’Assioco a Senocrate.417 Proprio questo fatto, verosimilmente, è stato il principale responsabile di un curioso fenomeno editoriale. Nella traduzione ficiniana degli Opera Omnia del corpus platonico, infatti, a partire dall’edizione parigina del 1518, è presente anche la traduzione dell’Assioco, tuttavia, non si tratta della traduzione del Ficino, bensì di quella di Rodolfo Agricola. Verosimilmente l’attribuzione dell’Assioco a Senocrate da parte del Ficino rese più complicato riconoscere che Ficino aveva tradotto anche questo dialogo appartenente al corpus. Così si fece ricorso alla traduzione dell’Agricola per “completare” l’edizione della traduzione latina ficiniana di tutto il corpus.418 Rodolfo Agricola tradusse l’Assioco a Ferrara tra il 1475 e il 1479. Il modello seguito dall’Agricola si avvicina a Par.suppl. 69 e al suo apografo Mon. 313.419 Nella maggior parte dei casi i modelli greci di queste traduzioni non sono stati ancora identificati con precisione. In alcuni casi esse offrono soluzioni dotate di valore diagnostico rispetto a problemi effettivamente presenti nel testo, e che talora per certi aspetti anticipano correzioni o tentativi di correzione proposti in seguito.420 Tuttavia, data la relativa compattezza della tradizione manoscritta superstite dell’Assioco, sembra 416 A 366e1 il Ficino mostra di conoscere anche la lezione γυμνασταί che integra nella sua traduzione accanto a γραμματισταί («paedagogi, grammatici, gymnastici, paedotribae»). Laur. 85.9 presenta a testo γραμματισταί e a margine γυμνασταί con il γρ, il quale indica che si tratta di una variante e non di una integrazione. Diversamente, L presenta a testo γραμματισταί e a margine γυμνασταί, senza il γρ, ma con un segno di richiamo che può essere interpretato come indicazione di lezione sostitutiva (cf. Carlini (1999), 22). Tuttavia, in alternativa a L si può pensare a Laur.conv.soppr. 78, che presenta una situazione simile (cf. supra p. 111 n. 285; cf. già Beghini (2016), 22 n. 2). 417 Cf. anche supra p. 18. Dalla vita di Senocrate di Diogene Laerzio (IV 12) Ficino sapeva che Senocrate compose un Περὶ θανάτου in un libro. L’attribuzione dell’Assioco a Senocrate da parte del Ficino trova un riflesso su Vind. 109, legato all’ambiente ficiniano (cf. supra pp. 115-116 n. 299). Non si può escludere che Ficino possa avere tenuto presente anche questo codice per la sua traduzione dell’Assioco (cf. e.g. 365b4 κοινὸν Vind. 109 : «vulgatam» Ficinus; ulteriori indizi in Menchelli (2014a), 188–189; cf. anche supra pp. 115-116 n. 299). 418 Sulle vicende della traduzione di Agricola cf. Tournoy (1988), 216–217. 419 Cf. supra p. 131. Della traduzione di Agricola sono state individuate 7 copie manoscritte e più di 30 edizioni a stampa (incluse le non poche edizioni in cui la traduzione di Agricola è associata a quella degli Opera Omnia platonici del Ficino): cf. Tournoy (1988), 211–212 n. 3 e Hankins (1991), II 819. 420 Cf. e.g. 364b5, ὥρας] ἀρρωστίας con. Burges : «graviorique … valetudine» Rinucius, «morbo» Ficinus, 369b4 περὶ add. Beghini : «quid de aliis … doctrinis con-

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10. Le principali edizioni

poco verosimile che queste soluzioni versorie riflettano la conoscenza di varianti di cui non si ha altra traccia, o addirittura di rami indipendenti della tradizione: esse saranno piuttosto “congetture involontarie”, sollecitate dalle difficoltà del testo.

10. Le principali edizioni La storia editoriale dell’Assioco incomincia con l’edizione Aldina (Ald) del corpus Platonicum (1513). Il manoscritto per la stampa fu approntato da Marco Musuro a partire dal Parisinus gr. 1811 e da Marc. 186.421 Dunque, per l’Assioco la fonte dell’Aldina è indirettamente Marc. 186.422 Il contributo che questa edizione può dare alla costituzione del testo è limitato ad un ottimo intervento congetturale verosimilmente attribuibile al Musuro (369a8 συγκλύδων Ald : συγκλύδωνος A Par Marc. 186 : 369a9 σύγκλυδος Vv JRW Marc. 186pc).423 La prima edizione di Basilea apparve nel 1534 per i tipi di Johannes Valder, a cura di Johannes Oporinus e Simon Grynaeus (Bas1). Di fatto Bas1 è una copia dell’edizione Aldina di cui condivide anche gli errori particolari. Decisamente di maggiore interesse è la seconda edizione di Basilea (Bas2), apparsa nel marzo del 1556 presso Henricus Petrus. Come si evince dall’epistola prefatoria di Marc Hopper a Basil Amerbach, il testo fu curato da

siderabimus?» Cincius, «quid de reliquis existimandum?» Ficinus, 371c2 lacunam stat. Beghini (e.g. ) : «in eam videlicet regionem quae …» Ficinus. Naturalmente il fatto che queste traduzioni, come a volte anche alcune traduzioni moderne, abbiano individuato, con maggiore o minore precisione, il senso atteso non significa che i traduttori abbiano effettivamente intuito che il testo greco è affetto da errore, né, tantomeno, che abbiano intuito quale fosse la migliore soluzione per correggerlo. 421 Sull’Aldina di Platone cf. Martinelli Tempesta (2014), 39. 422 Nel caso dell’Assioco il testo dell’Aldina presenta le caratteristiche di Marc. 186 corretto da Marc. 186pc (cf. e.g. 365c4 ἀντηχεῖται δὲ Marc. 186 : del. Marc. 186pc : ἀντίσχει δὲ Marc. 186γρmarg Ald, 367c5 γρ οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς Bessarion ap. Marc. 186marg : οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς Ald, 368b1 τὰς χειρωνακτικὰς] τοὺς χειρωνακτικοὺς Marc. 186pc Ald, 368d7 στρατηγοί] βασιλεῖς καὶ στρατηγοί Marc. 186 Ald). 423 Forse si deve sempre al Musuro il tentativo (non particolarmente riuscito) di dare un senso al τόσον δοιοὺς διήρατο di Marc. 186 a 370b3 scrivendo τόσον διήρατο. Rispetto a Marc. 186 l’Aldina aggiunge degli errori (non è chiaro se essi fossero già nel manoscritto preparatorio per la stampa): cf. e.g. 366e1 παιδοτρίβαι Marc. 186 : παιδοτρίβας Ald 367b6–7 καὶ τῷ νῷ δὶς παῖδες Marc. 186 : καὶ τῶν δὶς παῖδες Ald, 370a8–9 τῇ δὲ στερήσει … αἰσθήσεσθαι Marc. 186 : om. Ald.

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La tradizione del testo

Arnoldus Arlenius Peraxylus, il quale emendò il testo di Bas1 con l’ausilio di fonti manoscritte reperite in Italia.424 Finora queste fonti sono state identificate con T e con Marc. 184.425 Tuttavia, il testo dell’Assioco mostra che Arlenius ebbe fra le mani anche un codice appartenente alla stirps vaticana che non è possibile identificare con maggiore precisione.426 Le Eclogae che accompagnano la traduzione latina di Janus Cornarius pubblicata postuma nel 1561 contengono interessanti note filologiche ed esegetiche. In questo suo lavoro il Cornarius si avvalse, oltre che di Ald, Bas1 Bas2 e della traduzione del Ficino, di un codice ora perduto (Hass) riconducibile ad Y e alla sua discendenza.427 Non riprendono nessuna fonte manoscritta, invece, le note critiche ed esegetiche che accompagnano l’edizione e la traduzione latina dell’Assioco contenute in un volume apparso anonimo a Basilea nel 1577, la cui paternità è da assegnare con certezza a Hieronymus Wolf.428 Nella praefatio il Wolf affermava di aver utilizzato per la costituzione del testo greco tres codices, i quali, tuttavia vanno identificati con l’Aldina (sulla quale il testo è fondato) e le due edizioni di Basilea.429 Inoltre, il Wolf impiegò le traduzioni del Ficino e di Agricola, le note e le traduzioni del Perionius e del Rayanus,430 oltre che la traduzione e le Eclo-

424 Così ad esempio nell’Assioco Bas2 sana la grossa lacuna di 370a8–9, che Bas1 ereditava da Ald (cf. la nota precedente). Bas2 ripristina il testo della tradizione medievale (οἱ τῆς Ἀργείας Ἡρας ἱερεῖς) contro l’ottima correzione del Bessarione (οἱ τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς) che da Marc. 186 era passata ad Ald e a Bas1. 425 Sulle due edizioni di Basilea cf. Martinelli Tempesta (2014), 39–41. 426 Cf. e.g. 365c6 ἄπυστος Bas1 : ἄγευστος Bas2, 366e1 γυμνασταὶ Bas1 : γραμματισταὶ Bas2, 369a9 συγκλύδων Bas1 : σύγκλυδος Bas2, 372a11 oὗτος ὁ λόγος Bas1 : ὁ σὸς λόγος Bas2. Le prime tre lezioni confluiscono per contaminazione anche nella stirps parigina. Ma la lezione di 372a11 rimane caratteristica della stirps vaticana. Bas2 peggiora il testo ripristinando la lezione σύγκλυδος contro la congettura συγκλύδων (probabilmente del Musuro) che da Ald era passata a Bas1. 427 Sul Cornarius e Hass cf. anche Martinelli Tempesta (2014), 41 e supra pp. 132-134. A 366d7-e3 il Cornarius (ap. Fischer (1771), 141) sostiene che si debba leggere: ὁπόταν δὲ εἰς τὴν ἑπταετίαν ἀφίκηται, πολλοὺς πόνους διαντλῆσαν, παιδαγωγοὶ καὶ γυμνασταὶ καὶ παιδοτρίβαι τυραννοῦντες, αὐξομένου δὲ γραμματισταὶ, κριτικοί, γεωμέτραι, τακτικοί, πολὺ πλῆθος δεσποτῶν. Si tratta di un testo “misto” ricavato in parte da Ald e Bas1, in parte da Bas2. 428 La paternità dell’opuscolo fu dimostrata con argomenti decisivi già dal Fischer nella praefatio della sua edizione dell’Assioco del 1758 (cf. anche infra p. 150). Sull’attribuzione dell’opuscolo al Wolf cf. più recentemente Tournoy (2011), 315-316. È degno di nota che l’edizione dell’Assioco sia dedicata dal Wolf ad Adolph Occo III: torna la connessione tra l’Assioco e questa dinastia di medici tedeschi (cf. supra pp. 15, 125 n. 335 e pp. 130-131). 429 Cf. già Fischer (1758), praef. s.p. 430 Sul Perionius e il Rayanus cf. supra, rispettivamente p. 30 (e n. 76) e p. 15.

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10. Le principali edizioni

gae del Cornarius. Talvolta le proposte di emendamento del Wolf sono da accogliere a testo o hanno perlomeno alto valore diagnostico.431 L’anno successivo (1578) apparve l’edizione dello Stephanus con la traduzione latina del Serranus (Jean de Serres). Lo Stephanus affermava di aver collazionato fonti manoscritte, ma dipendeva essenzialmente dalle edizioni a stampa precedenti, dalla traduzione del Ficino e da quella del Cornarius (comprese le Eclogae). Nondimeno, nel caso dell’Assioco egli ha avuto il merito di mettere a frutto per la prima volta la testimonianza dello Stobeo, sia pure in modo saltuario. Di non trascurabile interesse critico-testuale poi sono le Annotationes al testo poste in fondo al terzo tomo dell’edizione.432 Quello dello Stephanus rimane il testo greco di riferimento fino all’edizione del Bekker.433 Il XVIII secolo ha visto la comparsa di diverse edizioni dell’Assioco. Attribuito ad Eschine di Sfetto dal Clericus (Jean Le Clerc), fu pubblicato nel 1711 dal Clericus stesso insieme al De virtute e all’Erissia.434 L’edizione presenta un ricco corredo di note di carattere prevalentemente storico-antiquario. Di minore interesse è il contributo critico-testuale offerto dal Clericus.435 Dopo che l’edizione era già andata in stampa pervenne al Clericus la collazione di un non meglio precisato codex Mediceus, realizzata da Antonio Maria Salvini e da Heinrich Brencmann.436 Il Clericus non poté mettere a frutto i risultati della collazione. Tuttavia, riuscì a far stampare in calce alle testimonianze di Eschine la collazione che gli era stata inviata. Questo codex Mediceus è da identificare con Laur. 85.9.437 Le collazioni del codice

431 Ad esempio è decisiva la correzione di 368d8 (συνεξαμαρτεῖν per il tradito συνεξάρχειν) e pienamente convincente è la diagnosi di una lacuna a 367a6. 432 Molto interessante ad esempio è la proposta di correzione ἄρρηκτον a 365a7 per il tradito ἄρρητον. 433 Sull’edizione dello Stephanus cf. Martinelli Tempesta (2014), 41–42. Sulla tendenza dello Stephanus a millantare l’uso di fonti manoscritte cf. anche van Groningen (1963), 70 e Kenney (1974), 31–32 (ma già Fischer (1758), praef. s.p. aveva segnalato questa fraus dello Stephanus). 434 Sull’edizione del Clericus cf. anche Pentassuglio (2017), 548–562 (cf. già Pentassuglio (2016), 311–323). 435 Il Clericus non ha fama di grande congetturatore: cf. Timpanaro (20033), 31–33 (anche per una penetrante sintesi più generale sulla filologia del Clericus). 436 Nella praefatio, per una svista, Antonio Maria Salvini diventa Giovanni Maria Salvini. Va corretta l’affermazione di Pentassuglio (2016), 313 n. 9 (ripresa in Pentassuglio (2017), 550 n. 4): il Salvini non inviò al Clericus il codice, ma una semplice collazione. 437 È sufficiente ricordare la lezione caratteristica di 365b6, παίζοντας per παιανίζοντας, che si trova altrove soltanto nel Leidensis Voss. gr. Q. 54, apografo del Laurenziano.

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La tradizione del testo

laurenziano pubblicate dal Clericus furono utilizzate da Petrus Horreus, il quale, partendo dall’edizione del Clericus, pubblicò nel 1718 a Leeuwarden una propria edizione dei tre dialoghi attribuiti ad Eschine di Sfetto, corredandola di un ricco apparato di note di carattere prevalentemente grammaticale.438 Tra il 1753 e il 1788 Johann Friedrich Fischer pubblicò l’Assioco ben cinque volte, una volta separatamente (nel 1758) e quattro volte insieme al De virtute e all’Erissia (1753, 1766, 1786, 1788).439 Come si è accennato, nell’edizione del 1753 Fischer seguì il Clericus nell’attribuire questi tre dialoghi ad Eschine di Sfetto.440 Tuttavia, a partire dall’edizione del 1758 se ne discostò, e nell’edizione del 1786 ristampò una prolusione del Meiners del 1782 che a sua volta confutava la paternità eschinea dei tre dialoghi. Merito particolare del Fischer è stato poi quello di avere riscoperto e ristampato già nell’edizione del 1758 le note di Hieronymus Wolf, identificandone l’autore. Le annotazioni del Fischer crescono per estensione, dottrina e maturità critica di edizione in edizione. L’edizione del 1786 è l’esito di un impegno che si è esteso per più di trent’anni. Si tratta ancora oggi di un lavoro di grande utilità per lo studio dell’Assioco sia per la finezza di molte osservazioni, sia per l’enorme mole di materiale raccolto e discusso attingendo all’erudizione dei secoli precedenti. Al Fischer, inoltre, si deve un primo avanzamento significativo nella conoscenza della tradizione manoscritta. L’edizione del 1753 era fondata sul testo di Horreus. Nel 1758 Fischer rivide il testo di Horreus alla luce dell’Aldina, delle due edizioni di Basilea, delle Eclogae e della traduzione del Cornarius, delle edizioni e delle note del Perionius, del Rayanus e del Wolf. Nella stessa data segnalava l’esistenza di due codici viennesi dell’Assioco a partire dal catalogo di Daniel von Nessel del 1690 (si tratta di Y e di Vind. 109). Sempre nell’edizione del 1758, inoltre, comparve l’indicazione del codex Dalburgianus ricavata dalle notizie di Hartung. Nell’edizione del 1786 Fischer impiegò le collazioni dei due codici viennesi segnalati nel 1758. Inoltre, fornì un primo sommario elenco di codici contenenti l’Assioco (oltre che l’Erissia e il De virtute) a partire dai cataloghi di alcune importanti biblioteche europee.441

438 Sull’edizione di Horreus cf. anche Pentassuglio (2017), 562–566. 439 Non mi è stato possibile consultare l’edizione del 1788. Pentassuglio (2017), 566–571 limita il proprio discorso alla terza edizione del 1786. 440 Cf. supra p. 18. 441 Si tratta di Laur. 85.9 per la Laurenziana (nelle note di commento il Fischer riproduce anche il lungo scolio al nome Κυνόσαργες, stampato dal Bandini nel catalogo), di A, Par, C, Par. 2010 e V per la la “Bibliothèque Royale” di Parigi

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10. Le principali edizioni

Nel 1810 August Boeckh pubblicò un’edizione di quattro dialoghi contenuti nel corpus Platonicum (il Minosse, l’Ipparco, il De iusto e il De virtute) attribuendoli, sia pure con una certa prudenza, al Socratico Simone. A questi quattro dialoghi Boeckh fece seguire il testo dell’Erissia e dell’Assioco, senza avanzare una proposta di attribuzione, ma con l’obiettivo di fornire un testo più corretto di quello del Fischer. A questo scopo Boeckh collazionò i due codici della biblioteca di Monaco (Mon. 313 e Mon. 408) discutendone alcune varianti nella nota critica, non priva di interesse, che precede l’edizione. Come si è visto, per tutto il Settecento e poi nell’edizione del Boeckh, la storia editoriale dell’Assioco (ma anche del De virtute e dell’Erissia) ha avuto una vicenda propria rispetto a quella del corpus Platonicum.442 Con il XIX secolo la storia editoriale dell’Assioco, pur sempre riconosciuto come apocrifo, torna ad essere prevalentemente legata alla storia editoriale del corpus. L’edizione di Bekker (1816–1818), per quanto eclettica, rappresentò un netto passo avanti nella conoscenza della tradizione manoscritta del dialogo, anche grazie al fatto che nel 1823 lo stesso Bekker pubblicò in due tomi i risultati delle collazioni su cui aveva fondato la propria edizione. Nel 1826 Bekker pubblicò una nuova edizione in cui in calce al testo greco è presente un doppio apparato: un “apparato critico” che riporta le varianti che erano state stampate separatamente nel 1823, e un apparato esegetico contenente gran parte delle annotazioni dello Stephanus, di Wolf, di Fischer e di Boeckh.443

(oggi “Bibliothèque Nationale de France”), di Marc. 189 e Marc. 590 per la Marciana, Mon. 408, indicato come Augustanus, in quanto il codice si trovava nella biblioteca di Augusta fino al 1806, quando i manoscritti greci di quest’ultima confluirono nella “Bayerische Staatsbibliothek” di Monaco. Questo breve catalogo è inserito da Fischer (1785), xviii-xix n. 8 nella ristampa della praefatio all’edizione del 1766. Per ragioni di semplicità i codici noti al Fischer sono stati indicati con i sigla adottati in questo lavoro. 442 Già nei secoli precedenti l’opera aveva goduto di una fortuna autonoma per l’interesse che suscitava il suo contenuto. 443 Per le due edizioni di Bekker si è fatto riferimento ai tomi contenenti l’Assioco, ossia per la prima edizione al terzo tomo della terza parte, al nono tomo per la seconda edizione: rispettivamente, Bekker (1818) e Bekker (1826). I risultati delle collazioni si possono leggere, oltre che in Bekker (1826), nel secondo tomo di Bekker (1823). Bekker collazionò 14 manoscritti dell’Assioco: A (= A Bekker), Vat. 226 (= Θ Bekker), Marc. 184 (= Ξ Bekker), Marc. 189 (= Σ Bekker), Y (= Υ Bekker), Vind. 109 (= Φ Bekker), O (= Ω Bekker), Par.suppl. 69 (= Ψ Bekker), Par (= B Bekker), C (= C Bekker), Par. 2010 (= S Bekker), V (= V Bekker), Z (= Z Bekker), Brux (= k Bekker). Con il siglum “ς”, infine, Bekker indicava il testo dello Stephanus.

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La tradizione del testo

Essenzialmente sulla base delle collazioni del Bekker sono state fondate le edizioni di Gottfried Stallbaum (1821–1825, 1850),444 l’edizione di Georg Ast (1819–1827), quella di Baiter, Orelli e Winckelmann (1839, 1841), quella teubneriana di Karl Friedrich Hermann (1851–1853) e quella didotiana di Schneider (1856).445 Si tratta di edizioni interessanti per i contributi che offrono alla critica del testo dell’Assioco (soprattutto l’edizione zurighese del 1839 e quella teubneriana di Hermann, il quale ultimo tra l’altro ha saputo valorizzare senza pregiudizi la testimonianza dello Stobeo). Per la stessa ragione occorre tenere conto dell’edizione annotata dell’Assioco realizzata per il ginnasio tedesco da Konstantin Matthiae (1835) e della traduzione annotata di George Burges (1854). Nel 1896 Otto Immisch pubblicò la prima edizione critica dell’Assioco fondata su una vera e propria recensio. Tuttavia, questa recensio si basava a sua volta essenzialmente sulle collazioni del Bekker e sugli studi condotti da Martin Schanz sui codici platonici.446 La conclusione di Immisch era che Y rappresentava un ramo di tradizione indipendente da A, mentre tutti gli altri codici collazionati dal Bekker non dovevano essere considerati per la constitutio textus in quanto descripti o gravemente interpolati e contaminati. Solo occasionalmente si poteva recuperare da questi codici una buona lezione con ogni probabilità introdotta per congettura o per contaminazione. Di conseguenza, l’apparato di Immisch registra sistematicamente le lezioni di A e di Y, mentre indica con il generico siglum “h” le lezioni dei «codices deteriores contaminati interpolati, sive nonnulli sive singuli».447 Oggi queste conclusioni, fondate su una conoscenza parziale sia della tradizione manoscritta nel suo complesso sia dei singoli testimoni, non sono più accettabili.

444 Diversamente dal caso di altri dialoghi del corpus Platonicum (e.g. per il Liside cf. Martinelli Tempesta (2003), 99) non sembra che per l’Assioco Stallbaum abbia recuperato lezioni da manoscritti non noti a Bekker. 445 Come nel caso di Bekker per le edizioni in più tomi si è fatto riferimento al tomo contenente l’Assioco, ovvero l’ottavo tomo della prima edizione di Stallbaum, il nono dell’edizione di Ast e il sesto dell’edizione di Hermann: rispettivamente Stallbaum (1825), Ast (1827) e Hermann (1853). Per quanto riguarda l’edizione di Hermann si è fatto riferimento alla data della praefatio (“3 marzo 1853”). Il frontespizio dell’edizione che ho consultato è datato invece al 1858. Per quanto riguarda l’edizione didotiana, Schneider curò esclusivamente il secondo tomo, contenente l’Assioco, mentre il primo fu curato da Rudolf B. Hirschig. 446 Si tratta di Schanz (1876a), Schanz (1876b), Schanz (1877) e Schanz (1879). Immisch, inoltre, adoperò le collazioni di Brux effettuate da Parmentier (1894) e quelle di Zitt effettuate per suo conto da R. Kunze (cf. Immisch (1896), 82). 447 Immisch (1896), 86. Con il siglum “H” invece Immisch indica il codicum consensus.

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11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum

Nondimeno, la recensio di Immisch è rimasta il punto di partenza per le due edizioni dell’Assioco attualmente di riferimento, quella di John Burnet contenuta nell’ultimo tomo dell’edizione oxoniense dei Platonis Opera Omnia (1907, 19132), e quella contenuta nell’edizione dei Dialogues Apocryphes del corpus platonico realizzata da Joseph Souilhé per la collezione “Budé” (1930). Burnet ha costituito il suo testo essenzialmente sulla base di A, O (per la breve parte conservata), Y e Z (in rappresentanza della parte non conservata di O). Per parte sua Souilhé si è limitato ad aggiungere ai testimoni considerati da Burnet il contributo di R (da lui siglato V) e di L (entrambi ignorati da Bekker e da Immisch).

11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum Giova ricapitolare le conclusioni di questo studio: 1) il vetustissimus codice A è il capostipite della prima famiglia della tradizione dell’Assioco; 2) Vv potrebbero rappresentare (per quanto non con assoluta certezza) una seconda famiglia indipendente da A (a Vv si aggiunge Y laddove presenta per contaminazione delle varianti riconducibili alla famiglia di Vv); 3) laddove presentano delle varianti superiori o adiafore rispetto ad A, JRW verosimilmente conservano la testimonianza, originariamente riportata sui margini di O, di una fonte perduta indipendente dalle fonti conservate (A3 verosimilmente attingeva alla stessa fonte); 4) laddove presenta delle varianti superiori o adiafore rispetto ad A, Par verosimilmente conserva la testimonianza di una fonte perduta indipendente dalle fonti conservate, molto prossima, se non identica, a quella da cui O3 ha tratto le lezioni marginali di O (e A3 le lezioni marginali di A). La contaminazione ha operato anche ai livelli più alti dello stemma. Ci sono casi in cui A, JRW e Par concordano contro Vv.448 Ci sono casi in cui A, Vv e Par concordano contro JRW.449 Casi in cui Vv, JRW e Par concorda-

448 Cf. 364b3 καιρὸς Vv : ὁ καιρὸς A JRW Par, 365a4 τε Vv : δὲ A JRW Par, 365b4 κοινὸν Vv Stob. : καινὸν A JRW Par, 365b8 ἐστίν Vv : ἔχειν A Par : ἔχει JRW, 365c1 ἀληθῆ ταῦτα Vv : ταῦτα A JRW Par, 365c6 ἄπυστος Vv : ἄγευστος A JRW Par, 365d6 μεταβαλῶν Vv : μεταβάλλων A JRW Par, 365d7 τῇ Vv : om. A JRW Par, 369c6 μετὰ Vv : περὶ A JRW Par, 370a1 τὸν Vv : τὸ A JRW Par, 370c7 μεταβαλεῖς Vv : μεταβάλλεις A JRW Par, 371a6 μετὰ Vv Stob. : κατὰ A JRW Par. Nella maggior parte di questi casi la lezione corretta poteva essere ripristinata per congettura (cf. anche supra pp. 98-99). 449 Cf. 364d1 Ἰτωνίαις JRW : Ἰτωνυμίαις A Vv Par, 367c4 γενέσθαι A3? JRW Parmarg : ἔσεσθαι A Vv Par.

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La tradizione del testo

no contro A.450 Casi in cui A e Par concordano contro Vv e JRW.451 Due casi in cui A e JRW concordano contro Vv e Par.452 Un caso in cui A e Par concordano contro Vv JRW e lo Stobeo.453 Un caso in cui JRW concordano contro A, Vv e Par.454 Casi in cui Vv e lo Stobeo concordano contro il resto della tradizione.455 Tendenzialmente c’è una maggiore vicinanza di Vv, JRW e Par contro A che non altre combinazioni. Ciò non toglie che l’intrico di queste convergenze è il sintomo di un disordine in cui filoni tradizionali distinti si sono intrecciati. Testimoni perduti sono stati contaminati tra loro prima della formazione della tradizione medievale, cosa che ci permette di vedere solo gli effetti di questo fenomeno. Nondimeno, credo che si possano definire meglio i contorni di questo disordine. Post osservava: «I have come to the conclusion that V represents a tradition distinct from Stobaeus and A».456 Ma questa affermazione è vera solo per ciò che riguarda la tradizione medievale. Non è vera, invece, se si considera la testimonianza dello Stobeo. Infatti, come già aveva notato Otto Immisch,457 la testimonianza dello Stobeo permette di individuare e sanare una serie di errori comuni a tutta la tradizione medievale.458 La tradizione medievale è dunque unitaria e risale verosimilmente ad un’edizione

450 Cf. 365c2 παρ’ αὐτὸ Vv JRW Par : παρὰ ταὐτὸ A, 366b5 ἔτυμα Vv JRW Par : ἕτοιμα A, 367c1 οὓς ἂν Vv JRW Par : καὶ ante οὓς add. A, 367d8 ὀϊζυρώτερον Vv JRW Par : ὀϊζυρότερον A, 369a7 ἰόντες Vv JRW Par : ὄντες A, 369d1 σὺ μὲν ἐκ τῆς Vv JRW Par (σὺ μὲν ὦ Σώκρατες ἐκ τῆς Vv) : ἐκ μὲν τῆς A, 369d2 εἴρηκας Vv JRW Par : προείρηκας A, 370d5 καὶ φιλοσοφῶν Vv JRW Par : καὶ om. Α, 371a6 Ἑκάεργος Vv JRW Par : Ἑκάεργε Α, 371c9 ἐαριζόμενοι Vv JRW Par : ἐαριζομένοις A. Naturalmente in tutti questi casi si può avere il sospetto che la coincidenza in lezione corretta sia dovuta a congetture poligenetiche o a contaminazione. Tuttavia, in certi casi gli errori di A sono minuti e non immediatamente palesi, ragion per cui l’eventualità di congetture poligenetiche o di una contaminazione che abbia completamente oscurato questi errori nel resto della tradizione pare abbastanza strana (e.g. 369d1 σὺ μὲν ἐκ τῆς Vv JRW Par (σὺ μὲν ὦ Σώκρατες ἐκ τῆς Vv) : ἐκ μὲν τῆς A, 370d5 καὶ φιλοσοφῶν Vv JRW Par : καὶ om. Α. 451 Cf. 365e1 ἦν Vv JRW : ᾖ A Par, 370d4 ἄγονος Vv JRW : ἄπονος A Par, 369a9 ἐκ σύγκλυδος Vv JRW : ἐκ συγκλύδωνος A Par. 452 Cf. 369d5 γὰρ Vv Par : δὲ A JRW, 372a11 με Vv Par : μὴν A JRW. 453 Cf. 367a2 χρόνος Vv JRW Stob. : πόνος A Par. 454 Cf. 372a11 oὗτος ὁ λόγος A Vv Par : ὁ σὸς λόγος JRW. 455 Cf. supra p. 97 e n. 232. 456 Cf. Post (1934), 62. 457 Cf. Immisch (1896), 83: «Die Gemeinsamkeit des Ursprunges aller unserer Handschriften wird auch hier (durch die Lückengemeinschaft) bestätigt». 458 Cf. e.g. 366e1 ἐπέστησαν Stob. : om. A Vv, 366e4 κοσμητὴς Stob. : om. A Vv, 367c5 οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας Stob. : οἵ τε τῆς Ἀργείας Ἥρας ἱερεῖς A Vv, 367d1

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11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum

tardo-antica. Per tentare di spiegare le differenze interne a questa tradizione unitaria si può pensare che nella tarda antichità si sia affermato un testo dell’Assioco da cui ha avuto indirettamente origine tutta la tradizione medievale, ma che nel corso del tempo ha subito modifiche accogliendo l’apporto di varianti provenienti da altre tradizioni antiche e tardo-antiche (cosa che permette di spiegare le convergenze occasionali con lo Stobeo) e di varianti prodottesi nel corso del processo di copia successivo alla fissazione del testo unitario da cui la tradizione medievale tutta discende. È difficile dire se questo disordine si sia prodotto per contaminazione generale pretradizionale o per effetto di un archetipo con varianti.459 In ogni caso, il fenomeno sembra accostabile al processo a suo tempo immaginato da Antonio Carlini per il primo tomo del corpus platonico (ma il discorso si potrebbe forse estendere a tutto il secondo tomo del corpus).460 Esistono tuttavia degli errori comuni allo Stobeo e alla tradizione medievale sanabili solo per emendatio. Ciò fa pensare all’esistenza di un testo comune alla tradizione medievale e allo Stobeo già sfigurato da errori che

στόμασι Stob. : ποιήμασιν Α Vv, 371a4 ἄσυλον Stob. : om. A Vv. Gli errori della tradizione medievale che lo Stobeo permette di individuare con sicurezza mettono anche di fronte al fatto che la tradizione medievale non può essere trattata con sconfinata fiducia, soprattutto laddove lo Stobeo viene meno. 459 Con ciò non si intende necessariamente un archetipo con varianti “rigido”, cioè una sorta di edizione tardo-antica dell’Assioco corredata fin dalla sua origine di variae lectiones (scetticismo circa l’esistenza di questo tipo di libri nella tarda antichità è stato espresso da Cavallo (2002), 173). Si pensa piuttosto ad un “fluid archetype” (l’espressione è di Reynolds (1965), 56; per il fenomeno cf. anche Irigoin (1957), 213–214 e Timpanaro (20033), 146). Si ricorda che Waszink (1975), 15 ha suggerito di impiegare il termine “paleotipo” al posto di quello più impegnativo di “archetipo”. 460 Cf. Carlini (1972), 134–135: «È naturale figurarsi così il processo: l’esemplare della Biblioteca [scil. di Costantinopoli], per il suo carattere ufficiale, per il riconoscimento che riceve dai docenti dell’Università, diventa subito modello di molte trascrizioni; questi apografi, utilizzati nelle lezioni universitarie, figliano continuamente. I testi che stanno nelle mani di studiosi sono testi che modificano senza posa il loro aspetto: se emergono esemplari nuovi, continuatori di diverse tradizioni, con varianti interessanti, queste varianti vengono registrate nel margine a seguito di una totale o parziale collazione. Così procedevano i dotti di Ossirinco nel II-III sec. d.C.; così è lecito supporre che procedessero anche i dotti dell’Università di Bisanzio. In questo modo si può agevolmente spiegare che un testo unico nel fondo (quello della Biblioteca imperiale più volte trascritto) si sia poi ramificato variamente ricevendo l’apporto considerevole di altre tradizioni». Questo quadro rimane nel complesso valido (cf. però le puntualizzazioni di Martinelli Tempesta (1997), 276–277).

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La tradizione del testo

non possono risalire all’originale.461 Del tutto ipoteticamente si potrebbe pensare di collocare questo “archetipo” in età adrianea.462 Dato il forte grado di incertezza soprattutto nella ricostruzione delle relazioni tra i testimoni al livello più alto, il seguente stemma codicum ha più che altro la funzione di uno schema che permette di visualizzare i risultati a cui si è pervenuti nel corso di questo studio. Per evitare di complicare eccessivamente lo schema si è evitato di indicare i casi di contaminazione (sovente fortemente ipotetici) nei rami più bassi dello stemma. Lo stemma, inoltre, è limitato alla tradizione manoscritta medievale: non comprende, dunque, lo Stobeo e lo stato del testo cui è possibile arrivare attraverso il confronto tra la tradizione medievale e lo Stobeo, né le traduzioni latine e le prime edizioni a stampa.463

461 Casi emblematici sono quelli di 366a4–5 νόσους … κακότητας del. Matthiae, 367a1 γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι Beghini : γυμνασιαρχία καὶ ῥάβδοι codd. Stob. 371c9 εὐ ἄνθεσι Beghini : εὐάνθεσι Stob. : ἄνθεσι codd. Su questi casi cf. il commento ad locc. 462 Per tracce di edizioni platoniche in età adrianea cf. Luzzatto (1993), 196 e Lucarini (2011), 360–361. Per copie di Platone del II secolo d.C. (non vere e proprie edizioni) cf. inoltre Dorandi (2010b), 166–167 e Dorandi (2014), 11–16. 463 Per facilitare la lettura dello stemma si presenta qui di seguito una legenda dei sigla ivi impiegati: A = Parisinus gr. 1807; A3 = correttore di A del X secolo, identificabile con O3; Am = Ambrosianus D 56 Sup.; Ang = Angelicus gr. 107; Brux = Bruxellensis 11360–11363; C = Parisinus gr. 1809; Dalb = Dalburgianus, codice ritenuto perduto, forse da identificare con il Parisinus suppl. gr. 69; Esc = Escorialensis Ψ.I.1; F = Vindobonensis suppl. gr. 39; J = Vaticanus gr. 1031; K = Marcianus gr. 188, ha perduto l’Assioco; L = Laurentianus plut. 80.17; Laur. 28.29 = Laurentianus plut. 28.29; Laur. 59.1 = Laurentianus plut. 59.1; Laur. 85.9 = Laurentianus plut. 85.9; Laur. c. s. 78 = Laurentianus conv. soppr. 78; Mal = Malatestianus D.XXVIII.4; Marc. 184 = Marcianus gr. 184; Marc. 186 = Marcianus gr. 186; Marc. 189 = Marcianus gr. 189; Marc. 590 = Marcianus gr. 590; Mon. 313 = Monacensis gr. 313; Mon. 408 = Monacensis gr. 408; O = Vaticanus gr. 1; O3 = correttore di O del X secolo, identificabile con A3; Par = Parisinus gr. 1808; Par. 2010 = Parisinus gr. 2010; Par.suppl. 69 = Parisinus suppl. gr. 69; R = Vaticanus gr. 1029; T = Marcianus graecus Append. Class. IV.1, ha perduto l’Assioco e gli altri Spuria che in origine probabilmente conteneva (cf. supra pp. 109-110); Urb. 32 = Urbinas gr. 32; Urb. 80 = Urbinas gr. 80; v = Laurentianus plut. 11.13; V = Parisinus gr. 2110; Vat. 2236 = Vaticanus gr. 2236; Vat. 226 = Vaticanus gr. 226; Vind. 109 = Vindobonensis phil. gr. 109; Voss. = Leidensis Voss. gr. Q. 54; W = Vindobonensis suppl. gr. 20; Y = Vindobonensis phil. gr. 21; Z = Parisinus gr. 3009; Zitt = Zittaviensis gr. A 2; β = codice perduto, fonte delle correzioni di A3 e O3, forse fonte di contaminazione su T (cf. supra pp. 94, 100 e 110); ζ = copia perduta di ψ (cf. supra p. 114 n. 296); ο = probabile copia perduta di O (cf. supra p. 105); υ = copia perduta di Y (cf. supra p. 128 n. 339); φ = codice perduto in minuscola da cui deriva il ramo di tradizione di Vv, probabilmente indipendente dal resto della tradizione (cf. supra

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11. L’origine unitaria della tradizione medievale e lo stemma codicum

p. 98); χ = codice perduto, modello comune di Vv (cf. supra p. 96); ψ = copia perduta di K (cf. supra p. 114 n. 296); ω = archetipo della tradizione medievale (sul senso in cui si usa il termine archetipo cf. supra p. 155 e n. 459).

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Criteri editoriali ed ortografici

Il testo greco di questa edizione è fondato sulla testimonianza di A e su quella di Vv. Di questi testimoni sono state riportate tutte le varianti, tranne le varianti ortografiche (su cui cf. meglio infra) e molte delle innovazioni singolari di V o di v (soprattutto v è copia estremamente scorretta). Le varianti di Par e di JRW sono state riportate quando divergono dal testo di A o quando su A sono presenti più lezioni di mani diverse. Le lezioni di Y sono state riportate prevalentemente quando concordano con Vv. La testimonianza di codici appartenenti ai rami inferiori dello stemma è stata segnalata solo quando conserva una lezione interessante (ottenuta verosimilmente per congettura o per contaminazione) non testimoniata dal resto della tradizione. La tradizione indiretta è stata sistematicamente utilizzata sullo stesso piano della tradizione diretta, soprattutto lo Stobeo che conserva circa metà del dialogo e che rappresenta un filone tradizionale diverso da quello che ci è pervenuto per via diretta. Delle congetture di studiosi moderni sono state menzionate in apparato soltanto quelle accolte a testo o quelle maggiormente degne di considerazione, almeno dal punto di vista diagnostico. Queste congetture sono dettagliatamente discusse nel commento, dove si fa menzione anche di altre proposte che non si è ritenuto di riportare in apparato. Se si ammette, come credo sia necessario fare, che l’Assioco è un’opera incompiuta,464 come si deve comportare il critico del testo? È evidente, infatti, che alcuni apparenti problemi testuali non saranno dovuti a guasti di tradizione, ma al carattere incompiuto dell’opera. Benché si tratti di un problema oggettivo, occorre sgombrare immediatamente il campo dalla tentazione di dire che il critico del testo dovrà trattenersi dal correggere per emendatio: è evidente, infatti, dal confronto con lo Stobeo che la tradizione medievale nella sua interezza è affetta da errori. Lo stesso testo comune allo Stobeo e alla tradizione medievale sembra presentare dei guasti.465 Errori di tradizione, dunque, è sempre legittimo postularli. Il critico dovrà semplicemente tenere in conto anche la possibilità che un errore possa già essere stato nell’originale in ragione del carattere incompiuto dell’opera, ma questa valutazione dovrà essere fatta di volta in volta. È difficile traccia-

464 Cf. supra pp. 42-48. 465 Cf. supra pp. 155-156.

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Criteri editoriali ed ortografici

re dei criteri assoluti per distinguere errori di tradizione da fenomeni dovuti all’incompiutezza dell’opera, tuttavia, tendenzialmente si può dire che il critico dovrà usare la massima cautela nell’operare interventi di carattere “stilistico”, anche laddove il testo appaia estremamente brutto (ma non impossibile grammaticalmente), mentre potrà intervenire con mano sicura laddove il testo non dà un senso ammissibile o la grammatica è palesemente offesa.466 L’uso delle lettere maiuscole è stato limitato alla prima lettera di ogni battuta di un personaggio e alle iniziali dei nomi propri. Non sono state utilizzate le iniziali dei nomi dei personaggi per segnalare i cambi di battuta: questo espediente redazionale non fa parte della paradosi e non risulta indispensabile in un testo come l’Assioco in cui non è presente un fitto scambio dialogico (oltretutto i cambi di battuta sono per lo più marcati dall’uso del vocativo dei personaggi). Delle modifiche alla punteggiatura rispetto alle precedenti edizioni non si è dato conto.467 Nell’impaginazione del testo sono stati rispettati i righi di Burnet (19132).468 Per quanto riguarda l’ortografia di un dialogo breve della tarda età ellenistica e di autore ignoto, che per di più cerca di imitare un altro autore (Platone), fermo restando che l’autore scrive in un attico influenzato dalla κοινή, è impresa disperata cercare di risalire all’ortografia originale, né la tradizione medievale offre alcuna garanzia in tal senso.469 Si rende conto in questa sede di alcune delle particolarità ortografiche dei testimoni primari e delle soluzioni adottate nell’edizione:470 1) desinenza del medio della seconda persona singolare: A e Vv concordano in 365d2 (ὀδύρῃ), 366b5 (οἴει), 369c3 (ἔσῃ), 370a9 (οἴει), 371a1 (βούλει). Negli altri casi ci sono delle oscillazioni: in origine A aveva sempre -ει, corretto sistematicamente in -ῃ da A4, che è anche la forma che si trova in Vv (365b2 ἐπιλογιεῖ Aut vid : ἐπιλογιῇ A4ras Vv, 365c1 φαίνει Aut vid : φαίνῃ A4ras Vv, 370d2 ἀφίξει Aut vid : ἀφίξῃ A4ras Vv,

466 Per problemi di tecnica editoriale per certi aspetti simili a questi cf. Dorandi (2010a), 273–301. 467 Solo un caso particolarmente rilevante per la comprensione del senso del testo è stato discusso nel commento (368c1–2). 468 Le sole divergenze si trovano in 371c9, dove l’integrazione εὐ ha comportato la divisione del termine φιλοσόφων tra c9 e il rigo successivo, e in 371e6–8, dove la preferenza per il testo della tradizione medievale contro quello dello Stobeo ha comportato, onde evitare difformità eccessive nella lunghezza dei righi, una distribuzione delle parole diversa da quella di Burnet (19132). 469 Cf. Wilamowitz (19202), II 338–339 e Carlini (1972), 65 n. 87. 470 Per le forme πολυγήρως (367b6) e νεώ (367c8) si rimanda invece al commento ad locc.

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Criteri editoriali ed ortografici

2)

3)

4) 5)

6)

7)

372a14 παρέσει Aut vid : παρέσῃ A4ras Vv). Per la dottrina grammaticale antica e medievale la forma attica è -ει, mentre -ῃ è la forma della κοινή, con l’eccezione delle forme βούλει, οἴει, ὄψει (cf. Arnott (2001), 36 e nn. 4 e 5). Nelle iscrizioni attiche si osserva una crescente sostituzione di -ει a -ῃ in tutte le posizioni dopo il 375 a.C.; -ει è dominante tra il 350 e il 250 a.C.; -ῃ ricompare in età imperiale (cf. Threatte (1980– 1996), I 354–358 e 368–383 e Threatte (1980–1996), II 451–452). Nei papiri documentari di età tolemaica -ει è la desinenza più comune durante il III secolo a.C. (cf. Mayser (1926–1938), I.2 90–91), mentre le due desinenze sono distribuite in modo più equilibrato tra la metà del II e la fine del I secolo a.C., dove, in ogni caso βούλει, οἴει e ὄψει restano le forme più diffuse (cf. Arnott (2001), 37). Questa tendenza sembra confermata anche dai papiri di Ercolano (cf. Crönert (1903), 36–37). Si è stampato sempre -ῃ, tranne nei casi di οἴει e di βούλει (così anche Burnet (19132) e Souilhé (1930); cf. inoltre Martinelli Tempesta (2003), 113). αἰεί/ἀεί: nelle due occorrenze dell’avverbio (364b4 e 368c2) A presenta αἰεί, Vv ἀεί. Secondo Threatte (1980–1996), I 275 «αἰεί is unusual after the early part of the fourth century, and it is no more frequent than ἀεί even in the second half of the fifth century». Si è stampato sempre ἀεί (così anche Burnet (19132) e Souilhé (1930); cf. inoltre Martinelli Tempesta (2003), 114). ἐς/εἰς: la tradizione presenta concordemente εἰς 23 volte, ἐς 4 volte (364a1, 364c2, 372a15 bis). La forma consueta in attico a partire dal IV secolo sembra esse εἰς (cf. LSJ s.v. εἰς). Si è conservata l’oscillazione della tradizione medievale: così anche Burnet (19132) e Souilhé (1930). γ’ οὖν/γοῦν: A scrive sempre γ’ οὖν, mentre Vv hanno γοῦν (tra le due forme non ci sono differenze significative: cf. Denniston (19542), 448 n. 1). Si è stampato sempre γοῦν con Burnet (19132) e Souilhé (1930). A, V e lo Stobeo presentano le forme del verbo θρυλέω (364b4, 365b4) con la liquida scempia (θρυλουμένην, θρυλούμενον); i discendenti di O e v hanno la geminata (θρυλλουμένην, θρυλλούμενον). Si è stampata la prima forma come hanno fatto Burnet (19132) e Souilhé (1930). Cf. inoltre LSJ s.v. θρυλέω A 364a2 (Ἰλισόν) Vv presentano la geminata (Ἰλισσόν). Verosimilmente A aveva scritto qualcosa come Εἰλισόν, corretto da A2 in Ἰλισσόν. Si è stampato Ἰλισόν (cf. Threatte (1980–1996), I 523; ma cf. già Boeckh (1810), xxxv-xxxvi). A 364a4 A scrive Καλλιρόην, Vv Καλλιρρόην. Si è stampata la forma con la geminata (cf. anche Burnet (19132) e Souilhé (1930); cf. inoltre Schwyzer I 310).

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Criteri editoriali ed ortografici

8) A 364a6 i codici hanno ἑταιρείας. A2 corregge in ἑταιρίας. Si è stampato ἑταιρείας (così anche Burnet (19132) e Souilhé (1930); cf. inoltre Threatte (1980–1996), I 205–206). 9) A 364c1 A e Vv hanno πράως; la forma con lo iota sottoscritto (πρᾴως) è presente solo su Par. Si è stampata quest’ultima come già hanno fatto Burnet (19132) e Souilhé (1930). Cf. inoltre Martinelli Tempesta (2003), 114. 10) Α 365b6 si è stampato μονονουχί secondo l’accentazione dei manoscritti, anziché μόνον οὐχί come fanno Burnet (19132) e Souilhé (1930). Almeno per la dottrina grammaticale di età imperiale μονονουχί era un’unica parola (cf. e.g. Hdn. Epim. p. 257 Boissonade, τὰ εἰς χει διὰ διφθόγγου γράφονται· οἷον ἀμυχεί, ἀψυχεί. πλὴν τοῦ μονονουχί, οὐχί: se μονονουχί fosse stato inteso come due parole distinte, sarebbe stato sufficiente fare il solo esempio di οὐχί). 11) A 366c2 A e Vv hanno δυοῖν, mentre i discendenti di O (JRW) hanno δυεῖν. Sembra che δυεῖν si affermi a partire dall’età ellenistica (cfr. LSJ s.v. δύο e Schwyzer I 589), ma che sia utilizzato prevalentemente con il genitivo plurale (cfr. Rhodes (1981), 510). Si è stampato δυοῖν con Burnet (19132) e Souilhé (1930), cf. anche Wilamowitz (1895), 985 n. 1. 12) A 366c4 (διαπαντός) A aveva probabilmente scritto διὰ παντός, (scil. χρόνου, cf. LSJ s.v. διά A.II.1), corretto in διαπαντός da A2. Vv hanno διαπαντός. Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno stampato διὰ παντός. Tuttavia, almeno la dottrina grammaticale di età imperiale sembra aver inteso questa espressione avverbiale come un termine unico (cf. e.g. Hdn. Epim. p. 261 Boissonade, τὰ εἰς ως λήγοντα ἐπιρρήματα διὰ τοῦ ω μεγάλου γράφονται … πλὴν τοῦ πάρος … διαταχέος, καὶ διαπαντός). Si è stampato διαπαντός. 13) A 367a1, dove la tradizione medievale ha Ἀκαδημία, si è stampato Ἀκαδήμεια (cf. Threatte (1980–1996), I 128 e Martinelli Tempesta (2003), 232). 14) Α 367c5 Bessarione ha integrato υἱεῖς (cf. supra p. 129 e nn. 344 e 345, e il commento ad loc.). Si è stampata la forma ὑεῖς (cf. LSJ s.v. υἱός e Martinelli Tempesta (2003), 113). 15) A 368b3 e 368b7 si è stampata la forma riflessiva αὑτός della tradizione medievale, non la forma ἑαυτός dello Stobeo. Così anche Burnet (19132) e Souilhé (1930). 16) Α 370d1 si è stampata la forma μεμειγμένας contro il μεμιγμένας dei codici: così hanno fatto anche Burnet (19132) e Souilhé (1930); cf. inoltre Threatte (1980-1996), II 623-624. 17) A 371e4 A2 e Vv hanno ἠλάθη, mentre lo Stobeo ha la forma più recente ἠλάσθη (cf. LSJ s.v ἐλαύνω). Quest’ultima verosimilmente era anche

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Criteri editoriali ed ortografici

la lezione di A (A2 ha eraso una lettera tra α e θ). Si è stampato ἠλάθη con Burnet (19132) e Souilhé (1930). 18) A 371e5 A Vv e lo Stobeo hanno Ἐρινύων, mentre i disendenti di O (JRW) hanno la forma con la geminata (Ἐριννύων). Si è stampato Ἐρινύων con Burnet (19132) e Souilhé (1930). Cf. anche LSJ s.v. Ἐρινύς.

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Conspectus siglorum

Codices potiores A

Parisinus gr. 1807 (saec. IX, post med.)

A2

manus paulo posterior (fort. eadem ac A)

A3

manus saec. X

A4

manus incertae aetatis (post X saec. ut videtur)

A5

manus Constantini (saec. Xex.-XΙin.)

V

Parisinus gr. 2110 (saec. XIV)

v

Laurentianus plut. 11.13 (saec. XIV)

Codices qui saepe laudantur O

Vaticanus gr. 1 (saec. IXex.- Xin.)

J

Vaticanus gr. 1031 (saec. XIV)

R

Vaticanus gr. 1029 (saec. XIV)

W

Vindobonensis suppl. gr. 20 (saec. XV)

Par

Parisinus gr. 1808 (saec. XI-XII)

Y

Vindobonensis phil. gr. 21 (saec. XIV)

Codices qui raro laudantur C

Parisinus gr. 1809 (saec. XIV)

L

Laurentianus plut. 80.17 (saec. XIV)

Mal

Malatestianus D.XXVIII.4 (saec. XIV)

Marc. 184

Marcianus gr. 184 (saec. XV)

Marc. 186

Marcianus gr. 186 (saec. XV)

Urb. 80

Urbinas gr. 80 (saec. XIV)

Vind. 109

Vindobonensis phil. gr. 109 (saec. XIV)

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Conspectus siglorum

Codices Stobaeani qui in apparatu laudantur F

Neapolitanus gr. III D 15 (saec. XIV)

P

Parisinus gr. 2129 (saec. XVIin.)

S

Vindobonensis phil. gr. 67 (saec. X)

M

Escorialensis Σ II 14 (saec. XII)

A

Parisinus gr. 1984 (saec. XIII)

Tr

codices Trincavelliani

Editiones translationesque antiquae quae in apparatu laudantur Agricola

Rodolphi Agricolae versio Latina inter a. 1475 et a. 1479 facta (a. 1480 primum edita).

Aldina

Editio princeps Aldina, Venetiis 1513.

Cassarinus

Antonii Cassarini versio Latina ante a. 1447 facta (legitur ap. Belli (1954), 461–467).

Cincius

Cincii de Rusticis Romani versio Latina circiter aa. 1436/7 facta (legitur ap. Belli (1954), 456–461).

Ficinus

Marsilii Ficini versio Latina a. 1464 facta (a. 1497 primum edita).

Rinucius

Rinucii Aretini versio Latina inter a. 1426 et a. 1431 facta (legitur ap. Belli (1954), 449–456).

Stephanus

Henrici Stephani editio, Genevae 1578.

Viri docti qui in apparatu nominatim laudantur Acri

F. Acri ap. C. Carena (ed.), Platone. Dialoghi, Torino 19822 (reimpressio versionis in linguam Italicam a. 1889 primum editae).

Ast

F. Ast (ed.), Platonis quae extant opera, IX, Lipsiae 1827.

Baiter

J.G. Baiter ap. J.G. Baiter, J.C. Orelli, A.W. Winckelmann (ed.), Platonis opera quae feruntur omnia, Turici 1839.

Beghini

emendationes et coniecturae huius voluminis auctoris nunc primum aut iterum editae.

Bekker

I. Bekker, Platonis dialogi Graece et Latine, III.3, Berolini 1818.

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Conspectus siglorum

Bessarion

emendatio quam Bessarion sua manu in margine codd. Marc. 186 et Marc. 184 scripsit.

Brinkmann

A. Brinkmann, Beiträge zur Kritik und Erklärung des Dialogs Axiochos, «Rheinisches Museum» 51 (1896), 441–455.

Buresch

K. Buresch, Consolationum a Graecis Romanisque scriptarum historia critica, «Leipziger Studien zur klassischen Philologie» 9 (1886), 1–169.

Burges

G. Burges (ed.), The Works of Plato. A New Literary Version, VI, London 1854.

Burnet

J. Burnet (ed.), Platonis Opera Omnia, V.2, Oxonii 19132 (1907).

Couvreur

P. Couvreur, censura de Immisch (1896), «Revue critique d’histoire et de littérature» XLI (1896), 76–79.

Dobree

P.P. Dobree, Adversaria, I, Berolini 1874.

Fischer

J.Fr. Fischer (ed.), Aeschinis Socratici dialogi tres, Graece. Tertium edidit ad fidem codd. mss. Vindob. Medic. Augustan. […], Lipsiae 1786.

Hemsterhuis

T. Hemsterhuis ap. K. Segaar, Observationes Philologicae et Theologicae in Evangelii Lucae capita XL priora, Traiecti ad Rhenum 1766.

Hermann

K.Fr. Hermann (ed.), Platonis Opera, III, Lipsiae 1853.

Hershbell

J.P. Hershbell (ed.), Pseudo-Plato. Axiochus, Chico 1981.

Horreus

P. Horreus (ed.), ΑΙΣΧΙΝΟΥ ΤΟΥ ΣΩΚΡΑΤΙΚΟΥ ΔΙΑΛΟΓΟΙ ΤΡΕΙΣ, Leovardiae 1718.

Immisch

O. Immisch, Philologische Studien zu Plato, I, Axiochus, Leipzig 1896.

Matthiae

K. Matthiae, Axiochus, ap. K. Matthiae, Griechisches Lesebuch: für die untern Klassen eines Gymnasiums, II, Lipsiae 1835, 147–164.

Musurus

emendationes quas fort. Marcus Musurus in editione Aldina fecit.

Richards1

H. Richards, On a Greek Adverb of Space, «Classical Review» 15 (1901), 442–445.

Richards2

H. Richards, Platonica IX, «Classical Quarterly» 3 (1909), 15–19.

167 https://doi.org/10.5771/9783896658876

Conspectus siglorum

Segaar

K. Segaar, Epistola critica ad virum celeberrimum Ludov. Casp. Valckenarium, Traiecti ad Rhenum 1766.

Souilhé

J. Souilhé (ed.), Œuvres complètes, XIII. 3, Dialogues apocryphes : Du juste, de la Vertu, Démodocos, Sisyphe, Eryxias, Axiochos, Définitions, Paris 1930.

Stallbaum

G. Stallbaum (ed.), Platonis opera omnia, Lipsiae 1850.

Toup

J. Toup, Curae posteriores, sive appendicula notarum atque emendationum in Theocritum, Oxonii 1772.

Wilamowitz

U. von Wilamowitz-Moellendorff, censura de Immisch (1896), «Göttingische gelehrte Anzeigen» 157 (1895), 977– 988 (= U. von Wilamowitz-Moellendorff, Kleine Schriften, III, Berlin 1969, 149–161).

Winckelmann A.W. Winckelmann ap. J.G. Baiter, J.C. Orelli, A.W. Winckelmann (ed.), Platonis Dialogi Spurii Axiochus De iusto De virtute Demodocus Sisyphus Eryxias Clitophon Definitiones, Turici 1841. Wolf

H. Wolf ap. J.Fr. Fischer (ed.), Aeschinis Socratici dialogi tres, Graece. Tertium edidit ad fidem codd. mss. Vindob. Medic. Augustan. […], Lipsiae 1786, 221–288 (reimpressio notarum a. 1577 primum editarum).

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ΑΞΙΟΧΟΣ

Ἐξιόντι μοι ἐς Kυνόσαργες καὶ γενομένῳ κατὰ τὸν Ἰλισὸν διῇξε φωνὴ βοῶντός του “Σώκρατες, Σώκρατες”· ὡς δὲ ἐπιστραφεὶς περιεσκόπουν ὁπόθεν εἴη, Κλεινίαν ὁρῶ τὸν Ἀξιόχου θέοντα ἐπὶ Καλλιρρόην μετὰ Δάμωνος τοῦ μουσικοῦ καὶ Χαρμίδου τοῦ Γλαύκωνος· ἤστην δὲ αὐτῷ ὁ μὲν διδάσκαλος τῶν κατὰ μουσικὴν, ὁ δ’ ἐξ ἑταιρείας ἐραστὴς ἅμα καὶ ἐρώμενος. ἐδόκει οὖν μοι ἀφεμένῳ τῆς εὐθὺ ὁδοῦ ἀπαντᾶν αὐτοῖς ὅπως ῥᾷστα ὁμοῦ γενοίμεθα. δεδακρυμένος δὲ ὁ Κλεινίας “Σώκρατες” ἔφη “νῦν καιρὸς ἐνδείξασθαι τὴν ἀεὶ θρυλουμένην πρὸς σοῦ σοφίαν· ὁ γὰρ πατὴρ ἔκ τινος †ὥρας† αἰφνιδίου ἀδυνάτως ἔχει καὶ πρὸς τῷ τέλει τοῦ βίου ἐστὶν, ἀνιαρῶς τε φέρει τὴν τελευτήν, καίτοι γε τὸν πρόσθεν χρόνον διαχλευάζων τοὺς μορμολυττομένους τὸν θάνατον καὶ πρᾴως ἐπιτωθάζων. ἀφικόμενος οὖν παρηγόρησον αὐτὸν ὡς εἴωθας, ὅπως ἀστενακτὶ εἰς τὸ χρεὼν ἴῃ καί μοι σὺν τοῖς λοιποῖς ἵνα καὶ τοῦτο εὐσεβηθῇ.” “Ἀλλ’ οὐκ ἀτυχήσεις μου, ὦ Κλεινία, οὐδενὸς τῶν μετρίων, καὶ ταῦτα ἐφ’ ὅσια παρακαλῶν. ἐπειγώμεθα δ’ οὖν· εἰ γὰρ οὕτως ἔχει, ὠκύτητος δεῖ.”

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Inscr. Thrasyll. ap. Diog. Laert. III 62; 364a1 (Ἐξιόντι)-b2 (αὐτοῖς) resp. FM (p. 49, 1– 11 Bianchi); 364a1 (Κυνόσαργες) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene); 364a2 (Ἰλισὸν) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene); 364a3 (ἐπιστραφεὶς)-4 (Ἀξιόχου) Thom. Mag. Ecl. (p. 115, 7–8 Ritschl); 364a4 (Καλλιρρόην) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene); 364b7 (μορμολυττομένους) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene); 364c1 (ἐπιτωθάζων) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene), resp. FM (p. 49, 16 Bianchi) Inscr. Ἀξίοχος Thrasyll. ap. Diog. Laert. III 62 : Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου A : Πλάτωνος Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου Vv (Πλάτωνος v) | 364a1 Ἐξιόντι μοι ... καὶ γενομένῳ Vv(Y) FM : Ἐξιόντι μοι ... καὶ γενομένῳ μοι A : Ἐξιόντι μὲν ... καὶ γενομένῳ μοι con. Beghini | a2 διῇξε Opc FM : διῆξε A Vv : προσῇξε dub. Beghini | a3 ἐπιστραφεὶς Opc Vv Thom. (ἐπι O pcsl) : περιστραφεὶς A FM : στραφεὶς Y | a5 αὐτῷ Α2 V pc O Par (ῳ V pcsl) : αὐτὼ A : αὐτῶν Vv | b1 εὐθὺ] κατ’ ante εὐθὺ add. Richards1 | b2 ῥᾷστα] ὡς ante ῥᾷστα add. dub. Beghini | b3 καιρὸς Vv : ὁ ante καιρὸς add. A | b4 πρὸς] περὶ dub. Wolf, e Agricolae translatione («de te») | μοι ante πατὴρ add. Vv | b5 ὥρας] ἀρρωστίας con. Burges : ὡρακίας con. Hermann, alii alia : «graviorique … valetudine» Rinucius | c1 πρᾴως] del. Hermann | c5 δ’ om. Vv

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ΑΞΙΟΧΟΣ

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“Ὀφθέντος σου μόνον, ὦ Σώκρατες, ῥαΐσει· καὶ γὰρ ἤδη πολλάκις αὐτῷ γέγονεν συμπτώματος ἀνασφῆλαι.” Ὡς δὲ θᾶττον τὴν παρὰ τὸ τεῖχος ᾔειμεν ταῖς Ἰτωνίαις - πλησίον γὰρ ᾤκει τῶν πυλῶν, πρὸς τῇ Ἀμαζονίδι στήλῃ -, καταλαμβάνομεν αὐτὸν ἤδη μὲν συνειλεγμένον τῆς ἁφῆς καὶ τῷ σώματι ῥωμαλέον, ἀσθενῆ δὲ τὴν ψυχήν, πάνυ ἐνδεᾶ παραμυθίας, πολλάκις τε ἀναφερόμενον καὶ στεναγμοὺς ἱέντα σὺν δακρύοις καὶ κροτήσεσι χειρῶν. κατιδὼν δὲ αὐτὸν “Ἀξίοχε, τί ταῦτα;” ἔφην “ποῦ τὰ πρόσθεν αὐχήματα καὶ αἱ συνεχεῖς εὐλογίαι τῶν ἀρετῶν καὶ τὸ ἄρρητον ἐν σοὶ θάρσος; ὡς γὰρ ἀγωνιστὴς δειλός, ἐν τοῖς γυμνασίοις γενναῖος φαινόμενος, ὑπολέλοιπας ἐν τοῖς ἄθλοις; οὐκ ἐπιλογιῇ τὴν φύσιν περιεσκεμμένως, ἀνὴρ τοσόσδε τῷ χρόνῳ καὶ κατήκοος λόγων καὶ εἰ μηδὲν ἕτερον Ἀθηναῖος, ὅτι -τὸ κοινὸν δὴ τοῦτο καὶ πρὸς ἁπάντων θρυλούμενον- παρεπιδημία τίς ἐστιν ὁ βίος καὶ ὅτι δεῖ ἐπιεικῶς διαγαγόντας εὐθύμως μονονουχὶ παιανίζοντας εἰς τὸ χρεὼν ἀπιέναι; τὸ δὲ οὕτως μαλακῶς καὶ δυσαποσπάστως ἔχειν νηπίου δίκην οὐ περὶ φρονοῦσαν ἡλικίαν ἐστίν.”

365a2 (συνειλεγμένον τὰς ἁφὰς A) expl. schol. A ad loc. (p. 409 Greene); 365b3 (ὅτι)-6 (ἀπιέναι) Stob. IV 52b, 54 (V, p. 1096 Hense); 365b6 (μονονουχὶ) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene) c8 συμπτώματος] aliquid deesse videtur : σ. tempt. Beghini : σ. Burges | d1 ᾔειμεν A3 Vv : *** A | lac. post ᾔειμεν statuit Immisch : ἦμεν ταῖς Ἰτωνίαις Matthiae : ᾔειμεν ταῖς Ἰτωνίαις e.g. Beghini | Ἰτωνίαις JRW : Ἰτωνυμίαις A Vv | 365a1 πρὸς τῇ Ἀμαζονίδι στήλῃ om. Vv | a2 ἤδη μὲν συνειλεγμένον A : συνειλεγμένον μὲν ἤδη Vv | τῆς ἁφῆς Beghini («recovered from his ailements» Hershbell) : τὰς ἁφὰς codd. | a3 τῷ σώματι A : τὸ σῶμα Vv | post ψυχήν add. καὶ Wolf, Matthiae, fort. recte | a4 τε Vv : δὲ A | a5 δακρύοις] δάκρυσι Urb. 80γρsl | a7 ἄρρητον] ἄρρηκτον Stephanus, fort. recte : ἄρρατον Fischer, prob. Immisch, Burnet, Souilhé | b1 ὑπολέλοιπας] ἀπολέλοιπας C2YMal | b2 περιεσκεμμένως] περιεσκεμμένος Horreus | τῷ χρόνῳ om. Par | b4 κοινὸν Vv(Y) Stob. : καινὸν A | δὴ Stob. : δήπου codd. | πρὸς ἁπάντων Stephanus : πρὸς πάντων Stob. : πρὸς ἅπαντας codd. | b5 ὅτι om. Stob. | ἐπιεικῶς διαγαγόντας codd. : τοῦτον ἐπιδόντας Stob.SΜpcA : τοῦτό γε εἰδότας Stob.Mac | εὐθύμως om. Stob. | b8 ἐστίν Vv : ἔχειν A : ἔχει JRW

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ΑΞΙΟΧΟΣ

“Ἀληθῆ ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων, ἀλλ’ οὐκ οἶδ’ ὅπως παρ’ αὐτὸ τὸ δεινὸν γενομένῳ οἱ μὲν καρτεροὶ καὶ περιττοὶ λόγοι ὑπεκπνέουσιν λεληθότως καὶ ἀτιμάζονται, ἀντίσχει δὲ δέος τι ποικίλως περιαμύττον τὸν νοῦν εἰ στερήσομαι τοῦδε τοῦ φωτὸς καὶ τῶν ἀγαθῶν, ἀιδὴς δὲ καὶ ἄπυστος ὁποίποτε κείσομαι σηπόμενος, εἰς εὐλὰς καὶ κνώδαλα μεταβάλλων.” “Συνάπτεις γάρ, ὦ Ἀξίοχε, παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν {ἀνεπιλογίστως} τῇ ἀναισθησίᾳ αἴσθησιν καὶ σεαυτῷ ὑπεναντία καὶ ποιεῖς καὶ λέγεις, οὐκ ἐπιλογιζόμενος ὅτι ἅμα μὲν ὀδύρῃ τὴν ἀναισθησίαν, ἅμα δὲ ἀλγεῖς ἐπὶ σήψεσι καὶ στερήσει τῶν ἡδέων, ὥσπερ εἰς ἕτερον βίον ἀποθανούμενος, ἀλλ’ οὐκ εἰς παντελῆ μεταβαλὼν ἀναισθησίαν καὶ τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως. ὡς οὖν ἐπὶ τῆς Δράκοντος ἢ Κλεισθένους πολιτείας οὐδὲν περὶ σὲ κακὸν ἦν -ἀρχὴν γὰρ οὐκ ἦς περὶ ὃν ἂν ἦν – οὕτως οὐδὲ μετὰ τὴν τελευτὴν γενήσεται· σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ περὶ ὃν ἔσται. πάντα τοιγαροῦν τὸν τοιόνδε φλύαρον ἀποσκέδασαι, τοῦτο ἐννοήσας, ὅτι τῆς συγκρίσεως ἅπαξ διαλυθείσης καὶ τῆς ψυχῆς εἰς τὸν οἰκεῖον ἱδρυθείσης

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365c1 (Ἀληθῆ)-c4 (ἀτιμάζονται) resp. Cic. Tusc. I 11, 24; 365c4 (ἀντίσχει)-5 (ἀγαθῶν) resp. Cic. Tusc. II 4, 10; 365c5–6 (εὐλὰς καὶ κνώδαλα) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene); 365d1 (Συνάπτεις)-e2 (ἔσται) Planud. Συν. 221, 1–8 (p. 167 Ferroni); 365e3 (ὅτι)-366b1 (μεταβολή) Stob. IV 53, 38 (V, p. 1111 Hense) c1 Ἀληθῆ ταῦτα Vv(Y) : ταῦτα A : ἔστι ταῦτα con. Beghini | c2 λέγων A V2 (ων V2sl) : λέγειν Vv | παρ’ αὐτὸ Vv JRW Par : παρὰ ταὐτὸ A | μοι ante τὸ δεινὸν add. Vv(Y) | c4 ἀτιμάζονται codd. (ἀτιμάζο Α, ν Α2sl, ται A2marg) : ἐξατμίζονται Hemsterhuis, Segaar, fort. recte | ἀντίσχει*** A (ἀντίσχει τε Aut vid, A2ras) : ἀντιχεῖται Vv : ἀντηχεῖται Y : ἀντέστη dub. Beghini | τι Α2sl JRW Par : om. A Vv | ποικίλως] πυκνῶς dub. Beghini | περιαμύττον A : μοι ante περιαμύττον add. Vv : μὲν ante περιαμύττον add. Y | c5 βίου ante ἀγαθῶν add. Burges (melius τῶν ἀγαθῶν aut : cf. 369d3–4 et Cic. Tusc. II 4, 10, amissionem omnium vitae commodorum) | c6 ἀιδὴς Burnet : ἀειδὴς Aut vid Vv R Par : ἀηδὴς A4 JW | ἄπυστος Vv(Y) : ἄγευστος A | ὁποίποτε A : ὁπηδήποτε Vv | d2 ἀνεπιλογίστως del. Fischer (dub.), Stallbaum, Dobree (iam om. Vind. 109) | d4 σήψεσι] σήψει τε Matthiae, fort. recte | d5 βίον Beghini : ζῆν codd. | d6 μεταβαλὼν Vv (re vera μεταβαλῶν, acc. corr. Souilhé, sed iam Planud.) : μεταβάλλων A | d7 τῇ Vv(Y) : om. A | e1 ἦν Vv JRW Planud. : ᾖ A | e2 post ἔσται transponendum 369b6 (ἤκουσα)-370b1 (αἰσθήσει) putat Beghini | e3 ἀποσκέδασαι A : ἀποσκεύασαι Vv | συγκρίσεως A Stob. : συγκράσεως Vv

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τόπον, τὸ ὑπολειφθὲν σῶμα, γεῶδες ὂν καὶ ἄλογον, οὐκ ἔστιν ὁ ἄνθρωπος· ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν ψυχή, ζῷον ἀθάνατον ἐν θνητῷ καθειργμένον φρουρίῳ, τὸ δὲ σκῆνος τουτὶ πρὸς κακοῦ περιήρμοσεν ἡ φύσις, ᾧ τὰ μὲν ἥδοντα ἀμυχιαῖα καὶ πτηνὰ καὶ εἰς πλείους ὀδύνας ἀνακεκραμένα, τὰ δὲ ἀλγεινὰ ἀκραιφνῆ καὶ πολυχρόνια καὶ τῶν ἡδόντων ἄμοιρα· {νόσους δὲ καὶ φλεγμονὰς τῶν αἰσθητηρίων, ἔτι δὲ τὰς ἐντὸς κακότητας}· οἷς ἀναγκαστῶς, ἅτε παρεσπαρμένη τοῖς πόροις, ἡ ψυχὴ συναλγοῦσα τὸν οὐράνιον ποθεῖ καὶ σύμφυλον αἰθέρα καὶ διψᾷ τῆς ἐκεῖσε διαίτης καὶ χορείας ὀριγνωμένη. ὥστε ἡ τοῦ ζῆν ἀπαλλαγὴ κακοῦ τινός ἐστιν εἰς ἀγαθὸν μεταβολή.” “Κακὸν οὖν, ὦ Σώκρατες, ἡγούμενος τὸ ζῆν, πῶς ἐν αὐτῷ μένεις, καὶ ταῦτα φροντιστὴς ὢν καὶ ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ διαφέρων;” “Ἀξίοχε, σὺ δὲ οὐκ ἔτυμά μοι μαρτυρεῖς, οἴει δὲ καθάπερ Ἀθηναίων ἡ πληθύς, ἐπειδὴ ζητητικός εἰμι τῶν πραγμάτων, ἐπιστήμονά του εἶναί με· ἐγὼ δὲ εὐξαίμην ἂν τὰ κοινότατα εἰδέναι, τοσοῦτον ἀποδέω τῶν περιττῶν· καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω Προδίκου ἐστὶν τοῦ σοφοῦ ἀπηχήματα, τὰ μὲν διμοίρου ἐωνημένα, τὰ δὲ δυοῖν δραχμαῖν, τὰ δὲ

366b5-c8 Prodic. 84 B 9 DK = T 88 Mayhew (366c1–367c4 et 368a6-d4) = 34 P 6 LaksMost (366c1–5) et 34 R 5 Laks-Most (366c5–8) 365e6 (ἡμεῖς ... ψυχή) resp. Meth. Symp. 6, 4 (p. 174, 44–5 Musurillo); 365e6 (ζῷον ἀθάνατον) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene); 366a2 (ᾧ)-4 (ἄμοιρα) Planud. Συν. 222, 9–11 (p. 167 Ferroni); 366a6 (ἡ ψυχὴ)-8 (διψᾷ) resp. Method. Symp. 4, 5 (p. 138, 11 Musurillo) et Greg. Diac. Encom. S. Dem. 1 (ll. 18–19 Detoraki); 366a8 (ἡ τοῦ ζῆν)b1 (μεταβολή) resp. Greg. Diac. Encom. S. Dem. 4 (l. 73 Detoraki); 366a8 (ὀριγνωμένη) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene) e6 μὲν om. Stob. | 366a1 φρουρίῳ AVv Stob. : χωρίῳ A3γρmarg : χώρῳ Parmarg | a2 τὰ μὲν ἥδοντα Α3γρmarg Vv JRW Par Stob. : ἐνήδοντα A | ἀμυχιαῖα A Stob. (-χαῖα Stob) : μυχιαῖα Α3γρmarg Vv Par : μοιχικὰ dub. Wolf, e Ficini translatione («adulterina»), sed iam μοιχιαῖα praeb. Planud. | a3 εἰς πλείους ὀδύνας codd. : πλείοσιν ὀδύναις Stob. | a4–5 νόσους … κακότητας del. Matthiae | a7 σύμφυλον] σύμφυτον fort. Method., Greg. Diac. | a8 ἐκεῖσε codd. : ἐκεῖ Stob. | b5 ἔτυμά Vv JRW Par : ἕτοιμά A | b7 εὐξαίμην A2 Vv JRW Par (ι A2sl) : εὐξάμην Α | b8 τὰ κοινότατα Beghini («le notizie più comunali» Acri) : τὰ κοινὰ ταῦτα codd. | c1 ἐστὶν A2 (ἔστιν Aut vid) : εἰσὶ Vv

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ΑΞΙΟΧΟΣ

τετραδράχμου· προῖκα γὰρ ἁνὴρ οὗτος οὐδένα διδάσκει, διαπαντὸς δὲ ἔθος ἐστὶν αὐτῷ φωνεῖν τὸ Ἐπιχάρμειον ‘ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβοις τι ’· καὶ πρῴην γοῦν παρὰ Καλλίᾳ τῷ Ἱππονίκου ποιούμενος ἐπίδειξιν τοσάδε τοῦ ζῆν κατεῖπεν ὥστε ἔγωγε μὲν παρ’ ἀκαρῆ διέγραψα τὸν βίον καὶ ἐξ ἐκείνου θανατᾷ μου ἡ ψυχή, Ἀξίοχε.” “Τίνα δὲ ἦν τὰ λεχθέντα;” “Φράσαιμι ἄν σοι ταῦτα ἃ μνημονεύσω. ἔφη γάρ· ‘τί μέρος τῆς ἡλικίας ἄμοιρον τῶν ἀνιαρῶν; οὐ κατὰ μὲν τὴν πρώτην γένεσιν τὸ νήπιον κλαίει τοῦ ζῆν ἀπὸ λύπης ἀρχόμενον; οὐ λείπεται γοῦν οὐδεμιᾶς ἀλγηδόνος, ἀλλ’ ἢ δι’ ἔνδειαν ἢ περιψυγμὸν ἢ θάλπος ἢ πληγὴν ὀδυνᾶται, λαλῆσαι μὲν οὔπω δυνάμενον ἃ πάσχει, κλαυθμυριζόμενον δὲ καὶ ταύτην τῆς δυσαρεστήσεως μίαν ἔχον φωνήν· ὁπόταν δὲ εἰς τὴν ἑπταετίαν ἀφίκηται, πολλοὺς πόνους διαντλῆσαν, ἐπέστησαν παιδαγωγοὶ καὶ γραμματισταὶ καὶ παιδοτρίβαι τυραννοῦντες· αὐξανομένου δέ, κριτικοί, γεωμέτραι, τακτικοί, πολὺ πλῆθος δεσποτῶν· ἐπειδὰν δὲ εἰς τοὺς ἐφήβους ἐγγραφῇ, κοσμητὴς καὶ φόβος χειρῶν, ἔπειτα Λύκειον καὶ

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366c4–5 Epicharm. PCG I fr. 211 366c3 (προῖκα)-5 (τι) Planud. Συν. 223, 12–14 (p. 167 Ferroni); 366c4 (ἁ)-5 (τι) Stob. III 10, 13 (III, p. 411 Hense) + Stob. III 10, 34 (III, p. 416 Hense); 366c7 (παρ’ ἀκαρῆ) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene); 366c8 (θανατᾷ) expl. schol. A ad loc. (p. 410 Greene); 366d1 (Ἔφη γὰρ)-368d7 (στρατηγοί) Stob. IV 34, 75 (V, pp. 852–854 Hense); 366d2 (τί)-367c2 (ζῆν) Planud. Συν. 224, 1–11 (pp. 167–168 Ferroni) c3 ἁνὴρ Bekker : ἀνὴρ codd. | c4–5 τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβε***τι A : τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι A3γρmarg Vv : ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει Stob. III 10, 13 (qui haec Epicharmo dedit), δός τι καὶ λάβοις τι Stob. III 10, 34 (qui haec Prodico dedit) | c5 κα add. Hermann, alii alia | c6 γοῦν] δ’ οὖν dub. Beghini | d1 ἃ] ἃν Richards2, fort. recte | ἔφη, γάρ· τί codd. : ποῖον, ἔφη, Stob. | d2 ἄμοιρον Stob. : οὐ A2sl Vv (om. A) | d4 ἀλλ’ ἢ A Vv : ἀλλὰ Stob. | d5 lac. post δι’ ἔνδειαν stat. Immisch | περιψυγμὸν Α R Stob.SA : περὶ ψυγμὸν Vv JW Stob.M | πληγὴν] πληγὰς con. Beghini («verberum gratia» Cincius) | d7 ταύτην A2 J2 (ν A2sl J2sl) Vv RW Par Stob.SMTr : ταύτης A J Stob.A | e1 ἐπέστησαν Stob. : om. codd. | εὐθὺς ante παιδαγωγοὶ add. Vv | γραμματισταὶ A Vv Stob. : γυμνασταὶ Par Jγρmarg | e2 αὐξανομένου A : -ῳ Stob. : αὐξομένου Vv | e3 πολὺ om. Stob. | e4 κοσμητὴς Stob. : om. codd. | φόβος χειρῶν V Par : φόβος χείρων A v Stob. : ἐφήβαρχος (fort. recte) aut φρούραρχος Winckelmann | ἔπειτα Stob. : εἴη τὸ A Vv J : ἦ τὸ RW (φόβος ἦ χείρων τὸ W)

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Ἀκαδήμεια καὶ γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι καὶ κακῶν ἀμετρίαι· καὶ πᾶς ὁ τοῦ μειρακίσκου χρόνος ἐστὶν ὑπὸ σωφρονιστὰς καὶ τὴν ἐπὶ τοὺς νέους αἵρεσιν τῆς ἐξ Ἀρείου πάγου βουλῆς· ἐπειδὰν δὲ ἀπολυθῇ τούτων, φροντίδες ἄντικρυς ὑπέδυσαν καὶ διαλογισμοὶ τίνα τις τοῦ βίου ὁδὸν ἐνστήσηται, καὶ τοῖς ὕστερον χαλεποῖς ἐφάνη τὰ πρῶτα παιδιὰ καὶ νηπίων ὡς ἀληθῶς φόβητρα· στρατεῖαί τε γὰρ καὶ τραύματα καὶ συνεχεῖς ἀγῶνες, εἶτα λαθὸν ὑπεισῆλθεν τὸ γῆρας εἰς ὃ πᾶν συρρεῖ τὸ τῆς φύσεως ἐπίκηρον καὶ δυσαλθές· κἂν μή τις θᾶττον ὡς χρέος ἀποδιδῷ τὸ ζῆν, ὡς ὀβολοστάτις ἡ φύσις ἐπιστᾶσα ἐνεχυράζει τοῦ μὲν ὄψιν, τοῦ δὲ ἀκοήν, πολλάκις δὲ ἄμφω· κἂν ἐπιμείνῃ τις, παρέλυσεν, ἐλωβήσατο, παρήρθρωσεν· ἀλλ’ οἱ πολυγήρως ἀπακμάζουσιν καὶ τῷ νῷ καὶ δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται. διὰ τοῦτο καὶ οἱ θεοί, τῶν ἀνθρωπείων ἐπιστήμονες, οὓς ἂν περὶ πλείστου ποιῶνται, θᾶττον ἀπαλλάττουσι τοῦ ζῆν· Ἀγαμήδης γοῦν καὶ Τροφώνιος, οἱ δειμάμενοι τὸ Πυθοῖ τοῦ θεοῦ τέμενος, εὐξάμενοι

367b6 (οἱ … τῷ νῷ) Psell. Opusc. XVI, p. 80, 13–14 O’Meara (e Stob.?); 367b6–7 (δὶς παῖδες οἱ γέροντες) expl. schol. Par ad loc.; 367b7 (διὰ)-c2 (ζῆν) Clem. Strom. VI 2, 17 (p. 436 Stählin); 367c3 (εὐξάμενοι)-4 (γενέσθαι) Thom. Mag. Ecl. p. 70, 10–11 Ritschl 367a1 ἡ ante Ἀκαδήμεια add. Vv | γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι Beghini («exercendi principatus virgae» Cassarinus) : γυμνασιαρχία καὶ ῥάβδοι codd. Stob. : γυμνασίαρχοι καὶ ῥάβδοι Couvreur, prob. Souilhé | ἀμετρίαι A : ἀμετρία Vv Stob. | a2 χρόνος Vv JRW Stob. : πόνος A : χρόνος ἐπίπονος dub. Beghini | ἐστὶν om. Stob. | a3 τοὺς νέους A : τοῖς νέοις Vv | ἐξ Ἀρείου πάγου A2 (ἐξ A2sl) Par Stob. : Ἀρείου πάγου A JRW : ἐν Ἀρείῳ πάγῳ Vv | a4 ἄντικρυς A : αὖθις Vv | a5 τις A2 (ις A2sl) Parmarg Stob. : τὴν A Vv JRW Par | βίου codd. : ζῆν Stob. | ἐνστήσηται StobSMA : ἐνστήσεται Apc Vv StobTr : ἐνστήσονται Aut vid JR Par : ἐνστήσωνται W | a6 lac. ante τοῖς stat. Wolf (e.g. ) | τὰ πρῶτα A Stob. : μικρὰ τὰ Vv | παιδιὰ Stob. : παιδικὰ codd. | a7 ὡς om. Vv | τε Α2sl Vv JRW Par Stob. : om. A | b1 ὑπεισῆλθεν Α2 (εις Α2sl) V : ὑπῆλθεν A Stob. : ἐπεισῆλθε v | b3 ὀβολοστάτις A Stob. : ὀβολοστάτης Vv | b4 τοῦ μὲν ... τοῦ δὲ … codd. : τοῦτο μὲν ... τοῦτο δὲ … Stob. | b5 ἐπιμείνῃ codd. : ἐπιμένῃ Stob. | b5–6 παρήρθρωσεν Stob. : παρήρθρησεν A : ἐξήρθρωσεν Vpcv (ω Vpcsl) : ἐξήρθρησεν V | b6 ἀλλ’ οἱ Stob., fort. Psell. : ἄλλοι codd. | πολυγήρως codd. : πολὺ γήρως StobM : πολλοὶ γήρως StobSA : πολὺγηρως (sic) Psell. : πολυγήρῳ Toup, prob. Immisch | ἀπακμάζουσιν L Stob. Psell. : ἀκμάζουσιν A Vv JRW Par | καὶ δὶς Stob., fort. Psell. : καὶ om. codd. | b7 οἱ γέροντες] del. Matthiae, Stallbaum, fort. recte | γίγνονται codd. : κατὰ τὴν παροιμίαν Stob. | διὰ Vv Clem. Stob. Planud. : καὶ A | c1 καὶ post ἐπιστήμονες add. A : ὄντες post ἐπιστήμονες add. Vv | περὶ codd. : διὰ Stob.

