Per la poesia italiana. Studi, ritratti, saggi e discorsi. Vol. 2: Da Belli a Gramsci 8875731489


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Per la poesia italiana. Studi, ritratti, saggi e discorsi. Vol. 2: Da Belli a Gramsci
 8875731489

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L’IPPOGRIFO 42

Carlo Muscetta

PER LA POESIA ITALIANA Studi, ritratti, saggi e discorsi I Da Belli a Gramsci

BONACCI

EDITORE

ROMA

RUeEPOGIRITEEO Collana di testi e studi diretta da Aulo Greco

42 MINISTERO PER | BENI UFFICIO BRARI

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WITHDRAWN From Toronto Public Library

Digitized by the Internet Archive in 20283 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/perlapoesiaitalid002musc

par

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Carlo Muscetta

PER LA POESIA ITALIANA Studi, ritratti, saggi e discorsi Il Da Belli a Gramsci

BONACCI

EDITORE

ROMA

0000280" Carlo Muscetta

PER LÀ POESIA ITALIANA

VOL.29,

bonacci édit. roma

©

1988, Bonacci editore - Roma

ISBN 88-7573-148-9

Queste pagine ‘ dové non si fa critica «a soggetto »

son dedicate a tutti i miei scolari con i quali ho appreso come

arcistudente

a leggere i testi

Opere di Carlo Muscetta

Leopardi.

pubblicate

nell’Ippogrifo

Schizzi studi e letture

Studi sul De Sanctis e altri scritti di storia della critica Cultura e poesia di G. G. Belli Pace e guerra

nella poesia contemporanea

da Alfonso Gatto

a Umberto

Saba

In occasione del settantacinquesimo compleanno di Carlo Muscetta hanno promosso questa raccolta i suoi amici e i suoi scolari Nino Borsellino Gaetano Compagnino Giulio Ferroni Franco

Fortini

Vanna Gazzola Stacchini

Marziano Guglielminetti Maria Teresa

Lanza

Romano Luperini Carlo L. Madrignani Sandro Mazxia Giancarlo Mazzacurati Nicolò Mineo Rosamaria Monastra Guido Nicastro Silvano S. Nigro

Emilio Pasquini Walter Padullà Mario

Petrucciani

Edoardo

Sanguineti

Gennaro Savarese Giuseppe Savoca Mario Scotti

Vittorio Spinazzola Domenico Tanteri Achille Tartaro Francesco Tateo

Mario Tropea

LA « COMMEDIA

ROMANA » DI BELLI

Li Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) visse tra gli anni della decadenza e il tramonto dello Stato Pontificio, tra la Rivoluzione Francese e la nascita del nostro Stato unitario. Da molto Roma aveva perduto anche la funzione di guida culturale dell’Italia, che l’Arcadia sembrava averle solennemente riconosciuta e riconfermata. Alla fine del ’700 ben poco potè realizzare il velleitario riformismo di Pio VI in un organismo ridotto alle condizioni sociali ed economiche più arretrate della penisola. La Grande Rivoluzione potè immettervi solo i necessari fermenti di una crisi. E infatti persino qui riuscirono a formarsi alcuni dei maggiori focolai d’ « infezione giacobina » (a Bologna e nella stessa Roma, dove sul « Monitore » Vincenzio Russo potè per qualche tempo esprimere le audaci posi-

zioni del suo pensiero): le plebi cittadine non ne rimasero immuni. Ma predominante fu senza dubbio l’impulso della propaganda controrivoluzionaria, sia che impersonasse in Nicola Spedalieri (Dei diritti dell’uomo, 1791) un pensiero pseudoinnovatore e tentasse di rivendicare al cristianesimo una primogenitura democratica, sia che si volgesse all’orecchio e all’immaginazione attraverso le forme tradizionali della visione dantesca con la Bassvilliama (1793) di Vincenzo Monti, il poeta più famoso della capitale pontificia. Egli aveva celebrato nella Prosopopea di Pericle quel fervore antiquario che non poteva certo surrogare una cultura moderna. Per altra via (e il genio di Leopardi la trovò) poteva approdare al mondo moderno quel ritorno ai Greci e ai Latini divenuto parola d’ordine di un classicismo baroccheggiante (o piuttosto controclassicismo, se vogliamo badare alla sua sostanza conservatrice o addirittura reazionaria). Non a caso gli uomini più moderni del movimento classicista erano vissuti oscuramente, come l’abate Giuseppe Spalletti, che col suo Saggio sopra la bellezza (1765) 7

aveva dato un così deciso contributo all’estetica antiplatonica del caratteristico; o furono osteggiati e dovettero andarsene, come Francesco Milizia, che sulla Roma di Pio VI lasciò poi alcune lettere divertentissime (pubblicate postume nel 1827), con piccanti aneddoti satirici. L'attività culturale e politica di Roma durante i primi dieci anni del pontificato di Pio VII (1799-1809) sembrava esser tornata brillante grazie agli sforzi del segretario di stato Ercole Consalvi e alla presenza di scrittori di fama europea come Chateaubriand e M.me de Staél, leaders dell’opposizione antinapoleonica e del romanticismo. Ma in effetti il periodo più propriamente napoleonico di Roma città imperiale e libera, col Papa prigioniero a Fontainebleau, segnò un vero e proprio crollo. Gli ingegni più vivi erano stati attirati là dove pulsava la nuova vita sociale e si concentravano gli interessi che sostenevano l’Impero. Canova era dovunque occorresse monumentare i fasti del vincitore. A Roma gli succedeva il suo ben più frigido imitatore e continuatore Thorvaldsen. Monti, primo a volare incontro ai francesi, era da anni a Milano, divenuto poeta ufficiale e cavaliere. Non lo sostituiva certo l’abate Missirini, neoellenista e neopetrarchista imbalsamato nell’arcadia platoneggiante, prima di convertirsi all’arcadia romantica. Era costretto dalle delizie della censura a vagare in Italia e a Parigi il commediografo Giovanni Giraud, uno dei primi in quel tempo e l’unico che ancora resista oggi alla rappresentazione. A Roma passava gli ultimi anni il vecchio Gherardo De’ Rossi, ridotto a contentarsi di epigrammi e a ristampare le sue letterarie e tutt’altro che rivoluzionarie commedie. A Parigi viveva da anni, onorato come il primo archeologo d’Europa, Ennio Quirino Visconti. A Roma imperversava l’abate Cancellieri, di farraginosa memoria, « uno dei più grandi palloni gonfiati dell’erudizione romana », che di tali palloni certo non difettava. Il solo letterato di fama nazionale più che provinciale, era un romano di adozione, quell’« omon » di Alessandro Verri (come esagerava il Porta): ma più che settantenne, era ormai ombra tra le ombre e i sepolcri dei suoi fortunatissimi

romanzi

(Le avventure

di Saffo, Le notti romane

al sepolcro

degli Scipioni) ai quali, interrompendo il lungo silenzio, avrebbe aggiunto nel 1815 l’ultimo, ispirato dalla grandezza e decadenza di Napoleone, La vita di Erostrato, più apertamente reazionario degli altri, e come gli altri vestito all’antica. In questo ambiente in cui il passato si rimbellettava solo per resistere più tenacemente, il patriottismo antifrancese era prevalente negazione municipale: tardava ad allignare il seme di quegli elementi progressivi, dai quali altrove nasceva una letteratura nazionale e popolare. Le stesse forme organizzative erano vecchie e denotavano scarsa vitalità. L'Accademia Ellenica fondata nel 1809 da Antonio Nibby, insigne antiquario e topografo romano, avrebbe dovuto avere un indirizzo prevalen-

8

temente erudito, ma era divenuta solo strumento di attrazione e soggezione degli intellettuali all'Impero. Non appena giunsero gli echi delle disastrose campagne di Spagna e di Russia, una piccola congiura frondista produsse la scissione dell’Accademia Ellenica, precotrendo il clima della Restaurazione. Così nel 1813 nasceva l'Accademia Tiberina, i cui promotori furono Giacomo Ferretti, apprezzato librettista d’opera, e un giovane destinato ad avere soprattutto una gloria postuma, benché fin da allora considerato una promessa della vita letteraria romana: appunto, Giuseppe Gioachino Belli.

II La sua infanzia e la sua adolescenza erano state investite in pieno dai rivolgimenti repubblicani che avevano sconvolto lo Stato della Chiesa. A sette anni, nel 1798, dovette seguire la madre Luigia Mazio, che avendo dato ricetto al cugino Gennaro Valentino (comandante dell’esercito di Ferdinando IV, sconfitto da Championnet), dovette rifugiarsi presso il

fratello banchiere a Napoli, ma quando giunse la notizia che il Valentino, accusato di cospirazione antifrancese e antirepubblicana, era stato ripreso e fucilato, fu sospettata di tradimento, e a stento salvata dal furore della plebe, mentre a Roma la dichiaravano nemica della Repubblica insieme col marito, e ne proscrivevano i beni. A indennizzo dei danni sofferti, dopo il triennio repubblicano, Gaudenzio Belli, per intercessione della regina Maria Carolina, ebbe da Pio VII un ufficio nel porto di Civitavecchia. Ma il luogo dove la famiglia Belli sperava rifarsi divenne « il teatro della su4 rovina », come scriveva in una lettera autobiografica lo sventurato giovane, che nel 1802 vide morire il padre, prodigatosi al soccorso degli appestati durante una violenta epidemia. Passato dagli agi e dai sogni della fanciullezza a una luttuosa adolescenza, il Belli tornò a Roma con la madre, che aveva dolorosamente superata una terza gravidanza e si ritrovò sola con i tre orfanelli ad affrontare una dura miseria. La famiglia visse del suo lavoro di sarta, finché nel 1806 la giovane donna pensò di risposarsi, anche per alleviare le pene dei figli. Ma l’anno dopo moriva. Giuseppe fu costretto ad abbandonare gli studi e dovè pensare a mettere a frutto quel poco che aveva appreso, rivelando una qualche inclinazione letteraria (al 1805 risalgono i suoi primi versi, La campagna, centone di luoghi comuni della letteratura idillica). Lo zio lo aiutò a trovarsi un impiego di computista prima presso la famiglia Rospigliosi, poi agli spogli ecclesiastici e all’ufficio del Demanio, nell’amministrazione dell’Impero napoleonico. Ma nel 1810 fu collocato in congedo 9

con una pensione irrisoria. Nel 1811 fu ospitato in casa Ricci e poi accolto

come segretario al servizio del principe Stanislao Poniatowski. Qui conobbe da vicino la corruttela dell’aristocrazia. Venuto in contrasto con una « meretrice » del principe, dovette andarsene e mendicare asilo presso l’abate Michele Viale Prelà, futuro arcivescovo di Bologna. In questo oscuro periodo della sua vita si sa che abitò anche nel convento dei cappuccini presso piazza Barberini e che la protezione di un altro futuro cardinale, il padre Ludovico Micara, gli valse ad ottenere lezioni private e l’incarico di ricopiare le opere inedite di Bernardino Baldi. Questa durissima esperienza non poteva non riflettersi nell’attività letteraria, o piuttosto sfogo di un animo esacerbato da tante e così gravi sventure. Onde nei suoi scritti la preferenza di certi modelli, temi e metri. Nelle Lamzentazioni (1807), cinque componimenti

sono

in versi sciolti e

formano con gli altri un polimetro alla maniera ossianesca del Cesarotti, con in più (per colmo d’enfasi) i motivi di tutta l’arcadia lugubre che vantava i suoi modelli più autorevoli in Varano e Monti, e nelle traduzioni di Young. La palma della bruttezza spetta però agli sciolti che il Belli non seppe mai maneggiare. Solo la terza lamentazione, intitolata con aperto linguaggio controriformista Oblazione alla morte, ha invece qualche tratto energico, quasi di riscossa da un languore sentimentale, che, perseguito

in astratto

e per

reminiscenze,

era

del tutto

all’animo ormai virile del giovane, rafforzato dalle sue stesse Artide e concettose

sono

le terzine

del Convito

di Baldassarre

estraneo

sventure. (1812);

pedestre e goffo (ma è solo un abbozzo) il poema La sconfitta dei Madianiti; versificazione piatta e senza alcun moto di eloquenza i Sali in sciolti; scheletro di scheletro, le terzine varaniane sul Diluvio Universale. La cosa migliore è il poemetto l’Eccidio di Gerusalemme, scrupoloso esercizio

metrico

di riduzione

e condensazione

dell’ottava

di Tasso,

il

quale era onnipresente nella materia, nella condotta narrativa e nella sonorità del verso, ma non con le sue morbidezze e musicalità. Tra questi lavori di principiante spicca soltanto la prosa dell’autobiografia (1811). A vent'anni Belli dimostra di sapet guardare stoicamente a se stesso e all'ambiente in cui è vissuto, con una severità di coscienza morale che si esprime in vigorosi e distaccati giudizi. Ci si accorge subito che non è retorica la sostenuta gravità del suo stile, dove un rilievo solenne è dato così al racconto come alle riflessioni moraleggianti. Non ci si aspetti però di leggere l’autobiografia di un ribelle: è solo la confessione aspra ed amara di un giovane di onesti sentimenti, che si riconduce con docilità all'osservanza della morale cattolica ricevuta, all’ossequio di ogni autorità umana e divina, ricacciando nel più profondo del suo essere un nodo di sentimenti repressi, una inquietudine morale che non oserà facilmente di10

ventare dubbio o pensiero, ma che tuttavia farà groppo e irriducibile resistenza interna. Sono tracce che è difficile cercare sotto la cappa del conformismo ideologico che informa gli altri suoi scritti in quel tempo, soprattutto quelli di maggiore impegno. I tre canti in terzine su La pestilenza stata in Firenze l’anno di nostra salute 1348 (composta nel 18101813 e pubblicata nel 1816) non si spiegano solo grazie all’ambiente letterario di livello provinciale, in cui si restava attaccati alle visioni, nelle loro più viete forme. Ma perché mai egli si era orientato nella scelta di questo tema, una sciagura storica che solo la lettura del Decamerone poteva rendere meno remota dalla memoria? Non c'è dubbio che il Belli era ossessionato dalla tragica epidemia di Civitavecchia che gli aveva ucciso il padre. La prima tra le tante « sferzate » del cielo tornava alla sua meditazione, dopo la prosa dell’autobiografia. Nel poema, al cospetto dell’onnipotente e insondabile mistero della giustizia divina, egli prosternava con enfasi biblicheggiante tutto il suo accecato religioso terrore, ed approdava ai luoghi comuni della rassegnazione cristiana. Questa pedestre maniera montiano-dantesca continuò nel Trionfo della Croce,

composto nel 1813. Ancora per molti anni il Belli non potè fare a meno di cercare qualche eccitamento per i versi di tema devoto proprio nel Monti più scenografico. Solo col tempo egli imparerà a rivestire di qualche decoro le sue manifestazioni di fedeltà al Papa sovrano, e le sue esibizioni conformiste all'Accademia Tiberina. Accanto a questa attività ufficiale, e a correttivo di questa arcadia lugubre, dove una vaga sensibilità romantica, soffocata dai relitti della Controriforma, stentava a trovare un’autentica espressione, altri versi, ri-

conducibili al gusto dell’arcadia giocosa, si rivelano più ricchi di futuro. Notevoli ad esempio sono le ottave bernesche La morte della Morte (1810) scritte per un amico studente di medicina, futuro chirurgo e cognato di Gaetano Donizetti. Il poeta finge di essere ridotto a fare il becchino. In una notte di nebbia fa un sogno strano in cui vede il suo amico Vasselli diventare protagonista di gesta meravigliose. Dopo una processione truculentissima di cadaveri, vero trionfo di tutte le malattie, appare la Morte seduta su un trono di libroni, e in mezzo ad ogni sorta di strumenti chirurgici. Ed ecco avanzare nella turba dei gialli cadaveri, armato di innumerevoli coltelli anatomici, il giovane Vasselli che provoca la Morte, la fa scendere dal suo trono e l’uccide. Motivi seri affiorano anche in questo inferno da burla, dove era solennemente affermato il vecchio motivo cristiano dell’uguaglianza di fronte all’eterno: Il prence stea col mozzo, il servitore col gentil uomo, il dotto col somaro,

Il

l’altiero

conte

accanto

al decrotore,

la gentil dama insiem col carbonaro, il pigionante eguale all’esattore, ed il vago zerbin al giuncataro, erano a truppa infin con Regi e vati, osti, norcini, ciarlatani e abati.

(...) Vidi Caino, che uccise Abele a furia di legnate, Patroclo rimirai oggi Pasquino, Elena la di cui fatal beltate Troia incendiò, il gentil Guerin Meschino che bastardo

credeasi,

il gran Peppe Mastril,

il buon

Porsenna,

Paris e Vienna.

Tutti eguali, e tutti in pace, e tutti ravvicinati di là dalle loro classi e dal loro mondo storico e religioso, illustri e oscuri, briganti ed eroi, personaggi dei libri immortali e dell’umile letteratura popolare. È un fan-

tomatico annuncio di temi e personaggi poetici che prenderanno corpo nel mondo dei sonetti romani, quando Belli avrà ucciso le due morti che minacciavano la sua arte. Una era proprio l’arcadia burlesca, l’altra era la retorica sepolcrale messa in circolazione da Alessandro Verri, che era divenuto un dittatore letterario, e da tempo affascinava anche i giovani più avanzati e atteggiati a giacobini, come

Ugo Foscolo.

La nuova atmosfera pacifica della Restaurazione sembrò incoraggiare le caute speranze di quanti, nella mitezza di Pio VII e nella prudenza moderatrice del cardinal Consalvi, speravano le condizioni di una serena ripresa, al riparo degli eccessi che gli « zelanti », cupidi di vendetta, avrebbero volentieri perseguito. Gli studi archeologici e storici ebbero nuovo impulso (si pensi alla presenza del Niebuhr e alla continuazione degli annali muratoriani, dovuta all’abate piemontese Antonio Coppi). Nuovi musei furono fondati, molti monumenti restaurati. Si ebbero nuove sistemazioni urbanistiche, tra cui il Pincio e Piazza del Popolo, che venivano a incorniciare con amabile spettacolo il volto dell’epoca. Tra le vecchie e 1 nuove accademie benevolmente protette, ebbe un posto distinto la Tiberina. Nel 1818 ne fu eletto presidente Giulio Perticari, il quale si trasferì a Roma e l’anno successivo con Salvatore Betti, Luigi Biondi e il principe Odescalchi fondava una rivista, il « Giornale arcadico », che nello Stato della Chiesa avrebbe dovuto avere funzione di guida conservatrice analoga alla milanese « Biblioteca Italiana ». In mezzo al pacioso conformismo della Tiberina gli ex frondisti dell'Impero potevano continuare le loro amichevoli intese. Confusi coi personaggi ufficiali, tra cui c’era persino il 12

card. Mauro Cappellari (il futuro papa Gregorio XVI), vi troviamo iscritti Pietro Sterbini e Felice Scifoni, che saranno i rappresentanti del movimento liberale e rivoluzionario. Ma l’idillio durò solo qualche anno, finché non scoppiarono i moti costituzionali del ’20 e del ’21. Nel 1816 il Belli intanto aveva regolato la sua unione con la vedova Maria Conti, di oltre tredici anni maggiore di lui: una donna generosa e sfortunata, che dopo aver avuto mezzo dilapidato il patrimonio dal conte Pichi, suo primo marito, protesse col suo affetto materno gli anni della felicità creativa del poeta. Fu lei che gli fece ottenere un impiego, che lo avrebbe anche moralmente sollevato dalla condizione spiacevole di vivere a ridosso della sua agiatezza, in effetti più apparente che solida: come il Belli capì, fortunatamente, solo dopo la sua morte (1837).

Sedotto dalla vita mondana, applaudito dicitore e declamatore (nonché attore dilettante), per qualche anno sembrò che il teatro sollecitasse la sua più profonda vocazione. Il suo amico Ferretti aveva promosso nuove iniziative editoriali (la Biblioteca Teatrale e la Galleria Teatrale, raccolte

di versioni e di opere originali). Belli tradusse un dramma lacrimoso di Pelletier-Volméranges, I fratelli alla prova, e timaneggiò due farse, di cui Il tutor pittore (1816) rivela una certa vivacità nella sceneggiatura e una briosa immediatezza nel ritmo del dialogo (ma non sappiamo se e quanta parte di essa risalga a un supposto originale francese). Il carattere del tutore ipocrita è appena sfiorato e del resto difficilmente poteva essere approfondito in una società alla quale L’ajo nell’imbarazzo di Giraud era già parsa una provocante audacia. Quale carriera teatrale poteva aprirsi a uno scrittore che non volesse accettare i limiti imposti dalla censura clericale? La passione di Belli per il teatro (riconfermata nel 1828 da una cicalata carnevalesca in forma di monologo, I! ciarlatano) non poteva che essere frustrata. La sua vocazione di scrittore comico avrebbe potuto trovare solo nella clandestinità le condizioni più favorevoli per esprimersi nelle forme poetiche più congeniali, come erano quelle litiche e satiriche. Occasione di un esercizio poetico tutto intimo e non destinato al successo in una società così mediocre intellettualmente e più depressiva che stimolante, fu per il Belli l’amore per la ventenne marchesina Vincenza Roberti, conosciuta nel 1821. È un piccolo canzoniere (che consta di 46 sonetti, tra cui qualcuno acrostico) destinato ad esprimere i segreti sensi di una calda passione. Sono versi stilisticamente disuguali, anche per questa destinazione e strumentalità di privata corrispondenza, dove è difficile trascegliere qualche sonetto interamente valido. Ma prima di quelli in dialetto sono tra i migliori versi italiani del Belli. Nel quadro del petrarchismo purista del primo ’800 (si pensi alla fortuna del pedantesco e spocchioso Canzoniere dell’abate Missirini) non sono trascurabili. Certo 13

fanno pensare più a Tansillo che a Petrarca, e cioè più a quel tipo di litica raziocinante e discorsiva che tanto suggestionò il gusto medio, nel lungo smarrimento di classicità trascorso dall’età barocca all’arcadia, ‘e persistente nella cultura attardata di Roma. L'aspetto più positivo di questa esperienza letteraria per il Belli fu di aver perseguito un tema unico in una situazione ritornante, e per alcuni anni. In quei sonetti egli

aveva trovato la fonte di sofferti piaceri furtivi insieme alla ragione di una disciplina interiore, la scoperta di una condizione vitale per la propria arte, di là da quelle accensioni fatue ed esterne in cui si consumavano rapidamente i suoi versi di circostanza. Quella passione tormentosa ebbe una modesta catarsi estetica ma scavò tracce profonde nel fisico dello scrittore, che per superare la sua crisi sentimentale cercò uno svago nei viaggi. Dopo quelli circoscritti a rapide puntate in Umbria (dove erano i beni della moglie e dove ritornava spesso), si recò a Napoli, a Firenze e a Milano. Particolarmente i soggiorni in queste due ultime città, nel 1824 e nel 1827, furono decisivi non soltanto per la biografia esterna dello scrittore, che dopo la nascita del figlio Ciro (1824) sembrò ritrovare

una più raccolta e intensa attività intellettuale. L’uscita dall’ Accademia Tiberina nel 1828 segna il risoluto distacco da ogni distraente commercio con la miserabile cultura ufficiale. Le prose e i giornali di viaggio, lo Zibaldone dove raccoglie appunti ed estratti di lettura, ad uso della futura educazione del suo Ciro (ma innanzi tutto di sé medesimo), i primi

sonetti romaneschi sono i documenti significativi che attestano la presenza assidua di un Belli segreto, accessibile solo a pochi amici fidati e magari alla marchesina

Roberti,

che era ormai

(1828)

sposa

di un

farmacista

nella sua Morrovalle, piccolo paese delle Marche. La cerchia degli amici classicisti e liberali si estese in Toscana, a Bologna e nelle minori città di provincia dello Stato Pontificio: Lorenzo Mancini, Gian Battista Zannoni, F. M. Torricelli, Giuseppe Neroni Cancelli, Paolo Costa e (il più illustre di tutti) Pietro Giordani. Varcando i confini dello Stato Pontificio, a contatto cogli uomini che dall’età napoleonica aveva avuto più beneficî che danni, e soprattutto una moderna coscienza civile, Belli si assimila le idealità della miglior borghesia italiana e anzi le fissa in un piccolo catechismo destinato al figlio. A somiglianza dei catechismi rivoluzionari, il vecchio schema tridentino accoglie, coi principî di una religiosità deistica, la consapevolezza di nascere « in Europa », di avere « per

patria l’Italia » e di considerare gli italiani come

« fratelli ». Nel luglio

del 1824, quando è ancora tutto preso dal gusto oratorio del classicismo baroccheggiante, in una compassata canzone, Bellosguardo, egli abbozza un suo Pantheon, rendendo omaggio a Firenze e a Foscolo e ai « padri », che per lui sono i prosaici e disincantati eroi del vero: Galileo, che scopre

14

« nel sol le macchie e nella luna i monti », Guicciardini, lo storico delle sventurate vicende di un paese aperto allo straniero, e il « savio di Certaldo », codificatore dell’idioma nazionale. Dopo Foscolo e il Decarzerone eccolo immerso nelle letture che lo predispongono a fare più moderne esperienze. La nouvelle Héloise lo accompagna in diligenza. E per compiere il suo apprendistato di francese si mette a scrivere un suo primo Jourzal du voyage, nel ’27. A Milano ristabilisce i contatti con gli artisti che aveva conosciuto negli ambienti della piccola bohème romana, il pittore Francesco Hayez e l’architetto Giacomo Moraglia, che gli aveva fatto scoprire Carlo Porta. Capita nel pieno delle discussioni sul romanticismo, riaperte con i Lombardi del Grossi. Acquista l'edizione luganese delle Poesie portiane e i Prorzessi Sposi. La sua biblioteca si arricchisce. Nello Zibaldone troviamo le tracce di molte sue letture: gli illuministi e ideologi italiani e francesi (Giannone, Filangieri, Carli, Montesquieu, Voltaire, Volney) accanto a un grande classico del comico, Molière, attestano quali siano i più attenti oggetti delle sue meditazioni. Più che scrivere, in questi anni di preparazione e di raccoglimento, preferisce leggere. Ma non si limita a soddisfare le curiosità da « cavaliere enciclopedico », macchietta intellettuale ottocentesca a lui ben nota, come ricordano i lettori di uno dei suoi più famosi sonetti italiani. Gli indici, gli stralci, i segni di particolare interesse (soprattutto per le idee religiose e politiche) in questo vasto repertorio (più che raccolta di pensieri originali) ci dicono verso dove muovesse la sua passione di autodidatta: verso un mondo ideale che lo compensasse delle delusioni crescenti e del pessimismo profondo ormai subentrato nel suo animo (e non soltanto nel suo) dopo l’effimero ottimismo dei primi anni della Restaurazione. La presenza di classici del Settecento francese e italiano non può di per sé autorizzare una adesione del Belli alla mentalità illuministica tout court. Nella storia della sua formazione ideale non accade quel che è accaduto ad uomini come il Manzoni, per i quali la crisi individuale procede parallelamente, almeno fino al periodo creativo, rispetto alla crisi storica del loro tempo, sicché a una giovinezza classicista, razionalistica e scettica succede

una

maturità

romantica,

storicista

e neocattolica.

E non

accade neppure quel che è accaduto al Leopardi, che scopre sin dall’adolescenza, sin da quando compone il Saggio sugli errori popolari degli antichi in opposizione ad un ambiente di provincia così bigotto, la gioia del frutto proibito, i libri scomunicati che nutriranno la sua polemica anticristiana e antispiritualistica. La scoperta dei testi illuministici da parte di Belli cade negli anni della sua maturità (fra i trenta e i quaranta), quando nei centri culturali italiani più avanzati il processo di conciliazione eclettica fra il vecchio e 5:

il nuovo era già inoltrato, e il poeta aveva intanto assorbito le remore e le riluttanze ad ogni cultura rinnovatrice dal centro più retrivo di tutta la nostra penisola. L’ateismo e il materialismo attirarono profondamente la sua attenzione, moltiplicarono i suoi dubbi, ma egli non eliminò mai in sé un superstizioso fondo fideista (a differenza del Leopardi), né, d’altra pare, condivise gli entusiasmi neocattolici di Manzoni. Restò oscillante ed incerto dinanzi al retaggio deista di Montesquieu, Rousseau e Voltaire, che rafforzavano una genetica fede nel divino con l’autorità di un pensiero laico e non sospetto di impostura clericale. La conclusione più cauta a cui si possa giungere è che Belli rassomigliava a quegli increduli di cui parla Montesquieu, che credono all’immortalità dell'anima « par semestres ». Abbiamo scarsissimi documenti (preziose le sue note ai sonetti) per stabilire dove e fino a che punto Belli abbia condiviso i principî del pensiero moderno che indubbiamente lo affascinavano. Egli si rendeva conto della importanza che aveva il materialismo per l’avvenire dell’umanità, e ciò è provato da un pensiero degli ultimi anni, quando, abbozzando un componimento di rigida e zelantissima ortodossia cattolica (La Chiesa), si rappresentava in forma apocalittica una specie di supremo dibattito finale dell’umanità: « nel mondo non potranno restare che cattolici od atei ». Passò anni interi a studiare i trattati di craniologia del Gall, cavando riassunti e schemi dalle opere di questo scienziato che menò grande scalpore ai suoi tempi e fu considerato come il primo frenologo materialista. Dinanzi alle conquiste della scienza, che insieme a quelle della filosofia e della storia serviranno per affilare le armi critiche del pensiero moderno contro le superstizioni religiose, Belli fu tutt’altro che indifferente o distratto. Le inquietudini profonde suscitate dalle sue letture e dai problemi sorti dalla sua mente lasciarono tracce indelebili nella sua fantasia di artista. Io credo però che non sia da porre un netto distacco tra le incertezze e incoerenze del Belli durante la sua pienezza creativa, e il ritorno all’ortodossia cattolica, ostentata con crescente unzione negli ultimi anni. In realtà un sentimento religioso profondo è sempre coesistito in lui con le più audaci e sarcastiche irtisioni alla mitologia cristiana. E un testo assai importante per la sua intima religiosità è da considerare la Delphine di M.me de Staél, che trovava probabilmente il suo pieno consenso nelle pagine di critica al culto cattolico, tutte trascritte nello Zibaldone. Queste pagine dove si rappresenta in forma idealizzata il culto protestante, fino a farlo apparire conciliabile con la religiosità sentimentale di quanti erano andati a scuola dal Vicario savoiardo di Rousseau, forse segnarono per il Belli il punto di arrivo di una possibile mediazione fra molte incertezze. Tanto più che la Staél, con la sua contrapposizione polemica al cattolicesimo, lasciava ampio margine alla passione anticlericale 16

e antiecclesiastica del Belli, e alle convinzioni, sempre più radicate in lui,

che la teocrazia fosse nella pratica la negazione della stessa morale cristiana proclamata nei principî. Strettamente connessi con le meditazioni religiose del Belli sono i suoi interessi etico-politici. Libri di storia, romanzi di idee e di costume (Cuoco, Botta, Mignet, Walter Scott, M.me Allart, Pigault-Le Brun, Bal-

zac), libelli politici famosi, riviste progressiste come la « Revue Encyclopédique » (di cui giunse a conoscere anche gli sviluppi saintsimonisti) e l’ « Antologia » del Vieusseux completano il quadro culturale di questo borghese illuminato che anche attraverso i contatti personali (conobbe Stendhal, Sismondi, Didier) potè consolidare il suo moderato liberalismo. Le sue idealità di scrittore ebbero modo di maturarsi dall’adesione al cattolicesimo sociale e filantropico del barone di Gérando fino alla nozione del socialismo romantico di Pierre Leroux. Segno del particolare interesse di Belli alla via politica, specie dopo la Rivoluzione del ’30, è la costituzione di una società di lettura a casa sua, dove nel gruppo di amici fidatissimi, Domenico Biagini, l'avvocato Picatdi, Filippo Ricci, ritroviamo anche il rivoluzionario Felice Scifoni. Man mano che si dilatano i suoi orizzonti culturali, Belli scopre con amaro agrume gli ostacoli reali che in uno Stato dispotico e socialmente arretrato si oppongono alle più elementari aspirazioni di progresso, di libertà e giustizia. Questi ideali che solo in parte (e non certo nello Stato della Chiesa) si erano incorporati in concrete istituzioni, sembravano smentiti e sbeffeggiati dalla dura realtà della Restaurazione:

una società dove il feudalesimo

tentava la sua riscossa, e

che era spaccata da un incolmabile abisso tra le classi. E se l’ortore di ogni violenza rivoluzionaria, anche per le emozioni indimenticabili della sua fanciullezza, controbilanciava nell'animo del Belli i desideri di cambiamenti, se era grande la sua sfiducia nelle possibilità concrete di vederli attuati, non perciò restava offuscata la chiarezza delle sue idee o interrotta la formazione del suo liberalismo particolarmente attento (per una incoercibile passione egalitaria) alle piaghe della disuguaglianza nel corpo sociale. I mali della miseria, la disuguaglianza di fatto che ancora persisteva (accanto all’uguaglianza di diritto) negli stessi paesi più avanzati grazie al progresso della « civiltà », costituivano per il Belli un motivo di permanente diffidenza per certe conquiste liberali che si erano risolte solo a vantaggio della borghesia. Tra i libri da lui posseduti, il testo che dovette avere una influenza decisiva, non solo per la polemica antiteocratica e anticlericale, ma anche in senso positivo per l’educazione egalitaria dei suoi sentimenti, fu Les Ruines di Volney e il dialogo su La loi naturelle che lo seguiva. Questo famoso « cathéchisme du citoyen francais » (composto nel ’93), era divenuto, come sperava l’autore, « un livre commun

L/

à toute l’Europe », e lo comprovano le innumerevoli edizioni e traduzioni che se ne fecero e che accompagnarono la diffusione delle nuove idee saintsimoniane. A cominciare dalla solenne invocation che precede Les Ruines, il motivo ispiratore del Volney è « le saint dogme de l’égalité ». Questa è per lui l’originaria condizione del genere umano ancor libero e non diviso in classi e che « nul des mortels n’a droit d’opprimer ». Altro documento della passione politica del Belli e delle sue aspirazioni è il pamphlet assai celebre ai suoi tempi e diffuso anche in traduzione italiana col titolo Dei futuri destini d'Europa (Bruxelles 1828), ampiamente trascritto nello Zibaldone e in parte riassunto nei brani più scottanti e più pericolosi. L’anonimo libellista (Bourguignon d’Herbigny) si presentava con un bagaglio di citazioni classiche e del Rinascimento, senza un solo richiamo agli autori moderni, rei di avere appiccato l’incendio rivoluzionario. Sotto quello stile equidistante dagli eccessi, la polemica laica e liberale contro l’autoritarismo e le pretese del diritto divino era una continuazione del pensiero di Montesquieu e di Voltaire, in un tono solenne di ammonimento e di rivelazione, ma franco, scoperto, diretto. Tutti i più importanti problemi politici europei erano penetrati con sagacia, anzi l’occhio del pubblicista sembrava avesse la chiaroveggenza del profeta quando parlava di « risorgimenti » e di guerre « di indipendenza »: così fondata era l’analisi e materiata di cose. Agitando lo spettro della repubblica, egli contrapponeva all’oscurantismo dall’alto i lumi ormai diffusi in basso: una situazione di decadenza, ricca di fermenti nuovi, e caratterizzata dalla netta inferiorità dei governanti di fronte ai loro naturali compiti di guida. Contemporaneamente a questa maturazione ideale, Belli tra il ’27

e il '30 approdava ad una concezione dell’arte, a un metodo poetico che nelle particolari condizioni storiche sociali e individuali in cui si trovò a vivere, gli permise di conquistare la sua libertà di scrittore e di definire a se stesso il contenuto

e la forma del suo poetare, il tema e il genere,

lo stile e la lingua. Dalla Nouvelle Héloise (lettere XVI e XVII) egli aveva appreso che il problema centrale dell’arte moderna era quello di conquistarsi una coscienza del presente, attraverso la meditata partecipazione al tumulto della vita di una grande città. La maggior parte della popolazione (diceva Rousseau) non è diventata ancora protagonista delle opere d’arte, né il teatro né il romanzo ci offrono il quadro di una realtà che può avere un valore universale e può aiutarci a ritrovare ciò che accomuna i parigini ai romani o ai londinesi. Belli avrebbe sviluppato quest’importante istanza democratica e realista del protoromanticismo di Rousseau, che già ia Italia aveva tanto insegnato al Porta e al Manzoni per la scelta dei loro personaggi. A individuare la novità, l’importanza e l’originalità della materia già Stendhal aveva dato un contributo decisivo 18

con Rome, Naples et Florence (1817) e le Promenades dans Rome (1829),

simpatizzando apertamente per la « canaille romaine, à la foi hideuse et admirable par l’energie » e per tutta una società nella quale « l’àpreté du réel dé la vie » non era « déguisée par aucun compliment ». In particolare gli era apparsa affascinante la contraddizione fondamentale di questa plebe che pur essendo asservita riusciva ad avere « une liberté étonnante » nei confronti « des hommes du pouvoir », a cominciare dal Papa. E questa libertà andava sino alla totale mancanza di conformismo non solo in materia politica, ma anche in materia religiosa: « Le peuple de Rome, témoin de tous les ridicules des cardinaux et autres grands seigneurs de la cour du pape, a une piété beaucoup plus éclairée; toute espèce d’affectation est bien vite affublée d’un sonnet satyrique ». Ammiratore della poesia dialettale, Stendhal riteneva che nulla valesse nella poesia contemporanea quanto i sonetti di Carlo Porta, che egli considerava tra i maggiori scrittori italiani. E il suo entusiasmo era tanto più notevole in quanto non si dissimulava i limiti di circolazione del dialetto milanese, in ciò molto diverso

da quelli di Firenze e di Roma, i soli nei quali il contrasto fra lingua scritta e lingua parlata poteva essere molto meno profondo che in altre regioni. In particolare la letteratura comica e satirica dialettale gli sembrava la più viva, specie a Roma, dove una notevole unità di costumi secondo lui imponeva,

di là dalle divisioni di classe, una

certa unità di

linguaggio. Ma se il Porta giustamente si vantò di ricongiungersi a una tradizione e si compiacque di esaltare i suoi antenati meneghini, Belli giudicava troppo letterari e artificiosi gli scrittori che già avevano adoperato il dialetto. Da quelli ch egli erano più vicini ebbe solo marginali suggestioni (per esempio, le macchiette di servitori di piazza che erano apparsi nelle commedie di Gherardo De’ Rossi, e qualche spunto dalle satire di Giraud). Tuttavia le poche allusioni sdegnose, che si leggono nel rapidissimo « de

vulgari eloquentia » della sua Introduzione, non devono autorizzarci a supporre uno scarso interesse del Belli per i suoi predecessori, che egli senza dubbio lesse con attenzione e con frutto, dall’anonima prosa della Vita di Cola di Rienzo al « mal imitato vernacolo » dell’abate Carletti (cfr. son. 412). Il Maggio romanesco di Giovanni Camillo Peresio (1688) poteva lasciarlo insoddisfatto per il suo linguaggio arcadico e la superficiale patina del dialetto, ma aveva già portato in scena il mondo popolate di Roma e aveva offerto le prime spettacolari stampe di genere e di costume sullo sfondo dei più famosi monumenti, fissando un notevole precedente tematico (anche se le soluzioni erano riuscite documentarie e descrittive). Il Meo Patacca di Giuseppe Berneri (1695), col proposito di un più accentuato realismo idiomatico e, soprattutto, con l’evidente 19

simpatia per la plebe di Roma, ebbe un peso decisivo per la formazione del Belli, che sul suo esempio si preoccupò di perseguire e perfezionare fino all’ortografia e all’ortoepia una vera e propria grammatica del romanesco. Ma benché il vernacolo fosse gustato dal Berneri per la prima volta nella sua mordace asprezza, benché la rappresentazione dei caratteri e dei costumi si sollevasse dalle maniere

della bambocciata,

le remore

contro-

riformiste e l’idealizzazione e moralizzazione che infrenava il realismo barocco non potevano soddisfare a pieno il Belli. Egli non si accontentò della letteratura burlesca e satirica che proprio a Roma aveva avuto il suo centro

irradiatore (da Berni

a Tassoni,

dal Rosa

al Leporeo).

E risalì

all’Aretino maggiore, che principalmente nei Digloghi aveva dato la prima immagine spregiudicata della vita segreta di Roma attraverso i confidenziali « documenti » delle sue cortigiane, con una corposa, nuda spavalderia di linguaggio, memorabile per inventiva e per audacia (e che il Belli non dimenticò):

anche se di fronte alla decadenza di Roma coda mundi il suo

atteggiamento sarebbe stato diverso. Aretino si tuffava nello sfacelo e, se ne veniva fuori, era solo per quelle moltiplicate qualità di talento che gli permettevano di alternare al meretricio intellettuale certi sfoghi amati e, in fondo, disinteressati, dove trovava riscatto estetizzante dalla sua stessa

abiezione. Ma l’atteggiamento del Belli sarebbe stato grave e meditativo, simile a quello di scrittori comici senza cinismo, come il Boccaccio e il Sacchetti, o che avevano ideali che oltrepassavano il loro stesso tempo e non erano facili da esprimere, come Molière. Non a caso anche del Decamerone e delle Novelle troviamo nello Zibaldone uno spoglio accurato, dove è registrato tutto quello che riguardava Roma e il malcostume e la corruttela clericale, di fronte a cui era divertito ma tutt'altro che indifferente il Boccaccio, e apertamente indignata la coscienza del buon vecchio guelfo Sacchetti, che pur era tanto meno avanzato ideologicamente del suo grande predecessore. Il Belli registrava negli indici dei due novellieri tutti i luoghi d’Italia e tutti i dialetti che vi appaiono: indizi minimi che testimoniano la ricerca di una tradizione letteraria nuova, diversa da quella umanistico-accademica, e degna di innovazioni così profonde e così radicali come poteva apportarle solo lo sviluppo di una poetica romanticorealistica. Quando sulla classicista « Revue Encyclopédique » si accese una discussione sul verso comico italiano, Francesco Saverio Salfi per evidente nazionalismo cercava di contestare allo Chauvet che l’Italia, pur non avendo Molière, poteva vantare la tradizione delle commedie di Ariosto e dei capitoli berneschi. Ma in realtà il verso comico nacque in Italia col Porta, quando cessò la separazione degli stili che, dopo il nostro Rinascimento, l’egemonia classicista francese aveva imposto a tutta l’Eu-

ropa. Allora la misura altissima del realismo di Molière non sarebbe più 20

bastata per adeguarsi alle esigenze del dramma, il nuovo genere delle letterature moderne. Altri scrittori avrebbero compiuto questa operazione stilistica che Molière con la sua sprezzatura antiformalistica aveva conseguita ad un livello di composta dignità borghese e parigina. Alla scuola del « gran Molière » il Belli, messosi con ben altro talento e libertà, avrebbe ritrovato non pochi motivi polemici contro una letteratura artificiosa e separata dalla vita, e una vera e propria svolta negli stessi obiettivi sociali del comico. Questi motivi e questa svolta sono al centro di quella attenta lettura che egli fece delle sue opere nella pregiata edizione di Amsterdam (1764) che ripubblicava la prefazione

e le note

di un

insigne

anonimo

(Voltaire).

Niente

privilegiati

dinanzi al riso, aveva affermato Molière nell’Impromptu de Versailles, e nella prefazione al Tartuffe. Ciò per Belli significava far diventare protagonisti Dorina e Sganarello, la serva che comprende subito le situazioni ed esprime i suoi giusti e spregiudicati pareri; e il servo che amaramente mette in evidenza, alla fine del Dor Juan, come i godimenti terreni e la stessa punizione celeste del suo padrone si risolvano sempre in guai per lui. Oltre i limiti storici del realismo sociale di Molière, l’autore della commedia romana apprese dal maestro ciò che vi è di essenziale nella grande poesia comica e che Voltaire aveva acutamente individuato: smascherare il contrasto fra il parere e l’essere. La comicità di Molière era affidata alla chiarezza estrema del linguaggio e delle situazioni impreviste, apparteneva a quel genere « significatif » dal quale non si può strappare il Belli, senza sovrapporgli una poetica decadentistica a lui estranea. Belli prediligeva il comico elementare che viene « dalle budella » (come diceva in un suo scherzo giovanile sul teatro), e dovunque restò fedele alla via tracciata dal suo massimo modello ritrovò l’oggettività della grande poesia: « Laissons nous aller de bonne foi aux choses qui nous prennent par les entrailles... » (La critique de l’école des femmes, scena VI). Ma a ciò non erano sufficienti i privilegi accordati dalla protezione di un sovrano. La vocazione comica e satirica del Belli per attingere maggiori libertà e proprietà di espressione non avrebbe potuto esser soddisfatta se non attraverso una produzione clandestina, come in certo senso era stata quella del Porta. Egli avrebbe dovuto rifiutare per forza di cose ogni altro genere letterario che comportasse o esigesse la pubblicità. Ma se poteva essere la censura a scoraggiarlo da un possibile orientamento verso il teatro, furono soprattutto il suo gusto, le sue inclinazioni a deciderlo per il genere lirico piuttosto che per quello narrativo. Le discussioni sul romanzo storico e sui Prozzessi Sposi non erano tali da incoraggiarlo a seguire un esempio che a suo giudizio si configurava altissimo e difficilmente

imitabile (« il primo libro del mondo »). D'altronde

l’epos prov21

videnziale e ottimistico poteva nascere nella Milano di Manzoni o nella Inghilterra di Walter Scott. Belli poteva accogliere solo la suggestione di questo genere per quanto riguardava gli elementi essenziali dello storicismo romantico (che per ogni uomo educatosi alla cultura della Restaurazione significava piena consapevolezza di che cosa erano le classi, nella società moderna, e quali fossero i loro costumi, bisogni, pregiudizi, quali fossero le loro particolari caratteristiche, e i rapporti fra le pubbliche istituzioni e la vita privata). Troppo classicista per non continuare a credere nel vecchio pregiudizio che esaltava la poesia sulla prosa e i vantaggi della serrata concisione lirica sul processo analitico narrativo, egli non esitò ad evitare di proposito strutture complesse e atchitettonicamente definite in un’opera che avesse un inizio, uno svolgimento e una fine. Scelse così il metro più popolare e più antico, il più rapido e il più elementare, e insieme il più raffinato e il più epigrammatico, qual è quello del sonetto, brevissimo genere di composizione che permetteva il massimo della varietà nell’insieme, e la più rapida unità di ogni singolo e compiuto momento creativo. Optò per il sempre ritrovato e sempre inventato ritorno quotidiano a ciò che si rappresentava dinanzi ai suoi occhi, un mondo nel quale pareva che non accadesse nulla di nuovo, e tutto sembrava riconfermare l’immobilità consueta. Una chiave per addentrarci nelle ragioni per cui il Belli scelse la forma lirica per il suo « dramma », ci è offerta da un documento che gli proponeva non proprio un modello artistico, ma certo un’alta religiosità e molte nuove idee sullo stile moderno. Proprio leggendo e parafrasando la Delphine di M.me de Staél Belli scrive alla marchesina Roberti una lettera (1830) che non può essere considerata solo come un mesto addio a un amore impossibile, e come un programma di raccoglimento pratico, tutto rivolto ad un’igiene dei sentimenti e all’educazione dei figli. Mi sembra che l’importanza di questa lettera si estenda alla più ampia sfera della vita contemplativa di Belli. Egli si tracciava un programma di attenzione metodica e costante, grazie a cui avrebbe potuto ritrovare ogni giorno la serenità liberatrice della poesia. Era un modo di radicarsi nel presente e nella realtà, con quella illusione di eterno che ci fa più trepidamente assaporare il valore della vita, quando si è oltre il mezzo del cammino, e si attraversa l’inferno, e si vede conflagrare con occhio fermo la « commedia » di tutto ciò che declina e che ogni giorno si rappresenta alla solitudine dell’anima, nel più libero e solenne dei teatri. Belli prefissava a se stesso il suo destino di petrarchista del comico, dell’alto comico: quello che si levava a dramma, perché nasceva da una disperazione totale e non ammetteva elegiaci ripiegamenti, e costringeva il poeta alle uniche « risorse » del mondo oggettivo e lo adeguava al popolo della sua Roma, 22

i cui ammiratori e conoscitori dicevano essere in sommo grado fornito di finezza beffarda e satirica, ma senza il dono della tristezza, perché « il faut un commencement d’espoir pour étre triste » (Stendhal). Mentre si accingeva ad elevare « un monumento » alla plebe di Roma, non maraviglia se proprio all’inizio dell’Introduzione ai sonetti, il poeta, descrivendo i caratteri originali di questa plebe, parli dei « lumi » che prendono posto fra le sue « pratiche » e le sue « credenze ». È un’importante aggiunta rispetto all’abbozzo di questa prosa, cioè la nota lettera a Francesco Spada, scritta qualche mese prima, nello stesso anno 1831. Il Belli sembra aver voluto rilevare questi elementi di razionale consapevolezza moderna in mezzo alla eredità passiva dei vecchi costumi e della vecchia fede. A differenza di certi intellettuali pseudo-progressivi, pieni di spocchia filistea, Belli non vedeva la plebe chiusa irrimediabilmente in un cerchio di incultura, accecata dallo stomaco vuoto e incapace di superare le angustie del proprio linguaggio. Egli vedeva questa realtà umana nella sua ricchezza e complessità, dove « spiccano le più strane contraddizioni », nelle quali era da immergersi per dare « un’immagine fedele di cosa già esistente, e più, abbandonata senza miglioramento ». La convinzione che proprio questo popolo, nonostante tutto, era detentore di una parte di lumi, non solo fa del Belli un uomo ideologicamente moderno e storicamente consapevole del suo tempo, ma un poeta convinto della necessità di cacciarsi dentro a un «idiotismo continuo » per sollecitare fin nel dialetto le potenziali forze di espressione liberatrice e far conflagrare queste contraddizioni, pur limitandosi a far dire «a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera », lasciando ai margini, in eccezionali sonetti, qualche fievole speranza di cose venture, difficilmente fondabile in un presente così tenebroso. Era l’autunno del 1831. E quando in Europa si spegnevano le illusioni di civile progresso, non solo per la borghesia ma anche per il « quarto Stato », messe in movimento a quarant’'anni dalla Grande Rivoluzione dopo le tre giornate parigine della Rivoluzione di Luglio, era naturale (per un uomo tutt’altro che di azione

e tutt’altro che coraggioso nella vita pratica come il Belli) rifugiarsi nella sola azione di cui poteva sentirsi capace e nella quale il suo coraggio di poeta avrebbe tutto osato, senza ritegni, senza viltà. Dopo mesi di tensione e di interruzione della sua stessa attività creativa, spiegabilissime nell'atmosfera di quei mesi (memorabili per l'Europa intera, dallo Stato Romano alla Polonia), Belli decisamente si avviava sulla strada che gli avrebbe dato una gloria soltanto postuma, ma che intanto lo salvava dalle angoscie presenti: « ne rideremo poi insieme; e queste risa varranno a prepararci l’animo alle possibili sciagure che ci minacciano » (come scriveva al fido Spada il 5 ottobre 1831), preannunciandogli di tornare a 20

Roma « carico di nuovi sonetti da plebe ». Un’analoga risoluzione aveva sollecitato Alessandro Manzoni dopo i processi del ’21 a immergersi nella felice attività creativa da cui uscì la protesta lirica dell’Adelchi e, più tardi, il romanzo.

Ma il vero che il Belli intendeva rappresentare non era consolato da nessuna di quelle speranze che contrassegnano l’ideologia cattolico-liberale e romantica del Manzoni. D’altra parte lo stesso atteggiamento nei confronti del popolo era profondamente diverso, di solidarietà profonda e non di paternalismo borghese. Innanzi tutto egli si andò sempre più persuadendo che l’affamata e miserabile plebe romana poteva vantare un privilegio che le veniva dalla sua stessa condizione rispetto alle alte classi della Roma papale: « fra noantri soli /se pò trovà la verità sfacciata » (son. 1808). Le convenzioni sociali impongono ai volti della gente « aricamata » una faccia che è di per sé già maschera di ipocrisia, impossibilità di esprimere il vero. Perciò gli sembrava ridotta al destino immobile dei burattini. Circolavano largamente opinioni le quali (come diceva il profeta dei futuri destini d'Europa) erano «il prodotto dei lumi, dei sentimenti, del genio e della ragione dei popoli ». Grazie a questa consapevolezza la plebe può arrivare alla verità attraverso le vie meno consuete, e manifestare la sua protesta, il suo giudizio, le sue passioni. Per questo Belli la porta in massa sulla scena clandestina dei suoi sonetti. « A chi mi chiedesse » (rispondeva al principe Gabrielli in una famosa lettera scritta trent'anni dopo la citata Introduzione) « perché abbia io dunque in altri tempi impiegata la mia penna in simiglianti lavori [dialettali], risponderei mio intento non essere già quello di fissare in carta una lingua a cui meritamente manca in Italia un posto, ma unicamente di introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi propri usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo ». Questa plebe che occupa il fondo della piramide di uno Stato teocratico e da lì giudica chi sta in alto e le sta sopra, è un’idea centrale della concezione di Belli e non meraviglia che anche da vecchio ci insistesse, rifiutando l’invito a tradurre il Vangelo di Matteo in dialetto romano. Dalla sua mente, dalla sua cultura, e non dal suo inconscio (come qualcuno ha creduto sufficiente asserire), da un grandioso complesso di superiorità (un complesso non individuale ma collettivo, non psicologico ma di classe) Belli attingeva una concezione della sua opera che era potentemente rivendicatrice di una umana dignità conculcata dalla tirannide clericale, e di una ragione non del tutto frastornata dalla

24

mitologia cristiana. Perciò nella sua poesia tutti gli oppressi sarebbero stati sollevati (come da nessun altro poeta italiano) al clima tragico della ingiustizia e della miseria, che egli conobbe e non dimenticò mai, neppure negli anni in cui visse di un’illusoria agiatezza. Perciò nella sua poesia tutti i potenti sarebbero stati sconsacrati e ricacciati nella sfera negativa del ridicolo: « per èsse buffo abbasta èsse signore » (1431). Se essi sono riammessi a partecipare all’unità inscindibile del genere umano (che è un principio ideale sempre riaffermato dal Belli, contro le assurde disuguaglianze della società) vi partecipano solo in quanto personaggi comici. E l'uguaglianza è ristabilita al livello più basso di chi parla e giudica e comprende in sé chiunque sia partecipe di questa perenne quotidiana universale commedia, la cui scena è una città intera dove ognuno apparirà come figura a sostener la sua parte in un « episodio », dal Papa al Poeta, dalle madri alle « creature », dalle prostitute ai cardinali, dai preti ai commercianti, dai nobili ai becchini, dagli artigiani ai borghesi, dai « dottori » della plebe ai « cacardichi » di tutte le arcadie (con una compiutezza e totalità di rappresentazione sociale a cui non sanno assurgere i poveri sub-realisti, neo-realisti e avanguardisti, che evitano accuratamente di cimentarsi in confronti un po’ troppo rischiosi con la società). Così il monumento si allargò ben oltre il disegno iniziale, ben oltre la plebe, realizzando la concezione di un vasto « dramma » (come lo chiama il Belli nell’Introduzione, ricorrendo al termine del genere letterario più moderno, che nel dialetto non trovava riscontro in quanto dai romani tutti gli spettacoli, anche quelli della vita ecclesiastica, erano chiamati sempre e soltanto « commedia »). Pur prevedendo una vita destinata a « scorrere e terminare ignuda di gloria », pur condannato alla frustrazione quotidiana della clandestinità, Belli portò al massimo di libertà e consapevolezza ciò che egli credette di avere in comune con il suo popolo, conforme al suo mito letterario, su di un piano di uguaglianza che era quello della comune oppressione e che poteva trovare un compenso e un riscatto nella equabile necessità della fantasia, nell’unità di un linguaggio poetico: Noantri. E così anche lui (come diceva dei primi cristiani) « fece a nisconnarello pe la fede »: fede nel vero, perché accettò la sua condizione intera di testimone prima che di poeta: « sempre la Verità, sempre er dovere » (886). Lo Stato clericale e teocratico gli si configurò come un inferno tenebroso sul piano inclinato di un regresso irreparabile. Dal sommo della piramide si sprofondava « ner pozzo » della gola e del sesso. E mentre in pubblico si celebrava « l’amore de li morti », i vivi erano nella loro stragrande maggioranza umiliati ed offesi. Contro la mortificazione e l’ipocrisia regnante, con un incorruttibile anelito a conquistare ogni giorno più luce al suo sO

sguardo, qui Belli volle ergere il suo monumento: più finché stò ar monno

/ e una torcia de meno

« Vojo un lume de ar cataletto » (1689).

Qui, dove « li preti » (come diceva) « cor loro incenziere / un coll’antro s’acchecheno de fume » (810), qui dove il genere umano era spaccato in due senza rimedio, perché il cànchero stava nella radice, qui egli che si era elevato a un più alto ideale religioso e civile volle contrapporre «er moccolo che aveva a la lenterna / Dio quanno accese er sole, e poi je disse: / Va’, illumina chi serve e chi governa » (811). III Da poeta giocoso a poeta drammatico in forma lirica il Belli si elevò lentamente attraverso un lungo esercizio quotidiano, e non senza l’ambizione di tanti poeti lirici a ritrovare una unità oggettiva. Nell’Introduzione ai sonetti non a caso egli adopera il termine « dramma » per esprimere un concetto romantico e moderno per eccellenza e indicare la compresenza di tragico e di comico nell’opera intera e spesso, in uno stesso sonetto. Proprio perché egli parlava di dramma che aveva per protagonista il popolo del suo tempo non si può non convenire che il suo proposito era quanto di più rivoluzionario si potesse pensare. « Un italiano vivente », in un articolo assai importante della Antologia (luglio 1830), certamente noto al nostro poeta, aveva prospet-

tato il dramma storico come il campo aperto alle nuove generazioni che volessero andare oltre Alfieri, che « bandì » l’elemento popolare dalle sue tragedie, e oltre Manzoni, che questo elemento maneggiò « così parcamente e timidamente ». L’ignoto Mazzini, che sarebbe divenuto così celebre e così aborrito dal Belli, gli segnò una meta altissima: si trattava « di cercare all’attuale civiltà un’espressione nel Dramma » quale i classicisti non avevano mai raggiunta (perché scrivevano « non pel popolo », bensì « a individui e per individui »); quale nemmeno i sedicenti romantici erano riusciti a dare, perché non avevano inteso che riso e pianto « s’hanno a desumere dallo sviluppo progressivo delle facoltà, dallo stato morale e politico delle nazioni, dallo studio dei tempi ». E solo Dante, prima di Shakespeare, aveva indovinato questa forma, seguendone « le prime linee, e Je più essenziali ». Questo dramma « destinato al popolo deve rappresentare non un individuo ideale bensì un fatto, e l’epoca di quel fatto, e i caratteri di quell'epoca e quella nazione ». E poiché « l’universo si compone di fatti e principî deve abbracciare gli uni e gli altri: «Un principio spiegato da un fatto: la verità insegnata colla realità — ecco il Dramma romantico, che noi non abbiamo finora che a cenni... ».

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—_ Il dramma realistico di Belli aspirava ad essere, nel risultato, un ritorno al dantesco. Anch’egli era un cantor rectitudinis, un poeta della giustizia. Ma il dramma dantesco si ricomponeva in grembo alla giustizia divina, ordinatrice di tutto l'universo: onde la sua organicità di cosmo perfettamente unitario dal punto di vista morale ed estetico. Il dramma di Belli nasceva dalla coscienza di un conflitto insolubile fra la civiltà moderna, quale si era vittoriosamente affermata con la Rivoluzione francese, e una società i cui ideali erano anacronistici e fatiscenti. Un mondo in rovina che avrebbe potuto rappresentare solo attraverso frammentari « episodi ». Vivendo in un’epoca « critica » (per adoperare il pertinente linguaggio saintsimoniano) Belli avrebbe seguito quel che Pietre Leroux indicava come la poesia della scuola o famiglia byroniana, inspirée par le sentiment vif et profond de la réalité actuelle, c’est-à-dire de l’état d’anarchie, de doute et de désordre où l’esprit humain est aujourd’hui plongé par suite de la destruction de l’ancien ordre sociale et religieux (l’ordre théologique féodal) et de la proclamation du principe de l’égalité, qui doit engendrer une société nouvelle.

Belli avrebbe dato anche lui, in tal modo, le produit le plus vivant d’une

ère de crise et de renouvellement,

a dù étre mis en doute, parce que, sur les ruines commencer l’édification d’un monde nouveau...

du passé,

où tout

l’humanité

va

Il nuovo sarebbe balenato appena nel dramma di questo vecchio mondo di Belli, rappresentato in una rigorosa unità di luogo: la città di un singolarissimo organismo politico sociale e religioso, i cui termini antagonistici avevano generato un processo di reciproca dissoluzione, perché la Chiesa impediva lo sviluppo di una società civile, e le esigenze dello Stato aggravavano le condizioni critiche in cui tutta la cattolicità, e non solo il suo centro, si trovava ormai da tempo. Rappresentando il popolo di questa città, « il cumulo » (come diceva Belli) « del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni », l’autore non poteva rimaner contento al suo programma di limitare i personaggi « dal ceto medio in giù ». Senza includere quanti erano responsabili per aver reso il suo popolo così com'era e come il poeta voleva ricopiarlo per « dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento », non si sarebbe visto il dramma con tutti i protagonisti, e nella sua genesi e nella sua compiuta storicità, quale che potesse apparire ZI

il gioco scenico di questa vicenda, nella sua singolarissima unità di tempo imposta dalle cose, da quello che permaneva « inalterabile » (per valermi di una parola cara a Monaldo Leopardi), nonostante i piccoli fatti di cronaca: una unità circolare, dove tutto è principio e fine, perché tutto ritorna allo stesso punto. Un dramma sempre aperto ad una commedia in alto che genera la tragedia in basso. Da molti teorici del comico l’essenza della comicità è riposta in una attesa delusa. Questo regno del « verd’aspetta » era oggettivamente comico, perché la crisi estrema in cui si trovava prometteva un superamento che non giungeva mai. Colpita a morte dalla Grande Rivoluzione, la tirannide feudale e teocratica attraversava Marx chiama « l’ultima fase di una forma

non fosse affatto sicuro dell’imminenza

la sua « commedia » (come storica »). E benché il Belli

di un epilogo, senza la convin-

zione ideale che lo Stato della Chiesa si trovasse in una totale decadenza,

non sarebbe arrivato a sconsacrare come sino al vertice e ai principî stessi di questo scritto De Sanctis, « è Ja prima forza nella opposizione a quell’apparenza di vita che decadenza. Parere e non essere è appunto

un immenso carnevale tutto, potere. « La commedia », ha quale s’inizi il realismo, come è nell’ideale al tempo della la base della commedia. La

realtà, cioè a dire l’esistenza naturale, dà la baia a quelle astratte formazioni mentali che appaiono vive e sono motte ». Le forme sono ridotte a commedia anche perché una prassi secolare le ha svuotate di ogni contenuto, così come ha svuotato di eccellenza i superlativi di cui si fregia. E questa commedia la vediamo realizzata compiutamente, con un oblio comico assoluto, cioè con una perfetta oggettivazione, senza pigiature satiriche. Per esempio, nel famosissimo sonetto Er zucchetto der decàn de Rota (1506). E nel non meno famoso sonetto, composto qualche giorno dopo, Le cappelle papale (1516), che nell’indifferenza dei gesti e dei riti fa vedere come sia estranea alla religione la vita dei potenti, che l’abitudine del culto riduce a cadaveri. Quella che si recitava nei ben censurati teatri di Roma non poteva essere se non una « commedia che nun za de gnente » (730), di fronte a

questa commedia della teocrazia, come si realizzava storicamente davanti agli occhi del poeta, che quasi a confronto, per indicare dove fosse la vera fonte del suo comico, il giorno dopo (13 febbraio 1833) ne improvvisava una a braccio. E così in un vecchio schema enumerativo gettava la materia di quella che per lui era la vera commedia romana: con i cospiratori politici impotenti ad abbattere un potere impotente a riformarsi, con gli stranieri pronti a difenderlo, con il suo clero che diluviava e che era attaccato ai suoi vecchi privilegi e alle sue leggi vane, e con gli spropositi di un’ignoranza sconfinata, che spiegavano le vele come navi, 28

e con una ricchezza che si rinserrava nei forzieri e con la corruzione che continuava in mezzo ai progetti e alle chiacchiere di riforme. Un « ventre di vacca » (731) per chi era nato o diventato padrone. Ma per gli altri? Malgrado le velleità dei « framassoni » e de «la gente matta » che « sò boni a ciarle, ma no a fasse avanti », gli altri erano condannati alla loro condizione di oppressi (350). Questo pessimismo totale e senza speranza nasceva da un potere che da secoli discendeva sempre dall’alto, mentre il basso non poteva che esercitarsi ad obbedire (1636), come aveva

ben visto il Sismondi nelle sue famose pagine della Storia delle Repubbliche italiane. E la totale sfiducia nell’incapacità di questo potere portava i governati all’abiezione suprema di non riconoscere i loro liberatori, anzi di avversarli, di odiarli e di ucciderli, all'occorrenza, come

avevano

fatto

con Bassville. Questa plebe fanatica e reazionaria, che nelle sue richieste di autorità più esasperata, più violenta, più repressiva, rendeva ancor più drammatica la situazione e ancor più tragica la commedia di questo potere, è rappresentata dal poeta senza attenuazioni, anzi scatenata al massimo del suo odio antigiacobino e della sua superstiziosa ignoranza, talché dimostra cieca fede nella virtù di quell’arma spuntata che erano le scomuniche papali: come nel famoso sonetto 39, che, messo a paragone di quello di un altro liberale della belliana società di lettura, Paolo Piccardi, rivela ancor meglio tutto l’agrume sarcastico del fondo. Nello Stato della Chiesa, se lo Stato è una tragica farsa, perché al

di fuori del privilegio e dell’arbitrio non può darsi un ordine in quanto «. . l’editti qua sò tutti stracci / che un Papa mette e un stracciarolo leva » (681), la Chiesa

stessa

come

comunità

di fedeli è ridotta a una

immensa commedia (521). E a pagliacciata è ridotto quest’altare che deve sorreggere il trono (1899). Del resto in chiesa si paga lo spettacolo come a teatro: « senza er cumquibbo nun te metti a sede » (522). E in chiesa si offre il « carnevaletto » delle donne (e dei loro « racchietti »), quando

in autunno

co-

mincia l’ottavario per i poveri motti e allora « secondo er genio der paese » si può far l’amore senza dar sospetti (1009). Tutto il culto nel suo

complesso

è una

sola « pantomina » (1796)

all’occhio

disincantato

di chi associa quei gesti abitudinari e retorici ad immagini affatto estranee alla vera fede. Una vera « opera buffa » è la messa cantata da questi preti, che poi vanno ad esercitare nei tribunali la giustizia papale e che a letto si consolano come possono degli svantaggi del sacerdozio (1249). E chi sono questi governanti che tutto avrebbero voluto moralizzare e che stavano «lì sempre cor lamo » (269) alla pesca dei peccatori, e sempre con gli occhi aperti a sorvegliarli (642)? Sono gli stessi, in realtà, che nella distribuzione dei peccati mortali 29

se ne accapatrano di più, e il peggiore di tutti loro, colui al quale indiffe-

rentemente si convengono tutti e sette, è la loro massima autorità civile e religiosa: « Qualunque pij nun sta bene ar Papa », dice con sarcastica antifrasi la conclusione del son. 910, Li sette peccati mortali. La legge che domina in questo mondo, è la legge del regresso. Ed essa è tale che chi s’innalza al vertice è come il fiore di questo « arberone » marcio, che ha il « canchero » nella radice (1060).

Ogni aceto fu

vino è il titolo del son. 940, che sancisce questo principio sperimentato dai sudditi di Gregorio XVI. Epperò il poeta non esita a fare di questo Papa la massa perditionis del suo tempo e del suo paese. E lo dice, al solito in forma umoristica, mettendo in bocca questa suprema condanna a un balbuziente mentale, i cui tic intervengono a fargli dire l’opposto di quel che vorrebbe, lui che disapprova le perenni querimonie sullo Stato della Chiesa e le mormorazioni

del suo amico Giuliano

(1687).

Le verità su cui incespica il parlante sono fondamentali per il mondo del dramma belliano. La Città del Papa è come la Città di Dite. Ma poiché è anche la Città della Commedia, tutto è a rovescio, e dunque per sbaglio si dice il vero, proprio come le storpiature popolari del linguaggio autenticano il significato delle parole. Anzi l’espressione della verità può diventare irresistibile come la cacarella, e fare di un uomo che non era un cuor di leone come il Belli, un involontario eroe della poesia (886). Il libro del perché Dante lo ritrova nell’Empireo «legato in un volume ». A Roma «sta a covà sotto ar culo de Pasquino » (276). A Roma l’eresia diventa (1569) « vera com’una fetta de Vangelo ». La

perfettibilità è sostituita dal regresso:

« Sicu t’era tin principio nunche e

peggio » (599). La fraternità, dall’egoismo: « Ognuno penza a sé, Dio penza a tutti » (1948). Ognuno può conquistarsi un po’ di indulgenza

plenaria e restituire al Papa le « zelle » dei peccati:

«chi più grossi li

fa, meno è cojone » (34). Il Paradiso in terra non è l’attività, ma l’ozio, preannuncio di santità futura (840). E l’educazione perfetta l’assicurano « er cortello arrotato e la corona » (57). Insomma lo Stato della Chiesa fornisce le sue « carte in regola » a ogni buon cristiano (689), tranne

quella che in fondo è trascurabilissima:

Quella der bon costume? È in carta bianca. Quella der mi’ battesimo? Sta in Ghetto. Quella de stato libbero? Ciamanca.

| E quanto poi alla giustizia, « Va” a cercà adesso quer ch’è giusto! Giusto / fu impiccato a la Storta », come dice il proverbio, con allusione 30

a quel nome emblematico che è il nome della « prima posta dei cavalli, uscendo da Roma » (1273, nota). È la Città del Vice-Dio. E Dio stesso non si può concepire che come

un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo buggerarli, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio (1167, 2135, 234). La croce non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso della condizione sociale (1169). La Città del Papa, con il sazatotum delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo, che se ne sta nel suo ufficio come in una sinecura (1447, 1322). La Città del Papa è sorta sulla Città di Romolo e Remo, dell’odio fraterno (1031). Resta la capitale di un « mondaccio » su cui grava il peccato di Caino,

vana protesta contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio (180). E se mai si può pensare di uscire da questa Città e da questo mondo, si troverebbe

moltiplicata

all’infinito

la nostra

storia

sacra

e profana

(1379).

E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere, spedendovi un vescovo

in pallone (1921).

Questa « commedia » si amplia irreparabilmente a tutto l’universo. Ma intanto, in particolare, è il dramma

nale il mondo

a chiunque si ponga

gnente », come

il fabbro (1406):

che « addanna », che rende infer-

il problema

del «chi

tanto

e chi

quer chi tanto e chi gnente è ’na commedia che m’addanno ogni vorta che ce penzo.

È quel che fa disperare innanzi tutto il poeta. Perché nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di mangiare (1001). Si è disuguali di fronte alla religione: « fiacco » è il peccato dei poveri, che vale poco nel mercato delle indulgenze (533): fiacche sono le loro imprecazioni al cospetto di Dio (1006). Si è disuguali di fronte al codice, civile e penale (1880, 418). Per chi è la giustizia di questo mondo? È solo per condannare il povero (1511).

In questo mondo che offre di certo due sole cose, « la morte e le gabelle » (1818), si è disuguali perfino di fronte alla morte. Li morti de Roma (815) è cosa unica nella nostra letteratura. Mai prima del Belli era stata rappresentata nel suo squallore la miseria di questi morti che non

hanno per sé nemmeno la fossa individuale che se l’inghiottirà, e che son quotati al prezzo più vile, come i pesci minuti da frittura che si vendono al mattino, e vanno confusi nel mucchio. « Noantri » dice il poeta, e dice 51

tutta la sua infinita pietà, non disdegnando di confondersi con loro, pur di distinguersi, anche nella morte, dall’altro e aborrito genere umano. Questo è l’ultimo atto che chiude i drammi di tanta gente che durante la sua vita ha conosciuto solo la sventura. Nella letteratura classica il tragico era stato, come ben si sa, patrimonio e privilegio delle classi elevate. Lo stesso Manzoni che pur ha sparso il suo comico su tanti nobili personaggi, non ci ha dato fra i poveri se non una sola figura tragica: la madre di Cecilia. Il dramma dei suoi umili, regolato dalla Provvidenza, è a lieto fine. Ma nei sonetti

di Belli il tragico è solo dei poveri: il canone è polemicamente rovesciato. Essi solo posseggono la verità intera della vita, in essi solo l’umanità non appare alienata attraverso l’uso e l’abuso della ricchezza e del potere, che rendono ridicoli e falsi gli uomini. Si veda, ad esempio, la storia del servitore licenziato per malattia,

che, quando ritorna, trova il posto occupato da chi gli ha dato il cambio, e resta in ruolo (1004). Si veda la ripresa del motivo pariniano del « chi va a piedi ha sempre torto », divenuto in Belli uno dei suoi primi capolavori (306). In tutti i più grandi sonetti tragici si accampa l’orrore della miseria: dalla celebre Farzija poverella (scoperta da Pascoli, che l’incluse nella sua antologia Fior da fiore) al suicidio dell’Avocato Cola (1731).

Negli ultimi anni questi motivi profondi, che gli ritornavano dalla sua infanzia e gli gonfiavano il cuore di emozione, si ritrovano in vari sonetti come La vedova der zervitore (1809), La vedova dell’ammazzato (1963), La fija stroppia (2047), Er fatto de la fija (2198), La povera ciorcinata (2237): non tutti di resa perfetta, non tutti scevri di patetico,

anche se hanno sempre dei tratti di autentica poesia. Ma mi sembra di rara profondità quello sulla figlia storpia, dove è messa in evidenza la crudele disuguaglianza degli uomini di fronte alle sventure, che hanno ben altro peso quando colpiscono un povero. In questo inferno romano, il dolore e la miseria temprano gli uomini alla loro solitudine disperata e li serrano nelle loro passioni, nell’egoismo e nella rancura, negli appetiti e nelle violenze. Il piacere della « magnata » si sbrama nel più ingordo « strozzà » (verbo che non a caso si estende a designare ogni malversazione e prevaricazione). Il « gran gusto » dell’amore scatena tutte le voglie represse e crudeli dello « scortico », e le parole erotiche richiamano appunto qualcosa di furtivo e di rabbioso, gusto di violare divieti sociali più che religiosi (perché, come diceva Tartufo, col Cielo ci si mette sempre d’accordo); gusto di ribellarsi alle assurdità di un costume ipocrita e bigotto (1793, 863, 992) che sottoponeva i rapporti sessuali alle censure, ai

giudizi e alle ingerenze ecclesiastiche nella società civile (e non solo nel32

l’ambito della confessione). Dallo « sgrinfiare » dei giovani alle « inciciature » (102) di ogni età e condizione sociale, il mondo belliano schiude

gli interni della vita sessuale così come « s’affiara », come s’apprende ai corpi, e li fa ardere di lussuria. Tutti gli altri aspetti dell'amore non si vedono, tranne in qualche omaggio madrigalesco e in qualche molto letterario sospiro del poeta, quando vorrebbe offrire la guglia di S. Pietro imbrillantata all’attrice Amalia Bettini (1700), un altro dei suoi impossibili amori, il solo essere che faccia intravvedere « una fetta der santo paradiso » (ma l’autentica passione del Belli resta inespressa).