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τὸ κράτιστον αὑτοῖς γενέσθαι, κατακοιμηθέντες οὐκέτ’ ἀνέστησαν· οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας ὁμοίως, εὐξαμένης αὐτοῖς τῆς μητρὸς γενέσθαι τι τῆς εὐσεβείας παρὰ τῆς Ἥρας γέρας, ἐπειδὴ τοῦ ζεύγους ὑστερήσαντος ὑποδύντες αὐτοὶ διήνεγκαν αὐτὴν εἰς τὸν νεώ, μετὰ τὴν εὐχὴν νυκτὶ μετήλλαξαν. μακρὸν ἂν εἴη διεξιέναι τὰ τῶν ποιητῶν, οἳ στόμασι θειοτέροις τὰ περὶ τὸν βίον θεσπιῳδοῦσιν, ὡς κατοδύρονται τὸ ζῆν· ἑνὸς δὲ μόνου μνησθήσομαι τοῦ ἀξιολογωτάτου λέγοντος· ‘ὣς γὰρ ἐπεκλώσαντο θεοὶ δειλοῖσι βροτοῖσιν ζώειν ἀχνυμένοις’, καὶ ‘οὐ μὲν γάρ τί ποτ’ ἐστὶν ὀϊζυρώτερον ἀνδρὸς πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἐπιπνείει τε καὶ ἕρπει’· τὸν δ’ Ἀμφιάραον τί φησί; ‘ὃν περὶ κῆρι φίλει Ζεύς τ’αἰγίοχος καὶ Ἀπόλλων παντοίην φιλότητ’ οὐδ’ ἵκετο γήραος οὐδόν’· ὁ δὲ κελεύων ‘τὸν φύντα θρηνεῖν εἰς ὅσ’ ἔρχεται κακά’ τί σοι φαίνεται; ἀλλὰ παύομαι, μή ποτε παρὰ τὴν ὑπό-

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367d5–6 Hom. Il. XXIV 525–526; 367d8-e1 Hom. Il. XVII 446–447; 368a2–3 Hom. Od. XV 245–246; 368e5 Eur. TrGF V.1 F 449, 4 (Κρεσφόντης) c4 αὑτοῖς Baiter : αὐτοῖς codd. Stob. Thom. | γενέσθαι A3?γρmarg JRW Parmarg Stob. Thom. : ἔσεσθαι A Vv Par | κατακοιμηθέντες Stob. : κοιμηθέντες codd. (κοιμη***θέντες A) | οὐκέτ’ ἀνέστησαν codd. : οὐκ ἐξανέστησαν Stob. | c5 οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας Stob. Marc. 186γρmarg Marc. 184marg : οἵ τε τῆς Ἀργείας Ἥρας ἱερεῖς codd. | ὑεῖς (υἱεῖς re vera) suppl. Bessarion ap. Marc. 186γρmarg et Marc. 184marg | ὁμοίως om. Par | c8 αὐτὴν om. Stob. (addito τὴν μητέρα ante μετὰ) | τὸν νεώ A R Stob.SM : τὸν νεών A 2 (ν A 2sl) Vv JW Stob.A : νεόν Stob.Tr | τῇ ante μετὰ add. Stephanus | d1 στόμασι Stob. : ποιήμασιν codd. | d8 γάρ Vv Stob. Hom. : om. A | ποτ’ codd. Stob. : που Hom. | 368a2 ὃν Stob. Hom. : τὸν codd. | a3 παντοίην φιλότητ’ Stob. Hom. : παντοίῃ φιλότητι codd. | a6–7 τί σοι … μιμνησκόμενος om. Stob. | a6 παύομαι A v : παύσομαι V

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σχεσιν μηκύνω καὶ ἑτέρων μιμνησκόμενος. ποίαν δέ τις ἑλόμενος ἐπιτήδευσιν ἢ τέχνην οὐ μέμψεται καὶ τοῖς παροῦσι χαλεπανεῖ; τὰς χειρωνακτικὰς ἐπέλθωμεν καὶ βαναύσους, πονουμένων ἐκ νυκτὸς εἰς νύκτα καὶ μόλις ποριζομένων τἀπιτήδεια, κατοδυρομένων τε αὑτοὺς καὶ πᾶσαν ἀγρυπνίαν ἀναπιμπλάντων ὀλοφυρμοῦ καὶ δακρύων; ἀλλὰ τὸν πλωτικὸν καταλεξώμεθα, περαιούμενον διὰ τοσῶνδε κινδύνων καὶ μήτε, ὡς ἀπεφήνατο Βίας, ἐν τοῖς τεθνηκόσιν ὄντα, μήτ’ ἐν τοῖς βιοῦσιν; ὁ γὰρ ἐπίγειος ἄνθρωπος ὡς ἀμφίβιος αὑτὸν εἰς τὸ πέλαγος ἔρριψεν ἐπὶ τῇ τύχῃ γενόμενος πᾶς· ‘ἀλλ’ ἡ γεωργία γλυκύ, δῆλον’· ἀλλ’ οὐχ ὅλον, ὥς φασιν, ἕλκος, ἀεὶ λύπης πρόφασιν εὑρισκόμενον, κλαῖον νυνὶ μὲν αὐχμόν, νυνὶ δὲ ἐπομβρίας, νυνὶ δὲ ἐπίκλυσιν, νυνὶ δὲ ἐρυσίβην, νυνὶ δὲ θάλπος ἄκαιρον ἢ κρυμόν; ἀλλ’ ἡ πολυτίμητος πολιτεία -πολλὰ γὰρ ὑπερβαίνω- διὰ πόσων ἐλαύνεται δεινῶν, τὴν μὲν χαρὰν ἔχουσα φλεγμονῆς δίκην παλλομένην καὶ σφυγματώδη, τὴν δὲ ἀπότευξιν ἀλγεινὴν καὶ θανάτων μυρίων χείρω; τίς γὰρ ἂν εὐδαιμονήσειε πρὸς ὄχλον ζῶν εἰ ποππυσθείη καὶ κροτηθείη δήμου παίγνιον, ἐκβαλλόμενον,

368b6–7 Bias 31 (I, p. 230 Mullach, qui hoc apophthegma a Basilio Caesarensi traditum haud recte censebat) 368a7 (ποίαν)-c1 (πᾶς) Planud. Συν. 224, 11–14 (p. 168 Ferroni); 368b1 (βαναύσους) expl. schol. Par ad loc. (p. 411 Greene); 368c4 (ἐρυσίβην) expl. schol. A ad loc. (p. 411 Greene); 368d3 (ποππυσθείη) expl. schol. A ad loc. (p. 411 Greene) a8 μέμψεται codd. : μέμφεται Stob. | b1 χαλεπανεῖ codd. : χαλεπαίνει Stob. | τέχνας post βαναύσους add. Stob. | b2 πονουμένων Stob. : -ους codd. | ποριζομένων A Stob. : -ους A2 (ους A2sl) Vv JRW Par | b3 κατοδυρομένων A Stob. : -ους Vv | τε codd. : δὲ Stob. | αὑτοὺς Vv Stob. (ἑαυτοὺς Stob.) : αὐτῶν A : αὑτῶν Immisch, prob. Burnet, Souilhé | b4 ἀναπιμπλάντων A : -ας Vv : πιμπλάντων Stob. | ὀλοφυρμοῦ codd. : -ῶν Stob. | τε ante καὶ add. Stob. | δακρύων codd. : φροντίδων Stob. | b6 ὡς codd. : καθῶς Stob., omisso καὶ in b5 (καί, ὡς aut , καθὼς Hense ap. Stob.) | καὶ ὁ ante Βίας add. Stob. | μήτ’ ante ἐν add. Stob. (omisso μήτε in b5) | c1 τὸ om. Stob. | γενόμενος codd. : γεγονώς Stob. | πᾶς codd. : om. Stob. | c2 οὐχ Aut vid Vv JRW Par Stob. : del. Apcras | c3 πρόφασιν εὑρισκόμενον A Stob. : εὑρισκόμενον πρόφασιν Vv | c4 ἐπομβρίας A : -αν Vv Stob. | ἐπίκλυσιν Stob. : ἐπίκαυσιν codd. | c5 κρυμόν Stob. : κρύος codd. | c7 ἔχουσα A2ras Vv JRW Par : -αν Aut vid Stob. | d1 ἀλγεινὴν codd. : ἀλγίστην Stob.MA : ἀλογίστην Stob.S | d2 εἰ] εἰ Ast : κεἰ Matthiae

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συριττόμενον, ζημιούμενον, θνῇσκον, †ἐλεούμενον†; ἐπεί τοί γε, Ἀξίοχε πολιτικέ, ποῦ τέθνηκε Μιλτιάδης; ποῦ δὲ Θεμιστοκλῆς; ποῦ δ’ Ἐφιάλτης; ποῦ δὲ πρῴην οἱ δέκα στρατηγοί, ὅτε ἐγὼ μὲν οὐκ ἐπηρόμην τὴν γνώμην; οὐ γὰρ ἐφαίνετό μοι σεμνὸν μαινομένῳ δήμῳ συνεξαμαρτεῖν· οἱ δὲ περὶ Θηραμένην καὶ Καλλίξενον τῇ ὑστεραίᾳ προέδρους ἐγκαθέτους ὑφέντες κατεχειροτόνησαν τῶν ἀνδρῶν ἄκριτον θάνατον· καίτοι γε σὺ μόνος αὐτοῖς ἤμυνες καὶ Εὐρυπτόλεμος τρισμυρίων ἐκκλησιαζόντων.” “Ἔστιν ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ἔγωγε ἐξ ἐκείνου ἅλις ἔσχον τοῦ βήματος καὶ χαλεπώτερον οὐδὲν ἐφάνη μοι πολιτείας· δῆλον δὲ τοῖς ἐν τῷ ἔργῳ γενομένοις· σὺ μὲν γὰρ οὕτω λαλεῖς ὡς ἐξ ἀπόπτου θεώμενος, ἡμεῖς δ’ ἴσμεν ἀκριβέστερον, οἱ διὰ πείρας ἰόντες· δῆμος γάρ, ὦ φίλε Σώκρατες, ἀχάριστον, ἁψίκορον, ὠμόν, βάσκανον, ἀπαίδευτον, ὡς ἂν συνηρανισμένον ἐκ συγκλύδων ὄχλου καὶ βιαίων φλυάρων· ὁ δὲ τούτῳ προσεταιριζόμενος ἀθλιώτερος μακρῷ.” “Ὁπότε οὖν, ὦ Ἀξίοχε, τὴν ἐλευθεριωτάτην ἐπι-

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368e2 (ἐγκαθέτους) expl. schol. A ad loc. (p. 411 Greene); 368e2 (κατεχειροτόνησαν) expl. schol. A ad loc. (p. 411 Greene); 369a9 (συγκλύδωνος A) expl. schol. A ad loc. (p. 412 Greene) d4 ἐλεούμενον codd. : om. Stob. : ἐξελαυνόμενον tempt. Beghini : ἐξοστρακιζόμενον Winckelmann | d5 γε om. Stob. | Ἀξίοχε πολιτικὲ codd. : ἀξιοπολιτικὲ Stob. | τυγχάνει ante Θεμιστοκλῆς Stob.A | δὲ Vv JRW Par Stob. : δαὶ A | d5–6 ποῦ … ποῦ … ποῦ … ποῦ … codd. : οὐ (ποῦ Stob.A2sl) … ποῖ … ποῖ … ποῖ … Stob. | d6–7 δὲ πρώην οἱ δέκα στρατηγοί Stob. : δ’ οἱ πρώην στρατηγοί codd. | d7 ἐπηρόμην Α Vv JRW Par : ἐπῃρόμην A2 | d8 μαινομένῳ δήμῳ codd. : δήμῳ μαινομένῳ Par | συνεξαμαρτεῖν Wolf : συνεξάρχειν codd. | 369a1–2 Εὐρυπτόλεμος J2 (Εὐ J2sl) : Ἐρυπτόλεμος Vv JRW Par : Ἐρυπτόλεος A | a7 ἰόντες Vv JRW Par : ὄντες A | a9 συγκλύδων Ald. (fort. Musurus) : συγκλύδωνος A Par : σύγκλυδος Vv JRW | ὄχλου] del. dub. Beghini | b1 τούτῳ] τοῦτον con. Beghini | b2 μακρῷ A : πολλῷ Vv

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στήμην τίθεσαι τῶν λοιπῶν ἀπευκταιοτάτην, τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος ὅτι ὁ θάνατος οὔτε πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς μετηλλαχότας.” “Πῶς φῄς, ὦ Σώκρατες;” “Ὁτι περὶ μὲν τοὺς ζῶντας οὐκ ἔστιν, οἱ δὲ ἀποθανόντες οὐκ εἰσίν, ὥστε οὔτε περὶ σὲ νῦν ἐστιν -οὐ γὰρ τέθνηκας-, οὔτε εἴ τι πάθοις ἔσται περὶ σὲ -σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ-. μάταιος οὖν ἡ λύπη περὶ τοῦ μήτε ὄντος μήτε ἐσομένου {περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι}, καὶ ὅμοιον ὡς εἰ περὶ τῆς Σκύλλης ἢ τοῦ Κενταύρου τις ὀδύροιτο {τῶν μήτε ὄντων περὶ σὲ μήτε ὕστερον μετὰ τὴν τελευτὴν ἐσομένων}· τὸ γὰρ φοβερὸν τοῖς οὖσίν ἐστιν, τοῖς δ’ οὐκ οὖσιν πῶς ἂν εἴη;” “Σὺ μὲν ἐκ τῆς ἐπιπολαζούσης τὰ νῦν λεσχηνείας τὰ σοφὰ ταῦτα προῄρηκας· ἐκεῖθεν γάρ ἐστιν ἥδε ἡ φλυαρολογία πρὸς τὰ μειράκια διακεκοσμημένη· ἐμὲ δὲ ἡ στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν λυπεῖ, κἂν πιθανωτέρους τούτων λόγους ἀρτικροτήσῃς, ὦ Σώκρατες. οὐκ ἐπαΐει γὰρ ὁ νοῦς ἀποπλανώμενος εἰς εὐεπείας λόγων, οὐδὲ ἅπτεται ταῦτα τῆς

369b5-c7 Prodic. T 89 Mayhew (re vera Plato personatus Epic. Ep. Men. 125 respiciebat) 369b6 (ὅτι)-c1 (εἰσίν) Stob. IV 52b, 55 (V, p. 1096 Hense); 369b9 (Ὅτι) -c7 (εἴη) Planud. Συν. 225 (p. 168 Ferroni) b4 τίθεσαι A : τίθεσθαι Vv | b4 περὶ add. Beghini («quid de aliis … doctrinis considerabimus?» Cincius) | b5 (ἤκουσα)-370b1 (αἰσθήσει) transponendum post 365e2 (ἔσται) putat Beghini | b6–7 πρὸς bis Stob. : περὶ bis codd. | b9 περὶ codd. : πρὸς Stob. | c4 περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι del. Beghini (περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον del. Immisch) | c5–6 τῶν μήτε ὄντων … ἐσομένων del. Wilamowitz | c6 post ὄντων add. νῦν Par | μετὰ Vv : περὶ A | d1 σὺ μὲν ἐκ JRW Par : σὺ μέν, ὦ Σώκρατες, ἐκ Vv (cf. d5) : ἐκ μὲν A | prius τὰ om. Vv | d2 προῄρηκας Aut vid, con. Immisch : προείρηκας A2ras : εἴρηκας Vv JRW Par | ἡ A2 (A2sl) Vv JRW Par : om. A | d5 ἀρτικροτήσῃς Winckelmann : ἄρτι κροτήσῃς codd. | ὦ Σώκρατες A : om. Vv (cf. d1) | γὰρ Vv Par : δὲ A

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ὁμοχροίας, ἀλλ’ εἰς μὲν πομπὴν καὶ ῥημάτων ἀγλαϊσμὸν ἀνύτει, τῆς δὲ ἀληθείας ἀποδεῖ· τὰ δὲ παθήματα σοφισμάτων οὐκ ἀνέχεται, μόνοις δὲ ἀρκεῖται τοῖς δυναμένοις καθικέσθαι τῆς ψυχῆς.” “Συνάπτεις γὰρ, ὦ Ἀξίοχε, ἀνεπιλογίστως τῇ στερήσει τῶν ἀγαθῶν †ἀντεισάγων κακῶν αἴσθησιν, ἐκλαθόμενος ὅτι τέθνηκας· λυπεῖ γὰρ τὸν στερόμενον τῶν ἀγαθῶν ἡ ἀντιπάθεια τῶν κακῶν, ὁ δ’ οὐκ ὢν οὐδὲ τῆς στερήσεως ἀντιλαμβάνεται. πῶς οὖν ἐπὶ τῷ μὴ παρέξοντι γνῶσιν τῶν λυπησόντων γένοιτ’ ἂν ἡ λύπη; ἀρχὴν γάρ, ὦ Ἀξίοχε, μὴ συνυποτιθέμενος ἁμωσγέπως μίαν αἴσθησιν κατὰ τὸ ἀνεπιστῆμον, οὐκ ἄν ποτε πτυρείης τὸν θάνατον· νῦν δὲ περιτρέπεις σεαυτὸν δειματούμενος στερήσεσθαι τῆς ψυχῆς, τῇ δὲ στερήσει περιτιθεῖς ψυχήν, καὶ ταρβεῖς μὲν τὸ μὴ αἰσθήσεσθαι, καταλήψεσθαι δὲ οἴει τὴν οὐκ ἐσομένην αἴσθησιν αἰσθήσει. πρὸς τῷ πολλοὺς καὶ καλοὺς εἶναι λόγους περὶ τῆς ἀθανασίας τῆς ψυχῆς· οὐ γὰρ ἂν θνητή γε φύσις τοσόνδ’ ὕψος διήρατο μεγεθουργίας, ὥστε καταφρονῆσαι μὲν ὑπερβαλλόντων θηρίων βίας, διαπεραιώσασθαι δὲ πελάγη,

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369e2 (καθικέσθαι) expl. schol. A ad loc. (p. 412 Greene); 370b2 (οὐ γὰρ ἂν)-d2 (ἀλγηδόνων) Planud. Συν. 226 (p. 168 Ferroni) d7 εἰς] ἴσως tempt. Beghini | e1 τοῖς δυναμένοις] τοῖς δυναμένοις suppl. dub. Beghini | e4 crucem posuit Beghini (aliquid excidisse vel glossema intrusum suspicatus) | 370a1 τὸν Vv : τὸ A | a4 ἡ om. Vv | a5 ἁμωσγέπως Apc Vv : ἄλλως γέ πως Aut vid JRW Par | μίαν A : μηδεμίαν Vv | a8 (τῇ δὲ στερήσει)-b2 (τῆς ψυχῆς) om. Vv | a8 περιτιθεῖς Aut vid JRW (re vera περιτιθεὶς JRW) : περιτίθης A2 (η A2sl) Par | b2 οὐ γὰρ ἂν Brinkmann (qui et οὐ γὰρ ἂν δὴ con.) : οὐ γὰρ δή γε A : οὐ γὰρ δήποτε Vv : οὐ γὰρ δὴ Y | b2–3 τοσόνδ’ ὕψος διήρατο Wilamowitz, alii alia : τόσον δυους διήρατο A : τοσόνδε ἂν ἤρατο Vv : τόσον δέος διήρατο A5 (δέος A5sl) | b4 βίας] βίᾳ dub. Beghini

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δείμασθαι δὲ ἄστη, καταστήσασθαι δὲ πολιτείας, ἀναβλέψαι δὲ εἰς τὸν οὐρανὸν καὶ ἰδεῖν περιφορὰς ἄστρων καὶ δρόμους ἡλίου τε καὶ σελήνης, ἀνατολάς τε καὶ δύσεις, ἐκλείψεις τε καὶ ταχείας ἀποκαταστάσεις, ἰσημερίας τε καὶ τροπὰς διττὰς καὶ Πλειάδων χειμῶνας καὶ θέρους ἀνέμους τε καὶ καταφορὰς ὄμβρων καὶ πρηστήρων ἐξαισίους συρμοὺς καὶ τὰ τοῦ κόσμου παθήματα παραπήξασθαι πρὸς τὸν αἰῶνα, εἰ μή τι θεῖον ὄντως ἐνῆν πνεῦμα τῇ ψυχῇ, δι’ οὗ τὴν τῶν τηλικῶνδε περίνοιαν καὶ γνῶσιν ἔσχεν. ὥστε οὐκ εἰς θάνατον, ἀλλ’ εἰς ἀθανασίαν μεταβαλεῖς, ὦ Ἀξίοχε, οὐδὲ ἀφαίρεσιν ἕξεις τῶν ἀγαθῶν, ἀλλ’ εἰλικρινεστέραν τὴν ἀπόλαυσιν, οὐδὲ μεμειγμένας θνητῷ σώματι τὰς ἡδονάς, ἀλλ’ ἀκράτους ἁπασῶν ἀλγηδόνων· ἐκεῖσε γὰρ ἀφίξῃ, μονωθεὶς ἐκ τῆσδε τῆς εἱρκτῆς, ἔνθα ἄπονα πάντα καὶ ἀστένακτα καὶ ἀγήρατα, γαληνὸς δέ τις καὶ κακῶν ἄγονος βίος, ἀσαλεύτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος καὶ περιαθρῶν τὴν φύσιν καὶ φιλοσοφῶν οὐ πρὸς ὄχλον καὶ θέατρον, ἀλλὰ πρὸς ἀμφιθαλῆ τὴν ἀλήθειαν.” “Εἰς τοὐναντίον με τῷ λόγῳ περιέστακας· οὐκέτι γάρ μοι θανάτου δέος ἔνεστιν, ἀλλ’ ἤδη καὶ πόθος· -ἵνα τι κἀγὼ μιμησάμενος τοὺς ῥήτορας περιττὸν εἴπω- {καὶ} πάλαι μετεωροπολῶ καὶ δίειμι τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον, ἔκ τε

370c3 (πρηστήρων) expl. schol. A ad loc. (p. 412 Greene); 370c8 (οὐδὲ ἀφαίρεσιν)-d5 (εὐδιαζόμενος): Greg. Diac. Encom. S. Dem. 4 (ll. 73–77 Detoraki) b7 ἀνατολάς τε καὶ δύσεις] post Πλειάδων transp. Hermann, Immisch | 370c1 (τροπὰς)-2 (ἀνέμους) om. Vv | c2 καὶ Πλειάδων] del. Brinkmann | χειμῶνας καὶ θέρους] post διττὰς transp. Hermann, recepto χειμῶνος : del. Immisch | χειμῶνας Α : χειμῶνος Parpc (ο Parpcsl) | 369c4 πρὸς Α Vv : εἰς JRW | c7 μεταβαλεῖς Vv : μεταβάλλεις A | c8 τὴν om. Vv | d4 ἄγονος Vv JRW Greg. Diac. : ἄπονος A | d5 alterum καὶ Vv JRW Par : om. A | d7 περιέστακας A : περιέστησας Vv | e1 καὶ ante ἵνα add. Wolf, Ast | e2 καὶ del. Wolf, Ast (addito καὶ in 370e1) | e3 μετεωροπολῶ Brinkmann : μετεωρολογῶ codd.

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τῆς ἀσθενείας ἐμαυτὸν συνείλεγμαι καὶ γέγονα καινός.” “Εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον, ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης ἀνὴρ μάγος, ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν τὸν πάππον αὑτοῦ καὶ ὁμώνυμον, πεμφθέντα εἰς Δῆλον, ὅπως τηρήσειε τὴν νῆσον ἄσυλον ἐν ᾗ οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο, ἔκ τινων χαλκέων δέλτων, ἃς ἐξ Ὑπερβορέων ἐκόμισαν Ὦπίς τε καὶ Ἑκάεργος ἐκμεμαθηκέναι μετὰ τὴν τοῦ σώματος λύσιν τὴν ψυχὴν εἰς τὸν ἄδηλον χωρεῖν τόπον, κατὰ τὴν ὑπόγειον οἴκησιν, ἐν ᾗ βασίλεια Πλούτωνος -οὐχ ἥττω τῆς τοῦ Διὸς αὐλῆς-, ἅτε τῆς μὲν γῆς ἐχούσης τὰ μέσα τοῦ κόσμου, τοῦ δὲ πόλου ὄντος σφαιροειδοῦς, οὗ τὸ μὲν ἕτερον ἡμισφαίριον θεοὶ ἔλαχον οἱ οὐράνιοι, τὸ δὲ ἕτερον οἱ ὑπένερθεν, οἱ μὲν ἀδελφοὶ ὄντες, οἱ δὲ ἀδελφῶν παῖδες· τὰ δὲ προπύλαια τῆς εἰς Πλούτωνος ὁδοῦ σιδηροῖς κλείθροις καὶ κλεισὶ διωχύρωται. ταῦτα δὲ ἀνοίξαντα ποταμὸς Ἀχέρων ἐκδέχεται, μεθ’ ὃν Κωκυτός· οὓς χρὴ πορθμεύσαντα ἀχθῆναι ἐπὶ Μίνω καὶ Ῥαδάμανθυν, ὃ κλῄζεται Πεδίον Ἀληθείας· καθέ-

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371a1 (Εἰ)-372a3 (τρύχονται): Stob. I 49, 47 (I, pp. 414–416 Wachsmuth); 371a4 (οἱ δύο θεοὶ) expl. schol. A ad loc. (p. 412 Greene) 371a1 βούλει λόγον A : βούλει λόγον ἀκοῦσαι Vv Stob. : βούλει λόγον, ἄκουσον con. Βeghini, accepto ὃς cum Stob. aut γὰρ cum Matthiae in a2 («Referam praeterea tibi si placet … Inquit enim …» Ficinus, «Si vis autem aliam etiam orationem, cape quam … Is dicebat» Agricola) | a2 ἔφη codd. : ὃς ante ἔφη add. Stob. : γὰρ post ἔφη add. Matthiae | a3 αὑτοῦ codd. : αὐτῷ Stob. | a4 ἄσυλον Stob. : om. codd. | οἱ om. Stob. | a5 ἐξ om. Stob. | Ὦπις A Stob. : Ἄπις Vv | a6 τε om. Stob. | Ἑκάεργος Vv JRW Par Stob. : Ἑκάεργε A : Ἑκαέργη Matthiae, prob. Burnet, Souilhé | τε post ἐκμεμαθηκέναι add. Stob. | μετὰ Vv : κατὰ A Stob. | a7 χωρεῖν τόπον A Stob. : τόπον χωρεῖν Vv | κατὰ codd. : καὶ Stob. | a8 οἴκησιν] κίνησιν Par | a8–9 τῆς τοῦ Διὸς αὐλῆς codd. : τῶν Διός Stob. | a9 τῆς μὲν γῆς codd. : τῆς γῆς μὲν Stob. | b1–2 τοῦ δὲ πόλου codd. : τοῦ πόλου δὲ Stob. | b3 ὑπένερθεν Α2 Vv JRW Par Stob. : ὕπερθεν Aut vid | b4 προπύλαια Stob. : πρόπυλα Par : πρόθυρα A2 (θυ et ρ A2sl) Vv JRW Parpc (θ et ρ Parpcsl) : πρόπολα A | b4–5 τῆς εἰς Π. ὁδοῦ codd. : τοῖς εἰς Π. ὁδοῦσι Stob.FP1 : τοῖς εἰς Π. ὁδοῦ Stob.F2 | b5 κλείθροις codd. : τείχεσι Stob. | κλεισὶ διωχύρωται Stob. : κλεισὶν ὠχύρωται codd. | b6 μεθ’ ὃν A Stob. : μεθ’ ὧν Vv | c1 πορθμεύσαντα Fischer : -ας codd. : -θέντας Stob. | c2 lac. stat. Beghini (e.g. , «in eam videlicet regionem» Ficinus) | ὃ κ. πεδίον ἀ. A : ὃς κ. πεδίον ἀ. Vv : ἐν πεδίῳ ᾧ κ. ἀ. Stob. : οὗ κ. πεδίον ἀ. Brinkmann : οἷ κ. πεδίον ἀ. Post | c2–3 καθέζονται δὲ Stob. : ἐνταυθοῖ καθέζονται codd.

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ζονται δὲ δικασταὶ ἀνακρίνοντες τῶν ἀφικνουμένων ἕκαστον, τίνα βίον βεβίωκε καὶ τίσιν ἐπιτηδεύμασιν ἐνῳκίσθη τῷ σώματι· ψεύσασθαι δὲ ἀμήχανον. ὅσοις μὲν οὖν ἐν τῷ ζῆν δαίμων ἀγαθὸς ἐπέπνευσεν, εἰς τὸν τῶν εὐσεβῶν χῶρον οἰκίζονται, ἔνθα ἄφθονοι μὲν ὧραι παγκάρπου γονῆς βρύουσιν, πηγαὶ δὲ ὑδάτων καθαρῶν ῥέουσιν, παντοῖοι δὲ λειμῶνες εὐ ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι, διατριβαὶ δὲ φιλοσόφων καὶ θέατρα ποιητῶν καὶ κύκλιοι χοροὶ καὶ μουσικὰ ἀκούσματα, συμπόσιά τε εὐμελῆ καὶ εἰλαπίναι αὐτοχορήγητοι καὶ ἀκήρατος ἀλυπία καὶ ἡδεῖα δίαιτα· οὔτε γὰρ χεῖμα σφοδρὸν οὔτε θάλπος ἐγγίγνεται, ἀλλ’ εὔκρατος ἀὴρ χεῖται ἁπαλαῖς ἡλίου ἀκτῖσιν ἀνακιρνάμενος. ἐνταῦθα τοῖς μεμυημένοις ἐστίν τις προεδρία καὶ τὰς ὁσίους ἁγιστείας κἀκεῖσε συντελοῦσι· πῶς οὖν οὐ σοὶ πρώτῳ μέτεστι τῆς τιμῆς, ὄντι γεννήτῃ τῶν θεῶν; καὶ τοὺς περὶ Ἡρακλέα τε καὶ Διόνυσον κατιόντας εἰς Ἅιδου πρότερον λόγος ἐνθάδε μυηθῆναι καὶ τὸ θάρσος τῆς ἐκεῖσε πορείας παρὰ τῆς Ἐλευσινίας ἐναύσασθαι. ὅσοις δὲ τὸ ζῆν διὰ κακουργημάτων ἠλάθη, ἄγονται πρὸς Ἐρινύων ἐπ’ Ἔρεβος καὶ Χάος διὰ Ταρτάρου·

371e1 (καὶ τοὺς)-4 (ἐναύσασθαι) fr. 713 III Bernabé; 371e4 (ὅσοις)-372a3 (τρύχονται) fr. 434 IX Bernabé (sed haec Plato personatus e certo quodam et definito Orphico fonte hausisse non videtur) 371c8 (παντοῖοι)-9 (ἐαριζόμενοι) fort. resp. Meth. Symp. 8, 1 (p. 204, 8–10 Musurillo); 371d4 (ἀλλ’ εὔκρατος)-5 (ἀνακιρνάμενος) resp. Meth. Symp. prooem. 8 (p. 48, 68–8 Musurillo); 371d6 (ἁγιστείας) expl. schol. A ad loc. (p. 412 Greene); 371e1 (γεννήτῃ) expl. schol. A ad loc. (p. 413 Greene); 371e3 (Ἐλευσινίας) expl. schol. A ad loc. (p. 413 Greene); 371e4 (ἐναύσασθαι) expl. schol. A ad loc. (p. 413 Greene) c3 οἱ ante δικασταὶ suppl. dub. Beghini | c5 δὲ Stob. : μὲν οὖν codd. | ὅσοις codd. : οἷς Stob. | c6 ἐπέπνευσεν] ἐνέπν- dub. Beghini | c7 οἰκίζονται codd. : λογίζονται Stob. | c8 βρύουσι] βρύοντες dub. Beghini (omisso ῥέουσιν cum Stob.) | ῥέουσιν om. Stob. | παντοῖοι A2 (οι Α2sl) Vv JRW Par Stob. : παντοῖαι A | c9 εὐ ἄνθεσι Beghini : εὐάνθεσι Stob. : ἄνθεσι codd. | ἐαριζόμενοι Vv Stob. : ἐαριζομένοις A 2 (-όμενοις A) | c9d1 φ. καὶ θέατρα π. codd. : π. καὶ θέατρα φ. Stob. | d1 κύκλιοι codd. : ἐγκ- Stob. | d2 εὐμελῆ A Par Stob. : εὐμενῆ A2 (ν A2sl) Parpc (ν Parpcsl) : ἐμμελῆ Vv JRW | d5 ἁπαλαῖς codd. : -αῖσιν Stob. | ἡλίου ἀκτῖσιν codd. : ἀκτῖσιν ἡλίου Stob. | καὶ τοῖς ante ἐνταῦθα add. Stob. | d6 κἀκεῖσε codd. : κἀκεῖ Stob. | e1 γὰρ post prius καὶ add. Stob. | τε A Stob. : δὲ Vv | e2 λόγος ἐνθάδε codd. : ἐνθάδε λόγος Stob. | e5 ἐπ’ A Vv : εἰς JRW Stob.

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ἔνθα χῶρος ἀσεβῶν καὶ Δαναΐδων ὑδρεῖαι ἀτελεῖς καὶ Ταντάλου δῖψος καὶ Τιτυοῦ σπλάγχνα καὶ Σισύφου πέτρος ἀνήνυτος, οὗ τὰ τέρματα αὖθις ἀρχαὶ πόνων· ἔνθα θηρσὶν περιλιχμώμενοι καὶ δᾳσὶν ἐπιμόνως πυρούμενοι Ποινῶν καὶ πᾶσαν αἰκίαν αἰκιζόμενοι ἀϊδίοις τιμωρίαις τρύχονται. ταῦτα μὲν ἐγὼ ἤκουσα παρὰ Γωβρύου, σὺ δ’ ἂν ἐπικρίνειας, Ἀξίοχε. ἐγὼ γὰρ λόγῳ ἀνθελκόμενος τοῦτο μόνον ἐμπέδως οἶδα, ὅτι ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος· ἡ δὲ ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα καὶ ἄλυπος. ὥστε ἢ κάτω ἢ ἄνω εὐδαιμονεῖν σε δεῖ, Ἀξίοχε, βεβιωκότα εὐσεβῶς.” “Αἰσχύνομαι σοί τι εἰπεῖν, ὦ Σώκρατες· τοσοῦτον γὰρ ἀποδέω τοῦ δεδοικέναι τὸν θάνατον, ὥστε ἤδη καὶ ἔρωτα αὐτοῦ ἔχειν· οὕτως με καὶ oὗτος ὁ λόγος, ὡς καὶ ὁ οὐράνιος, πέπεικε· καὶ ἤδη περιφρονῶ τοῦ ζῆν, ἅτε εἰς ἀμείνω οἶκον μεταστησόμενος. νυνὶ δὲ ἠρέμα κατ’ ἐμαυτὸν ἀναριθμήσομαι τὰ λεχθέντα. ἐκ μεσημβρίας δὲ παρέσῃ μοι, ὦ Σώκρατες.” “Ποιήσω ὡς λέγεις, κἀγὼ δὲ ἐπάνειμι ἐς Κυνόσαργες, ἐς περίπατον, ὁπόθεν δεῦρο μετεκλήθην.”

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e7 αἰωνίως ἐσθιόμενα καὶ γεννώμενα post σπλάγχνα add. Stob. | e8–372a1 in verbis τὰ τέρματα … πόνων latere versum putat Buresch, fort. recte | a1 ἀρχαὶ πόνων Stob.P : ἄρχεται πόνῳ codd. : ἄρχεται τῶν πόνων Stob.F : ἀρχαὶ πόνῳ Immisch : ἄρχει πόνων Burnet, Souilhé (re vera πονῶν Burnet) | θηρσὶν codd. Stob.F : πυρσὶ Stob.P | δᾳσὶν (re vera δασὶν) Stob. : λαμπάσιν codd. | a2 Ποινῶν] πρὸς ante Ποινῶν add. dub. Beghini | a4 ἐγὼ om. Vv | a5 post ὅτι add. εἰ dub. Beghini | ἅπασα A : πᾶσα Vv | a6 ἡ δὲ] del. dub. Beghini (addito εἰ post ὅτι in a5) | a11 με Vv Par : μὴν A JRW | oὗτος ὁ A2ras (oὕτως ὁ Aut vid) Vv Par : ὁ σὸς JRW | ὁ οὐράνιος V Par : ὁ om. A v | a13 μεταστησόμενος A2 (ο A2sl) Vv JRW : μεταστησάμενος A Par | ἀναριθμήσομαι A Vpc (ν Vpcsl) : ἀπαριθμήσομαι Vv | a15 δὲ A Vv : γὰρ JRW | ἐς Κυνόσαργες] del. Matthiae, fort. recte

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364 [a] Ero uscito per andare al Cinosarge ed ero ormai giunto sulla riva dell’Ilisso quando mi piombò addosso la voce di qualcuno che gridava: “Socrate, Socrate”. Voltatomi, mi guardavo intorno per capire da dove venisse: vedo Clinia, figlio di Assioco, che corre verso la Calliroe insieme a Damone [5] il musico e a Carmide, figlio di Glaucone: l’uno era il suo maestro di musica, l’altro il suo amante e ad un tempo il suo amasio. [b] Decisi di fare una deviazione e andare loro incontro per accorciare il tragitto che ci separava. In lacrime Clinia disse: “Socrate, questo è il momento di dare prova della sapienza di cui parli in continuazione. [5] †Improvvisamente† mio padre è senza forze ed è prossimo alla fine; è completamente sconvolto, anche se una volta rideva alle spalle di coloro che temono la morte come uno spauracchio [c] e si prendeva con garbo gioco di loro. Vieni e confortalo come spesso fai: che vada incontro alla sua sorte senza dolersene e che io, oltre al resto, adempia anche a questo mio dovere filiale.” “Clinia, non ti negherò nulla di ciò che si conviene alle circostanze, tanto più che [5] la tua è una richiesta sacrosanta. Affrettiamoci dunque! Se le cose stanno come dici, non abbiamo molto tempo.” “Appena ti avrà visto, Socrate, si sentirà meglio: gli è già capitato più di una volta di riprendersi da un accidente del genere.” [d] Subito dopo aver percorso la strada lungo il muro alle porte Itonie 365 [a] – abitava lì vicino, presso la stele dell’Amazzone – lo troviamo che si era già ripreso dal colpo: forte in corpo, ma debole nello spirito, con un profondo bisogno di conforto; spesso lanciava lunghi sospiri e gemeva [5] piangendo e battendo le mani. Quando lo vidi dissi: “E questo cosa significa, Assioco? Dove sono le vanterie di un tempo e le belle parole sulla virtù e il tuo enorme coraggio? Fai come l’atleta pavido che durante gli esercizi [b] dà prova di valore, ma nelle gare viene meno? Sei un uomo di una certa età, sei ragionevole e, se non altro, sei Ateniese: non farai, in coscienza, i conti con la legge della natura? Tutti sanno che la vita [5] è un soggiorno passeggero e che, dopo aver degnamente vissuto, bisogna andare incontro alla propria sorte di buon animo, quasi intonando un peana: sono dei luoghi comuni. Ma essere così deboli e riottosi come un bambino non si addice ad un uomo nell’età della ragione.” [c] “Giusto, Socrate, hai detto bene. Eppure, quando mi avvicino al pericolo vero, quei discorsi alteri e superiori non so come ma si disperdono

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nell’aria, perdono valore senza che me ne accorga; in compenso, rimane ben salda una paura che in molti modi tormenta [5] la mente: la paura di essere privato di questa luce e dei beni, e di giacere da qualche parte, invisibile e oscuro, a decompormi, finendo in balia dei vermi e delle fiere.” [d] “Assioco, tu colleghi senza riflettere {sconsideratamente} la sensazione all’insensibilità: ti contraddici nelle parole e nelle azioni senza tenere conto del fatto che da un lato lamenti l’insensibilità, dall’altro ti angosci per la decomposizione del corpo e [5] la perdita delle gioie della vita, come se, con la morte, ti aspettasse un’altra vita e non stessi per passare in un’insensibilità completa, analoga a quella che precede la nascita. Come non ti capitava nulla di male quando Dracone o Clistene erano al potere, – perché tu non esistevi affatto [e] per quel male che ti sarebbe potuto capitare – così non ti capiterà nulla di male dopo la morte, perché per il male che ci sarà tu non esisterai.471 Quindi lascia perdere tutte queste sciocchezze e considera che, quando si è sciolto il loro legame e l’anima si è insediata [5] nel luogo che le è proprio, il corpo che è lasciato indietro, fatto di terra e privo di ragione, non è l’uomo: noi, infatti, siamo anima, un vivente immortale rinchiuso 366 [a] in una gabbia mortale; questo abitacolo qui è stato applicato intorno all’anima dalla natura per il nostro male: i suoi piaceri sono fasulli, volatili e misti a un gran numero di dolori; ma le sue sofferenze sono vere, durevoli e prive di piacere {malattie [5] e infiammazioni degli organi di senso, e ancora malanni interni}; l’anima, sparsa intorno ai pori, coinvolta in queste sofferenze, è assetata dal desiderio dell’etere celeste, che è simile a lei, e si protende verso la vita e la danza di lassù. In conclusione: [b] il distacco dalla vita è un passaggio da un male ad un bene.” “Socrate, se reputi che la vita sia un male, perché rimani in vita, proprio tu che sei un gran pensatore e spicchi per intelligenza su noialtri?” [5] “Assioco, non offri una testimonianza veridica sul mio conto, ma, come la gran massa degli Ateniesi, pensi che, perché cerco di capire la realtà, io possieda di mio qualche conoscenza: ma io farei i voti per conoscere le cose più banali, figurati quanto posso conoscere quelle sofisticate! [c] Ciò che ti ho detto è l’eco delle dottrine del sapiente Prodico, alcune comprate per quattro oboli, altre per due dracme, altre ancora per quattro dracme: quell’uomo non insegna nulla gratis; ha l’abitudine di ripetere in continuazione il detto di Epicarmo: ‘l’una [5] mano l’altra lava: dà e prenderai’; an-

471 L’“a capo” vuole segnalare che in questo punto, a mio avviso, nelle intenzioni dell’autore doveva essere collocata la sezione di testo che va da 369b5 (ἤκουσα) a 370b1 (αἰσθήσει): cf. anche supra pp. 48-67 e l’apparato ad loc.

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che poco tempo fa, a casa di Callia, figlio di Ipponico, egli ha tenuto una pubblica conferenza: ne ha dette tante contro la vita che per un pelo non ho messo una croce sopra la vita: da quel momento tutto me stesso desidera morire, Assioco.” “Ma cos’è che diceva?” [d] “Ti riferirò quel che mi ricordo. Diceva: ‘Quale parte della vita non partecipa di sofferenze? Forse che appena nato non piange il bambino, ché la prima cosa che sente venendo al mondo è il dolore? Certo non gli manca nessuna sofferenza: [5] soffre per la mancanza di mezzi o per il gelo o per il caldo o per le percosse, ma, non potendo ancora esprimere il suo malessere, piange, e ha questo solo mezzo per dare voce al suo disagio. Quando arriva ai sette anni, dopo aver sperimentato a fondo molti dolori, [e] incombono su di lui come dei despoti i pedagoghi, i maestri e gli allenatori; appena cresce, i professori di letteratura, quelli di geometria, quelli di educazione militare: una gran folla di padroni; quando poi è stato iscritto nelle liste efebiche, il cosmete e la paura delle botte, poi il Liceo, 367 [a] l’Accademia, le bastonate del ginnasiarca e un’infinità di mali: tutto il tempo del ragazzo è sottoposto al controllo dei sofronisti e della commissione sui giovani istituita dal consiglio dell’Areopago. Una volta che si è liberato da queste incombenze, subito sbucano fuori le preoccupazioni [5] ed è tutto un gran ragionare della vita che uno dovrebbe intraprendere; ai mali che lo attendono quelli di un tempo sembrano uno scherzo e veri e propri spauracchi per bambini: campagne militari, ferite, [b] competizioni continue, poi, di soppiatto, subentra la vecchiaia in cui converge tutto ciò che di caduco ed infermo appartiene alla natura mortale; e se non si dà indietro in fretta la vita come per saldare un debito, la natura, incombendo come un’usuraia, pignora a uno la vista, ad un altro l’udito, sovente [5] entrambi; e se uno persiste, manda una paralisi, una piaga, una disfunzione; quelli poi che vanno molto in là con l’età perdono vigore anche nell’intelletto e i vecchi diventano due volte bambini. Per questo anche gli dèi, [c] che conoscono la condizione umana, tirano fuori dalla vita in fretta coloro che tengono nella più alta considerazione; Agamede e Trofonio, ad esempio, i costruttori del tempio del dio a Delfi: pregarono di ricevere il meglio, si misero a dormire e non si rialzarono più; [5] e i figli della sacerdotessa di Argo lo stesso: la madre pregò che ricevessero da Era una ricompensa per la loro devozione, visto che, quando i buoi avevano tardato ad arrivare, loro stessi avevano preso il giogo sulle spalle e l’avevano trasportata al tempio; dopo quella preghiera, durante la notte, [d] passarono a miglior vita. Sarebbe lungo passare in rassegna i detti dei poeti, che si pronunciano solennemente con le loro bocche divine sulle cose della vita: quali lamenti versano su di essa! Di uno soltanto, del più ragguardevole, ricorderò le parole:

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[5] ‘così, infatti, gli dèi decisero per gli infelici mortali, di vivere nel dolore’ e ‘non c’è cosa più miserabile dell’uomo, [e] di tutti gli esseri che respirano e si trascinano sulla terra’ 368 [a] e di Anfiarao che dice? ‘sopra ogni cosa lui amarono col cuore Zeus egioco e Apollo, di un amore totale: non arrivò alla soglia della vecchiaia’ e di quello che esorta a [5] ‘piangere chi è nato per tutti i mali cui va incontro’ che te ne pare? Ma la smetto: non vorrei mai infrangere la promessa e tirarla per le lunghe ricordando anche altri poeti. C’è una qualche attività o professione che uno, dopo averla scelta, non criticherà prendendosela con la sua condizione presente? [b] Dobbiamo parlare dei lavori manuali e artigianali, quando si pena da una notte all’altra e a stento ci si procura da vivere, lamentando la propria condizione e riempiendo le notti insonni di pianto e lacrime? Dobbiamo parlare dell’uomo di mare, [5] che passa attraverso tanti pericoli e, come affermava Biante, non è né tra i morti, né tra i vivi? L’uomo, animale terrestre, si è buttato [c] in mare come un anfibio esponendosi interamente al caso. ‘Ma certo la vita dei campi è bella’: non è, piuttosto, come si dice, tutta una piaga, sempre pronta a tirarti fuori un motivo di dolore? Si piange ora la siccità, ora le precipitazioni abbondanti, ora le inondazioni, ora la ruggine del grano, [5] ora il caldo fuori stagione o il gelo. E la prestigiosa vita politica -lascio perdere molte altre attività- attraverso quanti pericoli si spinge? Le sue soddisfazioni sono un palpito agitato, come quando si ha un’infiammazione; [d] l’insuccesso, poi, è una sofferenza, peggio di dover morire infinite volte. Chi, infatti, potrebbe essere felice a vivere al servizio della massa, se è lusingato e applaudito, un giocattolino del popolo, rimosso, schernito, sanzionato, condannato a morte, †compatito†? Infatti, [5] Assioco, tu che te ne intendi di politica: come è morto Milziade? Come Temistocle? Come Efialte? Come non molto tempo fa i dieci strateghi, quando io mi rifiutai di far votare l’assemblea? Non mi sembrava onorevole, infatti, associarmi all’errore del popolo impazzito; ma [e] Teramene e Callisseno il giorno seguente, contando sulla complicità dei proedri, fecero condannare a morte senza processo quegli uomini; tuttavia, in un’assemblea di trentamila persone, 369 [a] tu solo, insieme ad Eurittolemo, prendevi le loro difese.”

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“Giusto, Socrate: da quel momento io stesso ne ho avuto abbastanza della tribuna e non c’è cosa che mi dia più noia [5] della politica; ma questo lo capiscono quelli che sono stati dentro a quella realtà: tu, infatti, parli come uno che la contempla da lontano; noialtri, invece, ne abbiamo una conoscenza più approfondita, noi che ne abbiamo avuta esperienza diretta; il popolo, infatti, Socrate, è un essere ingrato, volubile, crudele, calunniatore, ignorante, come può esserlo un insieme di chiacchieroni ammassati [b] e violenti; chi cerca di arruffianarselo è un infelice molto più di altri.” “Assioco, se la più nobile delle attività umane la reputi la più detestabile, che dovremo pensare delle altre? [5] Non bisognerà starne alla larga?472 Una volta ho sentito anche Prodico che diceva che la morte non riguarda né i vivi né i trapassati.” “Cosa vuoi dire, Socrate?” “Dico che in relazione ai vivi la morte non esiste e i morti a loro volta [c] non esistono; il risultato è che la morte non ti riguarda in questo momento, visto che non sei morto, né, se ti capitasse qualcosa, ti riguarderà, visto che non esisterai più. È inutile turbarsi per ciò che non esiste, né esisterà {che Assioco si turbi per Assioco}: è la stessa cosa che se uno si turbasse [5] per Scilla o il Centauro {che non esistono in relazione a te, né esisteranno in futuro dopo la morte}: la capacità di far paura, infatti, appartiene a ciò che esiste; come potrebbe appartenere a ciò che non esiste?” [d] “Questa sapienza tu l’hai selezionata dalla chiacchiera oggi alla moda; da lì, infatti, vengono queste sciocchezze allestite in modo da piacere ai ragazzini; ma per me la perdita dei beni della vita resta una sofferenza, anche se tu dovessi imbastire degli argomenti più persuasivi di questi, Socrate. [5] La mente, infatti, non presta ascolto e non si perde dietro alle belle parole; queste cose che dici non sfiorano neppure la superficie della pelle: hanno successo come splendente spettacolo verbale, ma sono prive di verità; il dolore non sopporta i ragionamenti: [e] solo quelli che riescono a raggiungere l’anima lo soddisfano.” “Assioco, senza riflettere tu colleghi alla perdita dei beni, †introducendo al suo posto la percezione del male, e dimentichi 370 [a] che sei morto; la percezione del male, infatti, affligge come forma di compenso chi è privato del bene, ma chi non esiste non percepisce neppure la privazione. Dunque, come si potrà soffrire a causa di ciò che non renderà neppure possibile la consapevolezza della sofferenza? Se tu, Assioco, non presupponi affatto [5]

472 Con l’“a capo” si vuole segnalare che qui inizia la sezione che, a mio avviso, nelle intenzioni dell’autore doveva essere collocata dopo 365e2 (ἔσται): cf. anche supra pp. 48-67 e l’apparato ad loc.

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in qualche modo, per difetto di riflessione, una forma di percezione, non sarai mai turbato dalla morte; ora, invece, ti contraddici perché temi di perdere l’anima, ma attribuisci un’anima a questa privazione: sei terrorizzato all’idea di perdere la sensazione, ma pensi che potrai avvertire con la sensazione la sensazione che non ci sarà.473 [b] Oltre a ciò, ci sono molti begli argomenti sull’immortalità dell’anima. Certamente una natura mortale non avrebbe potuto levarsi a tale altezza nella capacità di compiere azioni grandiose, tanto da non curarsi della superiore forza delle bestie, da attraversare i mari, [5] da costruire città, da istituire regimi politici, da alzare lo sguardo verso il cielo e osservare le rivoluzioni degli astri e il corso del sole e della luna, le levate e i tramonti, le eclissi e [c] le rapide riapparizioni, i doppi equinozi e solstizi, le tempeste delle Pleiadi, i venti e le precipitazioni estive, e le cadute devastanti dei fulmini, e fissare per l’eternità i fenomeni cosmici sui calendari, se nell’anima non ci fosse realmente [5] una sorta di soffio divino attraverso il quale essa ha compreso e conosciuto realtà tanto complesse. In conclusione: il tuo, Assioco, è un passaggio non verso la morte, ma verso l’immortalità; non sarai privato dei beni, ma ne godrai in modo più puro: i piaceri non saranno più [d] legati al corpo mortale, ma saranno scevri di ogni dolore; separato da questa gabbia, andrai lassù dove non si conosce pena, pianto o vecchiaia, ma si conduce una vita calma, che non porta mali, illuminata da una ferma tranquillità, [5] in contemplazione della natura delle cose, filosofando non per una folla di spettatori, ma per la verità pura e semplice.” “Con il tuo discorso mi hai fatto cambiare completamente disposizione: non ho più [e] paura della morte, ma ormai la desidero; e (per imitare a mia volta i retori e dire qualcosa fuori dal comune) da un pezzo mi levo verso il cielo e percorro l’eterno e divino corso: mi sono ripreso dalla mia debolezza e sono diventato un uomo nuovo.” 371 [a] “Se vuoi un altro discorso, quello che mi ha riferito Gobria il mago, egli diceva che durante la spedizione di Serse suo nonno, che portava il suo stesso nome, quando fu inviato a Delo per proteggere dai saccheggi l’isola in cui nacquero i due déi, lesse alcune [5] tavolette di bronzo che Opis e Hecaergos avevano portato dagli Iperborei e apprese che, dopo la separazione dal corpo, l’anima si reca in un luogo invisibile, nella regione inferiore della terra, dove si trova la reggia di Plutone -non inferiore al palazzo di Zeus-, [b] in quanto la terra occupa il centro del cosmo e la volta celeste è

473 L’“a capo” segna la fine della sezione che, a mio avviso, nelle intenzioni dell’autore doveva essere collocata dopo 365e2 (ἔσται): cf. anche supra pp. 48-67 e l’apparato ad loc.

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sferica: un emisfero lo ebbero in sorte gli dèi celesti, l’altro gli dèi inferi (gli uni sono fratelli, gli altri figli di questi fratelli); l’ingresso della via [5] che porta alla reggia di Plutone è serrato da sbarre e catenacci di ferro. Una volta che li si è aperti si è accolti dal fiume Acheronte, poi dal [c] Cocito; dopo che li si è attraversati, si è condotti al cospetto di Minosse e Radamanto, che si chiama Piana della Verità. I giudici siedono interrogando tutti quelli che arrivano: che vita hanno vissuto e con quali attività hanno occupato il corpo. [5] Mentire è impossibile. Quanti in vita sono stati ispirati da un buon demone, vengono mandati ad abitare nella regione dei giusti, dove le stagioni producono in abbondanza germogli di frutti di ogni genere, dove scorrono fonti di acqua pura, dove si trovano prati fioriti di ogni tipo, coperti come in primavera di fiori variopinti, discussioni di filosofi, [d] esibizioni di poeti, cori danzanti, accompagnamenti musicali, simposi soavi, banchetti che si preparano da sé, un’inscalfibile assenza di dolore e una vita piacevole; non ci sono tempeste violente, né caldo intenso, ma vi si spande un’aria mite, [5] temperata da delicati raggi di sole. Là c’è un posto privilegiato per gli iniziati, che continuano ad adempiere ai sacri riti: perché a te per primo non dovrebbe spettare questo onore, a te [e] che appartieni alla congregazione delle due dee? Si dice che anche Eracle e Dioniso, quando scesero nell’Ade, prima si fecero iniziare qui da noi attingendo alla dea Eleusinia il coraggio per la traversata dei luoghi di laggiù. Quanti, invece, hanno vissuto di cattive azioni sono condotti [5] dalle Erinni nell’Erebo e nel Chaos attraverso il Tartaro, dove si trova la regione degli empi, con le Danaidi che attingono acqua senza fine, Tantalo e la sua sete, Tizio e le sue interiora, e Sisifo che rotola senza fine il suo macigno: quando la sua pena giunge a termine, riprende daccapo. Là i malvagi, 372 [a] leccati da creature mostruose, persistetemente bruciati dalle Pene con le loro torce, sottoposti a torture di ogni genere, sono logorati da castighi eterni. Questo è ciò che ho sentito da Gobria; tu farai le tue valutazioni, Assioco; io, trattenuto dalla ragione, [5] questa sola cosa so con fermezza, che ogni anima è immortale e quando ha abbandonato questo luogo è anche priva di ogni sofferenza. In conclusione: in basso o in alto che sia, devi essere felice, Assioco, perché hai vissuto da uomo giusto.” “Sono in imbarazzo a dire qualcosa, Socrate: infatti, sono tanto lontano [10] dal temere la morte da averne ormai desiderio; a tal punto anche questo discorso mi ha convinto, come già il discorso celeste: ormai non mi curo della vita perché sono prossimo a trasferirmi in una dimora migliore. Ora, però, ripercorrerò tranquillamente tra me e me ciò che si è detto. A mezzogiorno mi farai il piacere di tornare da me, Socrate.” [15] “Farò come dici, ed io intanto mi reco al Cinosarge, alla passeggiata, da dove sono stato chiamato per venire qui.”

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Ogni errore ci indica uno scoglio da evitare, mentre non ogni scoperta ci indica una via da seguire Giovanni Vailati Titolo: A reca il doppio titolo Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου. Manca il genitivo dell’autore in quanto i sette dialoghi spuri dell’Appendix trasmessi da A costituiscono un corpuscolo a sé stante posto sotto il titolo complessivo di Πλάτωνος νοθευόμενοι (f. 325). Tale titolo complessivo trova corrispondenza nella notazione di Trasillo conservata da Diog. Laert. III 62, νοθεύονται δὲ τῶν διαλόγων ὁμολογουμένως κτλ. (cf. Müller (1975), 32–36 e Carlini (2005), 25–27). È possibile che nel caso specifico la fonte di Diogene non sia direttamente Trasillo ma ci sia stata una Zwischenstufe (cf. Müller (1975), 33 n. 1). In generale sul modus operandi usato da Diogene nel comporre la sua opera cf. Dorandi (2007), 19. Il codice V reca anche il genitivo dell’autore: Πλάτωνος Ἀξίοχος ἢ περὶ θανάτου. Questo fenomeno non va interpretato come un’attribuzione di natura filologica dell’Assioco a Platone (sulla questione cf. supra pp. 99-100 e n. 244; trascurabile è l’indicazione sintetica Πλάτωνος del codice v, dovuta alla scarsa cura con cui è stato realizzato il codice: essa presuppone un titolo analogo a quello di V). La più antica testimonianza in nostro possesso sul titolo dell’Assioco è sempre quella di Trasillo ap. Diog. Laert. III 62. Quest’ultimo mostra di conoscere soltanto il titolo ἀπὸ τοῦ ὀνόματος (Ἀξίοχος). Che non si tratti di una svista è suggerito dal fatto che tutti i νοθευόμενοι che la tradizione medievale conosce con il doppio titolo (Demodoco, Sisifo, Alcione, Erissia, Assioco) sono noti a Trasillo-Diogene soltanto con il titolo ἀπὸ τοῦ ὀνόματος: non si vede per quale ragione Trasillo-Diogene avrebbe dovuto omettere sistematicamente, cioè scientemente, l’indicazione dei titoli ἀπὸ τοῦ πράγματος (è degno di nota che anche il papiro dell’Alcione della fine del II d.C., che ci conserva il colofone con il titolo del dialogo, ha a sua volta soltanto il titolo ἀπὸ τοῦ ὀνόματος: cf. CPF I.1*** 80.19, CPF I.1** 64.1). Per contro, Trasillo-Diogene conosce i titoli ἀπὸ τοῦ πράγματος dei dialoghi inclusi nelle tetralogie (Diog. Laert. III 58–60). Ciò fa pensare ad un diverso trattamento “redazionale” dei dialoghi inseriti nelle tetralogie rispetto ai dialoghi che compongono l’Appendix e suggerisce che i titoli ἀπὸ τοῦ πράγματος degli scritti spurii dell’Appendix siano stati aggiunti solo in se-

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guito, in età tardo-antica, verosimilmente in seguito ad un’iniziativa editoriale che ha uniformato la facies dei titoli dei dialoghi dell’Appendix a quella dei dialoghi delle tetralogie. Non era molto difficile, dopo tutto, pensare ad un titolo περὶ θανάτου per l’Assioco. *** Il dialogo è ambientato ad Atene poco tempo dopo la condanna degli strateghi delle Arginuse del 406 (cf. 368d6–369a1), prima della morte di Carmide nella battaglia di Munichia del 403 (cf. anche Irwin (2015), 70). Tra il tempo del dialogo e quello della cornice narrativa di Socrate sembra che sia passato un po’ di tempo (cf. 365a1 ᾤκει, con il commento ad loc.). Il prologo si svolge all’aperto, lungo le rive dell’Ilisso. In seguito, la scena si sposta all’interno della casa di Assioco.

Prologo (364a1-c8) 364a1–2 ἐξιόντι μοι … καὶ γενομένῳ ... διῇξε φωνή: analoga costruzione in [Chio] Ep. XIII 1, καί μοι περὶ ἕκτην ὥραν μόνῳ περιπατοῦντι ἐν τῷ Ὠιδείῳ καὶ περί τινος σκέμματος φροντίζοντι αἰφνιδίως προσῇξεν (μοι con doppio participio retto da un composto di ᾄσσω). A presenta il pronome μοι dopo entrambi i participi (ἐξιόντι μοι … καὶ γενομένῳ μοι). Il secondo μοι è invece assente in Vv e in FM. La ripetizione del pronome è stata accolta da Burnet (19132) e Souilhé (1930). In precedenza alcuni editori avevano stampato solo il primo μοι: cf. e.g. Hermann (1853) e Immisch (1896). Effettivamente, la ripetizione del pronome dopo ciascun participio non pare giustificata da ragioni di senso o di stile.474 Si accoglie pertanto il testo di Vv e di FM. Il secondo μοι sarà stato ripetuto meccanicamente dopo il secondo participio per analogia con il primo. Per una simile ripetizione meccanica cf. e.g. Xen. Mem. I 2, 57 (ed. Bandini), Σωκράτης δ’ ἐπεὶ διομολογήσαιτο τὸ μὲν ἐργάτην εἶναι ὠφέλιμόν τε ἀνθρώπῳ καὶ ἀγαθὸν {εἶναι} (εἶναι om. Π6Stob.).

474 Sulla ripetizione di un pronome personale (e più in generale di parole brevi) nella stessa frase cf. KG I.2, 660; Page (1938), 173 (ad Eur. Med. 1296); Fraenkel (1962), 89–91 e 216, Livrea (1973), 124–125 (ad Ap. Rh. IV 385–386); Diggle (1980), 58 (ad Eur. Erechth. fr. 18 Carrara); Mastronarde (1994), 288 (ad Eur. Ph. 498) e Dunbar (1995), 322–323 (ad Aristoph. Av. 544–545). In generale sul problema delle ripetizioni presso gli antichi cf. Pickering (2003), 490–499.

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Tuttavia, non si può escludere un’altra possibilità: mantenere il secondo μοι e correggere il primo in μέν (ἐξιόντι μὲν ἐς Kυνόσαργες καὶ γενομένῳ μοι κατὰ τὸν Ἰλισὸν διῇξε φωνὴ κτλ.) In questo modo al μέν si correla il δέ della frase successiva (ὡς δὲ ἐπιστραφεὶς περιεσκόπουν ὁπόθεν εἴη). Per una correlazione analoga in incipit cf. Plat. Lys. 203a, ἐπορευόμην μὲν ἐξ Ἀκαδημείας εὐθὺ Λυκείου τὴν ἔξω τείχους ὑπ’ αὐτὸ τὸ τεῖχος· ἐπειδὴ δ’ ἐγενόμην κατὰ τὴν πυλίδα ᾗ ἡ Πάνοπος κρήνη κτλ. Lo scambio μέν/μοι è paleograficamente facile (ΜЄΝ > ΜΟΙ), ed era favorito in questo caso dalla presenza subito prima di un participio al dativo che ha per soggetto la prima persona singolare.475 In questo caso, occorrerebbe pensare, però, che Vv e FM abbiano soppresso deliberatamente e indipendentemente il secondo pronome.476 Ciò naturalmente non è impossibile visto che la ripetizione è così evidente che questa operazione poteva essere compiuta indipendentemente da più fonti, a maggior ragione se si tiene conto del fatto che Vv rappresentano una recensione dotta e che FM è un’imitazione il cui autore poteva tranquillamente sentirsi libero di sopprimere il secondo sgraziato μοι. 364a1 ἐξιόντι: per l’incipit con verbo di movimento nel CP cf. Plat. Rp. I 327a; Lys. 203a; Ch. 153a; [Plat.] Eryx. 392a. Analoghi incipit si trovano spesso nell’epistolografia filosofica: cf. e.g. [Diog. Sinop.] Epp. 2 (con Emeljanow (1967), 90); 6; 8; 30; 31; 35; 36. Si tratta di un elemento compositivo convenzionale della letteratura in qualche modo riconducibile all’ambito “socratico”. Una sua parodia è offerta verosimilmente da Alexis PCG II fr. 247, πορευομένῳ δ’ ἐκ Πειραιῶς ὑπὸ τῶν κακῶν / καὶ τῆς ἀπορίας φιλοσοφεῖν ἐπῆλθέ μοι, dove si ha come nel nostro caso il participio al dativo (la correzione πορευομένῳ in luogo di πορευομένων è da considerarsi sicura: cf. anche Arnott (1996), 695; su questo frammento e la tradizione socratica cf. inoltre Martinelli Tempesta (2003), 231).

475 Per un probabile altro caso di “scomparsa” del μέν incipitario cf. Isocr. Or. 13 (In sophistas), 1 (ed. Mandilaras), εἰ μὲν πάντες ἤθελον οἱ παιδεύειν ἐπιχειροῦντες ἀληθῆ λέγειν ... νῦν δ’ οἱ τολμῶντες λίαν ἀλαζονεύεσθαι κτλ. dove la tradizione medievale ha εἰ πάντες; il PCol. inv. 458, per contro, ha εἰ μὲ[ν πάντες] ἤθε[λ]ον (cf. Keyes (1929), 262–263, il quale rimanda all’incipit analogo di Isocr. Or. 18 (In Callimachum), 1). Debbo la segnalazione di questo passo a Stefano Martinelli Tempesta. 476 In generale non stupisce un modus operandi di questo genere: e.g. in Isocr. Or. 10 (Helenae encomium), 10 (ed. Drerup), καὶ πρῶτον μὲν Θησεύς, ὁ λεγόμενος μὲν Αἰγέως, γενόμενος δ’ ἐκ Ποσειδῶνος κτλ. il disagio prodotto dalla ripetizione ravvicinata del μέν (di cui il primo solitarium) ha indotto Θ ad omettere il secondo μέν.

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Sull’interpretazione degli incipit dei dialoghi platonici e socratici: cf. Burnyeat (1997), 1–20; Clay (1992), 113–129; Vegetti (1998), 93–104; Gonzalez (2003), 15–44; Martinelli Tempesta (2003), 230; Männlein-Robert (2012), 60–61 nn. 2–3. Più in generale sulle scene esordiali dei dialoghi platonici cf. De Sanctis (2016), 49–88. Talvolta si è visto nei verbi di movimento incipitari un’immagine della ricerca filosofica (per l’Assioco cf. Männlein-Robert (2012), 60–61 nn. 2–3). È più verosimile che vi si voglia fornire una precisa immagine del filosofo: non lo studioso estraneo alla società, ma l’uomo che nella vita di tutti i giorni si muove e si confronta con altri uomini e i loro problemi. Non va comunque dimenticato che ad un certo punto l’incipit con verbo di movimento diventa semplicemente un motivo convenzionale della letteratura “socratica”. 364a1 ἐς Kυνόσαργες: il Cinosarge era un luogo suburbano situato fuori dalle mura temistoclee meridionali di Atene, vicino alla porta Diomea, appena oltre l’Ilisso (cf. Judeich (1931), 141 n. 2 e 422–425; Travlos (1971), 340–341; Billot (1994), 917–966; Privitera (2002), 54–55 e Greco (2011), 506–507; per le teorie antiche circa l’origine di questo toponimo cf. e.g. schol. [Plat.] Ax. 364a Greene). Era sede di un santuario dedicato ad Eracle (già noto a Hdt. VI 115) e di un ginnasio (cf. Demosth. Or. 24 (In Timocratem), 114, il quale riprende una disposizione risalente a Solone). Questo ginnasio fu per un certo tempo riservato ai νόθοι, figli di un Ateniese e di una straniera o di una Ateniese e di uno straniero.477 Il ginnasio non doveva più essere frequentato dai νόθοι quando nel 352/1 Demostene pronunciò la Contro Aristocrate (Or. 23, 213): cf. Billot (1993), 70–93. Fu eletto come luogo di insegnamento da Antistene (cf. Diog. Laert. VI 13: secondo alcuni da questo fatto i filosofi “cinici”, che ad Antistene si rifacevano, avrebbero derivato il loro nome) e da Aristone di Chio (cf. Diog. Laert. VII 161). La zona del Cinosarge fu devastata da Filippo V nel 200 a.C. (cf. Diod. XXVIII 7 e Liv. XXXI 24, 17–18), tanto che Pausania (I 19, 3) ricorda solo il santuario di Eracle: è verosimile che solo questo fosse rimasto delle devastazioni compiute dal sovrano macedone (cf. Billot (1994), 922–923). Almeno fino ad allora, tuttavia, il ginnasio del Cinosarge era stato uno dei luoghi simbolo dell’Atene del III secolo (cf. Heracl. fr. I, 1 Pfister, γυμνάσια τρία, Ἀκαδημία, Λύκειον, Κυνόσαργες· πάντα κατάδενδρά τε καὶ τοῖς ἐδάφεσι ποώδη). Il Cinosarge non è mai menzionato nei dialoghi platonici. Non convince l’idea di Männlein-Robert (2012), 60 n. 1 di interpretare la menzione

477 Sulle varie categorie di νόθοι: cf. Harrison (1968–1971), I 63–65 e Panzeri (2011), 43 e n. 1.

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del Cinosarge come un riferimento tra le righe ad Antistene e al cinismo (cf. già Joël (1901), 177–178): per quanto nel dialogo si possa rintracciare l’influenza della cosiddetta “diatriba cinico-stoica” (cf. supra p. 41), un’allusione ad Antistene o al cinismo in una posizione così sensibile come l’incipit sembra sproporzionata rispetto alla loro ipotetica presenza nel resto del dialogo. Irwin (2015), 82–84, memore del fatto che il Cinosarge fu per un certo tempo destinato ai νόθοι (cf. supra in questo stesso lemma), ha ipotizzato che la scelta dello pseudo-Platone sia ricaduta sul Cinosarge perché Assioco rientrava precisamente in quella categoria di soggetti, essendo verosimilmente figlio di madre non Ateniese (cf. Nails (2002), 63). Tuttavia, anche in questo caso, ci si sarebbe aspettati che questa particolarità dell’orgine di Assioco fosse successivamente tematizzata (l’ipotesi della Irwin è coerente con la generale interpretazione che la studiosa dà del dialogo, sui cui limiti, tuttavia, cf. supra pp. 22-25). Più pertinente sembra il fatto che il Cinosarge fu utilizzato nel corso del tempo anche come luogo di sepoltura.478 A questa realtà cimiteriale è stata ricondotta l’origine dell’espressione di malaugurio ἐς Κυνόσαργες, attestata da fonti erudite (cf. Billot (1993), 92–93 e Billot (1994), 932; spiegazioni alternative di questa espressione in Versnel (1973), 276–277; Humphreys (1974), 92 e Bremmer (1977), 372– 373). La scelta del Cinosarge come destinazione di Socrate può essere stata dettata dal fatto che l’autore aveva presente che il Cinosarge era stato e continuava ad essere utilizzato anche come luogo di sepoltura: in un certo senso l’autore annunciava fin dalle prime parole l’argomento del dialogo (per una discussione più articolata di questa ipotesi cf. Beghini (2016), 10–18). È degno di nota a questo proposito che Cencio de’ Rustici nella sua traduzione del dialogo rendeva ἐς Κυνόσαργες con ad sepulchrorum locum. In Beghini (2016), 18–28 si ipotizzava che Cencio avesse avuto accesso ad una fonte ora perduta che lo informava della realtà cimiteriale presente nel Cinosarge. Ciò non può essere escluso. Tuttavia, va tenuto anche in conto il passo di Livio dove si descrive l’assedio di Atene da parte di Filippo V (XXXI 24, 17–18, Intra muros deinde tenentibus milites Atheniensibus Philippus signo receptui dato castra ad Cynosarges -templum Herculis gymnasiumque et lucus erat circumiectus- posuit. Sed et Cynosarges et Lycium et quidquid sancti amoenive circa urbem erat incensum est, dirutaque non tecta solum sed etiam sepulcra). Cencio, infatti, fece parte della cerchia di dotti che a Firenze verso il 1435 lavorarono per emendare il testo di Livio sull’esemplare del cardinale Prospero Colonna (cf. Lehnerdt (1901), 308; Bertalot (1975),

478 Cf. Billot (1992), 134 e n. 61 e 139 e n. 78; Billot (1994), 920–921 e 932–933; Privitera (2002), 54–55; Eliopoulos (2010), 85–91 e Greco (2011), 506–507.

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138 e n. 5 e Kristeller (1985), 241 n. 26 e 242). Non si può escludere, dunque, che Cencio, volendo sostituire il toponimo “Cinosarge”, oscuro per la maggior parte dei suoi lettori, abbia recuperato nella memoria l’informazione di Livio sui sepulcra presenti nei dintorni di Atene. Tuttavia, sarebbe comunque degno di nota se Cencio avesse scelto di sostituire il toponimo “Cinosarge” proprio con l’indicazione dei sepulcra. 364a1–2 κατὰ τὸν Ἰλισόν: insieme all’Eridano, l’Ilisso era uno dei due fiumi dell’Atene antica. Scorreva da Nord-Est a Sud-Ovest al di fuori della cerchia muraria temistoclea (cf. Judeich (1931), 48). Per raggiungere il Cinosarge occorreva superare l’Ilisso. Travlos (1971), 112 ha individuato le tracce di un antico ponte in una serie di tagli nella roccia nell’alveo dell’Ilisso davanti a “Hagia Fotini”. A suo avviso si tratterebbe del passaggio menzionato da Plat. Phaedr. 229c e descritto da Pausania (I 19, 6). Verso questo passaggio, secondo Travlos, si dirigerebbe il Socrate dell’Assioco per attraversare l’Ilisso e raggiungere il Cinosarge. Non si vedono particolari ragioni per pensare che qui con la menzione dell’Ilisso venga evocato “der erotische Kontext” del Fedro (così MännleinRobert (2012), 61 n. 3). Non sembra, infatti, che il contesto erotico del Fedro sia molto pertinente con il tema dell’Assioco. Non convince neppure l’idea che l’Ilisso, come le mura cittadine, siano qui un simbolo del limite, del confine (Männlein-Robert (2012), 61 n. 3). L’Ilisso sarà semplicemente un tratto convenzionale della rappresentazione dell’Atene “socratica”, impiegato per dare vividezza a questa cornice. Per la costruzione γίγνομαι con κατά + l’accusativo del luogo in cui si giunge cf. e.g. Plat. Lys. 203a, ἐγενόμην κατὰ τὴν πυλίδα. 364a2 διῇξε: A e Vv hanno διῆξε; su O διῆξε è stato corretto in διῇξε; quest’ultima forma si legge anche in FM. L’aoristo sigmatico del verbo ἥκω e dei suoi composti è problematico ed è sovente corretto (cf. già Lobeck (1820), 743).479 Inoltre, il composto di ᾄσσω esprime meglio l’idea suggerita dal contensto della repentinità di un’azione che coglie qualcuno di sorpresa (cf. il passo di [Chio] Ep. XIII 1 citato nel commento a 364a1-2). Infine, si deve tenere presente che nei codici platonici il verbo ᾄσσω compare sovente senza iota mutum (cf. LSJ s.v.) Un altro problema è rappresentato dalla costruzione di διᾴσσω con il dativo (μοι). Di norma ci si sarebbe aspettati il genitivo o l’accusativo o una costruzione perifrastica con preposizione (e.g. ἐς + acc.): cf. LSJ s.v. Alcuni

479 Dall’Aldina fino a Fischer (1766), con l’eccezione del Wolf, la lezione stampata è sempre stata l’aoristo di διήκω (e questa lezione è stata recepita anche nel ThGL s.v. διήκω).

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casi con il dativo sono attestati (cf. e.g. Hdt. IV 134, 1), ma non sono sufficienti per liberare il passo da ogni sospetto. Non escluderei la possibilità di scrivere qualcosa come προσῇξε (cf. sempre il passo di [Chio] Ep. XIII 1 citato nel commento a 364a1-2). Per una corruttela per certi aspetti simile cf. e.g. Thuc. IV 133, 1 (ed. Alberti), ἐν δὲ τῷ αὐτῷ θέρει Θηβαῖοι Θεσπιῶν τεῖχος περιεῖλον (περιεῖλον ABFGC3 : διεῖλον E) ἐπικαλέσαντες ἀττικισμόν. 364a2 Σώκρατες, Σώκρατες: per l’anadiplosi del vocativo cf. e.g. Aeschl. Ch. 246 (con Untersteiner (2002), 231) e 653 (con Garvie (1986), 224); Aristoph. Ach. 1099 (con Olson (2002), 177); Av. 57 (con Dunbar (1995), 154). L’assenza dell’interiezione è frequente con l’anadiplosi. Il vocativo isolato dà vivacità e movimento alla scena: una voce chiama Socrate da fuori campo; qualcuno è ancora lontano, ha scorto Socrate e cerca con urgenza la sua attenzione (cf. anche De Sanctis (2016), 55 e n. 2). 364a3 ἐπιστραφεὶς περιεσκόπουν: A presenta περιστραφείς; Vv hanno ἐπιστραφείς; su O περιστραφείς è stato corretto in ἐπιστραφείς. La lezione περιστραφείς è testimoniata anche da FM, ἐπιστραφείς anche da Thom. Ecl. p. 115, 7–8 Ritschl. Pace Bianchi (2006), 16–17 n. 25 («La lezione περιστραφείς andrebbe invero ristabilita anche nel testo dell’Assioco di Souilhé: stando all’apparato critico di questa edizione, si tratterebbe di lezione presente nel solo autorevole Paris. gr. 1807, celebre testimone appartenente alla cosiddetta “collezione filosofica”»), la ripetizione del medesimo preverbo περι- a così breve distanza è difficilmente accettabile: περιστραφείς si sarà prodotto per influenza del successivo περιεσκόπουν. Per un caso analogo di anticipazione cf. e.g. Hp. MS. 1 (ed. Jouanna), εἰ γὰρ σελήνην τε καθαιρεῖν καὶ ἥλιον ἀφανίζειν ... ὑποδέχονται (ὑποδέχονται θ : ἐπιδέχονται M) ἐπίστασθαι κτλ. (ricordato da West (1973), 121). Forte è la somiglianza dell’espressione con quella che si legge in Plat. Lys. 207a, περιστρεφόμενος οὖν ὁ Λύσις θαμὰ ἐπεσκοπεῖτο ἡμᾶς (anche in questo caso è evitata la ripetizione dello stesso preverbo). 364a3 Κλεινίαν: figlio di Assioco e cugino di Alcibiade, Clinia è uno dei personaggi principali dell’Eutidemo (cf. Méridier (1964), 113–114 e Nails (2002), 100). Da non confondere con i diversi omonimi che compaiono nel CP: il padre di Alcibiade (cf. Prot. 309c; cf. Nails (2002), 99), il fratello di Alcibiade (cf. Alc. I 118e; Prot. 320a; cf. Nails (2002), 101), il Clinia di Cnosso interlocutore di Socrate nelle Leggi (l’unico Clinia del CP che non ha a che vedere con la famiglia di Alcibiade; cf. Nails (2002), 101–102). Il figlio di Assioco è anche tra i personaggi principali del Simposio di Senofonte (Senofonte non dice espressamente che Clinia è figlio di Assioco, ma questa pare l’identificazione più probabile: cf. Huß (1999), 225–227; cf. inoltre Nails (2002), 100–101).

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Problematico è invece il passo di Xen. Mem. I 3, 8–10 dove si parla di un figlio di Alcibiade (di cui non si fa il nome), amato da Critobulo figlio di Critone (quello stesso Critobulo che è amante di Clinia nel Simposio di Senofonte). Cobet (1836), 60–61 proponeva di correggere τὸν Ἀλκιβιάδου υἱόν in τὸν Ἀξιόχου υἱόν, il che permetterebbe di identificare questo amante di Critobulo con Clinia figlio di Assioco. Secondo Dorion (2000), 130 n. 209 la correzione non è da accogliere perché non è confermata da PHeid. 206. L’argomento non è stringente, nonostante l’antichità del papiro (prima metà del III a.C.). Va piuttosto tenuto presente che, se si adotta questa soluzione, i passi da correggere sono due, in quanto l’espressione τὸν Ἀλκιβιάδου υἱόν è ripetuta due volte in pochi righi. Anche questo, però, in teoria non è un problema del tutto insormontabile: una volta corrotto il primo passo, infatti, era facile che il secondo fosse adeguato al primo.480 Se, invece, si accetta il testo tràdito si profilano le seguenti possibilità: 1) pensare ad un errore di Senofonte (così Davies (1971), 17); 2) pensare che l’amasio del Critobulo dei Memorabili non sia lo stesso del Critobulo del Simposio (cf. Huß (1999), 227). Se si segue la seconda possibilità la spiegazione più plausibile è che si faccia riferimento ad Alcibiade figlio di Alcibiade (cf. Nails (2002), 21 e 101). Sembra, invece, poco plausibile l’idea di Dorion (2000), 130 n. 209 di postulare l’esistenza di un figlio di Alcibiade di nome Clinia: di un figlio di Alcibiade di nome Clinia non si hanno altre notizie. Da Diog. Laert. V 87 sappiamo che Eraclide Pontico fu autore di un Clinia in un libro (fr. 62 Wehrli = fr. 1, 23 Schütrumpf; cf. anche fr. 17 Schütrumpf, n. 12). È verosimile che si trattasse di un dialogo, ma è difficile dire chi fosse il Clinia in questione. Non ci sono elementi concreti per pensare che si trattasse di Clinia fratello di Alcibiade come suggerito da Schmidt (1867), 14–15; Hirzel (1895), 322 e n. 2; Wehrli (1953), 81 e Mejer (2009), 32 n. 13. Nel testo di Diogene Laerzio, subito prima, è ricordato un Ἐρωτικός, separato dal successivo Κλεινίας da un καί. Gigante (19762), 521 n. 188 proponeva di mutare il καί in ἤ: Ἐρωτικὸς ἢ Κλεινίας α´ (sulla facilità dello scambio καί/ἤ cf. Lapini (2016), 170–171 e n. 2). È sospetto, in effetti, che nella sezione degli scritti etici di Eraclide soltanto dell’’Ερωτικός non sia indicato il numero del libro (cosa che induceva Marcovich ad integrare dopo Ἐρωτικός). La proposta di Gigante è stata

480 Tuttavia, se proprio si deve intervenire sul testo, preferirei un’altra soluzione, ossia τὸν Ἀλκιβιάδου υἱόν (cf. Plat. Euthyd. 275a-b, Ἔστι δὲ οὗτος [scil. Clinia] Ἀξιόχου μὲν ὑὸς τοῦ Ἀλκιβιάδου τοῦ παλαιοῦ). Assioco è figlio di Alcibiade, nonno del più noto Alcibiade.

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accolta da Schütrumpf (2008), 61 n. 7, il quale rimanda al titolo di un’altra opera di Eraclide, il περὶ τοῦ ῥητορεύειν ἢ Πρωταγόρας (Diog. Laert. V 88 = fr. 33 Wehrli = fr. 1, 60 Schütrumpf; cf. anche fr. 17 Schütrumpf n. 49). Questa scelta non è invece seguita da Dorandi (2013), 401 il quale distingue l’Ἐρωτικός dal Κλεινίας α´. Da Ath. XIII 602a (= fr. 65 Wehrli = fr. 37 Schütrumpf) si ricava che Eraclide Pontico parlava dell’amore di Caritone e Melanippo ἐν τῷ περὶ ἐρωτικῶν. Non ci sono, invece, fonti che riportino il nome doppio Erotico o Clinia. Se si accetta la correzione di Gigante, l’ipotesi di vedere nel Clinia del titolo il figlio di Assioco acquista verosimiglianza, tenuto conto del fatto che il giovane Clinia è rappresentato come ἐρώμενος sia in Platone sia in Senofonte (e nello stesso pseudo-Platone). In ogni caso, ci si può aspettare che Clinia figlio di Assioco comparisse anche in opere non più conservate (cf. Huß (1999), 227). Diversamente da Assioco e da Carmide non sembra che Clinia sia stato coinvolto nello scandalo della profanazione dei misteri. Forse al tempo era ancora un bambino (cf. Nails (2002), 100). Nell’Assioco Clinia è un giovane che segue le lezioni di musica di Damone ed intrattiene un rapporto amoroso con Carmide (sul problema posto da questo rapporto cf. il commento a 364a6-b1). Lo si può immaginare come un efebo tra i 18 e i 20 anni (cf. Joyal (2005), 99), il che sembra produrre una certa coerenza con la presumibile età del Clinia storico all’altezza cronologica della data drammatica dell’Assioco. Sia in Platone sia in Senofonte Clinia spicca per la sua bellezza: è l’ἐρώμενος per eccellenza (cf. e.g. Plat. Euthyd. 273a e Xen. Symp. 4, 12–16). Il Clinia dell’Assioco appare come un giovane rispettoso della morale tradizionale, non particolarmente brillante (cf. il commento a 364c3 e a 364c7). Si tratta in ogni caso di una figura secondaria la cui funzione è soltanto quella di avviare l’azione. Nel resto del dialogo Clinia non interviene mai, eppure verosimilmente assiste a tutta la conversazione tra Socrate e Assioco (così come Damone e Carmide, veri e propri κωφὰ πρόσωπα).481 364a4 Ἀξιόχου: zio di Alcibiade per parte paterna, Assioco del demo di Scambonide nacque verosimilmente nella prima metà degli anni ’50 del V secolo (cf. Bicknell (1982), 242 e Nails (2002), 63; sulla genealogia cf. Nails (2002), 64–66). Nel 415 fu coinvolto nello scandalo della profanazione dei misteri e per questo andò in esilio (cf. And. Or. 1 (De mysteriis), 16). Quando Alcibiade durante la spedizione in Sicilia fu convocato ad Atene per essere processato e in seguito fu condannato a morte in contumacia, con lui c’erano anche altri Ateniesi (cf. Thuc. VI 53, 1 e VI 61, 7). Si può ipotizzare

481 Può essere interessante ricordare che in alcuni manoscritti della recensio Plethonis il titolo del dialogo da Assioco diventa Clinia (cf. supra p. 114 n. 296).

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che Assioco fosse tra costoro (in questa direzione sembra andare Nails (2002), 63; una simile ipotesi è stata fatta per Adimanto da MacDowell (1962), 76).482 Il nome di Assioco si trova insieme a quello di altri condannati per la profanazione dei misteri e lo scandalo delle Erme nelle liste dei beni confiscati e venduti dai πωλῆται tra il 415 e il 413 (IG I3, I, 422, 193– 203; IG I3, I, 424, 10–14; IG I3, I, 426, 108–111 e 125; IG I3, I, 427, 46–85; per la datazione di queste liste cf. Pritchett (1953), 232–234). Da queste liste è possibile farsi un’idea, ancorché approssimativa, del patrimonio di Assioco (cf. Davies (1971), 17; Aurenche (1974), 128–130 e Nails (2002), 63– 64). È possibile che Assioco fosse nuovamente ad Atene nel 407/6: da un’epigrafe databile a questi anni risulta, infatti, che un personaggio di nome Assioco propose all’assemblea un decreto a favore di Neapoli di Tracia (cf. IG I3 101, 48 = 187, 48 Osborne-Rhodes). Non si può essere sicuri che si tratti proprio del nostro Assioco in quanto il nome non è accompagnato né dal patronimico né dal demotico, ma l’identificazione è generalmente accettata (cf. Andrewes (1953), 7; Meiggs, Lewis (1969), 274; Davies (1971), 16–17; Nails (2003), 64 e Osborne, Rhodes (2017), 530). In questo caso è molto verosimile che egli sia rientrato ad Atene a seguito dell’amnistia decretata nel 411 per favorire il rientro di Alcibiade e che fu estesa anche ad altri che erano con lui (cf. Thuc. VIII 97, 3; sul quadro politico in cui si inserisce il rientro di Alcibiade cf. Canfora (20123), 357–364). D’altra parte, Alcibiade non rientrò subito ad Atene, ma aspettò il 408 o il 407 (cf. Xen. Hell. I 4, 10–11; sull’incertezza intorno alla fissazione di questa data cf. Bearzot (1997b), 36 e n. 22). È dubbio, dunque, se Assioco sia rientrato subito dopo la concessione dell’amnistia del 411 (non necessariamente nel 411, come invece afferma Davies (1971), 16) o piuttosto abbia aspettato di rientrare con il nipote nel 408/7 (come ritengono Meiggs, Lewis (1969), 274 e Osborne, Rhodes (2017), 530; in questa direzione sembrano andare anche Andrewes ap. Gomme, Andrewes, Dover (1981), 340 (ad Thuc. VIII 97, 3) e Nails (2002), 64). Se Assioco rientrò ad Atene prima del nipote, è possibile che fosse tra quei parenti e amici di Alcibiade che sul molo aspettavano insieme ad Eurittolemo che Alcibiade sbarcasse (Xen. Hell. I 4, 19). Non sarebbe sorprendente che Assioco avesse svolto una parte attiva nella vita politica ateniese dopo il suo rientro (anche senza voler pensare ad Alcibiade,

482 Va comunque tenuto presente che la lista delle persone incriminate per la profanazione dei misteri è molto folta (cf. Ostwald (1986), 539), cosa che non permette di restringere necessariamente ad Adimanto e ad Assioco l’identificazione di coloro che erano in Sicilia con Alcibiade.

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lo stesso Adimanto, che era stato implicato nello scandalo dei misteri e a sua volta era stato condannato in contumacia, si vide in seguito nominare stratego: cf. Xen. Hell. I 4, 21-22, cf. inoltre MacDowell (1962), 76 e Canfora (20123), 366). Da un frammento di un’orazione perduta di Lisia (Ath. XII 534f-535a e XIII 574e = fr. 8 Carey)483 apprendiamo che Alcibiade e lo zio Assioco, recatisi ad Abido, avrebbero entrambi goduto dei favori di un’etera del posto, tale Medontide.484 A costei sarebbe nata una figlia, che per ovvie ragioni non si sapeva se fosse figlia di Alcibiade o di Assioco. In seguito, i due compagni di débauche avrebbero avviato con la figlia dell’etera lo stesso rapporto che in precedenza avevano avuto con la madre: a seconda che la ragazza stesse con Alcibiade o con Assioco, l’uno diceva che era figlia dell’altro e viceversa. L’aneddoto è con ogni probabilità una calunnia inventata dalla propaganda ostile ad Alcibiade (cf. Hatzfeld (1951), 61 e Gribble (1999), 75–76). Tuttavia, per essere plausibile l’aneddoto doveva ancorarsi a fatti storici ben riconoscibili dall’opinione pubblica (cf. Bicknell (1982), 242). Ciò che l’aneddoto presuppone sono due soggiorni di Alcibiade ed Assioco ad Abido e, tra il primo e il secondo soggiorno, un lasso di tempo sufficientemente lungo perché la figlia di Medontide potesse sostituire la madre nella relazione con i due. In genere si ritiene che il primo soggiorno abideno si sia verificato prima dello scoppio della guerra del Peloponneso, più o meno quando Alcibiade raggiunse la maggiore età (cf. Hatzfled (1951), 60–61 e Bicknell (1982), 241). Ciò sembra confermato da una testimonianza di Antifonte, il quale nelle Κατ’ Ἀλκιβιάδου Λοιδορίαι alludeva ad un viaggio compiuto da Alcibiade ad Abido per apprendere i licenziosi costumi delle donne abidene, precisando che il viaggio avvenne una volta che Alcibiade ebbe raggiunto la maggiore età (cf. Ath. XII 525b-c = fr. 67 Thalheim).485 Alcibiade nacque nel 451 (cf. Nails (2002), 10–13), dunque raggiunse la maggiore età nel 433. Non si hanno altre notizie della presenza di Alcibiade sulle coste dell’Asia Minore fino agli anni compresi tra il

483 Gribble (1999), 150–151 ritiene che quest’orazione non fosse autenticamente lisiana ma un falso più tardo. 484 In Ath. XIII 574e si aggiunge il particolare per cui Assioco sarebbe stato anche innamorato del nipote. 485 Da IG I3, I, 427, 78 sembra che si possa ricavare che Assioco aveva delle proprietà ad Abido. Ciò depone ulteriormente a favore del fondo di verità che si cela dietro la storiella conservata da Ateneo e aiuta a comprendere in un’ottica non maliziosa il viaggio di Assioco e Alcibiade ad Abido prima dello scoppio della guerra (Assioco si sarebbe recato ad Abido per controllare le sue proprietà: cf. già Aurenche (1974), 129).