In questo mondo romano si può esser fieri degli istinti e delle voglie, perché appartengono alle forze animali dell’uomo. I sentimenti sono già una debolezza. Per esempio, solo in un contesto comico di vertiginoso commercio del sesso, Santaccia (come si chiamava la più celebre delle infime prostitute romane) può dissimulare la quasi materna tenerezza che le ispira un «burinello » squattrinato e «co l’invidia in faccia », mentre lei non sa come dividersi tra i suoi clienti. Assurdo aggiunto all’assurdo della situazione, in questa macchina di piacere scatta spontaneo il meccanismo della morale cattolica. Non si sa mai! Una singolare opera di misericordia corporale potrà fruttare un suffragio a una cara anima del Purgatorio. Un calcolo? Sarebbe troppo ingenuo e comunque non vale a cancellare le generosa effettiva solidarietà di questa popolana con un altro popolano, sicché Santaccia ritrova in se stessa quel solo amore che può consentirle la sua condizione di prostituta e di credente (597-98). La Città del Papa potrebbe avere per sua insegna la massima di S. Teresa, così verseggiata dal poeta in un frammento inedito: « l’inferno è un luogo dove più non s’ama ». Sicché non meraviglia se qui è il pessimismo totale che riesce a dare la forza di vivere, e di rifiutare l’inutile lamento, mai lasciandosi disarmare dell’arma che sola può difenderci: il riso. Il sonetto La nascita (945), meno famoso della Vita dell’omo, a me sembra degno di esser ricordato accanto alle pagine eroiche dell’umanesimo leopardiano. Nel mondo di Belli c’è chi, piuttosto di ridursi al « fiotto » del mendicare, si uccide, come l’avvocato Cola. Ma c’è chi accetta la vita allegramente, ed esercita la scherma della « cojonella » per superare le piccole e grandi sventure, senza maravigliarsi di nulla, anzi per sospendere a un filo d’ironia tutti gli eventi quotidiani. Remoti i motivi di opposizione, che ingenerano il dramma e la satira, placato l’impeto delle passioni, la « commedia » può così ammettere nelle sue varietà anche quella in cui il popolo vi recita da protagonista sereno. Nella Città del Papa, per quanto infernale sia, come non manca un Limbo, dove si può bamboleggiare con le « creature », così non può 33

mancare un antinferno, dove si ammassa quell’enorme parte del genere umano, quell’ignava mediocrità, che Dante sdegnava, e trapassava senza

ragionarne. Belli non solo non li trascura («e li cazzacci, ahò, dove li lasci? »: 891), ma li rappresenta con indulgenza. In tal modo, oltre il « ridicolo » col suo mordente, c’è un comico raddolcito dalla bonomia, e abbiamo i sorrisi di quel « ridicule fugitif » (come lo chiamavano), che diventa esteticamente « minore » solo quando il poeta scende alla macchietta e all’impressione, ma resta grande arte, e delicatissima, quando il poeta dimentica la sua bile e la sua collera, e senza dimenticare le sue più alte qualità mimetiche, sa divertirsi alle piccole vicende quotidiane. Nei primi anni sono più rari i sonetti di questo tipo, dove approdiamo adagio ad una comicità idilliaca. Tale è il sonetto della madre che finalmente può raccontare una notizia buona della figlia, dopo tutte le avversità che ha patito (337). La donnetta trasogna sorridente in questa « meridiana » magica dello sposo, che finalmente suonerà un’ora felice per la sua famiglia. Altre volte a divertirci sono « l’affarucci de la serva », che d’accordo con la sua padrona trova il modo di cercarsi un po’ di svario alla sua condizione (1389). Un piccolo capolavoro è (per far ancora un esempio) il sonetto delle ficcanase che, non viste, spiano una

scena

d’amore:

il giovane

timido

che

fa le «avances,

stuzzicando

l’orecchino della ragazza che si finge innocente. E poi s’intravvede l’inizio della prevedibile conclusione (1994). Siamo qui al Belli degli ultimi anni che riesce a scrivere sonetti (come si suol dire) fatti di niente. Ajuto e conzijo è il monologo perfetto di chi non sa cosa dire, ma, per esternare il suo velleitario « sentimento », avvia una serie di discorsi che restano in aria, colmi di furbissimi ammiccamenti (2104). Mentre qui il comico nasce dal contrasto

tra la sicurezza

della parola e l’inesistenza d’un pensiero, altrove è rappresentato il vacuo del cerimoniale di convenienza che contrasta con l’assoluta indifferenza di chi parla (1479). Delizioso è il sollecito del complimento di un’ostessa ad una signora, che si esilara tutta nella sua vanità (1666). Di questi mimi, così perfetti nella concisa capacità di caratterizzare velocemente chi parla, le donne sono in gran parte le protagoniste. Famosissimo è quello delle domande dell’appigionante (1650) che a poco ‘a poco sparecchierebbe tutta la cucina della buona sora Sabella, se questa non l’interrompesse. E di graziosissima tenerezza è la commediola delle madri e delle loro creature: le « smammate », le smancerie scherzose le avvicinano in piccoli idilli, dove il buffo dell’infanzia vien fuori con una levità impareggiabile. Si vedano i due sonetti intitolati Er pupo (16591660) e quello famoso

de Le smammate

il dialogo tra la nipotina e la nonna

34

(1726).

E si veda soprattutto

(577) dove la bambina

respinge

istintivamente

le favole

assurde

dell’educazione

sessuale

cattolica,

e le

smonta con la sua uscita carica d’innocente malizia. Perché in questo genere il poeta riesca, è essenziale la rapidità dell’azione, come nel sonetto Li vicinati (547). Questo marito

stordito che

non sa nulla di chi sta a due passi da lui, e questa moglie che ne sa fin troppo, e tutto snocciola con prontezza, fanno capire in un attimo il « triangolo » intimo di quella casa. Ma quando il Belli insiste troppo sui particolari, e quando anzi ci dà tutte le didascalie per ben recitare i suoi versi, il risultato è solo la macchietta di tipo verista (cfr. Er tempo bono: 851), mentre l’intenzione era di far venire fuori un carattere. I sonetti nei quali il Belli riuscì a condensare un carattere, proprio per la difficoltà intrinseca di questa ardua sintesi lirica, sono pochi, e sembrano scritti quasi a gara con Aretino e Molière. Vedi quei due capolavori che sono Er roffiano onorato (327) e L’incrinazione (469).

Sonetti del tipo La ragazza schizzignosa (1096) o tipo L’arbanista (1208), per non parlare dei vari innumerevoli quadretti di genere su artigiani e commercianti, suscitano invece un comprensibile moto di fastidio nel lettore moderno. Sono i sonetti che il gusto verista ha consegnato a una troppo facile ammirazione, quando il Belli è stato messo sullo stesso piano, se non al di sotto, di Pascarella e Trilussa. L’ostacolo maggiore ad una lettura del Belli è purtroppo questa possibilità di confondere, per stanchezza, il mediocre

che abbonda, il ba-

nale e l’insipido, con i capolavori o con la stessa rappresentazione perfetta della mediocrità

e della banalità (che è altra cosa). Il meccanismo

d’un

carattere, che è restituito dal movimento alla sua spontaneità, è la condizione perché il comico riacquisti vita poetica: basta allora un nulla perché ci sia un salto di qualità artistica. Per esempio, il vanitoso che non si corisidera secondo a nessuno e che sa trattare con il prossimo come un esperto giocatore di morra e di passatella, è ritratto perfettamente con la semplice ma abilissima variazione sul pronome «io » tanto amato dal personaggio, e spia linguistica della sua debolezza (1176). Il pensiero dominante della zitella (il desiderio di un marito e di un figlio) vien fuori

con grande evidenza in questa specie di Perpetua romana, che il Belli ha svestito della nota pruderie di Manzoni sull'amore (1318). Il fatto che i risultati poetici, in questo genere, sian così rari, deve

far riflettere sulle intrinseche difficoltà che offre il comico, tanto maggiori quanto più tenue è la materia e più circoscritto il risultato da otte nere. Il sorriso in poesia è tanto più difficile da raggiungere della risata provocabile con un motteggio o una parolaccia, o con la sequenza di invettive satiriche:

le varie forme dell’oratoria

comica, di cui è ricchis-

simo il canzoniere belliano. 35

Senza residui polemici o sovrapposizioni oratorie, nella sfera della comicità serena possono apparirci anche gli aborriti e satireggiati preti, cui Belli negava il diritto a chiamarsi uomini (« quelli lì nun zò ommini, sò preti », dice un frammento inedito). Ciò accade quando il poeta li sorprende in una particolare situazione di debolezza, o, come lui diceva, « nell'ora der cazzaccio » (259). Un bellissimo sonetto, che non vedo ricordato da nessuno, è il terzo della serie sul terremoto del 1832 (353).

Questa paura misurata con la recita del credo e del sub suum presidium e del rosario, e che fa riparare la coppia snidata e chi racconta sotto quel rifugio spirituale altrettanto dubbio quanto l’arco della porta, è un grande finale di commedia. Qui il prete non è più un potente, ma torna uomo come gli altri. E perciò è restituito al mondo della comicità. Nel famosissimo sonetto del giovinastro che incontra il cardinale tutto elegante come una sposa, nonostante la confidenziale parolaccia rivoltagli da lontano in equivoco atto di omaggio, il comico è cordialissimo e graziosissimo. Non si sa se sia più sconcertante la trovata improvvisa di questo bell’umore, che inventa lì per lì un suo galateo cristiano, o il singolare personaggio, tutto avvolto nella sua fatuità, elegantemente e assurdamente anacronistica nel mondo moderno (1505). Scene come queste non erano rappresentabili se non in un sonetto, per un teatro da camera segretissimo. E sono i capolavori che al Belli erano concessi dagli stessi limiti che in qualche modo determinavano la sua condizione di scrittore. Ma trasformare i limiti politico-sociali in un vantaggio estetico è possibile solo al genio. Un sonetto come La concubbinazione (1581) non fa rimpiangere nulla di quel che Belli avrebbe potuto darci come scrittore di commedie, se fosse vissuto in un paese libero. Questo sonetto è considerato universalmente come uno dei capolavori del poeta. E c’è tutto lui davvero, che non ha rinunciato a nessuna delle sue qualità, nemmeno al motto di spirito. Ci sono il tragico e il comico fusi nel dramma, e il gusto figurativo, e il racconto in scorcio che dà rilievo a tutto, con l’oggettiva simpatia che il poeta deve avere per questa bella donna cui lo sfondo della stanza fa da aureola. Bella deve essere quella cuccuma che apporterà conforto all’intimità amorosa. Bello anche quel cardinale che diventa rosso di vergogna, provvidenziale al poveretto che aspetta da lui un sì, ond’è felice di levargli l’incomodo e farlo andare al suo buon viaggio per Citera. In questa Roma dove la tanto miracolosa Vergine del Parto (852), a furia di ornamenti e di ex-voto, « nun è più una Madonna: è una puttana », una mantenuta può far miracoli come una Madonna. Infinite sono le vie della Provvidenza. E nella Città del Papa la Provvidenza opera per « concubbinazione », come dire: per caso e concubinaggio. Ma il miracolato ha uno sguardo assolutamente 36

ingenuo, dove tutta l’indimenticabile

scena

si riflette con limpida chia-

rezza, senza perturbamenti ironici. Solo il motto di spirito del titolo ci ricorda il presupposto ideale del poeta, che non sa rinunciare a un suo scintillante gioco di parola: nei versi non si nota la menoma intrusione soggettiva.

« La superbia impallona li povèti » (910). Ma perché i poeti non scrivano sonetti stiracchiati, perché se ne vadano al loro « buon viaggio » estetico, devono accettare i limiti della situazione fantastica, quale se la

sono scelta nelle condizioni a loro' riservate dalla storia. La nostalgia infinita del teatro che si sente, si può dire, in ogni sonetto del Belli doveva contenersi in quattrodici versi. Una miseria, un esser ridotto « alla fetta », come dice lui. Ma era tanta la sua passione per lo spettacolo, che entro questa misura si educò a inquadrare l’essenziale. La perenne angustia di siffatta situazione si trasformò nella felicità di quel suo spettatore, che si gode al buio attraverso una fessura (182) ’na fetta

de commedia

a Tordinone.

In questa situazione, uno spettacolo diventa più intenso, s’imprime più energicamente

alla memoria,

come

azione scenica e come

immagine.

Nella « fetta » si deve racchiudere una totalità drammatica che si faccia valere con assoluta compiutezza: unità d’azione condensata nell’unità di veduta. E il sonetto, quale che sia la sua forma, di monologo o di dialogo o di racconto, o di tutte le tre cose insieme, allora può dirsi riuscito quando non ha bisogno d’integrazioni didascaliche o ermeneutiche nel commento, bastando talvolta solo il titolo a questo ufficio. « Come una spada segue la sua punta »: questo frammento inedito può valere a definire il perfetto sonetto del Belli nella sua forma veloce, calda, impugnata. Il gusto figurativo del poeta non si sviluppa dunque a caso: nasce da questa necessità interna della sua situazione lirica. I personaggi ch'egli può creare possono diventar vivi solo se sono estremamente energici, nell’atto delle loro passioni e dei loro gesti. Ma se interviene a distrarci una sovrapposizione soggettiva, la loro realtà si dissolve. Basta così poco a compromettere la vitalità del loro realismo così concentrato e così effimero. A me sembra di dover notare che proprio questa capacità figurativa (che si ritrova in tutti i capolavori del Belli) gli permise di contenere la sua volontà satirica entro limiti esatti, e di raggiungere grandi risultati fantastici. E in ciò, più che la lezione dei satirici antichi, gli fruttò quella di Parini, con tutte le debite differenze di gusto che passano tra la forza icastica del suo tratto e il giro sempre elegantemente neoclassico del poeta lombardo. Il gusto figurativo è un elemento essenziale nell’arte moderna. 5y/

Non a caso gli stessi termini di realismo e di verismo furono adottati e divulgati dagli stessi pittori quando il movimento già esisteva da un pezzo in letteratura. Nel Belli, amoroso raccoglitore di stampe (come attesta il suo Zibaldone), il gusto predominante fu quello dell’incisione, dell’acquaforte: un mondo in bianco e nero dove la parola-immagine e la parola-segno è tutta sostanza, senza aggettivi. Belli è il più grande disegnatore fra i nostri poeti venuti dopo Parini e Manzoni.

Raramente le immagini nascono da paragoni, come quelli della famosa processione sorpresa dal temporale (1632). Più spesso l’immagine è nella stessa locuzione: come quel « portare in groppa » (1799) che dice tutta l’umiliante fatica dell’adulare. O è legata alle ingiurie di un discorso, come nel sonetto della prostituta che caccia via un ragazzo, indignata dalle sue precoci velleità (485). O come in certi scoppi di collera (874):

« Ce tocca sempre da parà la guancia / sott’a li schiaffi de la Santa Chiesa ». Ma si veda come la stessa violenta metafora (« e bacià er culo che te caca addosso »), esprimente il disgusto e la rivolta di chi non

sopporta l’umiliante soggezione al corpo della tirannide, può diventare un divertimento satirico perfetto, dove l’essenza della gerarchia teocratica va a finire, immagine dopo immagine, a un personaggio inesistente d’un detto popolare (692). Questa catena di sbaciucchi si avvolge e sale come intorno ad una piramide. Altre volte lo schema della composizione a piramide è appena abbozzato (cfr. Li padroni de Roma: 1513). Altre volte è come una scala che si avvolge tortuosa nel suo itinerario ascendente verso i supremi responsabili-irresponsabili del « prezzo di corruttela o prevaricazione ». Sono le voraci bocche di un’immensa « strozzata » (1245). Un sonetto famoso come La pantomina cristiana (1796) va letto come un cartone, che, nella misura consueta all’artista, s'è gremito di figure variate su di uno stesso tema per improvvisa felicità dell’estro creativo. Qui, come nei momenti più alti, la mano del Belli è davvero come quella della pittrice che il poeta loda in un sonetto (965): è lesta, che dipigne per assarto.

E l'assalto satirico si placa in un segno nervoso, tutto vivo del moto che vuole esprimere, ma preciso e asciutto. Le immagini della pantomima cristiana sono di derivazione letteraria. Ma originalissima è l’idea di mutilare e fissare nell’esteriorità della devozione, di giustapporre le immagini in un solo sonetto. Il gusto irridente di questi disegni velocemente schizzati nelle loro comiche analogie colpiva in una satira feroce la retorica del costume cattolico, e insieme l’unzione e teatralità iconografica 38

della tradizione controriformistica. E che il poeta fosse consapevole di tutto ciò, lo dice il commento sfottentissimo all’ambiguità sensuale di cert' soggetti barocchi come la Carità romana (Ur quadro buffo, 967). Autentici capolavori di questo satireggiare per repliche e variazioni tematiche sono Le indignità (616) e Li chèrichi (1033).

Sarebbe interessante accertare se il Belli abbia conosciuto le stampe di Thomas. Questo voltairiano scopritore di Roma, in un anno di soggiorno a Villa Medici la capì quanto Stendhal, e come non l’aveva certo capita Pinelli, il quale, benché anticonformista nelle idee (secondo la tradizione giacobina dei pittori romani, risalente al periodo rivoluzionario), era in realtà alquanto arcade nel suo gusto popolaresco, e degno illustratore del Meo Patacca, con quei suoi eroi che sotto i panni di « minenti » nascondevano il gesso del manichino neoclassico. Thomas aveva ben capito il contrasto romano fra il culto cattolico del macabro e la mal soffocata vitalità del popolo, prorompente nei giochi e nelle feste. Abbia o no conosciuto i suoi disegni, il Belli ha in comune con il pittore francese l’azizzus del classicismo razionalista, che a contatto con una grande e nuova materia ha esiti precocemente realistici, di là della educazione accademica. Di fronte ai temi macabri il segno di Thomas scattava con la stessa allegria con cui Belli ghignava sulle « gran belle funzioni » funebri del suo paese. Si pensi alla chiusura del più famoso dei due grandi sonetti (820, 821) sul mortorio di Leone XII: i quali corrispondono a due pagine di diario delle Promzezades e, pur essendo scritti due anni dopo il decesso, ritraggono la scena come una cosa vista, con l’immediatezza di uno spettacolo che si svolge sotto gli occhi del poeta. Naturalmente i particolari non sono più distaccati e calmi, come potevano configurarsi allo sguardo d’uno straniero. C'è il tono sprezzante e cinico del romano che sa bene quanto valgono quelle pompe e quegli orpelli, quelle guardie nobili e quei cannoni da strapazzo. « Io le so certe cose, io so’ romano », dice altrove (1324). Pochi scrittori come lui avrebbero

potuto far proprio il motto di Goya, il più geniale artista che abbia espresso la corruttela della Spagna autoritaria e clericale: « divina ragione non risparmiare nessuno ».

Avrà Belli conosciuto Goya se non di persona, durante il suo soggiorno romano, almeno nelle sue stampe? Goya è certamente il pittore a cui hanno fatto pensare tanti suoi sonetti, e il nome è stato fatto da tutti i critici non inesperti di arti figurative. A chi pensare se non a Goya che avrebbe potuto intitolare con lo stesso spirito e raffigurare la stessa scena del sonetto 1580? Ecco le immagini eloquenti della Vedovanza: il viso affilato dell’ipocrita e le due buche nel suo letto, dove si stampano le orme di chi le ha fatto maritale compagnia notturna (378). Ecco « er 39

marito de giudizzio » immerso nella sua beatitudine di cornuto consapevole, che ingrassa indifferente, cogli occhi socchiusi, alla provvidenza che gli arriva in casa. Le immagini metaforiche che compiono il ritratto, sono come i simboli del suo benessere (2102).

Sono dei veri « caprichos ». E non è a dire che a questa varia perfezione di stile il Belli fosse giunto solo da vecchio. Si pensi ai vari ritratti dello spione (che ricorre spesso col suo « rondeggiare » intorno alla gente). Si pensi a quello dove il losco personaggio vive soprattutto nel rilievo plastico della sua volgare eleganza, mal conquistata, dopo una lunga fame, il gioiello sulla cravatta, e il pomo d’argento sul bastone stretto autorevolmente in pugno, e i suoi due orologi posti sul colmo dell’embonpoint, evocati con viscide metafore: son. 312. Ecco il Conte che fa la scimmia ai preti, celebrando « la messa in copia » nella sua cappella privata (1804). Ed ecco il Monsignore sorpreso nella sua tetra intimità pomeridiana (986). Ed ecco la carità domenicana dell’inquisitore, che fa colazione col suo mischio di caffè e cioccolato, mentre ordina la tortura ai suoi aguzzini (1797). Ecco l’allucinante « confortatore » del condannato a morte (54). Ecco i grandi ritratti drammatici: la morte de L’avocato Cola (1731) e quella di Madama Lettizzia Buonaparte (1627). Lo stesso squallore accomuna gli ultimi giorni del suicida per miseria e l’agiata fine della madre di Napoleone. Ma diverso è il sentimento di pietà con cui il poeta guarda al dramma del povero e allo sfacelo fisico di questa gran dama che se ne va in mezzo ai suoi agi, guardandosi allo specchio, come la duchessa di Benavante nel capricho 25: Hasta la muerte. Dopo una fuggevole pietà, subentra nel poeta la crudezza di un involontario pensiero: il conto dei suoi ultimi fasti, le spese del suo funerale. Questa capacità icastica da grande acquafortista, che riesce a cogliere nei contrasti del bianco e nero una tensione comica o tragica, a volte ha un valore risolutivo, come alla fine del sonetto 1422, Li pericoli der temporale. Qui la credenza popolare del fulmine che incenerisce la persona, ma le lascia un’apparenza d’integrità che si dissolve « al minimo urto » (come dice la nota), suggerisce all’occhio del poeta una mirabile sfumata. « Figure » folgorate in cento frammenti di tragedie e di commedie: non altro potevano essere, data l’inquadratura derivante da quella conce: zione, e dato il punto di vista del poeta, i personaggi di questo « dramma » belliano. E « figura », proprio in bocca a due tra i suoi più impetuosi personaggi, vale « tipo » umano con tutte le sue virtù fisiche più valide e pronte: il relitto linguistico di questo antico termine cristiano-medievale aveva perduto ogni traccia del suo concetto di realtà difettiva e negativa, biso40

gnosa di compimento nell’aldilà (come dice Auerbach), anzi era tutto e solo materia. « Figura » si vanta d’essere Ricciotto de la Ritonna (1472). E non diversamente si esprime una manesca lavandaia (2197). Il peso stesso dell’atmosfera stagnante in cui essi respirano, saldi nell’accettare la realtà, chiusi nelle loro vicende e nelle loro passioni, sicuri delle loro sentenze e dei loro gesti, calibra esattamente la loro energia umana, sicché le loro immagini e le loro parole contengono tutta la carica necessaria a squarciare. La vita sembra rifugiarsi solo in questi momenti di straordinaria intensità, e colma la passione di chi parla e moraleggia, racconta e giudica. Le figure spesso non hanno un nome o un volto, e un nome talora è dato a chi ascolta, messo lì per ragion di rima e per finzione di compagnia a tanta solitudine di passione, quale che sia questa passione della miseria o del potere, dell’insulto o della vendetta, della abiezione o della dignità, del piacere o del dolore, a quale dei due generi umani appartenga. Perciò la « figura » si esaurisce in un gesto o

in una battuta, che acquistano un valore intenso, definitivo, epigrafico. Simili ai « vaghi de caffè » del filosofico macinino (805), le figure di questo mondo belliano sembrano l’una cacciata dall’altra che sopraggiunge sulla scena, mentre quella che la precedeva è « sfranta ». Unica, grandiosa eccezione è il Papa, non solo per l’essenza stessa della sua inalterabile e reincarnata successione, ma perché immortale sembrava di fatto il sovrano

di lunghissima

vita, felicemente

regnante

(1831-1846)

quasi quanto dura l’azione del « dramma » belliano. È il più importante dei suoi personaggi « storici », il protagonista che raccoglierà in varia forma giocosa, ironica, satirica, sarcastica, comica, l’omaggio estetico più compiuto dal suo sempre aizzato e sempre pronto antagonista « Peppe er tosto » (come amava talvolta firmarsi il Belli). Ideologicamente ed artisticamente questa concezione era audacissima,

arduo l'impegno poetico. All’inizio, nel 1832, si osserva una significativa cautela in un sonetto allusivo e criptografico, dove si parla di un « Papa de Turchia » alla Montesquieu (647). Ma Belli non voleva ricadere nelle comuni pasquinate, ambiva ad una rappresentazione, per così dire, istituzionale del « Vice-Dio », visto nella sua fase di suprema decadenza, dove la « storia » di « Don Màvero » che diventa « Papa Grigorio » e le vicende di cronaca del suo pontificato sono accessorie rispetto alla tipicità reali-

stica che il poeta voleva raggiungere, all'essenza del Papa-Re, incarnato nel gran corpo di un Papa duro a morire. E « Papa Grigorio » gli ha offerto infatti l'occasione di una verifica poetica di ciò che è questo despota singolare che come Papa e Re « hassi a aborrir per tre » (come diceva lo stiracchiato epigramma di Alfieri). In questo inferno romano dove non esiste patria e non c’è posto per i 41

traditori, in quanto un regime siffatto « tradillo è bene, e nun tradillo è peggio » (1737); è il Papa che suggerisce al poeta quel tremendo sonetto 1696, Er passamano, a sproposito del quale si è parlato di subtilitas medievale e di Cecco d’Ascoli! In effetti, nella fantasia del Belli, di medievale e di grandioso c’è un tratto che fa pensare alla feroce invenzione escogitata da Dante per ser Branca d’Oria (Inf., 33). In Belli c'è, al solito, il rovesciamento comico del sublime, per cui non è l’anima

del traditore che ruina all’inferno, ma il corpo del Papa, che predestinato alla sua carica, alla sua « indignità », senz'anima,

e nun

porta

... casca dar celo antro ch’er fiato.

L’anima, « ferma in ne l’antico onore », la ritrova lì a Roma,

eter-

namente pronta a passare in corpo al nuovo Papa, e di eterno non ha che il potere e la mondanità. Solo un religioso orrore della teocrazia poteva ispirare al Belli un sonetto possente come questo, e l’altro composto cinque giorni dopo (il 9 ottobre 1835), che si può dire la sintesi della

tirannide papale incarnata in « Papa Grigorio », agli occhi implacabili del poeta, che in nota richiama i versi dell’invettiva di San Pietro contro Bonifazio VIII (1706).

Inventati o no che siano tanti particolari aneddotici, e fatto il beneficio dell’iperbole caricaturale nella forma satirica e comica di cui è tanta parte, a noi lettori interessa soprattutto se il Belli abbia espresso quella che a lui sembrava la verità: una verità che egli non credeva mai di avere esaurita, non sembrandogli di aver mai soddisfatto pienamente a tutta quella realtà negativa che gli richiamava alla coscienza Gregorio XVI. Onde le innumerevoli repliche e variazioni, dove non c’era la fuggevole passione di rinnovare pasquinate contro una testa di turco, ma soprattutto il vagheggiamento artistico di una varietà estrema di forme (che si sarebbe riflessa in una inevitabile disuguaglianza di resa poetica). Se proviamo

a mettere insieme questi sonetti e leggerli di seguito,

non viene affatto fuori un poema (come sembra facile a dirsi, e perfino ovvio),

ma

una

serie di variazioni

tematiche

e disegni

schizzati

« per

assalto », dopo lunghe meditazioni sui presupposti ideali del tema. In effetti, anche il più storico dei suoi eroi sfugge ad una «storia », a uno svolgimento poematico e narrativo. E se si nota uno svolgimento

è quello solo ammissibile nel mondo comico-lirico del Belli. È la regressione ad infinitum, che attraversa tutta « Romaccia », e va dal Dio ignoto e tenebroso, che ha « antri gatti a pelà che sentì noi» (1747), e si diverte a mandare giù « crocette », tribolazioni per gli uomini, sino al42

l’altro grande burocrate, addetto al male, che sta lì a mordersi la coda in fondo a questo universo che precipita nella sua interminabile decadenza, dove (come è detto con leopardiana amarezza, notata dal Vigolo, 1747), er distino oramai pare diciso ch’'ogn’anno novo è peggio de li vecchi.

Il Papa in quanto tiranno è il peggiore degli uomini, e la legge del regresso, attraversando la sua vita, la fa diventare esemplarmente negativa, come si conviene al vertice di questa rovesciata piramide dell’S.P.O.R., del « Soli-preti-qui-regnano » (945). Si può esser carnefici

e poeti,

diceva Belli in un suo frammento inedito. Ma s’egli fosse rimasto prigioniero della retorica che isterilisce tanta parte della satira antica negli scrittori della decadenza, avremmo avuto anche per Papa Grigorio una serie di invettive, sia pure nell’equivalente della tradizione cinquecentesca italiana fissata da Berni o da Aretino. Ora di queste invettive (che al solito si illudono di colpire l’oggetto, ma molto spesso lo sommergono nella verbalità) non ne mancano anche per Papa Grigorio. Quando (ad esempio) egli proibì il carnevale nel ’33, il supposto popolano lo affronta in un violento alterco (878). Eppure siamo qui ben lontani dal catalogo burlesco con cui comincia l’opera del Belli (a Papa principium); e cominciava non

certo con un

sonetto esteticamente

compiuto,

perché la. cari-

catura di quello « strucchione » di Pio VIII è modestamente giocosa (11). Le invettive contro Papa Grigorio nascono nell’ambito di una protesta sociale e religiosa, e perciò rendono credibile la popolarità ideale di chi parla, quando il sonetto è pienamente riuscito. Quando invece scendiamo nella cronachetta anticlericale, e alla « commedia a Palazzo » (1769) con tutti i suoi pettegolezzi, Belli mal riesce a riscattarsene mediante la sua consumata abilità tecnica. Sono i versi in cui sguazza nella sua miserabile materia. Dal suo stesso versificare lo scrittore sembra aizzato a sonorità oratorie.

È una materia che non è più comica, ma rivoltante (1553).

Ma altrove, come il poeta sa sollevarsi sulle miserie della cronaca! L'annuncio del trasferimento di Papa Grigorio dal Quirinale ai palazzi del Vaticano è trasfigurato in modo iperbolico e favoloso. Il Papa diventa agli occhi di Belli come un gigante infernale, che cresce nei vecchi panni e ha bisogno di spazio maggiore, per l’ottusa e animalesca espansione della sua cupidigia di potere, così rappresentata nel modo più plastico e materiale. L’occasione del sonetto diventa del tutto accessoria rispetto

43

all'immagine di questo pachiderma della preistotia moderna, con le sue immense ossa di travertino (416). Basterà che questo essere mostruoso

San Pietro, perché riacquisti intorno, saliti al suo livello, i sulla carrozza e lo incatenano plebe fatta a sua immagine e riliggione » (come

intitola

e fantastico

scenda

in piazza

le sue umane proporzioni, e gli crescano vari Pidocchietti del popolo che gli saltano al suo destino: sovrano reazionario di una somiglianza (380). Questo « trionfo de la

sarcasticamente

il poeta

questo

suo

famoso

sonetto) è la consacrazione estetica, umana e popolare del personaggio, strappatigli i suoi orpelli, di tutt'altro che nobile metallo (come appaiono al suo volgo). E il cielo del Vice-Dio non va oltre il « carrozzone » che lo porta in giro, come un personaggio da fiera e da circo. Papa Grigorio però, è così finalmente umanizzato: può diventare il «zor Papa », il favorito della sorte, « l’assortato » Don Màvero con la sua buona stella (che richiama alla mente, per contrasto, la « mala stella » di Gesù: 349), e con quel suo moto perpetuo così bene cominciato col primo viaggio trionfale della sua carriera da Belluno a Roma, e con i suoi boccali di vino, e le sue « magnate », e i suoi vari spassi in giardino coi monsignori e la moglie del primo marito dello Stato, il barbiere Gaetanino Moroni, non meno « assortato » del suo Papa (1563).

Certe anime pie hanno protestato che queste del Belli sono calunnie da servitori, malignità da sguatteri e da lacché. Altro fu Gregorio XVI. Ma Belli potrebbe rispondere con Manzoni, che il poeta « storico » parla di ciò che è vero o che è ritenuto vero. E Belli non era un Aretino, che scrivesse pasquinate per farne traffico, o per compiacere chi l’avesse assoldato. In quel Papa il Belli odiava niente altro che una suprema degenerazione: era irriverente solo a ciò che ormai non ispirava più reverenza. Anzi, nel confidenziale rapporto fantastico stabilito col «zor Papa », finiva per ritrovare quegli aspetti umani che lo divertivano dall’odio contro il potente, alienato dall’umanità per l’abuso quotidiano del suo potere politico-religioso. Senza un vagheggiamento estetico non sarebbe mai potuta venir fuori l’immagine di quel Papa a cui da morto il Belli confessava in un

frammento di aver voluto bene, perché gli dava « er gusto de poterne di” male ». Ogni tanto diceva infatti, e non sempre ironicamente, « er Papa mio », anzi idiomaticamente, con buffo equivoco, « Papa mia » (1848). Talora gli rendeva certi omaggi che avevano del madrigalesco (1454). Come Petrarca fece per la morte di Laura, il Belli inscrive nel suo canzoniere l’ora e il giorno in cui il cannone annunciò ai romani l'elezione di Papa Grigorio. Questo è ancora un esempio di ciò che ho definito petrarchismo comico del Belli, non più parodistico e giocoso, ma oggettivo

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rovesciamento e integrale materializzazione di una forma. Petrarca rammemorava e ribadiva alla sua incredulità di amante una data che era un trapasso alla luce del cielo, e nel linguaggio eterno e metaforico della perfezione musicale, consacrava la morte di colei che egli aveva idolatrato come immortale. Belli smitizza l'elezione di « sua Beatitudine », la chiama con ambigua aferesi idiomatica « lezzione » e al solito la parola acquista altro significato, come di ammonimento. Infatti l’annuncio irrompe con fragore autoritario all’orecchio dei sudditi. È il Santo Padre che fa sentire la sua voce tutt’altro che paterna ai poveri romani, sorpresi inermi nel loro povero idillio familiare. Chi racconta è un personaggio di questo idillio: ma più insiste nel trito dei ricordi banali, più vuol circoscrivere con precisione il fatto, quasi per assicurarsi una sua cosciente e importante partecipazione al grande evento, più accumula immagini e registra i minuti, e più comico è il risultato dei rintocchi di questa sua superstiziosa illusione di contare anche lui qualcosa in quell’evento (1534). La fortuna e la vitalità di Don Màvero conciliano la simpatia del poeta, che, sebbene con aperta ironia, rinnovava certi atteggiamenti del Berni per Clemente VII: voleva proteggerlo dal malocchio (806), partecipava al suo sovrano compiacimento per i medici che gli restituivano la possibilità di esercitare le sue virtù di pappatore e di beone (787, 1824). Sono i momenti in cui il poeta lo trasforma per suo spasso in un farsesco re burlone. E così ce lo fa vedere in giardino, mentre gioca a gatta-cieca, «a la pilaccia » con il suo fido barbiere, e si prende una bastonata sul camauro (1058). E ce lo fa vedere mentre ruzza (1057) « cor un prelato suo garbat’e tosto », il quale soppotta tutto, anche uno sgambetto, per diventar cardinale. Se è incapace di risolvere i problemi del suo Stato, in compenso è pieno di slancio vitale e di energie magnifiche, sia pure a vuoto (1582): er Papa nostro è un omo subbitanio, caca-pepe, biglioso e fumantino.

Come ogni tiranno che si rispetti, è instancabile nel suo dinamismo che riesce « rivoluzionario » in quella secolare indolenza romana. Tutto preso dal « gran gusto » del viaggiare, la più divertente delle sue scarrozzate è un ritorno improvviso da Castel Gandolfo, che il Belli tratteggia in un racconto di grande evidenza realistica, con allegra foga caricaturale (1827).

In questi sonetti siamo al limite della simpatia comica. Un Papa che ride, usurpa quei diritti naturali già così scarsi di cui potevano godere i suoi sudditi. È ciò che più insospettisce il poeta, il 45

quale su questo inalienabile e unico patrimonio di libertà popolare esercita la sua vigilanza intransigente e ininterrotta. Epperò se lo vede sghignaz-

zare, si insospettisce e si mette in guardia (148). Lo stesso personaggio

che ci era apparso in situazioni farsesche, può rivelare allo sguardo implacabile del poeta una ben diversa immagine di montanaro feroce e grifagno. Per esempio in un sonetto che ben potrebbe aggiungersi a quelli di respiro goyesco, L’aricreazzione (1565), la ferocia del tiranno giunge sino allo strazio gratuito di quelle vittime dell'umanità intera, che per il sensibilissimo Belli sono gli animali: le creature che sopportano il peso di tutti, predestinate dalla « provvidenza » all’oppressione dell’uomo (salvo il serpente che fece le loro vendette una volta per tutte: 1205), creature senza difesa e senza riparo (156, 1349), creature che non hanno il bel privilegio di andare all’inferno (1369) ma, pur essendo impeccabili, muoiono al posto di quelli che dovrebbero scontare le loro colpe, come il cane che morì

durante l’uragano al posto del Papa, su cui Belli avrebbe voluto attirare i fulmini del cielo (1459).

I sentimenti del poeta nei confronti del suo personaggio furono molto più complessi di quanto non appaiano alla memoria sommaria e schematizzante di chi rinunci all’analisi d’un materiale così vasto. Il Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia, ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile non poteva che ingenerare la comicità di quella vicendevole paura in cui l’Alfieri aveva visto il tragico meccanismo psicologico dei rapporti fra sudditi e tiranno. Mirabile scioglimento dell’episodio fantastico più significativo di questa farsa è l’episodio del passaggio notturno del Santissimo, che mette in allarme le sentinelle, e dopo i loro strilli, anche il Papa, il quale, paventando una sommossa, afferra il vaso da notte, non potendo fare altro, per evitare il peggio almeno nel suo letto (1900). Questo sonetto è nella sua grandiosità comica pari all’altezza tragica del passaggio del Papa a Piazza Pasquino, in mezzo al popolo mareggiante, a cui distribuisce sbrigative benedizioni per disimpegnarsi da quell’amplesso umano che lo stringe troppo da vicino, mentre egli continua a parlare con due cardinali seduti di fronte, « zitti zitti e seri seri ». Dopo aver visto quel volto dal « fosco cipiglio » militaresco (come il Belli stesso traduce: «una ciurma indiavolata / peggio d’un caporal de granattieri »), che cos'è che ci impedisce di sorridere? È la presenza di quella folla che si accalca intorno alla berlina e che la lascia emergere proprio come sulle onde di un mare in tempesta, mentre dallo sportello si vedono in primo piano grandeggiare

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le mani benedicenti del Papa, simbolo del suo inane potere spirituale, che non sembra giunga a placare la folla, così come non è sicuro che le sue parole persuadano davvero i cardinali in ascolto. Pasquino muto è come il simbolo del poeta anche lui impietrato di fronte al mugghio del popolo, che dice tutto senza che si distingua una sola parola, anch’esso vano nella sudditanza del suo tumultuare: sovrano e popolo sono lontanissimi l’uno dall’altro, ma li ravvicina l’onda del reciproco sospetto (1942).

Nei momenti di collera, quando la fame più straziava il corpo di quella sventurata Romaccia che non poteva certo saziarsi di benezioni e di indulgenze, comprendiamo perché il poeta avrebbe voluto seppellire il Papa col suo odio. E forse mai lo dice con tanto gusto, come quando finge di doverlo sottrarre all’« occhiaticcio », e mettergli addosso « er pel der tasso, come li somari », contro il malocchio (806). Mai lo accusa con tanta veemenza, come quando finge di difenderlo in un sonetto di movenze oratorie (ma stilisticamente originalissimo), che si conclude con un

appello generoso a lasciarlo eternamente in pace (911). Ma prima di aver l’onore di seppellirlo con le sue mani (come dice con ambigua devozione un becchino che serve da anni un illustre cliente, 1368), Belli sarebbe giunto quasi al termine del suo canzoniere. E in fondo, se l’idolo della sua fantasia comica sempre in punto di morte non moriva mai, ciò forse non dispiaceva al poeta. Il quale intanto giungeva anche lui alla fine del suo regno poetico, e coglieva il frutto di una suprema capacità di trasfigurazione fantastica della sua materia. Mentre sembrava già finito come poeta, anche il Belli sapeva riprendere quota. Sapeva ritrovare i motivi di una fantasia sorridente. Pareva che avesse raggiunto una sua equanimità nel giudizio di questo tiranno immortale. E una volta giungeva a intenerirsi sulle fatiche a cui lo costringevano, povero vecchio (2093). Ma qui ci aspetta una duplice sorpresa. E come in una grande commedia, il carattere del protagonista scatta nel suo meccanismo, perfettamente sincronizzato con l’umore del suo poeta e antagonista, che fino all’ultimo dovrà incalzarlo. Come Manzoni fa con Don Abbondio, Belli accompagnava passo passo il vecchio Papa, e lo seguiva nelle ultime cerimonie, con tutte le alternative di quell’odio-amore, e col rammarico per quell’idolo fantastico che stava per abbandonarlo. Non l’abbandonava ancora la volontà di satireggiare questa vecchiaia infantilita e impudica (2114). L’ultima immagine che ne tracciò da vivo è in perfetta coerenza con la concezione della commedia romana, riflesso di tutta la commedia cosmica, dove il Vice-Dio appare non altro se non come il burocrate di un più alto tiranno, sottoposto al più alto tormentatore del genere umano (2135). Era ormai una figura emblematica, questo Papa che con impa47

zienza senile sta a guardare il suo orologio, la macchina del tempo, che per quanto ben costruita dal maestro dei maestri orologiai aveva in sé nascosta la morte. Il sonetto 2135 fu composto il 29 aprile 1846. È significativo che il giorno dopo il poeta componesse La morte co la coda, fosca meditazione senza dubbio ispirata da un ritorno di quei terrori infantili che erano stati a base della sua educazione cattolica. Nel « dramma » di Roma c’era anche il dramma personale di Belli. Col protagonista dei suoi sonetti finiva anche l’antagonista, lui, il poeta che, proponendosi di rappresentare la realtà della Romaccia, aveva perseguito col riso « la morte della Morte », come nel suo poema giovanile. È ora giungeva stremato alla fine di questa lunga lotta che egli aveva impegnato non contro il dialetto, ma col dialetto, per rivendicare dalle tenebre funebri di un Medio Evo in rovina, la luce della vita, ritrovata pur nel contrasto del brutto e del turpe. Di quel centinaio di sonetti che ancora compose, pochi altri egli avrebbe scritto in morte del suo indimenticabile Papa Grigorio (2148). Qualcosa cambiava anche nell’inalterabile Stato della Chiesa. E invano il poeta avrebbe voluto, contraddicendo alle sue stesse aspirazioni di uomo, che il nuovo Papa ricalcasse la spirale discendente del moto regressivo che egli aveva assunto come legge nel suo universo poetico: « sicutèra tin principio e nunche e peggio » (2158). La nuova realtà del Risorgimento era giunta sino al conclave e aveva imposto un nuovo Papa,

ben diverso dal precedente, almeno nella tattica iniziale, e nelle riforme che subito cominciò ad affrontare. Ma lassa fà, che senza poverelli se farà sto paese un bell’onore!

commentava un reazionario, borbottando a quelle novità (2202). Di fronte a queste illusioni di abolire i fondamenti stessi di uno Stato che si reggeva sui principî della carità e che presupponeva gli abissi tra le classi,

è così ambiguo il sarcasmo di Belli, così oggettivato il suo personaggio reazionario, che si resta perplessi. Dove sarebbe andato a finire lo Stato della Chiesa con tutte quelle riforme? Non avrebbero anche abolito la stessa figura del Papa-Re? « Chi sa ar Papa che impiego je daranno? » diceva un verso conclusivo del penultimo sonetto romano (2244). Nel regno tenebroso del negativo l’immagine di un Papa che rassomigliasse agli ideali dei cattolici moderati non riusciva a prender luogo. In questa Roma che era stata la patria del platonismo estetizzante e del 48

bello ideale, il monumento del brutto occupava tutto lo spazio. L'ombra dell’abate Spalletti sarebbe stata lieta, se avesse potuto riconoscere il poeta che aveva realizzato come nessun altro scrittore le sue teorie. Nella Romaccia del Belli le immagini ideali potevano fare tuttalpiù « capoccella », affacciarsi e ritrarsene (come dice il poeta di Cristo all’inferno: 2210). Quel Pio IX che non aveva « la mutria da sovrano », che non aveva « la faccia der padrone » (2143) sembrava estraneo a quel mondo, non

meno di altre immagini ideali, come la benefattrice sora Matilde Sartori (1473), e monsignor Tizzani (1955, 1967), il buon prelato a cui il poeta affidò i suoi manoscritti. Ma come escludere dal « monumento » alla plebe di Roma quei sonetti che richiamavano al poeta la cara cerchia delle sue amicizie, e dei suoi affetti? È per questa ragione, credo, che noi ritroviamo una serie di sonetti rivolti ai suoi amici, al suo pubblico, a tutti coloro che l’avevano aiutato a vivere

in quell’inferno,

a cominciare

dalla sua

protettrice

(27) che,

sposandolo, l’aveva salvato dalla miseria e gli aveva risparmiato per lunghi anni tutte le umiliazioni che purtroppo dovette conoscere di nuovo nel pieno della sua maturità. Nonostante i successivi propositi di oggettività, il canzoniere comico di Belli era in effetti nato sotto l’insegna della soggettività giocosa. Proprio come il Canzoniere che in tante edizioni veniva designato con il titolo « Il Petrarca », i sonetti romani in cui il poeta voleva trasfondere tutto se stesso, il suo vero io segreto, si sarebbe dovuto chiamare «Il 996 » (=. g.g.b.) come dire, il « Belli ». Nell’opera, fino all’ultimo sonetto, rimasero evidentemente scoperte e tutt'altro che dissimulate queste privatissime rime di corrispondenza, le quali non avevano nulla a che vedere con lo schema del « monumento ». Non si trattava di quelle orme soggettive che anche nella meglio oggettivata creazione poetica attestano l’incancellabile paternità dell’autore, per cui nello stile di tanta parte dei suoi personaggi ravvisiamo sempre lui, « Peppe er tosto », duro e greve, senza peli sulla lingua, caca-pepe, bilioso e fumantino come il suo Papa; rugantino e incitoso, intignato e menantino, come i suoi popolani. E non era maniera, incapacità di caratterizzazione o di narrazione (come ha preteso di sostenere qualche critico poco provveduto), perché quello stile, al livello del serzzo buzzilis realizzava una unità che poteva ammettere tutte le varietà e tutte le sfumature, appropriate e coerenti alle situazioni: « diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche e suon di man con elle » (sì anche suoni di mani perché la parola è qui continuamente legata all’energia del gesto e a ragione il poeta definiva « manesco » l’idioma 49

dei suoi personaggi, quando erano più violenti e facevano stacco sulla folla dei molti mediocri ed ignavi, «i cazzacci »). Era questa la via per ritrovare quel Dante che l’abate Monti aveva soltanto bassvillianeggiato. Era questa la via per ricuperare la « verità sfacciata », riposta in quella Bibbia tanto raccomandata e tanto idoleggiata da protoromantici e dai romantici, e che egli leggeva con la spregiudicatezza di Voltaire, e che intendeva tradurre senza eufemismi espurganti: cfr. son. 185. (Tutta una serie di sonetti ispirati alla Bibbia e al Vangelo, puntando sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sulla oggettiva ingenuità di chi parla, dissimulano quasi sempre un’ironia, un arizus illuministico, e approdano ovviamente a risultati sconsacratori. Non mancano quelli di puro gioco letterario o figurativo, ma alcuni risultano ambigui, fino alla sorpresa di un autentico brivido religioso). Il Creatore che urla al creato:

« ommini da vienì, séte futtuti » (165)

è un « omo da risponne pe le rime » (322) come quel tale che, colpito da una tegola mentre camminava col suo amico, alla esultanza di costui che attaccò il suo bravo ex-voto al muro, esclamava: « Sì, è stato un bel miracolo der cazzo » (1705). Gli angeli che al Giudizio Universale riuniscono i morti col loro « Fora a chi tocca » (273) hanno il « vocione che nemmeno Jarba » (2072) del chiamatore mattutino, risonante nelle vie di Roma. La stessa ingenuità che rende comica l’offerta della prostituta Santaccia al « burrinello » (598) è nelle parole della Vergine che risponde all’Angelo (329). Il « Dove me pare, er Papa j’arispose » (747), quando Gesù rivolgeva a S. Pietro il suo mitico « Quo Vadis », è pronunciato con lo stesso sprezzante cinismo del ladro, che minacciato di galera al costituto di polizia, risponde: « È er gusto mio » (538). L’insofferenza di Caino all’ingiustizia (180) è pari a quella del fabbro ferraio (1406). E ciò che rende poetica questa equalità, e non l’appiattisce a maniera, è la

necessità imperiosa del contesto che la esige e la fa scattare con libera coerenza e con vitale, obbiettiva immediatezza. Proprio per questo tutti quegli altri sonetti nei quali il soggettivo

nella sua accezione più banale e privata fa quasi sempre scadere naturalmente anche lo stile, siamo costretti a eliderli idealmente, ogni volta che li incontriamo nella nostra lettura. Ma non sappiamo quali il poeta avrebbe eliminato, se avesse avuto le energie e la voglia di ordinare la sua opera, come pur cominciò a fare, segnando un zo sotto alcuni sonetti, che dovrebbero essere dati come stravaganti, per meglio sottolineare almeno questo inizio di volontà ordinatrice: visibilissima, anche se non sempre e non tutti i criteri impliciti nell’esclusione si possono dedurre con certezza. Contrariamente alle ambizioni classiche del poeta, alla sua opera mancò l’ultima mano. I suoi sonetti restarono senza un titolo e senza un 50

incipit chiaramente deliberato. E si conclusero con un explicit forse casuale; anche se mirabilmente significativo. ‘ Benché in questi trentaduemila e più versi si contino sulle dita i sonetti mal finiti, o mal rimati, la presenza di certi pezzi poco significativi, e soprattutto dei versi d’occasione, conferisce all’opera (non meno di qualche sciarada e di qualche criptogramma e dei molti aneddoti e motti di spirito verseggiati) il carattere di un immenso giornale, spesso legato alle occasioni quotidiane, con tutti i vizi congeniti a questa estemporaneità e occasionalità, da cui pur derivano tanti pregi. « Di tutto quel che vedi fai sonetti » (dicevano al Pistoia, un suo precursore del Rinascimento). In ciò che fece trionfare le sue più alte virtù si annidava anche il suo vizio. E il vizio non era il caro dialetto (come è stato detto), era tutto ciò che per essere solo esteriormente dialettale contraddiceva, anche

sul piano linguistico, con quel sistema di « idiotismo continuo » nel quale il Belli, da autentico poeta, capì che doveva profondarsi, per evitare la vieta letteratura in vernacolo, e per conseguire la suprema unità attingibile nella sua situazione, condannato come era al suo inferno poetico, a quel dramma sfranto in « episodi », a quella « commedia » ridotta a « fette ». Il suo vizio di petrarchista del comico era l’abuso della riflessione, che lo induceva alla ricerca di tutti gli effetti esilaranti possibili, per cui, mentre aveva raggiunto que! « comico delle cose » (che Leopardi auspicava alla nostra

letteratura

così sovraccarica

da un

mediocrissimo

e uggioso

« comico di parole »), ricadeva nel vecchio per troppo ingegnosa ricerca del nuovo. Non contento della musicale « cojonella » che trascorre per tutti i suoi versi, connaturato mordente ironico del dialetto romanesco e che così spesso si ravviva nel « ber pasteggio », Belli era sempre pronto alla

« botta de fianco », al frizzo da scoccare all'improvviso. E non bastandogli neppur questo c’era la continua ricerca linguistica degli equivoci o « anfibologie », che rispondono alla « inclinazione e capacità » del popolo è che spesso era ottenuta da lui attraverso un’alterazione di parole, dove non si sa (e del resto poco importa sapere) quando finisca il dialetto’ autentico e quanto cominci la sua libera invenzione. Tutti i mezzi espressivi sono buoni, finché non divengono fine a se stessi e, distratti dal contenuto, lasciano sospettare un evidente formalismo. I sonetti che sono giocati letterariamente sulla sorpresa di questo o quel bisticcio o doppio senso, prima ancora e assai più di certe sottigliezze satiriche su argomenti religiosi e politici, fanno imputare al Belli proprio quel soggettivismo il cui sospetto egli voleva allontanare dalla sua opera, guasi che, nascondendosi « perfettamente dietro la maschera del popolano» avesse voluto prestare a lui le sue « massime » e i suoi principî, onde esaltare il « proprio veleno sotto l’egida della calunnia ». In realtà il motto

51

di spirito è di sua natura « assolutamente soggettivo » (come. ha dimostrato Freud). Si accetti o no la sua spiegazione del meccanismo attraverso cui si genera (predominio dell’inconscio), sta di fatto che non solo psicologicamente, ma esteticamente è assai diverso dal comico. E quanto questo è disinteressato, tanto l’altro è oratorio, viene sollecitato dall’ascoltatore. Il piacere di far ridere un amico con la sua battuta è alla base di. molta oratoria giocosa che dava al Belli il solo conforto a quel suo solitario e clandestino poetare, da cui potevano derivargli solo preoccupazioni pratiche e non certo un pubblico riconoscimento del suo genio. E il motto di spirito non soltanto soddisfaceva al successo brillante nell’ambito della piccola società che egli frequentava e a cui bastava poco per eccitarsi dalla sua noia provinciale e da una sonnolenta esistenza. La concisione epigrammatica che ne costituisce l’elemento formale più importante, perché in sede psicologica genera (come sostiene Freud) il piacere della energia risparmiata, rispondeva a meraviglia ai principî classicisti della retorica di Belli, e finiva per offrirgli un quotidiano esercizio tecnico, molto importante per lui che preferiva scrivere nuovi versi (e in ciò era l’opposto del Petrarca), anziché ritornare su quelli già composti. I suoi non erano, del resto, solo motti di spirito inoffensivi, semplici facezie. Predomina nella sua produzione lo spirito di pensiero, il piacere dell’allusione maliziosa, quel che Freud chiama spirito tendenzioso e aggressivo, scettico e smascheratore. E proprio il fatto che il Belli non si sia contentato di seguire la direzione più facile e l’applicazione più ‘spontanea delle sue qualità istintive, accresce merito alla insoddisfazione per simili, successi effimeri, e fa applaudire alla sua ricerca di risultati più alti e durevoli. Del resto anche certi sonetti che oggi non fanno più ridere, con tutto il loro « cumulo », finiscono per presentarci il Belli come uno dei tanti personaggi mediocri dei suoi versi, sorpreso anche lui nella sua piccola vanità, nell’« ora der cazzaccio ».

Devo dire che molti sonetti giocosi del Belli mi mettono malinconia non meno di certi suoi sonetti di superiore ambizione concettosa e meditativa, dove al soggettivismo dello scrittore il dialetto è appena un velo, non forma che esce dal profondo del contenuto. È un genere di composizione che presenta, nello stile grave, caratteristiche affini a quelle dello stile giocoso. Ammiriamo anche qui il « talento in ner ciarvello », ma ci manca quella trasfusione dei valori ideali nella capacità generativa, creatrice d'immagini e situazioni, che fa la grande poesia. E la poesia meditativa, solo quando è investita dal soffio di una autentica genialità, si leva a grandi altezze. Vedi Goethe, Leopardi, Baudelaire. Ma in un paese in cui aveva ancor corso e piena validità di poesia

la retorica del Morte che se’ tu mai? di Vincenzo Monti, erano possibili 52

tutti gli equivoci. Erano (e tanto più sono, in un clima decadente, che porta a una rivalutazione dell’oratoria barocca). I sonetti belliani sul tema della morte e dell’inferno cadono spesso nell’arguzia concettosa, e non sempre il burlesco, che talora smussa l’ingegnosità, li salva dal vieto e dal letterario. Ma con tutto il rispetto che c'impone la serietà dei motivi ispiratori, io non vedo perché a sonetti di questo tipo si debba riconoscere altro se non una maggiore o minore « bravura ». Dopo tanti scherzi sull’assurdo inferno dell’aldilà, che dovrebbe continuare eternamente l’inferno dell’aldiqua (« Viè la morte, e finisce co l’inferno ») Belli fu ripreso dagli antichi terrori. « La morte co la coda », cioè con il seguito, il dramma della vita che si prolunga in eterno: ecco quel che faceva orrore al suo instabile scetticismo. La morte co la coda (2136) è un sonetto grandioso, se noi lo leggiamo per quel che realmente fu, espressione di totale sgomento, come di chi si ravvolgeva nelle sue insuperate contraddizioni: il dramma che ancora una volta lo ravvicinava alla plebe, schiava dei suoi terrori. Quando

si crede a semestri quel che in definitiva conta è l’ultimo,

che fatalmente

satà come

il primo. Col vecchio guelfo Sacchetti, Belli

avrebbe potuto dire di sé: « Io non so cos’è fede cattolica, ma io mi credo esser cristiano battezzato » (nov. XI).

.

Dovera più « Peppe er tosto »? ; Il suo riso una volta così asciutto, aspro, infortito, era divenuto « gajarduccio, abboccato, tonnarello », per usare tre aggettivi adoperati (caso raro) di seguito, a proposito del vino in uno dei suoi ultimi sonetti (2186). Sono i versi scritti all'insegna del « Papa pacioccone ». Ci ritroviamo, come sempre nel Belli, in questo perenne dramma con la coda, che sembrava interminabile, i suoi temi predominanti, e le varietà di forme e di situazioni, e il giocoso e il comico, e il tragico e il satirico. Ma quella « mutazione di scena » che c’era stata nella sua vita dopo la morte della moglie, quel nuovo colpo della sfortuna che l’aveva riportato alla miseria della sua giovinezza, lo aveva a poco a poco piegato ad una rassegnazione profonda, che si rifletteva nell’intonazione della sua voce, nella pacatezza del suo stile, nella conscia moderazione di una improrogabile senilità. Non per nulla due immagini sono poeticamente assai significative di questa ultima stagione invernale del poeta. Quella vecchia che ha come il pudore dei suoi superstiti ritorni di energia (2190). E quel vecchio inebetito e trasognato, che ha avuto un urtone per via, e si prende per giunta gl’improperi, come se la colpa fosse stata sua (2201). Senza dubbio in taluno di questi suoi ultimi sonetti la mano trepida ci fa sentire l’abito dell’arte. Ma il grande Belli era ormai un’ombra. Ogni 53

tanto riecheggiava i suoni di versi lontani, lui che era stato inesauribile nell’inventiva. Come per una segreta ossessione gli ritornavano le stesse parole-rime: « peccato-cristiano battezzato » (2182), « figura-sepportura »

(2197). Sono rime che ritroviamo due anni dopo un lungo silenzio, nell’ultimo sonetto del 21 febbraio 1849. Altro che lo « scombussolo » delle riforme di Pio IX: era venuta la fine del mondo, o almeno del suo mondo, con Mazzini e con la Repubblica Romana. Era tempo di accomiatarsi, di scrivere l’ultimo sonetto. È difficile dire se proprio intenzionalmente, ma questa specie di lettera alla futura sposa del figlio Ciro, Cristina Ferretti, ricorda lontanamente l’inizio dei suoi primi versi romaneschi, le ottave alla Caterina Biagioni scritte nel 1817 e anch’esse « pe un caso raro », essendo ammalato. Sono versi limpidissimi di modesto tono giocoso e familiare, scritti come sorridendo a quel volto di donna che avrebbe dovuto fare la felicità di suo figlio. Ciò s’intravvede non solo all’inizio ma alla fine, in quel sole futuro che il poeta augurava alla propria salute, e forse allusivamente anche alla sua città, che gli sembrava precipitata nel marasma. Intanto il poeta scherzava a « godersi » i suoi mali, dando la « cojonella » a questo suo corpo valetudinario. E quel ringraziamento a Dio, ultimo guizzo d’un intercalare così spesso ironico e ambiguo, ora dissimulava la ritrovata fede. L’ultimo « episodio » del suo dramma si chiudeva con il misero interno della sua casa, con una « fettina di Roma » e di se stesso:

« Ecchene

qua una fetta », « Io, pe nun pèrdeme »: « povero cristiano battezzato » fra i tanti, che con trepido orgoglio desiderava paragonarsi a un santo di canonizzazione popolare, il paziente protettore dei servi, l’inquieto poeta biblico, indagatore e dubitatore della bontà provvidenziale di Dio, al cospetto del mistero doloroso del mondo, Giobbe: Il mio spirito s’attenua, i miei giorni s’accorciano, e per me non resta che il sepolcro! Io non ho peccato; e pur nelle amarezze s’intrattiene l'occhio mio.

Ma i disperati accenti di fede del grande « giusto » della Bibbia non si ritrovano in questo tono sereno del Belli, forte di aver osato ficcare a fondo il suo occhio nel « monnezzaro » che lo circondava. Era « pieno di giorni », i giorni dei suoi sonetti, dove s’era « goduto » tutti i dolori della sua città, del suo tempo, della sua vita. 54

Nella più antica e più popolare delle nostre forme poetiche si compiva l’ultimo dramma figurale del nostro superstite Medio Evo, capovolte quelle decrepite basi ideologiche. Mai il corpo era stato così continuamente giustapposto all’anima, dando origine al motivo più profondo di questa « commedia ». Mai la materia si era così radicalmente beffata dello spirito, liquidando i miti della società cristiano-feudale. Che importa se il poeta, così obbiettivamente rivoluzionario, si spaventava poi alla nuova realtà che con Mazzini e Garibaldi era giunta nella sua Roma, e presto si sarebbe trascinata appresso quella di Manzoni e di Gioberti e di Cavour, da tutta l’Italia?

Tutt'altro che ignoto fuori d’Italia, in quell’arte e in quella letteratura eutopea che Mazzini auspicava, egli ormai si colloca accanto a quei poeti che alle « putredine » delle loro vecchie nazioni osarono esclamare

con l’intrepida passione di Giobbe: e la Sorella mia ».

« Tu sei il Padre mio e la Madre mia IV

La miseria improvvisa seguita alla morte della moglie (il patrimonio era tutto ipotecato da debiti) aveva ingenerato nel Belli un vero e proprio panico, perché la ritornante povertà sarebbe stata da dividere con il figlio per il quale aveva concepito ben altri sogni. A farlo ritornare all’Accademia Tiberina nel 1838, e suddito ossequiente e sollecitatore di Gregorio XVI nel 1840, fu la sua tenerissima, angosciata preoccupazione per l’avvenire di Ciro. Per lui dovette ritornare al lavoro burocratico, umiliandosi in un modestissimo e faticoso impiego che lo costringeva a dissimulare sempre di più la sua vita segreta, non più protetta dalla fittizia atmosfera signorile che la moglie era riuscita a creargli intorno. L’avvento di Pio IX offrì uno spiraglio di serenità non solo a tutta la vita politica ma alla stessa vita spirituale del poeta. Per il figlio, prima che per sé, il Belli formulava i voti più fervidi al nuovo pontefice, la cui solenne benedizione (come attesta il biografo Francesco Spada) apparve — a lui che « non fu mai l’uomo da dare nessun valore ad auguri, a presagi, a presentimenti » — un segno benevolo della Provvidenza. Il suo Ciro era afflitto da « lunga e dolorosa malattia »: ma da quel momento « ebbe fede che il figlio dovesse uscir salvo dal suo malore come difatti ne uscì ». Si comprende, d’altra parte, perché l’assassinio di Pellegrino Rossi lo gettasse in una profonda costernazione, « fino a piangerne (...) quantunque nol conoscesse più di veduta che di fama ». Si comprendono, dopo la rinascita di tanta fiducia e di tante speranze, i nuovi terrori provocati dalla seconda Repubblica romana, che tra l’altro aveva snidato il poeta

DA

dalla clandestinità. La voce dei più celebri versi aveva fatto il giro degli ambienti liberali e democratici, fino a Londra. Giuseppe Mazzini aveva conosciuto, prima del ’48, e copiato di suo pugno il celebre sonetto contro Papa Gregorio (2087), italianizzandone un po’ la grafia. Belli dovette avere il terrore di essere in qualche modo coinvolto nelle responsabilità del nuovo e malfermo regime. Ripristinate le leggi napoleoniche della coscrizione obbligatoria, che toglieva i figli alle braccia dei padri (« che saria mejo de strappaje er core »: 1160), a stento era riuscito a sottrarre Ciro a quell’inopinato pericolo, facendolo sposare precipitosamente con la sua promessa Cristina, la figlia dell'amico Ferretti, che purtroppo si sarebbe spenta di tubercolosi qualche anno dopo, nel ’54. Ma a parte tutti questi privati motivi non dovrebbe meravigliare l’involuzione del povero Belli, se pensiamo alle parabole affini e parallele che percorsero tanti valentuomini in Italia e in Europa, dopo il .’48: se pensiamo ai tanti democratici che divennero conservatori, ai tanti saintsimoniani che divenneo fautori del 18 brumaio di Luigi Bonaparte e cortigiani del secondo Impero. Il poeta (narra con soddisfazione lo Spada) « vivo e più vivo che non fosse mai stato ritornò ad essere nella repubblica delle lettere, cessata quelle delle armi, anzi degli assassini d’Italia come l’aveva chiamata ‘un suo vecchio amico, invitandolo a riprendere in mano la penna e vendicar Roma e il Pontificato romano ». Illusoria vitalità quella che gli amici attribuivano allo scrittore in lingua. Non

tanto

le prose

di collaborazione

alle riviste romane

(è da

ricordare La vita di Polifemo, 1836, ideata secondo un genere di umorismo pedantesco, i cui limiti erano nella meschinità stessa della cultura di cui si voleva burlare), quanto le raccolte di versi italiani (Roma, 1839; Lucca, 1843) avevano dato al Belli una certa notorietà fuori del suo ambiente. E più tardi un solenne riconoscimento ufficiale si sarebbe meritata la coscienziosa, ma esanime versione degli Inni ecclesiastici (Roma, 1854). Illusoria vitalità, questa, che il Belli credeva di ritrovare nell’accani-

mento della sua passione reazionaria, che ormai avrebbe sortito solo effetti d’involontaria comicità. Molti dei versi italiani che scrisse tra il ’50 e il °60 non furono pubblicati. La censura giudicava imprudente questo estremismo forcaiolo, così ingenuo e scoperto.

Eppure, chi lo crederebbe? Passato dalla « Revue Encyclopédique » a leggere la « Civiltà cattolica », ridotto ad annotare i suoi crescenti consensi non solo alle impareggiabili eleganze che vi sfoggiavano padre Bresciani e i suoi compagni vocabolieri ma alle loro idee, alla loro polemica contro il nemico

numero

uno, più nemico

del liberalismo

Belli non riusciva a dimenticare completamente 56

e della democrazia,

se stesso.

In un oscuro

alterco col grande « spettro » che si aggirava per l’Europa, scrisse dei versi alquanto sconnessi, intitolandoli appunto I/ comunismo. Se qualcosa si riesce a capire è che di quello spettro le ragioni ancora lo tenevano sospeso: Il fatto è insomma che, alfin, dal midollo del bel Contratto di messer Gianiàco scolò un unguento da fiaccarne il collo a quel vecchio sistema del briaco che volea chi digiuno e chi satollo. Il mondo oggi, o signori, ha il ticchio o il baco che gli uomini, del ciel sotto il gran tetto luogo abbian tutti al social banchetto. Che fa il provvido padre di famiglia de’ figli in mezzo al numeroso stuolo? Sul numero dei suoi pria si consiglia, e poi dato di mano al ramaiuolo nel pentolaccio la minestra piglia; e la scodella di ciascun figliuolo, cominciando da manca opppur da destra, stende il braccio e la colma di minestra. Qui forse per rabbiuzza di cavilli si leveran fra voi di tali e tali a obbiettar che fra i grandi e fra i pusilli quelle prebende non saranno eguali. Ma per ciò appunto nasceran gli strilli, le spallucce e i cipigli fraternali: laonde non mi par da ingegno mastro quel far sempre a chi figlio e chi figliastro.

Vecchio, si sarebbe aggirato per le strade più povere di quella Roma che solo poteva amare e nella quale sopravvivevano le immagini care alla debole, ma fedele memoria del suo mondo poetico, le sole rimaste intatte da quella iraconda cecità senile. E queste immagini la sua pagina recava impresse con un segno netto, incommosso, dove a poco a poco l’amorevole attenzione finiva per raggelarsi in una forma sclerotizzata, in un linguaggio di idillio stento, vizzo e meticoloso: Per

quegli

umidi

e sozzi

tramitelli,

ciascun de’ quali in più schifo imbocca, stan donne ravviandosi i capelli fra trecciere e crinali a ciocca a ciocca, o, frottole cantando e ritornelli,

appennecchiano il lino in sulla rocca, o de’ lor filatoî per simil uso volgon la ruota e fan girare il fuso.

| Certo anche fra questi ultimi versi non mancano quelli che al poeta in lingua possono dare un posto di rilievo, nella « scuola romana » fiorita durante l’ultimo ventennio dello Stato Pontificio. Ma la pagina più bella resta la già ricordata lettera al principe Gabrielli. Una lettera meritamente celebre, e che è stata male adoperata a retrogrado canone interpretativo dei sonetti. Il vecchio era con un piede nella fossa (morì di lì a poco il 21 dicembre 1863). Di fronte alla proposta di tradurre in romanesco il Vangelo di Matteo, benché preso da un sincero scrupolo religioso, non per questo abiurò alla sua fede di poeta, non per questo accettò di scrivere quella che sarebbe stata la sua palinodia nel linguaggio che aveva prescelto per esprimere la « verità sfacciata » della romana commedia. La Verità poetica che l’aveva fatto libero, e più che romano e più che cristiano, moderno

e universale.

1965

58

L’ARTEFICE

NICCOLO

TOMMASEO

« Artista » è meno ambizioso e più sereno vocabolo, meno tormentato e meno « fondo », meno compiaciuto e più distaccato e disinteressato. Artefice è un vocabolo che, come c’insegna il Dizionario della lingua, ha più traslati e può applicarsi all’orefice e a Dio, perché congegna, compone, otdina, abbellisce, inventa, crea e (possiamo aggiungere) disfa. Artefice fu in Tommaseo il vir malus dicendi peritus, il quale pur confessando che « il più maldicente è il più debole » sapeva che « ha la maldicenza anch’essa i suoi voli lirici: va rapidissima di pensiero in pensiero: e in un discorso soave sparge il livido suo veleno; in mezzo a discorso tranquillo e innocente, vi porta, quasi con certo stile appuntato, ferita di morte » (Pensieri morali, XXI, 1, 10). Meschino fino alla bassezza quando rivolse epigrammi sui grandi contemporanei (vulgatissimi, proprio perché volgari), Tommaseo riuscì molto più felice quando cangiò in colori i suoi veleni dipingendo i suoi migliori amici. (Basti l’epigramma sul Capponi: « Dotto, uggito, accademico, cortese / e soprannaturalmente marchese »). O mordendo se stesso, quando si diede dello « scrivitore » e coniò su « friggitore » un vocabolo più che mai adatto a quel tipo di pubblicista mal riuscito, solenne troppo e sdottorante e pedante, che era stato il poligrafo in tante pagine. Ma c’era in lui un grande, infaticabile, mirabile artefice, quello che correggeva sino « a scorticare » i suoi parti, lisciandoli per cccesso di amore, quello che lavorava alla prosa e al verso con un’eguale tensione mistica verso la perfezione e il « numero », quello che scriveva « per la gente difficile » cioè sibi et suis, ma sempre con la mente rivolta a Dio, nell’atto stesso che aspirava alla popolarità dei risultati e al successo della *su2 edificazione, inseguendo le contraddizioni di una difficoltosa facilità e, insieme, la coerenza manieristica di facili difficoltà: l’artefice che ambì al racconto e alla prosa d’arte, alla traduzione e alla lirica, 59

fermamente sicuro dell’impossibilità di distinguere l’artificio che egli stesso poneva a fondamento dei vari procedimenti stilistici. Quando volle contrapporre i suoi racconti storici ai romanzi trionfanti (capolavori o imitazioni che fossero) scelse una via indicata nelle Memorie come « dipintura poetica sciolta di metro » (M. 264). Dal Sacco di Lucca all’Assedio di Tortona al Duca d’Atene volle condensare in una fitta sequenza di scene la vibrata rievocazione di episodi dell’antica vita comunale e repubblicana. Non era il romanzo, ma l’antiromanzo storico: concezione tacitiana e alfieriana raggelata in uno stile arcaizzante. Era il « visibile parlare» del Purgatorio dantesco che si pretendeva « novello », perché presentava ingegnosamente il colorito coevo e il segno del tempo: sotto il segno di uno pseudo-verismo linguistico, era purismo altamente raffinato, sino al pastiche del falso antico. Procedimenti analoghi si avvertono nelle due novelle storiche in verso, Una serva e La contessa Matilde. Nella prima, purtroppo, la serrata serzzocinatio dantesca trasportata. dalla terzina nell’ottava produce disarmonie gratuite, e tanto più disturbanti, perché aggravate per l’alternarsi delle forme desuete alle franchezze del parlato, che irrompe nel contesto, e rende più acre la singolare eroticità della situazione (il vescovo Zanobi innamorato della serva che si confessa a lui). Migliore senza dubbio è Lg contessa Matilde, la cui materia sembra suggerita dal Pecorore, donde il Tommaseo trasse anche uno spunto per la Saturnina di un’abortita commedia (La donna dotta). Ma ser Giovanni

aveva ritagliato dalla Cronaca di Giovanni Villani una maliziosa novella. Nel Tommaseo invece il non consumato matrimonio della contessa toscana

si svolge sotto forma di confessione al Papa e acquista un carattere arden-

temente drammatico, conforme al tema dell’impuissance divenuto di moda con Sénancour, Sand, Stendhal. Dopo gli spunti di lussuria ossidionale e macabra che Guerrazzi gli aveva suggeriti negli altri racconti storici, Tommaseo ritornava dunque all’intimismo psicologico già accarezzato nel suo tentativo fiorentino Due baci (1831), che come

in Fede e Bellezza e poi

nell’altro racconto Ur medico, pubblicato postumo dal Ciampini, presentano la materia narrativa autobiografica in una situazione di solennità spirituale che troviamo indirettamente ma perfettamente chiarita da uno dei Pensieri morali (VI, II 14): | Gl’Illirici dicono povjedati il narrare, pripovjedati, il predicare, perché il migliore de’ sermoni è la semplice narrazione de’ fatti; ispovjedati il confessare, perché chi tutto non dice, o chi mescola con la narrazione le scuse del fallo, colui, a dir proprio, non confessa. Similmente ai Greci modetni òuoXoy® è il raccontare, tEopoXoy® il confessare.