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411 e il 409 quando egli prese parte alle operazioni militari che si svolsero anche intorno ad Abido. È, dunque, verosimile che proprio in questo torno di tempo stia il retroterra storico del secondo viaggio abideno dell’aneddoto licenzioso lisiano. Dal primo viaggio di Assioco e di Alcibiade ad Abido, infatti, sarebbero passati più di vent’anni, un tempo più che sufficiente perché i due potessero avviare un rapporto amoroso con la figlia di Medontide. In questa direzione sembra andare anche la testimonianza di Plutarco (Alc. 36, 1–2), secondo cui all’indomani della battaglia di Notion (407), Trasillo fece circolare ad Atene la notizia per cui Alcibiade avrebbe trascurato i suoi doveri di comandante per intrattenersi con cortigiane di Abido e della Ionia. Se dunque l’aneddoto sulla débauche di Alcibiade e Assioco presuppone queste coordinate cronologiche, se ne può dedurre l’effettiva presenza di Assioco in Ionia a fianco del nipote negli anni tra il 411 e il 409. L’ultima notizia in nostro possesso sulla vita di Assioco (che è, dunque, anche il terminus post quem per la data della morte) viene proprio dall’Assioco, ossia la presa di posizione di Assioco a favore degli strateghi nel processo del 406 (cf. il commento a 369a1-2). Nei dialoghi platonici Assioco è menzionato soltanto di sfuggita come padre di Clinia (Euthyd. 271b e 275a). Non è chiara, dunque, la ragione per cui cui lo pseudo-Platone avrebbe ripreso un personaggio decisamente secondario dei dialoghi. Il Cefalo della Repubblica, ad esempio, sarebbe stato estremamente adatto all’argomento del dialogo (cf. il commento a 364b7 e a 365a5). È molto verosimile che la scelta del personaggio di Assioco sia stata condizionata dal modo in cui Assioco era presentato in fonti che noi non abbiamo più. La cosa più naturale a cui pensare è ovviamente la possibile (ma non verificabile) influenza dell’Assioco di Eschine di Sfetto (cf. supra p. 25 e il commento a 364a4-5). Secondo Nails (2002), 327 nel nostro dialogo «the muddled indicators for a dramatic date are that Axiochus has been unwell, but he is not necessarily old». Tuttavia, a 365b2 Assioco è qualificato come τοσόσδε τῷ χρόνῳ, cioè di età avanzata (cf. il commento ad loc.). L’Assioco storico, all’altezza cronologica in cui è ambientato il dialogo, doveva essere intorno ai 50 anni. Si può discutere se un uomo di 50 anni poteva essere defintio τοσόσδε τῷ χρόνῳ. In ogni caso, anche altrove lo pseudo-Platone commette degli anacronismi relativi all’età dei personaggi (cf. il commento a 364a6-b1). 364a4 ἐπὶ Καλλιρρόην: per una raccolta di testimonianze sulla fonte Calliroe cf. Wycherley (1957), 137–142. Di solito la si colloca nel tratto dell’Ilisso a Sud-Est dell’Olympieion (cf. Marchiandi, Mercuri ap. Greco (2011), 477–479). Controversa è l’identificazione della fonte Calliroe con la

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Enneakrounos, la fontana fatta erigere dai tiranni.486 Nel nostro dialogo Socrate vede Clinia che corre verso la fonte Calliroe. Ciò implica che la strada che Socrate sta percorrendo conduceva sia al Cinosarge sia alla fonte Calliroe (cf. Wycherley (1957), 137). Come il Cinosarge, la fonte Calliroe non è mai menzionata nei dialoghi platonici. Männlein-Robert (2012), 62 n. 9 spiega la scelta della menzione della fonte ricordando che Calliroe è presente nel gruppo di fanciulle che circondano Persefone in h.Hom. II 419. Ma la Calliroe menzionata nell’inno omerico è un’Oceanina (cf. Hes. Th. 351) che, così come la fonte, in genere non è associata all’Aldilà (cf. Latte (1919), 1668 e Kroll (1919), 1669– 1672). Inoltre, a ben vedere, in h.Hom. II Calliroe si trova sì in compagnia di Persefone, ma ciò avviene esattamente prima del suo rapimento da parte di Ade, ragion per cui il legame tra le due non riguarda la vita infera di Persefone. Non ci sono, dunque, nessi effettivi tra la Calliroe del mito e il tema del dialogo (la morte). Come nel caso dell’Ilisso (più dubbio quello del Cinosarge: cf. il commento a 364a1), l’autore ha menzionato la fonte Calliroe in quanto celebre punto di riferimento della zona meridionale di Atene (cf. Marchiandi, Mercuri ap. Greco (2011), 476: «La fonte Kallirrhoe … rimase celebre fino all’avanzata età romana, a costituire uno dei cardini topografici di Atene nell’immaginario collettivo»). 364a4–5 μετὰ Δάμωνος τοῦ μουσικοῦ: figlio di Damonide del demo di Oa (sul problema del demo di origine di Damone, oscillante nelle fonti tra Oa ed Oe, entrambi esistenti, cf. Wallace (2015), 108–110), Damone nacque verosimilmente nei primi anni del V secolo (cf. Nails (2002), 121 e Wallace (2015), 186–193). Dedito prevalentemente a studi musicali, Damone fu uno degli intellettuali più in vista nell’Atene del suo tempo: basta pensare all’influenza esercitata da Damone sulla teoria platonica delle ἁρμονίαι (cf. e.g. Plat. Rp. III 399e–400b e IV 424c) e alla notizia secondo cui Damone fu consigliere politico di Pericle (cf. e.g. Plut. Per. 4, 1–4). Su questi aspetti del profilo intellettuale di Damone cf. Piccirilli (1993), 133– 158; Brancacci (2001), 137–148 e Wallace (2015), con raccolta delle testimonianze antiche su Damone alle pp. 107–181. Secondo Aristotele (Ath. 27, 4) un certo Damonide di Oa avrebbe consigliato a Pericle l’introduzione della μισθοφορά per i dicasti. Questo legame politico con Pericle, sempre secondo Aristotele, gli avrebbe procurato l’ostracismo. Che il Damonide di cui parla Aristotele sia in realtà il nostro Damone sembra certo (sono stati ritrovati ostraka con su scritto ΔΑΜΟΝ

486 Cf. Wycherley (1957), 137; Travlos (1971), 204; Fantasia (2003), 309; Marchiandi, Mercuri ap. Greco (2011), 477–479.

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ΔΑΜΟΝΙΔΟ: cf. Wallace (2015), 135–136). Forse Aristotele ha confuso il nome del padre con quello del figlio (l’errore da Aristotele sarebbe passato a Plut. Per. 9, 2; su tutta la questione cf. Rhodes (1981), 341–342 e Wallace (2015), 118–119 e 186–187). L’ostracismo di Damone avvenne intorno al 440 (cf. Wallace (2015), 186–193). Dopo alcuni anni verosimilmente Damone rientrò ad Atene. La sua presenza in città, infatti, è presupposta da dialoghi platonici come la Repubblica e il Lachete ambientati durante la guerra del Peloponneso (cf. Wallace (1992), 333 e n. 18). Controversa è la data della morte. L’ipotesi più verosimile pare quella per cui nel 415, al tempo della profanazione dei misteri, Damone era ancora vivo (cf. Wallace (1992), 333; contra e.g. Nails (2002), 121). Damone è spesso menzionato nel CP (cf. e.g. Plat. Alc. I 118c; Lach. 180d; 197d; 200a-b e Rp. III 400b e IV 424c). Tuttavia, nel CP Damone non è mai messo in relazione con Clinia, Assioco o Carmide, come nell’Assioco. Ora, Assioco e Carmide furono implicati nello scandalo della profanazione dei misteri. Damone, invece, era stato sposato con quella Agariste che denunciò alcune delle persone coinvolte in quel fatto: cf. And. Or. 1 (De mysteriis), 16. Nell’Assioco, dunque, sono riuniti tre personaggi che a vario titolo erano stati toccati da quell’affaire. Siccome l’autore del dialogo sicuramente non fu contemporaneo di quei fatti (cf. supra pp. 22-26 e p. 84), pare ragionevole la conclusione di Wallace (2015), 132: «It seems unlikely that the author of Axiochos invented this group. Rather, it will have derived from an intermediate literary source». Wallace (2015), 94–95 e 131–132 ipotizza che lo pseudo-Platone dipenda da informazioni contenute nel Περὶ μουσικῆς di Eraclide Pontico (ma si potrebbe pensare anche al Clinia, su cui cf. il commento a 364a3). Tuttavia, il problema di ipotizzare Eraclide come fonte di informazioni prosopografiche attendibili su personaggi del V secolo è che bisogna individuare almeno anche un’altra fonte intermedia, essendo Eraclide nato intorno al 384 a.C. Da questo punto di vista l’ipotesi dell’Assioco di Eschine di Sfetto (il quale fu contemporaneo di Platone) è molto più semplice. 364a5 Χαρμίδου: zio di Platone per parte di madre, Carmide nacque intorno al 446 (cf. Nails (2002), 90–91 e 244). Rimase coinvolto nella profanazione dei misteri del 415 che ebbe luogo proprio nella casa di Carmide ubicata nei pressi dell’Olympieion (cf. And. Or. 1 (De mysteriis), 16; per la prossimità topografica con l’abitazione di Assioco cf. il commento a 365a1). Gli eventi successivi a questo coinvolgimento nello scandalo non sono noti. Tuttavia, è verosimile che Carmide, così come gli altri personaggi coinvolti, abbia abbandonato Atene, sia stato condannato a morte in contumacia e i suoi beni siano stati confiscati (cf. Wallace (1992), 330:

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«how could the mysteries be performed in a person’s house and he know nothing of it?»; cf. inoltre Nails (2002), 91). In Xen. Symp. IV 31 Carmide dice di essere stato ricco un tempo, ma di aver perduto tutte le sue sostanze. In genere si pensa ad un riferimento a danni subiti durante la guerra (cf. e.g. Ollier (1961), 115 e Huß (1999), 261). Non si possono escludere, però, le conseguenze giudiziarie dell’affaire della profanazione dei misteri (cf. Nails (2002), 92). Come per Assioco, si può ipotizzare che Carmide sia rientrato ad Atene in seguito all’amnistia del 411 (cf. il commento a 364a4). Con l’ascesa al potere dei Trenta, Carmide fu cooptato nella magistratura dei Dieci posta a governo del Pireo nel 404/3. Nel 403 cadde combattendo per i Trenta nella battaglia di Munichia (cf. Xen. Hell. II 4, 19). Fu una figura di spicco della cerchia socratica: oltre che nel dialogo che da lui prende il nome, Carmide appare in Plat. Prot. 315a ed è menzionato in Plat. Symp. 222b e in [Plat.] Theag. 128d-e; Senofonte lo ricorda in Xen. Mem. III 6, 1 e III 7, oltre a farne, come si è detto, uno dei personaggi del suo Simposio (cf. Huß (1999), 77–78). Sia in Platone sia in Senofonte talvolta Carmide è menzionato per ragioni erotiche come nel nostro passo (cf. Plat. Charm. 154b-c e Xen. Symp. 8, 2). Nell’Assioco Carmide è anacronisticamente rappresentato come coetaneo del giovane Clinia (cf. il commento a 364a6-b1): all’altezza cronologica della data drammatica dell’Assioco Carmide doveva già essere sulla quarantina. 364a5 τοῦ Γλαύκωνος: Glaucone, padre di Carmide e di Perittione, a sua volta madre di Platone (cf. Diog. Laert III 1). Il Glaucone fratello di Platone ha un ruolo importante nella Repubblica. Al contrario, il nostro Glaucone, sia in Platone sia in Senofonte, è sempre menzionato solo come padre di Carmide (cf. Plat. Prot. 315a e Symp. 222b; [Plat.] Theag. 128d-e; Xen. Hell. II 4, 19 e Mem. III 6, 1 e III 7, 1) o come zio di Crizia (Plat. Charm. 154b): cf. Nails (2002), 154 e 244. 364a5 ἤστην δὲ αὐτῷ: A aveva scritto αὐτώ, corretto da A2 in αὐτῷ; Vv hanno αὐτῶν; su V αὐτῶν è stato corretto in αὐτῷ; l’imitazione del FM ha ἤστην δὲ ἄμφω προσφιλεστάτω ἐμοὶ ὅτι μάλιστα: la compresenza di ἄμφω e di ἐμοί rende difficile capire se il modello aveva il duale (αὐτώ) o il dativo (αὐτῷ). In ogni caso, il dativo è necessario: infatti, se Damone può essere definito in senso assoluto διδάσκαλος τῶν κατὰ μουσικήν, Carmide può essere definito ἐραστὴς ἅμα καὶ ἐρώμενος soltanto in relazione a qualcuno. 364a6 ἐξ ἑταιρείας: la stessa appartenenza ad un gruppo socio-politico della società ateniese della fine del V secolo ha reso possibile il legame tra Clinia e Carmide (cf. anche Männlein-Robert (2012), 62 n. 10; la nozione di “eteria” è estremamente complessa e varia nel corso del tempo: cf. Nicolai (2008), 3–31). Questa specificazione non strettamente necessaria sembra

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Commento

presupporre una più articolata trama di rapporti tra i nostri personaggi. Forse lo pseudo-Platone aveva in mente una fonte che dava maggiori informazioni al riguardo (cf. anche supra pp. 24-25 e il commento a 364a4–5). 364a6-b1 ἐραστὴς ἅμα καὶ ἐρώμενος: Carmide è indicato come amante e allo stesso tempo come amasio di Clinia. Si tratta di un’indicazione abbastanza curiosa (cf. già Wolf ap. Fischer (1786), 223: «Significatur, ut opinor, mutuus inter illos amor, etsi verba satis perplexa sunt, atque incertum, uter fuerit amator, Cliniane, an Charmides? Et uter amasius?»). Convenzionalmente, l’ἐραστής è più anziano dell’ἐρώμενος. L’espressione si può spiegare se si pensa che agli occhi dell’autore Clinia e Carmide erano coetanei e l’uno era allo stesso tempo amante e amasio dell’altro (in questa direzione va Nails (2002), 327; Joyal (2005), 99, invece, sembra prendere ἐρώμενος come pura e semplice ripetizione di ἐραστής). Secondo Dover (1978), 87: «One could be erastes and eromenos at the same stage of one’s life, but not both in relation to the same person» (cf. anche Hubbard (2014), 137–138). Ma il nostro passo attesta precisamente il contrario (cf. anche Wallace (2015), 131 n. 34). In ogni caso, si tratta di una relazione anacronistica (cf. anche Nails (2002), 327): al tempo della data drammatica del dialogo Carmide aveva già circa 40 anni (cf. il commento a 364a5) e Clinia verosimilmente tra i 18 e i 20 anni (cf. il commento a 364a3). Carmide poteva essere ἐραστής, ma non anche ἐρώμενος di Clinia. In generale sugli anacronismi nei dialoghi platonici e socratici cf. Joyal (2000), 155 n. 76 (con ulteriore bibliografia). FM ha accuratamente evitato di riprendere questo riferimento ad un rapporto omosessuale (cf. anche Tarán (1992), 211). 364b1 τῆς εὐθὺ ὁδοῦ: l’uso attributivo dell’avverbio εὐθύ, nel senso di “diritto”, “in linea retta”, è insolito. Ci si sarebbe aspettati qualcosa come τῆς ἐς τὸ εὐθὺ ὁδοῦ (cf. e.g. Luc. 63 (Zeux.), 10), o τῆς ἐπ’ εὐθὺ ὁδοῦ (cf. e.g. Xen. Eph. II 14, 1). Richards (1901), 445 n. 1 suggeriva di scrivere τῆς εὐθὺ ὁδοῦ (ma si potrebbe pensare anche a τῆς εὐθὺ ὁδοῦ). D’altra parte, non si può del tutto escludere un guasto più grave: e.g. τῆς εὐθὺ ὁδοῦ (cf. e.g. Eur. Hip. 1197, τὴν εὐθὺς Ἄργους κἀπιδαυρίας ὁδόν; in generale su quest’uso di εὐθύ cf. Richards (1901), 442–445; Schwyzer II 105, 549 e Martinelli Tempesta (2003), 232). Curiosamente FM scrive: ἔδοξεν οὖν μοι ἀφεμένῳ τῆς ἐπὶ θαλάττης ὁδοῦ ἀπαντῆσαι αὐτοῖς. Il riferimento al mare (ἐπὶ θαλάττης) si trovava già in apertura, proprio in corrispondenza dell’ἐς Κυνόσαργες dell’Assioco (Ἐξιόντι μοί ποτε τὴν πύλην Ῥηγίου τὴν ἐπὶ θάλατταν ἄγουσαν). Ciò potrebbe far pensare ad una ripetizione del riferimento al Cinosarge nel testo dell’Assioco letto da FM. Tuttavia, per una costruzione simile con avverbio attributivo cf. 364b7, τὸν πρόσθεν χρόνον.

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364b2 ὅπως ῥᾷστα ὁμοῦ γενοίμεθα: si può avere il sospetto che si debba scrivere ὅπως ῥᾷστα ὁμοῦ γενοίμεθα (“il più rapidamente possibile”: cf. già le traduzioni di Hershbell (1981): «as quickly as possible» e MännleinRobert (2012): «so leicht wie möglich», i quali però non sospettano un guasto). Si tratta ovviamente di una corruttela facile e diffusissima: cf. e.g. Isocr. Or. 4 (Panegyricus), 126; 174; Or. 12 (Panathenaicus), 188; cf. inoltre e.g. Antipho Or. 6 (De saltatore), 13 (integrazione di Blass); Xen. An. IV 6, 10 (integrazione di Hutchinson). Per l’espressione ὁμοῦ γίγνεσθαι (“congiungersi”, “riunirsi”) cf. e.g. Xen. Hell. IV 5, 15; VI 5, 16-17 e 23; VII 5, 14. 364b3 Σώκρατες: secondo Joyal (2005), 100 n. 14 l’omissione dell’interiezione ὦ esprime l’agitazione di Clinia (in generale per l’idea che l’assenza dell’interiezione esprima uno stato di agitazione cf. e.g. Gildersleeve (1900), 7; Humbert (19933), 296 e KC I 105). A prescindere dal vocativo con anadiplosi (364a2, con il commento ad loc.), nell’Assioco sono presenti altri 22 vocativi. Al netto di possibili guasti di tradizione, si osserva che lo pseudo-Platone utilizza prevalentemente il vocativo con interiezione (15 volte), mentre non utilizza l’interiezione le 3 volte in cui il vocativo è in prima posizione. Ci sono poi 4 casi di vocativo senza interiezione non in prima posizione. In genere si ritiene che la Erststellung del vocativo permetta di esprimere a sua volta un certo grado di agitazione del parlante: cf. e.g. Gildersleeve (1900), 7; KC I 106 e Joyal (2000), 196 (ad [Plat.] Theag. 121a). Ciò sembra confermare l’idea che lo pseudo-Platone utilizzi il vocativo senza interiezione con una particolare funzione espressiva. Tuttavia, questa idea di una funzione espressiva legata alla presenza o all’assenza dell’interiezione è stata messa in discussione da Dickey (1996), 199–203. Secondo la studiosa l’impiego dell’interiezione è semplicemente un uso letterario classico che declina progressivamente a partire dall’età ellenistica, tranne in casi di stretta imitazione dell’uso classico (cf. Dickey (1996), 206). In questa prospettiva è comunque interessante osservare che la percentuale di vocativi con interiezione dell’Assioco (70/75%) è nettamente inferiore a quella rilevata per Platone, dove si arriva al 98% (Dickey (1996), 201; per Dodds (1959), 285–286 (ad Plat. Gorg. 489a) l’assenza dell’interiezione è inammissibile in Platone). 364b3–4 νῦν καιρὸς ἐνδείξασθαι: A ha ὁ καιρός, mentre Vv hanno καιρός (la lezione καιρός senza articolo si trova anche su Laur. 85.9 e su F, apparentemente in modo del tutto indipendente da Vv). Solitamente quando καιρός è costruito con l’infinito non è presente l’articolo (cf. e.g. Xen. An. IV 6, 15, νῦν οὖν μάλα σοι καιρός ἐστιν ἐπιδείξασθαι τὴν παιδείαν, D.H. AR. III 71, 2, νῦν, ἔφη, καιρὸς ἐπιδείξασθαί σε τὴν ἀκρίβειαν τῆς μαντικῆς ἐπιστήμης, cf. anche Holzinger von Weidich (1940), 93; ma già Boeckh

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Commento

(1810), xxxvi). Si trova anche la costruzione con l’articolo, ma sembra un fenomeno prevalentemente poetico (cf. e.g. Aeschl. Ch. 710–711; Aristoph. Th. 661; Pl. 255). Si può inoltre avere il sospetto che si debba scrivere ἐπιδείξασθαι in luogo di ἐνδείξασθαι (cf. Xen. An. IV 6, 15 e D.H. AR. III 71, 2 citati in questo lemma). L’errore si verifica in entrambe le direzioni (cf. e.g. Isocr. Or. 2 (Ad Nicoclem) 19; Or. 10 (Helenae encomium) 64). In ogni caso non credo che qui si debba vedere un’allusione alle ἐπιδείξεις sofistiche, come invece suggerisce Erler (2012), 102. 364b4 τὴν ἀεὶ θρυλουμένην πρὸς σοῦ σοφίαν: il complemento d’agente con πρός + genitivo ricorre anche in 365b4 e 371e5 (cf. Brinkmann (1896), 453; Chevalier (1915), 44; Meister (1915), 34; Joyal (2005), 101; MännleinRobert (2012), 62–63 n. 11 e Menchelli (2016), 120 n. 94; in generale su questo fenomeno cf. KG II.1, 517). Hershbell (1981), 54 n. 3 osserva: «The phrase means something like the “wisdom attributed to you” or “your much talked-about (by others) wisdom”». Ma in questo caso bisognerebbe correggere πρός in περί: τὴν ἀεὶ θρυλουμένην περὶ σοῦ σοφίαν (cf. Wolf ap. Fischer (1786), 224 e Burges (1854), 39 n. 3, ma già Agricola traduceva «vulgatam de te sapientiam»). Se si accetta il testo tràdito, il senso propriamente è “la saggezza di cui tu, Socrate, parli in continuazione”. In Plat. Ap. 20d-e Socrate dice di possedere una ἀνθρωπίνη σοφία (su cui cf. Brancacci (1997), 305–327). Si può pensare che lo pseudo-Platone abbia in mente questo sottotesto (per altri echi dell’Apologia nell’Assioco cf. 366b3–5, con il commento ad loc.). Dalle parole di Clinia la σοφία di Socrate appare quasi come un potere sovrumano: Clinia non ha ben chiaro in cosa consiste veramente la σοφία di Socrate (in un equivoco simile cade anche Assioco: cf. 366b5–6). In generale sul problema della σοφία di Socrate nell’Assioco cf. Joyal (2005). 364b5 ὁ γὰρ πατήρ: A presenta ὁ γὰρ πατήρ, Vv hanno ὁ γάρ μοι πατήρ. Vv presentano un μοι assente su A anche in 365b7 e in 365c4. In generale è inverosimile che per tre volte la linea tradizionale di A abbia omesso senza una chiara ragione il pronome μοι. È molto più ragionevole pensare che si tratti di microinterpolazioni di Vv, i quali riflettono una recensione dotta molto interpolata (cf. supra pp. 95-100). In questo caso specifico il dativo non è necessario: è evidente dal contesto che il padre in questione è il padre di chi parla (cf. e.g. Demosth. Or. 27 (In Aphobum 1), 9; Or. 28 (In Aphobum 2), 15). 364b5 ἔκ τινος †ὥρας† αἰφνιδίου: la locuzione ἐκ + genitivo può avere sia funzione temporale sia funzione causale (cf. LSJ s.v. ἐκ II e III.6). Tuttavia, non risultano analoghe espressioni temporali con ὥρα (cf. LSJ s.v. ὥρα; ma cf. già Stephanus (1578), 71 Ann.). Inoltre, ciò che ci si aspetta è piutto-

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sto che Clinia menzioni la causa del malessere del padre (cf. 364c7–8; 365a2–5 e 370e3–4; ciò era già stato intuito da Rinuccio: «graviorique quadam valetudine», e da Ficino: «repentino quodam et intolerabili morbo»). Tuttavia, non convince il tentativo fatto da Fischer (1786), 112 (ripreso ancora da Souilhé (1930), 137–138 n. 2) di attribuire a ὥρα il senso di “malattia”, “evento negativo”. Per Wilamowitz (1895), 983 n. 2 si tratta di un volgarismo, ma i confronti da lui addotti non sono stringenti. Il passo è con ogni verosimiglianza corrotto. Diverse sono le proposte di correzione finora avanzate: ἔκ τινος ὥρας μεταβολῆς αἰφνιδίου (Stephanus (1578), 71 Ann.); πρὸ ὥρας τοῦ βίου (Clotius (1758), 595); ἔκ τινος συμφορᾶς αἰφνιδίου (Fischer (1786), 111 sulla base della traduzione del Cornarius); ἔκ τινος ὡρακίας αἰφνιδίου (Hermann (1853), xii, seguito da Immisch (1896), 21: «emendatio palmaris»); ἔκ τινος νόσου αἰφνιδίου (Bury (1939), 34); ἔκ τινος ὥρας {αἰφνιδίου} (O’Neil ap. Hershbell (1981), 54 n. 4, seguito da Hutchinson ap. Cooper, Hutchinson (1997), 1735). Per una discussione dettagliata di queste proposte cf. Beghini (2017b), 262–267. In passato ho pensato di correggere in ἔκ τινος ἀρρωστίας αἰφνιδίου, “a causa di una malattia improvvisa” (cf. Beghini (2017b), 268), ma a questa possibilità aveva già cursoriamente pensato Burges (1854), 39–40 n. 4, insieme ad un improbabile ἔκ τινος νόσου φορᾶς. Questa soluzione non può essere esclusa; infatti: 1) il termine ἀρρωστία indica precisamente la malattia (cf. e.g. Epic. Sent. 4 (= Sent. Vat. 3); Philod. Ir. 4, col. X, l. 32 Indelli (in generale cf. van Brock (1961), 272–273); 2) con questo significato il termine è utilizzato in locuzioni causali con ἐκ + genitivo (cf. e.g. Plut. Alex. 56, 2; Plut. Demetr. 32, 5). Per la genesi dell’errore cf. Beghini (2017b), 269–270. Tuttavia, non ci sono ancora ragioni sufficienti per ritenere decisiva questa soluzione (senza contare che non è particolarmente aggraziata la ripetizione che si produrrebbe tra ἀρρωστία e il successivo ἀδυνάτως). Si può pensare ad esempio che ὥρας si sia sostituito ad un termine più appropriato come νόσου (cf. la proposta di Bury citata supra in questo lemma), o αἰτίας, o πάθους (cf. e.g. Eust. 1367, 26–28, in Il. XXIV 602, δοκεῖ δὲ ὁ τῶν παίδων τῆς Νιόβης θάνατος ἐξ αἰτίας λοιμώδους γενέσθαι, ἢ καὶ ἄλλως ἀπὸ αἰφνιδίου πάθους τινός). La sostituzione può essere avvenuta per semplice interferenza concettuale o a causa di una annotazione interlineare: qualcuno, infatti, può aver annotato o semplicemente pensato che il malessere improvviso era dovuto alla stagione dell’anno (cf. e.g. Thuc. VII 47, 2, νόσῳ τε γὰρ ἐπιέζοντο κατ’ ἀμφότερα, τῆς τε ὥρας τοῦ ἐνιαυτοῦ ταύτης οὔσης ἐν ᾗ ἀσθενοῦσιν ἄνθρωποι μάλιστα, ma cf. anche la proposta dello Stephanus citata supra in questo lemma).

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Il problema dell’evento improvviso che destabilizza le certezze della vita è un tema caro alla riflessione etica di età ellenistica (approfondito in particolare dai Cirenaici: cf. e.g. Cic. Tusc. III 13, 28 = I B 59 Giannantoni = adn. 208, 1 Mannebach; cf. inoltre Johann (1968), 63 n. 254 e 69). 364b5 ἀδυνάτως ἔχει: di solito ἀδυνάτως + ἔχω è costruito con l’infinito o con πρός + accusativo nel senso di “non essere in grado di”, “non avere la capacità di”. L’uso assoluto nel senso di “essere debilitato” è raro: cf. e.g. Plut. Pyrr. 15, 8. 364b6 ἀνιαρῶς τε φέρει τὴν τελευτήν: per φέρω + avv. nel senso di “sopportare qualcosa” cf. LSJ s.v. φέρω III.2 (con ἀνιαρῶς cf. e.g. D.H. AR. III 47, 2; Plut. Pyrr. 19, 1; Demosth. 26, 3). Matthiae (1835), 302 correggeva τε in δέ (cf. anche Wilamowitz (1895), 988 n. 1). Ma per il “single τε” che collega “finite clauses” cf. Denniston (19542), 499 (e.g. Thuc. I 13, 1; Xen. An. I 5, 14). 364b6 καίτοι γε: abbastanza rara è la giustapposizione di καίτοι e γε (solitamente si ha καίτοι … γε): in generale cf. Denniston (19542), 564 e Blomqvist (1969), 43–45 (p. 43: «καίτοι γε become more usual in the Hellenistic period, and γε is added to καίτοι more often in Hellenistic prose than before»). Stesso cluster di particelle in 369a1, ma con funzione differente (cf. il commento ad loc.). Qui καίτοι γε dà un senso concessivo al participio. Per Denniston (19542), 559 καίτοι concessivo con participio è «very rare and dubious in classical, but common in later, authors» (cf. anche Blomqvist (1969), 41–43). Ciò vale anche per καίτοι γε + participio. 364b7 διαχλευάζων: forma intensiva, post-classica, del più frequente χλευάζω: cf. e.g. [Demosth.] Or. 50 (Contra Polyclem), 49; Pol. XVIII 4, 4; XXXII 2, 6; XXXVIII 8, 13; Phil. QuGen. II fr. 71a. L’atteggiamento di Assioco ricorda quello di Cefalo: cf. Plat. Rp. I 330d-e, εὖ γὰρ ἴσθι, ἔφη, ὦ Σώκρατες, ὅτι, ἐπειδάν τις ἐγγὺς ᾖ τοῦ οἴεσθαι τελευτήσειν, εἰσέρχεται αὐτῷ δέος καὶ φροντὶς περὶ ὧν ἔμπροσθεν οὐκ εἰσῄει. οἵ τε γὰρ λεγόμενοι μῦθοι περὶ τῶν ἐν Ἅιδου, ὡς τὸν ἐνθάδε ἀδικήσαντα δεῖ ἐκεῖ διδόναι δίκην, καταγελώμενοι τέως, τότε δὴ στρέφουσιν αὐτοῦ τὴν ψυχὴν μὴ ἀληθεῖς ὦσιν. Tuttavia, Cefalo una volta derideva le credenze in punizioni ultramondane, mentre Assioco si faceva beffe della paura della morte tout court. Inoltre, Cefalo muta il suo precedente atteggiamento in ragione del passare dell’età, Assioco per un malessere improvviso. 364b7-c1 τοὺς μορμολυττομένους τὸν θάνατον: il verbo μορμολύττομαι rimanda ai μορμολυκεῖα, maschere teatrali orrorifiche (cf. Aristoph. PCG III.2 frr. 31 e 130), che a loro volta rimandano a Μορμολύκη e a Μορμώ,

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mostruose figure femminili evocate per spaventare i bambini.487 Il verbo μορμολύττομαι significa di solito “spaventare” (cf. e.g. Aristoph. Av. 1245; Plat. Crit. 46c; Xen. Symp. 4, 27; ma cf. Hsch. μ 1668 Latte, μορμολύττεται· φοβεῖται e Σ μ 264 Cunningham, μορμολύττεται· … ταράττεται). Tuttavia, il senso che occorre in questo caso è quello di “temere la morte come si teme uno spauracchio” (cf. Plat. Phaed. 77e: su questo passo cf. Mura (2020), in c. di s.): cf. anche Wolf ap. Fischer (1786), 225–226; Ruhnken (18332), 182; Chevalier (1915), 45; Bonanno (1972), 73 n. 3; Hershbell (1981), 54 n. 5 e Männlein-Robert (2012), 63 n. 14. Si può pensare che μορμολύττομαι nel senso di “temere” sia un’evoluzione post-classica dell’uso del verbo, in qualche modo legata all’evoluzione che ha portato μορμολύττω ad essere utilizzato nel senso di μορμολύττομαι, “spaventare” (cf. Bonanno (1972), 73–74: «il verbo è sempre mediale, μορμολύττειν compare solo in epoca tarda e in ambito grammaticale»). Ciò può essere avvenuto anche per analogia con altri verba timendi (e.g. φοβέω, “spavento” vs. φοβέομαι, “temo”). 364c1 καὶ πρᾴως ἐπιτωθάζων: come il precedente διαχλευάζω anche ἐπιτωθάζω, rispetto a τωθάζω, è post-classico (cf. e.g. App. XIII (BC. I) 110, 514; XIV (BC. II) 67, 278; cf. anche Chevalier (1915), 45 e Meister (1915), 47). Forse con πρᾴως si vuole riprendere il precedente διαχλευάζων attenuando l’impressione di arroganza che poteva risultare dall’atteggiamento derisorio di Assioco, con una nuance di civile moderazione (cf. e.g. Plut. Tranqu. an. 468e, ὁ δὲ τοῖς πράγμασιν ἐθισθεὶς ἐλαφρῶς συμπεριφέρεσθαι καὶ μετρίως εὐκολώτατος ἀνθρώποις ὁμιλεῖν γίγνεται καὶ πραότατος). Tuttavia, è sospetto che πρᾴως si riferisca soltanto a ἐπιτωθάζων e non anche al precedente διαχλευάζων. A ben vedere, ciò che ci si aspetta non è un’attenuazione del senso di διαχλευάζων, bensì una sottolineatura, se non un’amplificazione (per un’endiadi sostanzialmente analoga cf. Phil. Legat. 165, δι’ ἐνίους οἰκέτας τοὺς τωθάζοντας ἀεὶ καὶ χλευάζοντας σὺν αὐτῷ). Per questa ragione Hermann (1853), xii espungeva πρᾴως come glossa di ἀστενακτί. In alternativa, suggeriva di correggere πρᾴως in πάντως (“in ogni modo”). 364c2 ὡς εἴωθας: anche in altre occasioni Socrate si è trovato a dover consolare Assioco (cf. anche Joyal (2005), 107). Socrate è rappresentato come una sorta di “consolatore di professione”. Non si può escludere, tuttavia, che si abbia un riferimento ad una fonte perduta in cui per altre ragioni

487 Cf. Rohde (19074), II 409–410; Gow (1950), 279 (ad Theocr. Id. XV 40); Pellizer (1982), 147–162; Mainoldi (1995), 83 e Neri (2003), 339–340 (ad Erin. fr. 4 Neri), con ulteriore bibliografia.

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Commento

Socrate si era trovato a dover consolare Assioco (cf. anche 364c7–8, con il commento ad loc. e supra p. 25 e n. 57). 364c2 ἀστενακτί: l’avverbio è attestato in poesia (cf. e.g. Aeschl. TrGF III F 307, 2; Aristoph. Ec. 464) e in autori più tardi (e.g. Bas. Spir. 28, 70). 364c2 ἐς τὸ χρεὼν ἴῃ: espressione eufemistica per indicare la morte: cf. e.g. Strab. I 3, 21, ἡνίκα Μίδαν αἷμα ταύρου πιόντα φασὶν ἀπελθεῖν εἰς τὸ χρεών (ricordato già da Chevalier (1915), 45); cf. inoltre Radt (2002–2011), V 171); [Plut.] Cons. Apoll. 113c (ed. Hani1; non convince il testo scelto da Hani2), οἱ τὴν εἰς τὸ χρεὼν πορευόμενοι οὐδὲν πλέον ἔχοντες τυγχάνουσι {οἱ} βραδύτερον ἀφικνούμενοι τῶν θᾶττον παραγιγνομένων (cf. anche 365b6). Non sembra particolarmente fondata l’osservazione di Hershbell (1981), 55 n. 6 secondo cui τὸ χρεών nel senso di “morte” «occurs often in the CynicStoic tradition» (cf. e.g. Metrod. fr. 49, citato nel commento a 365b5, e Philod. Mort. 38, 14). 364c3 καί μοι σὺν τοῖς λοιποῖς ἵνα καὶ τοῦτο εὐσεβηθῇ: Hershbell (1981) intende σὺν τοῖς λοιποῖς rispetto a μοι («and the others as well», “gli altri rispetto a me”). Tuttavia, se, come pare probabile, μοι è dativo d’agente di εὐσεβηθῇ, per avere il senso pensato da Hershbell ci si sarebbe aspettati piuttosto μοι καὶ τοῖς λοιποῖς e non μοι σὺν τοῖς λοιποῖς. Inoltre, il καί davanti a τοῦτο suggerisce un’aggiunta rispetto a σὺν τοῖς λοιποῖς. Con τοῦτο e con σὺν τοῖς λοιποῖς si allude verosimilmente agli obblighi morali che il figlio deve al padre (cf. anche Männlein-Robert (2012), 63 n. 15; sul rispetto filiale cf. e.g. Plat. Leg. IV 717b-718a, con Schöpsdau (2003), 215–217). L’εὐσέβεια non è un valore strettamente religioso (cf. Foerster (1960), 176: «εὐσεβ- die Ehrfurcht vor den Ordnungen auspricht, auf denen das familiäre, staatliche und auch das zwischenstaatliche Leben beruht»; sull’importanza dell’εὐσέβεια nell’Assioco cf. inoltre Menchelli (2016), 113-114 e n. 75). Particolarmente rilevante per la situazione in cui si trova Clinia è il fatto che nell’εὐσέβεια dovuta ai genitori rientra tradizionalmente anche il γηροτροφεῖν o γηροβοσκεῖν, nonché la cura della sepoltura (cf. e.g. Dover (1974), 273–274 e de Schutter (1991), 219–243). Clinia, dunque, pare rispettoso della morale tradizionale. Chevalier (1915), 45 (seguito da Hershbell (1981), 55 n. 7 e MännleinRobert (2012), 64 n. 15) ritiene che il ritardo di ἵνα si spieghi per influenza del latino: cf. e.g. Cic. Div. I 40, 88, Amphiaraum sic honoravit fama Graeciae deus ut haberetur. Tuttavia, questo fenomeno è ben noto alla prosa greca cf. e.g. And. Or. 3 (De pace), 15, φέρε, ἀλλὰ Χερρόνησον … καὶ τὰ χρέα ἵνα ἀπολάβωμεν, su cui cf. Albini (1964), 77; in generale cf. KG II.2, 598. Raro è l’uso passivo di εὐσεβέω: cf. e.g. Antipho Or. 3 (Tetralogia II) 3, 11 (dubbi sulla genuinità di questo passo ha espresso Maidment (1941), I 106); Phil. Dec. 120. In genere si ritiene che il soggetto del verbo sia τοῦτο

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Prologo (364a1-c8)

(per il senso cf. LSJ s.v. εὐσεβέω, «of a duty, to be reverently discharged»). In teoria, però, potrebbe anche essere Assioco: così si eviterebbe il brusco cambiamento di soggetto rispetto al precedente ἐς τὸ χρεὼν ἴῃ (come già pensava il Clericus (1711), 83). Tuttavia, Gagarin (1997), 157 (ad Antipho Or. 3 (Tetralogia II) 3, 11) rileva che εὐσεβέω di solito non si costruisce con soggetti indicanti persone (cf. anche KG II.1, 294). Inoltre, se ci fosse identità di soggetto rispetto alla proposizione precedente (ὅπως ἀστενακτὶ ἐς τὸ χρεὼν ἴῃ), forse non ci sarebbe stata la necessità di introdurre un’altra congiunzione (ἵνα), ma le due frasi sarebbero state semplicemente coordinate. 364c4 ἀλλ’ οὐκ ἀτυχήσεις μου … οὐδενὸς τῶν μετρίων: secondo Chevalier (1915), 46 la costruzione di ἀτυχεῖν con il genitivus personae non è attica; tuttavia, cf. e.g. Eup. PCG V fr. 125, λέγ’ ὅτου ’πιθυμεῖς, κοὐδὲν ἀτυχήσεις ἐμοῦ. Piuttosto insolita, invece, è la costruzione di ἀτυχέω con genitivus rei e con genitivus personae in testi letterari (cf. e.g. IG II3, I.2, 298, 19–20 (346 a.C.), οὐδενὸ[ς] ἀτυχήσ[ο]υσι τοῦ δήμου το|ῦ Ἀθηναίων, IG II3, I.2, 367, 42– 43 (330/29–328/7 a.C.); cf. anche Meisterhans (1888), 168 e KG II.1, 399). Tuttavia, la costruzione con il doppio genitivo si ha anche in testi letterari almeno con τυγχάνω: cf. e.g. Soph. Ph. 1315-1316, ὧν δὲ σου τυχεῖν ἐφίημι, / ἄκουσον (su cui cf. Jebb (1890), 202). 364c4 οὐδενὸς τῶν μετρίων: per espressioni analoghe cf. e.g. [Lys.] Or. 9 (Pro milite), 4; Demosth. Or. 30 (Contra Onetorem 1), 1; Aeschn. Or. 1 (In Timarchum), 42). Perlomeno ambigua la resa di Männlein-Robert (2012): «was Rechtes Maß hat». Meglio e.g. Aronadio (2008): «non ti verrà meno da parte mia nulla di ciò che è richiesto dalla situazione». 364c4–5 καὶ ταῦτα ἐφ’ ὅσια παρακαλῶν: καὶ ταῦτα esprime un’aggiunta anaforica enfatica (LSJ s.v. οὗτος C.VIII.2). Si trova solitamente con participio concessivo (cf. e.g. Soph. OT. 37; Thuc. III 66, 3; Plat. Gorg. 508a; Rp. III 404b-c; Xen. Hell. II 3, 53; cf. inoltre KG II.2, 85, Schwyzer II 389–390 e ΚC I 855). Tuttavia, qui καὶ ταῦτα si accompagna ad un participio con valore causale. Per παρακαλέω con ἐπί + accusativo cf. e.g. Xen. An. III 1, 24 e LSJ s.v. παρακαλέω III: il senso è “esortare qualcuno verso qualcosa”, cioè “chiedere a qualcuno di fare qualcosa”. 364c6 ὠκύτητος: il termine è attestato meno frequentemente di τάχος e di ταχυτής. In età classica lo si trova in poesia (cf. e.g. Pind. P. 11, 50 e Eur. Bac. 1090). La sua massima diffusione è nella prosa di età imperiale: cf. e.g. Phil. Det. 117; Ios. AI. VI 188; Plut. QConv. IV 666b (cf. anche Meister (1915), 50). 364c7 ὀφθέντος σου μόνον ῥαΐσει: per ὀφθέντος … μόνον (“al sol vederti”) cf. e.g. [Eur.] Rh. 335, φόβος γένοιτ’ ἂν πολεμίοις ὀφθεὶς μόνον. Il verbo ῥαΐζω indica il riprendersi da un malessere ed è prevalentemente (ma non esclusivamente) impiegato in campo medico (cf. van Brock (1961), 213–

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Commento

214). Per la presenza del lessico medico nell’Assioco cf. Joyal (2005), 107 e 108 n. 37. Per l’importanza del modello medico in questo dialogo cf. anche supra p. 76. Lo pseudo-Platone gioca sui due livelli del malessere di Assioco: è chiaro che Clinia allude alla ripresa dal malessere psichico del padre grazie all’intervento di Socrate; tuttavia, l’uso di un termine tipico del lessico medico amplia la portata dell’affermazione di Clinia: è come se Clinia attribuisse a Socrate poteri taumaturgici che permettessero ad Assioco di riprendersi anche dal malessere fisico che lo ha colpito. Secondo Männlein-Robert (2012), 63–64 n. 15 questa iperbole denota una certa superficialità da parte di Clinia. 364c7–8 καὶ γὰρ ἤδη πολλάκις … ἀνασφῆλαι: è difficile dire se questo richiamo al passato di Assioco sia semplicemente un’invenzione dell’autore per dare colore alla scena o piuttosto sia un’allusione ad un dato contenuto in una fonte perduta (cf. anche Männlein-Robert (2012), 64 n. 16; inoltre, cf. 364c2 con il commento ad loc. e supra p. 25 e n. 57). 364c8 συμπτώματος ἀνασφῆλαι: in generale su ἀνασφάλλω, “ristabilirsi”, “riprendersi” cf. van Brock (1961), 184–185. Solitamente ἀνασφάλλω è costruito con ἐκ + genitivo. Si può trovare anche ἀνασφάλλω + genitivo semplice (in luogo di ἐκ + genitivo) cf. e.g. Martyrium Petri 2 (p. 80 Lipsius); Babr. Fab. 78, 3. Ma si tratta di casi decisamente rari (ammesso che siano tutti sani). Non si può escludere, dunque, che si debba accogliere l’integrazione di ἐκ proposta da Burges (1854), 40 n. 3. Non è ben chiaro il senso che il termine σύμπτωμα ha in questo contesto. Secondo LSJ s.v. IV, in alcuni casi (tra cui questo) σύμπτωμα significa “collasso”. Tuttavia, in nessuno dei passi raccolti in LSJ s.v. IV il termine assume inequivocabilmente questo significato (anzi, a ben vedere, esso ha sempre il senso generico di “accidente”). D’altra parte, il senso di “sintomo”, che sovente il termine ha in contesto medico (LSJ s.v. III), è troppo specifico per questo passo. Per contro, il significato generico del termine (LSJ s.v. I, “accidente”, “disgrazia”) andrebbe bene, se non fosse che, utilizzato senza un’ulteriore qualificazione come avverrebbe in questo caso, sembra fin troppo generico. Si capisce, dunque, perché Burges (1854), 40 n. 3 proponeva di integrare δεινοῦ dopo συμπτώματος. Tuttavia, non si possono escludere altre soluzioni (e.g. συμπτώματος). D’altra parte, come si è visto, anche l’uso del genitivo semplice fa sospettare che il passo sia in qualche modo corrotto (cf. supra in questo lemma). Si può notare che il senso generico di σύμπτωμα è adatto al contesto anche per un’altra ragione. Tutto il passo (per non dire tutto il dialogo) gioca sui due livelli del malessere di Assioco: da un lato c’è l’imprecisato male fisico (cf. 364b6), il venir meno delle forze e la sensazione dell’approssimarsi della morte, dall’altro il male psichico, la paura della morte. Qui Clinia al-

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Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7)

lude in primo luogo alla capacità di Socrate di consolare Assioco dalla paura della morte. Tuttavia, questa capacità di Socrate è tenuta in tale considerazione da Clinia che ad essa è quasi attribuita la capacità di guarire Assioco dal suo malessere fisico (cf. anche il commento a 364c7). Questa ambiguità è appunto facilitata dalla genericità del senso di σύμπτωμα.

Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7) 364d1–365a2 ὡς δὲ θᾶττον … καταλαμβάνομεν: per situazioni analoghe nei dialoghi platonici (marcate da verbo di movimento + καταλαμβάνω): cf. e.g. Phaed. 60a; Parm. 127a; Symp. 174e; Charm. 153a; Prot. 314e (ma cf. anche 311a); Rp. I 328b; Ep. VII 350b7. Cf. anche [Plat.] Theag. 130a. Su queste scene di incontro cf. De Sanctis (2016). 364d1 ὡς δὲ θᾶττον: solitamente gli interpreti considerano ὡς congiunzione e θᾶττον avverbio (cf. e.g. Souilhé (1930): «Nous allâmes donc rapidement le long les mourailles», Hershbell (1981): «After hurrying along the wall», Aronadio (2008): «Dopo aver camminato celermente», MännleinRobert (2012): «Nachdem wir ziemlich schnell den Weg», Brisson (2014): «Nous nous hâtâmes en suivant le chemin»). Tuttavia, qui ὡς θᾶττον è un’unica locuzione temporale (“non appena”, “subito dopo”): cf. e.g. Pol. II 1, 5, Καρχηδόνιοι γὰρ ὡς θᾶττον κατεστήσαντο τὰ κατὰ τὴν Λιβύην, εὐθέως Ἀμίλκαν ἐξαπέστελλον (cf. inoltre Collatz, Gützlaf, Helms (2004), 1147 s.v. ὡς II.2.b sobald [als]; cf. già Horreus (1718), 122: «Vertit Interpres: Cum cito. Sed rectius forsan: Simulac, verteris»). Si tratta di una variante del più diffuso idiom ὡς τάχιστα (cf. e.g. Hdt. I 65, 5; Aristoph. Pl. 653; Xen. Cyr. I 3, 2; Aeschn. Or. 2 (De falsa legatione), 22; nonché KG II.2, 445 e Schwyzer II 666; per ὡς θᾶττον bisogna ancora fare riferimento a Viger, Hoogeveen, Zeune, Hermann (1813), 562). Questa locuzione è pressoché assente in opere di età classica e di età imperiale. Si tratta forse di un’innovazione della κοινή (ma cf. già Plat. Prot. 325c, ἐπειδὰν θᾶττον συνιῇ τις τὰ λεγόμενα). 364d1 τὴν παρὰ τὸ τεῖχος … ταῖς Ἰτωνίαις: Chevalier (1915), 46 intende ταῖς Ἰτωνίαις come espressione di stato in luogo con funzione di moto a luogo (frequente nel greco di età imperiale: cf. e.g. Schmid (1887–1896), I 91; II 42–43; III, 58 e IV 60). Tuttavia, è sospetto che a quest’uso particolare si sommi la particolarità dell’uso del dativo semplice per esprimere lo stato in luogo (su cui in generale cf. KG II.1, 441–443). Il Cornarius (ap. Fischer (1771), 140) intendeva ταῖς Ἰτωνίαις in senso temporale come allusione a delle feste che si sarebbero svolte mentre i personaggi raggiungevano la casa di Assioco. Tuttavia, la menzione di queste feste non sembra particolarmente pertinente nel contesto.

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Commento

Il passo è verosimilmente corrotto. Wolf (ap. Fischer (1786), 227) suggeriva di scrivere qualcosa come πρὸς τὰς Ἰτωνίας, o πλησίον γὰρ ᾤκει τῶν πυλῶν τῶν Ἰτωνιῶν. Matthiae (1835), 149 correggeva in ἦμεν ἐν ταῖς Ἰτωνίαις («als wir nun rasch den Weg längst der Mauer gegangen und am Ithonischen Thoren waren»). L’integrazione di ἐν è facilissima, ma non si vede perché mutare ᾔειμεν in ἦμεν: ἐν + dativo retto da un verbo di movimento per indicare il luogo in cui si arriva è ben attestato (cf. LSJ s.v. ἐν I.8; cf. anche i passi dello Schmid citati supra in questo lemma). Si potrebbe, dunque, semplicemente scrivere ᾔειμεν ταῖς Ἰτωνίαις (così anche Burges (1854), 40 n. 4). Non si può escludere, però, che tra ᾔειμεν e ταῖς Ἰτωνίαις sia presente una lacuna più estesa di questa (cf. anche Immisch (1896), 88). A esempio potrebbe essere caduto un verbo che indicava l’arrivo dei personaggi alle porte Itonie (“Subito dopo aver percorso la strada che costeggia le mura ed essere arrivati alle porte Itonie, etc.”). Si potrebbe tentare e.g. ὡς δὲ θᾶττον τὴν παρὰ τὸ τεῖχος ᾔειμεν ταῖς Ἰτωνίαις. Per προσβαίνω nel senso di “avvicinarsi” + dativo semplice del luogo a cui si arriva cf. LSJ s.v. προσβαίνω 2, e.g. Plat. Phaedr. 227d, ὥστ’ ἐὰν βαδίζων ποιῇ τὸν περίπατον Μέγαράδε καὶ κατὰ Ἡρόδικον προσβὰς τῷ τείχει πάλιν ἀπίῃς. 364d1 τὴν παρὰ τὸ τεῖχος ᾔειμεν: scil. ὁδόν; cf. l’incipit del Liside citato supra nel commento a 364a1-2 (richiamato già da Fischer (1786), 113, con altri esempi); per εἶμι + acc. di moto cf. e.g. Plat. Leg. VII 821b; Xen. Cyr. II 4, 22. 364d1 ταῖς Ἰτωνίαις: la lezione Ἰτωνίαις è testimoniata dalla discendenza di O (JRW). Su A e Vv si legge Ἰτωνυμίαις. Il termine Ἰτωνία (insieme a Ἰτωνιάς e Ἰτωνίς) è attestato come epiteto di Atena, mentre Ἰτωνυμία non è altrimenti attestato. La corruttela si sarà prodotta per influenza mentale di termini come ἐπωνυμία, παρωνυμία, ὁμωνυμία. Su Y si legge σιτωνυμίαις, chiaramente prodottosi a partire da Ἰτωνυμίαις per influenza del sigma dell’articolo (ma è possibile anche un’interferenza dell’area semantica di σιτωνία, “acquisto di grano”: cf. già Cornarius ap. Fischer (1771), 140–141). Fischer (1786), 114 si chiedeva «quidni enim Minerva Itonia Athenis quoque templum habuerit?» proponendo di correggere in ταῖς Παιωνίαις (cf. Paus. I 2, 5). Tuttavia, sembra che il culto di Atena Itonia, ben attestato in Tessaglia e in Beozia (cf. Wendel (1935), 47 in apparato a schol. Ap. Rh. I 551a), fosse praticato anche ad Atene (cf. e.g. IG I3 383, 151–152 (429/8 a.C.); IG II3, I.2, 445, 36–37 (336/5 a.C.); cf. inoltre Parker (1996), 28 e n. 64). È invece sospetta la notizia isolata di Suda ι 749 Adler, Ἰτώνη καὶ Ἰτωνία, ἡ Ἄρτεμις: verosimilmente si tratta di un errore per ἡ Ἀθηνᾶ (cf. già Fischer (1786), 114).

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Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7)

È stato ipotizzato che nella zona delle porte Itonie dell’Assioco (a Sud-Est delle mura temistoclee) esistesse un santuario dedicato ad Atena Itonia (cf. Marchiandi ap. Greco (2011), 429; ma cf. già Stephanus (1578), 71 Ann.). Robertson (2005), 50, invece, ha ipotizzato che «The goddess and the gate are named for the great processions that typify her worship». Il nome delle porte sarebbe un fossile delle antiche Panatenaiche che si sarebbero svolte nella zona meridionale della città, vicino all’altare di Borea, prima di essere spostate intorno alla metà del VI secolo nell’area Nord-Ovest (cf. anche Robertson (1996), 59–60). Quella dell’Assioco parrebbe l’unica menzione delle porte Itonie a noi nota (cf. e.g. Travlos (1971), 160 e Marchiandi ap. Greco (2011), 429). Tuttavia, nel decreto di Democare del 307/6 (IG II2, I.1, 463 + Meritt (1940), n. 9), con cui si ordinava la ricostruzione di una parte delle mura di Atene, si legge: [τοῦ ἄ]στεως πρώτη μερὶς ἀπὸ τοῦ διατει[χίσμ]ατος τοῦ νοτίου τείχους μέχρι τῶν [Ἰτων]ίδων πυλῶν ΤΤΧ μισθωταί (cf. Maier (1959), 48–67). Il riferimento è al tratto delle mura meridionali che andava, in senso antiorario, dal punto di innesto del διατείχισμα sulla cinta meridionale fino alle porte. L’integrazione [Ἰτων]ίδων è plausibile (cf. Meritt (1940), 72). Per l’epiteto di Atena si oscilla tra Ἰτωνία (schol. Ap. Rh. I 551a) e Ἰτωνίς (Ap. Rh. I 551). Lo stesso poteva avvenire per il nome delle porte. Sembra che le porte Itonie abbiano continuato ad essere in funzione nei secoli successivi (cf. Travlos (1971), 160: «Vermutlich kam dieses Tor in der Mitte des 3. Jh. n.Chr. außer Gebrauch und seine Durchfahrt wurde geschlossen»). 365a1 πλησίον γὰρ … στήλῃ: l’abitazione di Assioco si trovava vicino all’Olympieion, nell’area sud-occidentale della città, non lontano dalla valle dell’Ilisso, una zona che «risulta allora [scil. alla fine del V secolo] sede di dimore di prestigio, se non altro in virtù della fama dei loro proprietari o di coloro che vi erano ospitati» (Marchiandi ap. Greco (2011), 381). Nella stessa zona si trovavano la casa di Carmide (cf. And. Or. 1 (De mysteriis), 16) e quella dell’oratore Epicrate, detta di Morico (cf. Plat. Phaedr. 227b). Come nell’incipit del dialogo, l’autore accumula con gusto quasi antiquario e di maniera una serie di indicazioni che gli permettono di ricreare dettagliatamente l’ambiente dell’Atene della fine del V secolo. Dubbio è se egli abbia inventato la collocazione della casa di Assioco, o se abbia ricavato queste informazioni da una fonte più antica. La plausibilità della collocazione fa piuttosto pensare a questa seconda possibilità. 365a1 ᾤκει: la prospettiva è quella del racconto di Socrate: l’imperfetto suggerisce che al tempo del racconto di Socrate Assioco non abiti più in questo luogo e forse sia ormai morto (cf. anche supra p. 194). 365a1 πρὸς τῇ Ἀμαζονίδι στήλῃ: verosimilmente da identificare con la stele che si trovava vicino al tempio di Gea Olimpia nei pressi dell’Olym-

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Commento

pieion, di cui si parla in Plut. Thes. 27, 6 (cf. Marchiandi ap. Greco (2011), 465). È invece dubbio se sia da identifcare con l’Ἀντιόπης μνῆμα Ἀμαζόνος di cui parla Paus. I 2, 1 (cf. Travlos (1971), 160; Ficuciello (2008), 82–85 e Marchiandi ap. Greco (2011), 417). 365a2 ἤδη μὲν συνειλεγμένον: si accoglie l’ordo verborum di A; Vv invece hanno συνειλεγμένον μὲν ἤδη. In entrambi i casi l’espressione è correlata al successivo ἀσθενῆ δὲ τὴν ψυχήν. La lezione di Vv è più comune: cf. e.g. Diod. I 54, 5 (= Hecat. FGrHist. 264 F 25); Ios. AI. XVI 389; Plut. Art. 12, 2 (= Ctes. FGrHist. 688 F 20 = p. 149 Lenfant). Anche il testo di A è tuttavia possibile: cf. e.g. Ios. AI. XVI 81. La lezione di A è preferibile, mentre su Vv si sarà prodotto un intervento normalizzatore (cf. già Wilamowitz (1895), 985 n. 1: «ἤδη μὲν συνειλεγμένον aller andern untadelig ist»). 365a2 συνειλεγμένον: il perfetto medio di συλλέγω è utilizzato in senso figurato anche in 370e4 (cf. il commento ad loc.). In entrambi i casi il verbo significa “riprendersi”. Con questo stesso significato il medio è utilizzato e.g. in Eur. Ph. 850 (su cui cf. Mastronarde (1994), 398) e in Ios. AI. VIII 349 (cf. già Fischer (1786), 115). Di senso analogo è la perifrasi di Eur. Her. 626, σύλλογον ψυχῆς λαβέ (su cui cf. Bond (1981), 221, il quale richiama l’analogo uso di συλλαμβάνω attivo in Eur. Her. 833, ἄτεγκτον συλλαβοῦσα καρδίαν e di συναγείρω sempre attivo in Plat. Prot. 328d, μόγις πως ἐμαυτὸν ὡσπερεὶ συναγείρας, che richiama Hom Il. XXI 417, μόγις δ’ ἐσαγείρετο θυμόν). 365a2 τῆς ἁφῆς: tràdito è τὰς ἁφάς, solitamente interpretato come riferimento ai sensi perduti e poi recuperati da Assioco (cf. e.g. Souilhé (1930): «Nous trouvons Axiochos qui avait déjà repris l’usage des ses sens», Aronadio (2008): «lo troviamo che ha già ripreso i sensi», Männlin-Robert (2012): «er seine Sinne wieder beisammen hat»). Tuttavia, per indicare i sensi l’autore avrebbe potuto utilizzare un’espressione più perspicua come τὰς αἰσθήσεις o ταῖς αἰσθήσεσι (cf. e.g. Diod. XX 72, 2, πατέρας περιόντας ἐσχατογήρους καὶ ταῖς ὅλαις αἰσθήσεσι διὰ τὸν χρόνον ἤδη παραλελυμένους). Inoltre, il termine ἁφή indica in genere il senso del tatto (cf. LSJ s.v. 2) e il passaggio di significato da “tatto” a “sensi” pare una forzatura (cf. già Stephanus (1578), 71 Ann.: «Quidam ἁφὰς sensus, alii aliter sunt interpretati: omnes liberius quam vocis huius significatio ferat» e Bury (1939), 34: «Mais cette signification de ἁφάς [scil. “i sensi”] est bien douteuse»). Hershbell (1981), 55 n. 8 ha ipotizzato un riferimento al recupero da parte di Assioco dell’uso delle articolazioni (in questa direzione andava già Stephanus (1578), 71 Ann.; cf. inoltre Bury (1939), 34). Tuttavia, oltre al fatto che un riferimento alle articolazioni è troppo specifico per designare il malessere di Assioco, è perlomeno dubbio che ἁφή possa effettivamente avere questo significato (cf. Bruston (1911), 77–82).

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Il passo è verosimilmente corrotto (cf. già Stephanus (1578), 71 Ann., Wolf ap. Fischer (1786), 227 e Souilhé (1930), 138–139 n. 1). Hershbell (1981), 55 n. 8, riprendendo un suggerimento di R. Kotansky e appoggiandosi su LSJ s.v. ἁφή II.8 (e.g. Lev. 13, 6, καὶ ἰδοὺ ἁμαυρὰ ἡ ἁφή, οὐ μετέπεσεν ἡ ἁφὴ ἐν τῷ δέρματι), ha ipotizzato in alternativa di attribuire ad ἁφή il senso di “infection”, “desease” (“recovered from his ailements”). In questa direzione va anche il senso che il termine ἁφή ha nell’ambito della lotta, quello di “presa”: cf. LSJ s.v. II.4, e.g. D.H. Dem. 18, 5, καίτοι γε τοῖς ἀθληταῖς τῆς ἀληθινῆς λέξεως ἰσχυρὰς τὰς ἁφὰς προσεῖναι δεῖ καὶ ἀφύκτους τὰς λαβάς, Plut. Ant. 27, 3, ἁφὴν δ’ εἶχεν ἡ συνδιαίτησις [scil. di Cleopatra] ἄφυκτον. È degno di nota che schol. [Plat.] Ax. 365a Greene spiega συνειλεγμένον τὰς ἁφάς con συνηγμένον τὰς πληγάς, dove πληγή (“colpo”) si inscrive in questo stesso ambito semantico di ἁφή e λαβή. Nel passo dell’Assioco ἁφή indicherebbe “la presa, la morsa della malattia”. Uno slittamento semantico analogo si osserva per il termine λαβή, il quale indica la presa dell’atleta (cf. e.g. Plut. FM. 5, 4, ὥσπερ δεινὸς ἀθλητὴς λαβὴν ζητῶν, cf. anche D.H. Dem. 18, 5, citato supra in questo lemma), ma anche l’attacco di una malattia: cf. LSJ s.v. IV, Gal. Vocum Hippocratis Glossarium (XIX, p. 116 Kühn = p. 226 Perilli), λαβή· ἐπισημασία· μάλιστα δὲ ἡ ἐκ περιόδου, «accesso, in particolare quello periodico (intermittente)», trad. Perilli (2017), 227, cf. anche Bignone (1916), 264 e ThGL s.v. col. 7: «Morbo etiam tribuitur, et in primis febri, quum sc. hominem corripit, et veluti infestis manibus prehendit, Accessio febris»). Il senso del passo, dunque, è “ripresosi dal colpo, dall’attacco [scil. della malattia]”. Questo senso, tuttavia, richiede necessariamente un intervento testuale, ossia: ἤδη μὲν συνειλεγμένον τῆς ἁφῆς, “ripresosi dall’attacco [scil. della malattia]”. Si ottiene così un preciso parallelo con il successivo 370e3–4, ἔκ τε τῆς ἀσθενείας ἐμαυτὸν συνείλεγμαι: con ἁφή si indica il malessere fisico, mentre con il successivo ἀσθένεια il malessere spirituale (cf. infatti 365a3, ἀσθενῆ δὲ τὴν ψυχήν). Per costruzioni analoghe con πληγή (termine con cui lo scolio glossa il nostro ἁφή: cf. supra in questo lemma) cf. e.g. Ios. BI. I 272, κατέχει δὲ καὶ ἄλλος λόγος, ὡς ἀνενέγκαι μὲν ἐκ τῆς τότε πληγῆς (anche V 546), Plut. Rom. 18, 8, ἤδη δ’ ὁ Ῥωμύλος ἐκ τῆς πληγῆς ἀναφέρων, Pyrr. 34, 5, ἀρχόμενον ἐκ τῆς πληγῆς ἀναφέρεσθαι. L’errore potrebbe essere riconducibile ad un errato scioglimento dell’abbreviazione della desinenza del genitivo (cf. McNamee (1981), 115–116; per due possibili casi analoghi cf. il commento a 365b4 e 366d5), cui è seguita l’omissione di ἐκ. L’intervento sarebbe ancora più semplice se si potesse scrivere solo ἤδη μὲν συνειλεγμένον τῆς ἁφῆς (cf. 364c8 con il commento ad loc.), tuttavia cf. il già citato passo di 370e3–4. Può rimanere il sospetto che la corruttela sia più grave e che occorra qualcosa come ἤδη μὲν

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συνειλεγμένον τῆς ἁφῆς, ma si tratta forse di uno scrupolo eccessivo. 365a3 καὶ τῷ σώματι ῥωμαλέον, ἀσθενῆ δὲ τὴν ψυχήν: analoga espressione in Plut. Es. carn. 995e, οἶνος γὰρ καὶ σαρκῶν ἐμφορήσιες σῶμα μὲν ἰσχυρὸν ποιέουσι καὶ ῥωμαλέον, ψυχὴν δὲ ἀσθενέα (cf. anche Plut. Tranqu. an. 472b). Si tratta di un apoftegma di Androcide (cf. Clem. Strom. VII 6, 33, con le varianti ἀπεργάζονται in luogo di ποιέουσι e νωχαλεστέραν in luogo di ἀσθενέα; per lo status quaestionis su questa figura cf. Centrone (1989), 197–198). È un apoftegma piuttosto diffuso (cf. anche Corssen (1912), 247). Ma il contrasto tra corpo e anima è un luogo comune e il contesto dell’Assioco è del tutto diverso. L’aggettivo ῥωμαλέος, estremamente raro in età classica (cf. già Chevalier (1915), 46), è diffuso nei primi secoli dell’impero. Con σῶμα cf. e.g. Ios. AI. XIX 120; Plut. Cam. 27, 4; Mul. virt. 259a5. 365a3–4 πάνυ ἐνδεᾶ παραμυθίας: Matthiae (1835), 302 integrava un καί prima di πάνυ (ma cf. già Wolf ap. Fischer (1786), 116). L’intervento può effettivamente contare sul parallelismo chiastico presente nel periodo: (a) συνειλεγμένον μὲν ἤδη … (b) καὶ τῷ σώματι ῥωμαλέον, (b1) ἀσθενῆ δὲ τὴν ψυχὴν (a1) πάνυ ἐνδεᾶ παραμυθίας. Cf. anche il lemma seguente. 365a4 τε ... καί: A ha δέ, Vv hanno τε (preferito già da Post (1934), 63). Per la coordinazione τε ... καί cf. e.g. a Plat. Tim. 41d (cf. inoltre Hoefer (1882), 9 e Denniston (19542), 501). Ma cf. anche 368b2–4, dove si ha una coordinazione del tipo “w καὶ x, y τε … καὶ z” (che potrebbe deporre anche per l’integrazione di καί: cf. il lemma precedente). Il passaggio da τε a δέ (cf. anche a 368b3) sarà avvenuto anche per influenza del δέ precedente. 365a4 ἀναφερόμενον: il participio ἀναφερόμενον è solitamente inteso nel senso di “sollevarsi dal letto” (cf. e.g. Souilhé (1930): «se soulevait fréquemment et poussait des gémissements», Aronadio (2008): «spesso si solleva, manda sospiri e lacrime», Männlein-Robert (2012): «oft auffährt»; ma già Wolf ap. Fischer (1786), 228: «Intelligo de motu aegrotantium, cum e lectulo quasi territi sursum sese levant»). Più adatto al contesto (cf. στεναγμοὺς ἱέντα) il senso di “sospirare” (cf. già Hershbell (1981): «often sighing deeply»): cf. e.g. Hom. Il. XIX 314, μνησάμενος δ’ ἁδινῶς ἀνενείκατο φώνησέν τε, Hdt. I 86, 3, ὡς δὲ ἄρα μιν προσστῆναι τοῦτο, ἀνενεικάμενόν τε καὶ ἀναστενάξαντα ἐκ πολλῆς ἡσυχίης ἐς τρὶς ὀνομάσαι «Σόλων» (passo di controversa interpretazione: cf. LSJ s.v. I.2; tuttavia, il senso di “sospirare” sembra più adatto al contesto), cf. inoltre Plut. Alex. 52, 1, βαρεῖς ἀναφέρων στεναγμούς. 365a5 σὺν δακρύοις καὶ κροτήσεσι χειρῶν: Urb. 80 riporta a margine la variante σὺν δάκρυσι, che tuttavia non risulta attestata altrove nella tradizione dell’Assioco. La forma δάκρυσι potrebbe essersi prodotta per analogia

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con il successivo κροτήσεσι. Il sostantivo κρότησις è estremamente raro (cf. Chevalier (1915), 47 e Hershbell (1981), 55 n. 9). L’indicazione del battito delle mani come manifestazione di disperazione è curiosa (cf. anche Hershbell (1981), 55 n. 9: «an interesting cultural phenomenon as a sign of despair»). In genere, infatti, in espressioni con il verbo κροτέω, il battito delle mani indica una manifestazione di gioia (cf. e.g. Xen. Cyr. VIII 4, 12), o un accompagnamento ritmico (cf. e.g. Hdt. II 60, 1), o un vero e proprio applauso (cf. e.g. Thphr. Ch. 19, 9). Hershbell (1981), 55 n. 9, rimanda all’espressione latina complosis manibus (cf. e.g. Petron. Sat. 18, 7, complosis deinde manibus in tantum repente risum effusa est ut timeremus, e 137, 1-2, at illa complosis manibus “scelerate” inquit “etiam loqueris?”), ma non pare che questa espressione sia associata a manifestazioni di disperazione. Cf. invece Phil. Ios. 16, ἐβόα καὶ ἐκεκράγει καὶ τὰς ἐσθῆτας περιρρηξάμενος ἄνω καὶ κάτω καθάπερ ἐμμανὴς ἐφέρετο τὰς χεῖρας κροτῶν καὶ τὰς τρίχας τίλλων. Sul comportamento irrazionale che l’approssimarsi della morte può produrre sugli uomini cf. e.g. Plat. Leg. XI 922c, ἀνοήτως γὰρ δὴ καὶ διατεθρυμμένως τινὰ τρόπον ἔχομεν οἱ πλεῖστοι, ὅταν ἤδη μέλλειν ἡγώμεθα τελευτᾶν (oltre al caso di Cefalo ricordato nel commento a 364b7). 365a6-b1 Ἀξίοχε τί ταῦτα … ὑπολέλοιπας ἐν τοῖς ἄθλοις: queste esortazioni sono frequenti nel protrettico filosofico (cf. Slings (1999), 143 e nn. 269 e 270). Secondo Giusta (1964–1967), II 350 scritti filosofici di carattere morale come l’ὑποθετικός, il προτρεπτικός o il περὶ βίων «ripetevano pressoché gli stessi concetti, solo variando il punto di vista». Anche le consolationes, un genere da cui l’autore fortemente dipende (cf. supra pp. 33-41), doveva presentare caratteristiche analoghe (cf. ancora Giusta (1964–1967), II 433; sulla somiglianza tra le forme della consolatio e quelle del protrettico in riferimento al primo libro delle Tusculanae cf. Hirzel (1883), 348–349). 365a6 τί ταῦτα: colloquialismo il cui senso varia a seconda del contesto (cf. Collard, Stevens (2018), 75: «“What’s all this?” “What’s the point?” “And so what?”»): cf. e.g. Eur. Andr. 548; Suppl. 98; Ph. 382. Questa “cut-off formula” (così Mastronarde (1994), 257, ad Eur. Ph. 382) è assente in Platone e in Senofonte. Cf. però Plat. Prot. 309a, εἶτα τί τοῦτο; (su cui cf. Denyer (2008), 66: «the tone is of a brusquely conversational “What of it?”») e Xen. Symp. 1, 15, τί τοῦτ(ο). 365a7–8 τὸ ἄρρητον ἐν σοὶ θάρσος: per quest’uso di ἄρρητος cf. LSJ s.v. II, e.g. Philod. Ir. 5 (col. XXIII, l. 27 Indelli); App. XV (BC III) 4, 10; cf. anche Xen. Cyr. VII 1, 32 (ἀδιήγητος), e Hld. Aeth. V 11, 1 (ἄφραστος), già ricordati da Fischer (1786), 116. In passato è stata accolta la correzione di Fischer (1786), 116 ἄρρατον: cf. e.g. Hermann (1853), Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). Solo Männlein-Robert (2012), 41 ha ristabilito l’ἄρρητον dei codici. La correzione non pare necessaria (lo stesso Fischer

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concludeva: «Sed quid opus est coniecturis, quum de veritate et elegantia lectionis vulgatae … dubitari non possit?»). Tuttavia, meritevole di molta considerazione è l’idea dello Stephanus di scrivere ἄρρηκτον: cf. Stephanus, già approvato da Boeckh (1810), xxxvi; Matthiae (1835) e Baiter, Orelli, Winckelmann (1839). Un richiamo alla resistenza del coraggio di un tempo di Assioco sembra particolarmente pertinente in questo contesto (cf. e.g. Theocr. Id. XXV 112–113, ἔνθα καὶ ἄρρηκτόν περ ἔχων ἐν στήθεσι θυμόν / Ἀμφιτρυωνιάδης καὶ ἀρηρότα νωλεμὲς αἰεί). Il passaggio da ἄρρηκτον a ἄρρητον è banale: cf. e.g. [Plut.] Cons. Apoll. 115d (ed. Hani2), ἀρρήκτως Reiske : ἀρρήτως codd. (la correzione del Reiske è da considerarsi certa; è degno di nota che il Bernays aveva proposto ἀρράτως, in genere non accolto dagli editori: cf. anche Rose (1886), 48). Nel nostro caso il passaggio da ἄρρηκτον a ἄρρητον poteva essere favorito dal precedente ἀρετῶν. Infelice la proposta di Clotius (1758), 595 (ἀεὶ ῥητόν). 365a8-b1 ὡς γὰρ ἀγωνιστὴς δειλός … ὑπολέλοιπας ἐν τοῖς ἄθλοις: per Alfonsi (1950), 270 si ha qui «il paragone dell’uomo nella tenzone atletica all’uomo che combatte le lotte dello spirito, paragone che si trova usato frequentemente nella letteratura protrettica» (sul rapporto con il protrettico filosofico cf. anche il commento a 365a6-b1). La similitudine dell’atleta si fonda sulla contrapposizione tra esercizio e gara. La gara è il momento in cui viene alla luce se l’esercizio è stato svolto correttamente. Lo stesso vale per la virtù. Nel momento della gara si comprende se la virtù è stata esercitata bene o male (in generale cf. Männlein-Robert (2012), 65 n. 22 e Poplutz (2012), 131–134). Degna di nota è la somiglianza con Plat. Rp. VI 503e-504a, βασανιστέον δὴ ἔν τε οἷς τότε ἐλέγομεν πόνοις τε καὶ φόβοις καὶ ἡδοναῖς, καὶ ἔτι δὴ ὃ τότε παρεῖμεν νῦν λέγομεν, ὅτι καὶ ἐν μαθήμασι πολλοῖς γυμνάζειν δεῖ, σκοποῦντας εἰ καὶ τὰ μέγιστα μαθήματα δυνατὴ ἔσται ἐνεγκεῖν εἴτε καὶ ἀποδειλιάσει, ὥσπερ οἱ ἐν τοῖς ἄλλοις ἀποδειλιῶντες. Orelli ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1839) proponeva di mutare ὥσπερ οἱ ἐν τοῖς ἄλλοις ἀποδειλιῶντες in ὥσπερ οἱ ἐν τοῖς ἄθλοις ἀποδειλιῶντες. Questa congettura non è stata neppure ricordata in apparato da Slings (2003), mentre è stata messa in apparato da Burnet (19052) ed è stata stampata da Adam (1902) e da Chambry (1933). Adam (1902), 48 ha richiamato proprio questo passo dell’Assioco suggerendo che esso presuppone un testo della Repubblica con ἄθλοις. 365a8 ἐν τοῖς γυμνασίοις: qui τὰ γυμνάσια non indica il luogo in cui vengono praticati gli esercizi fisici (così e.g. Aronadio (2008): «ti mostri valente nelle palestre»), ma gli esercizi fisici tout court (cf. LSJ s.v. I, e.g. Plat. Rp. VII 539d, ἀλλ’ ἀντιστρόφως γυμναζομένῳ τοῖς περὶ τὸ σῶμα γυμνασίοις).

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365b1 ὑπολέλοιπας: alcuni recentiores (C2YMal.) hanno ἀπολέλοιπας, accolto da Baiter, Orelli, Winckelmann (1839). Nel senso che qui occorre (“rimanere indietro”) ἀπολείπω è più frequentemente utilizzato: cf. e.g. Isocr. Or. 4 (Panegyricus), 44; Or. 12 (Panathenaicus), 61; Plut. Them. 11, 3. Tuttavia, ὑπολείπω non è impossibile in questo senso: cf. e.g. Aristoph. Ran. 1093. 365b1–2 οὐκ ἐπιλογιῇ τὴν φύσιν περιεσκεμμένως: l’avverbio περιεσκεμμένως indica l’attenzione e la precisione con cui si fa qualcosa (cf. Poll. IV 23). È di uso raro e tardo (cf. e.g. Phil. Somn. ΙΙ 103; M.Aur. VIII 48, 1; cf. inoltre Chevalier (1915), 47). Horreus (1718), 124–125, suggeriva di mutare περιεσκεμμένως in περιεσκεμμένος, proposta accolta con favore da Fischer (1786), 116–117 e Boeckh (1810), xxxvi, e messa a testo da Matthiae (1835) e da Immisch (1896). Il verbo ἐπιλογιῇ reggerebbe così il successivo ὅτι, mentre τὴν φύσιν sarebbe retto da περιεσκεμμένος (“non vuoi riflettere sulla natura e considerare che”). Tuttavia, è sospetto il ritardo della congiunzione ὅτι, che meglio si spiega se è anticipata da τὴν φύσιν. Qui il termine φύσις indica la legge di natura (cf. LSJ s.v. φύσις III). Per il verbo ἐπιλογίζομαι, “tenere in conto”, “considerare” cf. il commento a 365d3. 365b2 ἀνὴρ τοσόσδε τῷ χρόνῳ: Par non presenta τῷ χρόνῳ, ma si tratta verosimilmente di una svista (cf. anche il commento a 367c5). Per l’uso di χρόνος nel senso di “età” cf. e.g. Aeschl. Sept. 11; Soph. OC. 112; Xen. Symp. VIII 1. L’aggettivo τοσόσδε in riferimento a persona solitamente non è utilizzato per indicarne l’età avanzata, bensì l’importanza o il prestigio (cf. e.g. App. XIV (BC. III) 98, 406). Per questa ragione per Boeckh (1810), xxxvi «τῷ χρόνῳ, h.e. olim, suo tempore: alii enim falso aliter interpretantur» (“uomo un tempo importante”). Tuttavia, un riferimento all’età di Assioco è molto opportuno in questo contesto: l’età avanzata dovrebbe essere una valida ragione per non aver paura della morte (cf. e.g. Luc. 77 (DMort.), 22, 9). Inoltre, nel passo sono già indicate altre ragioni, diverse dall’età, che dovrebbero trattenere Assioco dalla paura della morte: il rigore morale (αἱ συνεχεῖς εὐλογίαι τῶν ἀρετῶν καὶ τὸ ἄρρηκτον ἐν σοὶ θάρσος) e la raffinata educazione (κατήκοος λόγων καὶ εἰ μηδὲν ἕτερον Ἀθηναῖος). Sarebbe stato più semplice e naturale utilizzare τηλικόσδε (cf. LSJ s.v. τηλικόσδε I, e.g. Eur. Alc. 643; Plat. Ap. 34e). Tuttavia, l’autore impiega τηλικόσδε (370c5–6) non in riferimento all’età di una persona, bensì per indicare l’importanza e la ragguardevolezza delle imprese umane (in generale cf. LSJ s.v. τηλικόσδε II). 365b3 κατήκοος λόγων: l’espressione è a volte intesa come riferimento alla formazione culturale di Assioco (cf. LSJ s.v. κατήκοος e Souilhé (1930): «qui a reçu de bonnes leçons»). Tuttavia, per questo forse ci si sarebbe aspettati un’espressione più perspicua, come πεπαιδευμένος (cf. e.g. [Plut.]

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Cons. Apoll. 102f, πεπαιδευμένων γάρ ἐστι καὶ σωφρόνων ἀνδρῶν πρός τε τὰς δοκούσας εὐτυχίας τὸν αὐτὸν μεῖναι, καὶ πρὸς τὰς ἀτυχίας γενναίως φυλάξαι τὸ πρέπον, cf. anche 117e). Hershbell (1981), 55 n. 10 (su suggerimento di Edward O’Neil) intende l’espressione come “one who listens to reason” o “rational arguments”. (l’alternativa tra queste due interpretazioni era già presente a Stephanus (1578), 71 Ann.; cf. anche Clericus (1711), 84–85). Nell’Assioco il termine λόγος è utilizzato sia al plurale nel senso di “argomenti”, “ragionamenti” (cf. 365c3 e 370b1), sia al singolare nel senso di “ragione” (cf. 372a4). Non pare tuttavia necessario correggere in λόγου. Il primo significato è perfettamente adatto al contesto (cf. e.g. Plut. Tranqu. an. 465c, ὡς γὰρ οἱ χαλεποὶ κύνες πρὸς πᾶσαν ἐκταραττόμενοι βοὴν ὑπὸ μόνης καταπραΰνονται τῆς συνήθους, οὕτω καὶ τὰ πάθη τὰ τῆς ψυχῆς διαγριαινόμενα καταπαῦσαι ῥᾳδίως οὐκ ἔστιν, ἂν μὴ λόγοι παρόντες οἰκεῖοι καὶ συνήθεις ἐπιλαμβάνωνται τῶν ταραττομένων). 365b3 καὶ εἰ μηδὲν ἕτερον Ἀθηναῖος: non è ben chiaro perché l’origine ateniese dovrebbe essere una ragione per non avere paura della morte. Un argomento per certi aspetti simile è sviluppato da Plat. Ap. 29d-e, ὦ ἄριστε ἀνδρῶν, Ἀθηναῖος ὤν, πόλεως τῆς μεγίστης καὶ εὐδοκιμωτάτης εἰς σοφίαν καὶ ἰσχύν, χρημάτων μὲν οὐκ αἰσχύνῃ ἐπιμελούμενος κτλ. Per l’immagine di Atene come faro di civiltà in età post-classica cf. e.g. Cic. Flacc. 62 e Sen. I 1, cf. inoltre Alcalde Martín (2013), 31–49 (per quanto riguarda Plutarco). Il motivo del biasimo per cui abbandonarsi alle passioni non conviene ad una persona di cultura è frequente nella letteratura consolatoria (cf. e.g. Sen. ad Marc. 7, 3, ut scias autem non esse hoc naturale, luctibus frangi, primum magis feminas quam viros, magis barbaros quam placidae eruditaeque gentis homines, magis indoctos quam doctos eadem orbitas vulnerat, e [Plut.] Cons. Apoll. 102f, citato al lemma precedente, cf. inoltre Kassel (1958), 88 e Segal (1990), 244: «From Achilles in Iliad 9 to Herodotus’ Solon … the noble and wise man knows how to die well»). 364b3–4 τὸ κοινὸν δὴ τοῦτο: la tradizione medievale ha δήπου, lo Stobeo ha δή. Ciò che occorre in questo caso sembra proprio il consueto valore asseverativo di δή (cf. Denniston (19542), 204; sulla sfumatura di dubbio presente in δήπου per contro cf. Denniston (19542), 267). Inoltre, non di rado δή è utilizzato “with adjectival phrases” (Denniston (19542), 205). Il passaggio da δή a δήπου potrebbe essere dovuto ad una sorta di dittografia con l’inizio del successivo τοῦτο. 365b3 πρὸς ἁπάντων: la tradizione medievale ha πρὸς ἅπαντας, lo Stobeo πρὸς πάντων. A partire da Stephanus (1578), 365 (in margine) si stampa la forma “ibrida” ἁπάντων. Il genitivo pare necessario: per il complemento d’agente espresso da πρός + genitivo anche 364b4 e 371e5. Il passaggio dal genitivo all’accusativo potrebbe essere avvenuto per errato sciogli-

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mento dell’abbreviazione della desinenza (per possibili errori simili cf. 365a2 e 366d5, con il commento ad locc.). 365b4–5 παρεπιδημία τίς ἐστιν ὁ βίος: il termine παρεπιδημία non è attestato in età classica; propriamente indica un soggiorno temporaneo al di fuori della propria patria (cf. e.g. Pol. IV 4, 2 e X 26, 5; cf. anche Chevalier (1915), 47 e Männlein-Robert (2012), 66 n. 24). Un uso metaforico di παρεπιδημία analogo a quello dell’Assioco si trova solo in Hipparch. Tranqu. an. pp. 89–91 Thesleff (= Stob. IV 44, 81 Hense), ὡς πρὸς τὸν ξύμπαντα αἰῶνα ἐξετάζοντι βραχύτατον ἔχοντες οἱ ἄνθρωποι τὸν τᾶς ζωᾶς χρόνον, κάλλιστον ἐν τῷ βίῳ οἱονεί τινα παρεπιδαμίαν ποιησοῦνται ἐπ’ εὐθυμίᾳ καταβιώσαντες (la sintassi del passo è molto strana e forse cela qualche corruttela; sul pitagorico Ipparco cf. Centrone (2000), 750–751). Secondo Chevalier (1915), 47 ci sarebbe qui un richiamo all’idea orfico-pitagorica della metempsicosi (contra Männlein-Robert (2012), 66 n. 24). Più semplicemente l’immagine allude alla limitatezza (e brevità) della vita: oltre al passo di Ipparco cf. [Plut.] Cons. Apoll. 117e-f, βραχυτάτου δὲ τοῦ τῆς ἐπιδημίας ὄντος ἐν τῷ βίῳ χρόνου (cf. anche Hani (19721), 178 n. 4). È una legge ineluttabile della natura che la vita abbia un inizio e una fine. 365b5 ἐπιεικῶς διαγαγόντας: questo è il testo dei codici accolto anche dai precedenti editori. La tradizione dello Stobeo invece si divide tra καὶ δεῖ τοῦτον ἐπιδόντας μόνον οὐχὶ παιανίζοντας εἰς τὸ χρεὼν ἀπιέναι (SMpcA) e καὶ δεῖ τοῦτό γε εἰδότας μόνον οὐχὶ παιανίζοντας εἰς τὸ χρεὼν ἀπιέναι (Mac). Quest’ultima è la lezione accolta da Hense nella sua edizione dello Stobeo. Tuttavia, verosimilmente l’ἐπιδόντας di SMpcA dello Stobeo deriva da una lacuna che ha “inghiottito” parte della frase (ἐπιγόντας) e ha prodotto un successivo adeguamento in ἐπιδόντας (cf. già Wilamowitz (1895), 982). La lezione di Mac (τοῦτό γε εἰδότας) sarà una modifica secondaria a partire da τοῦτον ἐπιδόντας, forse dovuta alla difficoltà di intendere questa espressione. Inoltre, diversamente da ciò che pensavano Hermann (1853) e Wilamowitz (1895), 982, τοῦτον (modificato in τοῦτο da Mac) sarà stato aggiunto per dare un senso alla frase (ἐπιδόντας, che lo si faccia derivare da ἐπιδών o da ἐπιδούς, in questo contesto non può restare senza complemento oggetto, diversamente da διάγω). 365b5 εὐθύμως: la tradizione medievale ha εὐθύμως, assente nello Stobeo. L’avverbio non è strettamente necessario. Tuttavia, proprio per questa ragione poteva essere involontariamente saltato (per questo fenomeno cf. anche il commento a 367c5). Al contrario, non si vede perché qualcuno avrebbe avuto l’esigenza di aggiungerlo (anche Wilamowitz (1895), 982 nonostante alcuni dubbi accettava εὐθύμως). L’avverbio εὐθύμως anticipa in crescendo il successivo παιανίζοντας.