60

1.1 Queste

prove

di « racconto

interiore » del Tommaseo

non

s’inten-

dono senza ricondurle alla particolare forma di confessione in cui si propongono al lettore, perché è molto simile a un genere narrativo comunissimo inaugurato da Rousseau, ma al tempo stesso diverso. Esse infatti sono concepite e scritte come atti di fede e d’arte, fortemente solennizzati

dal procedimento stilistico. Non c’è nulla nelle pagine del Tommaseo di quell’abbandono effusivo che conttassegna tanto autobiografismo romantico. Nel suo, per così dire, letterario sacramento, il Tommaseo si vale a preferenza della narrazione tutt’altro che semplice, riccamente figurata (figure di parole e di pensiero) in funzione della « confessio nihil nocitura » di cui parla Quintiliano (IX, 2, 51): al reo deve fruttare l’assoluzione, dopo che egli è approdato alla duplice satisfactio operis del cristiano e dell’artefice. Il racconto comprende in sé come ogni valida confessio oris e contritio cordis l’espiazione, anzi assume il significato che aveva la confessione sacramentale e pubblica, che si faceva nei primi tempi, ma che proprio per la sua forma desueta acquista un carattere eccezionale nei tempi moderni (vedi la prefazione di Sainte-Beuve a Volupté). Ciò non solo è in perfetta coerenza col misticismo erotico del Tommaseo, ma anche con i suoi principî altrettanto mistici di glottologia che rafforzavano le convinzioni del suo ministero di scrittore più volte manifestate in verso e in prosa. Per esempio nell’iskrica illirica (« Vidio sam zviz... Ho veduto una stella... ») consacrata alla memoria della madre e poi da lui stesso così tradotta (una delle sue più belle prose d’arte): Quand’eri ancor viva, più volte ti vidi in sogno, o morta, o muta e pallida e corrucciata meco; e dicevo: m'è morta la madre mia. Dappoiché t'ho perduta, nelle visioni notturne m'’apparisti ringiovanita e più bella, e pietosa a me, con quegli occhi di bontà e d’intelletto e d’umiltà. Perch’umile eri tu, dilettissima, e a’ maggiori e agli uguali, e a me immeritevole figliuol tuo. Rammento ogni giorno i giorni della mia adolescenza, come tu m'’allevasti nell'amore di Dio, nell’amor de’ fratelli, nella pietà verso i miseri: rammento i mattutini nostri passeggi a primavera; rammento le lagrime che tante

volte

versasti

quand’ivo

a

cercare

lontano

da

te

l’amore,

l'amicizia

e la gioia. Una voce possente sempre mi parlava nell'anima, e mi sospingeva fuor della casa del padre mio, e mi comandava ire a ricevere e a recare i nuovo vero,

ad

annunziare

la

vetta

bellezza. Ritorno dopo molt’anni trovo che due pietre fredde né le lagrime mie.

fraternità,

l'amor

della

pura

ed

immortale

sotto al tetto della casa paterna mia: e non che non possono né sentire né vedere le voci

61

Ma tu, madre mia

contrita:

tu mi

eletta,

senti

conduci

e vedi

per mano

quant’io nel lungo

dico nel fondo mio

e duro

mi parli sommessa parole di senno non umano e d’infaticata conosci; ora perdoni i miei falli. Sii meco sempre, amatissima: dammi sofferenza e carità: purifichi, e levi ad alto sempre più i miei pensieri.

dell'anima

cammino;

tu

pietà. Or mi ini che il dolore

In Fede e Bellezza (dedicato non a caso alla madre) il protagonista Giovanni che s’incontra con l’« unanime » sua Maria nella reciproca confessione di affetti ed errori, con finale ravvedimento, è insieme l’eccezionale apostolo e Crisostomo degli anni ’30 che, peccatore non meno di questa Maddalena, si salva seco lei, obbedendo al provvido melius nubere quam uri. La trama esilissima è nota: entrambi i protagonisti sono stati educati dalla sventura e da molti amori, entrambi sono italiani di nazione (e di nazionalismo esasperato per il soggiorno nella straniera terra di Francia). Nei colloqui e nello scambio di lettere e diari intimi si conoscono, s'intendono, si comprendono, si perdonano, e scampano da nuove tempeste e naufragi nella pace del matrimonio. Ma appena sposati (altri episodi e personaggi sono affatto accessori) un duello che Giovanni sostiene con un francese per difendere l’onore della sua patria provoca una fatale emozione alla fragile Maria ch’è minata dal mal sottile. Dopo un ardente corfiteor al Cristo consolatore della sua infanzia (« v’amo, v’amo più delle più care cose ch'io lascio. Voi me le donaste, voi me le renderete. Datemi una scintilla dell'amore che v’arse, morendo, immenso. O amico mio e degli amati miei, perdono a me, pietà d’essi. Entrate nell'anima mia e nella loro ») Maria riceve il viatico dal sacerdote. E poi durante la prolungata agonia, rinnova al marito una suprema confessione, alternando Je povere volontà del suo testamento alle preghiere sue e di Giovanni, col quale scambia « memorie dei Salmi e del Vangelo »: « Apritemi

le porte della luce perpetua.

a faccia il tuo liberatore;

Spera,

sorella,

vedere

a faccia

veder manifesta con gli occhi beati la verità ».

« Scrivete ad Aiaccio l’ultimo mio saluto ai parenti di mia zia: se passate da Pisa, dite a mio cugino che son morta consolata, e, spero, in grazia di Dio. Avrei voluto che la mia sepoltura fosse in Italia, e lì potere scontare con buoni esempi le colpe mie ». Tacquero un poco. « Non morrò ma vivrò, per narrare le maraviglie del Signore. Interceda per me la madre di Lui che nella notte di domani nacque povero di povera;, interceda Giovanni al qual furono rivelati i secreti del cielo. Levati gli occhi, disse: “ Padre mio, è ‘giunta l’ora ” ». « La mia sepoltura porti il mio nome, e che fui moglie vostra: non più.

Gesù mio, raccogliete a voi i miei pensieri ».

62

i

Giovanni, « Questo

con

gli occhi in alto e con

è il dì che Dio

fece:

viso di chi si sente venir meno:

rallegriamoci

in esso.

Per

la morte,

Gesù,

e

per il nascere vostro, pietà. Il suo sudore come goccie di sangue grondante in terra. Lode a Dio, perché buono! Gesù, che l’anima di questa donna amaste d'eterna carità, congiungetela a voi con amore indivisibile ». « La

pace

eterna »:

diss’ella,

e mosse

le labbra

a baciare

il crocifisso

offertole da Giovanni; e nel bacio dell’Amico suo immortale spirò. L’infelice marito non osava levare il pianto per non affrettare le lagrime alla povera donna dormente accanto. Accese una candela allato al cadavere, e aprì pian piano le imposte. Sorgeva torbido il dì: nevicava. Egli, seduto tra il letto e la finestra, guardava ora al cielo biancheggiante, ora alla sua moglie morta; e pregava Dio senza piangere !.

La raffinata umiltà di questa pagina rispetto ai luoghi comuni che essa ricalca dal finale di tanti romanzi, ha un tessuto stilistico perfetto, di rara, preziosa struttura. Ma così isolata potrebbe trarre in inganno chi non avesse letto per intero Fede e Bellezza, su cui tutti i lettori, proprio giungendo a questa pagina suggestiva, hanno rimpianto il capolavoro mancato. È mancato perché il cumulo delle intenzioni, delle reminiscenze, delle emulazioni si manifesta sia nella struttura linguistica che in quella compositiva. Fede e Bellezza voleva essere l’anti-Werzber e l’anti-Orzis, l’anti-Obermann e l’anti-Adolphe, senza rifiutarne le suggestioni e sottoponendole al reagente della narrativa confessionale vicina al credo letterario e ideologico del Tommaseo (da Atala a Volupté a Lélia). E non è vero che egli abbia rifiutato le suggestioni romanzesche, quando si pensi all’episodio del duello collegato con la morte della protagonista, come in Manon Lescaut: non ricordata dagli studiosi, ma ben presente fra le letture del Tommaseo, quando scriveva il suo racconto. Naturalmente, di questo melodramma avventuroso

che ha una catastrofe purificatrice d’intenzioni giansenistiche e raciniane, Tommaseo rifiuta tutto l’intrigo e i colpi di scena, ma accoglie certe caratteristiche dei protagonisti (entrambi peccatori). Prende alfierianamente « i fatti per la coda » (come aveva sostenuto nei suoi scritti di poetica narrativa), semplificando l’impianto e facendo invece ricorso (per varietà di effetto) al racconto nel racconto e al f/ash-back rapido e balenante. Ma la drammaticità verbale dei suoi scorci non nasce da un conflitto, non è giustificata da una destinazione teatrale. E invano cerca formalistici compensi in varietà studiate ad effetto, in quel passare dallo scolpito discorso tacitiano (il Tacito del suo Bernardo Davanzati) alla studiata vivacità idio-

matica del parlato. Ai fini di un riuscito organismo poetico è sterilizzante 1 In Opere, a cura di M. Puppo, 1, Firenze 1968, p. 649.

63

quell’ondeggiare con diversa ricercatezza « tra il boiardo e il piazzino » (come dice Maria di un suo amante, senza dimenticare di dar lezioni di

lingua a Giovanni e al lettore). Questi salti acrobatici dal triviale all’aristocratico e viceversa ora c’innalzano al sublime otra cadono in ridicolo: e il primo a notarlo fu il Cattaneo nella memorabile liquidazione critica di questo racconto del Tommaseo, il quale rimase poi lungamente indeciso tra la boriosa vanteria di avere scritto la miglior prosa del secolo, e il dubbio di aver fallato come scrittore, se non errato ancora una volta come cristiano educatore del popolo. La verità è che in quel fallimento c’erano splendidi pezzi di bravura, soprattutto quelli concepiti secondo l’ideale di prosa poetica inaugurato dal taglio poematico dei racconti di Chateaubriand (onde le divisioni in libri, e certi inizi e movimenti virgiliani). Tali sono i giustamente celebrati paesaggi e ritratti, che non sono da frainten-

dere in chiave naturalistica (come si fece dall’Albertazzi a Croce) bensì da ricondurre al gusto di una stilizzazione (come bene avvertì il Contini) che procede per schemi e movimenti calcolatissimi. Vi è evidente l’influenza non solo dei primi retori della Restaurazione, ma anche dei più giovani, dei più fertili e dotati, come ad esempio Hugo: e val la pena di notare un riscontro con i Fantézzes delle Orientales (lirica particolarmente echeggiata anche nei versi, come vedremo): Une,

pàle, égarée, en proie au noir délire,

Disait tout bas Une s’évanouit,

un nom dont nul ne se souvient; comme un chant sur la lyre;

Une autre en expirant avait le doux sourire D'un jeune ange qui s’en revient. [...] Une surtout. — Un ange, une jeune espagnole! Blanches mains, sein gonflé de soupirs innocents, Un

ceil noir, où luisaient

des regards

de créole,

Et ce charme inconnu, cette fraîche aurégole Qui couronne un front de quinze ans!

Vivaio foltissimo di maniere e di prove svariate, solo nella sua materiale apparenza Fede e Bellezza si presenta come « l’opera letteraria più completa » del Tommaseo (così la giudicò il giovane Pirandello nella sua fase cattolicizzante). Non dobbiamo leggerla come romanzo bensì come autoritratto ideale, come sublimazione dello scrittore, che vuole presentarsi come penitente e intellettuale d’eccezione per la varietà dei suoi peccati e dei suoi studi, e nel contrasto eccitante della sublizzitas-bumilitas di una nuova passio: martire della corruttela parigina, da cui si salva salvando la donna « conglutinata con l’anima sua », attraverso un rapporto di cono64.

scenza totale della carne e dello spirito che va dall'amore per la natura a quello delle sottigliezze linguistiche e alle analisi morali. Anime gemelle e così fraternamente simili che sembrano consanguinee, e finiscono per differenziarsi solo nella scena culminante della loro condizione ambigua (« sensualmente s’amavano ed erano pii ») che giunge alla morbosità del sadismo, quando l’autore ritrae « l’impeto del dolore innamorato » e assapora l’amplesso particolarmente eccitante di questa donna fragile e patita, giunto dopo una convivenza che ha sapore di spirituale incesto da « figliuol deliro » con la sua materna Beatrice. Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere [prima di finire il lavoro]. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per

baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritiwva in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando glie la prende, la trova intrisa di sangue e mette un grido. « Non è nulla ». « Da quando »? « Dall'altr'ieri. Oh per carità non vi spaventate ». Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre a figliuol pericolante. Solevano (tal fin dal primo era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco

rispetto,

conducevole

insieme

a

virtù

e

a

libertà,

a

sanità

e

a

pulizia, credevano giovarsi l’amore. Ma quella sera ell’era sì ghiaccia, ed egli sì intimorito, e sì diffidente del silenzio di lei, che pregò di posarlesi accanto. E nell’impeto del dolore [innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda riprovarono nuove le gioie note: ed] egli le disse parole d’amore quali ella non aveva sentite, misera, mai; ed ella gli disse parole d’amore quali egli non aveva sentite, misero, mai. Un’imagine or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terribile, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per trattenere l’angelo suo fuggente. [Ma dell’affannarla col tremito dell’amore sentiva rimorso, e ristava a un tratto]: ed essa con dolce voce lo chiamava confortando, e parlava degli anni avvenire. Così passarono tutta la notte: e mentr’ella s'addormentava, semi aperte le labbra rosseggianti, e con sul pallido viso la pace di persona consolata; Giovanni pensava: « Dio buono! difficil cosa anco i puri affetti esercitare con animo puro. [Quante memorie vietate, fin ne’ concessi abbracciamenti!] Perdono, o terribile Iddio dell'amore severo! [Non mi punite: non togliete a me questa ch'è ormai conglutinata con l’anima mia! »] ?.

Ho indicato tra parentesi i tagli intervenuti dopo la prima edizione 2 In Opere, ed. cit., 1, p. 618.

65

assai significativi per indicare come le correzioni a Fede e Bellezza (pur attenuando in gran parte le disuguaglianze e i compiacimenti censurati dal Cattaneo) confermano quel processo formale di « decomposizione » del romanticismo che il De Sanctis riuscì a cogliere, pur occupandosi volutamente di sfuggita del Tommaseo scrittore: quella sua « concisione che non è condensamento » perché le forme « non gli si presentano corpulente e piene di buon sangue, ma come stecchite, assottigliate ». Se da Fede e Bellezza passiamo a leggere Un medico vediamo come il moralismo retrogrado e mortificante del Tommaseo (incoraggiato dalla scarsa spregiudicatezza dei suoi critici italiani) finisse per indurlo a ritentare quella difficile prova narrativa, accentuando i difetti che il De Sanctis aveva sottolineati nel commento ad un brano campione del Duca d’Atene. Infatti in Un medico panegirizza ancora di più sul suo protagonista che è un personaggio esemplare per la sua capacità di esercitare un « ministero » e non «un mestiere »: un supermedico che crede più in Dio che nella scienza e trova modo di sfoggiare la sua versatilità di umanista quando sogna versi e scrive preghiere come questo in un « giorno di piaceri e di dolori me-morandi »: « Non son degno, o Signor mio, di partecipare all’opera della Redenzione, di farmi mediatore tra voi e l’umanità a voi diletta; ma nella grazia vostra soprabondante confido » ?. In questo racconto (dove la narrazione si esaurisce prima che il lavoro sia compiuto), il Tommaseo, particolarmente sensibile alle ironie di Cattaneo sulle sue contraddizioni di scrittore educativo e popolare, castiga il contenuto di Fede e Bellezza e sovraccarica di moralismo il nuovo esperimento, idealizzando il suo amico Antonio Robecchi. E mentre assolve a un debito di gratitudine per colui che lo aveva così amorosamente assistito nei suoi mali venerei, coglie l’occasione per emendare lo sfrenato misogallismo del racconto patigino in apologia francofila e davvero applica il cilicio per castigare il manierismo stilistico e linguistico di cui tanto aveva abusato in Fede e Bellezza. Ma è da dire che in questa giusta direzione di vigile sobrietà d’espressione, il suo capolavoro narrativo Tommaseo seppe raggiungerlo in verso (com’era da aspettarsi in chi sostanzialmente aveva già dato una eccellente prova, imitando in ottave l’episodio biblico di Ruth). E meriterebbe, se qui fosse possibile, un’attenta analisi il racconto in endecasillabi sciolti Le due vedove (1844) mal trascurato dagli studiosi della sua poesia, perché dimostra una sicura coerenza di struttura, e la ritrovata capacità di delineare una vicenda, di profilare il disegno dei caratteri, pur nel vecchio artificio della confessione. Qui c'è una moralità calata neil’azione e temperata in un linguaggio spoglio di quelle vanità così care in altre SR IVINp87074

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prove, che denunciavano l’egotismo dell’artefice e del supercristiano: è un racconto che non solo sta molto più su di tutta la narrativa in versi della scuola manzoniana, ma che certo non sfigurerebbe (in una prospettiva storiografica europea) accanto a opere più celebri come il Jocelyn di Lamar: tine, e ‘a scritti di personalità tanto più famose come quella di Wordsworth. L’arco delle prove narrative del Tommaseo fu teso da molte frecce. Ma colsero il bersaglio quelle scoccate allorché la sua mano aveva un appoggio sicuro. E riuscì perfettamente quando s’impegnò nella traduzione di un testo narrativo, che lo costringesse per più motivi a una più sobria e attenta oggettivazione formale. Innanzi tutto lo impegnava nell’esercizio in cui si era con più pazienza temprato, non solo scrivendo ma anche parlando: la traduzione. Tradurre per lui era l'opposto di quello che sempre si era inteso e praticato in Italia fino al traduttor dei traduttori Vincenzo Monti. Epperò non maraviglia che in prosa siano stati riconosciuti come interamente positivi gli Esempi di generosità, i bellissimi racconti che il Tommaseo tradusse dalla vulgata biblica del suo grande conterraneo Girolamo. Come nelle mirabili traduzioni dei canti popolari greci e illirici, anche qui egli raggiunse i suoi momenti poetici più alti. E poco importa che si possa dire un’arte di secondo grado, mediata da un procedimento di conquista della parola propria, della parola certa che dica il vero (come diceva l’Ecclesiaste XIX, 23). Era la parola che faceva tutt’uno ‘con la Verità, infusa (secondo i suoi convincimenti) direttamente da Dio nei testi sacri o nei testi del popolo, che (come la donna) è tanto più vicino a Dio, quanto più conserva le sue tradizioni e credenze religiose. La meta più ardua per un traduttore, quella della bellezza fedele, lo impegnò in queste traduzioni che erano certamente di nuovo tipo e di cui ebbe intera, moderna consapevolezza: « Fedeli in modo che rendano insieme con lo spirito anche il valore della parola e lascino al possibile le parole nella medesima struttura o lo congegnino in somigliante armonia », rispettando « lo scompartimento del costrutto nei versi » con la traduzione in prosa ricca di numero, « per trapiantare nella italiana quei modi d’altre lingue che all’indole di lei si confanno ». Naturalmente il ricorso ai « vocaboli ch’abbiano nello spirito o nella radice il medesimo o simil valore » comportava una conoscenza comparata di lingue che il Tommaseo non si stancò di approfondire. E non maraviglia che i risultati più cospicui il traduttore li abbia raggiunti meno se partiva dalla lingua latina o vi ritornava. « Quant’ha l’italiano di bello tutto quasi lo si ha dalla madre... » (scriveva da giovane). E aggiungeva un singolare, sintomatico teorizzamento,

sulla base di una

esperienza che rimase mito mentale condizionante per il suo umanesimo: « se il parlare è una specie di versione de’ proprii pensieri; se lo scrivere è 67

come una seconda versione... ». Da vecchio questo atletismo santificante lo suggellò traducendo un salmo di Savonarola, con una maestria riscontrabile solo nella traduzione del Dies Ir4e e solo quando compose in esametri (1870) il non dimenticabile carme latino Della sempre crescente armonia delle cose (tradotto da lui stesso in prosa italiana): De rerum concordia at incrementis, dove nell’idioma della sua adolescenza patavina, consegnò il suo messaggio supremo, non senza significativi riecheggiamenti dall’Alastor di Shelley (a lui noto attraverso la versione del Baldacchini).

Ma questo carme, se era una rapsodia dei suoi motivi umanisticamente più validi, non poteva tuttavia condensare una decennale esperienza che era stata la sua più segreta e tenace ambizione. Il Tommaseo dopo aver riluttato a pubblicare le Poesie durante il corso della sua vita, si decise ad arricchire le precedenti raccolte e riordinarle, si può dire în articulo mortis, nel 1872, dopo le molte esortazioni del Capponi che con Alessandro Poerio era stato il suo lettore più attento, ed era divenuto, con gli anni sempre più entusiasta e lusinghevole, anche per le troppe « cosucce » parrocchiali, da lui giudicate « bellissime ». L'ordinamento in cinque parti (ma con raggruppamenti interni) segue

una cronologia complessiva, ma non rigorosa, come avvertono le date e una nota, che dà « la ragione e la scusa » dei tempi, senza tuttavia spiegare lP« ordine delle idee », in base a cui sono ridistribuiti i vari componimenti. Solo 37 dei 216 furono composti dopo il 1860. Di quattro prose, la prima è una preghiera, inclusa fra i testi come a far da pendant alla poesia inclusa in Fede e Bellezza. Le altre sono brevi « illustrazioni » non tanto delle poesie cui si riferiscono quanto di alcuni punti essenziali del credo politico e morale dell’autore. Infatti con le parole premesse alla lirica Dolore che libera (21 febbraio 1848) si suggella l’esperienza politica ond’è ispirata una parte della prima raccolta più importante di versi (le Corfessioni parigine del ’36, ristampate a Venezia nel ’38). E con le altre due note si danno importanti chiarimenti ai motivi ispiratori dei due opuscoli senza titolo dedicati a Giulio Gentile Farinola (Firenze 1851) e a Paolo Gentile Farinola (Firenze 1857): due raccolte di ispirazione e stile più omogeneo che confluirono nella quinta parte di questa edizione definitiva, Seguire l'architettura dell’opera è altrettanto necessario che individuare l’ « ordine dei tempi » e accennare alle significative correzioni apposte a talune liriche più importanti, a volta mutilate o addirittura riscritte in nuovo metro. « E nel verso e nella prosa troppo parlai di me stesso, e n’ho vergogna » (scrisse il Tommaseo nel Testamento letterario). L'ordix 3 Citeremo, salvo altra indicazione, dall'edizione originale (Firenze, Le Monnier 1872). |

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hamento teca infatti visibile questo disegno di presentare in forma di « poema intero »' lo sviluppo della sua’ ‘esperienza poetica: dall’autobiografia' lirica che predomina nelle prime tre parti (e specialmente nella seconda) ad una poesia che, nei temi e nelle forme, tende ad oggettivarsi in componimenti narrativi, diammatici o di eventi storici, fino ad elevarsi nella quarta e nella quinta parte (che sono le più omogenee) dove l’esortazione a uscire di sé cede all’ispirazione culturale e cosmica di temi sacri. La parte quarta si apre infatti con la lirica Cristo e le cose ed è strettamente connessa con l’ultima, dove il Tommaseo « celebra la vita dell’universo come riflesso e simbolo dello spirito, come armonica manifestazione della potenza creatrice e dell'amore redimente d’Iddio » (com'è stato ben detto, senza tuttavia le necessarie determinazioni genetiche e storiche di tale simbolismo). I primi notissimi versi che fanno da prologo generale (« Non la raggiante immagine, / non la riposta idea, / non l’armonia de’ numeri, / non è l’amor che crea. / Idea, concento, immagine, / aura d’amor 100001 / formansi in uno, e n’escono / il verso, il fiore, il mondo ») sarebbero ben poca cosa, se davvero contenessero la « poetica » del Tommaseo: essa in verità non si esaurisce in questo enunciato fortemente retorico, ma debole

e povero, e interessante solo per la pretesa di contrapporre a tutti gli altri scrittori l’ideale di una poesia intera, il cui processo creativo è analogo a quello divino. Dove invece troviamo l’impronta del poeta è nella lirica seguente, Vocazione (scritta a Firenze nel luglio del 1833 e definita dall’autore « testamento in ottonari »). La compose, infatti, riecheggiando il metro della Resurrezione manzoniana, non senza subire le suggestioni dell’ode ‘a due voci con cui Victor Hugo aprì le sue Odes er ballades, per presentare la figura del poeta come martire delle rivoluzioni contemporanee. Ma il Tommaseo, che con spirito ben diverso si accingeva a recarsi in Francia, non poteva atteggiarsi « prophète è son jour mortuaire », non aspirava ad essere 1’« aiglon » della Resurrezione. Numerosi ricordi dai Salmi riecheggiano nella certezza della sua missione di scrittore. Ed egli la rappresenta nella drammatica alternanza di voci che risuonano nella sua coscienza: (1) Una

voce

e mi Del

in cuor mi suona,

dice: Signor,

« Tu

morrai.

che non

(2) Una

voce

in cuor mi suona,

e mi dice: « Tu

perdona

Desir’

vasti

vivrai.

il ciel ti dona,

a’ superbi, il dì vedrai. L’alma tua, che uscì peggiore

vasto campo a ignoti guai. Lungo corso è a te prescritto;

dai lavacri del dolore, tremerà: nel sole eterno,

e, in correndo, un fier conflitto durerai con l'ira immite

d’esser

nuda

arrossirà.

[...]

e de’ popoli e de’ re.

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Variando lo schema metrico del Manzoni, Tommaseo evita la rima baciata prima del verso tronco finale, e anche con questo artificio riesce a costruire una strofa, dove l’ottonario è irriconoscibile e non cantabile: (3) Sovra un pelago profondo di tenèbre e di mistero voga, o Padre, incerto il mondo, vola ardito il mio pensiero. Non gli scherni e non gli affanni, non le plebi e no i tiranni, non l'esilio e le ritorte, ma te sol pavento, Re.

(4) Il dolor da te mi giova; :: parmi un riso di bellezza. Come d’aquila, s'innova la mia stanca giovinezza. Degli afflitti eterno Amico, al tuo nome i’ benedico; della vita e della morte i tesori io sacro a te.

Nel duplice alfieresco no alle « plebi » e ai « tiranni » e in quella consacrazione della poesia a Cristo, sentiamo parlare l’autore dei. futuri Opuscoli inediti di Savonarola. Parla con l’assoluta sicurezza di una fede non solo in se stesso ma nei principî che lo salveranno: onde quel. rilievo dato ai verbi collocati in posizione forte, e quel futuro che echeggia con non minore certezza del presente. Le negazioni sottolineano qui come. altrove gli incontenibili rifiuti polemici, con un amore per l’anafora triplicata, non mai smentito in seguito, e che è da sottolineare perché in Tommaseo (come

nell’Ossian del Cesarotti e in Victor Hugo) è almeno importante quanto l’amore alle simmetrie delle clausole strofiche: e qui le riscontriamo nei pronomi « te » e « sé » che diventano « Re » e « te », riferiti al Christus Rex e al Figliuol dell’Uomo, unico sovrano ammissibile e unico Amico e uomo imitabile. L'energia retorica dell'impianto è più che evidente. Ma la retorica piega la parola perché professi le idee, confessi gli affetti, si purifichi in un solenne atto rituale. Di qui la tensione dell’inno, il suo ascendere in verticale preghiera, e l’umiltà (autentica non meno della superbia) di questo linguaggio astraente verso la prescrizione imperativa e la difficile disciplina dell'anima. È una nuova forma parenetica, diversa anche se affine a quella manzoniana. Concentrato in se stesso, nell'esame di coscienza, nella riflessione e ripetizione dei suoi esercizi, in questo primo gruppo di versi l’esule non può che reiterare all’Italia e agli altri fuorusciti le sue esortazioni e le sue preghiere. Vedi i quinari tormentati e sognanti di Esilio volontario: (1) Risorgi, rinfranca la possa smarrita; o anima stanca, conosci la vita. Tua patria è l’esiglio, tua sede il periglio, tua legge l'amor, [...]

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(2) Sei povero e solo: aiuti al tuo zelo, conforti al.tuo duolo non hai che dal cielo. Non d’aspre fatiche, non d’ire nemiche, ma temi di te;

(3) del vano

tuo

cuore

che, infide a te stesso, l’innato vigore travolto, compresso, a modo di brando la pena aguzzando verrà contra sé. [...]

(4) Se il cieco, o Signore,

travìa dal suo corso, un nuovo dolore gl’insegni il rimorso. Un acre deliro, o un dolce sospiro mia vita sarà.

« Marsiglia 1834 ». È una delle poche date servate dalla prima edizione. Ma qui mancava Vico autobiografo) che ricorre frequentissimo che diventa ben suo. In tutto il primo gruppo

e indicazioni topiche conl’epiteto « acre » (caro al nel Tommaseo maturo e si collocano anche i noti

versi a Napoleone scritti nel « novembre 1835. Ponte d’Arcole », madrigale rivolto a uno degli esseri più odiosamati della sua vita. A Napoleone

« sul mesto scoglio infra il mugghiar de’ venti » (come quello di Lamartine) il poeta chiede perché mai abbia dimenticato l’Italia morente e innanzitutto « i mille ignoti » che erano morti combattendo nome del loro imperatore sulle labbra (rimprovero mossogli anche da Hugo). Gli interrogativi sono tra i primi e tra le rarissime figure grammaticali del nostro credente così scarso di dubbi. E infatti il madrigale si compie con un pensiero di Ballanche: strumenti della Provvidenza, possiamo collaborare ad eventi di cui siamo affatto ignari. In ciò si appunta la speranza che anche il poeta, cembalo sonante per divina ispirazione, possa tramutarsi da peccatore in redentore. Le stesse interrogazioni retoriche, fondate sullo stesso concetto, ritroviamo nella lirica A Donna Lucchese d’ornato ingegno, una poetessa conosciuta a Parigi: « E quando librata / ti levi nel canto, / non senti nel cor / un inno di pianto, / ed anime umane / che chieggon del pane / con voce velata / da molto dolor? ». L'esilio per Tommaseo era, tra l’altro, anche dolore di non potere riassaporare la lingua italiana. E questo struggimento è tutto suo, con certi

brividi precorritori di quell’ « amor sensuale della parola » che suo non previsto e non cristiano discepolo, il D'Annunzio. La razione si nota nella poesia per Adele Crescini, una cantante 1836 a Parigi « con gran voluttà degli orecchi » (Diario intimo,

ereditò un stessa ispisentita nel 247).

L’onda che pinti nel mobile seno porta i fiori, i palagi, il ciel sereno; l'onda d’un fiume italico è simile all’animoso tuo canto, o gentile [...]

È questa una delle poche liriche intere del Tommaseo dove lo possiamo sorprendere in un abbandono melodico, dove l’elegiaca sensualità è 1

appena infrenata dal metro: distici, a rime baciate, di endecasillabi lavorati con grande varietà di accenti e riprese di popolare semplicità miste a raffinati enjambements con rime ovvie e non distraenti dall’abile impasto d’immagini e suoni armoniosi, come a voler dimostrare la possibilità di vincere nella nostra favella la monotonia dell’alessandrino francese. In questo gruppo, fra gli endecasillabi sciolti, alquanto montiani e sonori, ispirati a memorie italiane (o di terre che egli ha sentito italiane, ricongiungendo diverse patrie nel suo amore) uno spicco inconfondibile hanno le terzine A Giuseppe Multedo, c6rso. La singolarità del metro (distico di endecasillabi a rime baciate, seguito da endecasillabo tronco) si. fonde, come poche volte nel Tommaseo, con il tema e il movimento dell’affetto che ispira quella terra aspra e scontrosa, indocile ad aprirsi agli slanci di

amore del poeta. Nelle sue frammentarie bellezze, fu una delle liriche più ricche di suggestioni pet la poesia storica del Carducci: Te,

come

donna

sconosciuta

ancora,

che la voce e l’andar suo c’innamora, o Corsica, pensai con lieto amor. Quando vidi spuntar le Sanguinare, figlie gemelle tue, cui bacia il mare, e Aprile il capo e il lembo orna di fior’, Parvemi quasi di finir l’esiglio: Italia!

Italia!

dissi;

ogni tuo

figlio

stimai fratello, e gli tendea la man. Ma freddi o schivi i più de’ tuoi vedea d’Italia al nome: e il cor mi si facea come d’amante ch’ha sperato invan.

altri visti cere, bertà

L’impasto di misticismo e sensualità, che abbiamo colto già in tanti scritti, è predominante a tal segno da cacciarsi anche nei più impreluoghi e temi di ispirazione. Si legga, ad esempio nell’ode su La carcome «il prigioniero felice » canti, nel 1848, la sua spirituale licon una sommessa offerta al Signore, dove l’esteta riassorbe l’asceta: Sento il grido de’ passanti, e la lieta aura de’ canti io respiro consolato, come l’alito odorato di giardino e di verzier [...] Nella mesta prigionia son più libero di pria. Ha la carcere il suo vanto, ha la sua dolcezza il pianto, ha la pena i suoi piacer’.

72

In molti altri versi di argomento politico la genericità del concetto non aiuta lo scrittore, nemmeno in quelle Merzorie dei popoli (1860) che dovrebbero chiudere il gruppo: il decasillabo ricalca stancamente i luoghi comuni del manzonismo (« combattere amando, soffrendo sperar »). Accenti nuovi, anche se su di uno dei più abusati luoghi tematici del romanticismo erano invece in altri versi di più antica data. Per esempio, nei distici di novenari

tronchi Mare,

Thecel,

Phares

(1837) dov’egli ‘profe-

teggiava castighi alla Francia di Luigi Filippo, ricordando ai « grandi » il vendicatore

Novantatré.

Ma

era un

metro

(lo ammetteva

il Tommaseo

stesso al Capponi) che aveva « troppo del rossiniano »: « suona minaccia com’io volevo che suonasse, ma la gravità del giudizio non si sente ». Si sente fin troppo la volontà di stile che diviene maniera, e più ancora quando egli tuona oscuramente contro il « popolo mercatante » degli americani e predice la rivolta degli schiavi negri (« la razza, tuo spregio e terror, / segnata d’infame color, / un dì sulla tua libertà, / qual grandine grossa, cadrà »). Ma forse in questa ricerca di modi nuovi i versi più riusciti di tutto il gruppo sono quelli che si riferiscono al fallimento delle sue speranze messianiche del ’48: Apparizione era a mezzanotte. Il sol novello ratto gigante dal mar si levò: Non ebbe aurora; e, orribilmente bello, l’aria e la terra di fiamma innondò: Poi, come in acqua fa spranga rovente, lungo-stridente nel mar si tuffò. Poco

La collocazione di questa lirica in mezzo ai versi politici scopre l’intenzione allegorizzante contenuta in una fusione (peraltro perfetta) tra immagine e ritmo, tra concetto e metro (i tre endecasillabi tronchi nei quali si

spegne subitamente l’alba fugacemente bruciata in tramonto). Ma le intenzioni restano tuttavia fuori dei versi, anche se la lettura in chiave simbolistica e pascoliana finisce per diventare da parte nostra un arbitrio necessario, un inevitabile palinsesto critico (vedremo poi in che limiti il Tommaseo fosse in effetti consapevole della sua svolta). La seconda parte delle Poesie ci riporta di nuovo più indietro, agli anni parigini: il momento più autentico, più coerente, più ricco di risultati. Ed è appunto il « Confiteor peccaminoso » (come definiva al Cantù le Confessioni in verso della sua tormentata anima « fonda »). La sezione si apre con Solitudine (A mia madre) mentre la raccolta parigina si apriva con i versi polemici e accademici La poesia (A mio padre) qui invece tra‘73

sferiti al secondo posto: una canzone freddamente impiantata in evidente e inopportuna contrapposizione a Leopardi. In verità « l’esquisito tormento » e gli « acri piaceri » erano espressioni che non si convenivano al grande e tutt’altro che debole poeta, bensì a lui Tommaseo che proprio nell'apertura di questa seconda parte delle Poesie manifesta la torbida,

femminea fragilità del suo dolorismo nel culto patetico del rimorso. Leggiamo quasi per intero Solitudine, che è certo una delle liriche dove questa fragilità interiore si esprime in quella forma « intensa » tanto pregiata dal Poerio. In questi versi alla madre piuttosto che raggelarsi nella « poesia di concetto » (dove « tutti tiriamo » ammetterà nelle Merzorie con un plurale evidentemente apologetico), Tommaseo preferisce sfogare il suo «languir » (« acre » e « mesto » contendono la frequenza all’epiteto « languido » di ascendenza manzoniana, ma derivato verso ambiguità morbose e un po’ remote da Ermengarda morente): (1) Quasi indistinto gemito, languida al cor mi giunge la tua

soave

immagine;

né assai lo stral mi punge, Madre, del tuo dolor. Altri dolor’ men pii più forte in me sentìi, altri, e men sacri, amor’.

(2) Baciai di donna estrania, come di madre, il viso;

né la tua pura angoscia né ’l puro tuo sorriso m'han tocco di pietà. Lassa, dal suo diletto indizio alcun d’affetto la madre mia non ha.

(3) Ed io, crudel, continua ero al suo cor ferita:

la notte a lei di lagrime empievo, a lei la vita di tedio e di timor. Ahi la tua vita, o pia, non è che un’armonia di prego e di dolor.

74

(4) Ma già ’1 dolor l’immobile ombra de’ larghi vanni stendea sull’incolpabile fiorir de’ tuoi begli anni. Questa, ch’io sento in me, di mesto amor dolcezza, questa di pianto ebbrezza, madre, mi vien da te.

(5) E il pur vedermi, o misera, ti renderia beata. Né sospirò sì languida fanciulla innamorata gli occhi del suo fedel. Della mia voce il suono, d’un mio sorriso il dono, altro non chiedi al ciel. [...]

(6) Tempo verrà che vividi col declinar degli anni, quasi rimorso indomito, i tuoi materni affanni risorgeranno in me. Già questa, in ch'io m’aggiro, noia affannosa, è spiro d’amor,

che accenna

a te.

(DE

allor che, infermo

e. vedovo

‘d’ogni terreno affetto, le notti solitarie sul letticciuol negletto e ciechi i dì trarrò; allor turbata e in pianti, o madre, a me davanti l’immagin tua vedrò.