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365b5 παιανίζοντας: cf. Metrod. fr. 49 Körte, ἀλλ’ ὅταν ἡμᾶς τὸ χρεὼν ἐξάγῃ, μέγα προσπτύσαντες τῷ ζῆν καὶ τοῖς αὐτῷ κενῶς περιπλαττομένοις ἄπιμεν ἐκ τοῦ ζῆν μετὰ καλοῦ παιῶνος ἐπιφωνοῦντες ὡς εὖ ἡμῖν βεβίωται (παιῶνος è correzione sicura di Usener per il tràdito πλείονος), cf. inoltre Cic. Tusc. I 49, 118, nos vero, si quid tale acciderit, ut a deo denuntiatum videatur, ut exeamus e vita, laeti et agentes gratias pareamus emittique nos e custodia et levari vinclis arbitremur (cf. anche Meister (1915), 103). Immisch (1896), 28 (ripreso da Männlein-Robert (2012), 66 n. 25) riteneva che l’Assioco dipendesse direttamente da Metrodoro. Tuttavia, la genericità del concetto e il fatto che questa massima sia posta sullo stesso piano di un’idea vulgata (τὸ κοινὸν δὴ τοῦτο καὶ πρὸς ἁπάντων θρυλούμενον) suggeriscono piuttosto che anche l’immagine della morte felice rimandi ad un luogo comune. 365b6 εἰς τὸ χρεὼν ἀπιέναι: cf. 364c2, ἐς τὸ χρεὼν ἴῃ, con il commento ad loc. 367b7 δυσαποσπάστως: l’avverbio è attestato prevalentemente a partire dalla fine dell’età ellenistica ed è sovente impiegato in perifrasi con ἔχω, come in questo caso (cf. e.g. Diod. XX 51, 3; Hdn. VI 7, 1; cf. anche Chevalier (1915), 48). 365b7 νηπίου δίκην: l’espressione δίκην + genitivo è prevalentemente poetica in età classica; si afferma in prosa soprattutto in seguito (cf. LSJ s.v. δίκη 2). Il raro sostantivo τὸ νήπιον (di solito νήπιος è utilizzato come aggettivo, soprattutto in poesia: cf. Di Benedetto (19982), 26–32 e Noussia (2010), 378) compare nel dialogo altre due volte per indicare il bambino che non ha ancora imparato a parlare (366d3 e in 367a6). Il termine è più ricercato rispetto ad altri equivalenti, e.g. παιδίον (cf. Teles fr. V Hense, p. 50 = fr. V Fuentes González, p. 50). Erler (2003), 107–116 ha messo questa espressione in relazione con luoghi in cui si ha un’analogia tra il bambino che teme realtà fittizie o immaginarie e quella dell’uomo adulto che ha paura della morte (e.g. Plat. Phaed. 77e; Lucr. ΙΙ 55–58; III 87–90 e VI 35–38). Tuttavia, in questi casi l’analogia con il bambino mette in luce l’incapacità di distinguere un male reale da un male immaginario. Nell’Assioco, invece, l’analogia serve piuttosto ad indicare chi non è in grado di affrontare razionalmente una difficoltà, ma si abbandona ad una reazione impulsiva e irragionevole: cf. e.g. Plat. Rp. X 604c-d, ἀλλὰ μὴ προσπταίσαντας καθάπερ παῖδας ἐχομένους τοῦ πληγέντος ἐν τῷ βοᾶν διατρίβειν, ἀλλ’ ἀεὶ ἐθίζειν τὴν ψυχὴν ὅτι τάχιστα γίγνεσθαι περὶ τὸ ἰᾶσθαί τε καὶ ἐπανορθοῦν τὸ πεσόν τε καὶ νοσῆσαν, ἰατρικῇ θρηνῳδίαν ἀφανίζοντα, e Luc. 77 (DMort.), 22, 9. Souilhé (1930) e Hershbell (1981) fanno dipendere νηπίου δίκην dallo stesso verbo da cui dipende anche περὶ φρονοῦσαν ἡλικίαν (su cui cf. il lemma seguente). Ma νηπίου δίκην fa parte dell’infinitiva τὸ δ’ οὕτως … ἔχειν

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(“comportarsi in modo così debole e riottoso come un bambino non è degno di una persona matura”). La costruzione νηπίου δίκην εἶναι, infatti, è difficilmente tollerabile. 365b7–8 οὐ περὶ φρονοῦσαν ἡλικίαν ἐστίν: A ha περιφρονοῦσαν, contro περὶ φρονοῦσαν di Vv. Il testo di A nasce semplicemente da un errore di distinctio. Non varrebbe neppure la pena di ricordare questa minuzia (dopo Clericus (1711), 85 e Horreus (1718), 126, nessun editore ha accettato περιφρονοῦσαν: Immisch (1896) si è limitato a ricordare la lezione di A in apparato), se non fosse che LSJ s.v. περιφρονέω III dedica una sezione alla lezione di A («intr., to be very thoughtful»). A ha ἔχειν contro ἔχει dei discendenti di O (JRW) e ἐστίν di Vv. La lezione di Vv è stata accolta da Baiter, Orelli, Winckelmann (1839), Immisch (1896) e da Post (1934), 63. Souilhé (1930) ha optato per ἔχει, Burnet (19132) per ἔχειν, seguito da Hershbell (1981) e Männlein-Robert (2012). Tuttavia, ἔχειν non dà una sintassi accettabile. Männlein-Robert (2012) fa dipendere ἔχειν dal precedente ἐπιλογιῇ («dass es nichts mehr mit der Vernunft des Alters zu tun hat, wenn man sich so weichlich und klammernd wie ein kleines Kind benimmt?»). Tuttavia, qui non si parla più della legge di natura (il cui contenuto è introdotto da ἐπιλογιῇ), ma del contrasto tra il comportamento di Assioco e il valore universale della legge di natura. Inoltre, il costrutto ἔχω + περί + accusativo significa solitamente “avere a che fare con qualcosa”, “vedersela con qualcosa”, mentre il senso richiesto è piuttosto “x concerne, riguarda y” (cf. LSJ s.v. περί C.I.3, e.g. Xen. Hell. VII 4, 28; Plut. Suav. 1088c). Tale senso si ottiene invece con εἶμι + περί + accusativo (cf. Schmidt (1896), IV 463–464 e Chevalier (1915), 48, e.g. Philostr. Ap. V 21, 2; 4). Verosimilmente, l’ἔχειν di A risulta da una erronea ripetizione del primo ἔχειν della frase (cf. anche Matthiae (1835), 302). La lezione ἔχει dei discendenti di O è un adattamento secondario, dovuto alla stranezza di ἔχειν (per un adattamento analogo cf. e.g. [Xen.] Ath. 1, 2 ed. Lenfant, ἔχειν ABC : ἔχει M : ἔχουσι Bsl). Superflui (e non particolarmente felici) i tentativi di correzione: οὐ πρέπει φρονούσῃ γ’ ἡλικίᾳ (Matthiae (1835), 302), οὐ περιφρονεῖς ἡλίκον κακόν ἐστιν (Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), ix-x), περὶ φρονοῦσαν ἡλικίαν ἀνήκει (Bury (1939), 34, con ἀνήκει = προσήκει). 365b8 φρονοῦσαν ἡλικίαν: l’espressione indica di solito l’età che distingue il bambino dalla persona intellettualmente matura (cf. e.g. Aeschn. 1 (In Timarchum), 139; Lib. Decl. 6 (V, p. 378 Foerster); [Lib.] Decl. 40 (VII, p. 330 Foerster); sulla coincidenza tra l’acquisto della capacità di φρονεῖν e la maggiore età cf. e.g. Dover (1974), 102–103 e Cantarella (1989), 171). Qui è

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utilizzata metonimicamente (περὶ φρονοῦσαν ἡλικίαν = περὶ τοὺς τῆς φρονούσης ἡλικίας τετυχηκότας). 365c1–5 ἀληθῆ ταῦτα … εἰ στερήσομαι τοῦδε τοῦ φωτὸς καὶ τῶν ἀγαθῶν: questa parte della battuta di Assioco è stata con ogni probabilità ripresa da Cicerone in due luoghi distinti: la prima parte (365c1–4) in Tusc. I 11, 24; la seconda (365c4–5) in Tusc. II 4, 10: cf. anche supra pp. 77-78 e n. 187. Un tempo Assioco ha trovato convincente il moralismo “naturalistico” che emerge dai precetti appena esposti da Socrate. Tuttavia, di fronte al problema concreto della morte, esso si rivela astratto e inefficace dal punto di vista consolatorio (cf. anche supra p. 67 e n. 157). 365c1 ἀληθῆ ταῦτα: il testo di A è ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων. Su Vv(Y) si ha ἀληθῆ ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων. Il testo di A è difficilmente sostenibile. Occorre accogliere la lezione di Vv(Y). Tuttavia, nel CP di solito non si trova ἀληθῆ ταῦτα utilizzato come in questo caso (mentre sono estremamente frequenti espressioni come ἀληθῆ o ἀληθῆ λέγεις: su questo tipo di “reply formula” nel CP cf. Venturelli (2017), 40–41). In compenso la “reply formula” ἀληθῆ ταῦτα si trova nei dialoghi di Luciano (cf. e.g. Hermot. 14 e 68). Non sono chiare, inoltre, le ragioni dell’omissione di ἀληθῆ (un tentativo di spiegazione non soddisfacente in Immisch (1896), 76). Tuttavia, il salto di una o più parole è sempre possibile anche quando non ci sono evidenti ragioni paleografiche o diplomatiche. Non si può, però, escludere un’altra soluzione, cioè ταῦτα κτλ. Nel CP sono numerosissimi i luoghi in cui ricorre questa “reply formula” impiegata come nel nostro caso (cf. e.g. Euthyphr. 7c; Crit. 43c; Phaed. 65c; Crat. 386d; Theaet. 149d; cf. già Perionius 1542, s.p.: «Hinc [scil. dal nostro passo] sumunt exordium loci, quos Cicero fere expressit. Initium est in libri de Amicitia exordio: Sunt ista vera Laeli, quod Plato aliis lib. ἐστὶ [sic] ταῦτα saepe dicit»). Nello stesso Assioco cf. 369a3 (ἔστιν ταῦτα, ὦ Σώκρατες, καὶ ἔγωγε κτλ.). L’ ἔστι può essere stato saltato perché scritto in forma compendiata (ἐστί = /, cf. Kenyon ap. Oikonomides (1974), 128), oppure per aplografia con l’ἐστίν subito precedente. Per un possibile caso analogo cf. Plut. QConv. VIII 724a (ed. Braccini), dove la tradizione medievale ha l’impossibile καὶ ὁ Πραξιτέλης “ταῦτ’ -εἶπεν- ἀλλὰ καὶ τοῦ Θησέως αὐτοῦ πυνθάνεσθαι φήσουσιν κτλ. corretto da Wilamowitz con l’integrazione di ἔστι (cf. Hubert (1938), 274, cf. anche Braccini ap. Braccini, Pellizer (2014), 240 n. 157). In questo caso si può pensare che la lezione ἀληθῆ ταῦτα di Vv(Y) sia un aggiustamento congetturale: la recensione di Vv(Y) è dotta (cf. supra pp. 95-100) e il problema posto dal ταῦτα isolato era facilmente diagnosticabile. Per un caso in una certa misura simile cf. Cic. Acad. post. 1, 3, Tum ego “sunt” inquam “ista, Var-

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ro”, dove la famiglia Γ ha Tum ego “sunt vera” inquam “ista, Varro” (vera è stato aggiunto da chi non aveva presente il valore di “reply formula” di sunt ista, esemplato su ἔστι ταῦτα: cf. Reid (1885), 100; Plasberg (1922), 4 e Ruch (1970), 61). 365c2 ἀλλ’ οὐκ οἶδ’ ὅπως: Cic. Tusc. I 11, 24 riprende questa tournure alla lettera (sed nescio quo modo). L’insoddisfazione che Assioco dimostra nei confronti degli argomenti presentati da Socrate non è fondata su basi razionali. Da una parte, questa reazione si presenta come una forma di debolezza. Essa, infatti, denuncia l’incapacità di sostenere razionalmente l’infondatezza di un argomento. D’altra parte, però, è come se essa rivelasse l’esistenza di una risorsa interna all’essere umano, istintiva, che permette di avvertire le contraddizioni e le insufficienze delle risposte razionali costruite per controllare le paure e le sofferenze che si manifestano nell’esperienza (su questi problemi centrali per la comprensione dell’Assioco cf. supra pp. 67-72; cf. inoltre Nussbaum (1994), 199, la quale, però, poco convincentemente riconduce questa battuta di Assioco ad una sensibilità squisitamente epicurea). 365c2 τὸ δεινὸν: Vv(Y) presentano μοι davanti a τὸ δεινόν. Tuttavia, già dal μοι della frase immediatamente precedente (καὶ ὀρθῶς μοι φαίνῃ λέγων) si può facilmente ricavare che γενομένῳ si riferisce ad Assioco. Vv(Y) hanno aggiunto il μοι senza necessità (casi analoghi in 364b4 e 365c4). Il neutro sostantivato di δεινός nel senso di “pericolo spaventoso” è di uso prevalentemente tragico: cf. e.g. Soph. OT. 722; TrGF IV F 201f; TrGF IV F 351; Eur. Heraclid. 562; Hec. 516 (ma cf. anche Thuc. III 45, 2). 365c3 οἱ μὲν καρτεροὶ καὶ περιττοὶ λόγοι: l’aggettivo καρτερός rimanda all’autocontrollo, al distacco emotivo rispetto agli eventi (sull’ἐγκράτεια e la καρτερία come caratteristiche tipicamente socratiche cf. Dorion (2007), 119–138 e Stavru (2016), 347–353). Con περιττός, invece, si vuole forse esprimere un senso di superiorità nei confronti dei casi della vita (cf. e.g. Soph. El. 155, su questo tratto degli eroi sofoclei cf. Knox (1964), 24–25). Entrambi i termini sono qui utilizzati in malam partem: l’atteggiamento austero che emerge dai precetti enunciati da Socrate è inadeguato per liberare dalla sofferenza causata dalla paura della morte, almeno quando questa si presenta come pericolo concreto. 365c3 ὑπεκπνέουσιν λεληθότως: questa sembra essere l’unica attestazione di ὑπεκπνέω (cf. LSJ s.v. ὑπεκπνέω). Il senso è verosimilmente simile a quello che talvolta assume διαπνέω, “disperdersi in vapore” (cf. LSJ s.v. III, e.g. Aristot. PA. III 671a20). Il doppio preverbo ὑπεκ- suggerisce che questa dispersione avviene “nascostamente”, “furtivamente”, ovvero “impercettibilmente” (cf. analogamente ὑπεκκλίνω, ὑπεκλαμβάνω, ὑπεκπέμπω, ὑπεκπλέω; contra Meister (1915), 34, per il quale nell’Assioco i doppi preverbi non han-

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no valore semantico). I λόγοι austeri perdono consistenza come una sostanza che si disperde nell’aria. Per descrivere il suo stato d’animo, Assioco ricorre ad un’immagine naturale. Infelici sono le correzioni di Burges (1854), 42 n. 1 (ὑπεκπίπτουσι) e di Müller (1866), 95 n. 7 (ὑπεκρέουσι). Al posto di λεληθότως in età classica ci si sarebbe aspettati un participio presente o aoristo di λανθάνω (cf. e.g. Soph. Ant. 532; Thuc. I 69, 3; ma cf. anche 367b1). L’avverbio ribadisce il concetto già espresso dal doppio preverbo di ὑπεκπνέουσιν. 365c4 ἀτιμάζονται: è strano che con questo verbo si interrompa la metafora che era iniziata con ὑπεκπνέουσιν (cf. il lemma precedente). Va tenuta in considerazione la proposta di Segaar (1766a), 19 di correggere ἀτιμάζονται in ἐξατμίζονται (alla stessa correzione aveva pensato indipendentemente Hemsterhuis: cf. Segaar (1766b), ix, da cui risulta che Segaar aveva pensato anche ad un improbabile ἐξικμάζονται). Il verbo ἐξατμίζω è solitamente impiegato al medio nel senso di “evaporare” (cf. LSJ s.v.): ἐξατμίζονται completerebbe perfettamente la metafora iniziata con ὑπεκπνέουσιν. Non sono decisive le obiezioni a questa proposta avanzate da Fischer (1786), 119. Un preverbo come ἐκ-/ἐξ- può cadere facilmente (cf. e.g. Timpanaro (19973), 125 e Lionetti (in uscita); cf. anche il commento a 368d4) e il passaggio da ἀτμίζονται a ἀτιμάζονται è minimo (senza contare che ἀτιμάζω è termine più diffuso di ἀτμίζω). Naturalmente sarebbe ancora più semplice correggere direttamente in ἀτμίζονται. Tuttavia, l’uso di ἀτμίζω al medio nel senso di “evaporare” è molto più inconsueto di quello di ἐξατμίζω (non è comunque impossibile: cf. e.g. Alex. Aphr. in Meteor. 357b1, CArG III, 3 p. 86, 33-35, τῆς γὰρ θαλάσσης οὔσης ἀεί τι ἀπ’ αὐτῆς σὺν τῷ γλυκεῖ ἀτμίζεταί τε καὶ ἀνάγεται καὶ μεταβάλλον γίνεται πότιμον, ammesso che non si debba correggere in ἐξατμίζεται). Per un’endiadi simile a quella che si otterrebbe correggendo in ἐξατμίζονται cf. Thphr. CP. I 1, 3, τὰ δὲ φύσει ξηρὰ διὰ τὸ ὁλίγην ἔχειν [scil. τὴν ὑγρότητα], ὅταν ἀπὸ τοῦ δένδρου ἀφαιρεθῇ, ταχὺ διαπνεῖται καὶ ατμίζεται (la correzione è sorretta dall’uso teofrasteo che, in questo senso, presenta esclusivamente ἐξατμίζομαι e non ἀτμίζομαι; la scelta di Amigues (2012) di tornare ad ἀτμίζονται è perlomeno discutibile). 365c4 ἀντίσχει δὲ δέος τι: questa è la lezione di A dopo l’intervento di A2 (ἀντίσχει è seguito da una rasura che occupa uno spazio di circa tre lettere). Vv hanno ἀντιχεῖται, Y ha ἀντηχεῖται (sulle relazioni tra Vv e Y cf. supra p. 123). Queste due lezioni non danno un senso accettabile, tuttavia possono aiutare a capire le relazioni tra i testimoni primari (cf. supra p. 98). L’espressione ἀντίσχει δὲ δέος τι sembra echeggiare espressioni omeriche come Il. V 817, οὔτε τί με δέος ἴσχει ἀκήριον οὔτε τις ὄκνος (cf. anche Il. V 812; XIII 224; XV 657-658). In Omero il senso di ἴσχω è quello di “afferra-

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re”, “tenere”. Ci si aspetterebbe, dunque, che qui ἀντίσχει δὲ δέος τι significasse qualcosa come “una certa paura mi afferra al loro posto [scil. degli argomenti razionali]” (cf. già Burges (1854): «while in their stead a fear lays hold of me»). Tuttavia, non risulta che ἀντίσχω abbia questo significato (cf. LSJ s.v. ἀντέχω). D’altra parte, i principali significati attestati per ἀντίσχω (“resistere”, “perdurare”) non si adattano particolarmente bene al contesto (dire che la paura “resiste” o “perdura” significa che c’era anche prima, ma ciò è falso). La correzione proposta da Wilamowitz (1895), 983 n. 1 (ἀντηχεῖ), chiaramente ricavata dalla lezione di Y, non è soddisfacente (nondimeno è stata ripresa da Post (1934), 63, con ulteriore sostituzione di δέ con τε). Si potrebbe pensare a ἀντέστη δὲ δέος τι: “si oppone una certa paura” (per l’aoristo pro presente: cf. il commento a 366e1): cf. e.g. Aeschl. Pe. 703 (ed. West), ἀλλ’ ἐπεὶ δέος παλαιὸν σοὶ φρενῶν ἀνθίσταται (ma Wakefield proponeva di scrivere ἀνθάπτεται). La correzione ἀντέστη potrebbe essere sostenuta dalla ripresa che di questo passo fa Cicerone in Tusc. II 4, 10 (tamen interdum obiciebatur animo metus quidam). Per un caso di scambio Τ/Χ cf. il commento a 368d8. L’indefinito τι suggerisce la difficoltà di Assioco nel razionalizzare il proprio turbamento (cf. anche il commento a 365c2). Si tratta di una reazione istintiva accostabile al caecus cordi stimulus di cui parla Lucr. III 873–874 (atque subesse / caecum aliquem cordi stimulum). 365c4 ποικίλως: in questo contesto l’avverbio ποικίλως è piuttosto curioso e di difficile resa (cf. e.g. Souilhé (1930): «de mille manières», Aronadio (2008): «sottilmente», Männlein-Robert (2012): «vielfältiger Weise»). La ποικιλία della paura potrebbe alludere al fatto che Assioco teme confusamente per la perdita dei beni della vita (εἰ στερήσομαι τοῦδε τοῦ φωτὸς καὶ τῶν ἀγαθῶν), per la decomposizione del corpo (κείσομαι σηπόμενος, εἰς εὐλὰς καὶ κνώδαλα μεταβάλλων) e più genericamente per il proprio annichilimento (ἀιδὴς δὲ καὶ ἄπυστος). Tuttavia, non si può escludere che in luogo di ποικίλως si debba scrivere πυκνῶς, “fittamente”, “insistentemente”. L’errore può essersi prodotto per omofonia tra il dittongo οι e υ (cf. e.g. 366b5, ἔτυμά Vv JRW Par : ἕτοιμά A) e per confusione Ν/ΙΛ. L’allotropo di πυκνῶς, πυκινῶς, è a volte impiegato per indicare l’intensità del dolore (cf. e.g. Od. XX, 84, πυκινῶς ἀκαχήμενος ἦτορ). La forma πυκινῶς, però, è di uso prevalentemente poetico. 365c4–5 περιαμύττον τὸν νοῦν: Vv presentano un μοι tra ποικίλως e περιαμύττον, non strettamente necessario (è verosimilmente un’aggiunta analoga a quelle di 364b4 e 365c2). Il verbo περιαμύττω sembra attestato solo in Gal. Vocum Hippocratis Glossarium (XIX, p. 130 Kühn = p. 246 Perilli), περιξύσαςˑ ἐν κύκλῳ περιαμύξας (cf. anche Chevalier (1915), 48). Per

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Joyal (2005), 108 n. 37 περιαμύττω è una ripresa del lessico medico. Tuttavia, non si può escludere un’eco della λέξις epico-tragica: cf. e.g. Hom. Il. I 243-244, σὺ δ’ ἔνδοθι θυμὸν ἀμύξεις / χωόμενος, Aeschl. Pers. 115, ταῦτά μου μελαγχίτων φρὴν ἀμύσσεται φόβῳ, 161, καί με καρδίαν ἀμύσσει φροντίς (cf. anche Bacchyl. Dith. III 18-19, ἢ τί τοι κραδίαν ἀμύσσει;). Come osserva Belloni (1988), 99 (ad Aeschl. Pers. 115) «immagini anche fisiche denotano il tormento dell’animo» (cf. anche Brodhead (1960), 62). 365c5–7 εἰ στερήσομαι τοῦδε τοῦ φωτὸς καὶ τῶν ἀγαθῶν … μεταβάλλων: Assioco ha orrore della morte perché la associa alla distruzione del corpo e alla perdita dei beni della vita. Allo stesso tempo, però, associa la morte ad uno stato di totale annichilimento (ἀιδὴς δὲ καὶ ἄπυστος). Su questo punto Socrate farà leva per mostrare che Assioco si contraddice (cf. il commento a 365d1-5). Sull’irrazionale paura per la sorte del corpo dopo la morte e per la perdita dei beni della vita cf. anche Lucr. III 870– 930 (cf. inoltre Bailey (1947), 1140; Kenney (1971), 199–200 e Segal (1990), 145). Per il problema della perdita dei beni della vita cf. anche Cic. Tusc. I 34, 83. Il passo dell’Assioco è ripreso da Cic. Tusc. II 4, 10 (cf. anche supra p. 78 n. 187). Fakhse (ap. Bekker (1826), 170) proponeva di correggere τῶν ἀγαθῶν in τῶν ἀγαθῶν per analogia con τοῦδε τοῦ φωτός (ma sarebbe più corretto τῶν ἀγαθῶν). Più interessante la proposta di Burges (1854), 42 n. 2 di correggere in τῶν ἀγαθῶν (ma sarebbe meglio τῶν ἀγαθῶν o ): essa può contare sul parallelo di 369d3–4, ἐμὲ δὲ ἡ στέρησις τῶν ἀγαθῶν τοῦ ζῆν λυπεῖ, nonché sulla ripresa di Cic. Tusc. II 4, 10 (interdum obiciebatur animo metus quidam et dolor cogitanti fore aliquando finem huius lucis et amissionem omnium vitae commodorum). Tuttavia, è chiaro che con τὰ ἀγαθά si allude ai beni della vita. Per le proposizioni con εἰ in dipendenza da verba timendi (qui δέος) cf. KG II.2, 396–397 e KC I 727–728; cf. e.g. Soph. Tr. 666–667; Χen. Cyr. VI 1, 17. Longo (1968), 237 (ad Soph. Tr. 666–667) osserva che «il costrutto di verbi di “temere” con εἰ implica l’incertezza su ciò che si teme: il “temere” è in rapporto al “non sapere”, o addirittura coincide con esso». Ciò vale per eccellenza per la paura della morte. 365c6 ἀιδὴς δὲ καὶ ἄπυστος: l’espressione riprende Od. I 242–243, οἴχετ’ ἄιστος ἄπυστος, ἐμοὶ δ’ ὀδύνας τε γόους τε / κάλλιπεν (cf. anche Immisch (1896), 89 e Männlein-Robert (2012), 67 n. 29; ma già Clericus (1711), 86 e Fischer (1786), 120). Il verso è celebre ed è sovente parafrasato in diversi contesti (cf. e.g. Paus. VII 15, 4; M.Aur. IV 33; cf. già Fischer (1786), 120). Nell’Assioco il senso è molto diverso da quello dell’ipotesto. Nell’Odissea Telemaco lamenta la sorte del padre che non potrà ricevere gli onori della sepoltura e il culto della memoria, in quanto non si sa dove sia il suo cor-

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Incontro tra Socrate e Assioco (364d1–365c7)

po. Per Assioco il problema non è quello di non ricevere sepoltura (ὁποίποτε κείσομαι), ma quello di non sentire più nulla una volta morto. Assioco non lamenta l’oblio della propria reputazione, come invece pensava Wolf ap. Fischer (1786), 232. Il senso “passivo” dei due aggettivi (“invisibile e oscuro”) è presente solo come “fossile” del modello omerico: è un’endiadi desemantizzata che indica nel suo complesso l’infelice condizione di un defunto. La forma ἀιδής è stata restituita da Burnet (19132) e Souilhé (1930). Burnet pensava che questa fosse la lezione di A. Tuttavia, verosimilmente A aveva a sua volta ἀειδής, come pensava già Immisch (1896), corretto da A4 in ἀηδής. Vv hanno ἀειδής. Sia il significato di ἀειδής, “informe”, “indistinto” (LSJ s.v. 1), sia quello di ἀηδής, “sgradevole” (LSJ s.v.) non sono adatti al contesto. Migliore è il senso di ἀιδής, “invisibile”. Queste tre parole (ἀειδής, ἀηδής, ἀιδής) sono foneticamente identiche nel greco bizantino. Lo scambio tra le tre è frequentissimo (cf. e.g. Plat. Gorg. 493b (ed. Dodds), ἀιδές FOl. : ἀειδές BTPStob. : ἀηδές WIambl). Il termine ἀιδής ha anche, sia pure molto raramente, il senso attivo di “cieco” (cf. LSJ s.v. II). Questo senso si adatterebbe bene al contesto. Assioco, infatti, teme di essere privato della sensibilità. Tuttavia, come si è detto, qui il senso “passivo” di “invisibile” non deve essere preso troppo alla lettera. La lezione ἄπυστος è testimoniata da Vv(Y), mentre A presenta ἄγευστος. Cousin (1840), 233 ha difeso ἄγευστος contro ἄπυστος («Je me vois avec horreur gisant sous terre, difforme, privé de sentiment»). Tuttavia, ἄγευστος di solito non è utilizzato in senso assoluto (“privo di sensazioni”), ma è costruito con il genitivo della cosa di cui si è privi (cf. e.g. Soph. Ant. 582; Xen. Mem. II 1, 23; Plat. Rp. IX 576a; Aristot. EN. X 1176b19–20; Luc. 19 (Cat.), 17). Al contrario, il termine ἄπυστος è utilizzato in senso assoluto con il valore “passivo” di “ignoto” (cf. LSJ s.v. I.1), come in Od. I 242. Per Männlein-Robert (2012), 67 n. 29 «Möglicherweise schwingt in ἄπυστος (hier wohl ebenfalls passivisch “verschollen”), aufgrund der Etymologie (von πυνθάνεσθαι) auch der Verlust des Hörsinnes mit. Das würde zu Axiochos’ Furcht vor dem Verlust der (körperlichen) Wahrnehmung passen». Più verosimilmente, anche in questo caso il senso “passivo” di ἄπυστος, che è qui una reminiscenza omerica, non deve essere preso troppo alla lettera. 365c6–7 εἰς εὐλὰς καὶ κνώδαλα μεταβάλλων: le εὐλαί sono i vermi che corrompono i cadaveri (cf. e.g. Hom. Il. XXII 509; Hdt. III 16, 4; cf. inoltre Davies, Kathirithamby (1986), 96). Meno specializzato, invece, è il termine κνώδαλον. Esso sembra rimandare a κνώδων, “punta”, “lama” e, dunque, forse, ad un “animale che morde” (cf. Friis Johansen-Whittle (1980), III 114). In ogni caso, di solito indica un animale selvatico terrestre o marino (cf. e.g. Od. XVII 317; Hes. Th. 582). L’identificazione precisa degli animali

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indicati con questo termine non è facile e varia caso per per caso (cf. Friis Johansen-Whittle (1980), III 114 e Overduin (2014), 223). Tuttavia, nell’Assioco κνώδαλα sembra essere un sinonimo di εὐλαί: la costruzione μεταβάλλειν εἰς + accusativo, infatti, significa “mutarsi in qualcosa” (cf. LSJ s.v. μεταβάλλω III, cf. anche infra 364d6, εἰς παντελῆ μεταβαλῶν ἀναισθησίαν). Ciò, tuttavia, si può dire appunto dei vermi e non ad esempio degli animali selvatici che possono nutrirsi di un cadavere. Di solito per indicare i vermi che corrompono i cadaveri a εὐλή non è associato il termine κνώδαλον (cf. anche Burges (1854), 45 n. 2: «The word κνώδαλα seems strangely introduced here»), bensì σκώληξ: cf. e.g. Philod. Mort. 32, 37-33, 2; Plut. Art. 16, 6 ; Plut. Superst. 165a; cf. inoltre Teles fr. III Hense, p. 31 = fr. III Fuentes González, p. 282 (in generale su σκώληξ cf. Davies, Kathirithamby (1986), 96, 99 e 102–103). Demetrio Lacone ricorda che già Epicuro nell’opera Περὶ νόσων καὶ θανάτου utilizzava la iunctura εὐλαὶ καὶ σκώληκες, cosa che gli fu rimproverata da alcuni critici perché l’espressione è pleonastica (coll. XXXV-XXXVII, cf. inoltre Puglia (1988), 234– 244 e Henry (2010), 75 n. 127). Dunque, a meno che l’insolito κνώδαλα non debba essere corretto in σκώληκας (ma non è chiaro come avrebbe potuto generarsi l’errore), si può pensare che κνώδαλα indichi gli animali selvatici che divorano il cadavere (cf. e.g. Lucr. III 872 e 888, oltre che il passo di Telete citato supra in questo lemma), e che μεταβάλλειν εἰς regga sia εὐλάς sia κνώδαλα per zeugma. In questo caso, è degno di nota il gusto dello pseudo-Platone nel variare rispetto alla coppia canonica εὐλαί + σκώλακες.

Primo argomento dell’insensibilità (365d1-e2) 365d1–5 συνάπτεις γὰρ … ἅμα δὲ ἀλγεῖς ἐπὶ σήψεσι καὶ στερήσει τῶν ἡδέων: se si crede che la morte coincida con una completa insensibilità, non c’è nulla da temere, dal momento che il dolore è sempre connesso con una qualche forma di sensibilità e dunque di sopravvivenza. Questo argomento è sviluppato in forma analoga in 369e3–370b1 (per i problemi relativi al disordine testuale cf. supra pp. 48-67). Cf. inoltre Lucr. III 870–930 e Cic. Tusc. I 34, 83–37, 90 (già in Tusc. I 4, 8–7, 14 Cicerone aveva sviluppato un argomento analogo: in quel caso però si discuteva della paura che la morte sia un male per chi è già morto, non per chi ancora deve morire). 365d1–2 συνάπτεις γὰρ, ὦ Ἀξίοχε, παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν {ἀνεπιλογίστως}: la ripetizione delle prime parole in 369e3 è forse dovuta all’incompiutezza dell’opera (cf. supra p. 47). Le espressioni παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν e ἀνεπιλογίστως indicano entrambe una mancanza di rifles-

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sione (cf. LSJ s.vv. ἀνεπιλόγιστος e ἀνεπιστασία: entrambi i termini sono molto rari ed estranei al greco classico). Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1839) suggeriva di espungere παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν come glossa di ἀνεπιλογίστως. Contro l’espunzione di παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν, accolta da Immisch (1896), cf. Wilamowitz (1895), 980 n. 1: «παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν sieht schon wegen παρά nicht nach einem Glossem aus und hat 370a in κατὰ τὸ ἀνεπιστῆμον seine Parallele». Per παρὰ nel senso di “a causa di” cf. LSJ s.v. C.III.7. Difficilmente un glossatore avrebbe utilizzato un’espressione del genere. Stallbaum (1850) e Dobree (1874), I 135, per contro, espungevano ἀνεπιλογίστως come glossa ripresa da 369e3 (lo stesso sospetto aveva avuto Fischer (1786), 121, il quale però accettava la ripetizione; ma già sul Vind. 109 ἀνεπιλογίστως è stato omesso: su questo codice cf. supra pp. 115-116 e n. 299). Con l’espunzione di ἀνεπιλογίστως si ottiene una simmetria chiastica con 369e3 e 370a5–6: prima si ha παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν seguito da οὐκ ἐπιλογιζόμενος ὅτι κτλ. mentre a 369e3 si ha ἀνεπιλογίστως seguito da κατὰ τὸ ἀνεπιστῆμον (370a5–6). Il primo ἀνεπιλογίστως non solo è un’inutile ripetizione, ma sembra rovinare una costruzione particolarmente studiata. Tenuto conto delle particolari condizioni “genetiche” dell’opera (su cui cf. supra pp. 46, 58-59 e 80-81), non si può escludere che ἀνεπιλογίστως sia non un’interpolazione tradizionale, ma una variante d’autore: in un primo tempo l’autore avrebbe utilizzato esattamente le medesime parole (incluso ἀνεπιλογίστως) qui e in 369e3, poi per attenuare la ripetizione avrebbe mutato ἀνεπιλογίστως in παρὰ τὴν ἀνεπιστασίαν (memore di κατὰ τὸ ἀνεπιστῆμον). La correzione autoriale, però, è stata interpretata come aggiunta dal redattore dell’opera, lo stesso responsabile dell’errata dislocazione della sezione (9) del dialogo (sulla questione cf. supra pp. 58-59; sulla disciplina delle varianti d’autore cf. Mariotti (1985), 101 e Losacco (2016), 355–375). In analogo contesto (Tusc. Ι 6, 12) Cicerone rende il concetto espresso da ἀνεπιλογίστως con inconsiderate (che ne è quasi un calco). 365d3 ἐπιλογιζόμενος: il verbo ἐπιλογίζομαι, come i sostantivi ad esso connessi ἐπιλογισμός e ἐπιλόγισις (e naturalmente gli aggettivi e agli avverbi derivati dallo stesso tema) sono ben rappresentati nel lessico epicureo della dottrina della conoscenza: cf. e.g. Epic. Epist. Hdt. 72-73; Epist. Men. 133; RS. XXII; Philod. Sign. col. XXVIII, ll. 15-16 De Lacy. Non è semplice chiarire il senso di ἐπιλογισμός (e dei termini ad esso correlati) nel lessico epicureo (cf. Arrighetti (1952), 119–144; De Lacy (1958), 179–183; Sedley (1973), 27–34; Asmis (1984), 177–178; Schofield (1996), 221–237). Per quanto sia spesso utilizzato come termine tecnico (cf. Schofield (1996), 225: «it is indisputable that Epicureans sometimes use epilogizesthai as a

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term of art»), nella stessa letteratura epicurea si ha un uso non tecnico di ἐπιλογίζομαι e dei termini ad esso correlati (cf. Arrighetti (1952), 140). Si è pensato che l’uso di ἐπιλογίζομαι (e di termini ad esso connessi) nell’Assioco riprenda deliberatamente il lessico epicureo (Männlein-Robert (2012), 65 n. 23; cf. anche Sedley (1973), 34; «ἐπιλογίζεσθαι and ἀνεπιλογίστως are superficial echoes of Epicurean terminology»). Ciò potrebbe essere suggerito dal fatto che nel contesto è sviluppato un argomento dell’insensibilità che parte dal presupposto condiviso dagli epicurei secondo cui non c’è vita oltre la morte. Tuttavia, ἐπιλογίζομαι è già stato utilizzato dall’autore in un contesto dove una ripresa deliberata del lessico epicureo non ha particolare senso (365b1–2). 365d4 ἐπὶ σήψεσι: non si vede la ragione del plurale. Matthiae (1835), 302 correggeva in σήψει τε. Potrebbe, però, essere sufficiente correggere σήψεσι in σήψει (senza aggiungere il τε). 365d5 εἰς ἕτερον βίον: tràdito è εἰς ἕτερον ζῆν, stampato da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). L’infinito sostantivato senza articolo è sospetto. In assoluto non sembra impossibile (in generale cf. KG II.2, 45–46). Ma si tratta di un fenomeno molto raro (ammesso che i casi osservabili siano sani) che non permette di giustificare il testo dell’Assioco, tanto più che per il resto l’autore usa l’infinito sostantivato in modo regolare. Curiosamente nessuno (a parte Burges (1854), 42 n. 7) ha avuto l’esigenza di intervenire. La proposta di Burges di scrivere εἰς ἑτεροζοΐαν al posto di εἰς ἑτερον ζῆν è implausibile (ἑτεροζοΐα non è neppure attestato). Meglio correggere ζῆν in βίον: cf. Antipho 87 B 53a DK (= Stob. III 16, 20), εἰσί τινες οἳ τὸν παρόντα μὲν βίον οὐ ζῶσιν, ἀλλὰ παρασκευάζονται πολλῇ σπουδῇ ὡς ἕτερόν τινα βίον βιωσόμενοι, οὐ τὸν παρόνταˑ καὶ ἐν τούτῳ παραλειπόμενος ὁ χρόνος οἴχεται (su questo passo cf. Untersteiner (1954– 1962), IV 133 e Pendrick (2002), 394–395; Altwegg (1908), 16 n. 3 ritiene che οὐ τὸν παρόντα vada espunto). Si tratta verosimilmente di un errore di sovrapposizione mentale di sinonimi. Un caso analogo si ha e.g. in 367a5, διαλογισμοὶ τίνα τις τοῦ βίου (codd. : ζῆν Stob.) ὁδὸν ἐνστήσηται. Si potrebbe pensare in alternativa a εἰς ἕτερον ζῆν (o a qualcosa di analogo), ma ogni altra soluzione è meno economica della semplice correzione di ζῆν in βίον. 365d5–6 ὥσπερ ... ἀποθανούμενος ... μεταβαλὼν ἀναισθησίαν: su ὥσπερ + participio cf. e.g. Xen. An. V 4, 34 (in generale cf. KG II.2, 97–98: «Ὥσπερ wird wie ὡς von etwas Angenommenem gebraucht (= quasi)»). Per ὡς (di cui ὥσπερ qui è equivalente) + participio futuro cf. e.g. Thuc. II 7, 1 (in generale cf. KG II.2, 92). Il participio futuro esprime qui un’aspettativa (“come qualcuno che si aspetta di”, “come qualcuno che sta per”): cf. Antipho 87 B 53a DK (= Stob. III 16, 20), citato al lemma precedente, ma anche De-

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mocr. 68 B 227 DK (= Stob. III 16, 17), οἱ φειδωλοὶ τὸν τῆς μελίσσης οἶτον ἔχουσιν ἐργαζόμενοι ὡς ἀεὶ βιωσόμενοι, Metrod. fr. 53 Körte (= Stob. III 16, 21), ἑτοιμάζονταί τινες διὰ βίου τὰ πρὸς τὸν βίον ὡς βιωσόμενοι μετὰ τὸ λεγόμενον ζῆν οὐ συνορῶντες ὡς πᾶσιν ἡμῖν θανάσιμον ἐγκέχυται τὸ τῆς γενέσεως φάρμακον. La costruzione ἀποθνῄσκω + εἰς è inconsueta, ma non impossibile (cf. e.g. Plut. E ap. Delph. 392d, ὅ τ’ ἐχθὲς εἰς τὸν σήμερον τέθνηκεν, ὁ δὲ σήμερον εἰς τὸν αὔριον ἀποθνήσκει). In ogni caso, è una soluzione espressiva più ardita e concettosa dell’atteso ὥσπερ ἕτερον βίον βιωσόμενος (cf. i passi citati nei due lemmi precedenti). 365d6-e1 τὴν αὐτὴν τῇ πρὸ τῆς γενέσεως … μετὰ τὴν τελευτὴν γενήσεται: per un argomento della simmetria tra la condizione che precede la nascita e quella che segue la morte espresso in modo molto simile a quello dell’Assioco cf. [Plut.] Cons. Apoll. 109e-f. In Lucr. III 832–842 e Cic. Tusc. I 37, 90–38, 91 tra i due termini dell’analogia sono inseriti degli esempi storici come nell’Assioco (cf. anche Immisch (1896), 30; Alfonsi (1950), 252 n. 1; Kassel (1958), 79; Fuentes González (1998), 524–525 e MännleinRobert (2012), 68 n. 32: non tutti i passi richiamati a confronto da questi interpreti sono pertinenti). L’argomento della simmetria è un luogo comune della tradizione consolatoria (oltre ai passi già citati, cf. e.g. Sen. ad Marc. 19, 5; ad Pol. 9, 2; cf. inoltre Kassel (1958), 79 e Hani (19852), 282 n. 1). 365d7–8 ἐπὶ τῆς Δράκοντος ἢ Κλεισθένους πολιτείας: sulla πολιτεία (“costituzione”) di Dracone cf. Aristot. Ath. 4, 1-2 e 41, 2 (ripreso forse da Cic. Rp. II 1, 2; sulla problematica questione di questa πολιτεία cf. in generale Cecchin (1969), 93–101). Secondo Busolt (1893–1895), I 393 e II 224– 225 n. 1 l’Assioco dipende su questo punto da Aristotele. Immisch (1896), 16 n. 1 pensa ad una fonte comune. Per Wilamowitz (1895), 979 n. 1 l’espressione ἐπὶ τῆς Δράκοντος πολιτείας equivale semplicemente a ἐπὶ Δράκοντος πολιτευομένου (“sotto il governo di Dracone”) e non implica la conoscenza di una tradizione su una πολιτεία di Dracone. Secondo Matthiae (1835), 150 Dracone e Clistene sarebbero menzionati come paradigmi negativi: il primo per la durezza delle pene, il secondo per aver introdotto una forma di democrazia radicale e l’ostracismo. Più verosimilmente, Dracone e Clistene sono menzionati in quanto celebri icone di un passato lontanissimo del tutto ininfluente sulla vita degli uomini presenti (quale che fosse il male che allora poteva avere luogo): cf. anche Männlein-Robert (2012), 68 n. 32. D’altra parte, quando Lucrezio e Cicerone ricorrono ad esempi storici nell’ambito dell’argomento della simmetria (cf. il commento al lemma precedente), essi usano degli esempi negativi, ma tali esempi sono esplicitamente ed inequivocabilmente negativi.

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In questo caso, stupisce l’assenza di Solone, solitamente ricordato quando si menzionano gli antichi legislatori ateniesi: cf. e.g. Them. Or. 2, 31b; Or. 23, 287c; Lib. Decl. 1 (V, p. 60 Foerster). Non si può escludere che la menzione di Solone sia caduta: ἐπὶ τῆς Δράκοντος ἢ Κλεισθένους πολιτείας. 365d8 ἀρχὴν: questo accusativo avverbiale è talvolta reso con il senso di “in principio” (cf. e.g. Souilhé (1930): «car il te manquait d’abord d’être», Brisson (2014): «dès lors que tu n’existais même pas»). Ma qui ἀρχήν significa “del tutto”, “assolutamente” (bene Aronadio (2008): «giacché non c’eri affatto» e Männlein-Robert (2012): «denn es gab dich ja gar nicht»; ma cf. già Clericus (1711), 88). Per quest’uso di ἀρχήν cf. e.g. Hdt I 9, 1; Lycurg. Leocr. 125, e in generale KG II.1, 315; Schmidt (1893), III 104; Radt (1993), 59 e Radt (2002–2011), VIII 112 (ad Strab. XIV 668c, 22). Cf. anche il commento a 370a4. 365e1 ἦς: in luogo di ἦσθα, è tipico della κοινή (cf. Moer. η 4 Hansen, ἦσθα Ἀττικοί· ἦς Ἕλληνες, cf. inoltre Hoffmann, Debrunner, Scherer (1969), 96 e Horrocks (2010), 103). 365e1 περὶ ὃν ἂν ἦν: Vv e i discendenti di O hanno ἦν, mentre A ha il congiuntivo ᾖ. La relativa implica un’ipotesi irreale nel passato: “se tu fossi esistito allora in qualche modo, cosa che non è, un eventuale male ti avrebbe toccato” (cf. e.g. Plat. Phaed. 57a-b (ed. Duke-Nicoll-Hicken-Robinson), οὔτε τις ξένος ἀφῖκται χρόνου συχνοῦ ἐκεῖθεν ὅστις ἂν ἡμῖν σαφές τι ἀγγεῖλαι οἷός τ’ ἦν (ἦν βδ : ἦ T) περὶ τούτων.

Primo argomento dell’immortalità dell’anima (365e2–366b1) 365e2 τοιγαροῦν: con la particella τοιγαροῦν si trae una conclusione rispetto a ciò che precede (cf. Meister (1915), 33 e n. 2 e KG II.2, 329). Nel greco classico in genere τοιγαροῦν è in prima posizione: cf. e.g. Soph. Ph. 341; Plat. Leg. III 695d; 790b (cf. inoltre Blomqvist (1969), 130). Nel corpus Hippocraticum τοιγαροῦν è sempre posposto (cf. Denniston (19542), lxx e 567, ripreso da Blomqvist (1969), 130). In età ellenistica può essere in prima posizione o posposto. Secondo Blomqvist (1969), 130 «the change of position is probably due to the influence of the Ionic dialect on Hellenistic Greek». Nel nostro caso la posposizione permette anche di mettere in risalto il predicativo πάντα (su cui cf. KG II.1, 633). 365e2–3 τὸν τοιόνδε φλύαρον: nell’Assioco τοιόσδε è usato spesso in luogo di τοιοῦτος, e τοσόσδε in luogo di τοσοῦτος (cf. Brinkmann (1896), 452 e Meister (1915), 33). In ogni caso, la regola secondo cui τοιοῦτος e

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τοσοῦτος dovrebbero riferirsi a ciò che è stato precedentemente espresso, mentre τοιόσδε e τοσόσδε a ciò che segue, non è rigida (KG II.1, 646–647). Il sostantivo maschile φλύαρος è particolarmente frequente nella λέξις comica (cf. e.g. Aristoph. Nub. 365; Stratt. fr. 28; Men. Sam. 441; ma cf. anche Plut. Cic. 2, 2). È più raro rispetto all’equivalente φλυαρία attestato spesso in Platone (cf. e.g. Ap. 19c; Crit. 46d; Phaed. 66c; HipMa. 304b). È meno raro di φλυαρολογία (cf. 369d2, con il commento ad loc.). Va distinto dall’aggettivo maschile sostantivato che ricorre in 369b1 e che indica “colui che dice sciocchezze, parla a vanvera”. Secondo Immisch (1896), 41 qui φλύαρος indicherebbe una persona (“diesen Schwätzer hier”), cioè Epicuro (di cui sarebbe ripreso il pensiero). Questa interpretazione è insostenibile sia per la presenza di πάντα, sia, soprattutto, per l’imperativo ἀποσκέδασαι: nessuno dei due si adatta a τὸν φλύαρον se si intende quest’ultimo come riferito ad una persona. 365e3 ἀποσκέδασαι: per un’espressione figurata simile cf. già Hom. Od. VIII, 149, σκέδασον δ’ ἀπὸ κήδεα θυμοῦ. Per un’esortazione analoga in contesto simile cf. Cic. Tusc. I 39, 93, pellantur ergo istae ineptiae paene aniles. 365e3–4 συγκρίσεως ἅπαξ διαλυθείσης: A e lo Stobeo presentano συγκρίσεως, mentre Vv hanno συγκράσεως. Il processo di διάλυσις è solitamente associato alla σύγκρισις e non alla σύγκρασις (cf. e.g. Epic. Epist. Hdt. 41 e 54; M.Aurel. XII 36). Il termine σύγκρισις designa qui un composto (come se fosse σύγκριμα) e non un processo di aggregazione (cf. e.g. Epic. Epist. Hdt. 66). Che la morte consista nella separazione dell’anima dal corpo e che l’uomo sia un composto di anima e di corpo è una convinzione diffusa nell’antichità (cf. Baltes (1988), 97–100). Le divergenze tra le singole correnti di pensiero riguardano piuttosto la natura dell’anima e del corpo, le loro relazioni e il loro destino dopo la morte (cf. von Staden (2000), 79– 80). La concezione dualistica che emerge dal passo è in ogni caso di generica ispirazione platonica (cf. anche il commento ai lemmi successivi). 365e4–5 τῆς ψυχῆς εἰς τὸν οἰκεῖον ἱδρυθείσης τόπον: il lessico sembra di derivazione aristotelica (cf. e.g. Aristot. Cael. I 279b1–2, πάντα γὰρ παύεται κινούμενα ὅταν ἔλθῃ εἰς τὸν οἰκεῖον τόπον). 365e5 τὸ ὑπολειφθὲν σῶμα, γεῶδες ὂν καὶ ἄλογον: l’idea che il corpo sia composto di terra presuppone una dottrina degli elementi prossima a quella di Plat. Tim. 31b (la terra è l’elemento più pesante e fa sì che il corpo non possa salire insieme all’anima nelle regioni celesti). Il corpo è anche indicato come la parte del composto priva di facoltà razionali (ἄλογον). Ciò implica una rigida dicotomia irrazionale-razionale, a sua volta corrispondente alla dicotomia corpo-anima, simile a quella del Fedone. Ciò è coerente con la concezione unitaria dell’anima sviluppata in questo passo. La causa del male è interamente esterna all’anima.

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365e5–6 οὐκ ἔστιν ὁ ἄνθρωπος. ἡμεῖς μὲν γάρ ἐσμεν ψυχή: concetto ed espressione risalgono a Plat. Alc. I 130c (cf. anche Meister (1915), 66–69; Alfonsi (1950), 266–267; Ronconi (1961), 136–137; Carlini (1968), 31 n. 22 e Männlein-Robert (2012), 69 n. 35). In analogo contesto questo passo platonico è ripreso da Cic. Tusc. I 22, 52 (su cui cf. Pépin (1969), 56–70; Courcelle (1974-1975), I 27–33 e Lévy (1992), 455–456, con indicazioni sul problema della fonte). Secondo Di Giuseppe (1993), 7: «l’autore dell’Assioco [non] si sogna di dire che l’“uomo” è anima, ma solo che io e anima (immortale) sono la stessa cosa: perché si parli di “uomo”, in questa prospettiva è necessario anche un corpo, come si deve sostenere proprio sulla base della teoria della morte». Questa distinzione tra “io” e “uomo” è eccessivamente intellettualistica. La concezione antropologica di questo passo implica un’identificazione totale dell’uomo con la propria anima. Il corpo è un residuo trascurabile (bene Courcelle (1965), 412: «l’Axiochus considère l’homme essentiellement comme une âme»; cf. inoltre Ronconi (1961), 136 (ad Cic. Somn. 8, 26): «Il corpo è qui inteso come antitesi (non parte) dell’individuo, che è identificato con l’anima, sua unica essenza»). 365e6 ζῷον ἀθάνατον: definizione del dio in Plat. Phaedr. 246c-d, cf. inoltre [Plat.] Def. 411a (con Ingenkamp (1967), 13–14). L’attribuzione della definizione del dio all’anima presuppone un’assimilazione tra natura dell’anima e natura della divinità (cf. anche 370c4–5). Questa operazione potrebbe essere legata ad una riflessione svolta all’interno dell’Accademia, forse a partire dal passo del Fedro (sulla questione di possibili tracce di esegesi accademica nell’Assioco cf. supra pp. 27-29). 365e6–366a1 ἐν θνητῷ καθειργμένον φρουρίῳ: la tradizione medievale e lo Stobeo hanno φρουρίῳ, A3 ha segnato a margine la variante χωρίῳ (con γρ). La lezione φρουρίῳ si impone: in questo passo non si sta sviluppando una contrapposizione tra due regioni, quella degli esseri mortali e quella degli immortali, ma tra l’anima (ζῷον ἀθάνατον) e il corpo (φρούριον θνητόν). La variante χωρίῳ potrebbe essersi generata per condizionamento dell’espressione precedente εἰς τὸν οἰκεῖον ἱδρυθείσης τόπον (365e4–5). Ma potrebbe anche trattarsi di una correzione ispirata a 372a6, ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα. L’immagine del φρούριον dipende verosimilmente da Plat. Phaed. 62b, ὁ μὲν οὖν ἐν ἀπορρήτοις λεγόμενος περὶ αὐτῶν λόγος, ὡς ἔν τινι φρουρᾷ ἐσμεν οἱ ἄνθρωποι (cf. anche Hershbell (1981), 57 n. 17 e Männlein-Robert (2012), 69 n. 35). L’interpretazione della φρουρά del Fedone è questione dibattuta fin dall’antichità (cf. e.g. Dam. in Phaed. I 84-85 Norvin (= 2 Westerink) = Xenocr. fr. 139 Isnardi Parente3, con Isnardi Parente (2012), 316– 318). Gli interpreti moderni discutono intorno alla questione se il termine

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φρουρά significhi “prigione” o “posto di guardia” e se la φρουρά indichi il cosmo in cui gli uomini sono tenuti a vivere oppure il corpo (cf. e.g. Carlini (1968), 29–32; Di Giuseppe (1993), 1–25; Rowe (1993), 128 e Menchelli (1999), 230–232). Il φρούριον dell’Assioco presuppone la φρουρά del Fedone ed è inequivocabilmente un’immagine del corpo che racchiude l’anima (cf. Carlini (1968), 31 n. 22 e Di Giuseppe (1993), 7–8). Dunque, con ogni verosimiglianza l’autore dell’Assioco interpretava la φρουρά del Fedone come immagine del corpo-prigione (cf. anche Boyancé (1963), 8). Tuttavia, lo pseudo-Platone non utilizza direttamente il termine φρουρά ma φρούριον. Questo lieve scarto potrebbe essere la spia della consapevolezza dell’esistenza di un dibattito intorno al valore preciso dell’immagine della φρουρά, dibattito rispetto al quale l’autore si decide per l’interpretazione del corpo come “prigione” (per contro, la variante χωρίου potrebbe anche essersi originata per un’interferenza con la conoscenza di una diversa interpretazione della φρουρά come “cosmo”, “regione terrestre”). Di per sé il termine φρούριον è solitamente inteso nel senso di “prigione”. Tuttavia, più che il luogo di detenzione di un condannato, qui il φρούριον designa forse una gabbia per animali: l’anima è un animale immortale (ζῷον ἀθάνατον) racchiuso in una gabbia mortale (già Espinas (1895), 453 interpretava la φρουρά del Fedone nel senso di “recinto per animali”, con ogni probabilità a torto: una lettura del genere, invece, sembra adattarsi bene al testo dell’Assioco). 366a1–2 τὸ δὲ σκῆνος τουτὶ πρὸς κακοῦ περιήρμοσεν ἡ φύσις: forte è la somiglianza con [Ti. Locr.] De nat. mund. 103c-d (= p. 223 Thesleff = p. 148 Marg), ἁ γὰρ φύσις οἷον ὄργανον ἁρμόξατο τὸ σκᾶνος, ὑπακοῦόν τε εἶμεν ἐναρμόνιον ταῖς τῶν βίων ὑποθέσεσι. Tuttavia, nello pseudo-Timeo il corpo ha una funzione positiva, nella misura in cui è controllato dall’anima, mentre nell’Assioco è connotato in modo interamente negativo. Come nota Baltes (1972), 218, la concezione espressa dallo pseudo-Timeo presuppone un rapporto anima-corpo quale è descritto e.g. in Plat. Phaed. 79e-80a o in Tim. 69c. Il passo dell’Assioco, invece, si avvicina di più a Plat. Phaed. 66b, ἕως ἂν τὸ σῶμα ἔχωμεν καὶ συμπεφυρμένη ᾖ ἡ ψυχὴ μετὰ τοῦ τοιούτου κακοῦ [scil. il corpo], οὐ μή ποτε κτησώμεθα ἱκανῶς οὗ ἐπιθυμοῦμεν (già richiamato da Immisch (1896), 34). È difficile dire quale possa essere la relazione tra lo pseudo-Platone e lo pseudo-Timeo. In ogni caso, essi riflettono due posizioni molto diverse: l’uno una concezione ottimistico-finalistica della realtà sensibile, l’altro un totale pessimismo. Il termine σκῆνος letteralmente significa “tenda” (cf. σκηνή), ma è sovente utilizzato come immagine del corpo, inteso come involucro dell’anima. Quest’uso si trova soprattutto in Democrito (cf. e.g. 68 B 223 DK = Stob. III

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10, 65) e in scritti pitagorici più tardi (oltre al passo dello pseudo-Timeo citato supra in questo lemma, cf. e.g. [Archyt.] De educ. eth. 43, 19–21).488 Il deittico τουτί accentua l’idea della presenza materiale del corpo in contrapposizione all’immateriale presenza dell’anima: cf. Cic. Somn. 8, 26, nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura quae digito demonstrari potest. Come nota Ronconi (1961), 137, l’espressione di Cicerone «traduce perifrasticamente l’idea della corporeità». È come se Cicerone parafrasasse il deittico dell’Assioco (sulla conoscenza del dialogo da parte di Cicerone cf. supra pp. 77-81) Per πρός + ἀγαθοῦ/κακοῦ nel senso di “a vantaggio/svantaggio di” cf. LSJ s.v. πρός A.IV. Si tratta di un uso non classico forse affermatosi con la κοινή. Solitamente questo costrutto è associato ad un dativo di vantaggio/svantaggio (cf. e.g. [Aristot.] Mund. 397a30; Philod. Mort. 24, 29; Arr. An. VII 16, 5; Sext. M. VII 12; Hld. VII 12; cf. anche Brinkmann (1896), 452 n. 5; Chevalier (1915), 49 e Männlein-Robert (2012), 69 n. 37). In questo caso va sottinteso qualcosa come ἡμῖν o ἀνθρώποις. De Vogel (1981), 94 n. 32 sostiene che πρὸς κακοῦ non significa «pour notre mal», come traduce Souilhé (1930), ma «by misfortune». Tuttavia, se πρὸς κακοῦ è inteso nel senso di “by misfortune”, il corpo risulta essere un mero accidente negativo, il prodotto del caso. Ma qui si vuole dire che la natura “matrigna” procura alle anime il male per un’imperscrutabile necessità cosmica. Il verbo περιαρμόζω indica l’operazione con cui qualcosa è applicato o avvolto intorno a qualcos’altro (cf. e.g. Plut. Cam. 40, 4, τοῖς δὲ θυρεοῖς κύκλῳ περιήρμοσε λεπίδα χαλκῆν). La φύσις è qui presentata come “matrigna”, una forza cosmica ineluttabile che procura agli uomini ogni sorta di infelicità. Il tema della natura “matrigna” era forse sviluppato nel Protrettrico di Aristotele (cf. Bignone 1939, 126 e n. 3, il quale fa risalire un frammento del Κατ’ ἰσχύος plutarcheo (XXIV Bernardakis = 121 Sandbach) a quest’opera di Aristotele; la proposta è accolta da Schneeweiß (2005), 148). In ogni caso, in quest’opera perduta di Aristotele era presente una forte svalutazione della dimensione corporea (cf. e.g. fr. 10b Walzer = 10b Ross = 73 e 823 Gigon). In generale sul problema dell’origine del male in Platone e nella tradizione platonica cf. Ferrari (2017), 42–89. 366a2–4 τὰ μὲν ἥδοντα … τῶν ἡδόντων ἄμοιρα: si oppongono piaceri e dolori attraverso un parallelismo trimembre: (a) ἀμυχιαῖα/ἀκραιφνῆ, (b) πτηνά/πολυχρόνια, (c) εἰς πλείους ὀδύνας ἀνακεκραμένα/τῶν ἡδόντων

488 Cf. Delatte (1922), 172 n. 2; Harder (1926), 145; Taylor (1928), 660–661; Delatte (1942), 181; Baltes (1972), 150–151; Centrone (1982), 299 n. 4 e Centrone (1990), 191.

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ἄμοιρα. Prima si ha un riferimento alla qualità del piacere e del dolore (a), quindi alla loro rispettiva durata (b), infine, al fatto che il piacere non è mai privo di sofferenza (c). Questa tripartizione trova una corrispondenza nella critica al piacere epicureo che possiamo leggere in Plut. Suav. 1087d-1088f (rivolta soprattutto contro Epic. RS. IV (= SV. III) e XVIII). Anche la critica plutarchea è tripartita: a) i piaceri sono di poco conto e interessano poche parti del corpo, mentre i dolori sono forti e pervasivi; b) i piaceri durano poco, mentre i dolori durano a lungo; c) anche se i piaceri per dimensione e durata non sono inferiori ai dolori, tuttavia sono sempre collegati alle sofferenze (su tutto il passo plutarcheo cf. Barigazzi (1978), xvi-xviii). Plutarco nella sua critica all’edonismo epicureo dipendeva da fonti accademiche (cf. Barigazzi (1978), xlix-l; sulla polemica anti-edonistica nell’Accademia antica cf. già Bignone (19732), I 255–257, 375–400 e Giannantoni (1958), 94–95; Usener (1887), lxiv riteneva che Plutarco dipendesse piuttosto da polemiche anti-epicuree sviluppate all’interno dell’Accademia scettica). Non si può escludere che lo pseudo-Platone riprenda a sua volta una tradizione anti-edonistica sviluppata nell’Accademia. Tuttavia, per un accumulo di caratteristiche negative molto simile a quello contenuto in questa sezione cf. già Antipho 87 B 51 DK (= Stob. IV 34, 56), εὐκατηγόρητος πᾶς ὁ βίος θαυμαστῶς, ὦ μακάριε, {καὶ} οὐδὲν ἔχων περιττὸν οὐδὲ μέγα καὶ σεμνόν, ἀλλὰ πάντα μικρὰ καὶ ἀσθενῆ καὶ ὀλιγοχρόνια καὶ ἀναμεμειγμένα λύπαις μεγάλαις. 366a2 τὰ μὲν ἥδοντα: il participio attivo sostantivato di ἥδομαι nel senso di ἡδονή è raro (cf. Chevalier (1915), 49 e Meister (1915), 50; cf. anche 366a4). Tuttavia, si trova già in Antipho 87 B 44 DK (= CPF 1* 17.1-2, fr. B, col. IV, ll. 14–18 Bastianini-Decleva Caizzi), οὐδὲ ξυμφέροντ’ εἴη τὰ λυποῦ̣[ντα] μᾶλλον ἢ τ[ὰ ἥ]δοντ[α] (con Bastianini, Decleva Caizzi (1989), 210). Torna nel lessico filosofico più tardo: cf. e.g. Diog. Oen. fr. 34, col. VI; Sext. M. VII 203. 366a2 ἀμυχιαῖα: l’aggettivo ἀμυχιαῖος è testimoniato da A, dai discendenti di O e dallo Stobeo (con la variante deteriore ἀμυχαῖα). A3, Vv e Par hanno la lezione μυχιαῖα. Entrambi i termini sono ἅπαξ. Tuttavia, non si capisce quale senso potrebbe avere in questo contesto μυχιαῖα che sembra rimandare a μυχός (“parte interna”, “recesso”), a meno che non si debba correggere in μοιχιαῖα con il Planude (cf. anche la traduzione di Ficino «adulterina», come se presupponesse μοιχικά: Wolf ap. Fischer (1786), 238). Invece, ἀμυχιαῖος sembra da ricondurre a ἀμυχή (“lacerazione”, “graffio”) e a ἀμύσσω (“lacerare”, “graffiare”): cf. Beekes s.v. ἀμυχή. In genere ἀμυχιαῖος è inteso nel senso di “superficiale” (cf. e.g. LSJ s.v.). Tuttavia, per come il passo è costruito, ci si aspetta che ἀμυχιαῖα abbia un senso opposto

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a quello di ἀκραιφνῆ. Ma ἀκραιφνής significa “puro”, “inviolato” (cf. il commento a 366a4). Ci si aspetta, dunque, che ἀμυχιαῖος in questo contesto significhi piuttosto “contaminato”, “impuro” (cf. già Wolf ap. Fischer (1786), 238 e Fischer (1786), 123–124). Non convincenti i temptamina di correzione di Wolf ap. Fischer (1786), 238 (ἀμήχανα, ἀκαριαῖα, ἀμυδρά). 366a3 πτηνά: per l’uso dell’aggettivo nel senso metaforico di “inconsistente” cf. e.g. Plat. Leg. IV 717d (in generale cf. LSJ s.v. II). Per un’immagine analoga cf. Cic. Fin. II 32, 106, effluit igitur voluptas corporis et prima quaeque avolat saepiusque relinquit causam paenitendi quam recordandi, ma cf. anche Plut. Suav. 1087f, αἱ δ’ ἡδοναὶ καθάπερ αὖραι πρὸς ἑτέραις ἕτεραι τοῦ σώματος ἄκραις ἐπιγελῶσαι διαχέονται, 1094e, αἱ τοῦ σώματος ἡδοναὶ καθάπερ οἱ ἐτησίαι μαραίνονται μετὰ τὴν ἀκμὴν καὶ ἀπολήγουσιν (su cui cf. Fuhrmann (1964), 108 e Zacher (1982), 86–87). 366a3 εἰς πλείους ὀδύνας ἀνακεκραμένα: lo Stobeo ha πλείοσιν ὀδύναις contro εἰς πλείους ὀδύνας della tradizione medievale (“[scil. piaceri] mescolati ad un maggior numero di dolori”). Quella dello Stobeo è la costruzione più prevedibile (cf. e.g. Plat. Criti. 121a-b). Al contrario, ἀνακεράννυμι + εἰς è anomalo (cf. anche Chevalier (1915), 50; nello stesso Assioco a 370d1 μείγνυμι, di senso sostanzialmente analogo a ἀνακεράννυμι, è impiegato regolarmente con il dativo). Verosimilmente la lezione dello Stobeo è frutto di un intervento normalizzatore (cf. anche il commento a 366a4–5). L’uso di costruire ἀνακεράννυμι con εἰς + accusativo riflette forse la tendenza, che si afferma con la κοινή, ad utilizzare costruzioni perifrastiche con preposizioni in luogo dei casi semplici (cf. e.g. Mayser (1926–1938), II.2 337–338, 354–360 e 356–357). A 366b3–4 è impiegata l’insolita costruzione ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ διαφέρων in luogo dell’attesa costruzione con il genitivo semplice della persona (cf. il commento ad loc. e supra p. 24). 366a4 ἀκραιφνῆ: il termine ἀκραιφνής significa “puro”, “intatto”, ma l’etimologia non è affatto chiara (cf. Beekes s.v.; cf. inoltre Furnée (1972), 159). Salvo due attestazioni in Tucidide (I 19, 1) e alcune attestazioni poetiche (e.g. Soph. OC. 1147; Eur. Alc. 1052; Hec. 537), il termine è poco presente nel greco classico. È maggiormente diffuso a partire dalla fine dell’età ellenistica. 366a4 τῶν ἡδόντων ἄμοιρα: per l’uso del participio attivo di ἥδομαι cf. il commento a 366a2; per un’analoga costruzione con ἄμοιρος cf. 366d2, ἄμοιρον τῶν ἀνιαρῶν. 366a4–5 {νόσους δὲ καὶ φλεγμονὰς τῶν αἰσθητηρίων, ἔτι δὲ τὰς ἐντὸς κακότητας}: per giustificare sintatticamente questa frase in genere si ricorre a costruzioni contorte (cf. e.g. Souilhé (1930): «les maladies, les inflammations des organes des sens, les maux internes, l’âme, répandue à travers les pores du corps, les subit nécessairement», Hershbell (1981): «Moreover,

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since the soul is spread throughout the pores of the body, it necessarily suffers, along with the organs of sense, diseases, inflammations, and still other internal ills»), oppure si introduce surrettiziamente qualche elemento reggente (cf. e.g. Aronadio (2008): «quanto alle malattie e alle infiammazioni degli organi sensoriali, ed, ancora, ai malanni interni, ai quali è per forza di cose sottoposta … l’anima, soffrendo di tutto ciò etc.», Männlein-Robert (2012): «mit Blick auf Krankheiten und Entzündungen der Sinneswerkzeuge, überdies noch mit Blick auf die inneren Übel»; ma cf. già Clericus (1711), 89: «Subaudiendum ἐννόησον, aut simile quid» e Horreus (1718): «morbos (puta) et sensoriorum inflammationes»). Per Fischer (1786), 125 esisterebbe una spiegazione di ordine “drammatico” («dummodo lingua Socratis fingatur, emissis verbis νόσους δὲ – κακότητας, quievisse paulisper»). Queste soluzioni non convincono perché tutto il passo è costruito in modo complessivamente piano e regolare dal punto di vista sintattico (basta pensare al parallelismo trimembre: cf. Meister (1915), 57–58). Matthiae (1835), 303 pensò di espungere queste parole come una glossa di τὰ ἀλγεινά (soluzione accolta da Baiter, Orelli, Winckelmann (1839) e riproposta da Hermann (1853), xii-xiii). Si tratta di una soluzione convincente (non decisive le obiezioni di Immisch (1896), 35). Va fatta, però, una precisazione: νόσους δὲ καὶ ... κακότητας non è una glossa di τὰ ἀλγεινά. Più verosimilmente si tratta di una glossa del precedente εἰς πλείους ὀδύνας (ossia dei molti dolori che si accompagnano ai piaceri). In questo modo si capisce meglio il riferimento alle malattie e alle infiammazioni degli αἰσθητήρια, che sarebbero prodotte dalle sollecitazioni che il piacere produce sugli organi di senso. In questo modo, inoltre, si spiegano anche i tre accusativi, laddove, in caso di glossa di τὰ ἀλγεινά, ci saremmo aspettati dei nominativi. La glossa νόσους δὲ ... κακότητας, riferita originariamente a εἰς πλείους ὀδύνας, è stata incorporata nel testo un po’ dopo rispetto all’espressione cui si riferiva (cf. anche Hermann (1853), xii-xiii, secondo il quale, giustamente, ciò è un ulteriore argomento a favore della lezione εἰς πλείους ὀδύνας: su questo problema cf. il commento a 366a3). In alternativa all’espunzione, si potrebbe pensare di trasporre queste parole dopo ἀνακεκραμένα, mutando il primo δέ in τε: τὰ μὲν ἥδοντα ἀμυχιαῖα καὶ πτηνὰ καὶ εἰς πλείους ὀδύνας ἀνακεκραμένα, · τὰ δὲ ἀλγεινὰ ἀκραιφνῆ καὶ πολυχρόνια καὶ τῶν ἡδόντων ἄμοιρα. Tuttavia, questa soluzione presuppone una ratio corruptelae più complessa. Non convincono, inoltre, gli interventi di Wolf (ap. Fischer (1786), 238), il quale integrava τί λέγω dopo κακότητας, e di Immisch (1896), il quale correggeva δέ in λέγω. 366a6–7 οἷς … ἡ ψυχὴ συναλγοῦσα: il participio συναλγοῦσα sembra suggerire che οἷς si riferisca solo ai dolori e non anche ai piaceri. Tuttavia,

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in Platone si trova che anche i piaceri del corpo sono una fonte di disturbo per l’attività dell’anima (cf. e.g. Phaed. 79c; 81b; 82e-83a; 83d). Immisch (1896), 35 ricorda che l’idea di una “simpatia” tra anima e corpo è presente anche nell’antropologia epicurea. Più significativa è la consonanza tra la concezione pessimistica nei confronti della felicità mondana che si ha in questo passo e l’analogo pessimismo elaborato dal cirenaico Egesia e dai suoi seguaci (cf. anche 366c6–7, con il commento ad loc.): ivi è presente l’idea che l’anima soffre per le sofferenze del corpo (Diog. Laert. II 94 = VI 1 Giannantoni = fr. 172 Mannebach, τὸ μὲν γὰρ σῶμα πολλῶν ἀναπλῆσθαι παθημάτων, τὴν δὲ ψυχὴν συμπαθεῖν τῷ σώματι καὶ ταράττεσθαι ... ὥστε διὰ ταῦτα ἀνύπαρκτον τὴν εὐδαιμονίαν εἶναι). Tuttavia, la concezione antropologica di questo passo è chiaramente di stampo platonico. 366a6 ἅτε παρεσπαρμένη τοῖς πόροις: non è chiaro come l’anima si disponga nel corpo e interagisca con i πόροι nella percezione del dolore. Questo tipo di rapporto anima-corpo non ha paralleli puntuali (pace Gigante (1969), 93). Solitamente la menzione dei πόροι è ricondotta all’epicureismo (cf. e.g. Hershbell (1981), 57 n. 19 e Männlein-Robert (2012), 70 n. 38; sulla dottrina dei πόροι nell’epicureismo cf. e.g. Gigante (1969), 93; Leone (2002), 104–118 e Verde (2010), 124). Tuttavia, i πόροι sono presenti anche nella dottrina della sensazione di Stratone di Lampsaco (cf. Verde (2010), 124, con ulteriore bibliografia). Anche per quanto riguarda l’idea della “disseminazione” dell’anima (παρεσπαρμένη) si rimanda solitamente all’epicureismo (cf. e.g. MännleinRobert (2012), 70 n. 38; e.g. Epic. Epist. Hdt. 63, ὅτι ἡ ψυχὴ σῶμά ἐστι λεπτομερές, παρ’ ὅλον τὸ ἄθροισμα παρεσπαρμένον, Lucr. III 143, cetera pars animae per totum dissita corpus, 376–377, et rara per artus / dissita sunt, cf. anche Verde (2010), 188–189). Tuttavia, già Immisch (1896), 36 aveva rilevato che un concetto analogo si può far risalire a Senocrate (Lact. Opif. 16, 12 = Xenocr. fr. 127 Isnardi Parente3, sive etiam mentis locus nullus est, sed per totum corpus sparsa discurrit -quod et fieri potest et a Xenocrate Platonis discipulo disputatum est, cf. anche Chevalier (1915), 18–19); e si può aggiungere Stratone di Lampsaco (cf. Tert. An. 14, 5 = Strato fr. 108 Wehrli, Non longe hoc exemplum est a Stratone et Aenesidemo et Heraclito; nam et ipsi unitatem animae tuentur, quae in totum corpus diffusa et ubique ipsa, velut flatus in calamo per cavernas, ita per sensualia variis modis emicet, non tam concisa quam dispensata). L’impressione, dunque, è che teorie come quella dell’anima παρεσπαρμένη e del ruolo dei πόροι circolassero trasversalmente nelle scuole filosofiche di età ellenistica, complici anche i contatti tra i rappresentanti di diverse scuole (e.g. per il rapporto tra Senocrate ed Epicuro cf. Isnardi Parente (1991), 171–195 e Verde (2013), 128–184). Un tardo risultato di

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questa diffusione trasversale dei concetti si può osservare in Vindiciano Afro, fr. 233 Wellmann, τί ἐστι ψυχή; πνεῦμα λεπτομερὲς παρεσπαρμένον ὅλῳ τῷ σώματι καὶ ἐξ οὗ κίνησις, αἴσθησις (ricordato da Menchelli (2016), 117 n. 88, cf. inoltre Roselli (1992), 100). Non convincono gli interventi di Clotius (1758), 596 (παρεσπαρμένοις πόνοις, ma già il codice S dello Stobeo mutava πόροις in πονηροῖς) e di Dümmler (1889), 281 (διεσπαρμένη τοῖς πόροις, cf. anche la critica di Feddersen (1895), 2 n. 1 e Heidel (1896), 16 n. 4). 366a6–7 ἡ ψυχὴ … τὸν οὐράνιον ποθεῖ καὶ σύμφυλον αἰθέρα: Method. Symp. 4, 5 (p. 138, 11 Musurillo) e Greg. Diac. Encom. S. Dem. 1, ll. 18–19 Detoraki potrebbero presupporre la variante σύμφυτον (cf. supra pp. 135 e 138). In ogni caso, σύμφυλον è da ritenersi lezione genuina perché l’idea di fondo del passo è che il simile è attirato dal simile e questa idea è espressa da σύμφυλον, non da σύμφυτον (cf. e.g. Aristot. PA. IV 682b10; [Aristot.] Mund. 394a19). L’idea, già presente nella filosofia presocratica (cf. e.g. Emped. 31 B 62 DK, 6, e B 110 DK, 8–9, dove, come nell’Assioco, si dà anche il tema del πόθος), è diffusa nella cultura ateniese della seconda metà del V secolo (e.g. Eur. Suppl. 531–536; TrGF V.2 F 839, 8–11 (Χρύσιππος); in generale cf. Müller (1965), 167–173). A questi referenti è solitamente accostato il passo dell’Assioco (cf. Müller (1965), 170 n. 57; Chevalier (1915), 50 e Männlein-Robert (2012), 70 n. 39). Un’eco di luoghi di questo genere non può essere esclusa. Tuttavia, qui sembra presupposta una dottrina che vede nell’etere un elemento primordiale e che postula un’affinità tra la sostanza dell’anima e quella del cielo. Questa dottrina è stata ricondotta da Alfonsi (1950), 266–269 alla speculazione del primo Aristotele, soprattutto del De philosophia: cf. e.g. fr. 21 Walzer (= 21 Ross = 835 e 836 Gigon) e fr. 27 Walzer (= 27 Ross = 994, 995, 996 e 986 Gigon). In generale per la riflessione del primo Aristotele sul quinto elemento e sul rapporto tra anima umana e anima degli astri cf. Untersteiner (1963), 265–281 e Berti (19972), 17–22, 296–305 e 319–326. C’è tuttavia il sospetto che non sempre le dottrine attribuite all’Aristotele perduto siano state fedelmente conservate (cf. e.g. Moraux (1963), 1221–1222; Easterling (1964), 73–85 e Berti (19972), 19 e 325–326). In ogni caso è verosimile che nell’Accademia antica si sia sviluppata una riflessione intorno alla dottrina dell’etere come elemento primordiale (cf. e.g. [Plat.] Epin. 981c, su cui cf. Moraux (1963), 1187–1191; Tarán (1975), 36–42, 283 e Aronadio ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 151–152 n. 213 e 352 e 364–365; inoltre sulla possibile presenza di una riflessione sull’etere in Senocrate cf. Isnardi Parente (2012), 335–337). È possibile che l’Assioco riprenda qui (direttamente o indirettamente) contenuti della speculazione fiorita in quell’ambiente (cf. anche Nilsson (1954), 112).

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Commento

366a8 διψᾷ: nel greco classico la terza persona singolare di διψάω si contrae solitamente in -ῇ, la contrazione in -ᾷ è in genere registrata in autori più tardi (cf. LSJ s.v. διψάω e Meister (1915), 30). In questo passo talvolta il verbo διψάω è inteso in senso assoluto (“[l’anima] è assetata”) ed è completato da ὀριγνάομαι + genitivo (cf. e.g. Aronadio (2008): «l’anima … brama l’etere celeste e a lei congenere, ed è assetata, protesa al modo di vivere e danzare di lassù» e Männlein-Robert (2012): «und dürstet danach im Begehren nach der Lebensweise und dem Tanz dort»). Più verosimilmente διψᾷ va coordinato con ποθεῖ e regge anch’esso τὸν οὐράνιον … καὶ σύμφυλον αἰθέρα (così anche Hershbell (1981): «Yet all the while the souls yearns after and is athirst for its native heavenly aither» e Souilhé (1930): «elle désire avec ardeur l’éther céleste pour lequel elle est faite, elle en a soif, elle se tend de désir vers cette vie de là-bas et vers les choeurs divins»). Per una iunctura analoga (sempre in riferimento all’anima) cf. Phil. Leg. III 12-13, ἐκδεχόμενος τί ὁ θεὸς ἀνομβρήσει πότιμον τῇ διψώσῃ καὶ ποθούσῃ ψυχῇ τὸ ἀγαθόν. La costruzione di διψάω con l’accusativo sembra essere post-classica: cf. LSJ s.v. 2, cf. inoltre Müller (1891), 187 e Fuentes González (1998), 186–187 (ad Teles fr. II Hense, p. 8 = fr. II Fuentes González, p. 136). Tuttavia, in questo caso, forse διψάω regge l’accusativo per zeugma (τὸν οὐράνιον … καὶ σύμφυλον αἰθέρα è retto ἀπὸ κοινοῦ anche da ποθέω, regolarmente costruito con l’accusativo). Il motivo della sete spirituale si ritrova anche in contesto funerario orfico-iniziatico (cf. Chevalier (1915), 51 e Pugliese Carratelli (2001), 67–72). 366a8 ἐκεῖσε: in luogo dell’atteso ἐκεῖ si può trovare ἐκεῖσε per influenza concettuale del verbo reggente (cf. KG II.1, 545). Qui può essere stato il contesto generale della frase ad aver favorito l’uso di ἐκεῖσε (ποθεῖ ... διψᾷ … ὀριγνωμένη). L’ἐκεῖ dello Stobeo è banalizzante. Un fenomeno analogo si verifica a 371d6 (cf. il commento ad loc.). Cf. invece 371e3 (τῆς ἐκεῖσε πορείας), dove ἐκεῖσε è richiesto da πορεία. 366a8 χορείας: il motivo della danza degli astri è già presente nella cultura ateniese del V secolo (cf. e.g. Soph. Ant. 1146–1152; Eur. El. 467; Criti. TrGF I 43 F 4). Si ritrova in Platone (cf. e.g. Tim. 40c) e nell’Accademia antica (cf. e.g. [Plat.] Epin. 982e, su cui cf. Tarán (1975), 263 e Aronadio ap. Aronadio, Petrucci, Tulli (2013), 356). Sul problema delle origini e dell’evoluzione di questo motivo cf. Boyancé (1952), 312–350; Nilsson (1954), 106–119; Csapo (2008), 264–267, 285 e Cropp (2013), 173 (ad Eur. El. 467). È possibile che qui l’autore abbia ripreso (direttamente o indirettamente) questo motivo dalla riflessione sviluppata all’interno dell’Accademia antica (cf. anche il commento a 366a6–7 e supra p. 41). 366a8 ὀριγνωμένη: Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) segnano in apparato che Y ha ὀρεγομένη supra lineam, suggerendo così che

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ὀρεγομένη sarebbe una variante di ὀριγνωμένη. Tuttavia, ὀρεγομένη è glossa e non variante: ὀρεγομένη, infatti, si trova già sul margine di A (vergato dalla medesima mano che ha scritto gli scolii) e da lì passa a Par nella cui discendenza si trova anche Y (cf. supra pp. 122-123). Il verbo ὀριγνάομαι è molto più raro rispetto all’equivalente ὀρέγομαι e compare soprattutto in poesia (cf. e.g. [Hes.] Sc. 190; Eur. Bac. 1255; Theocr. Id. 24, 44; Herod. Mim. 7, 37; cf. inoltre Chevalier (1915), 51 e Puccioni (1950), 146 (ad Herod. Mim. 7, 37); secondo Russo (19652), 122 (ad [Hes.] Scut. 190) «Il tematico ὀριγνάομαι “protendersi”, è verbo nuovo derivato da un atematico *ὀρίγνημι, il quale, mostrando una forma più debole della radice (ο)ρεγ-, si rivela per verbo antichissimo. Ὀρίγνημι : ὀριγνάω = κίρνημι : κιρνάω», cf. anche Beekes s.v. ὀρέγω). In prosa ὀριγνάομαι è attestato prevalentemente in età imperiale. 366a8-b1 ὥστε ἡ τοῦ ζῆν ἀπαλλαγὴ κακοῦ τινός ἐστιν εἰς ἀγαθὸν μεταβολή: il motivo per cui la morte è la liberazione da un male è tipico della letteratura consolatoria (cf. e.g. Cic. Tusc. I 34, 83, cf. inoltre Johann (1968), 100–108). Qui è associato al motivo della separazione dell’anima dal corpo e della superiorità della vita celeste su quella terrena ed è seguito da un’enumeratio malorum attribuita a Prodico (cf. anche 366c6–7, con il commento ad loc.). In altri casi il motivo del passaggio da un male ad un bene, connesso a quello della enumeratio malorum, è invece associato al tema della morte come completa insensibilità (cf. e.g. Cic. Tusc. I 34, 83–84). In ragione di ciò Immisch (1896), 56–57 riteneva che questa frase fosse originariamente preceduta da una sezione legata al tema della morte come ἀναισθησία. Tuttavia, da Cic. Tusc. I 31, 75–76 si ricava che l’enumeratio malorum, associata al motivo dell’ “a malis igitur mors abducit, non a bonis”, poteva essere connessa anche con il tema dell’immortalità dell’anima, come avviene nell’Assioco. In questo caso specifico, dunque, la tesi del disordine redazionale, valida per altre parti del dialogo (cf. supra pp. 48-67), non funziona. Lo stesso Immisch (1896), 55, d’altra parte, ammetteva che questa frase si può adattare ad una concezione di fondo tanto “spiritualistica” quanto “materialistica” (cf. anche O’Keefe (2006), 393 n. 11; per un altro caso di uso di uno stesso argomento pessimistico in un contesto “spiritualistico” e in un contesto “materialistico” cf. Bignone (1939), 126–127). Sul problema dell’apertura del pessimismo a soluzioni di tipo spiritualistico cf. anche supra pp. 85-86. Per ὥστε «at the beginning of a sentence, to mark a strong conclusion, and so, therefore» (LSJ s.v. ὥστε B.II.2) cf. anche 372a7.

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Commento

Il suicidio e l’ignoranza di Socrate (366b2-c5) 366b2-c1 κακὸν οὖν, ὦ Σώκρατες … ἀπηχήματα: Assioco solleva l’obiezione del suicidio: se Socrate pensa veramente che le cose stiano così, perché non si suicida? Socrate apparentemente non risponde alla domanda di Assioco, ma sposta il suo discorso dicendo di non avere diretta conoscenza di ciò di cui ha appena parlato e di limitarsi a riferire le dottrine di Prodico di Ceo (cf. anche Wilamowitz (1895), 978 e O’Keefe (2006), 398). Secondo O’Keefe (2006), 398 si tratta di una strategia retorica che permette a Socrate di distrarre Assioco evadendo la domanda e proseguendo nel suo impegno consolatorio. Ciò implica che l’obiezione di Assioco abbia una validità logico-argomentativa contro la strategia consolatoria di Socrate (cf. ancora O’Keefe (2006), 398: «to claim that he is merely echoing Prodicus in what he says is beside the point, as he also indicates that he agrees with Prodicus (366c), so Axiochus’ question still stands»). Ciò sarà forse vero da un punto di vista astrattamente formale. Tuttavia: 1) se Socrate vuole evadere la domanda sul suicidio, ha poco senso che subito dopo egli si lanci in una tirata sesquipedale sull’infelicità della vita umana: Assioco, infatti, potrebbe benissimo sollevare la medesima obiezione di prima; 2) se Socrate vuole evadere la domanda sul suicidio, non ha senso che subito dopo dica che egli stesso, dopo aver sentito il discorso di Prodico, era sul punto di togliersi la vita (366c6–8), richiamando esplicitamente l’attenzione di Assioco sull’obiezione lasciata in sospeso; 3) ci si sarebbe aspettati che anche un’eventuale “strategia dell’evasione” fosse meno scoperta di così; 4) l’autore avrebbe avuto a disposizione un argomento preciso per ribattere all’obiezione di Assioco, un argomento che era stato sviluppato da Platone stesso (cf. Phaed. 62b) e che è ripreso ad esempio da Cic. Scaur. 4, 5, eppure sceglie di non avvalersene (questo punto è stato notato, ma non approfondito da O’Keefe (2006), 398 n. 15). Non è un silenzio di poco conto in quanto l’autore ha ben presente il Fedone (cf. il commento a 365e6–366a1; non convince la spiegazione di questo silenzio data da Wilamowitz (1895), 978).489 Tutto ciò a mio avviso suggerisce che per l’autore la replica di Assioco non va presa alla lettera: Assioco non è interessato a sapere cosa trattenga Socrate dal togliersi la vita, ma vuole esprimere, attraverso questa provocazione, la propria incredulità circa la svalutazione dei beni della vita e la fede nell’immortalità dell’anima. L’obiezione del suicidio è solo un argomen-

489 Sulle insidie logiche dell’argomento del suicidio rispetto alla posizione platonica cf. Laurenti (1986), 71–74; Carlini (1999), 49–53 e Warren (2001), 91–106.