(8) Sogni cangianti, e sterili gioie del vuoto ingegno, voi per sentier di triboli a interminato segno torceste il mio cammin. Se ignoto accanto a lei restavo, almen saprei della mia vita il fin.

(9) Ed or, dov'è la patria,

.

dove la mia famiglia? di chi son io? le dubbie mie strade or chi consiglia? chi regge il mio languir? Di qual donna amorosa sul seno il mio riposa, lieto del suo gioir? (10) Tardo e superbo, all'anima s'apprese un gran pensiero:

farmi agli afflitti popoli nunzio del santo vero, a Italia mia legar gli esempi del patire, vincer, pregando, l’ire, l’ire d’amore armar [...]|

Per intendere questa lirica è necessario ricorrere all’inconscio dei sogni chiaramente incestuosi annotati nel Diario intimo? Non bastano i

dolori « men pii » e gli amori « men sacri » ad esprimere nel loro nesso comparativo, quell’estasi ineffabile e peccaminosa indugiante nei dittonghi e nelle impronunciabili elisioni? « Baciai di donna estrania / come di madre il viso ». Altrove le elisioni abbondano, e sono quasi la norma. E poi quella dolcezza di « mesto amore », quella « ebbrezza » di pianto e quella « noia affannosa », remote per anastrofe dai loro dimostrativi significano un « affetto » tanto più potente e presente di quanto non sia detto e celato. Molto di più che non dica, cela e rivela il nostro « nunzio del santo vero » nei segreti risvolti del suo messianismo civile e religioso. All’ispirazione inconscia di queste liriche non contraddicono le preoccupazioni moralistiche dell’ordinamento tommaseiano: risultano evidenti quando si rifletta che, per introdurre il lettore alle confessioni dei suoi amori peccaminosi, egli costituisce un prologo in cielo, il cielo benedetto della famiglia cristiana a cui sospirava già nei versi pubblicati in Fede ‘e Bellezza (e qui ha il titolo La Moglie). Perciò vi aggiunge quelli in morte della sua Diamante Artale e quelli per i figli avuti da lei e quelli alla sorella, in morte del cognato. Queste occasioni di funebre raccoglimento e meditazione si datano dopo il secondo esilio. In mezzo alle poesie di tema affettuoso (affetti domestici o amicali) e quelle di confessione ed espiazione, si collocano meditazioni e liriche dove il pensiero della morte non si contenta dei temi elegiaci del rimpianto (come in un tratto dei versi a Stieglitz, piaciuto al Pascoli dell’Aguilone: « Meglio morir quando ancor piena e 75

balda / batte nel core e nel ‘pensier la vita »). Si profonda in accenti ‘più

foschi (« Solo son’io come in deserta macchia / vedovo augel ramingo a cui già sopra/ venta il piovoso autunno... »). Si ammanta di alfieriana tragicità (« Io di me stesso tormentator tiranno »). Tocca gli estremi baroccheggianti. del romanticismo autunnale e in disfacimento (per es. i versi A Lucia de’ Thomasis). Accenna a una specie di ulissismo cristiano: vedi l’immagine delle sestine Agli amzici (« Navi affrettanti per diversa via / siam noi nel mondo ») che ritorna in un contesto singolarmente macabro: nell’ode. All’oriuolo della mia stanza. Ma piuttosto che in questa saffica di tema tardo-barocco, due brevi liriche (A un albero, A una foglia), benché composte in epoche diverse, svolgono motivi programmaticamente enunciati nelle terzine che le precedono (A tre alberi: 1837), ed esprimono compiutamente la condizione di lutto in cui si mortifica uno stanco desiderio di felicità irraggiungibile, e dalla macerante umiltà il poeta si solleva misticamente a Dio. Di originale perfezione è la lirica A un albero che si riflette nella spera della mia stanza (1836). « L’automne de la jeunesse » e « le veuvage du cceur » di Amaury qui son riecheggiati da un’anima che trova motivi veri e suoi per sospirare la propria elegia. In quasi nessun’altra lirica del Tommaseo le parole sono come qui bisbigliate a se stesso, nell’anelito di una sola frase lirica, dove il metro è riassorbito musicalmente e il bacio della rima s’accora in mezzo alla strofa per l’intensità della brama o per la delusione del bene negato: i quattro senari si spengono in un ternario, dove la rima col primo verso appena s’avverte: (1) Non già in una spera vederti riflesso, al rezzo tuo stesso sedermi vorrei

(3) E sotto a’ tuoi rami la vista fruire, l’accento sentire di moglie toscana da sera;

che m’ami;

quieto;

(4) E ai mesti fratelli veder menomati gli affanni e i peccati, e giorni aprir loro più belli.

(2) Tra ’1 verde tuo lieto veder senza velo dell’italo cielo il vivido lume

(5) Vorrei... Ma che bramo un bene negato? O cuor vedovato, o occhi miei lassi, moriamo.

76

A una foglia (1855) suscita (non soltanto per il tema) un plausibile sospetto di contrapposizione deliberata all’Imzitazione di Leopardi. Pure l’artificio oratorio è originale, calato in una terzina di endecasillabi litaniati sullo stesso accento, come a risolvere la poesia in un atto di fede: Foglia,

che lieve alla brezza

sotto

i miei

piedi,

con

cadesti mite

richiamo

forse ti lagni perch’io ti calpesti. Mentr'eri viva sul verde tuo ramo, passai sovente, e di te non pensai; morta ti penso, e mi sento che t'amo. Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai venivi amica nell'anima mia;

con lor d’amore indistinto t'amai. Conversa in loto ed in polvere, o pia, per vite nuove il perpetuo concento seguiterai della prima armonia. E io, che viva in me stesso ti sento, cadrò tra breve, e darò del mio frale al fiore, all’onda, all’elettrico, al vento. Ma

te, de’

cieli nell’alto,

sull’ale

recherà

grato lo spirito. mio;

e, pura

idea,

di sorriso

immortale

sorriderai nel sorriso di Dio.

Questa contrapposizione del suo ingegno « elettrizzato negativamente » (come disse il Cantù) la ritroviamo anche in un’altra lirica (di tema lamartiniano) dove il poeta credente si compiace ad esaltarsi di fronte ai contumaci di Santa Romana Chiesa con la fiducia di aver contribuito alla loro salvezza (come dice l’allusione ai funerali del Manfredi dantesco): La

piccola mia

lampa

non, come sol, risplende, né, com’incendio, fuma; non stride e non consuma, ma con la cima tende

al ciel che me

la dié.

Starà su me sepolto viva; né pioggia o vento, né in lei le età. potranno; e quei che passeranno erranti a lume: spento, lo, accenderan

da

me.

È detto nel Dizionario della lingua italiana che « la lampana sospenLI.

desi per lo più, innanzi agli altari, alle immagini ». Qui arde davanti all’icona del poeta stesso che si autoadora. L’orgogliosa umiltà (l’ossimoro è d'obbligo) di questa poetica che è anche autoconsacrazione, è giustificata dalla coscienza di originalità dello scrittore, il quale al tempo stesso vuole esprimere implicitamente la riconoscenza per il dono fattogli dall’oscura Geppina a Firenze (« quella lucerna fu comprata da lei ragazza, e ha vent’anni, e val più di me », scriveva al Capponi il 23 settembre ’33). Ne vien fuori una simbolica immagine provvidenziale. E non a caso a questi pochi versi seguono quelli intitolati Affetti, errore, ravvedimento, primi fra i molti che ritorneranno in questa seconda parte, e dedicati alla Giuseppa Catelli, il più tormentoso degli amori « inconcessi », cioè vietati (perché peccaminosi e impossibili) del Tommaseo, quelli sui quali egli immaginò e compianse felicità e serenità perdute, fugaci come i troppo brevi ravvedimenti e solo compensate dall’espiazione finale a cui egli si votò, configurandosi come peccatore esemplare, voglio dire educativo. Vi predomina un folto gruppo di liriche già pubblicate nelle Confessioni che hanno per tema le molte donne del poeta, di cui alcune immagini riappaiono nel polimetro Memorie sparse. Castigate da successive correzioni che si ingegnano di livellare all’« errore » (cioè al « minor grado di colpe », Sinorizzi, 2260) i vagheggiamenti e gli abbracciamenti, sono poesie che di rado si potrebbero dire d’amore, anche se il motivo ampio (che dovrebbe comprendere l’intero ciclo) dichiarato in quel titolo della prima che lo apre, è solo dell’ultima edizione e non riesce a ridurre ad « affetti » l’attaccamento sensuale a certe memorie e gli slanci michelangioleschi di certe preghiere. Predomina un’aura di purgatorio, e l’amore e le donne sono adombrate più che rappresentate, sicché il poeta potrebbe dire con Stazio: « Secondo che ci affliggono i desiri / e gli altri affetti, l’ombra si figura... ». Per intendere queste liriche non è superfluo ricorrere alle definizioni del significato di « affetto » che lo stesso Tommaseo ci dà del Dizionario della lingua italiana: « L’affetto disordinato diventa passione, e fomenta passioni, anco d’affetto diverso da sé. Quindi potrà dirsi: affetto più o meno appassionato. Ma nell’affetto l’anima è più libera che nella passione. Anche quando l'affetto tenga della passione, riguardasi come men reo...» Non si vedranno dunque che « spirti per le fiamme andando ». È una situazione penitenziale, che il poeta s'impone, per temprare ed esaltare la sua atletica spiritualistica: « S'è ver ch’amore all’anima / è spiro, i’ vissi assai: / molti e profondi e insoliti / effetti esercitai. /Non di piacer fiorita, / ma calda di memorie, / mi correrà la vita. [...] Scritta di getto, l’ode Affettà, errore, ravvedimento ha un genuino impeto romantico fin nello scoperto e ingenuo narcisismo dell’intellettuale che napoleoneggia dinanzi alla sua ge78

nerosa affittacamere. (« Guardò nel mio silenzio / mesta e pietosa, e tacque... »). Ma ci sono versi che erompono come singhiozzi di pianto limpido e irrefrenabile e talora la stessa aulicità del dettato sembra che sia sopraffatta dalla commozione soffocante: « Allora, allor nell’anima / profonda suoneranno / religioso gaudio, / desiderato affanno / le tue soavi e sante / parole, o pia, d’un misero / madre, sorella, amante.» AI confronto appaiono lavorati con freddezza i versi A giovinetta (eco delle variazioni di Ballanche su l’Hermzann e Dorotea di Goethe) e A donna povera, anche se qui il riecheggiamento di motivi hughiani (cfr. Odes et ballades: Réves; e Les orientales: Le feu du ciel, VII) non impedisce il momento originale di una veduta di Parigi. È vero che le suggestioni di Sainte-Beuve si risolvono in una libera coincidenza di situazione psicologica nell’attacco dell’ode fiorentina che canta l’evanescente sogno d’amore per la Ortensia: dove poi tutto tommaseiano è il seguito, complicato di alterigia e aridità mal dissimulata dal moralismo (umiltà, culto del dolore) che gli suscitava il complesso d’inferiorità sociale svelato sin dal titolo A fanciulla ricca. Ma si sente un difetto di autentica passione, e la stessa reazione di elargita pietà ritroveremo nei versi per la Cristina Bel gioioso: dove, al solito, il soggettivismo meditativo predomina e della morbida psicologia di questa « donna elegante » purtroppo il profilo svapora nell’indistinta genericità concettosa del linguaggio. Più intensi i versi per le peccatrici parigine. Quelli dedicati A donna non credente e Piaghe nascoste, bisogna leggerli nella redazione originaria, dove la prima strofa (poi omessa) restituisce all’atea Celina un pudore incantevole che contrasta mirabilmente con l’eccitata lussuria del suo petrarcheggiante amatore: « Gli atti soavi e il dolce fuoco ond’ardi / nel viso, e le amorose / voci sommesse, e i mansueti sguardi, / e la man che le ascose / bellezze schiva ad interdir s’affretta / al veggente desìo, / ti fan vergine ancora. Oh giovanetta, / e tu non credi in Dio! » Notevoli i versi Piaghe nascoste, vigoroso rifacimento in endecasillabi dei quinari composti nel 1837 quando il Tommaseo « di Venere avea sentito il tosco » appunto negli amplessi di Celina: Miglior del sozzo secolo mi parve, e con dolcezza libera d’amore guardavo in lei. Ma per le belle membra fredda lussuria strisciar veggo, come un luccicar di serpentina squama. Meglio un chiuso sepolcro ornar di fiori, che discoprir tra i fiori e la verdura fradice carni. O forse il vel che impuro sta sull’alma gravata, il meglio asconde.

Vi)

Bujo immenso lo spirto; e dal profondo cresce il sublime. In su’ roveti, o Cristo, cade una goccia del tuo sangue sacro, e spirano i roveti aura di rose.

Qui approdiamo a uno dei momenti più alti di questa voluttuosa confusione di mistica dolcezza, còlta tra senso e senso, irta di dissonanze penitenziali, di aspri suoni e odori soavi. L’« affetto » qui si esprime secondo l’accezione che i musici non ignoravano tra i loro termini tecnici. Ma ovviamente, nessun affetto, nemmeno se di passione, basta di per sé a produrre poesia. Infatti Il pensiero d’una morente (nobile espressione di riconoscenza per la Maria Ponti che era morta pensando a lui, suo giovane amante) resta solo una variazione metrica sulla terzina tradizionale, con qualche bel verso di contegno dantesco: « Da lubrici dolor che orgoglio attosca ». Invece il polimetro successivo delle Mezzorie sparse (che ha in comune con questi versi a Maria Ponti il contenuto ispiratore di Fede e Bellezza) ha movimenti e squarci lirici di prim’ordine; anzi, per essere stato composto nel ’34, racchiude il vivaio più fondo e più folto della poesia di Tommaseo. Nelle Corfessioni il polimetro aveva il titolo Tutte ed era collocato dopo una serie di liriche che abbiamo già analizzato e che erano intitolate Ad una, Ad altra, Ad altra ecc., quasi il poeta volesse comprendere in una sola suife di uno stesso poemetto le immagini di un ripetuto rimorso che gli aveva procurato la sua inesausta voglia di « conoscere » (nel senso biblico) più donne, con una curiosità di sadico spiritualismo che riscontriamo nelle parole svelatrici. I Fantémzes di immagini muliebri, che Hugo aveva cantato e che persisterono anche in certe riprese di Fede e Bellezza qui sono oggetto di un ardente colloquio. E non i volti ma i cotpi si intravedono come oggetto di questi acri colloqui (e contatti) deliranti nei viluppi di similitudini ingegnose: Dammi l’anima tua. Queste beate splendide forme che gentil passaggio fan d’una in altra com’all’aura estiva biancheggiando ricresce onda sovr’onda, sono intoppo a’ miei sguardi. E non la forte voluttà che com’angue in mezzo al verde, d'ogni parte di te guizza e si snoda, [né ’1 palpitar dell’abbracciato petto,] né ’l crin, largo sugli omeri scorrente, né ’l fremer della vita che s’affretta per vanire in un bacio o in un amplesso, cerco,

80

misera,

in te. Come

un

fanciullo

che il vago arnese,

onde

gli vien diletto

spiar desia negli spezzati ordigni, così l’intima mente e la bellezza del giovanetto tuo spirito, arcana, e le piaghe nascose,

e quante

mai

vite in te fur morte,

rinate

o miste,

tutto saper chiegg’io. dammi l’anima tua].

[Povera ignuda,

Talvolta, purtroppo, l’abbandono discorsivo (che del resto è di tanta poesia romantica d’amore) diviene prolissità: i tagli successivi di alcuni endecasillabi non furono solo suggeriti dai soliti ripensamenti moralistici (come nei versi che ho messo tra parentesi quadre) ma per condensare opportunamente la materia. Infatti rimasero invece quasi tutti i versi di chiusura delle lasse di endecasillabi, perché c’era un’intenzione stilistica: il parallelismo prosodico serviva a rendere evidenti gli intendimenti sinfonici: E ancor sei bella. Ancor nel tuo segreto siede il dolor ch’è di virtù consorte e d’altre gioie i memori desiri, e l’angel del rimorso e dell'amore parlan là dentro. [...] [...] Il cuore arcano aprimi, e al tocco della man pietosa risponderan le viscere profonde d’amarissima colpa inebriate.

In un unico brano furono rifuse le due lasse finali, corrette squisitamente, sicché le clausole stesse (« sopra il memore letto inconsolate »... « di quieto dolore irradiate ») smorzavano gli acuti manierismi ossessivi in più casti accenti, fra virgiliani e manzoniani, quasi a velare la morbida

ambiguità iniziale del ricordo evangelico: Ma chi ne’ tuoi dolor’ s’attrista e pensa, o donna, i cui dolor’ solo comprese chi gli umani dolor’ tutti sentìo? Chi l’adultera piange? In ira o a scherno l’ha il mondo: e pur colui che dritto estima gli umani error’, la difendea da’ vili, e salva la mandava, e ricreata di benigne parole. [...]

81

Tu piaga immedicabile gemi ne’ miei pensieri: tu le mie doglie temperi, e attoschi i miei piaceri. Piene difiterlertenebre; pieno il pregar di te. Or mesta luna e pallida, or importuno

sole,

dentro mi splendi; e pensano in me le tue parole. Ahi tu se’ morta, o misera, e la tua vita è in me.

Fra tutti i versi brevi del polimetro, perfetti sono questi settenari primi « fiori del male » germinati dal profondo e di certo i più bei versi scritti dal Tommaseo in memoria della sua Geppina (l’altro polimetro Sofia è una replica retorica di motivi espressi meglio altrove, ed è mista di echi foscoliani, ossianeschi e persino leopardiani: « Come un’area vision tu vieni / a consolarmi »). L’ultima, nel gruppo di queste poesie di affetti colpevoli, è intitolata Fine dell’errore, e benché sia del ’35, cioè di un anno ben lontano dal distacco di Tommaseo dai suoi peccati, è qui dislocato per motivi di architettura dell’opera. Come dice nei versi di sapore beuviano La vecchiezza, egli è giunto a un momento della vita in cui si prepara ad obbedire a un imperativo preciso (« d’austere gioie e di possenti amori / sorgi alla nuova età poeta e martire; / non cetcar con desìo vili dolori »). Si sente un nau-

frago (« in sul deserto lido / giaccio prosteso »). Ma non dispera affatto della sua salvezza. Si colloca perciò a questo punto il sonetto Fede che con più felice slancio dell’altro, collocato a chiusura di tutta la parte seconda, non tanto ci richiama alla mente Petrarca, quanto la tradizione dei manieristi cinquecenteschi. È come un Michelangelo stemprato nell’elegìa del dolorismo romantico e passato attraverso il gusto femmineo di Joseph Delorme: Se, di dolor’ superbi inebriato o d’amaro gioir, me stesso obblio,

negl’intimi del cor, voce di Dio. mi ferisce, e mi morde il mio peccato. Pur m'è caro il rimorso. E, umiliato, sento un soave di patir desìo: e le mie piaghe a’ falli altrui più pio mi fanno;

°) DD (e

e dico:

anch’ei di donna

è nato.

E cerco

il cielo, e dalla valle oscura

l'occhio, con mesto amor pien di speranza le belle cime, ch’io perdei, misura. Temo, Signor, di me: fido in te solo,

che alla raggiante tua libera stanza, Dio

de’

pentiti,

ci trarrai

d’un

volo.

Al manierismo tassesco e al fattizio equilibrio retorico delle virtù di Sofronia ci riconduce invece L’ideale (che nelle Confessioni s’intitolava, per antileopardismo, La mia donna): distici di leziosa, compassata e infelice monotonia che mandarono in visibilio il troppo candido Gino Capponi (« Ama tranquilla con ordin d’affetto / un fiore, i mondi, il Signor suo diletto... »). Se passiamo invece ai versi che il Tommaseo dedicò al suo miglior critico e più sottile estimatore, il poeta Alessandro Poerio, che egli (lodandosi a Dio) si compiaceva di avere strappato all’influenza di Leopardi, ritroviamo il vero e proprio epilogo di questa seconda parte delle Poesie: la notissima Espiazione, che nelle Confessioni aveva un attacco da epistola, giustamente

soppresso

insieme con altre quartine all’interno

della lirica, per motivi etico-estetici. Tommaseo voleva insistere sui suoi « veloci » affetti che ormai sarebbero diventati « raccolti ». E perciò eliminò i « possenti e casti / baci ed amplessi e consorzii d'amor! »: ricordo inopportuno in una espiazione che si presentava come definitiva e irrevo-

cabile. Voleva confessare a un compagno di cristiano « risorgimento » l’animo di un errante pentito, che non parla se non con l’animo rivolto a Dio, a voce sommessa ma a capo eretto: Caddi, ma piansi ancor; piansi e parlai delle mie piaghe, o Signore, con te: E risorsi,

e ricaddi;

e pur pregai,

e vincitor mi composi al tuo pié. Né fu viltade il creder mio, né tacqui da lui diverso l’errante voler [...]

Non si rivolgeva a un amico per inviargli un’ironica palinodia. Voleva riaffermare, di là dai suoi errori individuali, la sua fede nella religione del secolo, nella cristiana palingenesi che, conformemente al pensiero, di Ballanche e dei sansimoniani cattolici, non è solo sociale ma investe tutto

l’universo: [...] E dei venturi anni siam parte e del tempo che fu. E forza i mondi andati e i nascituri prendono o danno all’umana virtù.

Degli spazii e de’ secoli sovrana, leviam la mente alla cima del ver: Né

sola abbracci

la famiglia umana,

ma i cieli eterni, l’umile pensier.

Questi procedimenti salmodianti e inneggianti sono sempre aperti verso il futuro. Talché la tensione mistica surroga l’arte, e le buone intenzioni della poetica sopraffanno la poesia. Il peccatore, il penitente, l’espiante esemplare non può che aspirare ad una Grandezza suprema titolo del sonetto conclusivo in cui viene esaltato l’omznia instaurare in Christo di Paolo: « Esca del vuoto suo l’anima immonda / muoia a se stessa; e ad ogni istante in lei, / Cristo, il pensiero e il sangue tuo s’infonda.» La parte terza, che si apre con Le memorie dell’uomo (a Gino Capponi), è implicitamente tutta dedicata a lui. Dal punto di vista dei generi, dello stile e dei risultati poetici è la più eterogenea. Non meno delle sperimentazioni metriche abbondano qui numerosi mediocrissimi versi di circostanza, da pia accademia romantica, e i tentativi si estendono dalla lirica agli intermezzi corali e drammatici, a romanze e ballate, scritte (si direbbe) a prova con Berchet e Carrer, e a una sezione di racconti in verso (di cui già si è discorso, perché in effetti appartengono alla produzione narrativa, anch’essa, e giustamente, molto cara al Capponi). Le memorie dell’uomo (1835) hanno un tono che prelude convenientemente all’autunno meditativo, alla distensione e al distacco, dove il gusto beuviano della vecchiaia precoce (di un « veglio addolorato », come era detto in una seconda strofa) tende ad armonizzarsi con la riflessione analitica derivata dalla prosa manzoniana (« un sospirar di giovanette fronde, / un pianger d’onde, un raggio che si sposa / all’erba rugiadosa »). L’artificio della rima al mezzo quasi non si avverte, riassorbito perfettamente nelle giunture sintattiche del discorso. « Composto maraviglioso » (ammirava il Poerio). Ma non perché (com’egli diceva) la riflessione vi si abbracci con la fantasia, che vi è assente, e sarebbe estranea, in questo « contemplante affetto » che solo all’inizio trova (come spesso in altre poesie) un moto di elo-

quenza spontanea. Oltre i luoghi comuni, ecco recuperata una parola evangelica (« Gino,

inconsutil

veste

è nostra

vita»)

che riluce di preziosa

umiltà nel grigio contesto. Il poeta si confida in chi l’ascolta, sicuro di essere inteso da un’anima fraterna, se non congeniale, che saprà indulgere alla sua errante ricerca di assoluzione. La terza parte delle Poesie deve corrispondere alla matura fase di raccoglimento, conforme ai propositi parigini espressi nella litica intitolata qui Non si rinchiudere in sé e che era lì Epilogo e prologo. Ma il proposito (ribadito in Vita nuova con imperiosa oratoria) si realizza raramente 84

in situazioni e forme oggettive. La tematica del « dolore amico » e del « dolore operoso », che ebbe in Baudelaire il primo poeta epico-litico della città moderna, qui stenta a liberarsi dai modi retorici e dalle enumerazioni, che già erano state accennate dal Sainte-Beuve nelle Consolations (epistola a Lamartine: « quand tout est calme encor, que le bruit de la ville / s’éveille è peine autour de mon paisible asile; / è l’instant où le coeur aime à se souvenir / où l’on pense aux absents, aux morts, à l’avenir »). Vedi Conforto: « Tra le angosciose tenebre, / nel vigile mattino, / pensa alla madre vedova, / all’orfano bambino: / pensa al prigione, all’esule; / prega pel reo che muor.» Per questo in tutti i versi di devozione cristiana la parenetica già tentata nei settenari del Pensiero si moltiplica in cantici e inni, dove il Tommaseo aspira evidentemente a superare l’impopolarità dei difficili versi sacri di Manzoni. Ma egli riesce tutt’al più ad affinare il settecentesco gusto di sant’Alfonso de’ Liguori (come, ad esempio, in Carità, in Dio e altri canti pet fanciulli): di rado supera i limiti del catechismo verseggiato. Talvolta pretende (come nei notissimi versi Fede, Speranza, Amore) a similitudini che non assurgono a simboli poetici. Risultato che invece mi sembra conseguito in questo rispetto scritto dopo il °60 e che a dispetto del titolo sgraziato (Nor richiedere compassione) certamente non sfuggirono alla memoria di chi scrisse le Myricae: Il mondo e la stagion fanno lor via: Dio solo ascolta e intende il tuo dolore. Una fanciulla un cardellin nutrìa; inferma, lo nutrìa con grande amore. Entra la vergin bella in agonia, l’uccellin canta allegro al nuovo albore. Morta

giacea la giovanetta;

tu, cardellino,

e intanto

seguitavi il canto.

Ma quanto siano eccezionali e fortuiti questi versi, lo vedremo analizzando il particolare simbolismo che ispira le liriche della quinta parte e che del resto è annunciato inequivocabilmente dalle ottave sulla Parola (1854): « Oh, Verbo uno allo Spirito, oh del profondo / della Virtù di Dio gioia e candore; / s’anco da te l’Amor che muove il mondo / non procedesse, e’ non sarebbe amore. / Nell’alito dell’uom spiro fecondo, / d’atti e parole redentrici autore! / Il mortal cose eterne, amando, crei; / ed ostia il Verbo, e gli uomini sian Dei.» In questa terza parte l’ordinamento è spesso spiegabile solo con ragionevoli congetture. Dopo una serie di prosaici componimenti educativi (dove le parole « amore » e « dolore » sono non meno fitte che negli altri, e si alternano a nobili aspirazioni) forse i 85

versi intitolati Felicità (ad una vecchia), sono stati prescelti per il loro ca-

rattere meditativo, ed esclusi dalle liriche autobiografiche parigine, perché ormai Parigi apparteneva al passato ed era diventata per lui (a dirla con il suo Ballanche) « la ville des expiations »: « Curva, tremante, avvolta in vili panni, /a gran fatica i languidi occhi tuoi, / o poveretta, al cielo innalzar puoi... ». È giusto però che accanto al « tableau parisien » di Felicità (schiacciato purtroppo

da una massiccia

cornice moraleggiante)

sia

collocata la poesia La donna (a Giorgio Sand). Ma questa lirica, composta originariamente in ottonari nel ’35, difficilmente avrebbe potuto inserirsi qui senza stridere accanto ad una canzone di tono così grave e meditativo.

Giudicata bellissima dal Capponi, ma «con qualche riserva sul metro » (condivisa anche dal Poerio) fu infatti tutta riscritta, e divenne altra cosa.

Sicché la data apposta in calce sarebbe da giudicare un falso, se il Tommaseo non fosse stato convinto di avere in fondo rispettato il concetto, che qui è rivestito e drappeggiato in endecasillabi (« Ombra fugace ed immortale idea / voi siete, o donne »). La lirica acquista in semplicità e verecondia manzoniana, ma della primitiva veste (con la retorica hughiana e ossianesca di cui era gremita) perde l’impeto di quelle idealità sociali che, appunto dopo gli anni Trenta, si mescolarono alla religione e all’emancipazione della donna, per merito anche della Sand. Negli endecasillabi tutto si riduce ai « duoli delle umane genti », né c’è più traccia di soggezione alla rilettura di Lélia, evidente negli ottonari: Pensa agli odii ed ai sospetti, ai misfatti ed ai rimorsi, agli esilii, ai ceppi, al sangue, agli schiavi ed ai tiranni. Tutti, al par del figlio umile, tutti al par dell’alta Madre, i dolori in seno accogli delle etati e delle genti: te per tutti espiatrice ostia, porgi; e allora, o misera, sentirai che sia l’amore.

Sono questi i motivi nuovi che chiudono anche la lirica Per giovanetta che va sposa al Brasile dello stesso anno ’35 e inserita tra i versi di liete circostanze familiari. Essi esprimono un voluto contrasto tra gli scenari di « sapiente e pura voluttà » naturale (immaginati dal Tommaseo sulla fede e la falsariga dell’Aza/a di Chateaubriand) e l’umanità non ancora liberata dalla sua condizione ferina e servile, come insegnava il credente nella mitica rivoluzione cristiana, il suo maestro e amico Lamennais. (« Ahi 86

tutti schiavi e tutti / noi siam selvaggi ancora... »). Quest’uso di « vestire a lutto » (come diceva argutamente il De Sanctis) le poesie di occasione lieta era stato già inaugurato dal Leopardi nella canzone per le nozze della sorella Paolina. Ma il cattolico Tommaseo ne abusa, intonando con piglio malaugurante il #zemzezto mori (come nei versi per la Ortensia Capponi maritata felicemente e incinta:

A una marchesa partoriente). In realtà la

« morte » diventa, dopo « amore » e « dolore », l’altra parola tematica ricorrente in modo ossessivo in tutto un gruppo di versi adunato in questa

parte terza, che certamente si conveniva al dedicatario Gino Capponi, col quale il Tommaseo era solito scambiarsi per macabro umore epistolare la raccomandazione: « E pregate Dio che ci ammazzi ». Ciò non vuol dire che il tema resti sommerso definitivamente dalla devozione giaculatoria. Per esempio, nella prosopopea In morte d'un fanciullo (1832) la morte inneggia con levità solenne: « Io sono, io son che svelo / i segreti ineffabili del cielo ». E altrove il poeta si umilia in « voce modesta », quasi parlata con serene cadenze popolaresche alla Dall’Ongaro, nei poveri versi per Carolina Beccattini, morta d’anni ventitré e predestinata sua vicina di tomba nel cimitero di Settignano: « E non credea che te veduta appena, / povera Carolina, / nella casa dei morti avrei vicina. » Il mirabile delle coincidenze qui appena percepibile è orchestrato con funebre musica nella lirica Gl’igroti. Il concetto di « hasard providentiel » del Ballanche, e l’immagine di un suo frammento che riepilogava il succo del poema in prosa l’Arzigore sono il presupposto di un’occasione reale. « La diletta e dolce gioia del dolore » tanto cara a Ossian, qui è assaporata in «un’elegia di nuovo esempio » (come Îa definì il Poerio, entusiasta non meno del Capponi per questa « immaginazione concitata e malinconica che accarezza il dolore »): Né

quale il nome

tuo,

né quale il viso,

seppi; e la tua statura misurai dal ferètro. Io dalla sponda Illiria, e tu dal Rodano sonante mover

dovevi;

e rincontrarsi

alfine

in Parigi dovea con la tua bara, o donna, il prego mio. Tal, da lontano turbine reciso, sovr’ignota verzura cade languido fior; tale quell’onda che di fanciulla tenera le piante bacia amorosa, e lunghe selve alpine corse e giardini gai trepida e chiara con fido mormorio [...]

87

Eliminata la strofa che più richiamava l’ossianesco addio a Vinvela (Carritura, III) i versi peccano ancora di una certa prolissità concettosa,

che il Tommaseo solo da vecchio imparò a fuggire. Infatti la lirica D'un quasi cieco e presso a esser vedovo, scritta nel 1871 per la moglie Diamante Artale durante una sua malattia, è tra le poesie più alte e compiute che egli abbia mai scritto (« Sole di Dio, la vivida / luce che crea l’aprile e fa l’aurora, / nella pupilla languida / versa di sé pur qualche stilla ancora... ») e ci compensa del pio ciarpame ond’è ingombrata questa terza parte, che si conclude con liriche d’argomento storico (tra cui il bell’epi-

sodio drammatico di Montaperti) tutt'altro che sconvenienti a Gino Capponi. La parte quarta si apre con Cristo e le cose (1837) che prelude ai versi sacri più originali del Tommaseo. È un tema che ispira tutto un gruppo di componimenti al particolare significato cosmico che egli attribuiva alla redenzione, e che difese da sospetti di eresia in una lettera al Capponi (30 dicembre ’37 - 2 gennaio ’38) dove sono avanzati i principî di una cristologia non saprei dite quanto originale. Nel suo misticismo naturalistico il Tommaseo riteneva che « del corpo di Cristo alcuni elementi vivono tuttavia nell’universo ». Su questa redenzione e comunione particolarmente intesa egli ritornò varie volte e meno stentatamente che in Cristo e le cose, primo tentativo di poesia eucaristica in terzine neo-

dantesche di sdruccioli e piani. Il tema del sacrificio di questo « dolce, tremendo, unico amico » (dice così il grande verso finale di un solenne sonetto, I/ sabato santo) voleva significare un distacco ascetico da ogni affetto umano e riaffermare il bisogno di comunione totale, suscitatogli dall’orrore dei mali fisici oltreché spirituali ov’era sprofondato. Ma in questo sonetto della vecchiaia si era illimpidito il torbido stato d’animo nel quale aveva composto i versi L’azzico nostro e atteggiato un Cristo quasi a sua immagine (come dice l’attacco poi espurgato: « Fu l’anelito supremo / una forte voluttà ») e profeta della sua poesia (« Cospirò ne’ pensier miei / dumil’anni innanzi a me »). Non per nulla aveva annotato nel Diario (3 ottobre ’38), questo gesto di frenesia ascetica: « Nel ripetere i versi Cospirò ne’ pensier miei preso da un impeto d’affetto corro a baciare l’amico mio crocifisso, e inginocchiato, dico “ padre nostro” pensando a mia madre ». Epurata di quel tanto di esclusivo e di personale che comportava la scopetta di questa poesia eucaristica, agli estremi della sua carriera di credente e di scrittore, nel 1870 egli la chiamerà Comunione spirituale, ma anche qui il suo pancristismo sarà riconfermato integralmente (« Unico amico agli uomini, / Dio, nell’altar tu sei. / Col corpo tuo, coll’anima / comunicar potrei. / L'anima e i sensi miei, / come di luce l’aria, / pieni tu vuoi di te.») E quando riprende lo stesso metro della parigina Arzzoria

88

delle cose nella lirica Il corpo di Cristo (1853) è evidente che vuole affrontare il vertice del suo simbolismo, e cantare il mistero cosmico dell’amore e della morte, reinventando un empireo nella materia (« È sacra ogni aura, ogni atomo, ogni stilla, / che parte esser potria del gran por-

tento. / Né di tanti splendor’ fitto scintilla / il firmamento »). Tentando così ardui temi, e così lontani dalla vita moderna, egli non può non arretrare al sublime di forme anacronistiche. E quando riesce a dimenticare il paradiso dantesco e si sprofonda nel suo materialismo mistico, non può non affrontare i rischi di ritorni barocchi. Ciò sarà più che evidente nelle poesie della quinta parte. Quando scrive le quartine A/ Redentore (1867),

se proprio non arretra al Varano e al Minzoni (che egli ammirava più del Parini, come maestri del Monti, da lui lodato perché abile ad apprendere nel primo « ciò che quel fare aveva di vivo e di maschio » e dal secondo « la forza vera »), gli è perché il suo linguaggio vibra di una autentica partecipazione liturgica e sembra attingere la sobria purezza di una vigilia dei sensi e dell'anima. Sono lasse di endecasillabi sciolti che si amplificano e diffondono in un nuovo canto di Sileno per un mondo nuovamente creato dalla redenzione: discorrono e si ricompongono in periodi di quattro versi, con enjambements che, dopo il calcolato urto del primo (la ferita del centurione di cui « la lancia aprì la via dal petto / morto ») hanno un’onda melodica che ammette solo (e distanti) una rima e un’assonanza (« l'amor d’un Dio », « è sangue mio », « Serafini indìa »), e due sole riprese da strofa a strofa, dove sono le espressioni stesse del Vangelo a ripetere la mistica parola tematica presente in quasi tutte le lasse: « Questo tutti bevete; è

sangue mio, / il sangue dell’Amor nuovo ed eterno ». O sanguis meus o superinfusa gratia... Al nostro nuovissimo poeta di beatitudine non è Cacciaguida l’antenato, bensì l’universale e presente Cristo. Egli è un poeta che nell’assoluta certezza d’esser salvato ha come rimosso l’inferno dalla sua ispirazione. E nei suoi versi, dopo tanta carne e tanta morte, non incontreremmo il diavolo, se non ce lo avesse introdotto Antonio Rosmini, commettendo al Tommaseo versi in onore di san Michele, non senza un’arguta sollecitudine per l’anima del suo superbis-

simo amico. Il quale adempì docilmente al gradito persumz e tuttavia fu così poco soddisfatto di aver saputo corrispondere alla fiducia in lui riposta, che dopo avere scritto ottave tassesche e montiane, vi aggiunse un

Inno in settenari, e una preghiera in prosa, e una meditazione in strofe anarime di cinque endecasillabi e di artificiosa musicalità. Più schietti mi sembrano i settenari, perché Tommaseo contrappone l’immagine del suo Michele a un Lucifero storico, al satanismo byroniano, e ne fa un vero arcangelo della Restaurazione che combatte contro « il pensier di Satana » armato « a debellar l'Eterno ». Un arcangelo che, come Tommaseo, ha scelto 89

senza esitare il suo posto di combattente (« l’ardor de’ cieli, e il baratro / del male a te s’aprio: / forte chiamasti a scegliere / tutti, fra il nulla e

Dio ») e si rivela senza dubbi per l’esito di una lotta che non può conoscere sconfitte per i credenti. Ma gli altri versi sacri di questa parte quarta dedicati alla Vergine, ai Santi, ai Morti, alle Ceneri e ai Beati, sono veri e propri esercizi spirituali, talvolta concepiti a prova e insieme a correzione di altri poeti (Pindemonte, Leopardi): come i quinari Alla Vergine e gli endecasillabi I Sarti, inno ai santi padri cristiani da Agostino a Spiridione, dal Nepomuceno a Cecilia ai « patriarchi d’Italia mia », Benedetto e Francesco. Se vogliamo ritrovare il poeta dobbiamo cercarlo in un’altra lirica Alla Vergine (1843), evocata in un atteggiamento di morbida nostalgia nell'anima profonda: Ma ti vincea talora, o desolata, il desiderio dell'amato volto; e confusa col popolo frequente, come una sconosciuta, l’aspettavi a lungo, un raggio di quel sol chiedendo, tu, di quel sole benedetta aurora.