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to capzioso messo in campo per dire che ciò che Socrate ha appena detto è poco credibile. O’Keefe (2006), 398 n. 15 ammette la possibilità che l’argomento di Assioco non sia valido; tuttavia, egli non tiene conto del modo in cui l’argomento del suicidio è concretamente impiegato nel dialogo; l’insistenza di Assioco sulla sapienza di Socrate fa capire che Assioco utilizza un argomento ad hominem appunto perché è scettico circa quanto ha appena ascoltato (cf. anche il commento a 366b3–4). In questa prospettiva la risposta di Socrate è tutt’altro che evasiva. Fare professione di ignoranza e richiamarsi alla testimonianza di Prodico, infatti, è un’opportuna puntualizzazione metodologica: Socrate non si fa portatore di una certezza, ma presenta ad Assioco una possibilità la cui plausibilità l’interlocutore dovrà valutare (cf. anche supra pp. 68-69). In questo modo, si capisce perché Socrate presenta altri argomenti che implicano la svalutazione radicale della vita umana e l’immortalità dell’anima; e si capisce perché Assioco non ripete la sua obiezione: ciò che lo interessa non è capire se ci si debba suicidare o meno una volta che si ritenga che la vita è un male e la morte un bene, ma far intendere a Socrate che per il momento il discorso sulla svalutazione della vita e sull’immortalità dell’anima non gli pare credibile, a prescindere dalla sua efficacia consolatoria. Il problema del suicidio non è in discussione per davvero (cf. anche il lemma seguente). 366b2–3 κακὸν οὖν, ὦ Σώκρατες, … τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ διαφέρων; per un’obiezione analoga cf. e.g. Epic. Epist. Men. 126–127, πολὺ δὲ χείρων καὶ ὁ λέγων· καλὸν μὴ φῦναι, “φύντα δ’ ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαι” (Thgn. I 427). εἰ μὲν γὰρ πεποιθὼς τοῦτό φησιν, πῶς οὐκ ἀπέρχεται ἐκ τοῦ ζῆν; ἐν ἐτοίμῳ γὰρ αὐτῷ τοῦτ’ ἐστίν, εἴπερ ἦν βεβουλευμένον αὐτῷ βεβαίως· εἰ δὲ μωκώμενος, μάταιος ἐν τοῖς οὐκ ἐπιδεχομένοις (Bignone (19732), I 101– 102 e 271 ipotizzava che Epicuro si riferisse polemicamente al perduto Eudemo di Aristotele; contra Heßler (2014), 223–224); Diog. Laert. VI 4 (= SSR 5 A 178), μυούμενός ποτε τὰ Ὀρφικά τοῦ ἱερέως εἰπόντος ὅτι οἱ ταῦτα μυούμενοι πολλῶν ἀγαθῶν ἐν Ἅιδου μετίσχουσι, «τί οὖν» ἔφη [scil. Antistene] «οὐκ ἀποθνῄσκεις;» (su questo aneddoto antistenico cf. Kassel (1958), 12–17 e Giannantoni (1990), 250–251). È degno di nota che in nessuno di questi due casi la possibilità del suicidio è veramente in discussione: l’obiezione serve solo a criticare la credibilità di coloro che sostengono che la vita è il peggiore dei mali (Epicuro) o che la morte è il passaggio ad una vita nuova e migliore (l’aneddoto antistenico). Analogo è l’uso retorico che di questo argomento è fatto nell’Assioco (cf. il lemma precedente). Per l’idiom καὶ ταῦτα + participio cf. il commento a 364c4-5. 366b3 φροντιστὴς: il termine designa propriamente i “Naturforscher” e, in senso lato, i pensatori che si interessano a problemi lontani dal senso co-

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mune (cf. Orth (2013), 217), non molto diversamente da μετεωρολόγος (su cui cf. il commento a 370e3). Alla fine del V secolo era diffusa l’idea che Socrate fosse un φροντιστής dedito a speculazioni cosmologiche ed escatologiche (cf. Aristoph. Nub. 94, 101, 266, 414–415, 455–456, 1038–1039). Secondo Ath. V 218c, forse dipendente da Erodico di Babilonia (p. 23, 12–15 Düring; tuttavia, questo passo non è incluso da Broggiato (2014) nella sua raccolta di frammenti di Erodico), Amipsia, nel Conno, rappresentato alle Dionisie del 423 quando Aristofane concorreva con le Nuvole, mise in scena un χορὸς φροντιστῶν: Socrate potrebbe essere stato presente in questa commedia come personaggio, se PCG II fr. *9 deve essere ricondotto al Conno (cf. Orth (2013), 216–221). La letteratura socratica si è impegnata nella rimozione di questa immagine di Socrate: cf. e.g. Plat. Ap. 18b-c (dove si ha l’unica altra occorrenza di φροντιστής nel CP, cf. de Strycker, Slings (1994), 294; cf. inoltre Hershbell (1981), 58 n. 22; Joyal (2005), 102 e Männlein-Robert (2012), 71 n. 43; cf. anche Ap. 29b citato al lemma successivo); Xen. Mem. IV 7, 6 (su cui cf. Dorion (2011), 213–214 n. 3); Symp. 6, 6 e 7, 2. Alla sapienza di Socrate faceva già allusione Clinia in 364b4. Come il figlio, Assioco mostra di non aver chiaro il senso autentico della sapienza di Socrate. 366b3–4 ὑπὲρ ἡμᾶς τοὺς πολλοὺς τῷ νῷ διαφέρων: qui διαφέρω significa “superare” (in Plat. Ap. 29b e 35a, dove è comunque associato a Socrate, διαφέρω significa “essere diverso”). Quando assume questo significato, di solito διαφέρω si costruisce con il genitivo semplice della persona superata e il dativo della cosa in cui la si supera (cf. LSJ s.v. διαφέρω IIΙ.4). La preferenza per la costruzione preposizionale rispetto al caso semplice è forse da ricondurre all’influenza della κοινή (cf. il commento a 366a3). Per la non comunissima espressione apposizionale “noi, i più”, “noi, la massa” (ἡμᾶς τοὺς πολλούς), cf. e.g. D.Chr. Or. 67, 1; Gal. Libr. 3, 3; Them. Or. 21, 253b. C’è dell’ironia in questa deminutio che Assioco fa di sé stesso: in realtà egli è scettico su ciò che Socrate ha appena detto (cf. il commento a 366b2-c1). 366b5 οὐκ ἔτυμά μοι μαρτυρεῖς: l’espressione οὐ τἀληθῆ μαρτυρεῖν è frequente nell’oratoria giudiziaria (cf. e.g. Is. Or. 5 (De Dicaeogene), 3; Or. 8 (De Cirone), 5, 12 e 13; Demosth. Or. 29 (Contra Aphobum), 22 e 54; cf. inoltre Ferrucci (2005), 144). Nell’attribuire a Socrate una sapienza che Socrate non si riconosce, è come se Assioco rendesse falsa testimonianza e facesse il gioco degli antichi accusatori di Socrate, unendosi al coro dei molti (Ἀθηναίων ἡ πληθύς) che gli attribuivano una sapienza straordinaria (cf. Plat. Ap. 19c-d, καὶ οὐχ ὡς ἀτιμάζων λέγω τὴν τοιαύτην ἐπιστήμην, εἴ τις περὶ τῶν τοιούτων σοφός ἐστιν … ἀλλὰ γὰρ ἐμοὶ τούτων, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, οὐδὲν μέτεστιν. μάρτυρας δὲ αὐτοὺς ὑμῶν τοὺς πολλοὺς παρέχομαι). L’agget-

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tivo ἔτυμος nel senso di “vero” è prevalentemente poetico (cf. LSJ s.v.). La scelta di usare ἔτυμα in luogo del τἀληθῆ consueto dell’oratoria giudiziaria alza il livello stilistico. 366b6–7 ζητητικός εἰμι τῶν πραγμάτων: è da escludere che τῶν πραγμάτων possa essere retto da του e non da ζητητικός (a ζητητικὸς τῶν πραγμάτων si oppone ἐπιστήμονά του). Per ζητητικός + genitivo semplice cf. e.g. Phil. Leg. III 249. Qui τὰ πράγματα indica la realtà nel suo complesso e nelle sue articolazioni interne (cf. LSJ s.v. πρᾶγμα II.2). Di fatto, dunque, ζητητικὸς τῶν πραγμάτων equivale a ζητητικός tout court. L’essere ζητητικός si oppone all’essere φροντιστής. Nel CP Socrate non si definisce mai ζητητικός. Aristotele indica nel ζητητικόν una delle caratteristiche tipiche del discorso socratico (Pol. II 1265a12). In seguito ζητητικός diventa una delle qualificazioni tradizionali dei filosofi scettici di tradizione pirroniana (cf. e.g. Sext. P. I 7 e Diog. Laert. IX 69). Tuttavia, in alcuni casi scettici pirroniani e scettici accademici sono indicati con gli stessi termini (σκεπτικοί, ἐφεκτικοί, ἀπορητικοί, cf. Aul. Gell. XI 5, 6). Ci si può aspettare che ζητητικός fosse utilizzato anche per gli Accademici (cf. August. c. Acad. II 5, 11 (ed. Fuhrer), nam et Academicis placuit nec homini scientiam posse contingere, earum dumtaxat rerum, quae ad philosophiam pertinent … et tamen hominem posse esse sapientem sapientisque totum munus … inquisitione veri explicari). Secondo Opsomer (1998), 12 «a more appropriate way to characterise the philosophy of the New Academy -and more in tune with its self-imageis to call it “aporetic” or even better “zetetic”: never satisfied with the obvious answers, the Academics undertook a continuing and open-minded search (ζήτησις) for truth». Non si può escludere che l’autore abbia deliberatamente cercato di far apparire Socrate come un rappresentante dell’Accademia scettica (cf. anche supra p. 28). 366b6 ἡ πληθύς: forma ionica, locrese e cretese per πλῆθος (cf. Beekes s.v. πίμπλημι), πληθύς ricorre soprattutto nella poesia epica. Nella prosa letteraria si diffonde a partire dall’età ellenistica (cf. e.g. Pol. II 24, 14; VIII 27, 9): cf. anche Chevalier (1915), 51. In 366e3 è invece impiegato πλῆθος. 366b8 τὰ κοινότατα: tràdito è τὰ κοινὰ ταῦτα. Con τὰ κοινά si indicano qui “le cose della vita di tutti i giorni, vicine al senso comune” (cf. LSJ s.v. κοινός III, e.g. Aristot. Rh. I 1355a27), mentre con τὰ περιττά “le cose fuori dal comune, straordinarie” (cf. LSJ s.v. περισσός 2, e.g. Aristot. EN. VI 1141b6). Dunque, τὰ κοινά non può indicare la stessa cosa di τὰ περιττά. Il ταῦτα potrebbe avere valore anaforico, ovvero riferirsi a quanto Socrate ha appena detto. Tuttavia: 1) non è scontato che la dottrina sull’immortalità dell’anima esposta da Socrate appartenga al senso comune; 2) posto che τὰ κοινά non può coincidere con τὰ περιττά, se τὰ κοινά indica la dottrina sul-

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Commento

l’immortalità dell’anima appena esposta da Socrate, allora a cosa si riferisce τὰ περιττά? Dunque, ταῦτα non può avere valore anaforico. Potrebbe avere valore dimostrativo-deittico (in generale cf. KG II.1, 645). In questo modo τὰ κοινά non sarebbe ciò di cui si è già parlato, ma ciò che è ben presente alla mente del parlante e dei suoi interlocutori, vale a dire le questioni ordinarie, quelle che riguardano la vita di tutti i giorni, come se Socrate accompagnandosi con un gesto dicesse: “vorrei conoscere le cose semplici, quelle che abbiamo davanti agli occhi [scil. ma non le conosco], a tal punto sono lontano da quelle difficili” (così intendeva già Wolf ap. Fischer (1786), 242). Tuttavia: 1) con valore dimostrativo-deittico nell’Assioco si trova ὅδε (cf. 365c5, τοῦδε τοῦ φωτός), non οὗτος (cf. e.g. 369d1–2, σὺ μέν, ὦ Σώκρατες, ἐκ τῆς ἐπιπολαζούσης τὰ νῦν λεσχηνείας τὰ σοφὰ ταῦτα προῄρηκας, dove ταῦτα indica chiaramente ciò di cui si è appena parlato), se non con aggiunta dello iota deittico (cf. 366a1, τὸ δὲ σκῆνος τουτί); 2) ci si sarebbe aspettati un successivo bilanciamento mediante qualcosa come ἐκεῖνος o ἐκεῖ (e.g. τοσοῦτον ἀποδέω τῶν περιττῶν ἐκείνων, oppure τοσοῦτον ἀποδέω τῶν περιττῶν τῶν ἐκεῖ); 3) mentre la luce (365c5) o il corpo (366a1) sono una cosa precisa e definita e, dunque, si prestano ad essere accompagnati da un aggettivo dimostrativo-deittico, lo stesso non si può dire per τὰ κοινά. I problemi posti da ταῦτα vengono meno correggendo in ἐγὼ δὲ εὐξαίμην ἂν τὰ κοινότατα εἰδέναι, τοσοῦτον ἀποδέω τῶν περιττῶν, “io farei i voti per conoscere le cose più vicine al senso comune, a tal punto sono lontano dal conoscere quelle sofisticate!” (già Francesco Acri (ap. Carena (19822), 15) aveva intuito che questo era il senso atteso dal passo: «Oh! Sarei bene io contento di sapere le notizie più comunali; vedi se io possiedo quelle molte recondite»). Per l’uso di τὰ κοινότατα in questo senso (non comunissimo) cf. e.g. D.H. AR. VIII 34, 1, φαίνῃ μοι τὰ κοινότατα καὶ ὑπὸ μηδενὸς ἀγνοούμενα μόνος ἀγνοεῖν (Coriolano rimprovera Marco Minucio di non conoscere ciò che tutti conoscono, ossia l’essenza dell’amicizia). Per una contrapposizione simile cf. Phil. Somn. I 6-7, καὶ ταῦτ’ οὐ μόνον ἐπὶ τῶν μεγάλα καὶ ἀμύθητα ὅσα θεωρήματα ἐχουσῶν, ἀλλὰ καὶ ἐπὶ τῶν εὐτελεστάτων θεωρεῖται (con κοινός e περιττός, in diverso contesto, cf. Thphr. CPl. II 7, 1, τοὺς δὲ τόπους ζητεῖ τοὺς οἰκείους οὐ μόνον τὰ περιττὰ καὶ ἴδια τῶν δένδρων, ὥσπερ εἴπομεν, ἀλλὰ καὶ τὰ κοινότερα γινόμενα). Il superlativo τὰ κοινότατα amplifica la naturale distanza tra gli estremi, sottolineata da τοσοῦτον, rendendo più incisivo il ragionamento a fortiori implicito in queste parole e più efficace l’iperbolica professione di ignoranza di Socrate (su questo passo cf. già Beghini (2017a), 19–27, anche per la genesi dell’errore).

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366c1 καὶ ταῦτα δέ: secondo Mayhew (2011), 231 è “more natural” riferire ταῦτα a ciò che precede. Tuttavia, a suo avviso ciò significherebbe attribuire a Prodico due argomenti tra loro incompatibili: da un lato il precedente argomento dell’immortalità dell’anima, dall’altro il successivo argomento di matrice epicurea sulla morte come totale insensibilità (cf. 369b6– 7). Di conseguenza, per Mayhew ταῦτα si riferisce a ciò che segue e non a ciò che precede. Tuttavia, non c’è ragione di pretendere coerenza dottrinale tra questi discorsi: proprio come Socrate sviluppa ora un argomento fondato sulla ἀναισθησία, ora un argomento fondato sull’immortalità dell’anima, lo stesso può aver fatto Prodico, tanto più che nella finzione del dialogo Socrate può aver ripreso argomenti sviluppati da Prodico in occasioni diverse (cf. anche supra pp. 68-69 e n. 160). Secondo Chevalier (1915), 38 e 51, invece, ταῦτα va riferito non a ciò che precede, ma a ciò che segue in quanto «les auteurs tardifs, comme Philon, emploient indifféremment ὅδε et οὗτος» (p. 51). Tuttavia, Socrate ha appena negato di conoscere gli argomenti περιττά: è ragionevole che ora spieghi da dove egli ha tratto ciò che ha appena detto. La menzione di Prodico completa la professione di ignoranza di Socrate: καὶ ταῦτα δὲ ἃ λέγω, non può che riferirsi a ciò che precede. In questo modo, tra l’altro, si evita anche una ripetizione con le parole che introducono l’ἐπίδειξις (καὶ πρῴην γοῦν παρὰ Καλλίᾳ τῷ Ἱππονίκου ποιούμενος ἐπίδειξιν τοσάδε τοῦ ζῆν κατεῖπεν). Socrate, dunque, attribuisce a Prodico anche il precedente discorso sull’immortalità dell’anima. Sul cluster di particelle καὶ ... δέ cf. supra p. 62 e n. 149. 366c1 λέγω: sull’uso del presente in riferimento a ciò che è stato detto in precedenza (come fosse εἴρηκα) cf. KG II.1, 135–136 e de Strycker, Slings (1994), 257 (ad Plat. Ap. 18e): «The present λέγω can always refer to an earlier point in the argument, in so far as it is seen as continuous unity». 366c1 Προδίκου: soprattutto in passato si è pensato che l’Assioco contenesse materiale prodiceo genuino (cf. e.g. Nestle (1936), 151–170; Dudley (1937), 57–58 n. 10, e i contributi citati da Farioli (1998), 245 n. 35; sia pure in modo ambiguo questa posizione sembra tornare in auge con Mayhew (2011), 232: «I think it is clear that something like this account (set in a different context, serving a different purpose) could easily have come from an epideictic speech of Prodicus»). Prudentemente Hermann Diels collocava 366b5-c8 (84 B 9 DK) nella sezione “Zweifelhaftes”.490

490 La scelta è sostanzialmente seguita da Laks, Most (2016), pur nella diversa ripartizione del materiale: cf. 34 P 6 Laks-Most e 34 R 5 Laks-Most.

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Commento

La parte iniziale dell’ἐπίδειξις di Prodico sulle età della vita (366d1– 367b7) è densa di riferimenti alla realtà ateniese della fine del IV secolo e non solo (cf. supra pp. 23-24 e 26). Ciò permette di escludere sia che questa sezione di testo sia da attribuire a Prodico, sia che lo pseudo-Platone abbia rielaborato materiale originariamente prodiceo (se avesse avuto le mani materiale prodiceo autentico, non sarebbe stato così maldestro da sovrapporvi una serie di realtà derivate da un’epoca più tarda). Altrettanto si può dire per la menzione di Prodico di 369b6. In questo caso, infatti, a Prodico è attribuito un argomento che riprende letteralmente l’Epistola a Meneceo (cf. anche Farioli (1998), 241–243). Più problematico è capire perché lo pseudo-Platone abbia scelto Prodico come fonte fittizia della maggior parte dei discorsi di Socrate. Prodico occupa una posizione eminente all’interno del CP (cf. e.g. Ap. 19e; Crat. 384b-c; Symp. 177b; Phaedr. 267b; Lach. 197d; Euthyd. 277e; Prot. 315c-316a; Meno 75e; 96d; HipMa. 282c; inoltre ha un ruolo importante anche nell’Erissia pseudo-platonico). Si è, dunque, pensato che lo pseudo-Platone si sia semplicemente ispirato ad altre opere contenute nel CP (cf. e.g. Rohde (19074), 247 n. 1; Chevalier (1915), 71–74 e Isnardi Parente (1961), 39– 40). Tuttavia, questa non è una spiegazione sufficiente: nel CP sono presenti molti altri sofisti, cui è dato uno spazio anche molto maggiore di quello riservato a Prodico. Farioli (1998), 244 ha richiamato l’attenzione sulla tradizione secondo cui a Ceo esisteva un’usanza (o forse una vera e propria legge) per cui le persone al di sopra dei sessant’anni si toglievano la vita bevendo la cicuta (cf. Men. PCG VI.2 fr. 879; Strab. X 5, 6 (che conserva il frammento di Menandro); Val. Max. II 6, 8; Ael. VH. III 37; AP. VII 470): «la malinconia “costituzionale” dei concittadini di Prodico potrebbe essere stata attribuita per estensione a uno dei più illustri nativi dell’isola, creando nell’autore dell’Assioco o in una delle sue fonti l’immagine di un filosofo distaccato dalla vita e incline al pensiero della morte». In questa direzione potrebbe andare l’aneddoto sul celebre medico Erasistrato di Ceo il quale, colpito da un male incurabile ad un piede, si uccise bevendo la cicuta, memore dell’usanza della sua isola natale (fr. 3 Garofalo = Stob. III 7, 57, Ἐρασίστρατος ὁ Κῷος ἤδη γεραιὸς ὢν ἕλκος ἐπὶ τοῦ ποδὸς δυσίατον ἔχων “εὖγε” εἶπεν “ὅτι τῆς πατρίδος ὑπομιμνήσκομαι”, καὶ κώνειον πιὼν κατέστρεψεν). Tuttavia, non si ha notizia di un’analoga tradizione per Prodico. In compenso, esiste la notizia secondo cui egli sarebbe morto perché condannato a bere la cicuta come pena per aver corrotto i giovani, una sorte assai simile a quella di Socrate (a prescindere dalla veridicità o meno della notizia): cf. Suda π 2365 (= 84 A 1 DK = 34 P 14 Laks-Most) e schol. Plat. Rp. X 600c Greene (su cui cf. Mayhew (2011), 71–72). Su questa base, Pro-

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dico si prestava particolarmente bene a fare da maschera di Socrate in contesto consolatorio, soprattutto se si tiene conto del fatto che nella tradizione consolatoria Socrate e Teramene, condannati entrambi a bere la cicuta, erano ricordati come exempla di chi affronta coraggiosamente la morte (cf. e.g. Cic. Tusc. I 40, 97 (ed. Giusta), Quis hac maxima animi aequitate in ipsa morte luderet, si mortem malum iudicaret? radit enim in eundem carcerem atque in eundem paucis post annis scyphum Socrates eodem scelere iudicum quo tyrannorum Theramenes). In generale su Prodico cf. Nails (2002), 254–256; Bonazzi (2010), 126– 131, 138–142 e 158–159 e Mayhew (2011), xiii-xxix. 366c1 ἀπηχήματα: il termine ἀπήχημα è attestato solo in età imperiale: cf. e.g. [Longin.] Subl. 9, 2; M.Aurel. V 33. Forse si è formato in età ellenistica, ma non è affatto un ἅπαξ, come invece afferma Chevalier (1915), 51. 366c2–3 τὰ μὲν διμοίρου ἐωνημένα … τὰ δὲ τετραδράχμου: sui compensi chiesti da Prodico per le sue lezioni cf. e.g. Plat. Crat. 384b-c; HipMa. 282c e Aristot. Rh. III 1415b15-17. Ogni ἐπίδειξις era ascoltata da più persone e ciascun uditore pagava una tariffa individuale. Gli introiti dovevano essere abbondanti (cf. Kerferd (1981), 28 e Blanck (1985), 4). Una delle caratteristiche tipiche, e più discusse, dei sofisti era quella di commercializzare il loro sapere (cf. Blank (1985), 1–49, con raccolta di testimonianze; sui compensi dei “professionisti della cultura” ad Atene cf. inoltre Loomis (1998), 62–75). Come nel Cratilo, si ha qui un’oscillazione tra lezioni più a buon mercato e lezioni più care. Tuttavia, rispetto alla lezione da cinquanta dracme di cui parlano Platone e Aristotele, le tariffe dell’Assioco sono abbastanza economiche (cf. anche Männlein-Robert (2012), 71 n. 47), per quanto si debba tenere presente che nell’Atene della seconda metà del IV secolo un lavoratore “non specializzato” sembra che guadagnasse circa una dracma e mezzo al giorno, mentre un lavoratore “specializzato” due dracme e mezzo al giorno (cf. Rhodes, Osborne (2003), xxiii, con ulteriore bibliografia). In età ellenistica la paga di un insegnante sembra che fosse normalmente di 1–2 dracme al giorno (cf. Moretti (1977), 480). Ciò non significa che i discorsi di Prodico qui presentati siano di poco valore (sarebbe del tutto controproducente rispetto all’obiettivo consolatorio di Socrate; e poi si tratta pur sempre di τὰ περιττά). Più verosimilmente si vuole dire che è possibile acquistare con poco ciò che può essere sufficiente per liberarsi da paure e infelicità: cf. e.g. Plut. Tranqu. an. 470e-f, ὁ Σωκράτης ἀκούσας τινὸς τῶν φίλων λέγοντος ὡς πολυτελὴς ἡ πόλις· “μνᾶς ὁ Χῖος οἶνος, ἡ πορφύρα τριῶν μνῶν, τοῦ μέλιτος ἡ κοτύλη πέντε δραχμῶν”, λαβὼν αὐτὸν προσήγαγε τοῖς ἀλφίτοις “ὀβολοῦ τὸ ἡμίεκτον, εὐτελὴς ἡ πόλις”, εἶτα ταῖς ἐλαίαις· “δύο χαλκῶν ἡ χοῖνιξ”, εἶτα ταῖς ἐξωμίσι· “δέκα δραχμῶν,

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Commento

εὐτελὴς ἡ πόλις” (è degno di nota che anche qua le tariffe sono a gruppi di tre). Non si può escludere che in questo intermezzo l’autore abbia tenuto presente una fonte perduta in cui si parlava di Prodico (come una commedia o un dialogo socratico). In questa direzione sembra andare il fatto che il tono amaramente ironico nei confronti di Prodico non si adatta particolarmente bene al contesto («unpassend Scherz» rilevava Gomperz (1912), 107 rispetto a questa parentesi sul tariffario di Prodico). Questo scarto si spiega meglio se appunto lo pseudo-Platone ha ripreso degli elementi che già trovava in una sua fonte. 366c2 διμοίρου: il termine è solitamente inteso nel senso di “mezza dracma” (cf. LSJ s.v. δίμοιρος 2; cf. inoltre Souilhé (1930); Hershbell (1981); Aronadio (2008); Männlein-Robert (2012); ma già Fischer (1786), 381). Solo Wilamowitz (1895), 983 ha visto che qui δίμοιρον indica un tetrobolo, cioè 2/3 di una dracma (ma cf. già Ficino: «duabus tertiis»). L’equivoco deriva da Suda δ 1126, ed. Adler, dove con ogni probabilità, τριώβολον è errore per τετρώβολον, come aveva visto Drachmann: cf. schol. Luc. 80 (DMer.), 9, 5 (p. 281 Rabe), διμοιρίτης λέγεται ὁ διπλοῦν μισθὸν λαμβάνων, ὡς δὲ ἔνιοι, ὁ τέσσαρας ὀβολοὺς λαμβάνων· κτλ., AG. Ι, p. 242, 23-25 Bekker, διμοιρῖται· κυρίως πᾶς ὁ δύο μοίρας λαμβάνων, καταχρηστικῶς δὲ καὶ ὁ τέσσαρας ὀβολοὺς λαμβάνων στρατιώτης, οἵ εἰσι δίμοιρον τῆς δραχμῆς. L’espressione διμοίρου (scil. δραχμῆς) è molto insolita (cf. Wilamowitz (1895), 983: «Wann und wo ist δίμοιρον für τετρώβολον gesagt (366c)? Ich weiß es nicht»). Non si può escludere che διμοίρου sia una glossa sostituitasi ad un originario τετρωβόλου. Il tetrobolo è solitamente associato alle paghe dei militari alla fine del V e poi nel IV secolo (in generale sulle paghe dei militari cf. almeno Pritchett (1971), 3–29 e Bettalli (1995), 143–146; in particolare sul tetrobolo cf. Pritchett (1971), 19). 366c3 προῖκα γὰρ … οὐδένα διδάσκει: Socrate sottolinea con una punta di amarezza la venalità di Prodico, quasi si fosse aspettato un trattamento di favore, forse in ragione del rapporto particolarmente stretto tra i due (“non fa sconti proprio a nessuno!”). Sulla commercializzazione del sapere da parte dei sofisti cf. Blank (1985), 1–49, con raccolta di testimonianze. 366c4 τὸ Ἐπιχάρμειον: verosimilmente già nella prima metà del IV secolo circolavano raccolte di γνῶμαι epicarmee (cf. Cassio (1985), 39–40 e Kerkhof (2001), 86–89). I papiri hanno restituito raccolte di versi gnomici attribuiti ad Epicarmo risalenti al III a.C. (PHib. 1 = CPF II.2, Epich. 1 e PHib. 2 = CPF II.2, Epich. 2). Sulla formazione e trasmissione delle raccolte di γνῶμαι epicarmee e pseudoepicarmee cf. Carrara (2003), 177–186; Álvarez Salas (2007), 117–153 e Ruggeri (2015), 61–68 (già nell’antichità c’era coscienza di alcuni problemi di pseudoepigrafia epicarmea: cf. Ruggeri

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(2015), 67). È difficile dire se il verso qui citato sia autenticamente epicarmeo (possibilista è Kerkhof (2001), 88–89; Kassel e Austin (PCG I fr. 211) lo considerano autentico). Non si può escludere che l’autore dell’Assioco avesse presente una fonte perduta in cui questo verso era già attribuito a Prodico (ἔθος ἐστὶν αὐτῷ φωνεῖν). In generale su Epicarmo cf. Kaibel (1907), 34–41; Nesselrath (1997), 1093–1094 e 1097 e Dover (20124), 512. 366c4–5 “ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβοις τι ”: la lezione di A è δός τι καὶ λάβε (sic) τι. A3 riporta sul margine (con γρ) τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι. La lezione marginale di A3 è presente a testo in Vv che hanno ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι. In due luoghi separati lo Stobeo cita ora le parole ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει (III 10, 13) attribuendole ad Epicarmo, ora le parole δός τι καὶ λάβοις τι (III 10, 34) attribuendole a Prodico. Esistono due proverbi distinti, grosso modo corrispondenti alle due citazioni dello Stobeo (cf. Tosi (2017), 1185–1186 [n. 1743] e 1186–1187 [n. 1744]). Tuttavia, le due attribuzioni e la forma delle due citazioni suggeriscono che lo Stobeo non dipenda da altre fonti, ma abbia scorporato il passo dell’Assioco (egli o una sua fonte) attribuendo le parole ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει ad Epicarmo e le parole successive a Prodico. Lo Stobeo (o una sua fonte) evidentemente ha pensato che il motto di Epicarmo fosse solo ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει e che le parole successive fossero una sorta di glossa fatta da Prodico (in questa direzione sono andati anche non pochi interpreti moderni: cf. infra in questo lemma). Verosimilmente, dunque, il testo letto dallo Stobeo (o da una sua fonte) nella sua forma unitaria era ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβοις τι. A partire dalla prima edizione degli Adagia (1508), all’adagio n. 33 della prima centuria della prima chiliade, Erasmo cita questo passo dell’Assioco nella forma ἡ δὲ χεὶρ τὴν χεῖρα κνίζει, δός τι καὶ λάβοις τι. Il passo è ripreso all’adagio n. 699 della settima centuria della prima chiliade (“Fricantem refrica”). Qui, a partire dall’edizione degli Adagia del 1515, riferendosi alla citazione dell’adagio n. 33, Erasmo riferisce che allora aveva attinto ad un “mendosum exemplar” (per una sintesi sulla complessa storia delle edizioni degli Adagia cf. Wesseling (1997), 1–3). Secondo van Poll-van de Lisdonk, Mann Phillips, Robinson (1993), 228 n. 130 si tratterebbe dello Stobeo. In effetti, lo Stobeo è l’unica fonte in nostro possesso a restituire la seconda massima nella forma δός τι καὶ λάβοις τι. Tuttavia, come si è visto, lo Stobeo scorpora il passo dell’Assioco in due massime distinte. Inoltre, cita la prima parte della massima con le forme doriche degli articoli e con la lezione νίζει. Invece Erasmo ha ἡ δὲ χεὶρ τὴν χεῖρα κνίζει. D’altra parte, nessun testimone manoscritto noto dell’Assioco presenta la massima epicarmea nella forma riportata da Erasmo. Non si può escludere che il “mendosum

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Commento

exemplar” di cui parla Erasmo sia o un testimone dell’Assioco ora perduto o una fonte paremiografica ora perduta o non ancora individuata (sulle fonti paremiografiche di Erasmo cf. Bühler (1987), 309–314 e Hoven (1995), 264). In ogni caso, come si vedrà, la forma della massima epicarmea dell’Assioco presupposta dallo Stobeo e riportata da Erasmo è quella che più si avvicina al testo genuino (con alcune differenze nella prima parte nel caso di Erasmo). I più recenti editori dell’Assioco, Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930), hanno stampato la seconda parte della massima nella forma testimoniata da A (δός τι καὶ λάβε τι). Tuttavia, A ha lasciato una fenestra tra λάβε e τι, corrispondente allo spazio di due o tre lettere (sull’uso di A di lasciare fenestrae in corrispondenza di sezioni illeggibili del modello cf. Menchelli (2016), 95–96). È verosimile che il modello di A avesse in origine δός τι καὶ λάβοις τι, guastatosi in δός τι καὶ λάβο** τι, in seguito adattato da A in δός τι καὶ λάβε** τι. Per il passaggio da λάβοις a λάβε (complice forse un’analoga corruttela): cf. e.g. [Plut.] Cons. Apoll. 106d, τοῦτον [scil. Eschilo] γὰρ ἀπεμιμήσατο καὶ ὁ εἰπών “ὦ θάνατε παιάν, ἰατρὸς μόλοις” (TrGF II F 369a, verosimilmente da correggere in ὦ θάνατε παιάν, ἰατρὸς μόλοις con Cobet (1858), 134), ripreso da Teodoro Metochite Miscell. 58 p. 347 Müller-Kießling nella forma banalizzata ὦ θάνατε παιάν, ἰατρὸς μόλε. Dunque, verosimilmente il testo del modello di A era ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· δός τι καὶ λάβοις τι, coincideva cioè di fatto con quello presupposto dallo Stobeo e riportato da Erasmo (con alcune differenze nella prima parte). Ora, come lo Stobeo, Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) attribuiscono ad Epicarmo soltanto ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει. Il resto è considerato una sorta di glossa che lo stesso Socrate farebbe alle parole di Epicarmo ripetute da Prodico (Grysar (1828), 216 e Cobet (1847), 141 pensavano che si trattasse di una vera e propria glossa intrusa). Tuttavia, il passaggio da ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει a ciò che segue è troppo abrupto per pensare che le parole δός τι καὶ λάβοις τι siano una sorta di glossa di Prodico o di Socrate. Inoltre, Socrate ha di fatto già fornito molto esplicitamente la sua esegesi di questo motto con le parole προῖκα γὰρ ἀνὴρ οὗτος οὐδένα διδάσκει. Infine, a ben vedere, le due parti di questa massima sono due emistichi di un tetrametro trocaico catalettico a cui manca l’ultimo elemento indifferens. Ciò è stato visto dagli editori di Epicarmo, i quali ritengono che il passo costituisca un unico verso: e.g. Ahrens (1843), fr. 118; Lorenz (1864), fr. 53; Kaibel (1899), fr. 273; Diels e Kranz (cf. 23 B 30 DK); Olivieri (1946), 124 (fr. 248); Rodríguez-Noriega Guillén (1996); fr. 338, Kassel e Austin (cf. PCG I fr. 211); ma l’aveva già capito Erasmo (nota all’adagio n. 699 a partire dall’edizione del 1528).

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Il suicidio e l’ignoranza di Socrate (366b2-c5)

Diversi sono stati i tentativi di sanare il verso: δός τι καὶ λάμβανέ τι di Erasmo (Adagia del 1528, cf. van Poll-van de Lisdonk, Mann Phillips, Robinson (1993), 228); δός τι καὶ λάβοις τι dello Stephanus (1558), 1069; δός τι καί τι καὶ λαβέ di Rittershausen (1610, ap. Kiessling (1816), 186); δός τι καί τι λάμβανε del Grotius (1623), 523; δός τι καὶ λάβοιό τι di Boeckh (1810); δός τι κἄν τι λαμβάνοις di Ritschl (1829), 25; δός τι καί τι δοὺς λάβε di Schneidewin (1837), 50; δός τι καὶ λάβοις τι di Hermann (1839), 306; δός τόκα τι κα λάβοις di Bergk (1868–1869), viii; δός τι καί τι κα λάβοις di Blaydes (1896), 264; δός τι καὶ λάβ’ αἴ τι di Kaibel (1899), fr. 273. Kassel e Austin (cf. PCG I fr. 211) hanno stampato il verso con una crux mettendo a testo la forma deteriore δός τι καὶ λάβε τι (cf. supra in questo lemma). Tuttavia, la soluzione che si impone è l’integrazione di κα in fine di verso proposta da Hermann (1839), 306, e da Ahrens (1843), 456 (apparentemente Ahrens non sapeva che Hermann aveva già avanzato la medesima proposta). Questa soluzione è stata accolta da Lorenz (1864), 274, da Diels-Kranz (cf. 23 B 30 DK), e da Olivieri (1946), 124 (fr. 248), oltre che da Hermann (1853). Con questa semplicissima integrazione non solo si introduce la sillaba mancante del tetrametro trocaico catalettico, ma viene meno anche la stranezza dell’ottativo senza particella potenziale (in questo caso con funzione di futuro: cf. anche 366d1). Il κα in ultima posizione si trova e.g. in CPF II.2 Epich. 1, 1 (= PHib. 1), τεῖδ’ ἔνεστι πολλὰ καὶ παν[τ]οῖα, τοῖς χρήσαιό κα. La particella κα sarà caduta per aplografia davanti al καί con cui ricominciano le parole di Socrate (δός τι καὶ λάβοις τι καὶ πρῴην), il che peraltro vuol dire che la corruttela non è anteriore all’Assioco.491 Resta da spiegare la variante di Vv, presupposta anche da A3 (ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι). Anche ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως τι καὶ λάβοις τι è un tetrametro trocaico catalettico a cui manca l’ultimo elemento. Tuttavia, in ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει· κτλ. la dieresi cade esattamente dopo il secondo metron come avviene in altri versi epicarmei di contenuto gnomico che presentano una struttura esattamente analoga alla nostra (cf. e.g. PCG I fr. 214, νοῦς ὁρῇ καὶ νοῦς ἀκούει· τἆλλα κωφὰ καὶ τυφλά, e PCG I fr. 218, νᾶφε καὶ μεμνᾶσ’ἀπιστεῖν· ἄρθρα ταῦτα τᾶν φρενῶν). Al contrario, in ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα· εἰ δίδως κτλ. la dieresi cade dopo il sesto elemento, cosa che è del tutto anomala (cf. Martinelli (1997), 115–130).

491 D’altra parte, difficilmente lo pseudo-Platone avrebbe citato un verso sgrammaticato (per la caduta di κα), quando poteva tranquillamente tagliare la citazione dopo χεῖρα.

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Commento

Il sospetto è che la variante di Vv e A3 si sia originata per una mélecture di maiuscola: in ΧΕΙΡΑΝΙΖΕΙΔΟΣ il Ν è stato saltato per confusione con il precedente Α (cf. Lapini (2007), 59), il successivo Ι è stato preso per l’omofono ΕΙ e il seguente ΖΕΙΔΟΣ, complice la quasi totale omofonia, è stato letto ΔΙΔΩΣ. Sembrerà una corruttela troppo complessa per essere plausibile; ma nelle tradizioni dei testi succede anche di peggio: questo stesso passo (ἁ δὲ χεὶρ τὰν χεῖρα νίζει) è diventato prima ἃ δὲ χεὶρ τα (sic) χεῖρα νίζει su Vat. 2236 e poi ἃ δὲ χεὶρ ταχὺ ῥανίζει su Laur. 28.29, apografo di Vat. 2236 (cf. anche supra p. 113 e n. 293).

L’ἐπίδειξις di Prodico e le età della vita (366c5–367b7) 366c5 καὶ … γοῦν: il cluster di particelle καὶ ... γοῦν è insolito (cf. Denniston (19542), 458–459: «γοῦν is rarely found in close association with other particles»; in generale su γοῦν cf. Des Places (1929), 133–145; Denniston (19542), 451–453; Sicking, van Ophuijsen (1993), 124–125; Patillon (1999), 731–733). Nella letteratura di età imperiale ricorre spesso καὶ γοῦν, dove in genere γοῦν sembra avere lo stesso valore di γάρ (cf. Radt (2015), 127–128). Nello stesso Assioco in altri casi γοῦν sembra avere la funzione di γάρ (cf. 366d4, 367c2). Ma questo valore non va bene in questo caso. Non si può escludere che si debba correggere γοῦν in δ’ οὖν: καὶ … δ’ οὖν può essere interpretato come «a stronger form of καὶ ... δέ» (Denniston (19542), 468; su καὶ ... δέ cf. Denniston (19542), 199–200 e supra p. 62 e n. 149). La funzione di questo cluster di particelle è semplicemente quella di aggiungere un altro caso in cui Socrate ha avuto modo di ascoltare Prodico (“anche di recente”). Sugli scambi tra γοῦν e δ’ οὖν, in entrambe le direzioni, cf. Denniston (19542), 467–468. 366c5 πρῴην: l’avverbio può significare sia “recentemente”, sia “l’altro ieri” (cf. LSJ s.v.). Nell’Assioco ricorre anche in 368d6 in riferimento al processo agli strateghi delle Arginuse. Verosimilmente in entrambi i casi significa “recentemente” (in caso contrario ci si sarebbe forse aspettati anche altre indicazioni temporali che rendessero il senso di “l’altro ieri” inequivocabile: cf. e.g. Plat. Gorg. 470d; Leg. III 677d). L’avverbio πρῴην è utilizzato anche in Eryx. 397c-d proprio per introdurre l’episodio di Prodico (τουτονὶ μὲν τὸν λόγον, ἔφην ἐγώ, πρῴην ἐν Λυκείῳ ἀνὴρ σοφὸς λέγων Πρόδικος ὁ Κεῖος ἐδόκει τοῖς παροῦσι φλυαρεῖν). Secondo Gomperz (1912), 108 l’Assioco presuppone l’Erissia nella costruzione della cornice dell’ἐπίδειξις di Prodico (oltre all’avverbio in entrambi i casi Prodico è definito σοφός e in entrambi i casi l’autore fornisce il dettaglio del luogo in cui si svolge l’ἐπίδειξις).

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L’ἐπίδειξις di Prodico e le età della vita (366c5–367b7)

366c6 παρὰ Καλλίᾳ τῷ Ἱππονίκου: ricco possidente Ateniese, Callia, figlio di Ipponico, è vissuto tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo (in generale su Callia cf. Nails (2002), 68–74; sul padre di Callia, Ipponico, cf. Nails (2002), 172–173). È noto nella letteratura socratica per la sua prodigalità nei confronti dei sofisti (cf. e.g. Plat. Ap. 20a; Crat. 391b-c; Xen. Symp. 1, 5; nella casa ateniese di Callia, nel demo di Melite, è ambientato il Protagora di Platone; mentre nella sua casa del Pireo è ambientato il Simposio di Senofonte: cf. Huß (1999), 74 e Napolitano (2012), 13 n. 3). Per questo divenne frequente bersaglio dei poeti comici (cf. e.g. Aristoph. Av. 283–284 e Ec. 809–811; nella casa di città di Callia erano ambientati i Kolakes di Eupoli: cf. Napolitano (2012), 13–14 e passim). Eschine di Sfetto scrisse un dialogo intitolato Callia (su cui cf. Giannantoni (1990), 592–593 n. 27 e Pentassuglio (2017), 166–184) e Callia compariva come personaggio in un altro dialogo di Eschine, l’Aspasia (su cui cf. Giannantoni (1990), 592–593 e Pentassuglio (2017), 124–166). Il legame tra Callia e Prodico emerge anche in Xen. Symp. 1, 5. Nel Callia di Eschine, invece, era presente una διαμώκησις di Prodico e di Anassagora. A Prodico in particolare era rimproverato di essere stato maestro di Teramene, ma non è chiaro se comparisse come personaggio (cf. Ath. V 220b-c = SSR VI A 73 = T 113 Pentassuglio). Non si può escludere che l’Assioco nell’ambientare l’ἐπίδειξις di Prodico in casa di Callia dipenda da una fonte perduta (così pensava Gomperz (1912), 108). 366c6–7 τοσάδε τοῦ ζῆν κατεῖπεν … ἐξ ἐκείνου θανατᾷ μου ἡ ψυχή: l’enumeratio malorum, tradizionalmente connessa al motivo consolatorio per cui la morte è la liberazione da un male (cf. il commento a 366a8-b1), fu sviluppata in età ellenistica in modo paradigmatico da Egesia di Cirene (cf. Cic. Tusc. I 34, 83–84, cf. inoltre Fuentes González (1998), 452–453; ma verosimilmente si tratta di un motivo di più antica data: cf. già Antipho 87 B 51 DK = Stob. IV 34, 56, citato nel commento a 366a2-4; in generale cf. Oltramare (1926), 61; Johann (1968), 100–108; Fuentes González (1998), 457–460; Pendrick (2002), 43–44). Tolomeo Filadelfo proibì ad Egesia di professare pubblicamente il suo pensiero che molti aveva indotto al suicidio. Ciò non impedì ad Egesia di guadagnarsi la fama di πεισιθάνατος. Il particolare metodo messo in campo da Socrate nell’Assioco permette di utilizzare un motivo delicato come quello della deploratio vitae attraverso l’enumeratio malorum senza incorrere nella medesima accusa (cf. supra il commento a 366b2-c1). All’interno dell’Accademia ellenistica questo problema doveva essere particolarmente sentito, soprattutto se si considera che lo stesso Fedone si prestava ad un’accusa di questo genere (cf. Callim. Ep. 23 = AP. VII 471, su cui cf. Carlini (1999), 47–60 e Garulli (2007), 325–226).

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Commento

366c7 παρ’ ἀκαρῆ: espressione avverbiale formata a partire dall’aggettivo ἀκαρής, detto di capelli troppo corti per poter essere tagliati (cf. LSJ s.v.). Il neutro plurale di ἀκαρής è spesso utilizzato come avverbio per rafforzare la negazione (cf. LSJ s.v. III.2: «not a bit, not at all»). L’espressione dell’Assioco non sembra ricorrere altrove (LSJ s.v. III.2 rimanda a Philod. Rh. col. XXXIII, l. 3 (II, p. 28 Sudhaus), tuttavia cf. Longo Auricchio ap. Sbordone (1977), 112–113). In ogni caso, il senso è chiaro: “per pochissimo”, “per un pelo”. 366c7 διέγραψα τὸν βίον: letteralmente διαγράφω significa “tracciare una linea”, operazione utilizzata per cancellare qualcosa da una lista (cf. LSJ s.v. IV). In senso figurato cf. e.g. Eur. El. 1073; Plat. Rp. III 387b. L’espressione figurata sdrammatizza l’allusione al suicidio. 366c8 θανατᾷ: in Plat. Phaed. 64b il verbo θανατάω si inserisce nella più generale prospettiva della μελέτη θανάτου (su cui cf. Phaed. 81a; sul problema del senso esatto di θανατάω nel passo del Fedone cf. Burnet (1911), 29; Loriaux (1969), 75 e Rowe (1993), 136, in generale cf. anche Arnott (1996), 613). Qui, però, il senso sembra essere semplicemente quello di “desiderare la morte”: si tratta di un impulso, non di una vera e propria μελέτη θανάτου. 366c8 μου ἡ ψυχή: perifrasi per ἐγώ (cf. LSJ s.v. IV: e.g. Soph. Ant. 559). Come in 369e2, il termine ψυχή è utilizzato qui per indicare un’indefinita dimensione interiore, la dimensione dello “spirito”, un misto di passioni, impulsi irrazionali e convinzioni profonde. Non si intende l’anima come ente dotato di una propria realtà indipendente (cf. anche supra p. 69 n. 162). 366d1 Φράσαιμι ἄν … ἃ μνημονεύσω: la prima persona dell’ottativo con ἄν svolge una funzione simile al futuro «als schwächerer (oft auch entschiedenerer) Ausdruck des Willens» (KG II.1, 233–234). Ci si sarebbe aspettati che il congiuntivo μνημονεύσω (è da escludere che si tratti di un futuro) fosse accompagnato da ἄν (cf. e.g. Xen. Mem. I 3, 1, τούτων δὴ γράψω ὁπόσα ἂν διαμνημονεύσω, cf. inoltre Goodwin (1912), 208; KG II.2, 426; Bers (1984), 142–165 e KC I 756). In 367c1 si ha ἄν + congiuntivo (οὓς ἂν περὶ πλείστου ποιῶνται). È molto verosimile il ritocco di Richards (1909), 19: mutare ἃ in ἃν. Nella recensio Plethonis e sul Bruxellensis 11360–11363 si legge ἂν μνημονεύσω (cf. anche supra pp. 113-114 n. 295 e p. 126 n. 337), correzione meno buona di quella di Richards, ma sintomatica del fatto che il problema era già stato avvertito in età bizantina. 366d1–2 ἔφη γάρ· τί μέρος τῆς ἡλικίας ἄμοιρον τῶν ἀνιαρῶν: per la connessione del motivo della enumeratio malorum con la rassegna delle età della vita cf. Teles fr. V Hense, p. 49 (= fr. V Fuentes González, p. 448), ἀλλ’

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L’ἐπίδειξις di Prodico e le età della vita (366c5–367b7)

εἰ θέλει τις ἐκλογίσασθαι ἐν ὅλῳ τῷ βίῳ πάσας τὰς ἡλικίας, εὑρήσει πολλῷ πλείους [scil. dei piaceri] τὰς ἀλγηδόνας. La tradizione medievale ha ἔφη γάρ· τί μέρος κτλ. Lo Stobeo ha ποῖον, ἔφη, μέρος τῆς ἡλικίας (un’interrogativa simile si ha in 368a7–8, ποίαν δέ τις ἑλόμενος ἐπιτήδευσιν ἢ τέχνην οὐ μέμψεται καὶ τοῖς παροῦσι χαλεπανεῖ;). Il testo dello Stobeo è meno duro rispetto all’ ἔφη γάρ della tradizione medievale. Difficilmente qualcuno avrebbe alterato il lineare testo dello Stobeo per introdurvi ἔφη γάρ. Più verosimile è l’operazione contraria. Gli escertori modificano talvolta il materiale da loro raccolto nella misura in cui questa operazione è funzionale agli scopi della loro raccolta (cf. Piccione (2005), 191; cf. anche supra p. 137 e n. 376; particolarmente vulnerabile è proprio l’incipit dell’escerto: cf. Canfora (2002), 48). Tuttavia, se ποῖον, ἔφη, μέρος τῆς ἡλικίας fosse stato un intervento dell’escertore, non ci si sarebbe aspettati la conservazione di ἔφη (del tutto inutile nel nuovo contesto; cf. e.g. Stob. IV 31b, 51, contenente [Plat.] Eryx. 396e-397b: l’incipit dell’escerto, nello Stobeo, è ἐγὼ μὲν ὥσπερ ἠρξάμην, cui si oppone ἀλλ’, ἔφη, ἐγὼ μὲν, ὥσπερ ἠρξάμην della tradizione medievale; ἀλλ’ ἔφη è stato tralasciato proprio perché non più funzionale al nuovo contesto). È possibile che la durezza dell’espressione della tradizione medievale sia dovuta all’incompiutezza dell’opera (cf. supra pp. 46-48). Più difficile è dire se ποῖον, ἔφη, μέρος τῆς ἡλικίας sia variante di tradizione (anteriore allo Stobeo) o d’autore (per una possibile variante d’autore cf. il commento a 365d1-2). Inoltre, la tradizione medievale ha οὐ τῶν ἀνιαρῶν (la negazione è stata omessa da A e reintegrata da A2). Lo Stobeo ha ἄμοιρον τῶν ἀνιαρῶν. Solo Immisch (1896) ha accolto la lezione della tradizione medievale (cf. la critica di Wilamowitz (1895), 987). Essa produce un’espressione contorta e involuta (sarebbe stato molto più semplice dire οὐκ ἀνιαρόν, oppure οὐ μετέχει τῶν ἀνιαρῶν). Per contro, ἄμοιρον sembra impiegato appositamente per giocare con il precedente μέρος. Verosimilmente ἄμοιρον è stato omesso e nella tradizione medievale il testo è stato rabberciato con l’integrazione di οὐ (è chiaro che occorre una negazione). Le ragioni dell’omissione di ἄμοιρον non sono immediatamente chiare. Possono essere legate ad una παράβλεψις favorita dal successivo (graficamente e foneticamente simile) ἀνιαρῶν. Per ἡλικία nel raro senso di “vita” cf. e.g. Pind. P. 4, 157 (i paralleli raccolti da Braswell (1988), 240 (ad Pind. P. 4, 157) presuppongono più il senso di “age” che quello di “life”). 366d2–3 κατὰ μὲν τὴν πρώτην γένεσιν: espressione ricorrente per indicare i primi momenti di vita a partire dalla nascita (cf. e.g. Aristot. Pol. I 1256b9; Phil. Sacr. 73). 366d3 τὸ νήπιον: cf. il commento a 365b7.

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366d3–4 τοῦ ζῆν ἀπὸ λύπης ἀρχόμενον: per la costruzione di ἄρχομαι con ἀπό + genitivo “in non-temporal relations” cf. e.g. Plat. Gorg. 471c-d; Xen. Mem. III 5, 15; Demosth. Or. 18 (De corona), 297 (in generale LSJ s.v. ἄρχω I.2). 366d4–5 ἀλλ’ ἢ δι’ ἔνδειαν ἢ περιψυγμὸν ἢ θάλπος ἢ πληγὴν ὀδυνᾶται: per la “Weglassung” della preposizione cf. e.g. Plat. Phaed. 99a, ἢ περὶ Μέγαρα ἢ Βοιωτούς (in generale KG II.1, 549). Per il motivo della condizione di generale mancanza di mezzi in cui si trova il bambino cf. e.g. Lucr. V 222–224, tum porro puer … indigus omni / vitali auxilio, Plut. Am. prol. 496b, οὐδὲν γάρ ἐστιν οὕτως ἀτελὲς οὐδ’ ἄπορον οὐδὲ γυμνὸν οὐδ’ ἄμορφον οὐδὲ μιαρὸν ὡς ἄνθρωπος ἐν γοναῖς ὁρώμενος (nonché Phil. Op. 161, citato al lemma seguente). È sospetta la genericità del termine ἔνδεια in rapporto ai successivi περιψυγμός, θάλπος e πληγή. Inoltre, è curiosa l’assenza di due bisogni primari che il bambino appena nato non è in grado di soddisfare da sé, la fame e la sete (cf. e.g. Teles fr. V Hense, p. 50 = fr. V Fuentes González, p. 448, citato nel commento a 366d6-7). Infine, ci si sarebbe forse aspettati un’espressione come δι’ ἔνδειαν τῶν ἐπιτηδείων o δι’ ἔνδειαν τῶν ἀναγκαίων o δι’ ἔνδειαν πάντων (cf. il passo di Lucrezio citato supra in questo lemma). Forse aveva ragione Immisch (1896) a postulare una lacuna dopo δι’ ἔνδειαν. Si potrebbe pensare a qualcosa come ἀλλ’ ἢ δι’ ἔνδειαν ἢ περιψυγμὸν ἢ θάλπος ἢ πληγὴν ὀδυνᾶται (cf. e.g. Eur. Her. 51–53, πάντων δὲ χρεῖοι τάσδ’ ἕδρας φυλάσσομεν, / σίτων ποτῶν ἐσθῆτος, ἀστρώτῳ πέδῳ / πλευρὰς τιθέντες). In questo caso, tuttavia, bisognerebbe prendere ἀλλ’ ἤ nel senso di ἀλλά, o accettare l’ἀλλά dello Stobeo. Solo Couvreur (1896), 79 n. 1 ha difeso ἀλλά dello Stobeo. Per l’uso di ἀλλ’ ἤ in luogo di ἀλλά cf. Thrall (1962), 16–17 e Thyresson (1977), 56–60 (dubbi su quest’uso in Epicuro in Lapini (2015), 70 e n. 183). Nell’Assioco non ci sono altri casi di quest’uso di ἀλλ’ ἤ. È strano che possa essere stato impiegato nell’unico punto in cui sarebbe risultato ambiguo: più verosimilmente l’ἤ di ἀλλ’ ἤ va messo in relazione alle disgiuntive successive. A meno che il passo non sia affetto da un guasto più grave. 366d5 περιψυγμόν: il termine è attestato solo in Gal. De comp. med. per gen. (XIII, p. 785 Kühn); Heph. Astr. II 34, 10 (IV d.C.) e Rhetor. (CCAG VIII.4, p. 188 Cumont, VI d.C.), cf. anche Chevalier (1915), 51; Meister (1915), 41 e n. 5 e Joyal (2005), 108 n. 37. Il περὶ ψυγμόν di Vv e di alcuni discendenti di O è forse da mettere in relazione con la “Weglassung” della preposizione (su cui cf. il commento al lemma precedente). Per un analogo concetto cf. e.g. Phil. Op. 161, παρὸ καὶ ἀνακλαίεται τὸ βρέφος ἀποκυηθέν, ἀλγῆσαν ὡς εἰκὸς τῇ περιψύξει.

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366d5 πληγήν: le botte sono un inconveniente che di solito è associato non al neonato, ma al bambino in “età scolare” (basta pensare all’oraziano plagosus Orbilio). È curioso l’uso del singolare (cf. e.g. Plat. Prot. 325d, εἰ δὲ μή [scil. se il ragazzo non ubbidisce], ὥσπερ ξύλον διαστρεφόμενον καὶ καμπτόμενον εὐθύνουσιν [scil. la nutrice, la madre, il pedagogo e il padre] ἀπειλαῖς καὶ πληγαῖς). Non si può escludere che si debba correggere in πληγάς (sembra che il problema fosse già stato intuito da Cencio: «verberum gratia», e da Agricola: «verberibus»). L’errore potrebbe essersi prodotto per errato scioglimento del compendio della desinenza (per due casi analoghi cf. 365a2 e 365b4) ed era favorito dalla densità di singolari in questo contesto. 366d6–7 λαλῆσαι μὲν οὔπω δυνάμενον ἃ πάσχει … μίαν ἔχον φωνήν: sull’incapacità comunicativa del bambino cf. e.g. Xen. Mem. II 2, 5, οὔτε γιγνῶσκον τὸ βρέφος, ὑφ’ ὅτου εὖ πάσχει οὐδὲ σημαίνειν δυνάμενον, ὅτου δεῖται, e Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), πεινᾷ τὸ παιδίον, ἡ δὲ τροφὸς κατακοιμίζει· διψᾷ, ἡ δὲ λούει· κοιμηθῆναι θέλει, ἡ δὲ κρόταλον ἔχουσα ψοφεῖ (con Fuentes González (1998), 461 n. 3). Sul pianto come mezzo con cui il bambino che non ha ancora appreso a parlare esprime le proprie necessità cf. e.g. Plat. Leg. VII 792a, τοῖς δὴ παιδίοις τὸ δήλωμα ὧν ἐρᾷ καὶ μισεῖ κλαυμοναὶ καὶ βοαί. Il verbo κλαυθμυρίζομαι è «a cross of κλαυθμός and μύρομαι, with suffixation after the verbs in -ίζομαι» (Beekes s.v.). Al medio, con il significato di “piangere”, il verbo è attestato a partire dalla fine dell’età ellenistica (cf. e.g. Diod. IV 20, 3, 8; cf. inoltre Chevalier (1915), 51 e Meister (1915), 44). La forma κλαυμυρίζομαι è attestata e.g. in Men. Epit. 853. In genere si riferisce al pianto di bambini piccoli o di piccoli di animali (cf. Ferrari (2014), 164: «un verbo κλαυμυρίζομαι, che … era connesso alla sfera infantile e, per questa via, all’esperienza femminile»). Per il pianto del bambino appena nato in analogo contesto cf. e.g. Lucr. V 226, vagituque locum lugubri complet. Il termine δυσαρέστησις non è attestato prima di Polibio (e.g. XV 25, 23; cf. anche Chevalier (1915), 52). 366d8 εἰς τὴν ἑπταετίαν: per l’età di sette anni come momento di inizio del percorso formativo vero e proprio cf. e.g. Aristot. Pol. VII 1336b35–40 (su cui cf. Schütrumpf (2005), 554). A questa stessa fase della formazione allude verosimilmente Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), εἰ δ’ ἐκπέφευγε τὴν τιτθήν, παρέλαβε πάλιν ὁ παιδαγωγός, παιδοτρίβης, γραμματοδιδάσκαλος, ἁρμονικός, ζωγράφος (su cui cf. Fuentes González (1998), 461; in generale cf. Marrou (19656), 218). 366d8 πολλοὺς πόνους διαντλῆσαν: il verbo διαντλέω, il cui senso originario è quello di “tirare su l’acqua”, “drenare”, significa in questo caso “sop-

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portare fino in fondo” (cf. LSJ s.v. ἀντλέω II.2). Il verbo è in genere utilizzato metaforicamente (cf. Breitenbach (1934), 148; van Nes (1963), 143–145; Braswell (1988), 393 e Tsitsiridis (1998), 296). È prevalentemente poetico (cf. e.g. Pind. P. 4, 293 e Eur. Andr. 1217, dove si ha un’analoga costruzione con πόνους), e tardo (cf. e.g. Plut. Arat. 52, 4; Long. IV 9, 2); ma cf. anche Plat. Menex. 241e. 366e1 ἐπέστησαν: scil. αὐτῷ (cf. anche il commento a 366e2). Il verbo è restituito dallo Stobeo: nella tradizione medievale è stato omesso per omeoteleuto con il precedente διαντλῆσαν. Aoristo atematico (cf. LSJ. s.v. ἐφίστημι B.III.2, «in hostile sense»). In generale per quest’uso dell’aoristo pro presente «in typischen Situationen» cf. Schwyzer II 283. Specialmente «in Verbindung mit konjunktivischen Nebensätzen» (KG II.1, 160–161) cf. e.g. Eur. Med. 244–245; Thuc. I 84, 2-3; Plat. Phaed. 113d; Gorg. 484a. Prima di παιδαγωγοί Vv presentano l’avverbio εὐθύς, assente in A e nello Stobeo. Per casi di omissione di εὐθύς apparentemente non spiegabili cf. e.g. Thuc. V 43, 1-2 (ed. Alberti), οἱ ἐν Ἀθήναις αὖ βουλόμενοι λῦσαι τὰς σπονδὰς εὐθὺς (om. T) ἐνέκειντο, VIII 100, 1 (ed. Alberti), ἔπλει καὶ αὐτὸς (scil. Trasillo) ναυσὶν εὐθὺς (om. C Pl Ud.) πέντε καὶ πεντήκοντα, Plut. Tranqu. an. 466c (ed. Dumortier, Defradas), διὰ ταῦτα προαγωγὰς ἐν αὐλαῖς διώκουσι καὶ παρελθόντες εὐθὺς (om. Wb) βαρύνονται. Durante la copia viene omesso per disattenzione l’elemento non essenziale al senso della frase. Tuttavia, in questo caso è più verosimile che εὐθύς, assente in A e nello Stobeo, sia stato aggiunto da Vv per marcare lo stacco sintattico tra διαντλῆσαν e παιδαγωγοί (ἐπέστησαν manca anche in Vv). 366e1 παιδαγωγοὶ καὶ γραμματισταὶ καὶ παιδοτρίβαι: in generale sulla figura del pedagogo cf. Schuppe (1942), 2375–2385; Marrou (19656), 220– 221 e 555 n. 4 e Christes (2000a), 150. Sui metodi educativi, a volte violenti, utilizzati dai pedagoghi (e non solo) cf. e.g. Plat. Prot. 325d, citato nel commento a 366d5, e Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), citato nel commento a 366d8 (cf. anche Marrou (19656), 220: «le pédagogue exerce sur son pupille une surveillance continuelle, souvent ressentie, à la longue, à l’âge de l’adolescence comme une insupportable tyrannie»; sulle punizioni corporali nella scuola antica cf. inoltre Cribiore (1996), 24–25 e n. 99 e Lapini (2013a), 18). Il γραμματιστής è il maestro “elementare” che insegna a leggere (cf. e.g. Xen. Sym. 4, 27; Plat. Prot. 312b). Può anche essere chiamato γραμματοδιδάσκαλος (cf. Teles fr. V Hense, p. 50 = fr. V Fuentes González, p. 448) o semplicemente διδάσκαλος (in generale cf. Marrou (19656), 221 e Christes (1998), 1198). Su Par in luogo di γραμματισταί si legge γυμνασταί, che compare come variante marginale (con γρ) anche su J (e nella sua discendenza): cf. anche supra p. 103. Tradizionalmente è il γραμματιστής e

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non il γυμναστής ad essere legato alla formazione dei ragazzini (il γυμναστής era una figura ben definita all’interno dei ginnasi ateniesi, ma si occupava di una fascia di età superiore a quella qui considerata: cf. Gardiner (1910), 503–504 e Lynch (1972), 35–36). Tuttavia, si potrebbe pensare che in origine l’elenco contenesse entrambe le figure: παιδαγωγοὶ καὶ γραμματισταὶ καὶ γυμνασταὶ καὶ παιδοτρίβαι. In questo caso, la lezione γυμνασταί poteva essere facilmente omessa per salto da un καί ad un altro e successivamente reintegrata a margine o supra lineam. In seguito, l’integrazione sarebbe stata erroneamente presa come lezione sostitutiva di γραμματισταί, quindi come variante (già Ficino, tenendo conto di entrambe le varianti, traduceva «paedagogi, grammatici, gymnastici, paedotribae»; cf. Carlini (1999), 22 e Beghini (2016), 20–23). Tuttavia, è più semplice pensare che il passaggio da γραμματισταί a γυμνασταί si sia prodotto per “attrazione” del successivo παιδοτρίβαι (una sorta di Antizipationsfehler), o, meno probabilmente, che γυμνασταί sia una glossa del successivo παιδοτρίβαι erroneamente interpretata come lezione sostitutiva del precedente γραμματισταί (cf. e.g. Σ π 12 Cunningham, παιδοτρίβας· ἀλείπτας, γυμναστάς, cf. anche Suda π 867; Phot. Lex. π 31 e schol. Plat. Lys. 207d = 17 Cufalo). Il παιδοτρίβης è tradizionalmente il maestro di ginnastica che segue la formazione fisica del ragazzino (cf. e.g. Plat. Prot. 312b). Con l’istituzionalizzazione dell’efebia furono introdotti ad Atene due παιδοτρίβαι ufficiali che si occupavano degli esercizi fisici degli efebi (cf. Aristot. Ath. 42, 2–3, su cui cf. Rhodes (1981), 506). Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), menziona due volte il παιδοτρίβης: una prima volta nel primo periodo di formazione, come nel nostro caso, e una seconda quando tratta degli efebi (per l’evoluzione di questa figura cf. Jüthner (1909), 3–8; Marrou (19656), 80, 169, 191 e Christes (2000b), 152–153). 366e2 αὐξανομένου: scil. τοῦ νηπίου. La tradizione medievale ha il genitivo, lo Stobeo il dativo (αὐξανομένῳ). Teoricamente entrambe le lezioni sono ammissibili. Tuttavia, il genitivo assoluto senza soggetto espresso è difficilior (cf. e.g. Xen. Hell. I 1, 26; Demosth. Or. 18 (De corona), 322; in generale cf. Goodwin (1889), 338 e KG II.1, 81; cf. anche il commento a 368b1-4). Il passaggio al dativo potrebbe essere avvenuto per influenza del sottinteso ἐπέστησαν (cf. LSJ s.v. ἐφίστημι B.III.2, solitamente costruito con il dativo). Il participio aoristo αὐξομένου di Vv è banalizzante (per il participio presente in luogo dell’aoristo o del perfetto cf. e.g. Soph. El. 1344, su cui cf. Finglass (2007), 495). Questo participio introduce il secondo “ciclo di studi” che in genere si fa cominciare a quattordici anni (cf. Marrou (19656), 161). Cf. anche Teles fr.

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V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), con Fuentes González (1998), 461–462 e n. 1. 366e2 κριτικοί, γεωμέτραι, τακτικοί: con κριτικοί si indicano i “professori” di letteratura, gli eruditi che accompagnavano il giovane nella lettura e nella comprensione dei classici. Equivalente a κριτικός è γραμματικός, che è tuttavia termine più recente (cf. le testimonianze su Antidoro di Cuma, IV-III secolo, raccolte da Müller (1918), 121–123; più recentemente cf. Ucciardello (2007), con ulteriore bibliografia). A parte il caso di Cratete di Mallo (fr. 94 Broggiato), sembra che in età post-alessandrina il termine γραμματικός abbia progressivamente sostituito κριτικός (cf. Gudeman (1912), 1808–1811 e Gudeman (1922), 1913). Un parziale revival del termine κριτικός si ha in età imperiale (cf. Chevalier (1915), 52, anche se non sembra che l’uso di κριτικός «est une des particularités distinctives de la terminologie cynico-stoicienne»). Su tutti questi problemi cf. Gudeman (1922), 1912–1915; Marrou (19656), 244; Broggiato (2001), 249–250 e nn. 353–354. È difficile interpretare questi dati, peraltro abbastanza insicuri, in relazione all’Assioco (così anche Immisch (1896), 17). In ogni caso la menzione del κριτικός è anacronistica per l’epoca in cui il dialogo è ambientato. Sull’insegnamento della geometria (γεωμέτραι) nel curriculum ellenistico cf. Marrou (19656), 265–266 e 267–269. L’insegnante di geometria è ricordato anche da Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448). Il τακτικός è colui che in campo militare si occupa della disposizione delle truppe (cf. e.g. Xen. Cyr. VIII 5, 15–16). Qui andrà inteso nel senso di “istruttore militare” dei giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Secondo Couvreur (1896), 77 con il termine τακτικός si intende l’ὁπλoμάχος (cf. e.g. Sext. M. VIII 409). L’ὁπλομάχος è ricordato da Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448) tra gli istruttori degli efebi. 366e3 πολὺ πλῆθος: lo Stobeo non ha πολύ. Solo Matthiae (1835), 303 ha seguito questa lezione. L’espressione in effetti è ridondante e non elegantissima. Tuttavia, cf. e.g. Xen. Cyr. III 3, 31; Aristot. HA. VIII 596a3. L’aggettivo può essere stato saltato per παράβλεψις (πολὺ/πλη-) con il successivo πλῆθος. 366e3–4 ἐπειδὰν δὲ εἰς τοὺς ἐφήβους ἐγγραφῇ: l’ingresso nell’efebia ad Atene avveniva a 18 anni e ciò comportava la registrazione nelle liste dei demi (la procedura è descritta da Aristot. Ath. 42, 1, su cui cf. Rhodes (1981), 497–498). L’espressione fissa utilizzata nel IV secolo per indicare questa registrazione propriamente è ἐγγράφεσθαι εἰς τοὺς δημότας (cf. e.g. Is. Or. 2 (De Menecle), 14; Demosth. Or. 18 (De corona), 261; Aeschn. Or. 2 (De falsa legatione), 150; Aristot. Ath. 42, 1). La formula qui impiegata implica l’esistenza di liste efebiche e non sembra attestata prima dell’età impe-

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riale (cf. e.g. Plut. Ant. 71; DCass. XLV 38; LV 10; cf. anche Pélékidis (1962), 52 n. 1). Il momento preciso dell’istituzione dell’efebia ad Atene è questione molto problematica e dibattuta (cf. Chankowski (2010), 433 e Friend (2019), 1–33). In ogni caso, il tipo di formazione degli efebi descritto nell’Assioco sembra presupporre la riforma di Epicrate del 335/4 a.C. (su cui cf. Friend (2019), 34–36 e 53–57). 366e4 κοσμητής: il termine κοσμητής, assente nella tradizione medievale, è trasmesso dallo Stobeo. Nell’ambito della regolamentazione dell’efebia ateniese, l’ufficio del κοσμητής fu istituito con la riforma di Epicrate (la sua più antica attestazione sembra essere in EM 13354, pubblicata da Mitsos (1965), 131–136, che ora si tende a datare non più 361/0, ma al 334/3: cf. Friend (2019), 22 n. 60, 24 e 187–188, con ulteriore bibliografia). Questa figura era preposta alla formazione degli efebi: li educava alla disciplina e al rispetto dei valori cittadini (cf. Aristot. Ath. 42, 2–3, con Friend (2019), 60–61). Diversamente dai σωφρονισταί, il κοσμητής era soltanto uno di numero, scelto tra tutta la popolazione eleggibile, e con competenza su tutti gli efebi a prescindere dalla tribù di appartenenza. Verosimilmente si trattava di una carica superiore a quella dei σωφρονισταί (cf. anche Friend (2019), 61). Mentre questi ultimi scompaiono tra la fine del IV e l’inizo del III a.C. per riapparire solo in età imperiale (cf. il commento a 367a2), il cosmete continua ad esistere (cf. Pélékidis (1962), 104–106; Reinmuth (1971), 135–136 e Rhodes (1981), 504–505). 366e4 φόβος χειρῶν: V e Par hanno χειρῶν. Il resto della tradizione medievale e lo Stobeo hanno χείρων. Nel primo caso il senso è “la paura delle mani”, ossia delle percosse (cf. LSJ s.v. χείρ IV). Così hanno inteso Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). Tuttavia: 1) la paura delle percosse non è un’esclusiva dell’età efebica (cf. il commento a 366d5 e a 366e1); 2) la iunctura φόβος χειρῶν non risulta altrimenti attestata; 3) ciò che ci si aspetta non è “il κοσμητής e la paura delle percosse”, ma “il κοσμητής e x”, dove x è una figura “professionale” come il κοσμητής (cf. e.g. Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), ἔφηβος γέγονεν ἔμπαλιν τὸν κοσμητὴν φοβεῖται, τὸν παιδοτρίβην, τὸν ὁπλομάχον, τὸν γυμνασίαρχον). In ogni caso, anche leggere φόβος χείρων, “una paura peggiore”, non è meno problematico. Per rendere l’idea di “una paura peggiore” ci si sarebbe forse aspettati un’altra espressione (come φόβος μείζων: cf. e.g. Phil. Ios. 184, 3, δεῖ γὰρ τὸν ὡς ἐπὶ τεθνεῶτι ἀπαλλάξαι σου μείζονα φόβον): φόβος χείρων, infatti, è espressione ambigua, potendo significare sia “paura peggiore”, sia “paura inferiore”, cioè il suo esatto contrario (come risulta dalla soluzione di Ast (1827), 404, il quale accoglieva la lezione dei manoscritti εἴη τὸ e proponeva dubitativamente φόβος οὐ χείρων ἂν εἴη τὸ Λύκειον, «haud minore metu

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territant Lyceum etc.»). Inoltre, vale anche in questo caso l’obiezione (3) sollevata contro φόβος χειρῶν. Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), x proponeva di correggere in φρούραρχος o ἐφήβαρχος. La soluzione ἐφήβαρχος è molto interessante: l’efebarco è una figura presente in molte città greche a partire dall’età ellenistica (cf. Oehler (1905), 2735–2736 e Kennell (2000), 103– 108). Non ci sono evidenze della presenza della carica dell’efebarco ad Atene. Tuttavia, almeno in età imperiale l’efebarco è ormai ritenuto nel mondo greco una figura tipica di educatore (cf. e.g. Arr. EpictD. III 7, 19). 366e4–367a1 Λύκειον καὶ Ἀκαδήμεια: due dei tre grandi ginnasi di Atene, esistenti da prima dell’età classica (cf. Demosth. Or. 24 (In Timocratem), 114, il quale ricorda una disposizione risalente a Solone: cf. anche il commento a 364a1). Anche dopo che Platone e Aristotele ebbero stabilito le loro scuole nell’Accademia e nel Liceo, le due strutture non smisero di essere utilizzate come ginnasi: un certo Aristomaco è ricordato come ἐπιστάτης dell’Accademia nel 324 (Hyp. Or. 1 (In Demosthenem), fr. 6, col. XXVI, ll. 22-24 Jensen), mentre un decreto datato tra il 184 e il 171 in onore di un cosmete ricorda l’addestramento annuale degli efebi all’interno dell’Accademia (cf. Reinmuth (1961), 15–17 n. 9, ll. 3–4; Caruso (2013), 52). Almeno a partire dalla seconda metà del II secolo a.C. gli efebi seguivano per un anno intero le lezioni tenute da alcuni filosofi negli spazi dei ginnasi del Liceo e dell’Accademia: cf. e.g. IG II2, I.2, 1006, 19–20 (123/2 a.C.). Verosimilmente Accademici e Peripatetici, accanto alle loro attività “interne” di scuola, offrivano alla città una sorta di servizio di istruzione superiore per tutti gli efebi (cf. Tod (1957), 137; Lynch (1972), 130–134 e Brittain (2001), 61–62). È verosimile che nell’ambito di questo servizio i due ginnasi fossero aperti alle lezioni di filosofi appartenenti anche ad altre scuole (cf. Ferrary (1988), 438–440). Qui il Liceo e l’Accademia sono menzionati in quanto ginnasi e non in quanto scuole filosofiche (cf. Caruso (2013), 22: «le due accezioni, ginnasio pubblico di Atene e scuola platonica, sono sovente impiegate senza … distinzione (bastando la specificità del contesto a preservare, quasi sempre, dal rischio di ambiguità)»). 367a1 γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι: il testo della tradizione medievale e dello Stobeo è γυμνασιαρχία καὶ ῥάβδοι. Tuttavia, dire che su qualcuno incombe una carica (come la ginnasiarchia) significa che qualcuno è tenuto ad assumere una carica che non gli è gradita (occasionalmente gli efebi potevano diventare ginnasiarchi: cf. Friend (2019), 123–125). Ma questo senso non va bene in questo contesto: ci si aspetta che si alluda al severo controllo che i ginnasiarchi esercitano sugli efebi. Couvreur (1896), 79 n. 1 (seguito da Souilhé) suggeriva di correggere γυμνασιαρχία in γυμνασίαρχοι. Meglio è correggere in γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι, “sui ragazzi incombono i bastoni (scil.

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le bastonate) dei ginnasiarchi” (già il Cassarino aveva collegato γυμνασιαρχία e ῥάβδοι in un’unica espressione («exercendi principatus virgae»), non cogliendo, però, il significato esatto richiesto dal contesto). L’errore si spiega come errato scioglimento della scriptio continua, facilitato dal polisindeto con καί (per questa correzione cf. già Beghini (2017b), 270– 273). L’espressione γυμνασιαρχικαὶ ῥάβδοι si trova in Plut. Ant. 33, 7, ἐπὶ τούτοις εἱστία [scil. Antonio] τοὺς Ἕλληνας, ἐγυμνασιάρχει δ’ Ἀθηναίοις, καὶ τὰ τῆς ἡγεμονίας παράσημα καταλιπὼν οἴκοι, μετὰ τῶν γυμνασιαρχικῶν ῥάβδων ἐν ἱματίῳ καὶ φαικασίοις προῄει, καὶ διαλαμβάνων τοὺς νεανίσκους ἐτραχήλιζεν. Per i bastoni come attributo tipico del ginnasiarca cf. Fontani (1999), 196; Schuler (2004), 169 n. 35 e Culasso Gastaldi (2009), 128 (non hanno fondamento le considerazioni che da questo passo trae Friend (2019), 73, il quale collega l’uso dei bastoni alla figura dei sofronisti sulla base del fatto che «the Axiochus does not state who had used the rhabdos to punish the ephebe for his misbehavior»). Sull’evoluzione della figura e delle funzioni del ginnasiarca dall’età classica all’età ellenistica cf. Culasso Gastaldi (2009), 115–139 e Curty (2015), 1–14. L’inquadramento del ginnasiarca all’interno del percorso di formazione degli efebi è proprio della ginnasiarchia di età ellenistica (forse a partire da Demetrio del Falero: cf. Culasso Gastaldi (2009), 120–123). 367a2 πᾶς ὁ τοῦ μειρακίσκου χρόνος: A ha πόνος, stampato da Burnet (19132), mentre Vv, i discendenti di O e lo Stobeo hanno χρόνος, stampato da Immisch (1896) e Souilhé (1930). In entrambi i casi il senso generale è ammissibile. Con πόνος l’accento è posto sulla sofferenza del μειρακίσκος (“tutti i patimenti del giovane dipendono dai sofronisti…”). Con χρόνος l’attenzione è rivolta al controllo diuturno esercitato dai sofronisti sul giovane (“tutto il tempo del giovane è sottoposto al controllo dei sofronisti…”). Tuttavia, qui con il termine μειρακίσκος si intende ancora una volta l’ἔφηβος (cf. inoltre Chankowski (2010), 83–84 e 116–117). Ora, nella frase precedente è stata elencata una serie di altre fonti di sofferenza per l’efebo. Dunque, non si può dire che tutta la sofferenza del giovane in età efebica dipende dai sofronisti. Quella prodotta dai sofronisti è una sofferenza supplementare che si caratterizza per la sua continuità temporale. La variante πόνος poteva sorgere per «confusione concettuale fra bisillabi indicanti realtà estese e generiche, quali λόγος, βίος, τρόπος, τόπος, πόνος ecc.» (Lapini (2012), 41), soprattutto se si considera che l’idea del πόνος pervade tutto il passo (cf. e.g. 366d8); per un caso per certi aspetti simile di interferenza concettuale cf. Diog. Laert. VII 168 ed. Dorandi, dove il corretto ἐν τοῖς λόγοις ἐγυμνάζετο di BFP4 diventa ἐν τοῖς πόνοις ἐγυμνάζετο di P1(Q): cf. Lapini (2008), 49 n. 20.

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Tuttavia, non si può escludere che le due varianti celino una corruttela più complessa e si debba scrivere καὶ πᾶς ὁ τοῦ μειρακίσκου χρόνος ἐπίπονός ἐστιν ὑπὸ σοφρονιστὰς κτλ. Caduto il prefisso ἐπι- (sul fenomeno cf. Lapini (2016b), 173), i restanti χρόνος πόνος sono stati presi per una doppia lezione: una parte della tradizione ha conservato il solo πόνος, l’altra il solo χρόνος (“diffrazione in assenza”: cf. Contini (1986), 29–30). Per l’espressione καὶ πᾶς ὁ τοῦ μειρακίσκου χρόνος ἐπίπονός ἐστιν ὑπὸ σοφρονιστάς cf. Teles fr. V Hense, p. 49 (= fr. V Fuentes González, p. 448), εἶθ’ ὁ πρῶτος ὁ κατὰ τὴν παιδοτροφίαν ἐπίπονος (il soggetto sottinteso è χρόνος). 367a2 ὑπὸ σωφρονιστάς: ὑπό + accusativo esprime dipendenza e sottomissione (cf. LSJ s.v. ὑπό II). Come il κοσμητής, i σωφρονισταί furono istituiti nell’ambito della regolamentazione dell’efebia ateniese con la rifoma di Epicrate del 335/4 (cf. il commento a 366e4). Le funzioni dei sofronisti sono descritte da Aristot. Ath. 42, 2–3 (su cui cf. Rhodes (1981), 505–506). Essi sovrintendevano alla formazione degli efebi (cf. Reinmuth (1971), 2: «He [scil. il sofronista] was in loco parentis for the young men of his tribe with responsibility for their moral and disciplinary supervision»; cf. inoltre Friend (2019), 63–65). La loro esistenza è testimoniata dalle iscrizioni a partire dalla seconda metà del IV secolo (la più antica menzione conservata è in IG II2, Ι.2, 1156, 28–29 = Reinmuth 2 = T2 Friend, per gli efebi registrati nel 334/3). La menzione più recente è in IG II2, I.2, 1159, 5 = Reinmuth 19, per gli efebi registrati nel 303/2. Le attestazioni sui sofronisti ricompaiono solo in età antonina (IG II2, II.2, 2044, 2–9, per gli efebi registrati nel 139/40). Su questi problemi cf. anche Pélékidis (1962), 106–108 e Rhodes (1981), 504. L’autore dell’Assioco dipende in questa descrizione dell’efebia da una fonte della fine del IV secolo accostabile ad un frammento di Telete (cf. supra p. 41 e n. 105). I σωφρονισταί, uno per tribù, erano verosimilmente sottoposti al κοσμητής (su cui cf. il commento a 366e4). Per questa ragione «the sophronistes, clearly would have spent almost all of his time in close proximity to the ephebes of his own phyle. The kosmetes by comparison was a remote figure» (Friend (2019), 64, cf. anche n. 30). Ciò spiega perché nell’Assioco viene dato maggior risalto ai σωφρονισταί rispetto al κοσμητής. 367a3 τὴν ἐπὶ τοὺς νέους αἵρεσιν τῆς ἐξ Ἀρείου πάγου βουλῆς: secondo Chevalier (1915), 32 si tratta della «surveillance exercée sur les jeunes gens par l’Aréopage»; per Souilhé (1930) si allude a «[les] precepteurs que l’Aréopage choisit pour la jeunesse»; per Pélékidis (1962), 33 n. 1 si ha qui un vero e proprio «comité spécial de l’Aréopage». Il senso che ci si aspetta è quello di “commissione”, con uno slittamento semantico del termine αἵρεσις dall’astratto al concreto (dall’operazione della scelta al risultato del-

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la scelta). Tale significato è richiesto anche dal complemento ἐπὶ τοὺς νέους, dove ἐπί + accusativo presuppone una competenza, un controllo su qualcuno: cf. l’espressione fissa con cui è designato il cosmete eletto per controllare gli efebi (χειροτονηθεὶς κοσμητὴς ἐπὶ τοὺς ἐφήβους), e.g. IG II2, I.2, 1008, 52–53; IG II2, I.2, 1009, 33; IG II2, I.2, 1011 33–34. L’occorrenza del termine αἵρεσις più prossima a questa si trova in IG IV2, I, 83, datata tra il 40 e il 42 d.C., contenente il messaggio di cordoglio inviato ad Epidauro dalla città di Atene per la morte del giovane Tito Statilio Lampria (su questa epigrafe cf. Keil (1920), 1–26). Su proposta di un certo Timostene figlio di Callistomaco l’Areopago istituì una αἵρεσιν τὴν πορευθ[η]σομ̣ένην καὶ παραμυθησομένην τούς τε γονεῖς αὐτοῦ καὶ τὸν πάππον (ll. 12–13). Qui il termine αἵρεσις indica una delegazione, un gruppo di uomini scelti, sostanzialmente come nel passo dell’Assioco. Inoltre, in entrambi i casi il termine αἵρεσις è associato ad una disposizione dell’Areopago. In particolare, l’epigrafe mostra che intorno alla metà del I secolo d.C. il termine αἵρεσις faceva parte del lessico “burocratico” dell’Areopago (cf. anche Keil (1920), 26). D’altra parte, al tempo di Cicerone l’Areopago prendeva decisioni in materia di educazione dei giovani: Cicerone ottenne dall’Areopago che il peripatetico Cratippo potesse insegnare ai giovani (cf. Plut. Cic. 24, 7; cf. anche Keil (1920), 75–76; sulle funzioni dell’Areopago tra il I a.C. e il I d.C. cf. inoltre Graindor (1931), 66–67 e Geagan (1967), 50–51). Per contro, prima del periodo compreso tra il I a.C. e il I d.C. il termine αἵρεσις non risulta attestato in questo senso; né è riconosciuta all’Areopago una particolare competenza in materia di educazione (non trascurabile è soprattutto il silenzio su questo punto di Aristotele, il quale offre una testimonianza dettagliata del percorso formativo degli efebi alla fine del IV secolo). Sembra ragionevole concludere che l’Assioco attesta «the existence of an Areopagite panel “for youth” akin to the other Areopagite boards manifest in the late second or first century» (O’Sullivan (2009), 89). Non convince invece l’idea di Banfi (2010), 133–135 che l’istituzione di questa commissione di controllo dei giovani risalga a Demetrio del Falero, nell’ambito di un più generale rafforzamento delle competenze dell’Areopago (su quali fossero queste competenze non c’è accordo: cf. le contrapposte posizioni di O’Sullivan (2009), 86–89 e 147–159, e di Banfi (2010), 101–109 e 133–135). Sul valore di questo anacronismo per la datazione dell’Assioco cf. supra p. 26. Non si può escludere, tuttavia, che non si tratti di una banale svista. L’autore potrebbe aver deliberatamente derogato alla finzione, attualizzando questa parte dell’ἐπίδειξις con un riferimento polemico ad una realtà del proprio tempo.

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Commento

367a4 ὑπέδυσαν: per l’aoristo pro presente cf. il commento a 366e1. 367a5 τίνα τις τοῦ βίου ὁδὸν ἐνστήσηται: la tradizione medievale ha τίνα τὴν τοῦ βίου ὁδόν, lo Stobeo τίνα τις τοῦ ζῆν ὁδόν. Vv hanno il singolare ἐνστήσεται, testimoniato anche nei codici Trincavelliani dello Stobeo. A2 ha segnato τις sopra τήν e ha corretto in ἐνστήσεται. Con ogni probabilità A aveva ἐνστήσονται (questa è la lezione di Par e dei discendenti di O). Immisch (1896) ha stampato τίνα τὴν τοῦ βίου ὁδὸν ἐνστήσεται, Burnet (19132) τίνα τὴν τοῦ βίου ὁδὸν ἐνστήσονται, e Souilhé (1930) τίνα τις τοῦ βίου ὁδὸν ἐνστήσεται. A partire da 366d3, tutte le fasi della vita dell’uomo sono scandite da verbi al singolare. Inoltre, la compresenza di τίνα e di τήν è difficilmente accettabile in questo caso (lo sarebbe se la domanda fosse del tipo: “qual è la strada migliore da intraprendere?”). Il passaggio dal singolare al plurale sarà avvenuto per influenza delle espressioni plurali di poco precedenti (φροντίδες ἄντικρυς ὑπέδυσαν καὶ διαλογισμοί). Una volta avvenuto il passaggio dal singolare al plurale, si sarà verificato anche il passaggio da τις a τήν (essendo τις ormai inammissibile). Il congiuntivo dello Stobeo (il futuro è nei soli Trincavelliani) sembra preferibile all’indicativo futuro (per il congiuntivo nelle interrogative indirette cf. KG II.1, 222). Il tema delle vie della vita è presente nell’apologo di Eracle al bivio (cf. Xen. Mem. II 1, 23, ὁρῶ σε, ὦ Ἡράκλεις, ἀποροῦντα ποίαν ὁδὸν ἐπὶ τὸν βίον τράπῃ). Ciò ha fatto pensare che questo tema sia qui ripreso direttamente dal testo senofonteo (cf. Mayhew (2011), 232–233 e Männlein-Robert (2012), 75 n. 59). Questa possibilità non può essere del tutto esclusa visto che si ha qui un’ἐπίδειξις attribuita a Prodico. Tuttavia, bisogna tenere conto della diffusione del tema delle vie della vita nella letteratura moralistica: cf. e.g. [Isocr.] Or. 1 (Ad Demonicum), 5; [Archyt.] De educ. eth. 41, Phil. Spec. IV 108. Il verbo ἐνίστημι significa in questo caso “intraprendere” (cf. e.g. Aristoph. Lys. 268; Demosth. Or. 10 (Philippica 4), 21; Or. 18 (De corona), 4; in generale cf. LSJ s.v. A.3). 367a6 τοῖς ὕστερον χαλεποῖς: l’uso del dativo semplice per esprimere il termine di confronto (“rispetto a”) è sospetto. Si è pensato di far dipendere il dativo dal verbo ἐφάνη (cf. Fischer (1786), 132). Tuttavia, il dativo dipendente da ἐφάνη di solito esprime semplicemente il complemento di termine (cf. LSJ s.v. φαίνω II; contro l’interpretazione di Fischer si era espresso già Leopardi: cf. supra p. 17 n. 27). Ci si sarebbe, dunque, aspettati qualcosa come πρὸς τὰ ὕστερον χαλεπά (cf. LSJ s.v. πρός III.4). Meglio, come suggeriva Wolf (ap. Fischer (1786), 249), qualcosa come παραβαλλόμενα, o συγκρινόμενα, o ἀντεξεταζόμενα (ma si potrebbe anche aggiungere συμβαλλόμενα) τοῖς ὕστερον χαλεποῖς (cf. e.g. Phil. Praem. 143–

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144, καίτοι δεινὰ ὄντα, συγκρινόμενα βαρυτέροις οὐ φαίνεται δεινά). «Incuria librarii videtur omissum Participium» (Wolf ap. Fischer (1786), 249). 367a6 παιδιά: la tradizione medievale ha παιδικά, lo Stobeo παιδιά. Immisch (1896) e Burnet (19132) accolgono la lezione della tradizione medievale, Souilhé (1930) quella dello Stobeo. A favore di παιδιά Wilamowitz (1895), 987 segnalava Aeschl. Pr. 313–314, ὥστε σοι τὸν νῦν ὄχλον / παρόντα μόχθων παιδιὰν εἶναι δοκεῖν (ma cf. anche Plat. Crit. 46d, νῦν δὲ κατάδηλος ἄρα ἐγένετο ὅτι ἄλλως ἕνεκα λόγου ἐλέγετο, ἦν δὲ παιδιὰ καὶ φλυαρία ὡς ἀληθῶς). Ciò che qui occorre è un sostantivo che faccia il paio con φόβητρα. Ma τὰ παιδικά ha un significato impossibile in questo contesto (cf. LSJ s.v. παιδικός III.2: «in pl. (of a single person) παιδικά, -ῶν, τά, mostly of a boy»; cf. anche Couvreur (1896), 79 n. 1). La lezione παιδικά si sarà prodotta per influenza del precedente τὰ πρῶτα. Su Vv verosimilmente παιδικά è stato preso per sostantivo concordato con τὰ πρῶτα (“le sofferenze di quando si era bambini”); in questo modo però per dare un senso alla frase occorreva un predicato che si è cercato di ricavare mutando τὰ πρῶτα παιδικά in μικρὰ τὰ παιδικά. Il predicato μικρά è stato sostituito a πρῶτα per far tornare il senso della frase. Tuttavia, le sofferenze che sono state prima elencate non riguardano solo i bambini, ma anche i ragazzi più grandi e gli efebi. 367a6–7 νηπίων ὡς ἀληθῶς φόβητρα: stravolge il senso della frase la traduzione di Männlein-Robert (2012): «im Vergleich zu den späteren Qualen erscheinen die ersten als albern und wahrlich die von kleinen Kindern, da sie wahrhaft Angst einflößen». L’errore sta nell’aver preso ὡς per congiunzione causale. Qui ὡς (omesso da Vv) è rafforzativo dell’avverbio ἀληθῶς (“per davvero”): cf. e.g. Eur. Or. 739; [Xen.] Ath. 2, 19; Plat. Euthyphr. 6b; Crit. 46d, citato al lemma precedente. Il raro termine φόβητρον (frequente nel VT. e negli autori cristiani), indica in generale “ciò che fa paura”. In Hp. MS. 1 (ὁκόσα δὲ δείματα νυκτὸς παρίσταται καὶ φόβοι καὶ παράνοιαι καὶ ἀναπηδήσιες ἐκ τῆς κλίνης καὶ φόβητρα καὶ φεύξεις ἔξω) indica forse gli incubi, mentre in AP. XI 189 (= Lucillio, 73 Floridi), Τισιφόνης τὰ φόβητρα potrebbe indicare le maschere delle Furie o gli oggetti scenici legati a questi personaggi (cf. Floridi (2014), 362–363). Qui, a giudicare dal contesto, designa piuttosto gli “spauracchi” per i bambini, creature mostruose che producono una paura cui non corrisponde un pericolo reale, simili ai μορμολυκεῖα (su cui cf. il commento a 364b7-c1). 367a7-b1 στρατεῖαί τε γὰρ … συνεχεῖς ἀγῶνες: cf. Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 448), ἀνὴρ γέγονε καὶ ἀκμάζει στρατεύεται καὶ πρεσβεύει ὑπὲρ τῆς πόλεως, πολιτεύεται, στρατηγεῖ, χορηγεῖ, ἀγωνοθετεῖ.

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Commento

367b1 εἶτα λαθὸν ὑπεισῆλθεν τὸ γῆρας: per l’uso del participio di λανθάνω nel senso di “di nascosto”, “furtivamente” cf. e.g. Plat. Prot. 321e; in generale cf. LSJ s.v. λανθάνω A.2.b (in fine) e KG II.2, 66. A e lo Stobeo hanno ὑπῆλθεν. A2 ha aggiunto supra lineam il preverbo εἰσ-. Per Schanz (1879), 364 si tratta di una sostituzione di ὑπ-. Tuttavia, A2 scrive εις senza spirito, cosa che fa pensare più ad un’aggiunta di un secondo preverbo dopo ὑπ- che ad una sostituzione. In Par, nei discendenti di O e in Vv (trascurando l’innovazione singolare di v ἐπεισ-) si trova il doppio preverbo ὑπεισ-. L’uso del doppio preverbo è frequente nell’Assioco (cf. anche Meister (1915), 34 e il commento a 365c3). Il verbo ὑπεισέρχομαι è raro e ricorre soprattutto in poesia e nella prosa di età imperiale (cf. e.g. Eur. Ion 851; D.H. Thuc. 17; Phil. Spec. IV 191). La vecchiaia sopraggiunge di nascosto, furtivamente, nel senso che, essendo l’invecchiamento un processo graduale, non è possibile stabilire con precisione il momento in cui se ne è varcata la soglia: improvvisamente ci si sente vecchi (su questo tema cf. Petrone (2004), 223–230). 367b1–2 εἰς ὃ πᾶν συρρεῖ … δυσαλθές: analoga espressione in Xen. Ap. 8, ὅτι ἡτοιμασάμην ἂν ἀντὶ τοῦ ἤδη λῆξαι τοῦ βίου ἢ νόσοις ἀλγυνόμενος τελευτῆσαι ἢ γήρᾳ, εἰς ὃ πάντα συρρεῖ τὰ χαλεπὰ καὶ μάλα ἔρημα τῶν εὐφροσυνῶν. L’immagine della vecchiaia come luogo in cui si accumulano tutti i mali si trova in commedia (cf. e.g. Antiph. PCG II fr. 251, πρὸς γὰρ τὸ γῆρας ὥσπερ ἐργαστήριον / ἅπαντα τἀνθρώπεια προσφοιτᾷ κακά, e PCG II fr. 255, τὸ γῆρας ὥσπερ βωμός ἐστι τῶν κακῶν· / παντ’ ἔστ’ ἰδεῖν εἰς τοῦτο καταπεφευγότα). Tuttavia, le immagini di questi passi comici sono vivaci ed icastiche, ancorate al concreto (ἐργαστήριον, βωμός), mentre sia nel passo senofonteo sia nell’Assioco il tema dell’accumulo dei mali rimane piuttosto generico. A monte dei due testi potrebbe esserci stato qualche luogo tragico di lamento della vecchiaia non molto diverso da Eur. TrGF V.2 F 645b (Πολυΐδος), φεῦ φεῦ, τὸ γῆρας ὡς ἔχει πολλὰς νόσους, o TrGF V.2 F 805 (Φοῖνιξ), ὦ γῆρας, οἷον τοῖς ἔχουσιν εἶ κακόν. A meno che l’Assioco non dipenda direttamente da Senofonte. Qui il termine φύσις va inteso nel senso specifico di “natura umana”, “essere umano” (così anche in 370b2): cf. LSJ s.v. φύσις V. Ci si sarebbe forse aspettati un’ulteriore specificazione come θνητῆς o ἀνθρωπείας. Le attestazioni più antiche di ἐπίκηρος (“mortale”, “corruttibile”) sono nella letteratura scientifica (cf. Hp. MS. 1 e Aristot. GA. III 753a7). In età ellenistica è impiegato da Callim. Ep. 58, 3 (= AP. VII 277 = 50 Gow-Page) con il senso di “precario”, “soggetto al caso”. Più frequenti le occorrenze del termine in età imperiale. Per l’uso sostantivato (“la parte corruttibile”) di ἐπίκηρος cf. e.g. Philod. Mort. 38, 27–28; Plut. Isid. 371b; Tranqu. an. 475d (cf. anche Männlein-Robert (2012), 75 n. 60).

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Il termine δυσαλθής compare una volta nel corpus Hippocraticum (cf. Hp. Art. 41), più spesso nella poesia ellenistica, soprattutto didascalica (cf. Nic. Al. 12, 157, 597; Th. 187, 466; ma cf. anche Lyc. Alex. 796), e sovente nella letteratura medica di età imperiale (cf. anche Hershbell (1981), 60 n. 34 per il quale δυσαλθής «seems almost a synonym for “mortal”»). 367b2–6 κἂν μή τις θᾶττον … παρήρθρωσεν: cf. Bion fr. 68 Kindstrand (= Teles fr. II Hense, pp. 15–16 = fr. II Fuentes González, p. 140), καθάπερ καὶ ἐξ οἰκίας, φησὶν ὁ Βίων, ἐξοικιζόμεθα, ὅταν τὸ ἐνοίκιον ὁ μισθώσας οὐ κομιζόμενος τὴν θύραν ἀφέλῃ, τὸν κέραμον ἀφέλῃ, τὸ φρέαρ ἐγκλείσῃ, οὕτω, φησί, καὶ ἐκ τοῦ σωματίου ἐξοικίζομαι, ὅταν ἡ μισθώσασα φύσις τοὺς ὀφθαλμοὺς ἀφαιρῆται τὰ ὦτα τὰς χεῖρας τοὺς πόδας (cf. anche Meister (1915), 111 e Kindstrand (1976), 281). Tuttavia, in Bione la privazione delle varie funzioni corporee è il segno che è giunto il momento di rinunciare alla vita. Nell’Assioco, invece, è lo scotto da pagare per aver voluto vivere più del dovuto. Per l’idea che la vita non appartenga all’uomo, ma gli sia concessa solo come possesso temporaneo che deve essere prima o poi restituito cf. e.g. Lucr. III 971; Cic. Tusc. I 39, 93. Questo passo dell’Assioco sembra che sia stato tenuto presente da Tommaso Campanella in uno dei suoi madrigali (cf. supra p. 17 e n. 26). Il femminile ὀβολοστάτις è attestato solo qui e in Poll. III 112. Il maschile corrispondente, ὀβολοστάτης, ricorre frequentemente in commedia come già notava Harp. Lex. ο 1 (p. 217 Dindorf = p. 187 Keaney): cf. e.g. Aristoph. Nub. 1155, Antiph. PCG II 166. Il verbo tecnico ἐνεχυράζω indica il pignoramento di un bene (cf. LSJ s.v.). Per la costruzione con il genitivo semplice della persona cui si pignora qualcosa cf. il testo della legge citato in Demosth. Or. 21 (In Midiam), 10, μὴ ἐξεῖναι μήτε ἐνεχυράσαι μήτε λαμβάνειν ἕτερον ἑτέρου. 367b6–7 ἀλλ’ οἱ πολυγήρως … δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται: la tradizione medievale ha ἄλλοι, accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930), lo Stobeo ἀλλ’ οἱ (presupposto anche da Psell., Opusc. XVI, p. 80, 13–14 O’Meara: cf. supra p. 141), accolto da Hermann (1853), con l’approvazione di Wilamowitz (1895), 987. Con ἄλλοι la nuova frase rimane giustapposta asindeticamente alla precedente. Non così con ἀλλ’ οἱ (per quest’uso di ἀλλά cf. Denniston (19542), 22: «proceeding to a new item in a series»). Inoltre, l’equivalente logico dei precedenti κἄν μή τις θᾶττον ὡς χρέος ἀποδιδῷ τὸ ζῆν e κἂν ἐπιμείνῃ τίς, non è ἄλλοι πολυγήρως (dove πολυγήρως è predicativo del soggetto), bensì ἀλλ’ οἱ πολυγήρως (che potrebbe essere benissimo convertito in κἄν τις πολυγήρως ᾖ). La lezione ἄλλοι avrebbe avuto senso se prima fosse stato detto “alcuni continuano a vivere per un po’ …, altri un altro po’… altri ancora etc.” (cf. e.g. Isocr. Or. 10 (Helenae encomium), 1, εἰσί τινες οἳ μέγα φρονοῦσιν, … καὶ

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καταγεγηράκασιν οἱ μὲν … οἱ δὲ … ἄλλοι δὲ …). La scelta di ἀλλ’ οἱ depone anche a favore della lezione ἀπακμάζουσιν (ἀλλ’ οἱ πολυγήρως ἀκμάζουσιν non dà senso; cf. anche infra in questo lemma). L’aggettivo πολυγήρως è raro e poetico (per il problema dell’accentazione di questo aggettivo cf. KG I.1, 403–405): cf. Asius 1, 1 West; AP. IX 89 (Filippo di Tessalonica; cf. anche Gow-Page (1968), II 353); cf. inoltre CGL II, p. 210, 19 (Goetz-Gundermann): vivax· πολυζωιος· μακροβιος· πολυγηρως (già richiamato da Fischer (1786), 133). Il nominativo plurale dell’aggettivo contratto πολυγήρως sarebbe a rigore πολυγήρῳ. Su questa base Toup (1772), 15 ritoccava πολυγήρως in πολυγήρῳ, scelta seguita da Immisch (1896). Tuttavia, è meglio pensare con Wilamowitz (1895), 987 ad un metaplasmo (l’aggettivo è declinato al nominativo plurale come se uscisse in -ες; casi del genere sono attestati e.g. per ἅλως o κάλως, i quali, accanto al nominativo plurale “regolare”, ἅλῳ, κάλῳ, hanno le forme ἅλως e κάλως). È una formazione che si afferma soprattutto a partire dal IV secolo con lo “Jungattisch” (cf. KG I.1, 404). Per un altro caso di declinazione anomala cf. infra νεώ pro νεών. Inoltre, la tradizione medievale ha ἀκμάζουσιν, accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). Lo Stobeo ha ἀπακμάζουσιν, che si ritrova anche in Psell., Opusc. XVI, p. 80, 13–14 O’Meara e su L (cf. supra pp. 111-112 n. 286): questa lezione è stata accolta da Hermann (1853), con l’approvazione di Wilamowitz (1895), 987. Per dare un senso accettabile alla lezione della tradizione medievale (ἄλλοι πολυγήρως ἀκμάζουσιν) occorrerebbe qualcosa come καίτοι πολυγήρως ὄντες oppure ἔτι ἀκμάζουσιν, ἀλλὰ τῷ νῷ δὶς παῖδες (in questa direzione andava Matthiae (1835), 303: «καὶ wurde eingeschoben, nachdem δέ wegen δίς übersehen worden war»). Per altri argomenti a favore di ἀπακμάζουσιν cf. supra e infra in questo lemma. Questa è l’unica occorrenza del verbo ἀπακμάζω (è attestato ἀπακμή, cf. [Longin.] Subl. 9, 14, formato con ἀπό- negativo, come e.g. ἀφῆλιξ). La forma equivalente più diffusa è παρακμάζω (cf. e.g. Teles fr. V Hense, p. 50 (= fr. V Fuentes González, p. 140), παρήκμασε καὶ ἔρχεται εἰς γῆρας· πάλιν παιδοτροφίαν ὑπομένει καὶ ἐπιποθεῖ τὴν νεότητα). La tradizione medievale, poi, non ha il secondo καί, presente invece nello Stobeo. Il testo della tradizione medievale è accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930), quello dello Stobeo è accolto da Hermann (1853), con l’approvazione di Wilamowitz (1895), 987. Nel primo caso καὶ τῷ νῷ va insieme a δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται, nel secondo insieme a ἀλλ’ οἱ πολυγήρως ἀπακμάζουσιν. Dire τῷ νῷ δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται è leggermente pleonastico (è abbastanza evidente che si fa riferimento alla decadenza mentale), ma non impossibile (cf. e.g. Iunc. ap. Stob. IV 50b, 85, τῇ τε ψυχῇ κατὰ τὴν παροιμίαν παῖς πάλιν γεγονώς). Tuttavia, se

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ἀπακμάζουσιν si è corrotto in ἀκμάζουσιν, era necessario omettere anche il secondo καί: per ragioni di senso, infatti, καὶ τῷ νῷ non può essere legato a ἀκμάζουσιν. Viceversa, il testo con ἀπακμάζουσι ha senso anche senza il secondo καί (“altri sfioriscono molto avanti negli anni e nella mente diventano due volte bambini”). Dunque, non si hanno ragioni forti per cui il secondo καί poteva essere aggiunto, ma si ha una ragione molto forte per cui il secondo καί doveva essere eliminato. Ciò depone anche a favore della genuinità di ἀπακμάζουσιν contro ἀκμάζουσιν. Infine, la tradizione medievale ha δὶς παῖδες οἱ γέροντες γίγνονται, accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930), mentre lo Stobeo ha δὶς παῖδες οἱ γέροντες κατὰ τὴν παροιμίαν, accolto da Hermann (1853), con l’approvazione di Wilamowitz (1895), 987. Non è insolito che un autore segnali con le parole κατὰ τὴν παροιμίαν il proverbio a cui sta facendo ricorso (cf. e.g. Iunc. ap. Stob. IV 50b, 85, citato supra in questo lemma, ma anche Luc. 61 (Sat.), 9, οὕτω γὰρ ἂν τὴν παροιμίαν ἐπαληθεύσαιμι, ἥ φησι παλίμπαιδας τοὺς γέροντας γίγνεσθαι). Tuttavia, in questo caso è ragionevole pensare che κατὰ τὴν παροιμίαν sia un’annotazione intrusa nel testo e che γίγνονται nel testo dello Stobeo sia stato omesso a causa dall’intrusione dell’annotazione. È meno probabile, infatti, che κατὰ τὴν παροιμίαν sia stato sostituito da γίγνονται che non è strettamente necessario. Ma non si può escludere del tutto la possibilità della variante d’autore (cf. il commento a 365d1-2). Secondo Matthiae (1835), 303 «Hier ist οἱ γέροντες ein Glossem» (anche Stallbaum (1850) espunge οἱ γέροντες). A ben vedere, infatti, οἱ γέροντες non è necessario (bastando il precedente οἱ πολυγήρως). È, dunque, legittimo il sospetto che οἱ γέροντες sia una glossa di οἱ πολυγήρως erroneamente inserita nel testo, complice la forma standard del proverbio (secondo Wilamowitz (1895), 987 proprio il fatto che di solito il proverbio presenta l’indicazione οἱ γέροντες/ὁ γέρων assicurerebbe l’autenticità anche di οἱ γέροντες: cf. tuttavia Iunc. ap. Stob. IV 50b, 85, citato supra in questo lemma). Per un guasto simile cf. e.g. Plat. Crit. 49a, ἢ πᾶσαι ἡμῖν ἐκεῖναι αἱ πρόσθεν ὁμολογίαι ἐν ταῖσδε ταῖς ὀλίγαις ἡμέραις ἐκκεχυμέναι εἰσίν, καὶ πάλαι, ὦ Κρίτων, ἄρα τηλικοίδε {γέροντες} ἄνδρες πρὸς ἀλλήλους σπουδῇ διαλεγόμενοι ἐλάθομεν ἡμᾶς αὐτοὺς παίδων οὐδὲν διαφέροντες (l’espunzione si deve a Jacobs). Su questo celeberrimo proverbio e la sua diffusione nel mondo greco, in quello romano e oltre cf. Alfonsi (1970), 7–9; Cantarella (1971), 113–130; Alfonsi (1972), 118–119; Alfonsi (1976), 331–332 e Tosi (2017), 578–580 (n. 798).

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Il giudizio degli dèi e dei poeti sulla vita umana (367b7–368a7) 367b7 διὰ τοῦτο: A presenta καὶ τοῦτο, accolto da Burnet (19132). Vv, lo Stobeo e Clemente Alessandrino hanno invece διὰ τοῦτο, accolto da Baiter, Orelli, Winckelmann (1839), Immisch (1896) e Souilhé (1930). Il pronome τοῦτο da solo può avere funzione esplicativa (“per questa ragione”: cf. KG II.1, 310–311). Tuttavia, di solito ciò non avviene in apertura di frase. Per lo scambio καί/διά cf. e.g. Greg. Nyss. Ep. XVII 21 (ed. Pasquali), οὐκοῦν καὶ τὰς ψυχὰς τῷ καλῶς ἐπισταμένῳ τῇ τοῦ ἁγίου πνεύματος ζέσει καταμαλάσσειν ἐγχειριστέον, ὃς διὰ (V : καὶ F) τῆς τῶν λογικῶν ὀργάνων τυπώσεως σκεῦος ἐκλογῆς τε καὶ εὐχρηστίας ἕκαστον ὑμῶν ἐπιτελέσειε. Tuttavia, non si può escludere del tutto la possibilità di scrivere καὶ διὰ τοῦτο. La preposizione può essere caduta (cf. e.g. Isocr. 13 (In sophistas), 3 (ed. Drerup), καὶ διὰ (διὰ om. Γ pr., add. 2) ταύτης τῆς ἐπιστήμης): dopo essere stata reintegrata supra lineam, è stata presa per lezione sostitutiva. 367b7-c1 καὶ οἱ θεοὶ, τῶν ἀνθρωπείων ἐπιστήμονες: questa è la lezione di A, di Clemente Alessandrino e dello Stobeo. Vv hanno ἐπιστήμονες ὄντες (lezione cui è favorevole Post (1934), 63). L’omeoteleuto può aver causato la caduta poligenetica di ὄντες su A, in Clemente e nello Stobeo. Tuttavia, il participio non è necessario (sulla “Weglassung des Particips ὤν” cf. KG II.2, 101–102). Inoltre, la recensione Vv ha una forte propensione ad innovare: ὄντες potrebbe essere stato introdotto come correzione sostitutiva dell’erroneo καί che si legge su A dopo ἐπιστήμονες (il καί è stato aggiunto erroneamente forse pensando alla coordinazione di due proposizioni distinte: “gli dèi [sono] conoscitori della condizione umana e fanno morire giovani coloro che tengono in massima considerazione”). La serie di esempi storico-mitici da cui si ricavava che per gli dèi la vita umana non è un bene era un capitolo classico della letteratura consolatoria (cf. Cic. Tusc. I 47, 113; 48, 116; [Plut.] Cons. Apoll. 108e (cf. anche Kassel (1958), 78–79 e supra pp. 35-38). 367c1–2 οὓς ἂν περὶ πλείστου ποιῶνται θᾶττον ἀπαλλάττουσι τοῦ ζῆν: il medesimo concetto è espresso da un celebre verso del Δὶς ἐξαπατῶν di Menandro (fr. 111 Koerte = Dis ex. fr. 4 Sandbach = Stob. IV 52b, 27), confluito anche nella tradizione delle sententiae (Sent. 583 Pernigotti). Già Clemente Alessandrino (Strom. VI 2, 17) aveva notato la somiglianza tra il verso menandreo e il passo dell’Assioco (ai suoi occhi era un chiaro esempio di furtum letterario commesso da Menandro nei confronti di Platone: καὶ Πλάτωνος μὲν λέγοντος ... Μένανδρος πεποίηκεν). Il verso menandreo è citato anche da [Plut.] Cons. Apoll. 119e (cf. anche Hershbell (1981), 61 n. 37; su questa citazione menandrea cf. Audano (2014b), 220–227). I due autori hanno verosimilmente ripreso il verso da dei repertori di argomenti conso-

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latori (su questo problema cf. anche il commento a 367d1-4 e a 367d5-6 e supra pp. 35-38). 367c2–4 Ἀγαμήδης γοῦν καὶ Τροφώνιος … κατακοιμηθέντες οὐκέτ’ ἀνέστησαν: la morte di Agamede e Trofonio è un exemplum topico della letteratura consolatoria (cf. Cic. Tusc. I 47, 114; [Plut.] Cons. Apoll. 109a; Plut. Ὅτι καὶ γυναῖκα παιδευτέον, fr. 133 Sandbach = Stob. IV 52b, 43; cf. inoltre Kern (1894), 721; Radke (1939), 680–681 e Hani (19721), 169 nn. 1 e 7). Nella Consolatio ad Apollonium l’episodio è attribuito a Pindaro (φησὶ Πίνδαρος). Pindaro aveva parlato della vicenda di Agamede e Trofonio in un epinicio per la vittoria del pugile Casmilo di Rodi ai giochi Istmici: cf. schol. Luc. 77 (DMort.), 10, 1 (p. 255 Rabe) = fr. 2 Maehler (seguendo un’ipotesi di Rohde (1876), 199–201, Maehler riconduce tentativamente la testimonianza della Consolatio ad Apollonium al medesimo componimento: potrebbe trattarsi di un resoconto mitico-antiquario che parafrasava una sezione perduta dell’ode istmica di Pindaro). 367c4 γενέσθαι: A e Vv hanno ἔσεσθαι, γενέσθαι è in margine su A (questo marginale è solitamente attribuito ad A3, ma potrebbe essere un’altra mano: cf. supra p. 94 n. 221) e su Par; è a testo nei discendenti di O e nello Stobeo; ed è infine testimoniato da Thomas Magister (cf. anche supra pp. 141-142). Di solito il verbo εὔχομαι, quando significa “chiedere”, si costruisce con l’infinito aoristo, mentre quando significa “promettere” si costruisce con l’infinito futuro (cf. LSJ s.v. εὔχομαι I e II; naturalmente ci possono essere eccezioni: cf. Goodwin (1912), 36 e Fraenkel (1950), II 422 (ad Aeschl. Ag. 933); Thomas citava il passo dell’Assioco con γενέσθαι proprio a conferma di quest’uso: cf. supra p. 142). Nello stesso Assioco poco dopo (367c5–6) ricorre l’espressione εὔχομαι + infinito aoristo (εὐξαμένης αὐτοῖς τῆς μητρὸς γενέσθαι τι τῆς εὐσεβείας παρὰ τῆς Ἥρας γέρας). La situazione è la stessa: non si vede per quale ragione, per esprimere esattamente il medesimo concetto, sarebbe stato utilizzato prima un eccezionale infinito futuro e poi un regolare infinito aoristo. Pare più verosimile che l’infinito ἔσεσθαι si sia generato perché il senso della frase è stato equivocato: il verbo εὔχομαι è stato inteso nel senso di “promettere” e non di “chiedere”. 367c4 κατακοιμηθέντες: la tradizione medievale ha κοιμηθέντες, accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930), lo Stobeo κατακοιμηθέντες. Le due lezioni sono sostanzialmente equivalenti per senso, ma sembra più plausibile che il preverbo sia caduto piuttosto che aggiunto (cf. inoltre [Plut.] Cons. Apoll. 109a, τοὺς δὲ ποιήσαντας [scil. Agamede e Trofonio] τὸ προσταχθὲν τῇ ἑβδόμῃ νυκτὶ κατακοιμηθέντας τελευτῆσαι, cf. anche 108f citato al lemma successivo). 367c4 οὐκέτ’ ἀνέστησαν: questa è la lezione della tradizione medievale, lo Stobeo ha οὐκ ἐξανέστησαν. Tuttavia, qui ἔτι occorre per alludere alla

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morte (cf. e.g. [Plut.] Cons. Apoll. 108f, τοὺς δὲ [scil. Cleobi e Bitone] κατακοιμηθέντας μηκέτ’ ἀναστῆναι). La lezione οὐκ ἐξανέστησαν si sarà originata per errata divisione della scriptio continua e confusione di maiuscola (T>Ξ). 367c5-d1 οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας … μετὰ τὴν εὐχὴν νυκτὶ μετήλλαξαν: la morte di Cleobi e Bitone è un altro exemplum tipico della letteratura consolatoria (cf. Cic. Tusc. I 47, 113; [Plut.] Cons. Apoll. 108e-f; Sext. P. III 231; Clem. Strom. III 3, 16; Plut. Ὅτι καὶ γυναῖκα παιδευτέον, fr. 133 Sandbach = Stob. IV 52b, 43; cf. inoltre Hani (19721), 169 n. 3). Menandro Retore II 414 (= p. 162 Russell-Wilson) ricorda Cleobi e Bitone come exemplum tipico del λόγος παραμυθητικός (cf. anche supra p. 36). La fonte letteraria della vicenda di Cleobi e Bitone più antica a noi nota è Erodoto (I 31), ricordato come fonte anche da Cicerone, Clemente, Sesto, Menandro e Stobeo. 367c5 οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας : la lezione della tradizione medievale è οἵ τε τῆς Ἀργείας Ἥρας ἱερεῖς, lo Stobeo reca invece οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας. Sul margine di Marc. 186 il Bessarione ha vergato οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας υἱεῖς, con l’indicazione γρ (la variante torna, sempre per mano del Bessarione, sul margine di Marc. 184, copia di Marc. 186; in questo caso, però, manca il γρ: cf. anche supra p. 129 n. 345; già Immisch (1896) stampava direttamente il testo di Marc. 186). Prescindendo dalla variante bessarionea, lo Stobeo reca un testo più corretto (è la madre di Cleobi e Bitone ad essere sacerdotessa e non i figli: cf. e.g. Cic. Tusc. I 47, 113, Primum Argiae sacerdotis Cleobis et Bito filii praedicantur). Verosimilmente nella tradizione medievale, per influenza dell’articolo, il genitivo ἱερείας è stato mutato in ἱερεῖς (senza contare che Cleobi e Bitone non sono mai indicati dalle fonti come sacerdoti di Era Argiva). Una volta prodottosi il testo οἵ τε Ἀργείας ἱερεῖς, si è cercato di spiegare chi era questa Ἀργείας e così è stata introdotta la glossa Ἥρας a partire dalle parole di poco successive (366c6; già Souilhé (1930) espungeva Ἥρας sulla base dello Stobeo).492 L’aggiunta di ὑεῖς pare necessaria (per l’adozione della forma ὑεῖς e non υἱεῖς utilizzata dal Bessarione cf. supra p. 162). Per avere l’ellissi di υἱός (o παῖς) ci si sarebbe aspettati che in precedenza fosse stato espresso il nome proprio dei due ragazzi (cf. KG II.1, 268, e.g. Ἀλέξανδρος ὁ Φιλίππου). La variante bessarionea non è attestata nel resto della tradizione medievale. È naturalmente possibile che Bessarione abbia attinto ad una fonte

492 Naturalmente questa non è la sola spiegazione possibile: Ἥρας potrebbe essersi generato meccanicamente tra Ἀργείας e ἱερείας, anche per interferenza visiva dell’ Ἥρας di poco successivo.

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per noi perduta (o non identificata) del testo dell’Assioco o dello Stobeo. In questo modo si spiegherebbe l’uso di γρ sul margine del Marciano. Tuttavia, «in the case of Bessarion … we can be fairly certain that γρ. was also used to introduce conjectures» (Boter (1989), 90–91). In generale su γρ nel senso di γράφε e non di γράφεται cf. Wilson (2002), 242–243 e Pagani (2007–2008), 1034 n. 16. Si può pensare, dunque, che Bessarione abbia recuperato la lezione οἵ τε τῆς Ἀργείας ἱερείας dallo Stobeo e abbia aggiunto sua Minerva il nominativo υἱεῖς (sull’uso della tradizione indiretta da parte di Bessarione per recuperare varianti e correzioni dei suoi codici cf. Rescigno (19952), 71; Martinelli Tempesta (1997), 69 e Curnis (2011), 92; un certo scetticismo in proposito è stato espresso da Boter (1989), 231). 367c5 ὁμοίως: Par omette l’avverbio (su Par cf. supra pp. 106-110). L’omissione non sembra avere particolari ragioni diplomatiche o paleografiche. Si tratta di un caso di soppressione mentale di un elemento non necessario alla comprensione del senso generale della frase (cf. e.g. [Chio] Ep. VII 2 (ed. Düring), οὐδ’ ἐκεῖ τι ὁμοίως ψευσάμενος (ὁμοίως om. c), per un caso analogo cf. anche il commento a 365b5). 367c8 αὐτήν: lo Stobeo omette il pronome e ha τὴν μητέρα dopo εἰς τὸν νεώ; τὴν μητέρα è con ogni verosimiglianza una glossa di αὐτήν intrusa nel testo. L’intrusione ha a sua volta determinato l’omissione di αὐτήν. 367c8 εἰς τὸν νεώ: A trasmette la forma νεώ, corretto da A2 in νεών. Vv hanno νεών. Anche la tradizione dello Stobeo è oscillante (S e M hanno νεώ, mentre A ha νεών). La forma νεώ è un metaplasmo che si afferma soprattutto nello “Jungattisch” (a partire dal IV secolo: cf. KG I.1, 404), forse originato dall’influenza dell’accusativo singolare di termini come αἰδώς ed ἕως. Per un altro caso di metaplasmo nell’Assioco cf. il commento a 367b6-7 (a proposito di πολυγήρως). 367c8 μετὰ τὴν εὐχὴν νυκτί: non si può escludere la proposta dello Stephanus (1578), 367 (in margine) di integrare τῇ davanti a μετά (cf. KG II.1, 445: «Ohne Attribut [scil. l’espressione di tempo determinato al dativo] selten und vorwiegend dichterisch»). Meno plausibile l’integrazione di πρώτῃ proposta sempre dallo Stephanus. 367c8-d1 μετήλλαξαν: il verbo μεταλλάσσω nel senso di “morire” (eufemismo) senza il complemento oggetto espresso (e.g. τὸν βίον) è post-classico (cf. Oehler (1913), 142 (ad Parod. Florent. 15 = FGrHist 115 F 270c): «morior [scil. μεταλλάσσω] ex Polybii temporibus adhibetur (legitur etiam ap. Plat. pers. Axioch. 369b. 367c), μετ. τὸν βίον ex Isocratis aetate»). Numerose le occorrenze polibiane (cf. Mauersberger, Helms (2006), 1580). Nell’Assioco ricorre anche a 369b7. 367d1–4 μακρὸν ἂν εἴη … μνησθήσομαι τοῦ ἀξιολογωτάτου λέγοντος: la testimonianza dei poeti sulla miseria della condizione umana è un altro

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capitolo tradizionale della letteratura consolatoria (cf. e.g. [Plut.] Cons. Apoll. 111a-b, τὸ γὰρ καλὸν οὐκ ἐν μήκει χρόνου θετέον ἀλλ’ ἐν ἀρετῇ καὶ τῇ καιρίῳ συμμετρίᾳ· τοῦτο γὰρ εὔδαιμον καὶ θεοφιλὲς εἶναι νενόμισται. διὰ τοῦτο γοῦν τοὺς ὑπεροχωτάτους τῶν ἡρώων καὶ φύντας ἀπὸ θεῶν πρὸ γήρως ἐκλιπόντας τὸν βίον οἱ ποιηταὶ παρέδοσαν ἡμῖν). Di fronte all’abbondanza del materiale disponibile (μακρὸν ἂν εἴη διεξιέναι τὰ τῶν ποιητῶν), l’autore compie una selezione (ἑνὸς δὲ μόνου μνησθήσομαι τοῦ ἀξιολογωτάτου). Per un’operazione analoga cf. [Plut.] Cons. Apoll. 108e, citato supra a p. 36 (cf. anche Audano (2014a), 21 e 24). Questa operazione si adatta assai bene a chi si muove a partire da repertori o gnomologi. Tuttavia, il fatto che venga tematizzata dall’autore si spiega come espediente retorico volto ad impressionare il consolandus. Sulla promessa disattesa cf. il commento a 368a6-7. 367d1–2 στόμασι θειοτέροις: la tradizione medievale ha ποιήμασιν, lo Stobeo στόμασι. La lezione στόμασι si associa meglio al successivo θεσπιῳδοῦσιν (su cui cf. il lemma successivo). Inoltre, con στόμασι acquista un senso anche il comparativo θειοτέροις (“bocche più divine di quelle degli altri uomini”). L’errore, oltre che per influenza del precedente ποιητῶν, si sarà prodotto per confusione di maiuscola CT > Π (su questo scambio cf. Lapini (2009), 344–346; Lapini (2013b), 118 e Lapini (2016a), 630 n. 2: «l’errore ha una spiccata tendenza a manifestarsi a inizio di parola»). 367d2 θεσπιῳδοῦσιν: il verbo è attestato prevalentemente in poesia (cf. Aeschl. Ag. 1161; Eur. Ph. 959; Aristoph. Pl. 9; cf. anche Mastronarde (1994), 421) e, seppur non con frequenza altissima, in prosa a partire dalla fine dell’età ellenistica (cf. e.g. Diod. XVI 26, 6; D.H. AR. I 14, 5). Esso indica una proclamazione solenne, sovente associata alla profezia: e.g. Eur. Ph. 958-959, Φοῖβον ἀνθρώποις μόνον / χρῆν θεσπιῳδεῖν, Aristoph. Pl. 8-9, τῷ δὲ Λοξίᾳ, / ὃς θεσπιῳδεῖ τρίποδος ἐκ χρυσηλάτου. La scelta di espressioni magniloquenti (στόμασι θειοτέροις, θεσπιῳδοῦσιν) enfatizza l’autorevolezza della testimonianza dei poeti, quasi fossero degli oracoli. 367d2–3 ὡς κατοδύρονται τὸ ζῆν: scil. οἱ ποιηταί; la proposizione modale precisa il precedente τὰ τῶν ποιητῶν (cf. e.g. Aeschn. Or. 3 (In Ctesiphontem), 72, τὸ ῥῆμα μέμνημαι, ὡς εἶπε, cf. inoltre Schwyzer II 664). Per κατοδύρομαι + accusativo cf. il commento a 368b1-4. 367d5–6 ὣς γὰρ ἐπεκλώσαντο … ζώειν ἀχνυμένοις: Hom. Il. XXIV 525– 526 (Achille consola Priamo per la morte di Ettore; di 526 è citato solo il primo emistichio). Lo Stobeo cita Hom. Il. XXIV 525–526 nella sezione παρηγορικά (IV 56, 13) e in quella περὶ τοῦ βίου ὅτι βραχὺς καὶ εὐτελὴς καὶ φροντίδων ἀνάμεστος (IV 34, 45). In questa seconda sezione Hom. Il. XXIV 525–526 è citato nella stessa forma dell’Assioco e poco dopo (IV 34, 47) è citato anche Hom. Il. XVII 446–447, come nell’Assioco (cf. 367d8-e1, con il commento ad loc.). Non è chiaro se lo Stobeo (o una sua fonte) abbiano

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attinto queste due citazioni a un repertorio consolatorio analogo a quello cui attingeva l’Assioco (come pensava Hense (1894–1912), III 839) o le abbia tratte dal testo stesso dell’Assioco (va tenuto presente che questo assetto testuale dello Stobeo si trova su M ed A, seguiti da Hense, mentre su S, seguito da Meineke, la sequenza è esattamente quella dell’Assioco). [Plut.] Cons. Apoll. 105c riporta questi due versi all’interno di una citazione più estesa (Il. XXIV 522–533). Cf. inoltre Plut. Aud. poet. 20e, 22b. 367d8-e1 οὐ μὲν γάρ τί ποτ’ ἐστὶν … ἐπιπνείει τε καὶ ἕρπει: Hom. Il. XVII 446–447 (Zeus rivolto ai cavalli di Achille). I due versi si trovano anche in Stob. IV 34, 47, poco dopo i due precedenti (sulla questione cf. il lemma precedente). Cf. inoltre Plut. Am. prol. 496b e Affect. 500b. La tradizione omerica ha οὐ μὲν γάρ τί πού ἐστιν κτλ. (la variante ποτ(έ) potrebbe essere sorta per errore di maiuscola). Sarebbe immetodico ripristinare που nel testo dell’Assioco (su questa regola ecdotica cf. Dorandi (2010a), 273– 276). È interessante notare che la variante ποτ(έ) è presente anche in Stob. IV 34, 47, a ulteriore conferma della vicinanza di queste due fonti (cf. il commento al lemma precedente). 368a2–3 ὃν περὶ κῆρι φίλει Ζεύς … οὐδ’ ἵκετο γήραος οὐδόν: Hom. Od. XV 245–246. Come per le precedenti citazioni, verosimilmente l’autore dipende da un repertorio consolatorio (i due versi sono citati anche da [Plut.] Cons. Apoll. 111b). 368a4–6 ὁ δὲ κελεύων … τί σοι φαίνεται: questo verso del Cresfonte di Euripide (TrGF V.1 F 449, 4) fa parte di un locus classicus della letteratura consolatoria (cf. Cic. Tusc. I 48, 115; Clem. Strom. III 3, 15; Sext. P. III 231; Stob. IV 52b, 42). In Menandro Retore II 413 (= p. 162) è ricordato come exemplum tipico del λόγος παραμυθητικός (Menandro raccomanda di non citare tutto il passo di Euripide in quanto esso è ben noto al pubblico). Anche in questo caso è ragionevole supporre la dipendenza da un repertorio consolatorio. Socrate commette una deroga alla regola che si è dato, cioè quella di ricordare solo citazioni omeriche (su questo problema cf. il commento al lemma successivo). 368a6–7 ἀλλὰ παύομαι μή ποτε … ἑτέρων μιμνησκόμενος: introducendo la citazione euripidea (senza nominare apertamente Euripide) dopo le tre citazioni omeriche, Socrate smentisce se stesso, avendo in precedenza dichiarato che avrebbe citato il solo Omero. È possibile che la citazione di Euripide e la frase che la introduce (notissima nell’antichità: cf. il commento al lemma precedente) siano state interpolate; oppure che anche questa incoerenza risulti dal carattere incompiuto dell’opera (cf. supra pp. 46-48). Tuttavia, è forse meglio pensare che lo pseudo-Platone abbia tracciato, con una certa raffinatezza, un quadretto realistico: a Socrate “scappa” un verso di Euripide; a questo punto Socrate si ferma per non infrangere la

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promessa e continuare all’infinito citando tutta la “letteratura greca”. Come la frase di apertura di questa sezione, questo espediente aiuta a Socrate impressionare Assioco, facendogli intendere, senza scadere nella monotonia dell’accumulo di citazioni, l’enorme mole di auctoritates che gli potrebbe citare (cf. anche [Plut.] Cons. Apoll. 115e, μυρία δ’ ἐπὶ μυρίοις ἄν τις ἔχοι τοιαῦτα παρατίθεσθαι πρὸς ταὐτὸ κεφάλαιονˑ ἀλλ’ οὐκ ἀναγκαῖον μακρηγορεῖν). 368a7 καὶ ἑτέρων: per Wilamowitz (1895), 979 il καί è «notwendig zu streichen»; effettivamente καί (“anche”) è ridondante davanti a ἑτέρων. Tuttavia, cf. infra 371a1. Stando alla promessa iniziale fatta da Socrate (ἑνὸς δὲ μόνου μνησθήσομαι τοῦ ἀξιολογωτάτου) si tratta di altri autori rispetto a Omero, come Euripide, di cui a Socrate è appena “scappato” un verso (cf. il lemma precedente).

Le attività umane e la politica (368a7–369b5) 368a7-b1 ποίαν δέ τις ἑλόμενος … τοῖς παροῦσι χαλεπανεῖ: la tradizione medievale ha i due verbi al futuro (μέμψεται … χαλεπανεῖ), lo Stobeo al presente (μέμφεται ... χαλεπαίνει). Un passaggio dal futuro al presente sembra più verosimile del suo contrario (sul futuro «bei Anführung eines allgemeinen Gedankens, einer Sentenz» cf. KG II.1, 171–172). L’elenco di mali connessi alle diverse attività umane contenuto in questa nuova sezione di testo ricorda elenchi simili utilizzati per trattare il tema della μεμψιμοιρία, diffuso nella cosiddetta “diatriba cinico-stoica” (cf. e.g. Hor. Sat. I 1, 1–14; Max. Tyr. Diss. XV 1; cf. inoltre Orelli (1892), 1–2; Kiessling, Heinze (19215), 6; Fedeli (1994), 296 e Gowers (2012), 58; in generale sulla μεμψιμοιρία cf. Thphr. Ch. 17, con Diggle (2004), 376). Tuttavia, la μεμψιμοιρία comporta che alla critica ad una certa attività si accompagni la lode di un’altra attività. Nel nostro caso, invece, l’obiettivo è quello di mostrare che ogni attività umana non è un vero bene per l’uomo. Nell’ottica della μεμψιμοιρία, i mali riscontrabili in ogni attività umana possono essere superati nella misura in cui si fa dipendere la felicità o l’infelicità esclusivamente da una condizione interiore e non da beni esteriori. Nella prospettiva dell’Assioco, invece, l’idea di fondo è che non c’è possibilità di superare il male, a meno di non astrarsi completamente da ogni attività umana (cf. anche Grilli (1953), 175). 368b1 τὰς χειρωνακτικὰς ἐπέλθωμεν καὶ βαναύσους: lo Stobeo aggiunge τέχνας dopo βαναύσους (facilmente ricavabile dal precedente ποίαν δέ τις ἑλόμενος ἐπιτήδευσιν ἢ τέχνην).

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Il verbo ἐπέλθωμεν (così come il successivo καταλεξώμεθα) è da considerarsi un congiuntivo deliberativus (su cui cf. in generale KG II.1, 221–222; è da escludere che si tratti di congiuntivi esortativi, come invece suggeriva Fischer (1786), 141). Per ἐπέρχομαι nel senso di “esaminare”, “passare in rassegna” cf. e.g. Aristot. EN. IV 1127a15; Pol. III 1276b36–37; VI 1317a15-16 (cf. inoltre Neils (1901), 93 (ad Aristoph. Eq. 618): «ἐπεξέρχομαι and διεξέρχομαι imply more thorough discussion [scil. rispetto a ἐπέρχομαι]»). Per il nesso χειρωνακτικὰς καὶ βαναύσους (scil. τέχνας) cf. Gal. Protr. 14 (38, 4 Barigazzi), ἔνιαι (scil. τέχναι) μὲν γὰρ αὐτῶν λογικαί τ’ εἰσὶ καὶ σεμναί, τινὲς δ’ εὐκαταφρόνητοι καὶ διὰ τῶν τοῦ σώματος πόνων, ἃς δὴ βαναύσους τε καὶ χειρωνακτικὰς ὀνομάζουσιν. In generale sulle attività banausiche in età ellenistica cf. Christes (1975), 107–117. 368b1–4 πονουμένων … ἀναπιμπλάντων: A presenta πονουμένους … ποριζομένων … κατοδυρομένων τε αὐτῶν … ἀναπιμπλάντων, A2 ha corretto ποριζομένων in ποριζομένους. Vv hanno πονουμένους … ποριζομένους … κατοδυρομένους τε αὑτοὺς … ἀναπιμπλάντας. Lo Stobeo ha πονουμένων … ποριζομένων … κατοδυρομένων δὲ ἑαυτοὺς … πιμπλάντων (ἀνα- sarà caduto a causa di ἀγρυπνίαν). È ragionevole stampare tutti participi al genitivo con Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). Il passaggio all’accusativo (limitato su A, più esteso su Vv) sarà avvenuto per influenza di βαναύσους, preso per sostantivo anziché come aggettivo (cioè, non “le professioni artigianali”, ma “gli artigiani”). Secondo Hershbell (1981), 62 n. 43 si hanno dei «dependent (“subjective”) genetives … which modify τέχνας understood. Thus, χειρωνακτικὰς ... καὶ βαναύσους (sc. τέχνας) of those laboring etc.». Più verosimilmente si tratta di genitivi assoluti con soggetto sottinteso (cf. anche Matthiae (1835), 155–156; cf. inoltre il commento a 366e2). Il pronome αὐτῶν di A è sorto verosimilmente per dare un soggetto ai participi al genitivo. Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno stampato αὑτῶν, dipendente da κατοδυρομένων (“piangono sé stessi”). Tuttavia, in genere κατοδύρομαι non si costruisce con il genitivo (come invece e.g. κατηγορέω o καταφρονέω), ma con l’accusativo della persona o della cosa che viene commiserata (cf. e.g. Aeschn. Or. 2 (De falsa legatione), 156; D.H. AR. IV 40, 5; IV 58, 2; cf. anche supra 367d2–3; cf. inoltre già Wilamowitz (1895), 987). Il τε della tradizione medievale è da preferire al δέ dello Stobeo (cf. il commento a 365a4). 368b2 ἐκ νυκτὸς εἰς νύκτα: espressione curiosa. Ci si sarebbe aspettati piuttosto qualcosa come “giorno e notte” (e.g. Xen. Mem. II 2, 5, καὶ τρέφει πολὺν χρόνον καὶ ἡμέρας καὶ νυκτὸς ὑπομένουσα πονεῖν, Sen. Tranqu. an. 17, 6, nam et somnus refectioni necessarius est, hunc tamen semper si diem noctemque continues, mors erit), oppure “dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina” (e.g. Hedyl. 6 Gow-Page (= Ath. XI 473a-b), 1–2, ἐξ ἠοῦς εἰς νύκτα καὶ

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ἐκ νυκτὸς … / εἰς ἠοῦν). È possibile che il testo presenti un guasto (e.g. ἐκ νυκτὸς εἰς νύκτα, con salto da un εἰς all’altro). Ma non si può escludere che lo pseudo-Platone abbia deliberatamente utilizzato questa espressione abbastanza anomala pensando di enfatizzare la continuità della fatica (“da una notte all’altra”, cioè “da quando inizia la notte, all’inizio della notte successiva”). Sulla ricerca da parte dell’autore di espressioni ardite e concettose (non necessariamente ben riuscite) cf. anche il commento a 365d5–6. 368b4 ὀλοφυρμοῦ καὶ δακρύων: la tradizione medievale ha ὀλοφυρμοῦ καὶ δακρύων, lo Stobeo ὀλοφυρμῶν τε καὶ φροντίδων. Secondo Hermann (1853), xiii la lezione δακρύων è deteriore essendosi prodotta per influenza del precedente ὀλοφυρμοῦ. In effetti la coppia ὀλοφυρμός/δάκρυα è ben attestata (cf. e.g. Aristoph. Ve. 390; Ios. AI. XIX, 199; BI. I 636). Al contrario, non si hanno attestazioni della coppia ὀλοφυρμός/φροντίδες. Tuttavia, lo scarto tra ὀλοφυρμοῦ e φροντίδων è troppo forte: i due termini, infatti, stanno su due piani diversi, essendo le φροντίδες la causa e l’ὀλοφυρμός l’effetto del malessere qui descritto. Ciò che ci si aspetta, dunque, è un termine che stia sullo stesso piano di ὀλοφυρμοῦ, come appunto δακρύων (per un caso simile cf. il commento a 371b5). Verosimilmente φροντίδων si è prodotto per un’interferenza concettuale per cui all’effetto si è sovrapposta la causa. Il plurale ὀλοφυρμῶν si sarà prodotto per influenza del contesto denso di genitivi plurali. Più difficile è scegliere tra καί e τε καί. 368b4–5 ἀλλὰ τὸν πλωτικὸν καταλεξώμεθα: scil. βίον (cf. anche LSJ s.v. καταλέγω (B) I.4), o ἄνθρωπον. Il verbo καταλέγω è utilizzato al medio pro activo già in età classica con il significato di “arruolare” (cf. e.g. Thuc. VII 31, 5; Xen. Hell. I 4, 21). Qui significa “considerare” (cf. anche Chevalier (1915), 54). Sul congiuntivo deliberativo cf. il commento a 368b1. 368b5 περαιούμενον διὰ τοσῶνδε κινδύνων: espressione analoga infra (369c6, διὰ πόσων ἐλαύνεται δεινῶν). La svalutazione della vita dell’uomo di mare a causa dei pericoli che corre è topica: cf. e.g. Alexis PCG II fr. 214, ὅστις διαπλεῖ θάλατταν ἢ μελαγχολᾷ / ἢ πτωχός ἐστιν ἢ θανατᾷ. τούτων †τῶν τριῶν / ἑνὸς τ’ ἀποτυχεῖν τοὐλάχιστον οὐκ ἔνι†, Antiph. PCG II fr. 100, 1, δύστηνος ὅστις ζῇ θαλάττιον βίον, Columella Rust. I praef. 8 (ed. Rodgers), An †bellum per obsessa maris† et negotiationis alea sit optabilior, ut rupto naturae foedere terrestre animal homo ventorum et maris obiectus irae fluctibus pendeat, semperque ritu volucrum longinqui litoris peregrinus ignotum pererret orbem? (quest’ultimo passo era ricordato già da Fischer (1786), 142). In generale cf. Stob. IV 17 (περὶ ναυτιλίας καὶ ναυαγίου) e Kroll (1921), 412–413. 368b6–7 μήτε, ὡς ἀπεφήνατο Βίας … μήτ’ ἐν τοῖς βιοῦσιν: nell’antichità Biante di Priene era considerato uno dei Sette Sapienti (cf. Diog. Laert. I 82–88; cf. inoltre Crusius (1897), 383–389; von der Muehll (1965), 178–180

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e Pòrtulas (1993), 141–156). Molto presto si costituirono delle raccolte di Detti attribuite a questi personaggi. Plat. Prot. 343a attribuisce ai Sette Sapienti una raccolta di massime incise su pietra a Delfi (il passo è con ogni probabilità corrotto, ma il senso generale è chiaro). Di queste raccolte si conservano tre epigrafi e un gruppo di papiri e ostraca compresi tra il III a.C. e il III d.C. La tradizione medievale ha trasmesso diverse redazioni dei Detti raggruppabili sostanzialmente in due tipologie, quella “sosiadea” (o “delfica”) e quella “demetriaca” (lo Stobeo attribuisce rispettivamente ad un certo Sosiade e a Demetrio del Falero un esempio di ciascuna delle due tipologie di redazione: su tutti questi problemi cf. Maltomini (2015), 325– 326). Non risultano altre attestazioni antiche di questo motto. Il passo più vicino per senso è una massima attribuita ad Anacarsi (Diog. Laert. I 104 = A33A-D Kindstrand), ἐρωτηθεὶς πότεροι πλείους εἰσίν, οἱ ζῶντες ἢ οἱ νεκροί, ἔφη· “τοὺς οὖν πλέοντας ποῦ τίθης;” (cf. anche Gnom. Vat. 130 Sternbach, con i paralleli citati da Sternbach (1963), 57 e il commento di Kindstrand (1981), 145). L’uomo di mare non è tra i morti, perché è vivo, ma non è neppure tra i vivi perché si immagina che più degli altri uomini egli sia vicino alla morte (cf. Diog. Laert. I 103 = A34A-B Kindstrand, μαθὼν τέτταρας δακτύλους εἶναι τὸ πάχος τῆς νεώς, τοσοῦτον ἔφη τοῦ θανάτου τοὺς πλέοντας ἀπέχειν, con Kindstrand (1981), 146). È verosimile che l’Assioco (o una sua fonte) abbiano ripreso questo bon mot di Biante da una raccolta di Detti. Considerata l’elaborazione della sentenza, poteva trattarsi di una raccolta di tipo “demetriaco” più che di una raccolta di tipo “sosiadeo”. Alla luce delle massime attribuite ad Anacarsi si può pensare che la struttura originaria dell’aneddotto fosse del tipo “domanda di un anonimo + risposta di Biante”: e.g. “Qualcuno chiese a Biante se secondo lui gli uomini di mare fanno parte dei vivi o dei morti. Egli rispose: ‘non sono né tra i morti né tra i vivi’” (per un aneddoto con questa struttura riferito a Biante cf. e.g. Stob. IV 5, 67, Βίας θανάτῳ μέλλων καταδικάζειν ἐδάκρυσεν. εἰπόντος δέ τινος “τί παθὼν αὑτὸς καταδικάζεις καὶ κλαίεις;” εἶπεν “ὅτι ἀναγκαῖόν ἐστι τῇ μὲν φύσει τὸ συμπαθὲς ἀποδοῦναι, τῷ δὲ νόμῳ τὴν ψῆφον”). Mullach (1860–1881), I 230 erroneamente indica come testimone di questo detto Basilio di Cesarea, verosimilmente in quanto Basilio è ricordato da Mullach come fonte subito prima. Talvolta il nome di Biante è confuso con quello di Bione di Boristene, forse perché in raccolte ordinate alfabeticamente i due nomi erano contigui (cf. Crusius (1897), 389). Secondo Diels (ap. Diels-Kranz (1951–19526), II 318) tutta questa sezione sulle attività umane è tratta da una fonte ispirata a Bione di Boristene. In questa fonte il bon mot sulla vita di mare sarebbe stato attribuito a Bione: la sua attribuzione a Biante si dovrebbe allo pseu-

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do-Platone. Un’ispirazione bionea del passo non si può escludere (cf. supra p. 41 n. 105, e il commento a 367b2-6 e a 368a7-b1), ma ciò non significa che il bon mot fosse originariamente di Bione (anche una fonte “bionea” poteva utilizzare un bon mot di Biante). Gilbert Cousin (per un certo tempo segretario di Erasmo: cf. Febvre (1907), 97–148) estrasse questo motto dal testo dell’Assioco e lo inserì in una silloge di proverbi più volte stampata insieme agli Adagia erasmiani. Così il motto di Biante ha avuto modo di diffondersi nonostante la scarsità di attestazioni antiche. Ad esempio, esso fu inserito da Kaspar Klock in una digressione interamente dedicata alla durezza della vita di mare del suo eruditissimo Tractatus juridico-politico-polemico-historicus de aerario sive censu (seconda edizione postuma del 1671 (prima edizione 1655), II 940–941, Ad summam; quocunque te vertas, miserabilem navigantium conditionem deprehenderis … Et notum est memorabile Biantis dictum, quod nautae neque inter vivos, neque inter mortuos referendi sint). Nel 1659 fu pubblicato a Londra da un certo Daniel Pell uno scritto su alcuni versi del salmo CVII dedicati alla vita di mare. Il titolo dell’opera era: Pelagos: nec inter vivos, nec inter mortuos. 368b7-c1 ὁ γὰρ ἐπίγειος ἄνθρωπος … αὑτὸν εἰς τὸ πέλαγος ἔρριψεν: l’idea che la navigazione rappresenti un sovvertimento dell’ordine naturale delle cose in quanto l’uomo è animale terrestre è espressa in termini molto simili a questi da Columella nel passo citato nel commento a 368b5 (in particolare cf. ὁ γὰρ ἐπίγειος ἄνθρωπος vs. terrestre animal homo). 368b7 ὡς ἀμφίβιος: la letteratura scientifica di età ellenistica considerava la possibilità che l’uomo potesse essere classificato come essere ἀμφίβιος (cf. Aristoph. Byz. HA. II 37, Ἔστι δὲ ὁ ἄνθρωπος καὶ μονήρης καὶ συναγελαστικός· ἐπαμφοτερίζειν γὰρ δύναται. λέγοι δ’ ἄν τις καὶ αὐτὸν ἀμφίβιον εἶναι. καὶ γὰρ ἐν τῷ ξηρῷ καὶ ὑγρῷ παρὰ μέρος εἰσὶν οἳ διαιτῶνται καθάπερ ἐν Αἰγύπτῳ καὶ ἐν πολλοῖς τόποις· ἡμέρας μὲν γὰρ ἐν τῷ ὑγρῷ, νυκτὸς δὲ ἐπὶ τῆς χέρσου, su questa compilazione di Aristofane di Bisanzio cf. Lambros (1885), xiv). 368c1 ἐπὶ τῇ τύχῃ γενόμενος πᾶς: allontanarsi dalla norma naturale comporta la conseguenza di essere totalmente in balia del caso (cf. il passo di Columella citato nel commento a 368b5: negotiationis alea sit optabilior). Non sembra che il passo presupponga il celebre detto attribuito da Erodoto a Solone (I 32, 4, πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή; è per lo meno discutibile la recente scelta di Nigel Wilson di seguire Blaydes nel correggere πᾶν in πᾶσα: cf. anche il commento a 368c2). 368c1–2 ‘ἀλλ’ ἡ γεωργία γλυκύ, δῆλον’: cf. Men. PCG VI.2 fr. 781, ἔχει τι τὸ πικρὸν τῆς γεωργίας γλυκύ. Secondo Hershbell (1981), 62 n. 45, δῆλον è un “remark” di Assioco. In effetti, δῆλον isolato è spesso utilizzato per indicare o una risposta affermativa o una conferma ad una precedente afferma-

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zione dell’interlocutore (cf. e.g. Plat. Theaet. 200a; Pol. 259c; 264e; Phaedr. 259e). Tuttavia, pare strano questo intervento di Assioco. Infatti: 1) Assioco non interviene in altri punti della lunga ἐπίδειξις; 2) ci si sarebbe aspettati un vocativo rivolto all’interlocutore che segnalasse il cambio di battuta; 3) in generale il dialogo non è costruito per domande e risposte brevi. È più ragionevole escludere che si abbia qui un intervento di Assioco. Secondo Wilamowitz (1895), 988 n. 1, δῆλον deve essere espunto in quanto ἀλλ’ ἡ γεωργία γλυκύ sarebbe una domanda di un interlocutore fittizio secondo l’uso dello “Diatribenstil”: all’obiezione dell’interlocutore fittizio sotto forma di domanda, Socrate risponderebbe a sua volta con un’interrogativa retorica (ἀλλ’ οὐχ ὅλον … νυνὶ δὲ θάλπος ἄκαιρον ἢ κρυμόν;). Secondo Wilamowitz δῆλον sarebbe stato aggiunto perché non è stato compreso l’uso dello stile diatribico. Più verosimilmente si ha qui un “parenthetic” δῆλον (“ma è chiaro che la vita dei campi è piacevole”, cf. e.g. Soph. Ai. 906; TrGF IV F 585, 1; Theocr. Id. 10, 13; cf. inoltre Finglass (2011), 403, ad Soph. Ai. 906). Di conseguenza, un interlocutore fittizio formula sì un’obiezione secondo lo stile diatribico, come pensava Wilamowitz, ma non sotto forma di domanda, bensì di affermazione: cf. e.g. Teles fr. III Hense, pp. 26–27 (= fr. III Fuentes González, p. 278), – Ἀλλ’ ὅμως μέγα μοι δοκεῖ τὸ ἐν ᾗ ἐγενετό τις καὶ ἐτράφη, ἐν ταύτῃ καταγενέσθαι. – Πότερον καὶ ἐν οἰκίᾳ ἐν ᾗ ἐτράφης καὶ ἐγένου {ἐν ταύτῃ καταγενέσθαι}, κἂν ᾖ σαπρὰ καὶ ῥέουσα καὶ καταπίπτουσα; (l’espunzione di ἐν ταύτῃ καταγενέσθαι, accolta da Hense, si deve a Wilamowitz; è respinta da Fuentes González (1998), 333–334). Occorre, dunque, interpungere con una virgola dopo γλυκύ e con un punto in alto dopo δῆλον. Non convince la soluzione di Immisch (1896) di considerare l’intera frase come interrogativa (ἀλλ’ ἡ γεωργία γλυκὺ, δῆλον;), né convince quella di Burnet (19132) e Souilhé (1930) di considerare ἀλλ’ ἡ γεωργία γλυκύ come interrogativa e δῆλον come breve risposta che Socrate si dà da solo). Implausibile anche l’idea di Stephanus (1578), III 72 di scrivere δηλονότι («Sed agricultura nimirum res est suavis (subaudiendo, Inquies, vel Dixerit quispiam»). 368c2 ἀλλ’ οὐχ ὅλον, ὥς φασιν, ἕλκος: non risultano altre attestazioni di questo modo di dire. Stephanus 1578, III 72 suggeriva di mutare ὅλον in ὅλη (scil. ἡ γεωργία). Ma il mutamento suggerito dallo Stephanus si trova già in un adagio di Erasmo (presente negli Adagia a partire dall’edizione frobeniana del 1533 al n. 3975: cf. Wesseling (1997), 258; inoltre, già Rodolfo Agricola traduceva con tota; tuttavia, in questo caso Erasmo non sembra seguire la traduzione dell’Agricola). In ogni caso, qui ὅλον è utilizzato in senso avverbiale (cf. LSJ s.v. ὅλος I.4), non molto diversamente da πᾶν

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nella celebre massima attribuita a Solone da Erodoto (I 32, 4; cf. il commento a 368c1). 368c3 αἰεὶ λύπης πρόφασιν εὑρισκόμενον: cf. Philem. PCG VII fr. 92, 8– 11, πάνυ μόλις / ὥσπερ τὸ κατὰ χρέος κεφάλαιον [scil. ἡ γῆ] ἐκτίνει / τὸ σπέρμα, τοὺς τόκους δ’ ἀνευρίσκουσ’ ἀεὶ / πρόφασίν τιν’ αὐχμὸν ἢ πάχνην ἀποστερεῖ. È possibile che l’Assioco riprenda il passo di Filemone (cf. già Clericus (1711), 101; Fischer (1786), 143 e Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), vii-viii). Per simili elenchi dei disagi della vita dei campi cf. Xen. Oec. 5, 18, ὅτι δὲ τῆς γεωργικῆς τὰ πλεῖστά ἐστιν ἀνθρώπῳ ἀδύνατα προνοῆσαι, καὶ γὰρ χάλαζαι καὶ πάχναι ἐνίοτε καὶ αὐχμοὶ καὶ ὄμβροι ἐξαίσιοι καὶ ἐρυσίβαι καὶ ἄλλα πολλάκις τὰ καλῶς ἐγνωσμένα καὶ πεποιημένα ἀφαιροῦνται, e Lucr. V 213–217, et tamen interdum magno quaesita labore / cum iam per terras frondent atque omnia florent, / aut nimiis torret fervoribus aetherius sol / aut subiti peremunt imbres gelidaeque pruinae, / flabraque ventorum violento turbine vexant. 368c4 ἐπίκλυσιν: la tradizione medievale ha ἐπίκαυσιν, “bruciatura” (scil. causata dal sole: cf. Strab. XV 1, 24). Lo Stobeo ha ἐπίκλυσιν (“inondazione”), accolto da Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930). La lezione dello Stobeo potrebbe essersi prodotta per influenza concettuale del precedente ἐπομβρίας (cf. e.g. Hom. Il. XI 492–495, ὡς δ’ ὁπότε πλήθων ποταμὸς πεδιόνδε κάτεισιν / χειμάρρους κατ’ ὄρεσφιν, ὀπαζόμενος Διὸς ὄμβρῳ, / πολλὰς δὲ δρῦς ἀζαλέας, πολλὰς δέ τε πεύκας / ἐσφέρεται, πολλὸν δέ τ’ ἀφυσγετὸν εἰς ἅλα βάλλει). Tuttavia, ἐπίκαυσιν sembra ridondante tra αὐχμόν e θάλπος, i quali possono aver favorito l’errore (complice una tipica mélecture di maiuscola). Un riferimento alle inondazioni, invece, pare particolarmente opportuno in questo contesto (cf. anche Hermann (1853), xiii, secondo il quale, inoltre, «ad faciei potius oculorumque quam ad frugum adustiones refertur [scil. ἐπίκαυσις]»). 368c4 ἐρυσίβην: “ruggine del grano”, fungo che infesta le piante ricoprendole di macchie rossastre: cf. schol. [Plat.] Ax. ad loc., θηρίδιόν τι ἐν τῷ σίτῳ γιγνόμεν, ὃ λυμαίνεται τὸν καρπόν· τινὲς δὲ νόσον ἐπιγιγνομένην τοῖς σπέρμασιν (cf. inoltre il passo di Senofonte citato nel commento a 368c3 e Plat. Rp. X 608e-609a, τί δέ; κακὸν ἑκάστῳ τι καὶ ἀγαθὸν λέγεις; οἷον ὀφθαλμοῖς ὀφθαλμίαν καὶ σύμπαντι τῷ σώματι νόσον, σίτῳ τε ἐρυσίβην, σηπεδόνα τε ξύλοις). 368c5 θάλπος ἄκαιρον ἢ κρυμόν: “caldo o gelo fuori stagione” (cf. anche i passi di Senofonte e Filemone citati nel commento a 368c3). Lo Stobeo ha κρυμόν pro κρύος: le due lezioni sono equivalenti per senso. Tuttavia, come ha notato Hermann (1853), xiii-xiv, κρύος può essersi prodotto per analogia “grammaticale” con θάλπος («κρυμὸν autem rectius quam κρύος legi

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ipsa θάλπους vicinia docet, quae librarios ad similem terminationem subjungendam induxisse videtur»). 368c6 πολλὰ γὰρ ὑπερβαίνω: per la funzione retorica di queste affermazioni cf. 367d1-4 e a 368a6-7 (cf. e.g. Hor. Sat. I 1, 13–14, Cetera de genere hoc -adeo sunt multa- loquacem / delassare valent Fabium). 368c7 φλεγμονῆς δίκην: Il termine φλεγμονή indica un’infiammazione (cf. LSJ s.v. II). L’attività politica è accostata ad una condizione patologica di irrequietezza, probabilmente dovuta ad un misto di esaltazione per il successo e di timore per la perdita del consenso (cf. Tac. Dial. 13, 1, Ac ne fortunam quidem vatum et illud felix contubernium comparare timuerim cum inquieta et anxia oratorum vita, Diog. Oen. fr. 112, col. I, τὸ ῥητορεύειν σφυγμοῦ καὶ ταραχῆς γέμον, εἰ πεῖσαι δύνατον, cf. anche Meister (1915), 116). Per quest’uso di δίκην cf. il commento a 365b7. 368c7 παλλομένην: già in Omero il verbo πάλλω è utilizzato metaforicamente per descrivere uno stato psicologico, una forma di agitazione connessa all’accelerazione del battito cardiaco (cf. e.g. Hom. Il. XXII 452, 461; Aeschl. Ch. 410; cf. Blass (1906), 124 (ad Aeschl. Ch. 410): «πέπαλται … eigentlich vom Herzklopfen»; in generale cf. Segal (1971), 44). 368c7-d1 σφυγματώδη: il termine è attestato due volte nel corpus Hippocraticum (Hp. Art. 40; Coac. 125), una volta in Plutarco (Suav. 1088d) e più volte nella letteratura medica a partire dall’età imperiale. Esso indica la condizione di un corpo pulsante, anche a causa di un’infiammazione (cf. LSJ s.v. σφυγμός). Dunque, metaforicamente, una condizione di agitazione (cf. il passo di Diogene di Enoanda citato nel commento a 368c7). 368d1 ἀπότευξιν: il termine ἀπότευξις non è attestato in età classica. In Plut. Mar. 5, 3 è impiegato per indicare una disfatta elettorale (καὶ δυσὶν ἐν ἡμέρᾳ μιᾷ περιπεσὼν ἀποτεύξεσιν, ὃ μηδεὶς ἔπαθεν ἄλλος, οὐδὲ μικρὸν ὑφήκατο τοῦ φρονήματος). 368d1–2 ἀλγεινὴν καὶ θανάτων μυρίων χείρω: la tradizione medievale ha ἀλγεινήν, lo Stobeo ἀλγίστην (con la variante deteriore ἀλογίστην in parte della tradizione). Il superlativo sarà stato introdotto per analogia con il patetismo della successiva iperbole θανάτων μυρίων χείρω. Analoghe iperboli sono sovente utilizzate in contesti giudiziari o che alludono a contesti giudiziari (cf. e.g. Aristoph. Pl. 483; Lys. Or. 28 (In Ergoclem), 1; Plat. Leg. X 908e). Da un lato l’espressione pare ben scelta rispetto al tema del dialogo in quanto sottolinea che in vita ci sono cose ben peggiori della morte. Dall’altro, però, essa implica comunque l’idea che la morte sia un male, un pensiero non proprio costruttivo rispetto all’obiettivo consolatorio di Socrate. 368d2–4 τίς γὰρ ἂν εὐδαιμονήσειε ... ζημιούμενον, θνῇσκον, †ἐλεούμενον†: è sospetto il contrasto tra il successo ottenuto dal politico,

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espresso da ποππυσθείη καὶ κροτηθείη (che riprende il precedente τὴν μὲν χαρὰν ἔχουσα φλεγμονῆς δίκην παλλομένην καὶ σφυγματώδη), e l’insuccesso espresso dai successivi participi (che riprendono il precedente τὴν δὲ ἀπότευξιν ἀλγεινὴν καὶ θανάτων μυρίων χείρω). Per superare questo problema Ast (1827) proponeva di scrivere εἰ καὶ ποππυσθείη καὶ κροτηθείη, Matthiae (1835), 303 κεἰ ποππυσθείη καὶ κροτηθείη. In questo modo, la frase condizionale risulterebbe una sorta di inciso: “Chi, infatti, potrebbe essere felice a vivere al servizio della massa – anche se è lusingato e applauditocome un giocattolino del popolo, rimosso, schernito etc.”. Tuttavia, forse tramite l’accumulo un po’ indiscriminato di situazioni tra loro contrastanti si cerca di dare un’idea dell’estrema instabilità e dei paradossi radicali della vita politica. 368d2 πρὸς ὄχλον ζῶν: per analoghe espressioni (“vivere per qualcosa”) cf. e.g. Plat. Rp. II 362a; Aristot. EE. III 1233b35. Il termine ὄχλος indica qui il “popolino”, la “canaglia” (cf. e.g. Thuc. VII 8, 2; Xen. Hell. I 7, 13; [Xen.] Ath. 2, 10; in generale sugli usi del termine ὄχλος nella letteratura arcaica e classica cf. Karpyuk (2000), 79–102). In questo caso ὄχλος non si oppone a δῆμος (come suggerisce LSJ s.v. ὄχλος I.2), ma coincide con esso, prendendo δῆμος nell’accezione negativa con cui quest’ultimo termine è utilizzato nella lotta politica dai fautori dell’oligarchia, ovvero per designare il popolo cittadino, per lo più composto da nullatenenti che compongono l’assemblea e costituiscono il nerbo del regime democratico (cf. Canfora (2017), 7–26). 368d2–3 ποππυσθείη καὶ κροτηθείη: il verbo ποππύζω (onomatopeico) indica lo schioccare delle labbra per blandire o incitare un animale, di solito un cavallo (cf. e.g. Xen. Hipp. 9, 10; in generale cf. Tichy (1983), 261– 262; Diggle (2004), 396 e Männlein-Robert (2012), 77 n. 74). Qui è impiegato metaforicamente per indicare i gesti lusinghieri con cui il popolo approva il politico (cf. anche schol. [Plat.] Ax. ad loc.). Per l’endiadi con κροτηθείη (“essere applaudito”) cf. Plut. Laud. 545c, οὐ γάρ ἐστι δημαγωγοῦντος οὐδὲ σοφιστιῶντος ὁ τοιοῦτος ἔπαινος οὐδὲ κρότον οὐδὲ ποππυσμὸν αἰτοῦντος (su cui cf. Pettine (1983), 68 n. 72). Qui è il verbo ποππύζω ad essere attratto nel campo semantico di κροτέω (“applaudire”), e non viceversa (come invece suggerisce Hershbell (1981), 62: «κροτέω in the passive “to be beaten” or “struck” seems to mean here “slapped” as one slaps a horse»). 368d3 δήμου παίγνιον: il politico è paragonato ad un giocattolo nelle mani del popolo (per l’immagine del παίγνιον cf. Plat. Leg. I 644d-e, VII 803c; cf. inoltre Männlein-Robert (2012), 77 n. 73). Il politico che cerca di agire secondo le regole democratiche non riesce ad imporre la propria volontà e a guidare il δῆμος. Al contrario, ne è succube. Il politico crede di

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agire autonomamente. In verità, è il popolo, ignorante e volgare, che lo manovra a suo piacimento. Questa concezione del δῆμος è per certi aspetti accostabile a quella che emerge dalla Costituzione degli Ateniesi dello pseudo-Senofonte per la quale si è parlato del δῆμος come del «motore immobile dell’impero» (Serra (1979), 27) e di «demos-Leviatano» (Lapini (1990), 91). Cf. anche Aristoph. Eq. 1111–1114. Per il motivo dell’elenco dei crimini commessi dal popolino ai danni degli “ottimati” cf. e.g. Plut. Nic. 6, 1, ὁρῶν [scil. Nicia] δὲ τῶν ἐν λόγῳ δυνατῶν ἢ τῷ φρονεῖν διαφερόντων ἀποχρώμενον εἰς ἔνια ταῖς ἐμπειρίαις τὸν δῆμον, ὑφορώμενον δ’ ἀεὶ καὶ φυλαττόμενον τὴν δεινότητα καὶ κολούοντα τὸ φρόνημα καὶ τὴν δόξαν—ὡς δῆλον ἦν τῇ Περικλέους καταδίκῃ καὶ τῷ Δάμωνος ἐξοστρακισμῷ καὶ τῇ πρὸς Ἀντιφῶντα τὸν Ῥαμνούσιον ἀπιστίᾳ τῶν πολλῶν, καὶ μάλιστα δὴ τοῖς περὶ Πάχητα τὸν ἑλόντα Λέσβον, ὃς εὐθύνας διδοὺς τῆς στρατηγίας ἐν αὐτῷ τῷ δικαστηρίῳ σπασάμενος ξίφος ἀνεῖλεν ἑαυτόν. 368d3–4 ἐκβαλλόμενον, συριττόμενον: qui ἐκβαλλόμενον non va inteso nel senso di “cacciato dalla città”, “esiliato” (cf. anche il commento a 368d4). Esso è strettamente connesso a συριττόμενον: l’immagine è quella del politico che viene tirato a forza giù dal βῆμα dove è salito per parlare all’assemblea e viene fischiato (cf. Demosth. Or. 19 (De falsa legatione), 337, εἰ, ὅτε μὲν τὰ Θυέστου καὶ τῶν ἐπὶ Τροίᾳ κάκ’ ἠγωνίζετο [scil. Eschine], ἐξεβάλλετ’ αὐτὸν καὶ ἐξεσυρίττετ’ ἐκ τῶν θεάτρων καὶ μόνον οὐ κατελεύετε οὕτως ὥστε τελευτῶντα τοῦ τριταγωνιστεῖν ἀποστῆναι). Tuttavia, non si può escludere che ἐκβαλλόμενον abbia un senso meno concreto e rimandi alla revoca di una carica pubblica (la procedura cui ricorreva l’assemblea in questo caso era l’ἀποχειροτονία: cf. Thuc. II 65, 3-4 e Plut. Per. 35, 4–5; in generale cf. MacDowell (1978), 169), o ancora più in generale all’esclusione dalla vita politica (cf. Grilli (1953), 192: «buttato fuori dalla scena politica»). In tal caso συριττόμενον indicherà in senso lato la pubblica gogna a cui il politico è sottoposto (ad esempio dalla commedia). 368d4 ζημιούμενον: può alludere a sanzioni pecuniarie (e.g. la sanzione pecuniaria imposta a Pericle quando gli fu revocata la strategia: cf. Thuc. II 65, 3-4 e Plut. Per. 35, 4), al sequestro dei beni e all’imprigionamento (in generale sulle pene previste ad Atene cf. Harrison (1968–1971), II 168; per le sanzioni previste dalla legge in caso di esito negativo delle εὔθυναι cui erano sottoposti i magistrati cf. MacDowell (1978), 172). 368d4 †ἐλεούμενον†: la tradizione medievale ha ἐλεούμενον, assente nello Stobeo. Il testo della tradizione medievale non dà senso (cf. anche Wilamowitz (1895), 987 e Hershbell (1981), 62 n. 46). Non convince l’ipotesi di Clericus (1711), 102, secondo cui si alluderebbe al pentimento che assalì gli Ateniesi per la condanna degli strateghi delle Arginuse (cf. Xen. Hell. I 7, 35, con Bearzot (2011), 17–24). Winckelmann ap. Baiter, Orelli,

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Winckelmann (1841), x propose di correggere in ἐξοστρακιζόμενον. Effettivamente ciò che qui manca è proprio un riferimento all’esilio (sul senso di ἐκβαλλόμενον cf. il commento a 368d3-4). Tuttavia, per ragioni di “palaeographical likelihood” sarebbe meglio pensare ad ἐξελαυνόμενον (cf. e.g. [Xen.] Ath. 1, 14, διὰ ταῦτα οὖν τοὺς μὲν χρηστοὺς ἀτιμοῦσι καὶ χρήματα ἀφαιροῦνται καὶ ἐξελαύνονται καὶ ἀποκτείνουσι, τοὺς δὲ πονηροὺς αὔξουσιν, Plat. Ap. 30d, ἀποκτείνειε μεντἂν ἴσως ἢ ἐξελάσειεν ἢ ἀτιμώσειεν, Gorg. 466d, ἦ οὐχὶ ἀποκτεινύασιν οἱ ῥήτορες οὓς ἂν βούλωνται, ὥσπερ οἱ τύραννοι, καὶ χρήματα ἀφαιροῦνται καὶ ἐξελαύνουσιν ἐκ τῶν πόλεων ὃν ἂν δοκῇ αὐτοῖς; altri riferimenti in Lapini (1997), 120). Per la caduta del preverbo ἐκ-/ἐξ- cf. il commento a 365c4 (sarebbe ancora più economico pensare a ἐλαυνόμενον; tuttavia, ἐλαύνομαι nel senso di “essere bandito”, “esiliato”, è estremamente meno diffuso di ἐξελαύνω, per quanto non impossibile: cf. e.g. Demosth. Or. 18 (De corona), 48, ammesso che anche qua non si debba scrivere ελαυνομένων). Per il resto non si può escludere un’interferenza concettuale di matrice cristiana (basta pensare al “Κύριε ἐλέησον”; per possibili casi simili cf. Lapini (2013a), 155–156 n. 77; in generale cf. Hall (1913), 188: «They [scil. Monkish interpolations] do not proceed from malice prepense but are the natural result of minds preoccupied by religion»). In questo caso l’assenza dell’ultimo participio nello Stobeo sarebbe dovuta ad una caduta per omeoteleuto. Tuttavia, non ci sono ancora elementi sufficienti per ritenere che questa sia la soluzione decisiva. Non si possono escludere altre possibilità. Ad esempio, ἐλεούμενον potrebbe essere una corruttela di qualcosa come ἀπολόμενον. In questo caso si potrebbe pensare che θνῇσκον sia una glossa di ἀπολόμενον che si è introdotta nel testo della tradizione medievale (contestualmente alla corruttela in ἐλεούμενον) e che invece si è sostituita ad ἀπολόμενον nello Stobeo. In questo modo si spiegherebbero l’assenza del participio nello Stobeo e il fatto che θνῇσκον interrompa la serie di participi in -μενον. 368d4–5 ἐπεί τοί γε: questo cluster di particelle è maggiormente attestato a partire dalla fine dell’età ellenistica (cf. KG II.2, 153; cf. anche Meister (1915), 31). Sull’uso di ἐπεί per introdurre una proposizione interrogativa cf. e.g. Teles fr. IVb Hense, p. 45 (= fr. IVb Fuentes González, p. 426), ἐπεὶ ποῦ ἂν δείξειας δι’ ἔνδειαν κεκωλυμένους φιλοσοφεῖν, ὥσπερ διὰ πλοῦτον; (in generale cf. KG II.2, 462). Il senso è quello di γάρ. 368d5 Ἀξίοχε πολιτικέ: non risultano altri casi in cui l’aggettivo πολιτικός è associato a un nome proprio di persona. Solo ora è chiaro che Socrate non sta più riferendo le parole di Prodico, ma non si capisce in che punto avvenga la cesura rispetto all’ἐπίδειξις vera e propria (l’uso della prima persona nella sezione dedicata ai poeti potrebbe far già pensare ad un

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intervento diretto di Socrate). Per Wilamowitz (1895), 979 ciò è dovuto all’incompetenza dell’autore. Più verosimilmente il fenomeno è da imputare all’incompiutezza dell’opera (cf. supra p. 46). Non si può escludere che la notizia dell’attività politica di Assioco sia stata ripresa da una fonte perduta (cf. supra pp. 24-25). 368d5 ποῦ: per ποῦ in “indignant questions” cf. LSJ s.v. ποῦ II (non andrà reso con “dove?”, ma con “come?”). Milziade fu condannato dal popolo di Atene al pagamento di 50 talenti e morì prima di poter pagare l’ammenda (cf. Hdt. VI 136, 2-3). Temistocle fu ostracizzato e dopo molte peregrinazioni tra la Grecia e l’Asia Minore si suicidò a Magnesia sul Meandro (cf. Plut. Them. 22–31). Efialte fu assassinato in circostanze poco chiare (cf. Antipho Or. 5 (De caede Herodis), 68; Aristot. Αth. 25, 4; Plut. Per. 10, 7–8; sulla questione cf. Piccirilli (1988), 71–78). Qui la responsabilità della morte di Efialte è messa senza esitazione in conto al δῆμος di Atene. 368d6–7 ποῦ δὲ πρῴην οἱ δέκα στρατηγοί: la tradizione medievale ha ποῦ δ’ οἱ πρῴην στρατηγοί, lo Stobeo ha ποῦ δὲ πρῴην οἱ δέκα στρατηγοί. La successiva proposizione temporale ὅτε ἐγὼ μὲν οὐκ ἐπηρόμην τὴν γνώμην presuppone πρῴην come antecedente (“poco tempo fa …, quando …”; per il senso dell’avverbio πρῴην, “recentemente”, cf. il commento a 366c5), che viene meno se πρῴην è in posizione attributiva rispetto a στρατηγοί (cf. e.g. Demosth. Or. 19 (De falsa legatione), 116 e 209).493 Gli strateghi processati e messi a morte furono soltanto sei (Pericle, Diomedonte, Lisia, Aristocrate, Trasillo ed Erasinide), cifra che si può far salire a otto se si considerano anche i due strateghi che furono destituiti e condannati (Aristogene e Protomaco), ma non giustiziati, in quanto non erano rientrati ad Atene (cf. Xen. Hell. I 7, 1-2 e I 7, 34). Conone non partecipò alla battaglia (cf. Xen. Hell. I 7, 1), mentre Archestrato morì a Mitilene (cf. Lys. Or. 21 (Acceptorum munerum defensio) 8, su cui cf. Kapellos (2014), 84–89; in generale cf. Sordi (1992), 10 e Bearzot (2013), 89; sul problema dello stratego Leonte menzionato da Xen. Hell. I 5, 16 e 6, 16 cf. McCoy (1975), 187–199; Rhodes (1981), 432 e Canfora (1984), 502–504 n. 12). Anche in altre fonti il numero degli strateghi processati è problematico (cf. e.g. Xen. Mem. I 1, 18 e Diod. XIII 97, 6). Tuttavia, verosimilmente qui l’espressione οἱ δέκα στρατηγοί è stata impiegata per indicare il collegio in quanto tale, la magistratura degli strateghi, e non per dire che tutti e dieci gli strateghi furono condannati e giustiziati. Per un caso analogo cf. Plat. Ap. 32b (su cui cf. Wilamowitz (1893), 127–128 e n. 9; Burnet (1924), 132 e

493 Per la stessa ragione non pare convincente il testo proposto da Hemsterhuis (1743), 158: ποῦ δ’ οἱ πρῴην δέκα στρατηγοί; ὅτε ἐγὼ μὲν οὐκ ἐπηρόμην κτλ.