Su antichi motivi di lauda trascorre l’unzione di una pietà musicale da oratorio barocco, che si spegne nella sfinita melodia della preghiera romantica. È la bellezza della fede che sedusse Byron e Carducci: Ave, Maria. Noi ti preghiam gementi dell’altrui colpa, e della nostra stanchi. Per gl’infelici a cui la roba manca, di’, volta al tuo Figliuol: « non hanno pane ». Per gl’infelici a cui par poco Iddio, dì, vòlta al tuo diletto: « amor non hanno ».

Talvolta si tratta di estetismo cristiano che scade a « solletico di pietà » (come l’ha chiamato egli stesso nel titolo di un sonetto anacreontico) e si « tempera in sillabe canore ». Ma l’ambiguo volto del sentimento religioso di Tommaseo conosce non pochi momenti di fervore autentico. E se salmodieggiava come il santo re David, gli è perché aveva in comune con lui oltre « il gran gusto » (come lo chiama lo sfacciato Belli), anche l’amore della poesia e della musica e l’incrollabile fede nella salvezza (vedi Pe’ morti: « Il fango m'è padre, / la polve consorte: / ma Cristo è possente; / chi l’ama, non muor. / Distendi al giacente / le man che, risorte, / d’abisso le porte / spezzaron, Signor.») Una forza nuova egli sentiva derivargli da un’altra fonte spirituale. Vedi i versi I/ perdono dei defunti ai viventi, una canzone dove egli recitò ancora una volta, esplicitamente, il 90

suo singolare atto di fede in se stesso, nella sua missione e quasi santità di peccatore esemplare per gli altri: E in quant’'anime, o Dio, lasciai di colpa, anco leggier, ferita; possa l’esempio mio in tante, e più, salda rifar la vita. Pregovi a ciò d’aita, cari defunti, e scenda il vostro amor su noi, comune ammenda.

Questo culto di sé apparirebbe singolare se il Tommaseo non lo fondasse in un più ampio misticismo palingenetico. Si leggano i bellissimi settenari finali che sostanzialmente concludono la poesia di questa quarta parte (le ottave seguenti [I Beati e Ancora i Beati] son corollari ch'egli vuol darci per grazia, epilogo e prologo alla vita dell’universo celebrata nella quinta e ultima parte): Ascenderà dal cenere la fiamma del pensiero. Alba alle umane tenebre, o morte, è ‘1 tuo mistero. Cadon le foglie, e florida s'innoverà la pianta. Muta l’uccel le gracili penne, e rivola e canta. Lascia le vesti povere sull’arenosa sponda il giovanetto, e a tergersi va nuotator nell’onda. I firmamenti invecchiano, mutansi come un velo. Ha le sue morti, e germina rinnovellato, il cielo.

Con i versi I/ zzattino (1853) che apre Îa parte finale, ringraziamento al Signore per il creato, ispitato al salmo 103 di David, si chiarisce l’analogia tra le partizioni di questa raccolta e quella delle traduzioni dei salmi, anch’esse divise allo stesso modo. Questo è da ricordare perché, sottolineando certe derivazioni dal primo atto del Faust in questa lirica, non dobbiamo trascurare che lo spirito religioso del Tommaseo è ben diverso. Ci ravvolgiamo nell’ambito rituale di una concezione affine, se mai, al miSì

sticismo di Shelley (« ogni novello dì rinnova il mondo ») e ascendiamo nella consueta retorica paradisiaca con rinnovate esclamazioni alle eterne vicende del cuore umano (« Quanto son lunghi i giorni a chi desìa! / Come lunghi a chi pena! »... « Infinita al dolor l’ora notturna! »), con inviti parenetici alla sociale compassione, che ci lasciano alquanto freddi nel loro enunciato fatto di buona volontà e di scrupolo a non trascurare gli esseri più dimenticati: l’ignota vittima degli zar o « un re che minacciando trema », a cui si aggiungono

nell’altro

(Il nuov’anno:

canto

1843),

«il

mercenario infermo », il « soldato senza gloria incanutito », il minatore e lo schiavo negro (« Piangi, cuor mio del cavator sotterra / la travagliosa notte, e del percosso / negro le strida acute e l’agonia »). Ma non si tratta di un contenuto serio che investa profondamente l’anima del poeta. L’elegia sannazzariana dell’omzis terra sepulchrum emerge alla sua coscienza cristiana per convertirsi nell’inno alla trasformazione e ascensione perenne della vita universale: Muoiono,

o terra,

e muta

non

li divori;

compianti e sulle

a mille,

ignote

ossa germoglia il fior, mormoran l’acque. Volo è la morte. E ciò che al senso pigro quiete

sembra,

è brulicar

[...]

latente

degli atomi che amor arde e ricrea. Più che di raggi il dì, fitto è di vite lo spazio: e i regni de’ viventi ascendono, gradi sublimi dell’altar di Dio.

Il poeta ritorna ai temi dei tentativi ditirambici giovanili, col desiderio di recuperare «le innocenti antiche gioie » della sua giovinezza, e convertire in poesia quella prosa liricheggiante che lusingava e commoveva la sua cecità: il mare, la luce, i colori, le forme, i corpi, le voci, gli aliti delle cose, l’ineffabile « concento » di quella natura che egli rimpiangeva di non avere abbracciato coi suoi sguardi. Leggeva libri di scienza, il Cosmo di Humboldt, o trattati di « embriogenia ». Ma non l’entusiasmo per la scienza, sibbene un dispregio fideista per le piccole menti degli scienziati senza principî (cioè, senza i suoi principî) lo facevano tornare polemicamente al suo cosmo libresco e cartaceo, al suo seminario di immagini. Ovviamente, inevitabilmente i rigurgiti della più vieta retorica si mescolano a lampi di ricercate scoperte, in una pullulante inventiva che ormai si era arricchita con decenni di esercizi. Si vedano le ottave A/ mare (1851), che terminano con un’abbagliante personificazione, e l’onda sonora del verso si rifrange gratuitamente sul significato e sul contesto: De

[...] Voce di Dio sull’acque. Il tuono echeggia di nube in nube, il ciel lampeggia e l’onda. Volvesi il fiotto audace, e rumoreggia, come a vento autunnal selva profonda: e, qual masso che rotola e si scheggia, rompe superbo, e alla scogliosa sponda manda un confuso suon d’ira e di pianto; furor ne’ baci, e gemito nel canto. [...] Mille miglia lontano al monte aprico i suoi vapori invia, messaggi fidi: l’acque del monte al generoso amico corron, cercando i desiati lidi. Tu, pacier prepotente, e pio nemico, stringi le umane genti e le dividi. La

bella

Libertà,

che

esule quindi e nuda

sul mar

nacque,

erra per l’acque.

Si comprende perché il Carducci e il D'Annunzio (lasciando volentieri al Tommaseo qualche ingegnoso pensiero di devozione nelle strofe più artificiate) abbiano guardato con interesse a questo « lavor di secol molto » che obliterava i momenti più splendidi del vecchio Monti, senza le irreparabili cadute in cui la sua retorica miseramente involgariva. Anzi I colori tommaseiani potevano aspirare a posteri ammiratori e poeti ben più lontani, qui preconizzati vagamente: [...]

Queste son

Ma

cifre

ch’esultano mistiche,

nell’occhio ardenti,

attonito,

ignote.

Ah quanti secoli anzi che il pargolo discerna e còmpiti le fitte note! i tardi posteri sapranno intessere di raggi e simboli nuove parole, il non dicibile pensier dipingere, scriver la splendida lingua del sole.

[...]

Ma di quanto il Tommaseo si infutura, di tanto s’invètera. E mentre il lettore va incontro fiducioso ai suoi « spiriti » per vedere finalmente incarnarsi e determinarsi i « gemelli alati messagger dell’anima » (cfr. Le forme), ecco balenare agli « occhi arguti » del poeta lo spettro rifranto delle sonorità e delle freddure barocche. Ed ecco le « vive morti » dei Contagii, con quelle ottave da cavalier Marino sorpreso di non divertita maraviglia alla sofferta esperienza di una « gallica tabe »: 93

Son vive morti. Ed esso l’uom dell’alito e de’ baci a sé le o per le vie, ne’ cui segreti la virtù generante, entro le

col sorso inspira, ha corso tira,

Vien col contatto, col respir, col morso la turba ostile, e in sé ferve e rigira:

la vita assal ne’ centri, e di lì poscia spande brividi, ardor, letargo, angoscia.

Ed ecco certe goffaggini degne di Prati, a cui sfociano le Correnti della vita: « Aura ad aura e moto a moto / quasi in vortice si mesce; / poi, com’uom ch’emerge a nuoto, / a sua via ciascun riesce, / tende l’ali, e va diretto / come palla di moschetto, / come penna di pensier.» Ma sarebbe ingiusto insistere su questi e moltissimi altri aspetti negativi di questi esercizi di scrittura, che un lettore educato anche lui in seminario (Francesco Flora) mal esaltò, soggiacendo a non plausibili entusiasmi per la verbosa e morbosa acrisia sperimentale del Tommaseo. Non seguiamolo dunque nelle sue fallite ambizioni di innalzare nuove scale di Giacobbe, Scale di viventi, di « aperte e di latenti vite / varie, pugnanti, e in un concetto ordite ». Ma prima che egli giunga a coronare l’architettura del suo poema di frammenti, lasciando la parola al « mistico segno » dei Corpi, e a tutta la Creazione e Redenzione diffusa, che egli suggella con mistica alienazione estetica (« Sacra, da’ tuoi profondi, / natura, esulta; e dite un inno, o mondi »), egli ha avuto modo di cantare almeno in due liriche i risultati supremi di tutto il libro: e da sole esse basterebbero a

definire l’individualità poetica e la statura dello scrittore. La più avanzata negli anni, La luce (1851) canta in una forma metrica originale, con una

levità di accenti rara, la fusione e corrispondenza dei suoni e dei profumi e della luce: la scelta dei settenari sdruccioli anarimi è delicatissima, e se il commiato fosse stato così discreto com'è l’inizio, avremmo

vero una cosa perfetta: Di’, sei tu forse un alito che,

del

volar

nell’impeto,

liete le stelle vergini dal dolce labbro spirano? Sei tu fragranza, in atomi diffusa, i cieli ad empiere, come l’odor di varia ghirlanda in casto talamo? Armonioso fremito, luce, tu sei, che rapido

94

avuto dav-

per l’universo pènetri in rivi, in onde, in vortici. Le cose al sol rispondono, come toccata cètera sveglia l’interno tremito SOttoMoRimanschellieccitasn

[...]

Mi]

L’altra (forse il suo capolavoro) è la sola poesia delle Confessioni parigine lasciata qui con tutta la dedica « A giovane donna ». È la famosa ode saffica Armzonia delle cose che, anche dopo il 1835, resta « in prima linea » tra quante il Tommaseo

ne avesse scritte mai:

come accortamente

s’'avvide il Capponi, il quale non commise l'errore del Poerio, maseo dell’autore, a sospettarvi un eretico sentore di Goethe. senza volerlo, un alto elogio per questo poeta che di Goethe poche cose e in ogni caso respingeva a buon diritto la qualifica teismo » (ripetuta poi distrattamente anche dal Croce): Quanto

tratto

vincea

d’acque

l'aura

che

reca

di ciel,

quanto,

e di terre

più TomMa era, conosceva di « pan-

o diletta,

impedimento

a me della tua schietta voce il concento?

Di che pianeta, o di che fonte arcana move, e per quanti error’ balza e si frange il raggio ch’entro una pupilla umana sorride o piange? E il calor ch’esce di due alme unite in un amplesso generoso e pio, in quant’aria si fuse, in quante vite corse e svanìo? Quanti moti un sol moto, e quanti adduce una sola cagion diversi effetti! piena di preghi è l’armonia, la luce piena d’affetti.

La prima redazione diceva « doloroso e pio » e « piena di baci »: « generoso » e « preghi » sono i soli emendamenti inopportuni tra i ritocchi definitivi: Una voi,

materia in varii modi ordita zefiri, produsse, e voi, ruscelli:

spira da un solo amor

la vostra

vita,

fiori ed uccelli.

95

E tutto

vive;

e quel che morte

al mondo

appare, è sogno de’ nost’occhi infermi. Un sereno, instancabile, profondo spirto i suoi germi sparge nel giro delle sfere ardenti, posa nel seno delle tombe oscure. E nulla cosa è vil; tutte possenti, tutte son pure.

Fervid’acqua di stagno in alta neve biancheggia: umida terra è fior gentile; cenere

e terra,

o giovanetta,

è ’l breve

tuo casto aprile. Forse quest’aura, che le smorte foglie lieve baciando erra su me, rapìo alcun de’ germi che fùr già le spoglie del padre mio. L’aura notturna all’esule mendico porta i sospiri che la madre pia, o la diletta memore, o l’amico fidotslsviafgtioà] In ogn’istante è un’infinita ampiezza d’anni: ogni spazio è l’universo intero. Il buio è luce, è l’umiltate altezza: tutto è mistero.

Mai come nei sobri perfezionamenti e nella difesa dalle censure di Poerio, Tommaseo mostrò tanta consapevolezza della sua concezione che nella seconda strofa voleva « indicare la comunione delle cose » e nella sesta la sua « credenza », cioè « tutta la materia essere spirito o simbolo di spirito ». Credenza fatta sua certamente, ma che risaliva alla quindicesima delle Réflexions diverses di Ballanche, uno dei primi formulatori del simbolismo romantico: « Tout est symbole, et ceci explique l’immortalité, la vie future. Notre vie est symbolique. La poésie et les arts, comme la vie, sont symboliques; et c’est è ce caractère symbolique, qui est leur essence, qu’est due l’immortalité de leurs ceuvres... ». Nei limiti di tanto moralismo edificante e vaticinante, nonostante gli arretramenti retorici, nonostante la persistente ricerca e varietà di maniere, il Tommaseo dimostrò nei suoi versi una particolare capacità (che lo mette avanti a tanti altri poeti italiani fra il ’30 e il ’70) di cogliere le istanze nuove della poesia moderna, quelle nelle quali confluiva una delle correnti romantiche più torbide e vorticose. Dalla periferia, egli aveva saputo accostarsi al flusso vitale del movimento letterario europeo, che pervenne fino a Baudelaire, ma che ebbe apporti notevoli dal Sainte-Beuve

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(così caro al simbolista Pierre Leroux), da Victor Hugo, dai laghisti inglesi (Wordsworth e Shelley), scrittori che presentano tante affinità di poetica e di oratoria col nostro artefice, pur nelle originali forme di poesia. Con la consapevolezza che abbiamo chiarito, di supercristiano e di superromantico, egli si colloca all’inizio del decadentismo italiano, e per questo ne esprime solo alcune ma ben precise caratteristiche provinciali, eticoestetiche, rintracciabili tra i nostri scapigliati e bizantini, minori e maggiori. 1969

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I

|

1

he

ALESSANDRO

POERIO

Quando si pensa ai napoletani del ’48, che accorsero a combattere contro ‘gli austriaci e, unitisi ai veneziani, caddero in difesa della Repubblica cittadina, pienamente consci del significato italiano e unitario di quella lotta, uno soprattutto ritorna alla mente: quell’affettuoso, ma ben altro che popolare scrittore che fu Alessandro Poerio. Aveva quarantasei anni, quando morì (il 3 novembre ’48). Eppure le circostanze della sua morte, quasi le stesse in cui si sacrificò Mameli, lo circonfondono di una luce giovanile. Da Settembrini a Croce una tradizione deformante ce lo ha consegnato in mezzo ai numerosi e valorosi componenti di una nobile famiglia di patrioti, pur tanto diversi da lui: liberali, ma costituzionalmente moderati. E il paragone coi vicini suoi grandi, ch’egli amò di equanime amicizia, Leopardi e Tommaseo, lo ha troppo diminuito e messo in ombra. Sicché è restato, come uomo e come poeta, nei limiti dei suoi versi, che (egli

diceva a ventiquattr’anni) « somigliano a de’ bassorilievi; non esprimono tutte le forme, non intagliano tutti i contorni e l’individualità sfugge loro ». Questo gusto autocritico tanto severo, l’ebbe sempre. E non abbondandogli la vena profonda del genio, finì per raggelarsi in un sofferto equilibrio tra umiltà e orgoglio, nel quale diceva consistere la giusta misura di una umana dignità. Ma era anche macerazione e mortificazione da cui non valeva a sollevarlo la sua stessa fede cristiana. Gli ultimi anni della sua vita trascorsero a Napoli lunghi e travagliati da un « angoscioso languore di corpo e spirito ». Dileguati i sogni rivoluzionari, che gli si erano accesi a Parigi, dopo le giornate del ’30, sconfortato da una vicenda passionale (dove il nobilesco disdegno dei suoi congiunti ha vietato ai biografi di penetrare) viveva coadiuvando il padre nel suo studio di avvocato, lontano dagli ambienti

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più vivi e più giovani, e poco partecipe all’attività cospiratrice del fratello Carlo, col quale il dissenso ideologico doveva essere profondo, nonostante la somiglianza di tempra morale delle loro personalità, « signoreggiate dal concetto del dovere ». Lo attesta il nipote Vittorio Imbriani: « Davan con semplicità vita e tutto. Nulla, in que’ due petti virili (spesso anche discrepanti) del ciarlatano politico e dell’avventuriero ». Ma il celeste veleno dell’arcadia meridionale, donde gli sembrava talora d’esser soffocato, non aveva inaridito nel suo cuore le ragioni profonde per cui aveva conquistato una fede. E bastò la visita di Giuseppe Montanelli, in occasione del Congresso degli scienziati, nel ’45, per confortarlo nelle segrete e vaghe speranze. Così, quando il 23 aprile del ’48 il suo Tommaseo gli rivolse da Venezia il famoso appello (« non vi parlo di versi, né d’ombre o d’acque, vi parlo d’un vapore di guerra che ci fa di bisogno »), si sentì chiamato al suo destino, e s’imbarcò con le truppe agli ordini del generale Guglielmo Pepe, « l’uomo delle tre rivoluzioni », il discepolo prediletto di Vincenzio Russo. Precocemente invecchiato, miope e un po’ sordo, gli parve rivivere i suoi diciott’anni, quando aveva combattuto a Rieti e a Salerno in difesa della Costituzione del ’20 contro l’esercito della Santa Alleanza (e ciò gli era valso quindici anni di esilio). Ma alla madre scriveva, semplicemente,

che era lieto di sciogliere il suo « debito verso la patria ». Obbediva alla voce della coscienza, che gli aveva ispirato certi suoi versi rimasti quasi clandestini, quei versi che prima di Mameli esortavano gl’italiani al « Risorgimento »: Si pugni, si muoia; dei prodi caduti l'estremo

sospir,

con Fede saluti la libera gioia del patrio avvenir.

Fede religiosa e avvenire democratico dell’Italia erano diventate per Poerio una sola cosa, allorché in Francia, sotto la suggestione potente' del Tommaseo, egli aveva maturata la sua conversione. Ma (e questo è il punto essenziale, se si vuol comprendere la sua personalità e il distacco dal liberalismo juste milieu della sua famiglia), questa conversione avveniva nella frequenza degli ambienti parigini del cattolicesimo di sinistra, più o meno ereticale e politicamente sospetto a Santa Romana Chiesa: cioè tra SaintSimon e Lamennais. Era l’inverno fra il ’34 e il ’35, allorché il Tommaseo (come si ricava dal suo diario) visitava Blanc e Leroux, s’interessava ai fa100

lansterii, frequentava le lezioni del Buchez e scriveva i suoi libri Dell’Italia,

una specie di anti-Mazzini dove con espliciti richiami a Platone e a Savonarola, a Campanella e Saint-Simon, si profetizzava l’abolizione della proprietà e il possesso dei beni ridotto « a mero esercizio e educazione delle individuali e civili facoltà ». Nel Poerio, appassionato sin dalla sua giovinezza ai problemi ideologici ed esperto del pensiero liberale della Restaurazione da Guizot a Sismondi a Thierry, le tracce di questo socialismo utopista sono ben visibili, nonostante la parziale e mutilata pubblicazione delle sue carte. Leggete l'ode a Giovanni Stefani, primo editore dei suoi versi. Che ingenuità e vigore di sdegno contro la Parigi dei Rotschild e dei Laffitte (i banchieri « liberali » bollati a fuoco da Marx)! Odio del lucro il gelido furor ch'è in questi petti...

« Sordida corruttela » e. « abietto servire » gli si svelavano l’edificio costituzionale della monarchia di Luglio:

dietro

A che le leggi provvide e il frequente

Senato,

e di suffragi gravide l’urne, e il pensiero armato, e la parola

libera,

e la comun Città, se desiderio ed ultimo fine agl’ingegni è l’oro, se qui l’un l’altro còmpera...?

E, più esplicitamente, nelle terzine a Tommaso Campanella rappresentava il frate rivoluzionario che, anelante in carcere ai « cari lidi di Calabria » e agli splendori della libera natura, più la miseria dell’uman servaggio sentiva, e gli parea che il soffrir nostro fosse a Natura, a Provvidenza oltraggio.

Solo « nei forti figli della Fatica », cioè nei lavoratori, e nei sacerdoti nutriti di autentica fede cristiana, sembrava a Poerio che il filosofo della Città del Sole riconoscesse una potenza di giustizia rinnovatrice, « L’ira del dolor che crebbe — secreta, e fia salute a’ dì venturi ». Che altro era questa se non l’utopia del cattolicismo « socialista » di Tommaseo e di Mon101

tanelli: uno dei tanti sogni romantici prima del ’48, pome che l’appello del Manifesto venisse a svegliare la gente? Alla luce di questi versi, si comprende meglio il carteggio di.Alessan: dro, da Venezia, con la madre e col fratello. Lo informavano i suoi egregi e nobili congiunti della caotica situazione napoletana, dopo il. 15 maggio, e della insurrezione in Calabria, dove i Poerio avevano le loro terre. E la signora baronessa raccontava al figlio come i contadini avessero occupato le masserie, come i coloni non pagassero più'i fitti, e che insomma il comunismo era alle porte. Lei, nonostante le apprensioni per Carlo e per Alessandro, si era ingrassata tanto che quasi le « dava fastidio », e si domandava, superstiziosa, se questo fosse un buono o cattivo segno.:Ma sperava tanto nell’ordine. E infatti « l’ordine borghese » arrivava dovunque in Europa; in CÈ labria come a Parigi, di pari passo. Col passo di carica dei soldati di Cavaignac e di Nunziante. Il che era certo molto doloroso, anche per i liberali onesti e sinceri come i baroni Poerio. Alessandro, tutto preso dal fervore della lotta popolare di Venezia, non condivideva le recriminazioni di mammà (« aveva ragione Monsieur Guizot! »). E non concordava col fratello nel giudicare l’insurrezione calabrese e la condotta dell’opposizione liberale a Napoli. Gli pareva assurdo ed astratto quel legalitarismo del fratello, che voleva rispettare le « regole del gioco », con un re come Ferdinando II. « Era cosa più saggia (scriveva a Carlo) il tenersi dal canto degl’insorti e tentar di propagare il moto nelle altre Province ». Sì, era « deplorabile » che si commettessero « eccessi contro le proprietà private », ed egli era « inquieto » per il Mezzogiorno. Ma le sue inquietudini non erano quelle del fratello e dei liberali moderati. « Fin dal principio io aveva compreso tuttala contraddizione che v'era da noi tra il guasto prodotto da una lunga servitù, ed i tempi rapidi e grossi ed anelanti a piena libertà. Chi crede per altro ‘che.si possa tornare indietro, s’'inganna a partito. Questo è moto europeo ». Dell’uomo che moriva a Venezia, sognando « la piena libertà » per gli uomini; dello scrittore, che proteso verso tempi nuovi, cantava in un tono quasi messianico, da « socialista » cristiano x

(Ma il dolor nostro è simbolo di tarda età caduca, ma i tempi si consumano, ma forza è che riluca sulla futura gente siccome su potente promessa un nuovo Sol...),

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di questo Alessandro Poerio, Benedetto Croce è riuscito ad affermare che fosse « davvero un poeta del presente e non dell’avvenire ». Davvero? Dio ti scampi (augurava quel santo proverbio napoletano) « da malo vicino e da bugia d’uomo dabbene ».

1948

103

i

GOFFREDO MAMELI: IL POETA DEL QUARANTOTTO

A proposito dei primi versi di Goffredo Mameli è memorabile la tirata polemica di Giosuè Carducci contro la poesia idealistica della seconda generazione romantica che « qualunque ne fossero le origini e gl’intenti primi, in paesi come erano allora l’Italia e la Germania, senza uno sfogo nella vita esterna, senza un attrito sociale, ben presto astrasse dal vero, rigettò ogni reale e, proclamata l’assoluta superiorità della poesia alla vita, l’assoluta indipendenza della fantasia e la sola esistenza incondizionata del fantastico, si smarrì e fece smarrire molti nobili ingegni tra i vapori acri di un idealismo snervante e di un malaticcio egoismo, tra le fredde ebrietà di un misticismo colorato di morbidezze sensuali, tra le fantasmagorie di un mondo impossibile, di un medioevo e di un oriente non esistiti mai ». Un’arte insomma non di « generazioni sane », che « rispondeva purtroppo alle condizioni sociali e politiche del nostro paese » !. Ebbene, che Goffredo Mameli fosse, come scrittore e come uomo, tra coloro che si salvarono da quell’oppiacea esperienza, esalante sotto le vaporose forme di moda proprio dal « gran marcio » dell’antica corruttela italiana, non fu. un caso: fu una conquista della purissima volontà di un giovane che imparò a frequentare la migliore tradizione letteraria dei suoi tempi, e seppe incontrarsi con l’anima generosa del popolo, quando esso fece sentire la prima volta la sua voce di nazione, insieme a quella parte più coraggiosa della borghesia non atterrita dall’89 e aspirante all’unità, all'indipendenza e a una determinata concezione della libertà d’Italia. Pensate: un linfatico rampollo di famiglia patrizia (anche se repub-

1 CARDUCCI,

Opere, ed. naz., XVIIII, pp. 366 sgg.

blicana e antisabauda per tradizioni municipali) che si schiererà a sinistra di Mazzini e cadrà nella difesa di Roma, aiutante di campo agli ordini di Garibaldi; un discepolo delle Scuole Pie, che da princeps juventutis in retorica balzerà poi alla testa dei giovani rivoluzionari italiani, vate popolare del Risorgimento! Fu una vita, la sua, così folgorante da parere senza sviluppo. E invece in quel suo correre alla morte e alla gloria, la crisi ch’egli ebbe verso i diciott’anni (il « periodo più oscuro » dicono i biografi) segnò una frattura interiore che fa storia, perché conclude un’esistenza effimera, confondibile con quella di una qualsiasi giovinezza « romantica » e dà luogo ai tre o quattro anni in cui egli ardentemente « visse la sua vera vita », cioè la vita per la democrazia italiana ?. Malaticcio, era andato a scuola dagli Scolopi solo a dodici anni, dopo essere stato in crociera col babbo su una nave da guerra. La mamma, amica d’infanzia del Mazzini, gli aveva appreso i primi elementi e aveva dato al suo carattere un’impronta di gentile fierezza. Ma anche tra i maestri, Mameli ebbe la fortuna di trovare un padre Muraglia, che da buon manzoniano era avversario acerrimo dei gesuiti, e d’idee progressiste tanto in politica quanto in letteratura. Così poté degnamente completare la liberale educazione di casa sua e rivelare fin dalle prime composizioni di scuola, a tredici anni, il suo estro precoce. Documento di quelle sue prime esercitazioni di maniera su temi « storici » è l’ode su Gian Luigi Fieschi seppellito dalla moglie. Fu pubblicata nel 1841 con qualche ritocco di Michele Giuseppe Canale, un amico di famiglia che dovette iniziare Goffredo al culto della storia genovese e fu poi il suo primo biografo. Ai quattordici anni del poeta si può forse ascrivere quella specie di dichiarazione in ottave intitolata L’arzore, se ad essa si riferisce (come credo assai probabile) la sua lettera al Canale del 13 aprile 1842: « Ma il non avere l’anima

adatta a fare proteste ed espansioni non è sinonimo fredda e insensibile. Olindo sentiva così l’affetto, che ficargli la vita; e pure non aveva mai detto a Sofronia, “ Ma bando a siffatti discorsi; ci son così poco adatto, duto

nel sentimentale,

mici ».

nel platonico,



miei

di avere un’anima era pronto a sacriio ti voglio bene ”. che terzo esser ca-

eternamente

acerrimi

ne-

Altri versi il Mameli dovette comporre in quella sognante astrazione dell'adolescenza; ma non si possono datare con sicurezza. (Le date e gli stessi testi offrono temi piuttosto problematici a una ricerca interessante,

? Oltre le biografie e i ricordi del Canale, del Mazzini, ecc. sono fondamentali le edizioni delle Opere di Mameli, curate dal Barrili, e dal Codignola, ricche di appendici documentarie assai utili.

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ma non in questa sede).* Si sa che egli ritornò sui suoi versi più immaturi, li corresse, ve ne aggiunse altri: ma tra vecchio e nuovo si tratta sempre,

in complesso, di povere cose, dove l’imparaticcio dello stile e l’imprecisione del discorso permettono a stento d’indovinare la verità sentimentale, che pur s’intravvede nascosta in quel frasario. Un grande amore s'era acceso nell’animo di Goffredo per la marchesina Camilla Pinelli, e si avvicinavano i giorni della sua più disperata infelicità. Agli inizi dei suoi studi universitari, tra il marzo del ’44 e il novembre del ’45, il suo nome

non

appare tra i registri di presenza. Che cosa era accaduto? Scolaro turbolento e sovversivo era stato sospeso più volte, ma per brevi periodi. Questa lunga assenza è rimasta un po’ oscura nei suoi motivi. L’amore? La politica? La salute? O tutte e tre le cose insieme? Comunque è documentato che il padre fece reiterate, ma inutili istanze a Carlo Alberto per avviare Goffredo a una più celere carriera di ufficiale dell’esercito. E non è improbabile ch’egli sia stato allontanato da Genova ed esiliato per qualche tempo nel collegio dove studiava il fratello. Da ricordi di famiglia sappiamo che Goffredo pensava di farsi missionario e che da questi improvvisi ideali religiosi passò poi a una vera febbre di mondanità: tra l’altro, vagheggiava di far l’attore. In questo periodo di tremende incertezze si può comprendere come la letteratura abbia sollecitato più che mai la sua fantasia. Basta dare un’occhiata ai suoi quaderni di appunti del ’45 per vedere come nelle letture più diverse egli cercasse inquietamente se stesso, la sua vita. Imitava Moore e Byron, traduceva da Hugo e dalla Bibbia. Leggeva Lamartine e i Fatti di Enea, Foscolo e Sue, Seneca e George Sand,

Gioberti e Leopardi, Castiglione e Parini, Guerrazzi e i Profeti. Ma ideologicamente non lo trovi incerto: le sue opinioni giacobine sono dichiarate. Crede, per esempio, assurdo che Gioberti, pur affermando che « quando in un'istituzione umana si è insinuato un vizio capitale, non si può ripararvi » (Del buono, cap. IV, pag. 222), non abbia osservata « una chiarissima analogia, se non identicità » col potere temporale della Chiesa. E trascrive dall’orazione di Foscolo a Napoleone l'esaltazione del ghibeliinismo, come unica via, ai tempi di Dante, per sottrarre l’Italia « alla tirannide fraudolenta dei papi ».8 Se compotrà dei versi politici, pur 3 Nell’edizione delle Poesie, curata dal Mannucci (Torino, 1927) è accettata di solito la cronologia tradizionale, che tendeva ad anticipare le date. Importanti correzioni sono state proposte dal Codignola, che ho seguito quando mi parevano ragionevoli e fondate. Per il testo non esiste una lezione critica. Il Codignola, dando in calce le numerose varianti, più che risolvere i problemi, ne fa sentire l'esigenza. In genere mi attengo alla sua lezione, rammodernando la. punteggiatura. 4 Scritti ed inediti, ed. Barrili, pp. 283-284.

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non riuscendo a trovare un linguaggio suo, si ispirerà a un fatto che aveva commosso mezza Italia e non poteva non trovare nel suo animo una risonanza profonda: l’impresa eroica e sfortunata dei fratelli Bandiera, che in quegli anni di plumbea depressione avevano sacrificato la loro vita a un ideale quasi assurdo, senza speranza. Presso dei sacri ceneri seduti sugli avelli un mesto canto a sciogliere stringiamoci, o fratelli... Oggi fa l’anno i martiri vider l’estremo giorno; e invendicate l’anime vaganci ancora intorno... Ah,

della mesta

istoria

a voi non giunse il grido; dei morti per l’Italia di Napoli sul lido...

Mameli riecheggiava malamente i modi dell’arcadia carbonara di Gabriele Rossetti; così come nella cantica montiana La battaglia di Marengo trovava pretesto nell’esaltazione di Bonaparte e della Cisalpina per esprimere il suo odio italiano contro «il turpe Alemanno ». Retorica? D’accordo. Eppure a fargli sentire i problemi dello stile fu proprio uno di quei

retori neoclassici che avevano riscattato l’eloquenza mento dei seminari per trasformarla in uno strumento conte Jacopo Sanvitale di Parma, che già famoso per tordici mesi di carcere per quattordici versi in rime

dal secolare avvilidi progresso. Fu il avere scontato quat« bislacche » contro

Napoleone, ed esule in Francia dopo i moti del ’31, aveva avuto la possi-

bilità di un breve soggiorno in patria e si era fermato a Genova come precettore e poi come direttore della Biblioteca Civica. Il conte parmigiano non ha lasciato tracce di sé tranne che nell’aneddotica letteraria: fu un virtuoso della metrica, superstite al tecnicismo settecentesco e così fiducioso nella potenza apollinea, da verseggiare nientemeno che un poema

sullo spiritismo! Che il Mameli sia stato in rapporti con lui non è solo asserzione di biografi, ma accertata derivazione nel gusto di certi metri inusitati e, per esempio, dall’ode La Nostalgia, che ‘il Sanvitale compose in esilio nel °38 e che si può leggere ancora in qualche vecchio manuale. pae Vedi per es. Bacci e D'Ancona, Manuale, V, pp. 234 sgg. Oltre le notizie biografiche sul Sanvitale. che qui. si leggono, vedi A. RònpANI, Saggi di critiche letterarie, pp. 3 sgg., dove è riferito il giudizio del Tommaseo sul Sanvitale.

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Mameli esemplò su quell’ode non solo una sua traduzione da Giobbe, ma anche alcuni versi del poemètto polimetrico Il giovane crociato. Ed è assai probabile che proprio il Sanvitale, assai stimato dal Tommaseo, abbia fatto conoscere a Mameli i recenti libri del dàlmata, le Confessioni e Fede e Bellezza. Queste due novità parigine del romanticismo italiano,° avremo occasione di documentarlo, assai più dei versi del Prati, orientarono il giovane scrittore al gusto del verso « numeroso », al cantar risentito e vibrante di moralità, a un gusto cioè ben lontano dall’efusione atteggiata e melodrammatica. Vediamo per esempio nel Sogno della vergine (che il Pascoli non disdegnò di imitare) composto in due tempi nel ’43 e nel ’45. I versi più vecchi sono quelli rimati: Ei giunse; al seno stringelo, e i palpiti confonde del cor commosso ai palpiti d’un cor che al suo risponde. L’innamorata vergine parla con voce anela, e nelle care braccia la bella fronte

cela.

Andiamo a leggere gli sciolti, aggiunti due anni dopo al principio e alla fine, per comporre il polimetro: ... Oh, chi ti vide il roseo volto serenar d’un riso, e il riso nol credette con cui Dio

fa eternamente

gli angeli beati.

Di mezzo c’è stata la lettura degli endecasillabi tommaseiani, che nei versi A/ padre, nelle Memorie sparse e in quelli A Giorgio Sand aveva analizzato i pensieri della « pura vergine Deserta del suo lieto desìo », commiserando con sensuale pietà « ai muti affanni delle figlie d’Adamo » e ai loro dolenti secreti, dove parlano « l’angelo del rimorso e del dolore ». Si può quindi spiegare come tra il femminismo romantico più generico risuonino in Mameli

accenti come

6 Le Confessioni furono Venezia nel primo volume dei Fede e Bellezza, pubblicato a dell’« esilio » in Francia. Cito

questi:

stampate a Parigi nel 1836 e poi ripubblicate a Nuovi scritti (1838) insieme con le Memorie poetiche. Venezia nel 1840, era frutto dell’esperienza letteraria le poesie dall'edizione veneziana del Gondoliere.