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de Strycker (1950), 209). Più problematico è il caso di Aristot. Ath. 34, 1, dove sembra che si dica che tutti e dieci furono effettivamente condannati (cf. Rhodes (1981), 423). È possibile che l’Assioco dipenda da questo passo dell’Apologia platonica (non convince l’idea di Immisch (1896), 16 di una vicinanza tra Aristotele e l’Assioco). Tuttavia, non si può escludere del tutto la dipendenza da una fonte perduta (secondo Wilamowitz (1893), 128, Aristotele, per ciò che concerne la notizia sugli strateghi, poteva dipendere da una tradizione presente nella letteratura socratica; cf. anche il commento al lemma successivo). 368d7 οὐκ ἐπηρόμην τὴν γνώμην: “chiedere il parere [scil. dell’assemblea]”, ovvero “mettere ai voti” (cf. e.g. Demosth. Or. 22 (Adversus Androtionem), 5; la stessa idea può essere espressa mediante il verbo ἐπιψηφίζω cf. e.g. Antipho Or. 6 (De saltatore), 45; Demosth. Or. 22 (Adversus Androtionem), 9). L’operazione qui descritta è quella di chi ricopre la carica di ἐπιστάτης dell’assemblea (nel V e all’inizio del IV secolo questa figura era sorteggiata quotidianamente tra i pritani e presiedeva la βουλή e l’ἐκκλησία mettendo ai voti dell’assemblea le proposte che venivano avanzate: cf. anche Hatzfeld (1940), 169 n. 5; Dodds (1959), 247 e Rhodes (1981), 531). In Plat. Ap. 32b e in Xen. Hell. I 7, 15 si dice soltanto che il giorno del voto della condanna a morte degli strateghi Socrate era pritano e che fu il solo tra i pritani a rifiutarsi di presentare all’assemblea la proposta di condanna a morte. La tradizione secondo cui Socrate in quell’occasione sarebbe stato ἐπιστάτης trova invece conferma in Xen. Mem. I 1, 18 e IV 4, 2 (sulla scarsa attendibilità di questa testimonianza cf. Burnet (1924), 133; Hatzfeld (1940), 165–171; de Strycker (1950), 207–215 e Dorion (2000), 65–67 n. 50; contra, in modo non molto convincente, Krentz (1989), 164). Da Plat. Gorg. 473e risulta che Socrate avrebbe ricoperto la carica di ἐπιστάτης almeno una volta in vita sua; tuttavia, non è chiaro se questa circostanza debba essere identificata con quella del processo agli strateghi, né fino a che punto la testimonianza sia attendibile (cf. Dodds (1959), 247–248). L’Assioco sembra seguire la stessa tradizione dei Memorabili. Non è chiaro se lo pseudo-Platone abbia tenuto presente proprio il testo senofonteo o qualche fonte perduta. In ogni caso, la narrazione contenuta nell’Assioco non è del tutto implausibile dal punto di vista procedurale: se l’ἐπιστάτης si rifiutava di mettere ai voti la proposta, è verosimile che la votazione dovesse essere rimandata al giorno successivo (con un nuovo ἐπιστάτης), a meno che il precedente ἐπιστάτης non fosse rimosso forzatamente dalla carica (cf. Hatzfeld (1940), 169, de Strycker (1950), 211; e Krentz (1989), 164). 368d8 συνεξαμαρτεῖν: tràdito è συνεξάρχειν, stampato da tutti gli editori. Le poche altre attestazioni di συνεξάρχω non sono anteriori al IV d.C. Nel nostro passo questo verbo è solitamente inteso nel senso di “guidare”,

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“essere alla testa del popolo”: cf. e.g. le traduzioni di Souilhé (1930), Hershbell (1981), Aronadio (2008) e Männlein-Robert (2012). Ma la carica ricoperta da Socrate in occasione del processo è di natura giudiziaria: ad essa non si addice l’idea di “guida del popolo”. Si impone la correzione di Wolf (ap. Fischer (1786), 262) συνεξαμαρτεῖν (cf. e.g. Lys. Or. 3 (Contra Simonem), 12; Isocr. Or. 6 (Archidamus), 19): Socrate non vuole avere parte nel crimine che il popolo nella sua follia sta commettendo. L’errore si sarà generato per saut interno (συνεξαμαρτεῖν > συνεξαρτεῖν: casi analoghi e.g. 370b3, μεγεθουργίας A Vv : μεθουργίας Par, e Thuc. VIII 50, 3 (ed. Alberti), μισθοφορᾶς ACEFM : μισθορᾶς B) e per scambio Τ/Χ (su cui cf. Bast (1811), 738). 368d8-e1 οἱ δὲ περὶ Θηραμένην καὶ Καλλίξενον: l’espressione non significa “i sostenitori di Teramene e Callisseno”, ma “Teramene e Callisseno” o “Teramene, Callisseno e i loro sostenitori” (cf. Chevalier (1915), 55). Per un’espressione analoga cf. 371e1–2. Si tratta di un uso non classico che si sviluppa nel greco ellenistico e si diffonde in quello imperiale (cf. Radt (1980), 47–58; Dubuisson (1982); Radt (1988), 35–40; Cerri (2000), 45 n. 40; Gorman (2001), 201–213 e Gorman (2003), 129–144). Per una valutazione del ruolo svolto da Teramene durante il processo delle Arginuse cf. Sordi (1981) e Canfora (20123), 365–372. Sull’esistenza di due tradizioni su Teramene, una ostile che sottolineava la sua responsabilità nel processo delle Arginuse, ed una favorevole che tendeva a metterlo sotto una luce più positiva cf. Bearzot (1979), 195–219; Bearzot (1997a), 1– 11 e Canfora (20123), 373–388. Qui è chiaramente ripresa la tradizione ostile a Teramene. In generale su Teramene cf. Schwahn (1934), 2304–2320; Nails (2002), 284–287; Schmitz (2002), 408–409; Andrewes-Rhodes (20124), 1463. Su Callisseno cf. Swoboda (1919), 1754; Schmitz (1999), 209 e Nails (2002), 79. 368e1 προέδρους: i nove proedri erano sorteggiati dall’ἐπιστάτης dei pritani tra le nove tribù che a turno non ricoprivano la pritania; l’ἐπιστάτης dei pritani eleggeva anche un ἐπιστάτης dei proedri; tra le loro funzioni c’era quella di presentare all’assemblea le questioni che dovevano essere trattate, contare i voti e sciogliere le sedute (cf. Aristot. Ath. 44, 2). A partire dal 379/378 nei decreti ateniesi è menzionato l’ἐπιστάτης dei proedri con la funzione, prima esercitata dall’ἐπιστάτης dei pritani, di sottoporre al voto dell’assemblea (ἐπιψηφίζειν) le diverse mozioni (cf. Pritchett (1972), 168; cf. anche Rhodes (1981), 534). Si pensa che l’istituzione della carica di proedro e di presidente dei proedri sia avvenuta tra il 403/402 e il 379/378 (cf. Andriolo (2003), 31–32, con ulteriore bibliografia alla n. 31); alcuni elementi fanno pensare a una data più vicina al terminus inferiore (cf. Rhodes

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(1981), 534; Ryan (1995), 167–168 ritiene di poter fissare il terminus post quem al 384/383). La creazione della figura dei proedri, forse concepita per alleggerire i pritani di parte dei loro compiti, comportò un trasferimento di competenze (cf. Rhodes (1981), 534 e Camassa (1982), 70–71). Nell’Assioco la menzione dei proedri e del loro presidente (è evidente che quando Socrate è presentato come ἐπιστάτης si intende la presidenza dei proedri) è anacronistica (cf. anche Wilamowitz (1895), 979 n. 1 e Krentz (1989), 164). 368e2 ἐγκαθέτους ὑφέντες: letteralmente ὑφίημι significa “mandare avanti di nascosto qualcuno” (cf. LSJ s.v. I.3). A sua volta il termine ἐγκάθετος indica qualcuno che è “coinvolto”, “implicato” in qualcosa (cf. LSJ s.v. I). Nel suo complesso l’espressione ἐγκαθέτους ὑφέντες, dove ἐγκαθέτους è predicativo di προέδρους, è ridondante e non del tutto perspicua. L’idea sembra essere che i proedri furono complici del criminoso piano di Teramene e Callisseno e che, nella sua attuazione, furono mandati avanti, “ci misero la faccia”, mentre le menti dell’operazione rimanevano nell’ombra. Tuttavia, non è del tutto chiaro su che basi fosse stata costruita questa complicità. Plat. Ap. 32b e Xen. Hell. I 7, 14–15; Mem. I 1, 18 parlano di minacce e di una più generale pressione psicologica esercitata sui pritani. Tuttavia, non si può escludere che l’autore avesse in mente una forma di vera e propria corruzione (cf. Soph. OT. 387–389, ὑφεὶς μάγον τοιόνδε μηχανορράφον, / δόλιον ἀγύρτην, ὅστις ἐν τοῖς κέρδεσιν / μόνον δέδορκε). 368e2–369a1 κατεχειροτόνησαν τῶν ἀνδρῶν ἄκριτον θάνατον: καταχειροτονέω + genitivo della persona condannata + accusativo della pena è quasi un’espressione tecnica per indicare il voto di una condanna da parte dell’assemblea (cf. e.g. Lys. Or. 29 (In Philocratem), 2; Demosth. Or. 19 (De falsa legatione), 31–32). Occorre attribuire al verbo un senso causativo (“fecero condannare”), o pensare ad una sorta di iperbole volta ad enfatizzare la responsabilità di Teramene e Callisseno (“di fatto li condannarono a morte”): è il δῆμος ad esercitare la καταχειροτονία. 368e2–369a1 ἄκριτον θάνατον: l’espressione indica la condanna a morte senza processo (cf. anche [Socr.] Ep. VII 5). Il προβούλευμα di Callisseno probabilmente prevedeva di giudicare gli strateghi mediante una sentenza collettiva (cf. Bearzot (2013), 92). 369a1–2 καίτοι γε σὺ μόνος αὐτοῖς ἤμυνες καὶ Εὐρυπτόλεμος: per καίτοι γε cf. 364b6 (con il commento ad loc.). Qui, tuttavia, questa combinazione di particelle ha funzione avversativa. Su questo ruolo svolto da Assioco nell’ambito del processo agli strateghi non si hanno altre fonti. In genere la notizia è ritenuta storicamente attendibile (cf. e.g. Bicknell (1982), 241; Németh (1984), 52; Westlake (1985), 106 n. 44; Ostwald (1986), 542 e Nails (2002), 64). Altri si sono mostrati più cauti, anche in ragione degli anacronismi e delle deformazioni sicuramente presenti in questo resoconto del

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processo (cf. e.g. Dodds (1959), 248; Davies (1971), 17; Krentz (1989), 164 e Männlein-Robert (2012), 78 n. 77). Di per sé la notizia si inserisce in modo coerente nella vicenda biografica e politica di Assioco (su cui cf. il commento a 364a4). Egli faceva parte a pieno titolo della cerchia del nipote Alcibiade. Non stupisce, dunque, che possa aver sostenuto l’azione di Eurittolemo, cugino e fedele partigiano di Alcibiade, nell’ambito di un processo che era a carico di una serie di personaggi a loro volta legati al clan di Alcibiade (cf. Krentz (1989), 163 e Canfora (20123), 366 e 370). In Xen. Hell. I 7, 12 si allude ad alcune persone che dettero man forte ad Eurittolemo nel denunciare l’illegalità del probouleuma di Callisseno (τὸν δὲ Καλλίξενον προσεκαλέσαντο παράνομα φάσκοντες συγγεγραφέναι Εὐρυπτόλεμός τε ὁ Πεισιάνακτος καὶ ἄλλοι τινές). Non si può escludere che tra queste figure sia da vedere anche Assioco (così anche Männlein-Robert (2012), 78 n. 77) e che l’autore dell’Assioco abbia ripreso queste informazioni sul processo da una fonte perduta (cf. anche supra pp. 24-25 e il commento a 364a4). 369a2 τρισμυρίων ἐκκλησιαζόντων: circa 30000 erano i cittadini Ateniesi dotati di pieni diritti politici nel V e nel IV secolo: cf. e.g. Hdt. V 97, 2; Aristoph. Ec. 1132; Men. Epit. 1088; cf. inoltre Meiggs (1964), 2; Vetta (1989), 271 e Martina (2000), 561. Dal censimento voluto da Demetrio del Falero risulta che i cittadini di Atene alla fine del IV secolo erano 21000: cf. Demetr. Phal. fr. 31 Wehrli (= fr. 51 Stork, van Ophuijsen, Dorandi) = Ctesicles FGrHist. 245 F 1 = Ath. VI 272c. Tuttavia, il numero di partecipanti effettivi alle riunioni dell’assemblea non raggiunse mai, neppure lontanamente, queste cifre (cf. Hansen (1976), 115–134). Dire che 30000 persone parteciparono all’assemblea è un’esagerazione che enfatizza l’isolamento (e di conseguenza il coraggio) di Assioco e di Eurittolemo. 369a3 ἔστιν ταῦτα: per questa “reply formula” cf. il commento a 364c1. 369a4 ἅλις ἔσχον τοῦ βήματος: per la costruzione ἅλις + ἔχω + genitivo cf. e.g. Eur. Hel. 589; Or. 240; Xen. An. V 7, 12 (cf. Di Benedetto (1965), 51– 52: «ἅλις è usato con il genitivo quando si discute il grado di intensità di un fenomeno»). Propriamente il βῆμα è la pedana su cui l’oratore saliva per parlare nella Pnice. Per metonimia indica la vita politica (cf. e.g. Demosth. Or. 18 (De corona), 66), tanto che in certi contesti l’espressione οἱ παριόντες (scil. ἐπὶ τὸ βῆμα) passa ad indicare i politici tout court (cf. e.g. Demosth. Or. 13 (De contributione), 14). 369a5 πολιτείας: il governo della città e, dunque, la vita politica. Per l’uso di πολιτεία in questo senso: cf. e.g. Dem. Or. 18 (De corona), 87 (con Wankel (1976), I 479).

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Commento

369a6 ἐξ ἀπόπτου θεώμενος: l’espressione ἐξ ἀπόπτου (scil. τόπου, χωρίου, letteralmente “da un luogo che non si vede”, cioè “da lontano”) è più ricercata dell’equivalente πόρρωθεν. In prosa ricorre soprattutto a partire della tarda età ellenistica (cf. e.g. Philod. Piet. fr. 75, l. 2178 Obbink; D.H. AR. VI 14, 2). Con il participio θεώμενος l’espressione ἐξ ἀπόπτου produce un gioco di contrasti (“vedendo da dove non si può essere visti”). Sulla distanza di Socrate dalla politica cf. e.g. Plat. Ap. 32e. Certo, Socrate non si sottrasse dall’esercizio delle cariche pubbliche assegnate per sorteggio (cf. 368d7, con il commento ad loc.), tuttavia non fece il politico “di professione”, “di lungo corso”, la sola esperienza che permette di capire com’è veramente il popolo. 369a6–7 οἱ διὰ πείρας ἰόντες: alla conoscenza astratta si oppone quella empirica; per un’analoga espressione cf. e.g. Gal. Sect. 1 (I, p. 65 Kühn = Scripta Minora III.1, p. 2 Helmreich). 369a8–9 ἀχάριστον … ἀπαίδευτον: l’elenco dei difetti del popolo richiama il precedente elenco delle vessazioni a cui è sottoposto il politico (368d3–4). Per un accumulo simile (sempre nel tema dell’“odi profanum vulgus”) cf. e.g. M.Aur. II 1, Ἕωθεν προλέγειν ἑαυτῷ· συντεύξομαι περιέργῳ, ἀχαρίστῳ, ὑβριστῇ, δολερῷ, βασκάνῳ, ἀκοινωνήτῳ (dove, però, le singole qualifiche non si riferiscono al popolo tout court, ma ciascuna ad una persona diversa). 369a9 ὡς ἄν: l’uso di ὡς ἄν in senso causale sembra post-classico (cf. e.g. Pol. I 56, 9; 58, 3, con Collatz, Gützal, Helms (2004), 1140; cf. anche Brinkmann (1896), 452 n. 4 e Chevalier (1915), 55). 369a9-b1 συνηρανισμένον ἐκ συγκλύδων ὄχλου καὶ βιαίων φλυάρων: in genere si fa dipendere ὄχλου da ἐκ, mentre φλυάρων (cui si riferiscono συγκλύδων e βιαίων) dipende a sua volta da ὄχλου (cf. e.g. Phil. Flacc. 4, μιγάδων καὶ συγκλύδων ἀνθρώπων ὄχλον ἐκώλυεν ἐπισυνίστασθαι). Tuttavia, in questo modo si produce un’espressione molto ridondante (ὄχλος è di fatto una ripezione di δῆμος che è il soggetto di συνηρανισμένον). L’espressione risulterebbe molto più semplice e naturale senza ὄχλου. Si può pensare che ὄχλου sia una glossa di ἐκ συγκλύδων καὶ βιαίων φλυάρων (per espressioni simili cf. e.g. Phil. Ebr. 192, αἱ δὲ μικταὶ καὶ ἐκ πλειόνων συνηρανισμέναι προῦπτοι, Migr. 154, διὰ τὸν ἐπίμικτον καὶ δασὺν τοῦτον ὄχλον ἐκ μιγάδων καὶ συγκλύδων συμπεφυρμένον δοξῶν, Flacc. 135, ὄχλον ἀσύντακτον καὶ πεφορημένον ἐκ μιγάδων καὶ συγκλύδων ἡρμοσμένον, Sext. M. VII 295, ἀλλὰ τὸ ἐκ τούτων συνηρανισμένον ὁ ὄγκος ἐστίν). Una glossa per certi aspetti simile si trova in Aristot. Ath. 2, 1, ed. Chambers, μετὰ δὲ ταῦτα συνέβη στασιάσαι τούς τε γνωρίμους καὶ τὸ πλῆθος πολὺν χρόνον {τὸν δῆμον} (dove τὸν δῆμον, espunto da Kenyon, è glossa di τὸ πλῆθος, cf. anche Montanari (1993), 18).

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369a9 ἐκ συγκλύδων: A presenta συγκλύδωνος, i discendenti di O e Vv hanno σύγκλυδος. Il testo di A è una vox nihili. A riflette una situazione in cui la lezione a testo era συγκλύδων, corretta in σύγκλυδος mediante aggiunta della desinenza -ος supra lineam. La sostituzione è stata scambiata per aggiunta e si è formata la vox nihili. La correzione συγκλύδων si trova nell’Aldina (verosimilmente per intervento del Musuro: cf. supra p. 147). Burnet (19132) stampando συγκλύδων rimanda in apparato al Lessico di Fozio (σ 669 Theodoridis) e alla Suda (σ 1295 Adler). Tuttavia, i lemmi dei due lessici non possono valere come testimonianza indiretta del testo dell’Assioco (non si può escludere, infatti, che il passo da cui proviene il lemma sia un altro, come Thuc. VII 5, 4 o Plat. Rp. VIII 569a; cf. anche Greene (1938), 412 e Theodoridis (2013), 408). La lezione συγκλύδων (non testimoniata esplicitamente, ma presupposta dal testo di A) è superiore a σύγκλυδος, che si sarà prodotto per assimilazione al successivo ὄχλου. L’aggettivo σύγκλυς rimanda all’onda (κλύδων) che si piega su se stessa. 369b1 φλυάρων: in precedenza è stato impiegato il sostantivo φλύαρος nel senso di “sciocchezza” (cf. 365e3, con il commento ad loc.). Qui φλύαρος è un aggettivo sostantivato riferito a persone (“chiacchieroni”, “buffoni”, “sciocchi”). Si tratta di un uso raro attestato a partire dalla fine dell’età ellenistica e l’inizio dell’età imperiale (cf. e.g. Strab. I 2, 5; Plut. Alc. 34, 7). L’espressione è sprezzante e rivela un senso di superiorità intellettuale e morale. 369b1 ὁ δὲ τούτῳ προσεταιριζόμενος: il verbo προσεταιρίζομαι rimanda spregiativamente all’atteggiamento ruffiano di chi vuole attirarsi le grazie di qualcuno (cf. e.g. DCass. LXXIX 13, 3, τούς τε παριόντας ἁβρᾷ τε καὶ κεκλασμένῃ τῇ φωνῇ προσεταιριζόμενος [detto di Eliogabalo che si prostituisce]). Solitamente προσεταιρίζομαι si costruisce con l’accusativo della persona che ci si vuole arruffianare (oltre al passo di Dione Cassio, cf. e.g. Hdt. V 66, 2, ἑσσούμενος δὲ ὁ Κλεισθένης τὸν δῆμον προσεταιρίζεται). Non si può escludere che si debba correggere τούτῳ [scil. τῷ δήμῳ] in τοῦτον. 369b4–5 τί τὰς λοιπὰς ... οὐ φευκτάς: il testo da sempre stampato dagli editori è: τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; Non convince la proposta di Matthiae (1835), 303 di interpungere τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις; ἐννοήσομεν οὐ φευκτάς; (facendo reggere τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις dal precedente τίθεσαι). Ci si sarebbe aspettati, infatti, qualcosa come οὐκ ἐννοήσομεν φευκτάς; Nondimeno, non è del tutto chiaro come si debbano intendere l’interrogativo τί e i successivi accusativi in rapporto al verbo ἐννοέω. Il senso che ci si aspetta dal contesto è “cosa penseremo delle altre attività? Non [scil. penseremo] che sono da evitare?” (cf. già Cencio: «quid de aliis huius generis doctrinis considerabimus? An non abi-

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ciendas esse arbitraris?» e Ficino: «quid de reliquis existimandum? Nonne summopere fugiendas?»). Se, infatti, si attribuisce a τί il senso di “perché”, la domanda successiva (οὐ [scil. ἐννοήσομεν] φευκτάς;) non sembra consequenziale rispetto alla prima (“perché considereremo le altre attività? Non [scil. considereremo] che le si deve evitare?”). Tutto torna integrando un περί dopo τί: τί τὰς λοιπὰς ἐπιτηδεύσεις ἐννοήσομεν; οὐ φευκτάς; (“cosa penseremo delle altre attività? Non che debbano essere evitate?”). In questo modo è possibile attribuire a τί il senso atteso e creare un nesso consequenziale tra la prima e la seconda domanda. Per questa costruzione di ἐννοέω cf. e.g. Plat. Rp. VII 522e, ἐννοεῖς οὖν, εἶπον, περὶ τοῦτο τὸ μάθημα ὅπερ ἐγώ; Per la caduta di περί cf. il commento a 372a2.

Secondo argomento dell’insensibilità (369b5–370b1) 369b5-c2 ἤκουσα δέ ποτε … σὺ γὰρ οὐκ ἔσῃ: per il problema del disordine testuale cf. supra pp. 48-67 (con particolare riferimento all’espressione ἤκουσα δέ ποτε καὶ τοῦ Προδίκου λέγοντος alle pp. 60-61). Sulla presenza di Prodico all’interno del dialogo cf. il commento a 366c1. Il passo riprende quasi letteralmente Epic. Ep. Men. 125, τὸ φρικωδέστατον οὖν τῶν κακῶν ὁ θάνατος οὐθὲν πρὸς ἡμᾶς, ἐπειδήπερ ὅταν μὲν ἡμεῖς ὦμεν, ὁ θάνατος οὐ πάρεστιν, ὅταν δὲ ὁ θάνατος παρῇ τόθ’ ἡμεῖς οὐκ ἐσμέν. οὔτε οὖν πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς τετελευτηκότας, ἐπειδήπερ περὶ οὓς μὲν οὐκ ἔστιν, οἳ δ’ οὐκέτι εἰσίν. Non convince l’ipotesi di Wiśniewski (1956), 32–35 secondo cui Epicuro e l’autore dell’Assioco dipenderebbero entrambi da Prodico (eccessivamente possibilista sembra anche Mayhew (2011), 235). Per la presenza di questo argomento epicureo nella tradizione consolatoria cf. Sext. P. III 229 (nella variante di Epic. RS. 2). Cf. inoltre Lucr. III 830–831 (con Bailey (1947), 835) e Cic. Tusc. I 38, 91 (su cui cf. anche supra p. 80). La tradizione medievale dell’Assioco presenta sempre la preposizione περί (περὶ τοὺς ζῶντας, περὶ τοὺς μετηλλαχότας, περὶ μὲν τοὺς ζῶντας), mentre lo Stobeo, per la sezione da lui trasmessa (369b6-c1), ha sempre πρός (πρὸς τοὺς ζῶντας, πρὸς τοὺς μετηλλαχότας, πρὸς μὲν τοὺς ζῶντας). Nell’Epistola a Meneceo Epicuro alterna πρός e περί (οὔτε οὖν πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς τετελευτηκότας, ἐπειδήπερ περὶ οὓς μὲν οὐκ ἔστιν, οἳ δ’ οὐκέτι εἰσίν, cf. Hessler (2014), 209: «Epikur meint nicht “geht sie nichts an” [scil. con περί], sondern sehr konkret “ist um sie herum”»). È verosimile che l’autore dell’Assioco abbia fatto lo stesso e che la tradizione medievale e lo Stobeo (per la sezione da lui conservata) abbiano uniformato, l’una scrivendo

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sempre περί, l’altro sempre πρός. Si stampa pertanto il πρός dello Stobeo laddove anche Epicuro ha πρός e il περί della tradizione medievale laddove Epicuro ha περί. Per la parte non conservata dallo Stobeo si segue evidentemente il testo della tradizione medievale. 369b7 πρὸς τοὺς μετηλλαχότας: per l’uso di μεταλλάσσω senza complemento oggetto cf. il commento a 367c8-d1. 369c3 μάταιος οὖν ἡ λύπη: eco di Epic. Ep. Men. 125, ὥστε μάταιος ὁ λέγων δεδιέναι τὸν θάνατον οὐχ ὅτι λυπήσει παρών, ἀλλ’ ὅτι λυπεῖ μέλλων. In questo caso con λύπη si indica il dolore che nasce dalla paura (lo stesso vale per ὀδύρομαι in questo contesto). L’espressione rende meglio il disagio psicologico di Assioco. 369c4 {περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι}: Immisch (1896), 52 n. 1 riteneva che περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον fosse un’interpolazione. A suo avviso si trattava di una glossa di περὶ τοῦ μήτε ὄντος μήτε ἐσομένου (come se i participi si riferissero alla morte e non ad Assioco). Al contrario, per Wilamowitz (1895), 979 n. 2 περὶ Ἀξίοχον è retto dai due participi in modo analogo alla costruzione εἶναι + περί + accusativo più volte utilizzata in questo contesto, mentre il secondo Ἀξίοχον è soggetto di ὀδύρεσθαι. Tuttavia, al di là del fatto che la ripetizione περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον è piuttosto di cattivo gusto, si pone il problema di come intendere l’infinitiva Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι. Si potrebbe pensare che περὶ τοῦ μήτε ὄντος μήτε ἐσομένου περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι costituisca un’unica proposizione epesegetica di μάταιος οὖν ἡ λύπη. Tuttavia: 1) è sospetto l’improvviso passaggio dalla seconda alla terza persona; 2) l’espressione μάταιος οὖν ἡ λύπη fa pensare che qui Socrate introduca un principio generale non riferito al caso specifico di Assioco: per avere un’infinitiva epesegetica ci si sarebbe aspettati μάταιος οὖν λύπη oppure μάταιος οὖν ἥδε λύπη, non μάταιος οὖν ἡ λύπη (cf. i passi raccolti in KG II.2, 4). Più ragionevole, dunque, è far dipendere περὶ τοῦ μήτε ὄντος μήτε ἐσομένου da ἡ λύπη (per λύπη + περί cf. e.g. Aristot. EE. III 1229b4; [Plut.] Cons. Apoll. 114e) e ritenere che la stringa περὶ Ἀξίοχον Ἀξίοχον ὀδύρεσθαι sia un’interpolazione, come aveva visto Immisch (con la differenza che Immisch conservava ὀδύρεσθαι). 369c4 ὅμοιον ὡς εἰ: per questo nesso, in luogo del più frequente ὥσπερ εἰ, cf. e.g. Plat. Leg. I 629d; Aristot. SE. 176a13; Phil. Fug. 160. 369c5–6 {τῶν μήτ’ ὄντων περὶ σὲ μήθ’ ὕστερον μετὰ τὴν τελευτὴν ἐσομένων}: Wilamowitz (1895), 879–890 n. 2 ha notato che le parole τῶν μήτε ὄντων νῦν περὶ σὲ μήτε ὕστερον μετὰ τὴν τελευτὴν ἐσομένων sono un’interpolazione. Scilla e il Centauro, infatti, sono tipici ἀνυπαρξίας παραδείγματα (cf. e.g. Plat. Rp. IX 588c; Aristot. APr. 89b32; Lucr. IV 732–

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734; V 890–894; Cic. Tusc. I 37, 90; Nat. D. I 38, 105; I 38, 108; Div. II 21, 49; Plut. Virt. doc. 439b; cf. anche Brinkmann (1896), 445–446 e Pease (1920), 434, con ulteriori esempi). Questi ἀνυπαρξίας παραδείγματα designano ciò che non esiste di per sé, a prescindere dal presente o dal futuro, dal fatto che qualcuno sia vivo o morto. D’altra parte, la frase successiva (τὸ γὰρ φοβερὸν τοῖς οὖσίν ἐστιν, τοῖς δ’ οὐκ οὖσιν πῶς ἂν εἴη) suggerisce che per lo pseudo-Platone Scilla e il Centauro sono τὰ μὴ ὄντα tout court e non τὰ μήτε ὄντα μήτε ἐσόμενα (cf. Wilamowitz (1895), 879–890 n. 2). L’interpolazione è forse dovuta al fatto che il senso della frase successiva non è stato capito, inconveniente in cui sono incorsi anche diversi interpreti moderni (cf. il commento a 369c6–7) Considerando queste parole come interpolate viene meno anche il problema dello scarto dal τις impersonale (εἰ … τις ὀδύροιτο) alla seconda persona singolare (τῶν μήτ’ ὄντων περὶ σέ), su cui cf. già Matthiae (1835), 304 (il quale proponeva di scrivere un implausibile περὶ Κενταύρου τινὸς ὀδύροιο). La frase interpolata è stata costruita sulla base del precedente περὶ τοῦ μήτε ὄντος μήτε ἐσομένου. 369c5 περὶ τῆς Σκύλλης ἢ τοῦ Κενταύρου: non è ben chiaro a quale centauro si faccia riferimento. Feddersen (1895), 5 n. 1 suggeriva di scrivere ἢ Χείρωνος τοῦ Κενταύρου (cf. inoltre Matthiae (1835), 304 e Wilamowitz (1895), 979–980 n. 2). Un’alternativa potrebbere essere quella di correggere in τοῦ Ἱπποκενταύρου (cf. e.g. Cic. Tusc. I 38, 90, is plane perspiciet inter Hippocentaurum, qui numquam fuerit, et regem Agamemnonem nihil interesse) o in τῶν Κενταύρων (cf. e.g. Sen. Ep. 58, 15, et haec autem quae non sunt rerum natura conplectitur, quae animo succurrunt, tamquam Centauri, Gigantes et quidquid aliud falsa cogitatione formatum habere aliquam imaginem coepit). Tuttavia, non si può escludere che si tratti di un singolare pro plurale utilizzato per indicare tutta la categoria dei centauri (cf. KG II.1, 86). 369c6–7 τὸ γὰρ φοβερὸν τοῖς οὖσίν ἐστιν, τοῖς δ’ οὐκ οὖσιν πῶς ἂν εἴη: il senso di queste parole in genere è equivocato (cf. e.g. Souilhé (1930): «Ce qui est redoutable l’est pour ceux qui existent. Comme pourrait-il l’être pour ceux qui n’existent pas?», Hershbell (1981): «For what is fearful exists only for those who are; how could it exist for those who are not?», Aronadio (2008): «Quel che è da temere, infatti, sussiste per coloro che sono; ma per quelli che non sono come potrebbe sussistere?», Männlein-Robert (2012): «Denn das Furchterregende gibt es [nur] für diejenigen, die sind; wie könnte es denn sein für die, die nicht [mehr] sind?»). Socrate non sta dicendo che chi non esiste non può avere paura, ma che ciò che non esiste non può fare paura (cf. Wilamowitz (1895), 979–980 n. 2: «denn die Fähigkeit zu schrecken gehört nur den realen Dingen»).

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La mancata comprensione del senso di questa frase da parte di un antico lettore è forse in parte responsabile dell’interpolazione delle parole τῶν μήτ’ ὄντων περὶ σὲ μήθ’ ὕστερον μετὰ τὴν τελευτὴν ἐσομένων subito prima (cf. il commento a 369c5–6). 369d1 σὺ μὲν ἐκ τῆς ἐπιπολαζούσης τὰ νῦν λεσχηνείας: A presenta il cambio di battuta senza il vocativo ὦ Σώκρατες che compare solo a 369d5. Vv hanno σὺ μέν, ὦ Σώκρατες (mentre il vocativo è assente in 369d5). È verosimile che in Vv ὦ Σώκρατες sia stato anticipato proprio per marcare il cambio di battuta. Nel dialogo sono presenti altri cambi di battuta non marcati dal vocativo (e.g. 370d7). Unica occorrenza di λεσχηνεία (“chiacchiera”) nella letteratura antica (in compenso, per λέσχη in senso traslato cf. LSJ s.v. II, mentre il verbo λεσχηνεύομαι, “chiacchierare”, è già attestato in Eraclito: cf. 22 B 5 DK). Il verbo ἐπιπολάζω (“essere in superficie”) qui indica ciò che è corrente, diffuso, alla moda (cf. e.g. Aristot. EN. I 1095a28–30, ἁπάσας μὲν οὖν ἐξετάζειν τὰς δόξας ματαιότερον ἴσως ἐστίν, ἱκανὸν δὲ τὰς μάλιστα ἐπιπολαζούσας ἢ δοκούσας ἔχειν τινὰ λόγον). Sul piano della finzione dialogica Assioco si riferisce a Prodico e alla sofistica del V secolo. Tuttavia, indirettamente ci si riferisce agli argomenti epicurei dell’insensibilità dopo la morte (cf. anche Souilhé (1930), 145–146 n. 2). Per Immisch (1896), 70 queste parole implicano una datazione del dialogo vicina alla fondazione della scuola di Epicuro (307/6 o 305/4 a.C.: cf. Dorandi (1991), 46–47). Tuttavia, il riferimento può essere a qualsiasi momento successivo alla diffusione dell’Epistola a Meneceo. Ancora in età imperiale Plutarco polemizzerà con la filosofia epicurea (basta pensare al Non posse o all’Adversus Colotem). 369d2 προῄρηκας: A presenta προείρηκας, Vv, i discendenti di O e Par hanno εἴρηκας. La lezione προείρηκας, che la si intenda come “predire” (LSJ s.v. II.1.a), come “aver detto prima” (LSJ s.v. II.1.b), non dà un senso accettabile in questo contesto. Migliore sarebbe il senso di “proclamare” (LSJ s.v. II.2), ma la costruzione con ἐκ + genitivo depone a favore del ritocco προῄρηκας di Immisch (1896): cf. e.g. Plat. Lys. 206e, οἱ δέ τινες τοῦ ἀποδυτηρίου ἐν γωνίᾳ ἠρτίαζον ἀστραγάλοις παμπόλλοις, ἐκ φορμίσκων τινῶν προαιρούμενοι (talvolta anche προλέγω può essere utilizzato nel senso di “scegliere”, come προαιρέω, ma si tratta di un uso raro e prevalentemente poetico: cf. LSJ s.v. I). Assioco accusa Socrate di “pescare” dal confuso contenitore degli argomenti alla moda ciò che gli presenta come perle di saggezza. È degno di nota che su A il dittongo ει è stato scritto in rasura da A2. È molto probabile che l’originaria lezione di A fosse proprio προῄρηκας. D’altra parte, εἴρηκας sembra un aggiustamento successivo dell’improbabile προείρηκας.

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369d2 ἡ φλυαρολογία: equivalente a φλυαρία (“sciocchezza”), è l’unica occorrenza del termine nella letteratura antica (cf. anche Männlein-Robert (2012), 78 n. 83). 369d5 ἀρτικροτήσῃς: la tradizione medievale ha un insensato ἄρτι κροτήσῃς, ritoccato da Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), viii in ἀρτικροτήσῃς. Per ἀρτικροτέω cf. Men. PCG VI.2 fr. 526, ἠρτικροτοῦντο οἱ γάμοι, Strab. XV 1, 32, ed. Radt, ὁ δ’ οὖν Ἀλέξανδρος ἀπὸ τοῦ Ὑπάνιος ἀναστρέψας ἐπὶ τὸν Ὑδάσπην καὶ τὸν ναύσταθμον ἠρτικρότει (Kramer, ἠρτικρότι Bi, ἠρτικροτι F, ἠρτικροτη D, ἠρτικότι Ci, συνεκρότει CsE, συνεκρότι Bs) τὸν στόλον. Il senso è analogo a quello di συγκροτέω (“preparare”). Per un composto verbale analogo cf. e.g. ἀρτιστομέω («to speak in good idiom, accurately» [LSJ s.v.]). Non convincono precedenti tentativi di correzione: ἔτι κροτήσῃς di Wolf ap. Fischer (1786), 265; τῶν ἄρτι (scil. τούτων) κροτήσῃς di Fischer (1786), 151 (ripreso da Matthiae (1835), 304 con ulteriore trasposizione: πιθανωτέρους τούτων τῶν ἄρτι λόγους); ἄρα κροτήσῃς di Ast (1827), 410; {ἄρτι} κροτήσῃς di Stallbaum (1850); ἀντικροτήσῃς di Hermann (1853), xiv. 369d5–6 οὐκ ἐπαΐει γὰρ ὁ νοῦς ἀποπλανώμενος εἰς εὐεπείας λόγων: A presenta δέ, Vv e Par hanno γάρ. Assioco spiega per quale ragione gli argomenti di Socrate non lo convincono. In alcuni casi δέ può avere la funzione di γάρ (cf. Denniston (19542), 169–170). Tuttavia, non ci sono altri casi di quest’uso nell’Assioco. Per la rara costruzione ἀποπλανάω + εἰς (“andare dietro a”) cf. e.g. Dam. In Phil. 168 (= Thphr. fr. 85 Wimmer = fr. 556 Fortenbaugh-Huby-Sharples-Gutas), καὶ ἄλογος ἡ ἀντὶ τοῦ ἀληθοῦς εἰς τὸ ψεῦδος ἀποπλανηθεῖσα δόξα καὶ τούτῳ ἐφηδομένη. La εὐέπεια è la bellezza formale del discorso (cf. Plat. Phaedr. 267c). 369d5 ὁ νοῦς: in questo caso il termine sembra alludere in modo generico e indefinito ad un’attività di pensiero e ad una facoltà di giudizio che si manifestano in modo intuitivo e spontaneo, così come il successivo ψυχή (369e2) indica molto genericamente l’insieme della vita interiore e delle sue attività (cf. anche supra pp. 69-70 n. 162). 369d6 ταῦτα: si è pensato che queste accuse siano rivolte alla ἐπίδειξις di Prodico (cf. e.g. Männlein-Robert (2012), 78–79 n. 83). Tuttavia, verosimilmente questa sezione del dialogo è stata collocata nel punto sbagliato: nelle intenzioni dell’autore questa replica di Assioco non avrebbe dovuto seguire l’ἐπίδειξις di Prodico (cf. supra pp. 48-67). Ma, anche al di là di questo problema, è più ragionevole vedere in questa battuta di Assioco un’accusa di razionalismo astratto rivolta contro l’argomento epicureo appena sviluppato da Socrate sub specie Prodici (cf. anche supra pp. 70-71). 369d7–8 ἀλλ’ εἰς μὲν πομπὴν … ἀνύτει: in genere il verbo ἀνύτω, “compiere, realizzare”, si costruisce con l’accusativo semplice, non con εἰς + accu-

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Secondo argomento dell’insensibilità (369b5–370b1)

sativo (cf. LSJ s.v. ἀνύω, di cui ἀνύτω è forma tipicamente attica). Non si può escludere che il passo sia in qualche modo corrotto. Si potrebbe pensare a qualcosa come ἀλλ’ ἴσως μὲν πομπὴν … ἀνύτει (cf. LSJ s.v. ἴσως III, «used to soften or qualify a positive assertion»). Il passaggio a εἰς potrebbe essere stato favorito dall’ εἰς di 369d6. Tuttavia, anche altrove l’autore impiega delle costruzioni anomale (cf. 366a3 e 366b3–4, con il commento ad locc.). Non convince la soluzione di Burges (1854), 50 n. 2 (ἃ ἄλλως μὲν … ἀνύτει). Insolito uso di πομπή in riferimento allo stile del discorso (nel senso di una solennità spettacolare): cf. e.g. Cic. De or. II 294, confiteorque me, si quae premat res vehementius, ita cedere solere, ut … adhibere quandam in dicendo speciem atque pompam et pugnae similem fugam (notevole la somiglianza dell’intera espressione in dicendo speciem atque pompam con quella dell’Assioco, εἰς μὲν πομπὴν καὶ ῥημάτων ἀγλαϊσμόν), Tusc. IV 21, 48, atque haec pleraque sunt prudenter acuteque disserentium, illa quidem ex rhetorum pompa. Chevalier (1915), 56 ha pensato ad un latinismo. Tuttavia, nella dottrina retorica greca è attestato l’aggettivo πομπικός per qualificare il discorso epidittico (cf. e.g. D.H. Isae. 19, 2 e [Longin.] Subl. 8, 3; cf. Ernesti (1795), 282–283 e Pritchett (1975), 77 n. 5). È l’unica attestazione del termine ἀγλαϊσμός prima della tarda antichità. Nella poesia tragica di età classica è frequente ἀγλάϊσμα (cf. e.g. Aeschl. Ch. 193; Soph. El. 908; Eur. Hel. 282), che in genere indica un ornamento splendente. 369d8-e1 τὰ δὲ παθήματα σοφισμάτων … καθικέσθαι τῆς ψυχῆς: il verbo ἀνέχω al medio, nel senso di “sopportare”, “ammettere”, è raramente costruito con il genitivo (cf. LSJ s.v. C.II.3). Il termine σόφισμα non sembra essere utilizzato qui con il consueto senso spregiativo di “discorso menzognero, fallace” (cf. LSJ s.v.), ma con il senso neutro di “argomento”, “ragionamento”, altrimenti non sarebbe ripreso dal successivo μόνοις … τοῖς δυναμένοις. Vale dunque come fosse λόγος (cf. anche 369d4–5). Tuttavia, non si può escludere che il passo sia corrotto: si potrebbe pensare di correggere μόνοις in λόγοις, o, meglio, di integrare λόγοις τοῖς tra τοῖς e δυναμένοις: μόνοις δὲ ἀρκεῖται τοῖς δυναμένοις καθικέσθαι τῆς ψυχῆς (salto da un τοῖς all’altro). In questo modo σόφισμα può conservare il consueto senso spregiativo. Per l’uso del verbo ἀρκέω al passivo nel senso di “essere soddisfatto” + dativo della cosa di cui si è soddisfatti cf. LSJ s.v. IV. Non convince la correzione di Segaar e Hemsterhuis ἀκεῖται (cf. Segaar (1766a), 19–20 e (1766b), ix, dal quale ultimo si apprende della congettura di Hemsterhuis): di solito ἀκέομαι ha il significato attivo di “curare” e non quello passivo di “essere

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Commento

curato” (cf. anche Burges (1854), 50 n. 3, il quale però propone un improbabile ἀρκεῖ τι ἐπὶ τοῖς κτλ.). Per Assioco solo un discorso efficace dal punto di vista consolatorio è anche un discorso vero. È come se nella sofferenza si manifestasse un istintivo criterio di verità (sul nesso tra verità e consolazione nel dialogo cf. supra pp. 70-72 e p. 86). I παθήματα si rivelano inaspettati alleati del νοῦς nel riconoscimento della verità. Gli stessi termini νοῦς (369d5) e ψυχή (369e1) sembrano alludere in modo piuttosto generico ad una dimensione interiore e spirituale, che va al di là di una rigida divisione tra razionalità e irrazionalità (cf. anche supra pp. 69-70 n. 162). 369e3–4 συνάπτεις γάρ, ὦ Ἀξίοχε … κακῶν αἴσθησιν: ci si aspetta che συνάπτω sia costruito con il dativo (τῇ στερήσει τῶν ἀγαθῶν) e l’accusativo (κακῶν αἴσθησιν). Tuttavia, κακῶν αἴσθησιν è retto da ἀντεισάγων. Far reggere l’accusativo sia da συνάπτω sia da ἀντεισάγω rende la frase inutilmente contorta (cf. anche Wilamowitz (1895), 980 n. 1). Nessuno dei tentativi di correzione finora avanzati è decisivo: Wolf aggiungeva a testo τὰ ἀσύναπτα dopo ἀνεπιλογίστως, Fischer (1786), 154 pensava piuttosto all’espunzione di ἀντεισάγων, Burges (1854), 50 n. 4 integrava τὰ ῥήματα dopo ἀνεπιλογίστως. 370a1 τὸν στερόμενον: A presenta τὸ στερόμενον, accolto da Burnet (19132) e Souilhé (1930). Vv hanno τὸν στερόμενον, accolto da Matthiae (1835), 304, Baiter, Orelli, Winckelmann (1839), Immisch (1896) e Männlein-Robert (2012). Il successivo ὁ δ’ οὐκ ὤν sembra presupporre un participio maschile. Il neutro può essersi prodotto perché τὸ στερόμενον τῶν ἀγαθῶν è stato preso come soggetto di λυπεῖ, come se fosse τὸ στέρεσθαι τῶν ἀγαθῶν (cf. e.g. Plut. Tranqu. an. 465a-b, πόθεν γε δὴ πρὸς ἀλυπίαν ψυχῆς καὶ βίον ἀκύμονα χρημάτων ὄφελος ἢ δόξης ἢ δυνάμεως ἐν αὐλαῖς, ἂν μὴ τὸ χρώμενον (= τὸ χρῆσθαι) εὐχάριστον ᾖ τοῖς ἔχουσι καὶ τὸ τῶν ἀπόντων μὴ δεόμενον (= τὸ ... δεῖσθαι) ἀεὶ παρακολουθῇ;). 370a3 ἀντιλαμβάνεται: per quest’uso di ἀντιλαμβάνω nel senso di “percepire” cf. e.g. Sext. P. I 50, πῶς δὲ ὁμοίως ἀντιλαμβάνεσθαι κατὰ τὴν ἀκοὴν τά τε στενώτατον ἔχοντα τὸν πόρον τὸν ἀκουστικὸν καὶ τὰ εὐρυτάτῳ τούτῳ κεχρημένα. Il senso è lo stesso del successivo καταλήψεσθαι. 370a3–4 ἐπὶ τῷ μὴ παρέξοντι γνῶσιν τῶν λυπησόντων: scil. la privazione dei beni che si ha con la morte. Per quest’uso di ἐπί + dativo con funzione causale cf. LSJ s.v. ἐπί III.1 («freq. with Verbs expressing some mental affection»). Per γνῶσις nel senso di “mezzo di conoscenza” cf. e.g. Aristot. Metaph. I 981b11. 370a4 ἀρχήν: il senso di questo avverbio non è quello di “in principio” (come generalmente è inteso: cf. e.g. Souilhé (1930): «Si au début, Axiochos», Hershbell (1981): «For if at the beginning», Aronadio (2008): «Infat-

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Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4)

ti, Assioco, se non supponessi da principio», Männlein-Robert (2012): «Wenn du nämlich nicht von vornherein», Brisson (2014): «Car si au point de départ»), ma quello di “assolutamente”, omnino (cf. già Clericus (1711), 107). Cf. anche 365d8, con il commento ad loc. 370a5 μίαν: per l’uso di εἷς come indefinito (τις) cf. Bruhn (1894), 168– 170 e Meister (1915), 33 («Vides a sermone vulgari hunc auctorem nequaquam abhorruisse»). Il μηδεμίαν di Vv è banalizzante. Non pare necessaria la correzione νέαν di Buresch (1886), 102 n. 1. 370a6 πτυρείης: il verbo πτύρομαι (“essere spaventato”) è prevalentemente attestato a partire dalla tarda età ellenistica (e.g. Diod. II 19, 2; Plut. FM. 3, 1; Marc. 6, 10). Spesso è detto di cavalli imbizzarriti. 370a7 περιτρέπεις σεαυτὸν: raro uso del verbo περιτρέπω nel senso di “contraddire”, “confutare”: cf. e.g. Sext. P. I 122, εἰ μὲν ψευδῆ λέξει τὴν ἀπόδειξιν εἶναι, ἑαυτὸν περιτρέψει, e, al medio con valore riflessivo, Diog. Laert. III 35, καὶ διδάσκοντος ὅτι περιτρέπεται, ἔγραψε διάλογον κατὰ Πλάτωνος Σάθωνα ἐπιγράψας, cf. anche Meister (1915). Il senso corrisponde a quello di σεαυτῷ ὑπεναντία καὶ ποιεῖς καὶ λέγεις di 365d2–3. 370a8 τῇ δὲ στερήσει περιτιθεῖς ψυχήν: il participio περιτιθεῖς è trasmesso da A e dai discendenti di O (con accento sbagliato). A2 ha corretto supra lineam nel presente indicativo περιτίθης, che si trova anche su Par. In questo punto Vv presentano una lacuna. Qui occorre il participio in quanto l’espressione con περιτίθημι non è sullo stesso piano degli indicativi περιτρέπεις e di ταρβεῖς, ma si contrappone al precedente δειματούμενος στερήσεσθαι τῆς ψυχῆς (cf. anche Hermann (1853), xiv). Per la costruzione περιτίθημι + accusativo e dativo (“attribuire qualcosa a qualcuno”) cf. LSJ s.v. περιτίθημι II. La bizzarra immagine (“conferire un’anima alla privazione”, ossia “essere in grado di provare sensazioni anche una volta che l’anima non esiste più”) è particolarmente studiata. La contraddizione generata dall’incapacità di liberarsi del tutto dalla convinzione che qualcosa di sé sopravvive alla morte è espressa da Lucr. III 885–887 con l’icastica immagine di chi si figura un altro se stesso che una volta morto osserva la sorte del proprio corpo (cf. anche il commento a 365d1–5). La ripresa degli elementi della frase precedente (στερήσεσθαι τῆς ψυχῆς) sottilinea la contraddizione in cui cade Assioco.

Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4) 370b1–2 πρὸς τῷ πολλοὺς καὶ καλοὺς εἶναι λόγους περὶ τῆς ἀθανασίας τῆς ψυχῆς: per quest’uso di πρὸς τῷ + infinito, dove grammaticalmente l’infinito è retto da πρὸς τῷ, ma di fatto πρὸς τῷ vale come nesso autono-

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Commento

mo (“oltre a ciò”) cf. Brinkmann (1896), 450–451 e Janáček (1962), 134– 137 (p. 134: «Die Verbindung πρὸς τῷ in der Bedeutung von πρὸς τούτοις scheint in der ganzen Gräzität überaus rar zu sein»). Propriamente, dunque, la frase non è pendente (Wilamowitz (1895), 980: «schwebt … in der Luft»). In ogni caso si tratta di una costruzione sgraziata e dall’aspetto posticcio. Inoltre, la transizione con ciò che precede è decisamente abrupta. Questi problemi sono da ricondurre alla problematica genesi dell’opera (cf. supra pp. 46, 57-59 e 79-82). Non convincono le proposte di correzione finora avanzate: correggere τῷ in τούτῳ e integrare συμβαίνει tra καλούς e εἶναι (Matthiae (1835), 304); postulare una lacuna prima di questa frase (Wilamowitz (1895), 980); leggere προσίτω τὸ πολλοὺς (“ajoutez le fait que”) in luogo di πρὸς τὸ πολλούς (Bury (1939), 34). 370b2-c6 οὐ γὰρ ἂν θνητή γε φύσις … εἰ μή τι θεῖον ὄντως ἐνῆν πνεῦμα τῇ ψυχῇ: particolarmente forte è la somiglianza con Phil. Det. 87–90, πῶς γὰρ ἂν θνητὴ φύσις μένειν ἅμα καὶ ἀποδημεῖν ... πῶς οὖν εἰκὸς βραχὺν οὕτως ὄντα τὸν ἀνθρώπινον νοῦν ... εἰ μὴ τῆς θείας καὶ εὐδαίμονος ψυχῆς ἐκείνης ἀπόσπασμα ἦν οὐ διαιρετόν; Per la possibile conoscenza dell’Assioco da parte di Filone cf. supra p. 134 e n. 368. Secondo Alfonsi (1950), 260–261 l’autore dell’Assioco dipende, direttamente o indirettamente, dal De philosophia perduto di Aristotele, dove probabilmente era sviluppato un argomento analogo (fr. 12a, b Walzer = 12a, b Ross = 947 e 948 Gigon; fr. 13 Walzer = 13 Ross = 838, 913 e 914 Gigon). 370b2–3 οὐ γὰρ ἂν θνητή γε φύσις τοσόνδ’ ὕψος διήρατο μεγεθουργίας: A presenta οὐ γὰρ δή γε θνητή γε φύσις τόσον δυους διήρατο, Vv hanno οὐ γὰρ δήποτε θνητή γε φύσις τοσόνδε ἂν ἤρατο. A5 (su questa mano cf. supra pp. 94-95) ha annotato δέος sopra δυους, mentre su Par δυους διήρατο diventa δοιοὺς διήρατο. Y presenta a sua volta δοιοὺς διήρατο, ma omette il primo γε, come Vv. Per parte sua Vind. 109 corregge in οὐ γὰρ δή που θνητή γε. Nella recensio Plethonis si legge τοσόνδε διήρατο ed è stato omesso il secondo γε. Nell’Aldina, forse per intervento del Musuro, si legge τόσον διήρατο. Il passo è estremamente tormentato. A presenta una vox nihili (τόσον δυους διήρατο), che nel corso della tradizione si è variamente cercato di aggiustare (A5, Par, Vind. 109, la recensio Plethonis e l’Aldina). La lezione di Vv (τοσόνδε ἂν ἤρατο) è l’unica che dà un senso accettabile. Tuttavia, verosimilmente è anch’essa frutto di un aggiustamento congetturale del nonsense τόσον δυους διήρατο (che naturalmente può risalire ad uno stadio di tradizione più antico di A). Non si vede, infatti, come l’insensato τόσον δυους διήρατο possa essersi originato dal corretto τοσόνδε ἂν ἤρατο. Inoltre,

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Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4)

διήρατο sembra una lezione superiore rispetto a ἤρατο (al contrario, Menchelli (2016), 99–100 ritiene che qua Vv restituiscano la vera lectio). Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno stampato τοσόνδε ἂν ἤρατο. Verosimilmente Burnet ha mutuato questa lezione dall’apparato di Immisch (1896) il quale conosceva V (tuttavia, egli stampava il testo di A con una crux). In precedenza Stephanus (1578), 72 Ann., pur stampando la vulgata τόσον διήρατο, annotava: «Non dubito quin scribendum sit τοσόνδε ἤρατο ἂν μεγεθουργίας … Posset vero particula ἂν et in fine collocari, hoc modo, τοσόνδε μεγεθουργίας ἤρατο ἄν». Boeckh (1810), 119 stampò τοσόνδ’ ἂν διήρατο. Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1839), 862 pensò a τόσον διανοίᾳ. Schneider (1856), 561 stampò τόσον δύουσ’ ἂν [scil. φύσις] ἤρατο (intendendo «quippe nullo sane pacto mortalis quidem natura tam magnam subiens suscipere potuisset operum molitionem», su cui cf. i rilievi di Hermann (1853), xiv). Schmidt (1847), 23, criticando Winckelmann, propose un οὖσ’ ἂν τοσονδὶ ἂν ἤρατο, soluzione ripresa da Hermann (1853), xiv per il suo οὖσα τοσόνδ’ ἂν ἤρατο. Fino ad Hermann τόσον/ τοσόνδε è sempre stato considerato avverbio. Un’eccezione è rappresentata da Matthiae (1835), 304, il quale, riprendendo il testo di Boeckh, ha integrato ἐς davanti a τοσόνδ(ε). Decisivo il contributo di Wilamowitz (1895), 980 n. 2, il quale propose di leggere τοσόνδ’ ὕψος διήρατο: la preposizione εἰς è caduta per aplografia con φύσις e -δ’ ὕψος si è corrotto in δυους (cf. anche Brinkmann (1896), 452, il quale afferma di aver pensato indipendentemente alla stessa soluzione). Per διαίρω + εἰς/πρὸς ὕψος cf. e.g. Phil. Virt. 71; Aet. 118. Per il nesso τοσόνδ’ ὕψος + genitivo partitivo cf. e.g. Plat. Ep. VII 351d. Non migliora l’idea di Wilamowitz la proposta di Post (1934), 64 τοσόνδε ὕψους ἂν ἤρατο μεγεθουργίας. Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno seguito Y accogliendo solo il primo γε (che l’iterazione di γε sia stata avvertita come problema nel corso della tradizione mostrano anche gli aggiustamenti di Vv e della recensio Plethonis). Di per sé la ripetizione di γε è tollerabile: cf. Neri (1999), 63–64 e n. 10 (cf. inoltre Denniston (19542), 151: «γε regularly follows οὐ γὰρ δή»). Tuttavia, nella frase occorre la particella ἄν (che è presente solo su Vv, dove però verosimilmente è stata introdotta insieme all’aggiustamento congetturale della vox nihili δυους). Brinkmann (1896), 452 proponeva di intervenire sulla prima parte della frase scrivendo οὐ γὰρ ἂν δὴ θνητή γε φύσις oppure οὐ γὰρ ἂν θνητή γε φύσις (la confusione ΑΝ/ΔΗ è facilissima: cf. Brinkmann (1896), 452 n. 2; cf. inoltre Cobet (1858), 501– 502, 549–550 e Schanz (1871), 50–52). A favore di οὐ γὰρ ἂν θνητή γε φύσις cf. Phil. Det. 87, πῶς γὰρ ἂν θνητὴ φύσις μένειν ἅμα καὶ ἀποδημεῖν ἠδύνατο κτλ. (sulla possibile, ma tutt’altro che certa, conoscenza dell’Assioco da par-

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Commento

te di Filone cf. supra p. 134 e n. 368). Tuttavia, una successione di particelle come οὐ γὰρ ἄν γε (ma anche οὐ γὰρ ἂν δή γε) è insolita: il primo γε andrà considerato come erronea anticipazione del γε successivo. 370b3 μεγεθουργίας: unica attestazione del termine (cf. anche Chevalier (1915), 56). Wilamowitz (1896), 980 n. 2 proponeva di correggere in μεγαλουργίας (cf. e.g. Strab. III 5, 6, τὰς γὰρ Ἡρακλείους στήλας μνημεῖα εἶναι δεῖ τῆς ἐκείνου μεγαλουργίας). La correzione è stata giustamente respinta da Brinkmann (1896), 452 n. 1: come è esistito μεγεθοποιεῖν (cf. e.g. Sext. M. VII 108) oltre a μεγαλοποιεῖν (Hierocl. ap. Stob. IV 27, 20 = p. 59 von Arnim), così può benissimo essere esistito μεγεθουργία oltre a μεγαλουργία. 370b3–4 καταφρονῆσαι μὲν ὑπερβαλλόντων θηρίων βίας: per ipallage il participio concorda grammaticalmente con θηρίων, ma ad sensum si riferisce a βίας (“la superiore forza degli animali”), a meno che βίας non sia da correggere in βίᾳ (“gli animali superiori per forza”): cf. e.g. Demosth. Or. 8 (De Chersoneso), 16, νὴ Δία, κακοδαιμονῶσι γὰρ ἅνθρωποι καὶ ὑπερβάλλουσιν ἀνοίᾳ. 370c2–3 καὶ Πλειάδων χειμῶνας καὶ θέρους ἀνέμους τε καὶ καταφορὰς ὄμβρων: questo è il testo trasmesso dalla tradizione medievale e accolto da Burnet (19132) e Souilhé (1930). Su Par χειμῶνας è stato corretto in χειμῶνος mediante l’aggiunta di omicron sopra ad alpha. Questa correzione, che passa alla discendenza di Par e da essa all’Aldina, non è testimoniata altrove. Verosimilmente essa è di origine congetturale ed è nata per attrazione del successivo θέρους (cf. anche Menchelli (2016), 104; tuttavia sul problema della posizione di Par nello stemma codicum cf. supra pp. 106-110). Dall’Aldina al Bekker si è tenuto conto solo di χειμῶνος e su questa base si è lungamente fondata la discussione del passo (il testo Πλειάδων χειμῶνος καὶ θέρους ἀνέμους τε καὶ καταφορὰς ὄμβρων non dà un senso accettabile): cf. Wolf (ap. Fischer (1786), 266); Clericus (1711), 108–109 (approvato da Horreus (1718), 158); Rubenius494 (1715), 170; Fischer (1786), 157 e Boeckh (1810), xxxix-xl. Per Menchelli (2016), 104 «la semplificazione al genitivo ha trascinato con sé il travisamento del testo». Tuttavia, molti degli interventi testuali proposti quando era noto solo χειμῶνος sono stati spesso alla base di quelli proposti successivamente, quando χειμῶνας era noto: il solo fatto che χειμῶνος non dia un testo soddisfacente non libera il passo da tutti i suoi problemi (cf. meglio infra in questo stesso lemma).

494 Dietro al nome di Herbert Rubenius si celava Erik Benzelius, arcivescovo di Uppsala e metropolita di Svezia: su di lui cf. Sandys (1908), 347–338.

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Secondo argomento dell’immortalità dell’anima (370b1-e4)

Lo spostamento della costellazione delle Pleiadi permette di seguire il ciclo stagionale. Il sorgere mattutino delle Pleiadi segna l’inizio dell’estate, mentre il tramonto mattutino segna l’inizio dell’inverno (cf. e.g. schol. Arat. Phaen. 259; in generale cf. Gundel (1952), 2505–2514). L’osservazione di questo fenomeno consente di individuare il momento della semina in inverno e il momento del raccolto in estate (cf. e.g. Hes. Op. 383–384, cf. inoltre Gundel (1952), 2505–2506). Su queste basi Menchelli (2016), 105-106, intendendo l’espressione Πλειάδων χειμῶνας come “gli inverni delle Pleiadi”, ha osservato che «le Pleiadi segnano le attività più importanti per l’uomo, e per questo motivo vengono qui [scil. nell’Assioco] ricordate esplicitamente; si spiega con esse anche l’indicazione dei solstizi, giacché il solstizio d’inverno è legato alle Pleiadi e alle indicazioni che esse danno, con la ripartizione del tempo, al calendario dei lavori stagionali». A rigore dire “inverni delle Pleiadi” avrebbe senso se ci fossero anche degli inverni che non sono “delle Pleiadi”. Tuttavia, il fenomeno è ciclico: il tramonto mattutino delle Pleiadi segna l’inizio dell’inverno ogni anno. Inoltre, perché menzionare solo le Pleiadi invernali e non anche quelle estive? Tutto considerato, dunque, è poco verosimile che questa espressione significhi “gli inverni delle Pleiadi”. Più interessante è la possibilità di intendere Πλειάδων χειμῶνας come “le tempeste delle Pleiadi” (cf. e.g. Hershbell (1981): «the storms of the Pleiades, the summer winds and falls of rains», Männlein-Robert (2012): «die Winterstürme der Pleiaden, und die Winde des Sommers und die Regengüsse»).495 Con l’inizio dell’inverno, infatti, cominciava una stagione in cui era sconsigliabile mettersi in mare a causa delle cattive condizioni atmosferiche (cf. e.g. Hes. Op. 619–620; [Demosth.] Or. 50 (Contra Polyclem),

495 Nel fondo “Archivio vecchio de La Nuova Italia” della Scuola Normale Superiore, faldone 317, cartellina “Timpanaro Sebastiano”, sono contenuti alcuni pareri editoriali e correzioni di bozze che Sebastiano Timpanaro inviò alla casa editrice “La Nuova Italia”. In mezzo a queste carte si trovano anche due pagine dattiloscritte (la prima delle quali datata al 30/01/1956) contenenti una serie di loci dubii relativi alla seconda parte del volume di Rodolfo Mondolfo La comprensione del soggetto umano (poi uscito per “La Nuova Italia” nel 1958). Nel margine inferiore della seconda di queste pagine si legge una nota manoscritta di cui riporto la trascrizione: «498, riga 5: “i venti invernali ed estivi delle Pleiadi” è traduzione impossibile. Il testo dell’Assioco ha καὶ Πλειάδων χειμῶνας καὶ θέρους ἀνέμους, cioè “le burrasche (invernali) delle Pleiadi e i venti estivi (il Souilhé nell’ediz. delle Belles-Lettres traduce: “les pléiades d’hiver, les vents estivaux”). Ma molti editori traspongono o emendano in vario modo (cf. l’apparato critico del Souilhé). Bisognerà sentire Mondolfo». Anche Timpanaro, dunque, intendeva l’espressione nel senso “le tempeste delle Pleiadi”.

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23; Ov. Ars I 409–412; in generale cf. Gundel (1907), 190–191 e Gundel (1952), 2505–2507, con ulteriori riferimenti; questa interpretazione è invece esclusa da Menchelli (2016), 105–106 n. 50). Dunque, l’espressione Πλειάδων χειμῶνας indicherà piuttosto “le tempeste che le Pleiadi portano con sé in inverno”. Con le tempeste delle Pleiadi termina la serie di fenomeni astronomici e comincia una serie di fenomeni propriamente atmosferici (per quanto le due serie di fenomeni siano strettamente collegate: cf. 370c4–5, con il commento ad loc.). Tuttavia, non si può escludere completamente che il passo sia in qualche modo corrotto. È sospetto, infatti, che χειμῶνας sia usato nel senso di “tempesta” quando subito dopo si ha θέρος. Nessuna delle proposte finora avanzate per correggere il passo è decisiva (si prescinde dai molti temptamina anteriori all’edizione di Bekker): Matthiae (1835), 304 pensava di scrivere Πλειάδων χειμῶνας καὶ θέρη ἀνέμους τε καὶ καταφορὰς ὄμβρων; Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), x καὶ Πλειάδων χειμῶνος καὶ θέρους , ἀνεμους κτλ.; Hermann (1853), xiv trasponeva ἀνατολάς τε καὶ δύσεις dopo καὶ Πλειάδων e χειμῶνος καὶ θέρους tra τροπὰς διττάς e καὶ Πλειάδων (ma cf. già Wolf ap. Fischer (1786), 266); Immisch (1896) trasponeva ἀνατολάς τε καὶ δύσεις dopo Πλειάδων ed espungeva χειμῶνος καὶ θέρους; Wilamowitz (1895), 153–154 n. 2 trasponeva ἀνατολάς τε καὶ δύσεις e integrava ἐπισημασίας prima di χειμῶνος καὶ θέρους (ma cf. già Clericus (1711), 108–109); Brinkmann (1896), 453–454 espungeva καὶ Πλειάδων (questa soluzione è guardata con favore da Hershbell (1981), 64 n. 56). Potrebbe essere sufficiente espungere χειμῶνας καὶ θέρους sulla scorta di Immisch (1896): 1) χειμῶνος καὶ θέρους era glossa di τροπὰς διττάς; 2) la glossa χειμῶνος καὶ θέρους si è inserita nel testo dopo καὶ Πλειάδων; 3) χειμῶνος è divenuto χειμῶνας per attenuare la sequenza di genitivi Πλειάδων χειμῶνος καὶ θέρους facendo dipendere Πλειάδων da un accusativo. 370c3 πρηστήρων ἐξαισίους συρμούς: solitamente l’aggettivo ἐξαίσιος è inteso nel senso di “improvviso” (e.g. Hershbell (1981): «the sudden fur of hurricanes», Männlein-Robert (2012): «das plötzliche Aufziehen von Gewittern» e Menchelli (2016), 108: «l’improvvisa furia degli uragani»). A questo proposito cf. Lucr. V 216 (subiti … imbres), con Xen. Oec. 5, 18 (ὄμβροι ἐξαίσιοι). Tuttavia, sembra che il senso proprio di ἐξαίσιος sia “devastante” (cf. Blanc (2007), 18–29). In generale non è ben chiaro che cosa si intenda con il termine πρηστήρ: è prossimo al fulmine (cf. e.g. Hdt. VII 42, 2; Xen. Hell. I 3, 1), e allo stesso tempo se ne distingue (cf. Thphr. De igne 1); si è pensato di identificarlo con un “vento infuocato” (cf. Battegazzore (2006), 76 n. 115 e 77, con ulteriore bibliografia). Schol. [Plat] Ax. 370c Greene stabilisce una distinzione

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tra κεραυνός, πρηστήρ e τυφῶν che sembra risalire ad [Aristot.] Mund. 395a (su cui cf. Strohm (1970), 310–311 e Reale, Bos (19952), 294 n. 157), da cui riulta che il πρηστήρ è ἡμίπυρον, σφοδρόν e ἀθρόον. Nel passo dell’Assioco sono già stati menzionati i venti e le piogge: è verosimile che qui il πρηστήρ indichi semplicemente il “fulmine” e non un “uragano” o cose simili. Il termine συρμός è riferito a fenomeni atmosferici soprattutto in poesia (cf. AP. VII 8, 4 = Antip. Sid. 10, 4 Gow-Page; AP. VII 498, 4 = Antip. Sid. 54, 4): allude forse al movimento di un oggetto che lascia dietro di sé una scia (cf. LSJ s.v. σύρω). 370c3–4 καὶ τὰ τοῦ κόσμου παθήματα παραπήξασθαι: il riferimento è ai παραπήγματα, calendari astronomici e meteorologici in uso forse già nel V secolo, che stabilivano corrispondenze tra fenomeni celesti e fenomeni atmosferici (e.g. Gem. Isag. XVII 6; cf. inoltre Aujac (1975), 98 n. 1; Lehoux (2007), 18–19; Sider, Brunschön (2007), 9–10 e Menchelli (2016), 108 n. 59). In questo passo dell’Assioco si elenca prima una serie di fenomeni celesti e poi una serie di fenomeni atmosferici. Si potrebbe pensare che la seconda serie, quella dei fenomeni atmosferici, che incomincia con Πλειάδων χειμῶνας, dipenda non da ἰδεῖν come la serie dei fenomeni celesti, ma da παραπήξασθαι (“segnare nel calendario”). Tuttavia, in questo caso forse ci si sarebbe aspettati qualcosa come καὶ τὰ ἄλλα τοῦ κόσμου παθήματα. Inoltre, la costruzione dei παραπήγματα implica propriamente l’osservazione di entrambi i fenomeni, sia di quelli celesti sia di quelli atmosferici (cf. Gem. Isag. XVII 6; cf. inoltre Lehoux (2007), 55–69). 370c4 πρὸς τὸν αἰῶνα: l’espressione (“per l’eternità”) ricorre a partire dall’età ellenistica (cf. e.g. Demetr. Lac. Περὶ τῆς θεοῦ μορφῆς 1, col. VIII, l. 2 Santoro; Diod. III 56, 5 (= Dion. Scyt. FGrHist. 32 F 7); [Longin.] Subl. 4, 7; cf. inoltre Degani (1961), 70). Secondo Mondolfo (1958), 667: «L’umanità -secondo lo pseudo Platone – nel suo lavoro incessante vuole creare per l’eternità il suo mondo della cultura ma nella dottrina platonica autentica e integrale questa esigenza dello spirito si trova di fronte alla mutabilità della materia, fonte di disordine e di morte, non solo per il corpo individuale, ma anche per la creazione collettiva della cultura, periodicamente interrotta e cancellata dalle grandi catastrofi cosmiche». Tuttavia, qui πρὸς τὸν αἰῶνα è un’esagerazione retorica: dalla continuazione del passo (così come da altre sezioni del dialogo), infatti, non emerge una fede nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. 370c5 τι θεῖον ὄντως ἐνῆν πνεῦμα τῇ ψυχῇ: con l’espressione τι θεῖον … πνεῦμα Socrate cerca di indicare la natura di una serie di fenomeni, quelli legati alla vita intellettuale dell’uomo, che, come suggerisce l’indefinito τι, non si riescono a spiegare compiutamente: cf. e.g. Cic. Arch. 18, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu (ma cf.

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anche Cic. Tusc. I 25, 63 dove si parla di divinum ingenium a proposito dell’invenzione della sfera celeste da parte di Archimede). Per la difficoltà di spiegare questi fenomeni in termini “fisico-naturali” li si connette ad una dimensione soprannaturale. Per un atteggiamento simile cf. e.g. Cic. Tusc. I 25, 60, non est certe nec cordis nec sanguinis nec cerebri nec atomorum; animae sit ignisne, nescio, nec me pudet, ut istos, fateri nescire, quod nesciam: illud, si ulla alia de re obscura adfirmare possem, sive anima sive ignis sit animus, eum iurarem esse divinum. Per il dibattito intorno a questa espressione dell’Assioco cf. Brinkmann (1896), 448; Chevalier (1915), 57–58; Meister (1915), 91–92; Souilhé (1930), 146–147 n. 2; Alfonsi (1950), 257–258 e Männlein-Robert (2012), 80–81 n. 93 370d2–3 μονωθεὶς ἐκ τῆσδε τῆς εἱρκτῆς: solitamente il verbo μονόω nel senso di “separare da” è costruito con il genitivo semplice (cf. LSJ s.v. II.2). Il termine εἱρκτή riprende il tema della “gabbia”, della “prigione”, introdotto in precedenza (cf. 365e6–366a1, con il commento ad loc.); εἱρκτή è equivalente a εἱργμός, impiegato sempre per indicare il corpo in rapporto all’anima in Plat. Phaed. 82e. Per un analogo uso di εἱρκτή cf. e.g. Phil. Somn. I 139; Her. 68 e 273 (per la possibile dipendenza di Filone dall’Assioco cf. supra p. 134 e n. 368). 370d3 γαληνός: il termine, spesso utilizzato per indicare la tranquillità dell’animo, è originariamente collegato al mare calmo (cf. LSJ s.v., per l’accostamento tra tranquillità dell’animo e tranquillità del mare cf. inoltre Cic. Tusc. V 6, 16, ut maris igitur tranquillitas intellegitur nulla ne minima quidem aura fluctus commovente, sic animi quietus et placatus status cernitur, cum perturbatio nulla est, qua moveri queat). L’uso di γαληνός e di termini affini in riferimento alla condizione interiore è particolarmente diffuso nell’epicureismo (cf. Usener (1977), 150–152), ma potebbe risalire almeno a Democrito (cf. Diog. Laert. IX 45, cf. anche 68 B 3–4 DK). 370d4 κακῶν ἄγονος: A e Par hanno ἄπονος, Vv e i discendenti di O hanno ἄγονος. Quest’ultima lezione è testimoniata anche dall’encomio di san Demetrio del diacono e referendario Gregorio (su cui cf. supra pp. 137-139). Inoltre, l’espressione κακῶν ἄγονος è impiegata da Meth. Symp. 8, 12, oὐκοῦν δεῦρο εἰς τὴν ἔρημον ἐλθοῦσα ταύτην καὶ ἄγονον κακῶν, καθὼς καὶ πρόσθεν εἰρήκαμεν (ma cf. anche 8, 11, ἡ κακῶν ἔρημος ἀληθῶς καὶ ἄγονος καὶ στεῖρα φθορᾶς). Considerate la rarità di questa iunctura e la conoscenza dell’Assioco da parte di Metodio (cf. supra pp. 134-135), non si può escludere che già quest’ultimo leggesse ἄγονος. Diversamente da ἄπονος, non è raro trovare ἄγονος costruito con il genitivo di privazione (cf. e.g. Plat. Theaet. 150c, 157c; Menex. 237d, in generale cf. LSJ s.v. ἄγονος II.2). La lezione ἄπονος si sarà prodotta per attrazione dell’ἄπονα di poco

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precedente (370d3), complice lo scambio Γ/Π (già rilevato da Fischer (1786), 158). Non convincono le correzioni ἄγευστος (Matthiae (1835), 305) e ἄλυπος (Winckelmann ap. Baiter, Orelli, Winckelmann (1841), x-xi). 370d4 ἀσαλεύτῳ ἡσυχίᾳ: l’uso metaforico del termine ἀσάλευτος (“privo di oscillazioni”), già in Eur. Bacch. 391, è particolarmente diffuso nella letteratura di età imperiale (e.g. Plut. Demetr. 8, 3; Non posse 1089e; cf. anche Chevalier (1915), 58). 370d4–5 εὐδιαζόμενος: in genere εὐδιάζω è utilizzato all’attivo con senso passivo (“essere calmo”). Si tratta dell’unica occorrenza al medio (cf. anche Chevalier (1915), 58). Come γαληνός, il verbo εὐδιάζω rimanda alla calma degli elementi naturali (in genere agenti atmosferici: cf. e.g. LSJ s.v. εὔδιος). Per accostamenti simili indicanti la calma interiore: cf. e.g. Phil. Abr. 207, εὐδιάσαι καὶ γαληνιάσαι ποτὲ τὴν ψυχήν, Conf. 43, εὔδιον καὶ γαληνὸν βίον ζῶσιν, Her. 285, γαληνὸν καὶ εὔδιον κτησάμενος βίον. L’espressione ἀσαλεύτῳ ἡσυχίᾳ εὐδιαζόμενος è piuttosto ridondante (cf. anche 368e2, con il commento ad loc.). 370d5 περιαθρῶν τὴν φύσιν: il verbo περιαθρέω non è attestato prima di Filone Alessandrino (cf. e.g. Phil. Spec. IV 175). 370d5–6 φιλοσοφῶν οὐ πρὸς ὄχλον καὶ θέατρον, ἀλλὰ πρὸς ἀμφιθαλῆ τὴν ἀλήθειαν: per Hershbell (1981) la verità è personificata come nel poema di Parmenide (28 B 1 DK, 10–11; ma cf. già Meister (1915), 80, ripreso con interesse da Männlein-Robert (2012), 82 n. 97). Tuttavia, il senso di φιλοσοφεῖν + πρός e accusativo è quello di “filosofare in vista di qualcosa”, non di “filosofare di fronte a qualcuno” cf. Phil. Det. 7 (= Chrysipp. fr. 33, SVF III 10), πρὸς γὰρ πολιτείαν μᾶλλον ἢ πρὸς ἀλήθειαν φιλοσοφῶν. Per il nesso πρὸς ὄχλον καὶ θέατρον cf. Plut. Max. cum princ. 777f, τὴν μὲν ἐν ὄχλοις καὶ θεάτροις πάνδημον καὶ ἀναπεπταμένην δόξαν. Per Grilli (1953), 167 «ciò che ispira tutti i filoni filosofici [scil. dell’età ellenistica] e fa sorgere imperioso il bisogno di una vita contemplativa negli insegnamenti di Epicuro, come in quelli di Pirrone o di Ieronimo di Rodi, di Critolao, di Crantore, non ultimi quelli di Panezio, non è una necessità speculativa …, ma il senso vivo del bisogno d’un rifugio fuori delle tempeste della vita». Per le tracce di questa inquietudine esistenziale nell’Assioco cf. Grilli (1953), 191–192 e 192 n. 1. 370d6 θέατρον: il termine non indica lo spettacolo (così e.g. Chevalier (1915), 58–59), ma la folla che si assiepa a teatro (cf. e.g. Aristoph. Eq. 233; Plat. Symp. 194b; Epic. fr. 120 Arrighetti = Sen. Ep. 7, 11). Di fatto, dunque, qui θέατρον è un sinonimo di ὄχλος, di cui riprende anche la connotazione negativa (su cui cf. 368d2, con il commento ad loc.). 370d6 ἀμφιθαλῆ: l’aggettivo ἀμφιθαλής è di significato controverso: cf. Garvie (1986), 149 (ad Aeschl. Ch. 394); Dunbar (1995), 759–760 (ad Ari-

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stoph. Av. 1737) e Untersteiner (2002), 288–289 (ad Aeschl. Ch. 394). In questo caso, sembra significare “completo”, “puro”. Secondo Wilamowitz (1896), 198–199 sarebbe stato meglio εἰλικρινῆ. Forse qui ἀμφιθαλής (lett. “che fiorisce da entrambe le parti”) equivale ad ἀειθαλής (cf. LSJ s.v. “sempreverde”, “perenne”, “immutabile”). 370d7 εἰς τοὐναντίον με τῷ λόγῳ περιέστακας: A presenta περιέστακας, Vv hanno περιέστησας. Il perfetto di un composto di ἵστημι con valore transitivo non è classico (cf. e.g. Hyp. Or. 3 (Pro Euxenippo), col. XXXVIII, ll. 23-25 Jensen, τίνας οὖν κέκρικα καὶ εἰς ἀγῶνα καθέστακα, cf. inoltre Brinkmann (1896), 452 e Meister (1915), 30). Per un uso simile di περιίστημι (ma con diversa costruzione) cf. Plat. Rp. I 343a, ὁ τοῦ δικαίου λόγος εἰς τοὐναντίον περιειστήκει. La lezione περιέστησας di Vv è banalizzante. Non convince la correzione περιέσπακα (Wilamowitz (1895), 983 n. 3, il quale chiaramente intendeva scrivere περιέσπακας). 370e1–2 -ἵνα τι κἀγὼ μιμησάμενος τοὺς ῥήτορας περιττὸν εἴπω{καὶ}: il riferimento sembra essere alla battuta di Socrate di 366b5-c8. Come Socrate diceva di riprendere le straordinarie (περιττά) dottrine sull’immortalità dell’anima da Prodico, così Assioco dice di imitare i retori. Inoltre, il tono da “cupio dissolvi” di queste parole di Assioco ricorda le parole con cui si chiudeva quella battuta di Socrate (τοσάδε τοῦ ζῆν κατεῖπεν ὥστε ἔγωγε μὲν παρ’ ἀκαρῆ διέγραψα τὸν βίον καὶ ἐξ ἐκείνου θανατᾷ μου ἡ ψυχή). Se si conserva il καί nella posizione in cui lo restituisce la tradizione medievale, la frase ἵνα … εἴπω si riferisce a ciò che precede, ossia οὐκέτι γάρ μοι θανάτου δέος ἔνεστιν ἀλλ’ ἤδη καὶ πόθος. Tuttavia, ciò che ci si aspetta è che questa frase si riferisca a quanto segue (πάλαι μετεωροπολῶ καὶ δίειμι τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον): qui Assioco cerca di rendere con un’immagine sublime la persuasione prodotta in lui dalle parole di Socrate (cf. Wolf ap. Fischer (1786), 270, Brinkmann (1896), 455 n. 1). A ciò ben si addice l’aggettivo περιττόν. Aveva ragione Wolf (ap. Fischer (1786), 270) a trasporre il καί davanti a ἵνα. La stessa soluzione è stata proposta in apparato anche da Ast (1827). Per un inciso analogo cf. e.g. Anon. De scientia politica dial. 209–210, εὖ γὰρ ὀνομάζει Κικέρων Σωκράτη ἀρχηγὸν καί, ἵνα ἑκὼν ῥωμαΐσω καὶ αὐτός, πρίγκιπα τῆς ὅλης καὶ ἀληθοῦς φιλοσοφίας ἀποκαλῶν. Per un errore analogo cf. e.g. Xen. Cyr. IV 5, 4 (ed. Bizos), οἱ μὲν δὴ Μῆδοι καὶ οἱ ἀμφὶ Τιγράνην ἐλοῦντο, , ἦν γὰρ παρεσκευασμένα, {καὶ} ἱμάτια μεταλαβόντες ἐδείπνουν (la correzione si deve al Poppo). 370e2 πάλαι: l’avverbio πάλαι con l’indicativo presente esprime un’azione incominciata nel passato che continua o ha conseguenze nel presente (cf. e.g. Plat. Phaed. 63d, τί δέ, ὦ Σώκρατες, ἔφη ὁ Κρίτων, ἄλλο γε ἢ πάλαι μοι λέγει ὁ μέλλων σοι δώσειν τὸ φάρμακον, 84d, πάλαι γὰρ ἡμῶν ἑκάτερος ἀπορῶν τὸν ἕτερον προωθεῖ καὶ κελεύει ἐρέσθαι, Gorg. 489c, οὐ πάλαι σοι

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λέγω ὅτι ταὐτόν φημι εἶναι τὸ βέλτιον καὶ τὸ κρεῖττον, cf. inoltre Burnet (1911), 63 (ad Phaed. 63d4); Hershbell (1981), 65 n. 58 e KC I 609–610). Non si tratta necessariamente di una lunga durata. Verosimilmente, l’avverbio allude al momento in cui Socrate ha cominciato a parlare dell’immortalità dell’anima, cioè da 365e2–366b1 (“è da un po’ che [sentendoti parlare] etc.”): cf. anche supra pp. 55-56. 370e3 μετεωροπολῶ: la tradizione medievale ha μετεωρολογῶ, accolto da tutti i precedenti editori. Il verbo μετεωρολογέω e i connessi sostantivi μετεωρολόγος e μετεωρολογία sono impiegati o in senso tecnico per designare lo studio dei fenomeni celesti (e.g. Gorg. Hel. 13; Plat. Crat. 396c; 404c; Aristot. Meteor. 354a29; Luc. 38 (Nec.), 21) o in senso più lato per indicare un’indagine astratta, sottile, lontana dal senso comune (e.g. Plat. Crat. 401b; Pol. 299b; Phaedr. 270a). In entrambi i casi, spesso questi termini sono connotati negativamente, ad indicare una perdita di tempo in speculazioni astratte e inutili (cf. de Vries (1969), 233 e Männlein-Robert (2012), 82 n. 99). Tuttavia, in questo contesto μετεωρολογῶ non è del tutto perspicuo. Pace Männlein-Robert (2012), 82 n. 9, occorre accogliere la correzione μετεωροπολῶ proposta da Brinkmann (1896), 454–455 (cf. anche Hershbell (1981), 65 n. 58; le ipotesi alternative avanzate da Hershbell per giustificare μετεωρολογῶ non convincono). Il verbo μετεωροπολέω è spesso detto dell’anima o della mente che si staccano dalle occupazioni terrene per rivolgersi alle realtà celesti (cf. e.g. Phil. Leg. III 71 e 84; Det. 27; Mos. I 190). Con μετεωροπολῶ, inoltre, si ottiene un’immagine perfettamente coerente con il successivo δίειμι τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον. Infine, nel complesso il passo sembra presupporre Plat. Phaedr. 246b-c, ψυχὴ πᾶσα παντὸς ἐπιμελεῖται τοῦ ἀψύχου, πάντα δὲ οὐρανὸν περιπολεῖ, ἄλλοτ’ ἐν ἄλλοις εἴδεσι γιγνομένη. τελέα μὲν οὖν οὖσα καὶ ἐπτερωμένη μετεωροπορεῖ τε καὶ πάντα τὸν κόσμον διοικεῖ (qui il POxy. 1017, del II-III d.C., e parte della tradizione indiretta, recano la variante μετεωροπολεῖ, che, tuttavia, è deteriore: cf. de Vries (1969), 128). All’origine dell’errore c’è lo scambio Π/Γ (cf. e.g. Phil. Det. 27 (ed. Cohn), μετεωροπολεῖν U : μετεωροπορεῖν H : μετεωρολογεῖν F : μετεωροποιεῖν (λογεῖν s.v.) L). Non sembra che qua ci sia uno «Stoics’ interest in astronomy and meteorology» (Heidel (1896), 18 n. 9, cf. anche Chevalier (1915), 59). Più interessante l’osservazione di Hershbell (1981), 65 n. 58: «is it perhaps even a quotation from an unknown source?». 370e3 τὸν ἀίδιον καὶ θεῖον δρόμον: con il termine δρόμος si allude al movimento degli astri (cf. 370b5–6, ἀναβλέψαι δὲ εἰς τὸν οὐρανὸν καὶ ἰδεῖν περιφορὰς ἄστρων καὶ δρόμους, cf. anche 366a6–8, ἡ ψυχὴ συναλγοῦσα τὸν

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Commento

οὐράνιον ποθεῖ καὶ σύμφυλον αἰθέρα καὶ διψᾷ τῆς ἐκεῖσε διαίτης καὶ χορείας ὀριγνωμένη, con il commento ad loc.). 370e3–4 ἔκ τε τῆς ἀσθενείας ἐμαυτὸν συνείλεγμαι: la costruzione del perfetto medio con il pronome riflessivo non è classica: cf. anche Meister (1915). A 365a2 è impiegato il participio perfetto medio senza pronome riflessivo (le due espressioni presentano anche altre analogie: cf. il commento ad loc.). Non si può escludere che ἐμαυτόν sia stato interpolato. 370e4 καὶ γέγονα καινός: l’espressione indica un rinnovamento spirituale (cf. Chevalier (1915), 59–60; Hershbell (1981), 5; Joyal (2005), 107 e n. 33 e Männlein-Robert (2012), 83 n. 101). Essa è stata messa in relazione con culti orfici e misterici (Chevalier (1915), 60). Il confronto più prossimo sembra essere quello con NT 2 Cor. 5, 17, ὥστε εἴ τις ἐν Χριστῷ, καινὴ κτίσις· τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν καινά.

Il mito di Gobria (371a1–372a3) 371a1–2 Eἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον … ὃς ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν κτλ.: A presenta εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον, ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης, ἀνὴρ μάγοςˑ ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν κτλ. Vv, invece, hanno εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον ἀκοῦσαι, ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης, ἀνὴρ μάγοςˑ ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν κτλ. Lo Stobeo, infine, ha εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον ἀκοῦσαι, ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης, ἀνὴρ μάγος ὃς ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν κτλ. L’unico ad aver preferito l’ἀκοῦσαι di Vv e dello Stobeo è stato Post (1934), 64. Tuttavia, βούλομαι può reggere l’accusativo senza l’infinito (cf. e.g. Xen. Hier. 1, 11, in generale cf. LSJ. s.v. βούλομαι: «in Prose: when βούλομαι is folld. by acc. only, an inf. may generally be supplied»). L’ ἀκοῦσαι di Vv e dello Stobeo ha tutta l’aria di essere un’aggiunta, tanto più che non è evidente la ragione per cui ἀκοῦσαι sarebbe stato omesso. La coincidenza tra Vv e lo Stobeo può derivare da contaminazione extrastemmatica (così pensava Immisch (1896), 81) o essere una congettura poligenetica. Tuttavia, non si può escludere un’altra soluzione. La sintassi del passo è ellittica: la proposizione condizionale εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον, ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης ἀνὴρ μάγος si appoggia al successivo ἔφη, ma è priva di una apodosi strettamente conseguente alla condizione che esprime. Non si tratta di un problema in assoluto (cf. e.g. KG II.2, 484–485 e Wakker (1994), 247). Tuttavia, nell’Assioco non si trovano altre costruzioni ellittiche di questo tipo. Da questa difficoltà si potrebbe uscire pensando che l’ἀκοῦσαι di Vv e dello Stobeo non sia un’aggiunta, ma una corruttela di ἄκουσον. Scrivendo εἰ δὲ καὶ ἕτερον βούλει λόγον,

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ἄκουσον ὃν ἐμοὶ ἤγγειλε Γωβρύης ἀνὴρ μάγος, viene meno il problema dell’assenza dell’apodosi. Il passaggio da ἄκουσον a ἀκοῦσαι era favorito da βούλει, mentre la caduta di ἄκουσον nel resto della tradizione era favorita dall’omeoteleuto con il precedente λόγον (per un errore del genere cf. 371a4). Tuttavia, introducendo ἄκουσον occorre un connettore tra questo periodo e quello successivo. Si potrebbe pensare con Matthiae (1835), 305 a ἔφη κατὰ τὴν Ξέρξου διάβασιν κτλ. (cf. e.g. Xen. Mem. II 1, 21; Mem. II 6, 36; cf. anche 366d1–2, φράσαιμι ἄν σοι ταῦτα ἃν μνημονεύσω. ἔφη γὰρˑ τί μέρος κτλ.). Tuttavia, è più semplice rivalutare la lezione dello Stobeo che presenta il nesso relativo ὅς prima di ἔφη (cf. anche Burges (1854), 52 n. 8, il quale però non introduce l’imperativo). Questo ὅς può essere caduto nella tradizione medievale per aplografia con il precedente ἀνὴρ μάγος: per un errore del genere cf. e.g. Diog. Laert. II 2 (ed. Dorandi), τῶν δὲ ἀρεσκόντων αὐτῷ [scil. Anassimandro] πεποίηται κεφαλαιώδη τὴν ἔκθεσιν, ᾗ που περιέτυχεν καὶ Ἀπολλόδωρος ὁ Ἀθηναῖος· ὃς (om. P1, suppl. P4) καί φησιν κτλ. La problematicità della sintassi di questo passo era già stata avvertita da Ficino («Referam praeterea tibi si placet, quae Gobrias magus mihi tradidit. Inquit enim …») e da Agricola («Si vis autem aliam etiam orationem cape quam retulit mihi Gobrias magus. Is dicebat …»). 371a2 Γωβρύης, ἀνὴρ μάγος: in Diog. Laert. I 2 Gobria è uno dei nomi dei magi persiani che si succedettero fino all’età di Alessandro. È da escludere che Diogene Laerzio abbia presente l’Assioco (eccessiva è la cautela di Männlein-Robert (2012), 84–85 n. 103). È invece possibile che l’Assioco e Diogene Laerzio abbiano tenuto presente una fonte comune (cf. Swoboda (1912), 1551). Per i legami, veri o presunti, tra il platonismo di età ellenistica e la cultura persiana cf. Momigliano (1975), 142–144. Il mago Gobria ha la funzione di intermediario tra il nonno omonimo e Socrate: per ragioni anagrafiche Socrate non poteva essere messo in contatto direttamente con il vecchio generale Gobria. 371a2–3 τὸν πάππον αὑτοῦ καὶ ὁμώνυμον: per espressioni analoghe cf. Plat. Rp. I 330b e Parm. 126c. Un generale di Serse di nome Gobria è ricordato da Hdt. VII 72, 2. Invece, non hanno a che fare con i due Gobria (nonno e nipote) dell’Assioco il generale Gobria vissuto al tempo di Ciro (cf. Hdt. III 70), il Gobria principe assiro della Ciropedia (e.g. IV 6; V 1, 22; V 2) e il Gobria vissuto al tempo della battaglia di Cunassa (cf. Xen. An. I 7, 12). 371a3–4 πεμφθέντα εἰς Δῆλον … οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο: l’aggettivo ἄσυλον, restituito dallo Stobeo, è caduto nella tradizione medievale per omeoteleuto con il precedente νῆσον. Per l’espressione τηρεῖν τι ἄσυλον cf.

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e.g. Diod. XI 89, 6, ἔστι δὲ τοῦτο τὸ τέμενος ἔκ τινων χρόνων ἄσυλον τετηρημένον. Νon si ha altra notizia di questa missione sull’isola di Delo affidata a Gobria al tempo della seconda guerra persiana. Si può pensare che questo episodio sia stato esemplato sull’arrivo del generale Dati a Delo durante la prima guerra persiana (Hdt. VI 97, cf. già Gutschmid (1860), 355). Dopo la presa di Nasso da parte della flotta persiana i Deli si rifugiarono a Teno, ma il generale Dati li rassicurò dicendo che sia lui sia il Gran Re avrebbero rispettato la sacralità della loro isola (ἐγὼ γὰρ καὶ αὐτὸς ἐπὶ τοσοῦτό γε φρονέω καί μοι ἐκ βασιλέος ὧδε ἐπέσταλται, ἐν τῇ χώρῃ οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο, ταύτην μηδὲν σίνεσθαι, μήτε αὐτὴν τὴν χώρην μήτε τοὺς οἰκήτορας αὐτῆς). L’autore dell’Assioco potrebbe essersi ispirato a questo atto di pietà di Dario e Dati e averlo “replicato” durante la seconda guerra persiana, inventando l’episodio della missione di Gobria voluta da Serse proprio per proteggere l’isola (ὅπως τηρήσειε τὴν νῆσον ἄσυλον). Un indizio in questo senso si può vedere nel fatto che entrambi gli autori utilizzano la medesima espressione per qualificare l’isola di Delo (ἐν τῇ χώρῃ οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο vs. ἐν ᾗ οἱ δύο θεοὶ ἐγένοντο). Tuttavia, non si può escludere del tutto che l’autore dell’Assioco disponesse di informazioni sulla seconda guerra persiana contenute in opere ora perdute (basta pensare a Ctesia o a Dinone). 371a4–6 ἔκ τινων χαλκέων δέλτων … ἐκμεμαθηκέναι: non convince l’ipotesi di Maass (1892), 127–128 n. 23, secondo cui questo passo dell’Assioco sarebbe ispirato all’opera di Evemero di Messene dove si parlava di un’iscrizione rinvenuta sull’immaginaria isola di Panchaia (cf. Diod. V 46, 7 = T 37 Winiarczyk, cf. anche Immisch (1896), 11). Il motivo della scoperta di un antico documento è una vera e propria moda in età ellenistica ed imperiale (cf. Winiarczyk (2013), 94; un elenco di casi in Speyer (1970), 77–80 e 110–124). A proposito di questi espedienti letterari si parla ora di “pseudo-documentarism” (cf. Hansen (2003), 301– 314; Prosperi (2013), 153–156 e Fowler (2013), 624 n. 7; caso emblematico è quello dell’Ephemeris belli Troiani di Ditti Cretese). Questa operazione non è molto diversa dalla produzione di veri e propri documenti falsi (su cui cf. e.g. Möller (2003), 113–123). L’obiettivo è quello di rendere più autorevole una testimonianza (cf. già Cumont (1920), 273–274: «La prétendue découverte dans un temple de vieilles tables de bronze ou de pierre fut souvent alléguée comme une garantie d’authenticité par les faussaires de l’époque hellénistique», cf. anche p. 274 n. 1). Per Maass (1892), 127–128 n. 23 è inverosimile che si dovesse aspettare il persiano Gobria per conoscere il contenuto di tavolette a lungo leggibili per i Greci (un’obiezione analoga rivolgeva Plutarco ad Evemero: cf. Plut. Isid. 360b = T 15 Winiarczyk).

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371a5 ἃς ἐξ Ὑπερβορέων ἐκόμισαν: gli Iperborei sono un popolo mitico collocato dagli antichi in diverse regioni inesplorate della terra, prevalentemente (ma non solo) a Nord (cf. Daebritz (1914), 258–279; Corcella (1993), 258–259 e Bridgman (2005), passim). Essi sono associati ad una vita priva di sofferenze (cf. e.g. Pind. P. 10, 30–44; in genere sono rappresentati come μακρόβιοι, ma non come immortali: cf. Angeli Bernardini ap. Gentili (1995), 636–637). Tra il IV e il III secolo Ecateo di Abdera dedicò un’intera opera agli Iperborei (cf. FGrHist 264 F T 6 a, b). Secondo Hdt. IV 33–35 gli Iperborei inviavano regolarmente delle offerte a Delo come atto di ringraziamento per il parto di Latona da cui nacquero Apollo e Artemide. In Callim. Aet. fr. 186 Pfeiffer (= 97 Massimilla = 186 Harder) sono menzionati i figli di Latona e i figli degli Iperborei e si parla di un tributo annuale. Ciò è messo in relazione con le offerte inviate regolarmente dagli Iperborei a Delo di cui parla Erodoto (cf. Pfeiffer (1949– 1953), I 156; Massimilla (1996), 418; D’Alessio (1996), II 562 n. 27 e Harder (2012), II 990). Nel frammento callimacheo si parla anche di δῖα πέτευρα (“tavolette divine”; sul significato del termine πέτευρον cf. Pfeiffer (1949– 1953), I 156; Massimilla (1996), 421 e Harder (2012), II 994). Secondo Pfeiffer (1949–1953), I 156 esisteva una «vetus traditio Deliaca» cui facevano riferimento Callimaco e l’autore dell’Assioco. Tuttavia, solo nell’Assioco, per quel che si può vedere, le tavolette degli Iperborei sono messe in relazione con un mito dell’Aldilà. Non è chiaro se ciò sia un’invenzione dell’autore o egli dipenda da qualche fonte (cf. anche Guthrie (1978), 396). Secondo Bridgman (2005), 81, «a judgment between heaven and hell was never part of the Hyperborean myth». Per alcuni interpreti la connessione tra gli Iperborei e il mito del giudizio delle anime nell’Aldilà era suggerita dall’analogia tra la mitica vita felice degli Iperborei e la sorte dei beati nell’Aldilà (cf. e.g. Chevalier (1915), 87; Bridgman (2005), 81 e MännleinRobert (2012), 85 n. 107). Tuttavia, non si può escludere che la connessione fosse piuttosto fondata sul fatto che la rivelazione delle sorti dell’anima nell’Aldilà e la speranza di una vita beata liberano l’uomo dalla paura della morte: il popolo felice per eccellenza è rappresentato come depositario di una conoscenza in grado di ridurre l’umana infelicità. 371a5–6 Ὦπίς τε καὶ Ἑκάεργος: A presenta Ἑκάεργε, mentre Vv e lo Stobeo hanno Ἑκάεργος. La forma Ἑκαέργη, stampata da Burnet (19132) e da Souilhé (1930), è frutto di una correzione di Matthiae (1835), 305, fatta sulla base di Callim. HDel. 292 (su cui cf. Gigante Lanzara (1990), 166–167; cf. inoltre Paus. V 7, 8 con Maddoli, Saladino (1995), 217–219, e Hdt. IV 35 con Corcella (1993), 261). Ἑκάεργος è frequente epiteto di Apollo (cf. e.g. Hom. Il. V 439; Od. VIII 323), ed è talvolta utilizzato come sostantivo (e.g. Hom. Il. I 147).

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Commento

Erodoto riferisce che queste due fanciulle giunsero a Delo dalla terra degli Iperborei al seguito di Latona ed Ilizia (con la variante del nome Ἄργη). Servio (in Aen. XI 532) afferma che Opis ed Hecaerge portarono sull’isola di Delo sacra occultata in fascibus mergitum. Subito dopo, però, riferisce una variante del mito secondo cui Opis ed Hecaergos sarebbero stati nutritores di Diana e di Apollo, da cui gli epiteti di Opis per Diana e di Hecaergos per Apollo (cf. anche In Aen. XI 858). È possibile che l’autore dell’Assioco abbia tenuto presente una versione del mito analoga a quella che si legge in Servio, e che, dunque, abbia impiegato il nome Ἑκάεργος testimoniato da Vv e dallo Stobeo (cf. anche Chevalier (1915), 86 e n. 1; Immisch (1896) e Jessen (1912), 2665). L’Ἑκάεργε che si legge su A può essere corruttela di Ἑκάεργος non meno di quanto lo sia di Ἑκαέργη. 371a7 εἰς τὸν ἄδηλον χωρεῖν τόπον: è topica la rappresentazione dell’Aldilà come luogo invisibile: basta pensare all’interpretazione del nome di Ἅιδης come ἀιδής, “invisibile” (cf. e.g. Plat. Phaed. 80d; cf. inoltre Cumont (1920), 271 n. 2 e 275; Cumont (1942), 39 n. 1 e 48 n. 7 e Hershbell (1981), 66 n. 62). 371a7–8 κατὰ τὴν ὑπόγειον οἴκησιν: curiosa è la variante κίνησιν di Par, che implica un riferimento al movimento con cui le anime si recano nell’emisfero meridionale (cf. e.g. [Plut.] Plac. 879f). Tuttavia, la lezione οἴκησις è richiesta dal contesto. Qui il termine οἴκησις indica una regione della terra più che un’abitazione (LSJ s.v. III, “inhabited portion of the globe” cf. e.g. Aristot. Meteor. 363a3). In questo modello dell’Aldilà «la demeure souterraine (ἡ ὑπόγειος οἴκησις) de Pluton n’est donc point située dans une grande caverne où l’on descend par les fissures du sol, mais au-dessous de notre terre» (Cumont (1920), 275, cf. anche Cumont (1942), 38). Per κατά + accusativo cf. anche 364a1–2, κατὰ τὸν Ἰλισόν. 371b1–4 ἅτε τῆς μὲν γῆς ἐχούσης … οἱ δὲ ἀδελφῶν παῖδες: per la collocazione dell’Aldilà nell’emisfero inferiore del cosmo cf. e.g. Verg. G. I 242– 243 (cf. inoltre Kerényi (1931), 440; Cumont (1942), 54; Setaioli (1985), 954 e Cumont (2009), 234). Questa rappresentazione cosmico-escatologica è ricondotta ad una tradizione pitagorica da Lact. Plac. in Theb. IV 526-527, Pythagoras dicit duo esse hemisphaeria, quibus proprios deos adsignat, et facit superioris regem Iovem et reginam Iunonem, inferioris Ditem Iovem esse infernum, Proserpinam vero Iunonem infernam et duas Veneres: unam supernam et alteram Libitinam. Et alios deos binos constituit: Hecaten, sicuti Ditem Iovem, ita et hanc Stygiam Iunonem, ut Vergilius (Aen. VI 138): Iunoni infernae dictus sacer. Il modello cosmico-escatologico dell’Assioco consiste in un adattamento della rappresentazione tradizionale dell’Aldilà sotterraneo a nuove concezioni sulla struttura del cosmo (cf. Kerényi (1931), 439–441; Cumont

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(1942), 43–47 e 63; Nilsson (19884), II 228–229; Setaioli (1985), 954; Cumont (2009), 229–231 e Männlein-Robert (2012), 20–21). 371b1–2 τοῦ δὲ πόλου ὄντος σφαιροειδοῦς: Platone usa πόλος nel senso di “asse celeste” (cf. Plat. Tim. 40c). Tuttavia, qui πόλος significa “sfera celeste”. Non c’è motivo di vedere in quest’uso un’influenza stoica, come pensava Maass (1892), 127–128 n. 23 (cf. anche Immisch (1896), 11): il termine πόλος nel senso di “sfera celeste” si trova già nella poesia del V secolo (cf. e.g. Aeschl. Pr. 429; Eur. Or. 1685; Ion 1154; Aristoph. Av. 179). Non convince la correzione τοῦ δ’ ὅλου di Feddersen (1895), 6 n. 1. 371b2–3 τὸ μὲν ἕτερον … οἱ ὑπένερθεν: il passo presuppone la spartizione del mondo per sorteggio tra Zeus, Poseidone e Ade (cf. e.g. Hom. Il. XV 189–193, su cui cf. Janko (1992), 247; Plat. Gorg. 523a; [Apollod.] Bibl. I 7). L’idea del sorteggio si ricava dal verbo λαγχάνω (cf. LSJ s.v. I.1) impiegato anche nel passo omerico (cf. anche Hershbell (1981), 66–67 n. 64). 371b3–4 οἱ μὲν ἀδελφοὶ ὄντες, οἱ δὲ ἀδελφῶν παῖδες: il senso più ovvio di questa indicazione è che gli dèi celesti sono tra di loro fratelli, mentre le divinità infere sono i figli di questi fratelli (cf. e.g. Männlein-Robert (2012), 86 n. 111). È naturale, infatti, collegare οἱ μέν a οἱ οὐράνιοι, e oἱ δέ a οἱ ὑπένερθεν. Tuttavia, è decisamente insolita una simile divisione generazionale tra le divinità che occupano rispettivamente la regione celeste e quella infera. È pur vero che Minosse e Radamanto, menzionati in seguito, sono in genere considerati figli di Zeus e, dunque, possono essere inseriti nella categoria dei “figli dei fratelli”. Tuttavia, la tradizionale divisione del cosmo per sorteggio avviene tra dèi che sono tra di loro fratelli: ad uno di essi, Ade, spetta il regno degli Inferi (cf. il lemma precedente). Il sospetto, dunque, è che con questa indicazione si voglia dire che alcuni degli dèi, siano essi superi o inferi, sono tra di loro fratelli, altri figli di questi fratelli (cf. anche Hershbell (1981), 66 n. 64). In ogni caso, questa puntualizzazione resta curiosa e non si capisce bene perché sia stata fatta. Forse l’autore aveva in mente una fonte precisa che non è più possibile identificare. 371b4–5 τὰ δὲ προπύλαια τῆς εἰς Πλούτωνος ὁδοῦ: bisogna immaginare una cerchia di mura di cui questi προπύλαια sono l’ingresso, varcato il quale le anime si possono incamminare verso la vera e propria dimora di Plutone. 371b4 τὰ δὲ πρoπύλαια: A presenta πρόπολα, Par ha πρόπυλα, Vv e i discendenti di O hanno πρόθυρα, lezione introdotta mediante correzione supra lineam anche da A2 e da Par. Lo Stobeo ha invece προπύλαια. Quando si parla delle porte dell’Ade si usa solitamente πύλαι (cf. e.g. Aeschl. Ag. 1291; Eur. Alc. 126). Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno stampato πρόπυλα. Tuttavia, sembra più verosimile che il προπύλαια dello Stobeo si sia corrotto in πρόπυλα che non viceversa (già Antonio Maria Sal-

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vini aveva pensato a προπύλαια, senza conoscere lo Stobeo: cf. Clericus (1711), 40). La variante πρόθυρα può essersi originata da una glossa scambiata per correzione (cf. già Fischer (1786), 162): cf. e.g. Hsch. π 3645 Hansen, προπύλαιον· πρόθυρον. 371b5 σιδηροῖς κλείθροις: la tradizione medievale ha κλείθροις, lo Stobeo τείχεσι. La lezione dello Stobeo non è del tutto assurda come invece pensava Immisch (1896), 85: cf. [Aristot.] Mund. 398a16-18, πυλῶνες δὲ πολλοὶ καὶ συνεχεῖς πρόθυρά τε συχνοῖς εἰργόμενα σταδίοις ἀπ’ ἀλλήλων θύραις τε χαλκαῖς καὶ τείχεσι μεγάλοις ὠχύρωτο. Tuttavia, verosimilmente τείχεσι è stato introdotto per evitare la ripetizione tra κλείθροις e κλεισί (per il fenomeno cf. Pasquali (19522), 482). Per un ulteriore elemento a favore della lezione della tradizione medievale cf. il commento a 371b6. 371b5 κλεισὶ διωχύρωται: la tradizione medievale ha κλεισὶν ὠχύρωται (stampato da tutti gli editori), lo Stobeo ha κλεισὶ διωχύρωται. La lezione dello Stobeo è superiore (cf. anche Wilamowitz (1895), 987). L’errore si è prodotto per confusione ΔΙ/N (su cui cf. Lapini (2007), 58 e n. 36 e Lapini (2013c), 236: «una svista frequente, e tanto più tra fine e inizio di parola»). Il verbo διοχυρόω è forma intensiva del più frequente ὀχυρόω (cf. e.g. Pol. V 46, 3). 371b6 ταῦτα ἀνοίξαντα: scil. τὸν τεθνηκότα. Il pronome ταῦτα solitamente è riferito a προπύλαια (cf. e.g. Souilhé (1930): «Le vestibule … Quand il est ouvert», Hershbell (1981): «The entrance … When the gates are opened» e Brisson (2014): «La porte … Mais quand elle est ouverte»). Tuttavia, può ben riferirsi anche a σιδηροῖς κλείθροις καὶ κλεισί (cf. e.g. Eur. Med. 659–661, ἀχάριστος ὄλοιθ’ ὅτῳ πάρεστιν / μὴ φίλους τιμᾶν καθαρᾶν / ἀνοίξαντα κλῇδα φρενῶν). La sostanza non cambia: il riferimento all’apertura (ἀνοίξαντα) fa capire che ci si riferisce ai προπύλαια qua σιδηροῖς κλείθροις καὶ κλεισὶ διωχύρωται. Ciò depone ulteriormente a favore della lezione κλείθροις (cf. il commento a 371b5). 371c1 πορθμεύσαντα: la tradizione medievale ha πορθμεύσαντας, lo Stobeo πορθμευθέντας. La correzione πορθμεύσαντα (in coerenza con ἀνοίξαντα) si deve a Fischer (1786), 163 («Videntur librarii, ut ita scriberent, adducti esse Plurali οὓς, qui [sic] tamen pertinet ad Ἀχέρων et Κωκυτός»). Il verbo πορθμεύω all’attivo ha solitamente il senso di “trasportare qualcuno attraverso qualcosa” (cf. LSJ s.v. I). Tuttavia, sia pure più raramente, può significare anche “attraversare qualcosa” (cf. LSJ s.v. II). La lezione dello Stobeo nasce forse dal fatto che di πορθμεύω è stato tenuto presente solo il primo significato. 371b6-c1 ποταμὸς Ἀχέρων … Κωκυτός: due dei tradizionali fiumi dell’Aldilà: cf. e.g. Hom. Od. X 513–514 e Plat. Phaed. 112e-113c (cf. anche Männlein-Robert (2012), 86 nn. 112–113; in generale sull’Acheronte cf.

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Wentzel (1893), 218–219; Graf (1996), 73–74 e Murray (20124), 6, sul Cocito cf. Pieske (1921), 1065–1066 e Schlapbach (1999), 638). Manca il Piriflegetonte. 371c1–2 ἀχθῆναι ἐπὶ Μίνω καὶ Ῥαδάμανθυν: per ἐπί + accusativo nel senso di “al cospetto di”, costruzione rara e post-classica, cf. LSJ s.v. ἐπί C.I.d (e.g. Posidipp. 118, 24–25 Austin-Bastianini, αὐτὰρ ἐγὼ / γήραϊ μυστικὸν οἶμον ἐπὶ Ῥαδάμανθυν ἱκοίμην). Per Minosse e Radamanto giudici leggendari dell’Aldilà cf. e.g. Plat. Ap. 41a e Gorg. 523e-524a (cf. anche MännleinRobert (2012), 86 nn. 114–115; in generale su Minosse come giudice dell’Aldilà cf. Poland (1932), 1920–1921 e Stenger (2000), 234; su Radamanto cf. Malten (1914), 33–35 e Schlapbach (2001), 943–944). È assente Eaco (cf. anche Luc. 40 (Luct.), 7, ὕπαρχοι δὲ καὶ σατράπαι καὶ δικασταὶ κάθηνται δύο, Μίνως τε καὶ Ῥαδάμανθυς οἱ Κρῆτες, ὄντες υἱοὶ τοῦ Διός). 371c2 ὃ κλῄζεται Πεδίον Ἀληθείας: A presenta ὃ κλῄζεται πεδίον ἀληθείας, Vv hanno ὃς κλῄζεται πεδίον ἀληθείας, lo Stobeo ἐν πεδίῳ ᾧ κλῄζεται ἀληθείας. È sospetto il modo in cui la relativa è collegata alla frase precedente. Non si capisce, infatti, che cosa esattamente sia chiamato Πεδίον Ἀληθείας (sull’uso di questa immagine cf. il lemma seguente). Ci si aspetterebbe qualcosa come ὃ κλῄζεται Πεδίον Ἀληθείας (cf. e.g. Thuc. III 105, 2, οἱ δὲ τῆς Ἀμφιλοχίας ἐν τούτῳ τῷ χωρίῳ ὃ Κρῆναι καλεῖται, Xen. An. VI 4, 1, τὸ δὲ χωρίον τοῦτο ὃ καλεῖται Κάλπης λιμὴν ἔστι μὲν ἐν τῇ Θρᾴκῃ τῇ ἐν τῇ Ἀσίᾳ). Già Ficino avvertiva la mancanza di qualcosa del genere: «in eam videlicet regionem quae veritatis campus cognominatur». La soluzione più economica sarebbe quella di aggiungere εἰς davanti a ὅ (εἰς ὅ, scil. εἰς τὸ χωρίον ὅ). Tuttavia, l’attrazione del pronome relativo al nominativo è fenomeno abbastanza raro (cf. KG II.2, 409). Decisamente insolita poi è l’attrazione del pronome relativo al nominativo nella forma di un avverbio relativo di luogo: per questa ragione vanno senz’altro escluse le proposte di correzione di ὅ in οὗ di Brinkmann (1896), 455, e in οἷ di Post (1934), 64. Le varianti riportate da Vv e dallo Stobeo verosimilmente sono nate a loro volta per cercare di superare questa difficoltà. 371c2 Πεδίον Ἀληθείας: l’espressione è ripresa da Plat. Phaedr. 248b, οὗ δὴ ἕνεχ’ ἡ πολλὴ σπουδὴ τὸ ἀληθείας ἰδεῖν πεδίον οὗ ἐστιν. Tuttavia, nel Fedro l’immagine indica il luogo iperuranio in cui risiedono le idee. Nell’Assioco, invece, la “Pianura della Verità” rappresenta il luogo in cui si svolge il giudizio delle anime (cf. anche Meister (1915), 79). Più prossima alla funzione del Πεδίον Ἀληθείας dell’Assioco è quella del λειμών di Plat. Gorg. 524a. È su questo λειμών, infatti, che ha luogo il giudizio delle anime. Nell’Assioco, dunque, l’immagine della “Pianura della Verità” del Fedro è inserita nel quadro di un giudizio ultramondano delle anime esemplato

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sul mito del Gorgia: l’ ἀληθείας πεδίον del Fedro si sovrappone al λειμών del Gorgia. Questa operazione era favorita dal fatto che anche nel passo del Fedro si parla di un λειμών. Si tratta del prato che si trova sulla pianura della verità e che fornisce alle anime una sorta di nutrimento iperuranio (248b). Il nesso era ulteriormente facilitato dal tema della verità: le anime non possono mentire durante il giudizio ultramondano, la verità appare in tutta la sua evidenza, tale quale essa si manifesta alle anime che si pascono nel prato di cui si parla nel Fedro. È verosimile che questa complessa operazione presupponga uno sforzo esegetico sviluppatosi all’interno dell’Accademia. Un fenomeno del genere si può osservare e.g. in Herm. In Phaedr. 248b (p. 161 Couvreur = p. 168 Lucarini-Moreschini), dove il neoplatonico Ermia, attivo ad Alessandria nel V secolo d.C., accosta il λειμών del Fedro a quello del mito di Er del decimo libro della Repubblica. Per enfatizzare il fatto che l’espressione è utilizzata come vero e proprio toponimo di questa regione infernale si è scelto di stampare Πεδίον Ἀληθείας con le iniziali maiuscole. 371c2–3 καθέζονται δὲ δικασταί: la tradizione medievale ha ἐνταυθοῖ καθέζονται δικασταί, lo Stobeo καθέζονται δὲ δικασταί. In genere si ritiene che ἐνταυθοῖ καθέζονται δικασταί sia superiore (cf. e.g. Immisch (1896), 84). L’avverbio ἐνταυθοῖ, infatti, pare necessario per indicare il luogo in cui siedono i giudici. Tuttavia, il verbo καθέζομαι (come il sinonimo κάθημαι) può essere utilizzato senza ulteriori specificazioni per indicare qualcuno che sta assiso nell’esercizio delle proprie funzioni (cf. e.g. D.H. AR. IV 25, 5, εἴ τι πρόσκρουσμα πρὸς πόλιν ἐγεγόνει, δικασταὶ καθεζόμενοι διῄτων). Il testo dello Stobeo è anzi più incisivo nell’immediatezza del passaggio da una frase all’altra (cf. anche infra 371c5, ψεύσασθαι δὲ ἀμήχανον). Non si vede, inoltre, per quale ragione ἐνταυθοῖ avrebbe potuto essere omesso (se non per una banale svista). È più semplice pensare che l’avverbio ἐνταυθοῖ sia stato aggiunto per specificare il luogo in cui stanno assisi i giudici (con conseguente omissione di δέ). Non è ben chiaro chi siano questi giudici (cf. anche Plat. Rp. X 614c, δικαστὰς δὲ μεταξὺ τούτων [scil. le due voragini della terra] καθῆσθαι). Tuttavia, ci si aspetta che i δικασταί siano Minosse e Radamanto, i giudici infernali per eccellenza (cf. il commento a 371c1-2). Non si può escludere che si debba integrare l’articolo: καθέζονται δὲ δικασταί (scil. Minosse e Radamanto appena nominati). 371c3–5 ἀνακρίνοντες … ἐνῳκίσθη τῷ σώματι: la scena del giudizio delle anime è ispirata a quella di Plat. Gorg. 524d-e. I giudici infernali non conoscono a priori crimini e meriti dei trapassati. Lo stesso avviene nel Gorgia. Tuttavia, nel Gorgia è messo in opera un preciso meccanismo di ricono-

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scimento della condotta di vita del defunto (cf. il commento al lemma successivo). Le due espressioni τίνα βίον βεβίωκε e τίσιν ἐπιτηδεύμασιν ἐνῳκίσθη τῷ σώματι sembrano l’una la ripetizione dell’altra. Tuttavia, si può pensare che la prima espressione alluda al genere di vita complessivamente seguito dal trapassato, la seconda ai singoli comportamenti adottati nel corso della vita. Ad esempio: un uomo può aver commesso un certo numero di azioni ingiuste e un maggior numero di azioni giuste; tuttavia, le azioni ingiuste possono essere di elevatissima gravità, mentre le azioni giuste di trascurabile importanza; nel giudizio complessivo, per così dire, si tiene conto di un parametro quantitativo e di uno qualitativo. Per l’espressione ἐνῳκίσθη τῷ σώματι cf. Ios. BI. III 372, ψυχὴ δὲ ἀθάνατος ἀεὶ καὶ θεοῦ μοῖρα τοῖς σώμασιν ἐνοικίζεται. 372c5 ψεύσασθαι δὲ ἀμήχανον: la tradizione medievale ha ψεύσασθαι μὲν οὖν ἀμήχανον accolto da Burnet (19132), lo Stobeo ψεύσασθαι δὲ ἀμήχανον, accolto da Feddersen (1895), 6 n. 2; Immisch (1896) e Souilhé (1930). Verosimilmente μὲν οὖν è un’anticipazione del μὲν οὖν della frase subito successiva (cf. anche Petersen (1888), 169). Il problema dell’accertamento della verità nel giudizio delle anime è al centro della “riforma” introdotta da Zeus nel mito dell’Aldilà del Gorgia: le anime sono nude e portano su di sé l’impronta visibile dei mali commessi in vita (cf. Gorg. 524d-525a). Nell’Assioco si dice soltanto che mentire è impossibile, non si dice perché. 371c5–6 ὅσοις μὲν οὖν … δαίμων ἀγαθὸς ἐπέπνευσεν: Immisch (1896), 61 ha messo in relazione questo δαίμων ἀγαθός con la demonologia senocratea. Invece, secondo Chevalier (1915), 61 «l’expression “bon démon” paraît se rattacher à l’époque où la démonologie grecque se mêla à la croyance juive aux “anges”, chez Philon». Per Männlein-Robert (2012), 87 n. 116 l’espressione rimanda da un lato al δαίμων di Plat. Tim. 90a-c, dall’altro alla rappresentazione popolare delle divinità protettrici (cf. anche MännleinRobert (2012), 27–29). In generale sull’evoluzione della figura del δαίμων nella cultura greca cf. Schibli (1993), 154–155 e n. 49. L’espressione dell’Assioco ricorda luoghi omerici come Od. IX 381, αὐτὰρ θάρσος ἐνέπνευσεν μέγα δαίμων, XIX 138–139, φᾶρος μέν μοι πρῶτον ἐνέπνευσε φρεσὶ δαίμων / στησαμένῃ μέγαν ἱστὸν ἐνὶ μεγάροισιν ὑφαίνειν. Non è, dunque, sottintesa una demonologia “filosofica”. Nel contesto del mito di Gobria l’autore ha deliberatamente recuperato un’immagine tradizionale legata alla rappresentazione magico-religiosa della vita morale, ricondotta all’influenza di un agente esterno. Non è chiaro come l’azione del δαίμων sia compatibile con il principio di responsabilità individuale che sta alla base del giudizio delle anime. Alla luce dei passi omerici citati, non

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si può escludere che si debba mutare ἐπέπνευσεν in ἐνέπνευσεν (per un passaggio analogo cf. e.g. Hom. Od. XIX 138 ap. Procl. in Crat. 88, φᾶρος μέντοι πρῶτον ἐπέπνευσεν μέγα δαίμων). 371c6–7 εἰς τὸν τῶν εὐσεβῶν χῶρον οἰκίζονται: la tradizione medievale presenta οἰκίζονται, lo Stobeo λογίζονται. La lezione λογίζονται dello Stobeo sembra presupporre che χῶρον sia stato erroneamente preso per χορόν: “li annoverano [scil. i giudici] nel coro dei giusti” (su questo senso di λογίζομαι cf. LSJ s.v. II.2; cf. anche Immisch (1896), 85). L’espressione εὐσεβῶν χῶρος è frequente nelle fonti letterarie a partire dall’età imperiale (cf. e.g. Phil. Fug. 131; Strab. III 2, 13; Clem. Rom. Ep. I ad Cor. 50, 3; Plut. Lat. viv. 1130c; cf. inoltre Rohde (19074), I 313–314 n. 1 e II 383–384 n. 5; Chevalier (1915), 103–104 e 104 n. 2; Cumont (1942), 50 n. 1; Andò (1984), 111–112 e Männlein-Robert (2012), 23–24 e nn. 109–110, 26 e n. 123, 87 n. 117). Nell’Assioco per εὐσέβεια si intende un valore morale, non strettamente religioso (cf. il commento a 364c3). 371c7-d3 ἔνθα ἄφθονοι μὲν ὧραι … καὶ ἀκήρατος ἀλυπία καὶ ἡδεῖα δίαιτα: nei primi due elementi di questo elenco è presente il verbo di modo finito (ἔνθα ἄφθονοι μὲν ὧραι παγκάρπου γονῆς βρύουσι, πηγαὶ δ’ ὑδάτων καθαρῶν ῥέουσιν), in tutti gli altri no. Si può pensare che qui sia sottinteso qualcosa come ἐγγίγνονται/ἐγγίγνεται (cf. infra 371d3–5). Tuttavia, lo scarto è sospetto. Matthiae (1835), 305 proponeva di mutare ἐαριζόμενοι in ἐαρίζονται o di aggiungere un verbo di modo finito che vale anche per παντοῖοι δὲ λειμῶνες ... ἐαριζόμενοι. Tuttavia, in entrambi i casi non si sfugge all’impressione che l’elenco sia mal costruito. Più elegante è un’altra soluzione. È degno di nota che lo Stobeo non presenta ῥέουσιν. Quest’ultimo potrebbe essere stato aggiunto nella tradizione medievale sulla scorta del precedente βρύουσιν. Si può pensare di seguire lo Stobeo, correggendo allo stesso tempo βρύουσι in βρύοντες. In questo modo per tutti gli elementi dell’elenco si può sottintendere un verbo di modo finito come ἐγγίγνονται/ ἐγγίγνεται. 371c8–9 παντοῖοι δὲ λειμῶνες εὐ ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι: la tradizione medievale presenta παντοῖοι δὲ λειμῶνες ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι, lo Stobeo, invece, ha παντοῖοι δὲ λειμῶνες εὐάνθεσι (sic) ποικίλοις ἐαριζόμενοι. La variante dello Stobeo, manifestamente assurda, è in genere trascurata. Non si capisce, però, come possa essersi generata. Il problema è risolto se si pensa che il testo genuino fosse παντοῖοι δὲ λειμῶνες εὐανθεῖς ἄνθεσι ποικίλοις ἐαριζόμενοι. Per un’espressione simile cf. e.g. Io. Chr. HGen. 43, 1 (PG LIV, p. 395), Καθάπερ λειμών τις εὐανθὴς διάφορα καὶ ποικίλα τὰ ἄνθη ἐν ἑαυτῷ δείκνυσιν, Anon. Vita Theoph. Conf. p. 3 De Boor, Ὥσπερ λειμὼν εὐανθὴς ποικίλοις ἄνθεσι ποικαζόμενος (sic).

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371c9 ἐαριζόμενοι: il verbo ἐαρίζω (“fiorire come in primavera”) è solitamente utilizzato all’attivo (cf. anche Meister (1915), 39). Al medio si trova qui e in Zopyr. Hist. FGrHist 336 F 1 (= Stob. IV 20b, 75, cf. anche [Plut.] Par. min. 314a; su questo Zopiro cf. Gisinger (1972), 770). Per la presenza di prati e fiori nella terra dei giusti cf. e.g. Pind. O. 2, 72–73; fr. 129, 3 Maehler (= fr. 58a, 3 Cannatà Fera); Aristoph. Ra. 323-324; Plut. fr. 178 Sandbach (= Stob. IV 52b, 49); Luc. 14 (VH. II), 5 e 14 (cf. inoltre Ghidini Tortorelli (1976–1978), 58 n. 216; Cannatà Fera (1990), 174 e Farioli (2001), 103–104 n. 189). 371c9-d1 διατριβαὶ δὲ φιλοσόφων … μουσικὰ ἀκούσματα: per simili intrattenimenti nella regione dei giusti cf. e.g. Plut. Lat. viv. 1130c; Luc. 14 (VH. II), 5 e 14. In generale sulla rappresentazione idealizzata dell’Aldilà cf. Dieterich (19132), 30–31 e Gatz (1967), 174–189. 371d2 συμπόσιά τε … αὐτοχορήγητοι: per la presenza di banchetti nell’Aldilà cf. e.g. Plat. Rp. II 363c-d e Luc. 14 (VH. II), 5 e 14 (cf. inoltre Pellegrino (2000), 29–30). Il termine εἰλαπίνη è quasi esclusivamente poetico, mentre αὐτοχορήγητος è attestato soltanto in questo passo. Il motivo dell’automatos bios è strettamente legato alla tradizione utopistica (cf. e.g. la rappresentazione dell’età di Crono in Hes. Op. 117–118; cf. inoltre Pellegrino (2000), 23–27 e Farioli (2001), 14–15). 371d3–5 οὔτε γὰρ χεῖμα σφοδρὸν ... ἀνακιρνάμενος: il verbo ἀνακίρναμαι, più raro dell’equivalente ἀνακεράννυμι, è poetico (cf. e.g. Eur. Hip. 254) e tardo (cf. e.g. Phil. Cont. 88; Plut. QConv. I 626c). Il termine χεῖμα pro χειμών (nel senso di tempesta) è di uso poetico (cf. LSJ s.v.). La mitezza del clima della regione dei giusti ricorda quella del campo Elisio di Hom. Od. IV 566–568, οὐ νιφετός, οὔτ’ ἂρ χειμὼν πολὺς οὔτε ποτ’ ὄμβρος, / ἀλλ’ αἰεὶ Ζεφύροιο λιγὺ πνείοντος ἀήτας / Ὠκεανὸς ἀνίησιν ἀναψύχειν ἀνθρώπους (cf. anche Farioli (2001), 19 n. 38). Per il sole che illumina i giusti nell’Aldilà cf. anche Pind. fr. 129, 1 Maehler (= fr. 58a, 1 Cannatà Fera); Aristoph. Ra. 454; Verg. Aen. VI 640–641 (cf. Cannatà Fera (1990), 172: «La presenza del sole sta ad indicare la continuazione della vita»). Violante (1984), 318–322 ha accostato alcuni tratti dell’Aldilà dell’Assioco a quelli della catabasi orfica contenuta in PBon. 4 (cf. e.g. IIIv, 130–135 Lloyd-Jones, Parsons). 371d5–6 τοῖς μεμυημένοις ἐστίν τις προεδρία: per la προεδρία degli iniziati cf. Diog. Laert. VI 39 (= SSR V B 339), λεγόντων [scil. gli Ateniesi] ὡς ἐν Ἅιδου προεδρείας οἱ μεμυημένοι τυγχάνουσι (cf. inoltre [Plut.] Cons. Apoll. 120b (ed. Hani2), εἰ δ’ ὁ τῶν παλαιῶν ποιητῶν τε καὶ φιλοσόφων λόγος ἐστὶν ἀληθής, ὥσπερ εἰκὸς ἔχειν, {οὕτω} καὶ τοῖς εὐσεβέσι τῶν μεταλλαξάντων ἔστι τις τιμὴ καὶ προεδρία, καθάπερ λέγεται, καὶ χῶρός τις ἀποτεταγμένος ἐν ᾧ διατρίβουσιν αἱ τούτων ψυχαί). Gli iniziati abitano vici-

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no al palazzo di Plutone già in Aristoph. Ra. 162–163 (cf. inoltre Rohde (19074), I 313–314 n. 1; Chevalier (1915), 62 e Männlein-Robert (2012), 88 n. 121). Nell’Aldilà del mito di Gobria gli iniziati rappresentano una sottocategoria, privilegiata, dei giusti (εὐσεβεῖς). Sulla compresenza in questo mito di un criterio morale e di un criterio mistico-religioso per la selezione dei beati cf. Violante (1984), 323–324. 371d7-e1 πῶς οὖν οὐ σοὶ πρώτῳ … ὄντι γεννήτῃ τῶν θεῶν: la domanda interrompe l’esposizione del mito di Gobria. Dal contesto si evince che le divinità menzionate nel passo sono le due dee dei misteri di Eleusi, Demetra e Core. Secondo Wilamowitz (1895), 984 n. 2 Assioco è detto γεννήτης τῶν θεῶν in quanto l’Assioco storico avrebbe fatto parte del γένος degli Eupatridi. I membri di questo γένος avrebbero goduto, infatti, di particolari prerogative religiose (cf. Wilamowitz (1887), 121 n. 1; Toepffer (1887), 479–483 e Oehler (1907), 1164–1165). Assioco, dunque, si sarebbe distinto dagli iniziati “di rango inferiore” (πρῶτος). Tuttavia: 1) non è certo che sia esistito un vero e proprio γένος degli Eupatridi nel senso voluto da Wilamowitz (cf. Parker (1996), 323–324; in generale sui γένη come gruppi sociali ateniesi a cui si apparteneva per via ereditaria patrilineare e da cui erano tradizionalmente scelti i sacerdoti dei singoli culti cf. Lambert (1999), 484– 489; Blok-Lambert (2009), 95–121 e Lambert (2015), 169–202); 2) non risulta che ci fosse una connessione automatica tra il fatto di essere Eupatridi e il culto misterico di Eleusi. Secondo Rohde (19074), II 422–423 l’espressione γεννήτης τῶν θεῶν alluderebbe al fatto che il μεμυημένος è come accolto nel γένος degli dèi (cf. anche Männlein-Robert (2012), 89 n. 123). Tuttavia, con questa spiegazione si capisce per quale ragione Assioco sia detto γεννήτης τῶν θεῶν, ma non perché sia anche detto πρῶτος. Wilamowitz era andato nella direzione giusta, ma aveva insistito eccessivamente sulla connessione tra Assioco e gli Eupatridi e tra gli Eupatridi e il culto di Eleusi. L’espressione γεννήτης τῶν θεῶν, infatti, indica un “membro del γένος che si occupa del culto delle dee”: cf. Walton (1953), 26, il quale rimanda a Demosth. Or. 57 (Contra Eubulidem), 67, Ἀπόλλωνος πατρῴου καὶ Διὸς ἑρκείου γεννῆται (“i membri del γένος che si occupa del culto di Apollo Patroos e di Zeus Erkeios”, cf. anche Ferguson (1938), 33). A ben vedere, dunque, Assioco è πρῶτος tra gli iniziati proprio perché è γεννήτης τῶν θεῶν (ciò non è stato colto neppure da Walton (1953), 27–28 e n. 7, il quale alla fine aderisce senza ragione all’interpretazione di Rohde, cosa che lo costringe a spiegare in modo poco convincente l’uso di πρῶτος). Il fatto di appartenere ad un γένος che aveva la prerogativa di occuparsi del culto delle dee eleusinie era una ragione sufficiente per distinguere Assioco da coloro che erano semplicemente iniziati.

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Quale fosse il γένος in questione è difficile dire. I γένη tradizionalmente legati ai culti misterici di Eleusi erano quello degli Eumolpidi e quello dei Kerykes (cf. e.g. Parker (1996), 293–297 e Blok-Lambert (2009), 114–119). Tuttavia, è molto improbabile che la famiglia di Assioco appartenesse ad uno di questi due γένη (proprio gli Eumolpidi e i Kerykes maledissero solennemente i presunti profanatori dei misteri: cf. [Lys.] Or. 6 (In Andocidem), 51 e Plut. Alc. 22, 5 e 33, 3; e si opposero al rientro di Alcibiade ad Atene: cf. Thuc. VIII 53, 2). Potrebbe trattarsi di un errore nato dalla confusione con un altro personaggio legato ai circoli socratici, noto anche all’autore dell’Assioco, ossia Callia, il quale effettivamente apparteneva al γένος dei Kerykes (cf. Clinton (1974), 47–48; Parker (1996), 302 e Nails (2002), 70). Oppure, potrebbe trattarsi di un’invenzione (sempre ispirata all’appartenenza di Clinia al γένος che aveva la prerogativa di occuparsi del culto di Eleusi) con funzione apologetica rispetto al coinvolgimento di Assioco nell’affaire della profanazione dei misteri del 415. In questo caso, tuttavia, è verosimile che quest’invenzione sia stata ripresa dallo pseudo-Platone a partire da una fonte più antica, vicina ai fatti narrati, quando l’esigenza apologetica doveva essere ancora viva (cf. anche supra pp. 24-25 e il commento a 364a4-5). In questo contesto, infatti, non sembra operante un intento apologetico nei confronti di Assioco. 371e1–2 τοὺς περὶ Ἡρακλέα τε καὶ Διόνυσον: vale “Eracle e Dioniso” (per questo idiom cf. il commento a 368d8-e1). Sull’iniziazione di Eracle ai misteri eleusini prima dell’impresa nell’Ade per catturare Cerbero cf. e.g. Diod. IV 25, 1 (cf. inoltre Chevalier (1915), 102 e Männlein-Robert (2012), 89 n. 124). Non si ha invece alcuna notizia di una iniziazione di Dioniso. Secondo Chevalier (1915), 102–103 si tratterebbe di un errore favorito da alcune rappresentazioni figurate in cui Dioniso assiste all’iniziazione di Eracle. Secondo Männlein-Robert (2012), 89 n. 124, invece, Dioniso sarebbe rappresentato accanto ad Eracle semplicemente come “berühmter Unterweltsgänger”. La catabasi di Dioniso per liberare dalla morte la madre Semele è, infatti, anch’essa ben nota (cf. e.g. Diod. IV 25, 4, καὶ γὰρ ἐκεῖνον [scil. Dioniso] μυθολογοῦσιν ἀναγαγεῖν τὴν μητέρα Σεμέλην ἐξ ᾅδου, καὶ μεταδόντα τῆς ἀθανασίας Θυώνην μετονομάσαι). Il fatto che anche Dioniso abbia compiuto una catabasi non scioglie la stranezza della sua iniziazione. Tuttavia, può aver favorito un’analogia con Eracle. 371e2 λόγος: per l’uso di λόγος (senza ἐστί) in luogo di λέγουσι/λέγεται cf. e.g. Diog. Laert. II 141. Questo riferimento all’iniziazione che avrebbe preceduto la catabasi di Eracle e Dioniso non fa parte del racconto di Gobria. La sua ratio, infatti, è quella di suffragare con un exemplum mitico l’idea che l’iniziazione sia una sorta di “garanzia” contro la morte. Se tale exemplum avesse fatto effettivamente parte del racconto di Gobria, verosi-

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milmente Eracle e Dioniso sarebbero stati introdotti in modo diverso, ad esempio come due illustri iniziati presenti nel χῶρος εὐσεβῶν. Si tratta, dunque, di un’inserzione fatta da Socrate all’interno del mito vero e proprio. 371e2 ἐνθάδε: secondo Rohde (19074), II 422 e Chevalier (1915), 102 n. 2 il riferimento è ad Atene. Le iniziazioni a cui si fa riferimento sono quelle di Eleusi, nei pressi di Atene. Tuttavia, data la presenza di ἐκεῖσε (l’Aldilà) subito dopo, è più verosimile che qui si abbia una generica contrapposizione tra mondo dei vivi e mondo dei morti (cf. e.g. Plat. Phaed. 117c, τὴν μετοίκησιν τὴν ἐνθένδε ἐκεῖσε εὐτυχῆ γενέσθαι, cf. anche Männlein-Robert (2012), 88 n. 122). 371e3–4 τὸ θάρσος … ἐναύσασθαι: il verbo ἐναύω indica propriamente l’accensione del fuoco (cf. e.g. Luc. 25 (Tim.), 6, καὶ ἀναρριπίσας τὸν κεραυνὸν ἢ ἐκ τῆς Αἴτνης ἐναυσάμενος). 371e5 πρὸς Ἐρινύων: per il complemento d’agente espresso con πρός + genitivo cf. il commento a 364b4. In Omero le Erinni hanno il compito di punire nell’Aldilà i mentitori (cf. Il. XIX 259–260). In Verg. Aen. VI 570– 572 Tisifone ha la funzione di flagellare i dannati. Analoghe collaborazioni con la giustizia infernale da parte delle Erinni si trovano in Luc. 38 (Nec.), 11 (dove le Erinni circondano Minosse); 19 (Cat.), 22–23 (Tisifone conduce i defunti da Radamanto) e, forse, nella catabasi orfica di PBon. 4 (f. Iv, 26 Lloyd-Jones, Parsons). Le Erinni hanno la funzione di accompagnare i dannati nel χῶρος ἀσεβῶν anche in Luc. 40 (Luct.), 8, ἂν δέ τινας τῶν πονηρῶν λάβωσι, ταῖς Ἐρινύσι παραδόντες εἰς τὸν τῶν ἀσεβῶν χῶρον εἰσπέμπουσι κατὰ λόγον τῆς ἀδικίας κολασθησομένους (cf. anche Chevalier (1915), 94; Andò (1984), 107–108, 112 e Männlein-Robert (2012), 89–90 n. 126). 371e5 ἐπ’ Ἔρεβος καὶ Χάος διὰ Ταρτάρου: l’Erebo è associato all’Aldilà già in Omero (cf. e.g. Il. XVI 327) e negli inni omerici (hDem. 335). Tuttavia, non sembra che ci siano altri casi in cui l’Erebo funge specificamente da sede per i dannati (cf. Waser (1907), 403–404; in Hes. Th. 515 non è ben chiaro se l’Erebo in cui Zeus precipita Menezio sia l’Ade o un altro luogo cosmico: cf. West (1966), 310). Anche per il Chaos è anomala la funzione specifica di sede dei dannati (cf. Waser (1899), 2112–2113; in Stat. Theb. XII 772 chaos è utilizzato nel senso di “voragine”). Inoltre, qui il Tartaro è una sorta di canale attraverso cui si giunge all’Erebo e al Chaos, non, come avviene di solito, il fondo degli Inferi (cf. anche Männlein-Robert (2012), 90 n. 127). L’impressione è che con gusto manieristico sia stata accumulata una serie di luoghi inferi tradizionali senza riferirsi ad una particolare tradizione precedente. 371e6 χῶρος ἀσεβῶν: come χῶρος εὐσεβῶν (su cui cf. il commento a 371c6-7) l’espressione è prevalentemente attestata a partire dall’età imperia-

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le (cf. e.g. Phil. Cher. 2; Ios. BI. II 156; Plut. CMin. 3, 4; Luc. 14 (VH. II), 17; in generale cf. Cumont (1942), 50 n. 1). 371e6 Δαναΐδων ὑδρεῖαι ἀτελεῖς: le Danaidi sono condannate a riempire per l’eternità con acqua un orcio forato. In questo modo sono punite per aver ucciso, su consiglio del padre Danao, i loro mariti, i figli di Egitto, che erano state costrette a sposare (cf. e.g. schol. GuI ad Eur. Hec. 886, ed. Dindorf). La punizione a cui sono sottoposte le Danaidi era originariamente associata a coloro che non erano stati iniziati ai misteri (cf. e.g. Plat. Gorg. 493b, con Dodds (1959), 297–298; ma questa associazione era già nella Nekyia dipinta da Polignoto per la Lesche degli Cnidi a Delfi nel V secolo: cf. Paus. X 31, 9 e 11). Non è chiaro a partire da quando i dannati che riempiono eternamente un orcio forato siano passati a rappresentare le Danaidi. Sembra che questa identificazione sia attestata in vasi italioti a partire dalla fine del IV secolo (cf. Keuls (1986), 337 e Pettenò (2006), 160; cf. tuttavia le riserve di Keuls (1974), 45 e 83–84, la quale evidenzia che in nessun caso prima del I secolo a.C. le figure in questione sono esplicitamente identificate con le Danaidi). Nelle fonti letterarie questa identificazione è attestata solo a partire dalla fine del I secolo a.C., soprattutto in ambito romano (cf. e.g. Hor. Od. III 11, 22–24; Tib. I 3, 79–80; Ov. Met. IV 462–463; ma cf. anche Plut. Symp. 160b; Luc. 25 (Tim.), 18; 70 (Herm.), 61; cf. inoltre Waser (1901), 2089–2091; Chevalier (1915), 94–100; Auffarth (1997), 307–308 e Brown (20124), 412). Il modo brachilogico con cui l’autore dell’Assioco allude alla punizione delle Danaidi fa capire che essa doveva essere ormai ben presente nell’immaginario dei suoi lettori. Ciò è coerente con una datazione di questo dialogo nella prima metà del I secolo a.C. (cf. anche supra pp. 24, 26 e 84). In Lucr. III 1008–1010 le Danaidi non sono menzionate esplicitamente (aevo florente puellas / quod memorant laticem pertusum congerere in vas, / quod tamen expleri nulla ratione potestur), si tratta, tuttavia, dell’unica altra fonte che presenta un catalogo di dannati infernali analogo a quello dell’Assioco: oltre alle portatrici di acqua, Tantalo, Tizio e Sisifo (Lucr. III 980–1010). Non sembra che con ἀτελεῖς l’autore dell’Assioco abbia voluto alludere alla pena dei non iniziati, cui pure questa punizione era originariamente connessa (così e.g. Rohde (19074), 327; possibilista anche Hershbell (1981), 70 n. 79; contra Keuls (1974), 53). Nell’Aldilà del mito di Gobria ai μεμυημένοι è riservata una posizione di particolare riguardo tra i giusti (371d5–6), ma proprio per questo il fatto di non essere iniziati non è di per sé una colpa. 371e7 Ταντάλου δῖψος: Tantalo, figlio di Zeus (cf. e.g. Eur. Or. 5), o di Tmolo e di Pluto (cf. schol. ABCMI ad Eur. Or. 5, ed. Dindorf), è condannato ad avere per l’eternità una sete che non può soddisfare in quanto l’acqua

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in cui è immerso fino al mento si ritira ogni volta che egli cerca di berla (cf. Hom. Od. XI 582–592, dove alla sete si aggiunge la fame che Tantalo non può soddisfare, perché i frutti sospesi sul suo capo sono allontanati dal vento quando egli cerca di afferrarli). Secondo un’altra tradizione su di lui incombe una pietra che gli impedisce di godere dei beni che lo circondano (cf. e.g. Νόστοι, Epic. F 9 Davies). La sua colpa fu quella di aver desiderato una vita uguale a quella degli dèi (cf. e.g. Νόστοι, Epic. F 9 Davies), o, secondo un’altra tradizione, di aver sottratto agli dèi nettare e ambrosia (cf. e.g. Pind. O. 1, 60–64; Pind. O. 1, 47–51 allude anche ad una tradizione, da lui ritenuta malevola nei confronti di Tantalo, secondo cui egli avrebbe preparato un banchetto per gli dèi con le carni del proprio figlio Pelope), o ancora di aver rivelato dei segreti degli dèi (cf. e.g. Diod. IV 74, 2). In generale sulla figura di Tantalo cf. Schwenn (1932), 2224–2229; Stenger (2002), 11 e Griffiths (20124), 1430. La pena di Tantalo era così nota che l’autore dell’Assioco poteva alludervi brachilogicamente. Esisteva persino il proverbio Ταντάλου δίψαν διψῶ (cf. e.g. schol. Gu ad Eur. Or. 6, ed. Dindorf). Ciò non significa, tuttavia, che l’autore dell’Assioco abbia avuto presente precisamente questo proverbio (come invece pensa Leutsch (1851), 657–658, ad Apostol. XVI 9). 371e7 Τιτυοῦ σπλάγχνα: Tizio, figlio di Zeus e di Elara, è condannato ad essere legato a terra mentre due avvoltoi gli rodono eternamente il fegato (cf. e.g. Hom. Od. XI 576–579) o il cuore (cf. e.g. Apollod. I 23). La sua colpa è quella di aver cercato di violentare Latona (cf. Hom. Od. XI 580–581 e Apollod. I 23). Ulteriori indicazioni su Tizio in Scherling (1937), 1593– 1609; Dräger (2002), 634–635 e Rose (20124), 1488. Dopo σπλάγχνα lo Stobeo presenta le parole αἰωνίως ἐσθιόμενα καὶ γεννώμενα, assenti nella tradizione medievale. Con l’eccezione di Hermann (1853), in genere gli editori hanno accolto la lectio longior dello Stobeo. Tuttavia, la tradizione medievale restituisce un’espressione brachilogica (Τιτυοῦ σπλάγχνα) accostabile ai precedenti Δαναΐδων ὑδρεῖαι ἀτελεῖς e Ταντάλου δῖψος. Inoltre, l’avverbio αἰωνίως non è attestato con sicurezza prima delle omelie pseudo-clementine, datate ai primi decenni del III secolo d.C. (cfr. Rehm (1938), 156). Verosimilmente le parole αἰωνίως ἐσθιόμενα καὶ γεννώμενα sono un’interpolazione mirante a chiarire il senso di Τιτυοῦ σπλάγχνα. 371e8–372a1 Σισύφου πέτρος ἀνήνυτος, οὗ τὰ τέρματα αὖθις ἀρχαὶ πόνων: Sisifo, figlio di Eolo, è condannato a spingere incessantemente un macigno in cima ad un’altura. Completata l’opera, il macigno rotola giù e Sisifo deve ricominciare la sua fatica (cf. già Hom. Od. XI 593–600). La sua colpa è quella di aver ingannato la morte (cf. e.g. Alc. fr. 38a Voigt; Thgn. I 702–712; per una versione più elaborata del mito cf. Pherec. FGrHist 3 F

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119 = fr. 172 Dolcetti). Secondo un’altra tradizione Sisifo viene punito per aver rivelato ad Asopo dove si trovava la figlia Egina (cf. e.g. Paus. II 5, 1). In generale sulla figura di Sisifo cf. Bethe (1927), 371–376; Nünlist (2001), 598–599 e Sourvinou-Inwood (20124), 1373. La tradizione medievale ha ἄρχεται πόνῳ. La tradizione dello Stobeo si divide tra ἄρχεται τῶν πόνων di F e ἀρχαὶ πόνων di P. Immisch (1896) ha stampato ἀρχαὶ πόνῳ («was ich nicht verstehe» Wilamowitz (1895), 981 n. 2). Burnet (19132) ha stampato ἄρχει πονῶν, ma intendeva forse scrivere ἄρχει πόνων, come ha poi fatto Souilhé (1930): sulla differenza tra ἄρχω, “faccio iniziare”, e ἄρχομαι, “inizio”, cf. LSJ s.v. ἄρχω I. Secondo Buresch (1886), 18 le parole τὰ τέρματ’ αὖθις ἄρχεται πόνων sono la citazione di un trimetro giambico mutilo di un piede (cf. anche Feddersen (1895), 7 n. 1; già Burges (1854), 55 n. 1 aveva avuto un’idea simile, ma in modo poco convincente aveva pensato che la citazione iniziasse da καὶ Τιτυοῦ σπλάγχνα di 371e7).496 Tuttavia, l’espressione che ne risulta è piuttosto strana (ci si sarebbe aspettati piuttosto ἄρχω all’attivo). Il senso migliore sembra quello offerto dal codice P dello Stobeo: ἀρχαὶ πόνων (cf. già Wilamowitz (1895), 981 n. 2). In questo modo si produce un’espressione concettosa per cui la fine della fatica (τὰ τέρματα) coincide con il suo inizio (ἀρχαί). Per l’espressione ἀρχαὶ πόνων cf. e.g. Eur. IT. 939, ἀρχαὶ δ’ αἵδε μοι πολλῶν πόνων. Nondimeno, l’idea di Buresch che queste parole possano celare la citazione di un verso è interessante (il termine τέρμα è di uso prevalentemente poetico, anche se non esclusivamente). Ammettendo che effettivamente si abbia qui il frammento di un trimetro giambico, si potrebbe pensare a qualcosa come τὰ τέρματ’ αὖθίς ἀρχαὶ πόνων. L’omissione di τῷδ(ε) [scil. Sisifo] potrebbe essere dovuta al tentativo di evitare la ripetizione con il precedente οὗ, mentre εἰσί potrebbe essere caduto per influenza della finale di αὖθις. Ma non è detto che si tratti di un guasto di tradizione. La contrazione del verso potrebbe essere dovuta proprio allo pseudo-Platone, o per difetto di memoria, o per adattare la citazione alla sintassi della frase (sostituendo οὗ a τῷδ’). Se questa diagnosi è corretta, l’autore dell’Assioco citava qui un trimetro di un’opera in cui si parlava di Sisifo (viene naturalmente in mente il Sisifo attribuito dalle fonti ora a Crizia ora ad Euripide, ma non ci sono elementi per tentare un’attribuzione).

496 Buresch (1886), 18–19 (ripreso in parte da Dieterich (19132), 121) presume di poter rintracciare nel mito di Gobria anche altre citazioni poetiche, ma senza particolare fondamento. Ciò naturalmente non esclude che questa sezione del dialogo possa essere stata influenzata in più punti, indirettamente, dalla λέξις poetica.

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372a1 θηρσὶν περιλιχμώμενοι: il verbo περιλιχμάομαι è poetico (cf. Theocr. Id. 25, 226 e Arat. Phaen. I 1115) e tardo (cf. e.g. Plut. Pyrr. 31, 7; Luc. 23 (Prom.), 10). Questa sembra l’unica occorrenza del verbo in senso passivo. Per θήρ nel senso di “fabulous monster” cf. LSJ s.v. 3. Per la presenza di mostri nell’Aldilà cf. già Aristoph. Ra. 143 e 278 (cf. inoltre Verg. Aen. VI 285–289). L’immagine dei dannati che vengono leccati dai mostri è insolita. Forse sottende l’idea che i dannati siano coperti di piaghe sanguinolente a causa delle pene che devono subire: l’odore del sangue attira i mostri infernali allo stesso modo in cui i pesci dello Scamandro sono attirati dalle ferite sanguinolente del cadavere di Licaone (cf. Hom. Il. XXI 122–123, ἐνταυθοῖ νῦν κεῖσο μετ’ ἰχθύσιν, οἵ σ’ ὠτειλὴν / αἷμ’ ἀπολιχμήσονται ἀκηδέες). 372a1–2 δᾳσίν: la tradizione medievale ha λαμπάσιν, lo Stobeo ha δασίν (sic). Immisch (1896), Burnet (19132) e Souilhé (1930) hanno stampato λαμπάσιν. Tuttavia, la lezione dello Stobeo è superiore (cf. già Wilamowitz (1895), 987). Verosimilmente, dunque, λαμπάσιν è una glossa che si è sostituita alla lezione originaria (nella tradizione lessicografica, infatti, è δᾴς ad essere glossato con λαμπάς e non viceversa: cf. e.g. Hsch. δ 9; Σ δ 1 Cunningham; Suda δ 5 Adler; Phot. Lex. δ 1 Theodoridis). Ma non si può escludere una semplice sovrapposizione mentale di sinonimi dove il termine più frequente si è sovrapposto a quello meno usato. 372a2 Ποινῶν: solitamente si fa dipendere il genitivo Ποινῶν da δᾳσίν (“bruciati continuamente dalle torce delle Pene”). Tuttavia, questo ritardo del genitivo è anomalo nell’Assioco. Non si può escludere che si debba scrivere καὶ δᾳσὶν ἐπιμόνως πυρούμενοι Ποινῶν, “bruciati continuamente dalle Pene con le torce”. Per la caduta di πρός davanti a parola iniziante per π cf. Cobet (1862), 239, Lapini (2013a), 163 n. 7 («immaginandoli abbreviati, cioè in pratica ridotti alla sola iniziale … i vari περί, πρό, πρός, παρά ecc. viaggiavano come vasi di coccio fra i Τ, i ΤI, gli H i Π: inevitabili le aplografie e le dittografie») e Lapini (2016b), 173 n. 5. Per l’uso di πρός in luogo di ὑπό cf. 364b4, con il commento ad loc. Già in Aeschn. Or. 1 (In Timarchum), 190 le Pene sono rappresentate con delle torce (Ποινὰς ἐλαύνειν καὶ κολάζειν δᾳσὶν ἡμμέναις), tuttavia non come creature infernali, ma come divinità della vendetta. La connessione tra le Pene e l’Aldilà è post-classica (cf. Arr. EpictD. II 20, 17; Luc. 38 (Nec.), 9 e 11; 40 (Luct.), 6; in genere si ritiene che questo loro ruolo si sia sviluppato in età ellenistica: cf. Chevalier (1915), 94 e Andò (1984), 108). Per le punizioni dei dannati con il fuoco cf. e.g. Luc. 40 (Luct.), 8 (con Andò (1984), 114).

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372a2 πᾶσαν αἰκίαν αἰκιζόμενοι: per espressioni analoghe cf. e.g. Pol. XXIV 9, 13; Phil. Mos. I 44; Ios. BI. VII 52; Plut. Pomp. 80, 6.

Epilogo (372a3–16) 372a4–5 λόγῳ ἀνθελκόμενος: il verbo ἀνθέλκω è utilizzato in senso astratto «of resistance of facts to suggested inference» (LSJ s.v., cf. e.g. Philod. Sign. col. XVII, ll. 1-2 e col. XVIII, ll. 30-31 De Lacy). Allo stesso tempo, ἀνθέλκω può indicare la tensione, fondata sull’osservazione di dati della realtà, verso una conclusione che si oppone ad un’altra (cf. D.H. AR. VIII 79, 3, ἐκεῖνα δέ με ἀνθέλκει τεκμηρίων ὄντα οὔτ’ ἐλάχιστα οὔτ’ ἀπίθανα καὶ πρὸς τὴν ἑτέραν ἄγει συγκατάθεσιν). Con λόγος si intende qui la ragione che valuta l’insieme dei dati nell’atto di formulare un giudizio o di trarre una conclusione (cf. Männlein-Robert (2012), 91 n. 135). Con λόγῳ ἀνθελκόμενος si esprime, dunque, la resistenza della ragione ad accettare la narrazione mitica. Analoga prudenza Socrate mostra di fronte al mito del Fedone (114d, τὸ μὲν οὖν ταῦτα διισχυρίσασθαι οὕτως ἔχειν ὡς ἐγὼ διελήλυθα, οὐ πρέπει νοῦν ἔχοντι ἀνδρί, cf. anche Männlein-Robert (2012), 91 n. 135). 372a5 τοῦτο μόνον ἐμπέδως οἶδα: l’avverbio ἐμπέδως, “fermamente”, ricorre in poesia (cf. e.g. Aeschl. Ag. 854, 975; Eu. 335; Soph. Tr. 487), in Polibio (II 19, 1) e in prosa più tarda (e.g. Porph. Abst. II 41). Può stupire l’uso di questo avverbio in un dialogo dall’impostazione scettica di fondo. Tuttavia, è interessante notare che un neopirroniano come Enesidemo accusava l’Accademia scettica di produrre su molte questioni, tra cui il bene e il male, delle affermazioni certe (Aenes. B 3 Polito = Phot. Bibl. 212, 170a 17–20, ἀρετήν τε γὰρ καὶ ἀφροσύνην εἰσάγουσι, καὶ ἀγαθὸν καὶ κακὸν ὑποτίθενται … ἄλλα τε πολλὰ βεβαίως ὁρίζουσι, con Polito (2014), 114–122 e 124). Per quanto siano affermate con sicurezza in un dato momento, si tratta di opinioni che possono essere sempre riviste (cf. supra pp. 72 e 74). 372a5–7 ὅτι ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος … καὶ ἄλυπος: l’espressione ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος riprende Plat. Phaedr. 245c (ψυχὴ πᾶσα ἀθάνατος). Fin dall’antichità si discuteva sul problema se πᾶσα abbia valore singolare (“l’anima tutta intera”, “l’anima nel suo complesso”), oppure valore plurale (“ogni anima”): cf. Herm. In Phaedr. 245c (p. 102 Couvreur = pp. 107–108 Lucarini-Moreschini), πρῶτον περὶ ποίας ψυχῆς ὁ λόγος ζητητέον. οἱ μὲν γὰρ περὶ τῆς τοῦ κόσμου μόνης ᾠήθησαν εἶναι τὸν λόγον διὰ τὸ εἰρηκέναι αὐτὸν “πᾶσα” καὶ μετ’ ὀλίγα ἐπάγειν ἢ πάντα τε οὐρανὸν πᾶσάν τε γένεσιν ξυμπεσοῦσαν στῆναι ὧν ἐστι Ποσειδώνιος ὁ Στωïκός (393 Theiler = 290 Edelstein-Kidd2). οἱ δὲ περὶ πάσης ἁπλῶς, καὶ τῆς τοῦ μύρμηκος καὶ μυίας,

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ὧν ἐστιν Ἁρποκρατίων (T 15 Gioé)· τὸ γὰρ πᾶσα ἐπὶ πάσης ψυχῆς ἀκούει (cf. inoltre de Vries (1969), 121; Centrone (1998), 145 n. 91; Bonazzi (2011), 89 n. 103 e Yunis (2011), 136–137, i quali, per ragioni di coerenza argomentativa, propendono per la seconda interpretazione). Nell’Assioco ἡ δὲ mostra che ἅπασα è stato inteso in senso singolare (“l’anima nel suo complesso”). Tuttavia, è sospetto che qui Socrate affermi con tanta sicurezza di sapere che l’anima è immortale. A 366b6-c1, infatti, dopo aver esposto il primo discorso sull’immortalità dell’anima, Socrate ha affermato di non avere nessuna conoscenza in materia, e di limitarsi a riportare un discorso ascoltato dal sapiente Prodico. Si può pensare che Socrate non voglia esprimere una convinzione assoluta, ma la forte persuasione che lo sviluppo del dialogo ha prodotto in Socrate medesimo (cf. anche supra p. 69 n. 161 e p. 70). Tuttavia, non si può escludere che il testo sia corrotto e che si debba scrivere ἐγὼ γὰρ λόγῳ ἀνθελκόμενος τοῦτο μόνον ἐμπέδως οἶδα, ὅτι, ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος, {ἡ δὲ} ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα καὶ ἄλυπος. ὥστε ἢ κάτω ἢ ἄνω εὐδαιμονεῖν σε δεῖ, Ἀξίοχε, βεβιωκότα εὐσεβῶς. In questo modo Socrate non afferma con assoluta sicurezza che l’anima è immortale, ma che, se si ammette che l’anima è immortale, allora è logico aspettarsi che, una volta che l’anima si è separata dal corpo, non si deve temere alcun dolore. Un movimento sintattico analogo si osserva in Plat. Phaed. 107c, Ἀλλὰ τόδε γ’, ἔφη, ὦ ἄνδρες, δίκαιον διανοηθῆναι, ὅτι, εἴπερ ἡ ψυχὴ ἀθάνατος, ἐπιμελείας δὴ δεῖται οὐχ ὑπὲρ τοῦ χρόνου τούτου μόνον ἐν ᾧ καλοῦμεν τὸ ζῆν, ἀλλ’ ὑπὲρ τοῦ παντός, e soprattutto in Plat. Phaed. 106e, ὁπότε δὲ τὸ ἀθάνατον καὶ ἀδιάφθορόν ἐστιν, ἄλλο τι ψυχὴ ἤ, εἰ ἀθάνατος τυγχάνει οὖσα, καὶ ἀνώλεθρος ἂν εἴη, dove εἰ ἀθάνατος ... καὶ ἀνώλεθρος offre un parallelo puntuale per ... ἀθάνατος, ... καὶ ἄλυπος. Se si ammette questa soluzione, si può pensare che l’autore dell’Assioco abbia deciso di riprendere la perentoria espressione del Fedro e di “mitigarla” attraverso una tournure che aveva dei precedenti nel Fedone. Tra le caratteristiche proprie dell’esegesi “scettica” dei dialoghi platonici, gli anonimi Prolegomena alla filosofia di Platone segnalano proprio l’attenzione che gli Accademici scettici prestavano alle sfumature che potevano attenuare il rischio di un’interpretazione dogmatica delle affermazioni platoniche (Proleg. 10, 7–10, λέγει [scil. Platone] τοίνυν, φασίν [scil. gli Accademici], ἐπιρρήματά τινα ἀμφίβολά τε καὶ διστατικὰ περὶ πραγμάτων διαλεγόμενος, οἶόν ἐστιν τὸ “εἰκὸς” καὶ τὸ “ἴσως” καὶ “τάχ’ ὡς οἶμαι”, cf. inoltre Dal Pra (1950), 77 e Bonazzi (2003), 80). È verosimile che quella stessa strategia esegetica escogitata per interpretare i dialoghi di Platone abbia operato anche nella produzione degli scritti che l’Accademia nel corso del tempo aveva affiancato alle opere autentiche. Nella loro produzione, cioè, gli Accademici

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Epilogo (372a3–16)

avranno fatto uso di quegli stessi espedienti che ai loro occhi erano serviti a Platone per evitare prese di posizione dogmatiche (cf. anche supra p. 29). La caduta di εἰ non ha bisogno di particolari spiegazioni (cf. e.g. Thuc. V 32, 3 (ed. Alberti), καὶ Κορίνθιοι καὶ Ἀργεῖοι ἤδη ξύμμαχοι ὄντες ἔρχονται ἐς Τεγέαν ... ὁρῶντες μέγα μέρος ὂν καί, εἰ (εἰ om. Z) σφίσι προσγένοιτο, νομίζοντες ἅπασαν ἂν ἔχειν Πελοπόννησον, Plat. Phaed. 106e (ed. Duke et. al.), ἄλλο τι ψυχὴ ἤ, εἰ (εἰ om. Q) ἀθάνατος τυγχάνει οὖσα, καὶ ἀνώλεθρος ἂν εἴη, [Alex. Aphr.] Quaest. XIX, p. 63, 8 (ed. Bruns), ὅτι (εἰ add. B2 tab. Sp.) ὁ κόσμος ἀΐδιός ἐστι κτλ., Areth. Scr. Min. XIV 7, I p. 140, 29 (ed. Westerink), ὅτι (εἰ add. Westerink) ἡ τοῦ κυρίου παρουσία κτλ.). L’espunzione di ἡ δέ è una conseguenza dell’integrazione di εἰ: con ἡ δέ, infatti, ci si aspetta l’inizio di una nuova frase indipendente da ὅτι. Una volta caduto εἰ si rende necessario un nesso che separi ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα dal precedente ψυχὴ ἅπασα ἀθάνατος e lo colleghi al successivo καὶ ἄλυπος: è evidente che l’anima è immortale a prescindere dal fatto che sia legata al corpo o meno. Donde l’interpolazione di ἡ δέ. Nel II d.C. il medio-platonico Attico, critico nei confronti di coloro che mettevano in discussione la fede di Platone nell’immortalità dell’anima, evocava le inquietanti conseguenze che la negazione di questa dottrina avrebbe avuto per il platonismo e non solo (cf. Eus. PE. XV 9, 1–3, p. 369, 8–15 Mras = fr. 7 Des Places; questo frammento è ricordato anche da Hershbell (1981), 70 n. 82, ma per ragioni diverse). Tra il V e il VI secolo il neoplatonico Ammonio compose un’opera intera intorno ad un passo del Fedone (69d) per confutare coloro che (verosimilmente gli Accademici) proprio in base a questo passo avevano sostenuto che Platone era incerto circa l’immortalità dell’anima: (cf. Olymp. in Phaed. 8, 17, I p. 127 Westerink). Non si può escludere che la frase sia stata deliberatamente alterata da un platonico dogmatico (sulle interpolazioni “ideologiche” sul testo di Platone cf. Carlini (1972), 71 e n. 105; Tulli (2012), 49–54 e Petrucci (2018), 128–153; cf. inoltre supra pp. 113-115; per il problema discusso in questo lemma cf. già Beghini (2019), 247–255). 372a6–7 ἡ δὲ ἐκ τοῦδε τοῦ χωρίου μετασταθεῖσα: Fischer (1786), 167 suggeriva «sed pro χωρίου videndum annon rectius legatur φρουρίου». Tuttavia, in questo caso si ha una contrapposizione tra la regione terrena e quella celeste (cf. 372a12, εἰς ἀμείνω οἶκον). Diverso è il caso di 366a1 (cf. il commento a 365e6-366a1). 372a7 ἢ κάτω ἢ ἄνω: con κάτω si fa riferimento all’Aldilà del mito di Gobria; con ἄνω all’ascesa celeste dell’anima di cui si è parlato in 365e2– 366b1 e in 370c6-d6. Socrate non prende una posizione circa questa alternativa. Per un’analoga espressione di cautela sulle sorti dell’anima immortale dopo la morte cf. Plat. Phaed. 114d, ὅτι μέντοι ἢ ταῦτ’ ἐστὶν ἢ τοιαῦτ’ ἄττα

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Commento

περὶ τὰς ψυχὰς ἡμῶν καὶ τὰς οἰκήσεις, κτλ. (anche in questo caso al termine dell’esposizione del mito dell’Aldilà). 372a9 αἰσχύνομαι σοί τι εἰπεῖν: una volta convinto dell’immortalità dell’anima, Assioco prova imbarazzo, forse perché ora la disperazione a cui si era abbandonato prima dell’intervento di Socrate (cf. 364b6 e 365a2–5) gli pare completamente assurda. 372a15–16 ἐπάνειμι ἐς Κυνόσαργες, ἐς περίπατον: il dialogo si chiude con una Ringkomposition (cf. anche Männlein-Robert (2012), 92 n. 140). Sull’accumulo delle indicazioni spaziali nel CP cf. Neri (1999), 61–62 (e.g. Plat. Symp. 172a, καὶ γὰρ ἐτύγχανον πρῴην εἰς ἄστυ οἴκοθεν ἀνιὼν Φαληρόθεν, HipMi. 363d, ἀεὶ ἐπανιὼν οἴκοθεν ἐξ Ἤλιδος εἰς τὸ ἱερὸν παρέχω ἑμαυτόν, Ion 530a, πόθεν τὰ νῦν ἡμῖν ἐπιδεδήμηκας; ἢ οἴκοθεν ἐξ Ἐφέσου;). Tuttavia, in questo caso forse ci si sarebbe aspettati ἐπάνειμι ἐς περίπατον ἐς Κυνόσαργες, dove ἐς Κυνόσαργες indica la destinazione della passeggiata (cf. e.g. Plat. Phaedr. 227d, ὥστ’ ἐὰν βαδίζων ποιῇ τὸν περίπατον Μέγαράδε). Si può pensare di trasporre ἐς Κυνόσαργες dopo ἐς περίπατον, oppure, meglio, di espungerlo seguendo Matthiae (1835), 305. Può trattarsi, infatti, di una glossa ripresa dall’incipit del dialogo. È da escludere che il termine περίπατος alluda in qualche modo al Peripato (questa possibilità è sollevata dubitativamente da Männlein-Robert (2012), 60 n. 1).

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497 Per le abbreviazioni delle opere e degli autori greci si è fatto riferimento, con una certa libertà, a LSJ e a GE (quest’ultimo è stato tenuto presente anche per le abbreviazioni dei papiri) a seconda della soluzione che di volta in volta pareva più funzionale. Per le abbreviazioni delle opere e degli autori latini si è fatto riferimento, sempre con una certa libertà, a OCD.

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Index nominum et rerum notabilium498

Accademia antica: 19, 29, 33, 41 e n. 103, 245, 249, 250. Accademia scettica: 22, 28 n. 70, 29, 40, 67–87, 245, 255, 345–347. Agricola, Rodolfo: 11 n. 1, 13, 131, 146, 148, 210, 269, 295, 327. Agrippa, Cornelio: 12, 49 n. 126. Alberti, Leon Battista: 13–14, 15, 17. Aldina, edizione: 147, 148, 150, 198 n. 479, 307, 316, 318. alternativa socratica: 72–73 e n. 172, 79. Ambrosianus D 56: 121 e n. 316. anacronismo: 22–26, 204, 207, 208, 272, 277, 304. analogia tra medicina e filosofia: 76, 216. Angelicus gr. 107: 117 e n. 303. Appendix Platonica: 90–91, 99–100 n. 244, 101, 104 n. 260, 193–194. archetipo: 98, 154–156. Aristotele perduto: 41 nn. 103 e 105, 244, 249, 253, 316. Basilea, prima edizione di: 147, 148, 150. Basilea, seconda edizione di: 147–148, 150. Bessarione: 112, 114, 129–130 e nn. 342– 345, 149 n. 424, 162, 286–287. Biante di Priene: 107 n. 276, 292–294. brogliaccio: 40 n. 98, 59 n. 141, 80–81, 84. Bruxellensis 11360–11363: 126 e n. 337. Campanella, Tommaso: 17, 281. Cassarino, Antonio: 12, 145, 275. Cencio de’ Rustici: 12–13, 144–145, 197– 198, 269, 307. Cicerone: 13–14 n. 12, 25 n. 58, 27, 30–39, 64–65, 72–81, 83–84, 86 n. 204, 104 n. 260, 134, 230, 233, 239, 244. Clemente Alessandrino: 37, 134–135. Clericus (Jean Le Clerc): 18–19 nn. 30–31, 149–150. congettura involontaria: 143, 147.

consolatio/tradizione consolatoria: 33–39, 41, 43, 73 e n. 172, 239, 259, 308. Consolatio ad Apollonium: cf. pseudo-Plutarco contaminazione extrastemmatica: 97 n. 232, 111–112 n. 286, 326. contaminazione pretradizionale: 91, 139, 155. contaminazione: 91, 91–92 n. 213, 93–94 n. 218, 97 n. 232, 99, 111–112 n. 286, 116 e n. 301, 123, 124, e n. 325, 127–128 n. 341, 139, 143 n. 404, 148 n. 426, 153– 156. contra propositum disputare: 76–77 n. 185. Cornarius, Janus: 132–134, 148, 149, 150. Crantore di Soli: 19, 25 n. 58, 33–35, 38, 39 n. 96, 78 n. 187, 79. critica contro il δῆμος: 81–84. Dalberg, Johann von: 130–132. Dalburgianus: 120–121 n. 312, 130–132, 150. deploratio vitae: 43, 55–56, 60, 66–67 n. 156, 68–69 n. 160, 265. diatriba cinico-stoica: 41 e nn. 104–105, 197, 290. disputatio in utramque partem: 76–77 n. 185. Dolet, Étienne: 11–12, 15, 49 n. 126. enumeratio malorum: 251, 265, 266. Epicarmo: 135, 260–264. Epicuro/epicureismo/epicureo: 11, 31, 41, 68, 71 n. 166, 72–73 n. 171, 76–77 n. 185, 82, 85, 231, 236, 237, 241, 245, 248, 253, 258, 268, 308–309, 311, 322, 323. Erasmo: 14, 261–263, 294, 295. Eschine di Sfetto: 18–19, 25, 149–150, 204, 206, 265. Escorialensis Ψ.Ι.1: 112–114 e n. 289. Ficino, Marsilio: 13, 18 e n. 29, 111–112 n. 286, 115–116 n. 299, 120 n. 311, 143 n.

498 Per le voci ricorrenti con estrema frequenza, soprattutto all’interno del commento (e.g. Cicerone, Fischer, Parisinus gr. 1807, Prodico, etc.), sono state indicizzate solo le occorrenze più significative.

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Index nominum et rerum notabilium 404, 145–146, 148, 149, 211, 245, 260, 271, 308, 327, 333. Filagato da Cerami: 139–40 e n. 389. Filone di Alessandria: 134 e n. 368, 316, 317, 318, 322. Filone di Larissa: 22 n. 45, 28 n. 70, 75–76, 76–77 n. 185, 79, 83–87 e n. 204. Fischer, Johann Friedrich: 16, 17 n. 27, 18, 150. forma narrativa/forma drammatica: 26–27 e nn. 66–67, 47 e n. 123. Fragmentum Marcianum: 139–140, 194, 195, 199, 208. Gregorio diacono e referendario: 137–139 e n. 380, 249, 322. Hassensteinianus: 132–134. Horreus, Petrus: 17 n. 27, 18 n. 30, 149– 150. Huet, Pierre-Daniel: 131–132. interpolazione: 152, 210, 236–237, 309– 310, 342, 347. κοινή: 24, 217, 240, 244, 246, 254. Laurentianus conv. soppr. 78: 111 e n. 285, 121 n. 314. Laurentianus plut. 11.13: 95–100 e n. 226. Laurentianus plut. 28.29: 113 e nn. 292–293. Laurentianus plut. 59.1: 117–120 e nn. 304, 309. Laurentianus plut. 80.17: 111–112 e n. 286, 145–146 e n. 416, 153, 282. Laurentianus plut. 85.9: 120 e n. 311, 125, 145–146 e n. 416, 149, 209. Leidensis Voss. gr. Q. 54 : 125 e n. 334. Leopardi, Giacomo: 17 e n. 27, 278. Lucrezio: 228, 233, 234, 236, 239, 248, 268, 269, 281, 296, 308, 309, 315, 320, 341. Malatestianus D.XXVIII.4: 121 e n. 315, 124–125 e nn. 328–331. Marcianus gr. 184: 129 e n. 345, 286. Marcianus gr. 186: 127–129 e nn. 342–344, 286. Marcianus gr. 188: 111–115 e nn. 287–288. Marcianus gr. 189: 127 e n. 341. Marcianus gr. 590: 126 e n. 338, Marcianus gr. Append. Class. IV.1: 107, 109– 110. medio-platonismo/medio-platonico: 86 n. 204. metodo pragmatico-empirico: 67–76, 86.

Metodio di Olimpo: 135, 249, 322. Monacensis gr. 313: 125 e n. 335, 130–131. Monacensis gr. 408: 126 e n. 339, 133–134. Montaigne, Michel de: 17. Occo I, Adolph: 15, 125 n. 335, 130–131 e nn. 349, 350. Parisinus gr. 1807: 91–95. Parisinus gr. 1808: 106–110. Parisinus gr. 1809: 117 e n. 305, 119 e n. 310, 121–124 Parisinus gr. 2010: 92–93 n. 215, 99–100 n. 244, 117–118 e n. 306. Parisinus gr. 2110: 95–100 e n. 224. Parisinus gr. 3009: 112–114 e n. 290. Parisinus suppl. gr. 69: 120 e n. 312, 125, 130–132. Perionius (Joachim Périon): 30 e n. 76, 32, 77, 148, 150, 230. Περὶ πένθους: cf. Crantore di Soli Planude: 142–143, 245. Pletone, Giorgio Gemisto: 114–115, 127– 128 n. 341. poligenesi dell’errore /congettura poligenetica: 97 nn. 232–233, 104 nn. 260 e 262, 108–109 n. 279, 111 n. 285, 117 n. 304, 122 n. 322, 125–126 n. 337, 154 n. 450, 284, 326. Prodico di Ceo: 68–69 n. 160, 257–259. Psello: 112–113 n. 286, 140–141, 281–282. pseudo-Plutarco: 33–39. pubblicazione postuma: 58–59 e n. 141, 63, 67, 79–81, 84–85. Rayanus, Hermannus: 15, 148, 150. redattore: 63, 64, 80, 237. repertori/antologie/gnomologi: 33–41, 135–136, 141, 284–285, 288, 289. Rinuccio Aretino: 12, 13–14 n. 12, 143– 144, 211. scetticismo moderato: 75–76, 85. Senocrate di Calcedonia: 18, 41 n. 103, 248, 249, 335. Shakespeare, William: 15. Stephanus (Henri Estienne): 149. Stobeo: 135–137. Telete: 41 e n. 105. Teodoro Prodromo: 141. Teofilatto Simocatta: 137. Thomas Magister: 141–142. Trasillo, astronomo e grammatico: 18, 134, 193.

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Index nominum et rerum notabilium Tusculanae I: cf. Cicerone Urbinas gr. 32: 121 e n. 313. Urbinas gr. 80: 125–126 e n. 336. variante d’autore: 64, 66 e n. 156, 237, 267, 283. Vaticanus gr. 1: 100–105. Vaticanus gr. 1029: 103–105 e n. 258, 115, 124–125. Vaticanus gr. 1031: 103–105 e n. 257, 111. Vaticanus gr. 2236: 112–115 e n. 291. Vaticanus gr. 226: 118 e n. 307, 120–121.

Vindobonensis phil. gr. 109: 115–116 e n. 299, 146 n. 417, 237, 316. Vindobonensis phil. gr. 21: 121–123 e n. 335, 125–126, 133–134. Vindobonensis suppl. gr. 20: 103–105 e n. 259. Vindobonensis suppl. gr. 39: 116 e n. 302, 209. Voss, Isaac: 132. Wolf, Hieronymus: 15–16, 148–149. Zittaviensis gr. A 2: 127 e n. 340, 134.

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