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... Ma, quando l’anima

si riscuote,

e nuovamente

alla vita s’affaccia, quando tutta la verità crudele ella ne sente, quell’istante le torna alla memoria siccome ai caduti angeli la vista del sorriso dei cieli...

Nella stessa ode Alla poesia, che faceva digrignare i denti al Carducci (proprio come all’orco della favola l’odore del cristianuccio), se alle angelicherie Goffredo mescola amore e dolore estetizzanti, non è perché egli abbia chiesto alla lira di Prati qualche accordo per musicare « civetterie salesiane » e « convulsioni teresiane ». In quell’inno altrettanto ingenuo quanto appassionato e contraddittorio, è ingiusto vedere niente altro che una scimmiottatura degli atteggiamenti pratiani, come poteva idoleggiarli un ragazzo provinciale delle Scuole Pie. È ben vero che nella Giovinezza del poeta il Prati aveva descritto la situazione (molto simile a quella di Mameli) del romantico eroe che, osteggiato nei suoi ideali, finisce col compiacersi della propria solitudine: Egli amerà

col palpito

d’una inesausta brama, solo, superbo e tacito.

A me maseo dove intimità di influito ben

invece sembra che la lettura dell’Esilio volontario del Toml’acre delirio di solitudine e la fuga in Dio scaturivano da una coscienza morale affatto ignota al poeta trentino, possa avere più seriamente sul Mameli: E voi che le chiavi del tempo tenete, memorie soavi di gioie segrete,

di taciti studi,

di quete virtudi, di pianto e d’amor; con l’ali librate copritemi, e scudo e verga deh siate al povero ignudo, che va pellegrino,

e il proprio destino andando

110

non

sa.

Se il cieco, o Signore, travia dal suo corso, un nuovo dolore

gl’insegni il rimorso Un

o un

acre

deliro

dolce sospiro

mia vita sarà.

Quali che possano essere ed enumerarsi le diversità di contenuto e di situazione psicologica, fra il Tommaseo e il Mameli, non mi par dubbio che il modo di lavorare la strofa e il tipo stesso di quest’ode romantica molto in voga” intorno al ’43, anche se il divulgatore più cantabile sia stato il Prati, risalgono al dàlmata che l’adoperò non solo nei senari citati sopra, ma anche in quell’ode A fanciulla ricca, particolarmente piaciuta al Mameli e imitata, con qualche variante nello schema e nel verso base, anche nelle rime di contenuto politico. Pertanto, l’ode Alla poesia, a parte il suo misticismo cattolico, mal pasticciato col panteismo byroniano e con la conclusione sensista, tra Ovidio e Parini, dal punto di vista puramente retorico ha una notevole importanza. E non senza ragione si colloca all’inizio * del canzoniere di Mameli come una specie di professione di fede nel rimare concitato e commosso, che il « giovine cantore » si propone di assumere a suo stile (e vi resterà fedele in quei due o tre anni in cui gli fu ancora concesso di scrivere versi): Vieni, e coll’aura armonica che da’ tuoi labbri evola,

sul cor l’obblio, la requie spargi; lo puoi tu sola. Vinto m’ha il fato; l’anima più non resiste; affranta, ella non basta in tanta

piena d’affanno all’empia battaglia del dolor. Vieni, o divina, o pia, inebria d’armonia il giovine cantor.

7? Vedi nei Versi inediti di G. G. Belli (Lucca, 1843), L'arrivo di Milord composto nel metro di moda (p. 50): « Qui dunque, o mia romantica — ode, o canzon di moda ». i 8 Anche le Confessioni cominciavano con una canzone dal titolo La poesia (a mio padre), nell’ediz. parigina.

CEI

È chiaro che tra Goffredo e la Poesia c'erano ancora di mezzo le « care larve dorate dell’età su4 verde ». In tutti i suoi versi fantasiosi ed elegiaci si salva ben poco e si può trascegliere appena quello che v’è di men debole per l’impronta degli affetti. Lasciamo stare la leggenda così detta « cleftica », mediocre imitazione da Carrer, lasciamo stare la romanza araba La vergine e l'amante (così poco romanza e così poco araba), e il solito ex-voto patetico alla memoria di Torquato Tasso. Erano tutte forme indirette di espressione, in cui il « giovine cantore » cadeva ancora nel suo

« eternamente acerrimo nemico », il platonismo romantico. Del quale si manifesta una traccia dichiarata nel titolo degli sciolti leopardiani Ur’idea, ma col vantaggio sugli altri versi, che c’è un tentativo di dare un corpo, voglio dire un’immagine, alle donne amate. Non credo d’ingannarmi se faccio notare un riflesso della ritrattistica di Fede e Bellezza, evidente in questa rassegna di donne (la Pinelli, una bellissima signora candiota, e la

Geronima Ferretti). Il più fuggevole di questi amori, il secondo, ha il taglio e l’inquadratura caratteristiche della prosa lirica tommaseiana: ...

E un’altra

ell’era,

greca, ed avea le chiome bionde, e gli occhi grandi e cilestri; e li volgea per uso, come chi stanco delle cose umane cerca scordarsi della terra, al cielo. Sul suo labbro l’italica favella molto

dolce

sonava;

e abbenché

la sua parola m’invogliava Io la vidi una

come

volta,

lieta,

al pianto.

e s’è svanita

un pensiero.

Ed.

una

più

di tutte...

Le altre donne ricordate in questo canto non svanirono così presto dalla fantasia di Goffredo, anzi gl’ispirarono tra tanti versi, una ballata e un epitalamio che sono due poesie d’amore tutt’altro che effimere. La Ballata fu scritta nel ’45 per la Pinelli, e il sorriso della fanciulla amata lietamente ritorna di strofa in strofa, come in una danza, e inebria il poeta sino a un breve delirio di sensuale crudeltà, subito castigato da elegiaca tenerezza: Bella dal sen di neve, bella dal crin dorato, ridi al poeta: breve ora concede il fato alle rosate immagini, ai palpiti del cor.

ET2

Il gelo del dolore presto rapisce all’anima la forza dell'amore.

Ridi al poeta: blanda fagli obliar la vita... Ridi al poeta: accanto a lui riposa il fianco, e dal suo

labbro

il canto

evolerà più franco, come

se il Dio

dei numeri

gli fecondasse il sen. Il fior dell’armonia solo l’amor solleva: egli non era, pria che il ciel negli occhi d’Eva specchiasse il bel seren.

Ridi al poeta:

oh ch'io

morda le trecce, il velo, e crederotti un Dio che mi sollevi al cielo, che mi ritorni ai facili delirii dell’amor. L’astro del viver mio

volge al tramonto,

pallido:

diede a te sola Iddio far che morente un ultimo

lampo l’avvivi ancor. Bella dal sen di neve, bella dal crin dorato...

Benché incompiuti, e qua e là imperfetti, e riecheggianti ricordi letterari (l’evolare del canto è foscoliano, e montiano è l’astro del vivere), versi d’amore così gentili, bisognerà aspettare ancora cinquant’anni perché se ne scrivano in Italia: bisognerà attendere che una musa più nitida e più vera sorrida a Pompeo Bettini. Del resto, il Mameli non sarebbe stato quel che fu, senza il patimento dei suoi limiti storici, senza il tributo alla mitologia spiritualistica del tempo. E infatti l’epitalamio A un angelo, composto per la Geronima Ferretti (che disparità di condizioni economiche strapparono al suo amore per renderla sposa infelice del marchese Stefano Giustiniani) benché s’affidi tutto ell’eloquenza di una protesta romantica, piace ancora, così com'è, « pieno di pianti e di carezze e di fremiti, di rasE)

segnazione e di sfida virile » (Carducci). Si può dire che compendi tutta l’esperienza sentimentale di Goffredo e segni insieme il distacco da essa. Perché, se egli rimpiange questo « angelo d’amore » a cui la vita non ha saputo risparmiare un crudele destino, se la consola alla rassegnazione (cedi, o gentil, resistere, Ahi tenteresti invano), non pet tanto egli vorrà

piegarsi a una società che bisogna trasformare, perché la libertà dell’amore non si arresti alle differenze sociali: La man ognun

di Dio ci separa; di noi rovina,

spinto dal proprio turbine, e per diversa china. Dove si soffre e lacrima, sarà

la tua bandiera;

la mia fra il sangue e il fremito, dove si pugna e spera rivolti all’avvenir. Pure, guerrier del Vero, t'avrò nel mio pensiero, sarai nel mio sospir. Oh,

già vicino

è il Secolo

che farà sacro il core, e quanto dolce è all'anima non tornerà in dolore. Dirà a voi pure, o povere schiave dell’uom: Sorgete! Chiamate al gran battesimo voi pur dal tempo siete, di libertà e d’amor. Splenderà al fine il sole sopra l’umana prole... Ma sarà morto il fior.

È chiaro che non si tratta affatto d’una lirica da classificare (come hanno fatto tutti i critici) tra i canti « elegiaco-sentimentali »: è un inno di speranze civili, tra i più fieri e audaci che abbia la nostra poesia ottocentesca. L’originalità dell’epitalamio, rispetto al modello tommaseiano (l'ode A fanciulla ricca, scritta per la Ortensia Capponi) consiste appunto in ciò, che l’impasto di sensualità e di moralismo talora pedantesco, la contraddittoria ricchezza di pensieri e di passioni riceve dal Tommaseo un suggello poetico tutto individuale, ma sotto un cielo cattolicamente immobile. Qui invece un moto di eloquenza ci trasporta dall’individuale dolore a quello sociale, dal presente al futuro, a un futuro e dell’individuo

114

e della società, a « un tempo di libertà e di amore interessava, tutto compreso com'era ad assaporare memorie » e a meditare in un sottile e intricato della fanciulla degno di compianto (terzo în desiri

», che al Tommaseo non « il languido bacio delle contrappunto, il destino e in tedii / perire i tuoi dolci anni) e di ammonimenti (Terzi il tuo cuore, o misera...), — e il suo destino in cui s’ammanta inorgoglito (A we solinga e povera / vita di spregi, e gl’impeti | di non compianto duol). Che cosa resta in Mameli dello spunto offertogli da questi versi del Tommaseo? Meta

ma

comune,

ben diversa

a noi segnava

o pia,

via

il ciel.

Resta quell’angelismo, quella « mano di Dio» puramente mitologica, e spiegabilissima in un assiduo lettore della Bibbia e di Lamennais: i testi onde la libertà si configurava in « religione » non soltanto nell’animo di Goffredo, ma in quello assai più misticheggiante del suo stesso maestro di azione, Giuseppe Mazzini. .

L’epitalamio A ur angelo fu scritto nel settembre del ’46. Ormai la

poetica di Mameli era già temprata e cosciente. Egli non vagheggiava più la figura del poeta, di cui parlava Byron, che sente, ama e muore, che rifiuta. di prestare il suo pensiero alle anime volgari, e compressa l’interna divinità, va a raggiungere gli astri senza aver colto l’alloro. Il Bello era per lui ormai « le beau mis en action » di cui parla Rousseau nella Nowvelle Héloise, il bello che tende a realizzare il bene in quanto il gusto si perfeziona attraverso un’alta esperienza etica. E dirà poi, infatti, abbozzando il programma di un giornale letterario, che poi non ebbe il permesso di pubblicazione, nel 1847: « Manzoni negli Inni Sacri e nelle Tragedie compie un’intera rivoluzione letteraria. Caduti i Petrarchisti e i Frugoniani, s’incomincia a comprendere che l’Arte è una forza; che non è un diletto, ma un apostolato. Però da quel momento le lettere s’informano e s’incolorano delle varie opinioni che si agitano nella grande quistione sociale; e si confondono colla politica o almeno le si appressano tanto, che da un solo punto amendue possono contemplarsi ».? La Iibertà italiana e la poesia ormai erano divenute per Goffredo una sola immagine: 9 Si vedano i « taccuini » nell’edizione citata del Barrili, pp. 300 e 308. L’articolo-programma è nello stesso volume, p. 338. Può darsi che la lettura della Nouvelle Héloise sia un riflesso delle pagine che intorno ad essa si leggono nelle Mezzorie

poetiche del Tommaseo primo

a congetturare,

(ed. cit., pp. 69-70). Il BARRILI (0p. cit., p. 16) è stato il

genericamente,

questa

derivazione.

115

Bella in volto come un angelo. come donna trista e pia, un’immago gli apparìa. Mesta come una memoria, cara come una speranza, ferma il passo, e par che mormori fra se stessa una romanza. Sparse a palme son le treccie, che le cingono di gloria il martirio e la vittoria. V’è chi dice che da secoli ella gira l’universo; or la spada al fianco pendegli, or sul labbro

ha dolce

il verso;

volto in alto ha sempre l'occhio, corre sempre alla sua meta, or guerriera ed or poeta.

Dove erano più le incertezze e gli sconfotti, e la rassegnazione che inevitabilmente avvilisce l’anima nei momenti di debolezza? Il ’46 era per ogni genovese memore una data illustre: era l’anno secolare dell’indipendenza, della cacciata degli Austriaci. E quando nella primavera di quell’anno giunsero notizie dei casi di Romagna e della cruenta repressione ordinata da Gregorio XVI, che mosse a sdegno anche i moderati come Massimo d’Azeglio, Mameli proruppe in accenti ispirati e vaticinanti la riscossa. Tempus enim prope est: L’alba!... Là, sull’estremo orizzonte vedi un astro novello? Fiammeggia la sua luce sul piano, sul monte...

Nel tumulto

del cuore, le reminiscenze

dei sonanti

decasillabi

ros-

settiani accendevano visioni ed invettive non meno retoriche, ma più veementi:

Fuor

del feretro

ha trovato

armata

s’affaccia;

il valore primiero;

L’elmo antico s’adatta alla fronte, Roma è sorta, davanti ci sta.

Si levò dal suo letto di spine;

116

. dalla

croce

nefanda

si scosse;

meretricio ornamento del crine la tiara per sempre rimosse. Via l'antica baldracca, che ardìo dirsi al mondo la sposa di Dio, prostituta al Tedesco, ed ai re! Ove venda un osceno vegliardo sangue e Cristi con labbro bugiardo, Roma eterno mercato non è.

. Non erano solo le parole della protesta massonica di Rossetti, che del resto si sarebbe poi tramutata in adulazione a Pio IX: c’era l’impazienza di scendere nella lotta, c’era solenne impegno d’azione: Noi

giuriamo

nell’ebbrezza

non

a quest'anno di un’altra

più udita

ecatombe

di gloria

vittoria,

sacrar.

Anche nell’ode Gli Apostoli, adattando movenze liriche del Manzoni a concetti arditamente rivoluzionari, Mameli glorificava i democratici che in mezzo al terrore credettero all’avvenire, e non patteggiarono col secolo, e tramutarono il pianto in azione. Ritorcendo il dilemma che anche allora il clero reazionario tentava imporre ai credenti, si rivolgeva al Dio degli uomini liberi, ponendo sugli altari la bandiera dei principî mazziniani: Inno al Signor dei liberi che

i popoli

a sé chiama,

che i cor non vili suscita e stringe in una brama. Ti calunniàr,

t’irrisero

i sacerdoti tuoi: nel

fango,

nella

polvere,

l’immagin tua non vuoi. Né i popoli e le genti desti in trastullo ai re. Cogli oppressor non stringi infame patto in terra: gl’inni ché a lor fan guerra tornano belli a Te.

Intanto nel settembre dello stesso ’46 il Congresso degli Scienziati a 117

Genova, pretesto di riunioni politiche più che culturali, servì non poco a smuovere l’ambiente. Un’associazione patriottica di tinta moderata si fondò a Chiavari, sotto forma di Accademia letteraria: l’Entelema. Mameli, divenutone socio, vi pottò il suo spirito combattivo. A poco a poco

essa divenne un centro di cospirazione mazziniana e i legami fin allora più

privati e occasionali che politici tra il giovane e il grande agitatore, divennero permanenti e fruttuosi. Erano i giorni dell’entusiasmo neo-guelfo, suscitato dalla propaganda giobertiana. Ma convinto unitario, anticlericale, democratico dell’ala estrema, Goffredo continuò a combattere per i

suoi ideali e a conquistarsi grandi simpatie tra i giovani della città, che nel °47 sarebbe stata, con Messina ed altri centri minori, all'avanguardia del Risorgimento. Mazzini, avendo compreso che a Genova il terreno era ormai dissodato e fertile, non si contentò più di rapporti epistolari o di

emissari d’occasione, ma pensò d’inviare uno dei suoi più prodi organizzatori, Nino Bixio. La società Entelema si andava radicalmente trasformando. E Goffredo, il 25 aprile del ’47, vi poté leggere un discorso polemico contro la politica anti-unitaria dei tre primi Gregori, lodati da un altro socio sulla fede del Somzzario storico del Balbo. Venti giorni dopo fu eletto un nuovo presidente, d’idee più liberali, Gerolamo Boccardo, e segretario il Mameli, che nell'adunanza del 14 maggio lesse la sua ode a Roma. La prosa del Mazzini ormai nutriva i suoi pensieri e le sue immagini. Eppure la prepotente personalità oratoria del maestro non impoverì la sua fantasia. Perciò questi manifesti politici in versi non sempre son ri-masti polverosi documenti di una retorica occasionale. Nell’ode a Rozza, se non l’immagine, almeno il gesto vivo della ribellione alla crudele commedia del Prirzato giobertiano dà un impulso potente al discorso: Anch'io fra i mesti ruderi seggo, pensando un canto. Non che di scorse glorie, dissimulando il pianto, cerchi

l’Italia

illudere;

far di bugiardi fiori e di appassiti allori ai ceppi suoi ghirlande; mentre non ha fra i popoli un seggio, un nome, grande dirla... crudel commedia! dirla

regina ancor,

qual vecchio che cadente vanta il suo april fiorente, il giovanil vigor.

118

Ad altri le memorie, i secoli che furo;

a noi la speme, immenso

l’etere

del futuro...

Era l’Italia giovane del Risorgimento che parlava così per bocca di Goffredo, e che aspirava a fondare solo sulla lotta del presente la conquista della dignità nazionale: a disserrare un nuovo cielo, perché la vecchia terra e il vecchio ciel passò.

Una nuova Roma, capitale di uno Stato democratico e moderno, so-

gnava e cantava Goffredo con versi ispirati non solo dagli ideali dell’unità nazionale, ma dall’amore fraterno per tutti i popoli — « Slavi, Alemanni ed Itali » — che attraverso le loro rivoluzioni avrebbero dovuto costituire il nucleo di una più vasta e solidale compagine unitaria: Ove del mondo ebbero

un

i Cesari

dì l’impero,

e i sacerdoti tennero schiavo l’uman pensiero, ove è sepolto Spartaco, e maledetto Dante, ondeggerà fiammante l'insegna dell’amore; dimenticata i popoli l’ira d’un dì che muore, sarà la terra agli uomini come una gran città: libera,

grande,

unita,

vivrà una nuova vita la stanca umanità.

Non a caso questo messaggio, espresso nel momento

migliore e da

uno dei più avanzati esponenti del mazzinianesimo, sarebbe stato raccolto e riecheggiato nei versi dell’Inzernazionale. E se Goffredo avesse potuto ascoltare il nuovo inno democratico, non si sarebbe fatto il segno della croce e non avrebbe gridato anatema, come poi sarebbe accaduto di fare al suo vecchio maestro e ai pretesi decrepiti seguaci odierni. Autentico rivoluzionario Goffredo Mameli non conosceva quella paura dell’avvenire e della libertà, che è germe fatale di ogni reazione: « Forse verrà tempo IE9

(egli diceva — e parole più pure e più nobili non saprei citare) in cui Mazzini anch’egli sarà chiamato codizo, e noi dobbiamo esser lieti d’essere soffocati dall’opera nostra, perché significa ch’ella è grande. Non conosco niente di più sublime nella storia dei Girondini, che dopo aver fatta la Repubblica, andavano alla ghigliottina repubblicana gridando viva la Repubblica ».° Con siffatto animo, è chiaro che nei versi più eloquenti di Mameli c'è sempre quel forte pudore delle parole che sempre distingue i poeti dai retori, gli uomini capaci di sacrificio dagli esortatori prudenti, dagli eroi da poltrona. Si veda, ad esempio, l’inno Ai fratelli Bandiera, che dopo vari tentativi egli riuscì a scrivere solo nel ’47, ricorrendo il terzo anniversario della morte di quei prodi: L’inno dei forti ai forti! quando sarem risorti sol vi potrem nomar.

Ma prima egli rifaceva con modesta sincerità la storia di quei tempi oscuri in cui egli stesso aveva disperato con le parole di Giobbe, in cui non aveva osato levare la sua « voce di schiavo », perché nessuno aveva osato innalzare il vessillo della rivoluzione e « ringagliardire gl’ignavi ». Rifaceva questa storia umiliante e sferzava quel che noi pure abbiamo conasciuto in altri tempi e sotto altri nomi, lo storicismo quietista dei piagnoni e dei ben pensanti, sempre pronti a rassegnarsi e ad accodarsi: Tal cui l’oprar sgomenta vilmente pio la patria al cieco caso affida; nel proprio fango grida solo virtù dormir... Stolti o venduti! Vogliono guidar tremando i fati;

che il suo terrore adorino i popoli prostrati. Della viltà profeti, sui fremiti secreti che l’avvenir racchiudono spargon blandizie e oblìo: dicon, mentendo Iddio, empio chi tenta oprar. 10 Lettera del febbraio ’49 a R. Rubattino, in CODIGNOLA, {M9pa379:

120

Come

avesse

se in ciel l'Eterno

sol governo

di chi sa sol tremar! Silenzio, eunuchi!

Vecchia e recente storia in Italia, di tutti coloro che, volendo operare per il rinnovamento del nostro paese, si son trovati contro sempre le stesse forze rettive, sempre le stesse scomuniche in nome

di uno

spirito

cristiano comodamente monopolizzato. Mameli invece col suo caldo accento messianico proponeva la « grande scuola » dei fratelli Bandiera, dove gli italiani liberi avrebbero dovuto apprendere «la scienza del morir ». Per Mameli che aveva meditato a lungo sulla Bibbia e sui Vangeli, il cristianesimo, sulle orme di Lamennais e di Mazzini si era configurato come una « rivoluzione politica », e perciò non vedeva come si potesse essere con Cristo e contro l’Italia, con Cristo e contro la democrazia. L’inno Ai fratelli Bandiera era qualcosa di più che un semplice ricalco dei motivi propagandistici della « Giovane Italia », era un contributo vigoroso e originale alla lotta politica. E Mazzini provvide subito a farlo ristampare e divulgare con alcune sue postille, perché le parole di Goffredo avevano un’importanza essenziale in quell’euforia di moderatismo giobertiano, che sembrava riaddormentasse di nuovo l’Italia. Ma era necessario qualcosa di ancor più clamoroso, in un ambiente oramai già maturo per una grande manifestazione popolare. Se nel ’46 il Congresso degli Scienziati a Genova aveva avuto una grande risonanza nell’opinione dei ceti medi intellettuali, era necessario che una massa più vasta partecipasse a una cosciente agitazione degli ideali unitari. Nino Bixio fu designato ad organizzare in contatto col Mameli un comizio in occasione della festività religiosa dell’8 settembre ’47. I moderati seppero prevenirli e sfruttare l’occasione. Il giorno successivo però la manifestazione si ripetette in forme ancor più imponenti: Bixio prese la parola e il suo discorso ebbe per effetto un notevole spostamento di tutta l’opinione pubblica, perché i fatti di quel giorno ebbero grande risonanza. In questo fermento, che ormai cominciava a diffondersi più o meno palesemente nell’Italia intera, il Mameli scrisse i suoi versi più famosi: l’inno che sarebbe passato alla storia col suo nome, l’inno della nostra rivoluzione unitaria e nazionale. Invano i moderati fecero tirar fuori al Bertoldi l’inno monarchico, che cominciava con l’esaltazione dei colori sabaudi: Con

l’azzurra

coccarda

sul petto... 1!

11 CopIGNnoLA, Vita, I, pp. 48 sgg.

121

Invano il Comitato dell’ordine presentava quel grande canto popolare come « inno comunista » per screditarlo presso la piccola borghesia." L’inno di Mameli divenne il canto profetico e animatore del Risorgimento. Dal punto di vista letterario si è d’accordo nel ritenerlo inferiore a molti versi dello stesso Mameli, soprattutto per la sintassi piuttosto involuta della prima strofa che per ovvia opportunità politica lasciava un po’ troppo sottinteso il concetto antiguelfo che l’aveva ispirata e che tuttavia era frequente in altre liriche e non può lasciar dubbi d’interpretazione. Nell’A/ba e nell’ode a Roma egli aveva infatti già riecheggiato il rossettiano cingi l'elmo, la mitra deponi. E anche qui volle dar rilievo a una vecchia immagine dell’eloquenza giacobina, che per il suo classicismo era piaciuta a moltissimi poeti, dal Petrarca al Leopardi. Ma un riscontro più preciso e chiarificatore è da rintracciare nell’ode Alla fortuna del Guidi: Ponmi,

disse,

la destra

entro

la chioma

e vedrai d'ogni intorno liete e belle venture... Lon IR. GIS vicina le patrie vinsi; e quando ebbi sotto a’ miei piedi tutta la terra doma del vinto mondo fei gran dono a Roma.

L’archeologica Fortuna di questo seicentista, il quale tentava di consolarsi della nostra decadenza con l’esaltazione dell’imperialismo romano, aveva già suscitato nel giovane Alfieri l’amore della poesia.!* Non meravigliamoci se ora anche al Mameli suggerisse un’immagine ben più concreta e umana di un'Italia, che senza opprimere più nessun popolo, voleva solo vincere la propria ignavia, e riscattarsi a libertà. Quest’Italia virilmente armata voleva afferrare per i capelli la sua fortuna, cioè quella vittoria che per tradizione provvidenziale Roma ebbe in pugno. Ma a quest’accenno classicista subito succedono le tre strofe più belle, in cui il messianismo democratico e le rievocazioni storiche si compongono in un vivo, appassionato getto d’eloquenza popolare. Si pensa alla chiusa del Principe, dove oratoria umanistica e biblico linguaggio savonaroliano e termini crudamente realistici danno ala al sogno unitario del primo grande spirito moderno, del « primo giacobino italiano » (come Gramsci ha chiamato il Machiavelli). Anche nell’inno di Mameli, c'è sì l'« elmo di Scipio », ma noi passiamo alle mazziniane « vie del Signore », all’« uniti, per Dio chi 12 CODIGNOLA, Vita, I, p. 157. 13 Vita, ed. Maggini, p. 121 (1772).

122

vincer ci può » (che è una traduzione da Lamennais fatta col gusto veemente di quel grido finale « Italia chiamò ») e infine lampeggia un sommario di momenti epici della nostra nazione « dall’Alpe alla Sicilia », dove Garibaldi, entusiasta, notava col felice acume di un grande eroe popolare che lì « c'è tutto quello che un Italiano non dovrebbe ignorare della sua storia: Legnano, Gavinana, Portoria, i Vespri ».!4 Che importa se i vessilliferi del’Anti-Risorgimento, i difensori’ del fascismo in decomposizione abbiano osato far proprio, negli ultimi giorni di una guerra antinazionale, questo inno glorioso, coronando con un’estrema bestemmia un tradimento storico? È bastato che una sola volta quell’inno sia stato cantato dai partigiani delle Fosse Ardeatine sulla via del loro martirio, perché le parole di Mameli fossero redente alla loro purezza.!° E finché ci sarà una indipendenza da difendere, queste parole non passeranno: le classi lavoratrici, ereditando il patrimonio storico nazionale, sapranno custodirle gelosamente e degnamente onorarle. Ma un altro canto c’è, di Mameli, che ha una validità non soltanto monumentale: un canto che fu la sua più bella poesia e certo l’unica poesia di quegli anni travagliati in cui tutti gli animi furono distratti (e ne era tempo) dalla letteratura alla vita, dalle parole all’azione. È l’inno intitolato Dio e Popolo, scritto per commemorare la cacciata degli Austriaci da Genova, in occasione della famosa festa del 10 dicembre 1947 che organizzarono, sotto la guida di Bixio, i gruppi più audaci dei repubblicani genovesi. Mameli precorse con la fantasia questa celebrazione popolare, che avrebbe acceso fuochi di gioia sugli Appennini per salutare il fatto memorando

e auspicare una vittoriosa insurrezione

unitaria. Era la ma-

teria più consona alla sua poetica, alla sua Musa: ei saluta

ma

una

prepara

memoria,

una

vittoria.

Mai Goffredo avrebbe meglio realizzato il suo sogno del « bello messo in azione », della poesia come « forza » allegra, come canto festoso e guerriero. Solo il titolo serbò la traccia delle formule astratte di Mazzini. L’ispirazione versò il fiotto incandescente delle parole nello stampo metrico pre14 Si veda il commento del Mannucci, ed. cit. 15 La notizia ci è data dalla signora Lia Albertelli, in una nota alle sue affettuose e gentili poesie in memoria del marito, Giorno di pioggia alle Fosse (Roma, 1948): «Il Babbo mi diceva che avrebbe cantato l’Inno se lo avessero portato a morire;

e lo ricantò

con

i compagni

mentre

era

trascinato

alle Fosse:

dai chiusi

autocarri le note dell’inno giunsero all'orecchio di quei pochi che sulla via Appia videro quel corteo di morte e qualcuno pianse ».

125

diletto, divenuto ormai per Goffredo congeniale al canto. Quella fiamma che discende sul capo dell’Italia, all’inizio dell'inno, è qualcosa di più che un ricordo mistico dagli Atti degli Apostoli: è un motivo di figurazione lirica, guizzante da strofa a strofa (proprio come nella Ballata d’amore per la Pinelli una luce di sorriso, vi ricordate? allietava coi suoi ritorni il ritmo). Anche questo era un canto d’amore, ma per l’Italia. E non più per l’Italia retorica, un po’ goffa sotto le panoplie neoclassiche. Era l’Italia vivente, del popolo, che festeggiava coi suoi poveri fuochi la cacciata dello straniero e si augurava di ripetere, unita e armata, il gesto dei Genovesi. Le parole semplici dei testi religiosi non servivano più per confortare dai pulpiti la viltà e l’acquiescenza degli oppressi, ma per osannare all’insurrezione, alla vittoria della libertà. Terzpus prope, davvero. L’anno nuovo, il ’48, avrebbe portato in tutta Italia questi accenti di speranza e di fede, sarebbe stato il grande anno del risveglio, della prima esperienza unitaria,

di quella prima guerra d’Indipendenza che rese clamorosa passione popolare un’aspirazione ancora ristretta a pochi gruppi: Come

narran

sugli Apostoli,

forse in fiamma sulla testa Dio discese dell’Italia. Forse è ciò; ma anch’è una

festa.

Nelle feste che fa il popolo, egli accende monti e piani; come

bocche

di vulcani

egli accende le città. Poi se il popolo si desta, Dio

si mette

alla sua

testa,

la sua folgore gli dà.

Col °48, tutto preso dall’azione, Mameli scrisse altri versi, ma quali se ne potevano scrivere in un clima di frenesia. Ormai c’era la guerra: e i gio-

vani accorrevano in Lombardia da ogni parte d’Italia. Goffredo compose

un inno militare, celebre più che altro per la musica di Verdi. Versi mediocri: ma c’era una strofa, che solo lui poteva scriverla così, con l’occhio rivolto prima che al tricolore, all’odiata bandiera degli austriaci, da abbattere, da incenerire: All’armi, all’armi! Ondeggiano le insegne gialle e nere: fuoco per Dio sui barbari, sulle vendute schiere...

Finalmente si poteva cantare a squarciagola il giuramento clandestino della « Giovane Italia ». E Goffredo lo parafrasava nell’ultima strofa, aggiun124

gendo di suo, nel ritornello, un giuramento non meno risoluto, più appropriato a quel furore di lotta che gli si era acceso in petto: Non deporrem la spada finché sia schiavo un angolo dell’itala contrada, finché non sia l’Italia una dall’Alpe al mar.

Concepito

nell’ebbrezza

del più candido

ottimismo,

quest’inno

militare

purtroppo era destinato a risuonare per poco tempo. Dalla primavera al-

l’autunno del ’48 le sorti italiane in Lombardia si erano capovolte. Carlo Alberto aveva chiesto l’armistizio. Milano aveva dovuto capitolare. Solo Venezia, assediata dal nemico, pareva decisa a resistere. Mameli, reduce

dalla sfortunata campagna di Lombardia, colmo d’amarezza, ma non sfiduciato, scriveva ora un inno alle due gloriose città della resistenza antiaustriaca, per raccogliere i fondi necessari ai patrioti veneziani. E narrava in quell’inno ia « turpe storia » di quei mesi, come poteva apparire a un mazziniano e a un garibaldino, che avrebbe voluto continuare la guerra di popolo, dopo il fallimento della « guerra regia ».!° Non insensibili al grande significato della resistenza di Venezia, di lì a poco due poeti vi sarebbero accorsi, il Tommaseo e il Poerio. Mameli, dopo un breve soggiorno a Genova, dove diresse per qualche settimana il « Diario del Popolo », propugnando la Costituente italiana e la guerra popolare, ai primi di novembre raggiunse Garibaldi in Toscana e lo seguì a Roma, dove poi si sarebbe ricongiunto col Bixio e col Mazzini. Versi non ne compose più, tranne un abbozzo di saluto scherzoso al papa fuggiasco: Al Campidoglio! il Popolo dica la gran parola: daghe

i Romani

vogliono,

non più triregno e stola... Se il Papa è andato via, buon viaggio e così sia, non morrem già d’affanno, perché fuggì un tiranno... Viva l’Italia e il Popolo e il Papa che va via! Se andranno in compagnia, viva anche gli altri re! 16 I numerosi articoli che il Mameli scrisse a questo proposito, da riconnettere alla nota tesi del Pisacane, sono riprodotti al completo nell’edizione delle opere curate dal CopIGNOLA, II.

ZO

Prodigandosi nel giornalismo e nella organizzazione dell’esercito popolare, Mameli aveva altro da pensare che ai versi. Non contento di collaborare ai giornali di Roma, inviava anche a Genova i suoi articoli, e scriveva ai suoi amici più fidi perché si propagasse dovunque la sua febbre di azione e di combattimento. « O schiavi col governo dei preti, o liberi senza », ecco l'alternativa ch’egli poneva in un suo seritto al popolo romano, nel quale riponeva immensa fiducia. Intanto la primavera del ’49 preparava tristissimi eventi. Un tentativo di ribellione a Genova delle forze repubblicane era stato sedato. Le truppe della Repubblica francese sbarcavano a Civitavecchia per iniziare la loro campagna controrivoluzionaria. « Questo è un delitto inaudito » scriveva Goffredo alla madre. Cominciava l’assedio di Roma. Col disperato furore della sua giovinezza Mameli sperava in un’eroica difesa della Repubblica. « Non puoi immaginare (scriveva alla madre il 18 maggio) lo sdegno che ha eccitato tra il popolo romano l’intervento straniero: a veder Trastevere la sera che si preparavano le barricate pei Francesi, pareva l’inferno: bestemmie ‘al papa quante ne vuoi, le donne facevano ‘provviste di sassi, e mostrando i pugnali che avevano in petto diceano: lasciate che entrino, che qui ci siamo noi. Un prete che fece fuoco sopra una guardia nazionale e due altri ch’erano con lui furono da queste donne fatti a brani colle mani e gittati nel Tevere ».! Ma pochi giorni dopo, i Francesi, profittando di una tregua, s’insinuarono a tradimento in una località avanzata, che dominava tutte le posizioni garibaldine del Gianicolo. Il 3 giugno trascorse in accaniti combattimenti per cacciare gl’invasori dal casino di Villa Corsini. « Era. verso la sera di quel giorno fatale (raccontò poi Garibaldi 18 alla madre di Goffredo), quando Mameli ch’io aveva ‘trattenuto al mio fianco la maggior parte di quel giorno siccome aiutante mio, mi chiese supplichevole di lasciarlo procedere avanti, ove più

ferveva la pugna, sembrandogli ingloriosa la sua posizione presso di me. Dopo pochi minuti egli mi ripassava accanto, trasportato gravemente ferito, ma radioso, brillante nel volto, d’aver potuto spargere il sangue per il suo paese. Non ricambiammo una parola; ma gli occhi nostri s’intesero, nell’affetto che ci legava da tanto tempo; egli proseguiva come in trionfo ». Ricoverato alla Trinità dei Pellegrini e affidato troppo tardi alle cure del grande chirurgo e patriota Agostino Bertani, Mameli sopravvisse alla ferita e all’amputazione della gamba, poco più di un mese. Amorevolmente assistito da alcune sue amiche e da un soldato genovese, visitato frequentemente dal Mazzini e da ‘altri compagni d’arme, egli non sognava che di 17. CODIGNOLA, II, ooì 388-389... 18 BARRILI, p. 487.

126

poter riprendere il suo posto, appena in grado di potersi adattare un apparecchio ortopedico. Ma l’infezione crebbe di virulenza e dopo lunghi giorni di delirio si spense. Era il 6 luglio 1849. I Francesi ormai erano già penetrati nella città, ma a lui fu risparmiato questo supremo dolore. « Il Mameli è morto (racconta un testimone oculare) senza sapere dell’entrata de’ Francesi, aspettando sempre da Parigi una gamba che lo potesse rimettere in grado di combattere; aveva vicino la sua fida ordinanza, a cui per una strana rassomiglianza aveva posto nome Pio IX. Poco tempo prima il suo volto era illuminato da una grande serena visione, ed andava can-

tilenando de’ versi che nessuno poté udire o capire; due parole furono: Santa Caterina ». Su questa testimonianza molto si è farneticato, e chi ha voluto vederci i segni di una conversione, chi soltanto un pensiero d’amore per una donna dimorante nei pressi di una chiesa di Genova. L’ipotesi più plausibile (e che nessuno ha fatto) mi sembra questa, che il povero Goffredo recitasse la strofa di un poeta vernacolo, Stefano De Franchi, celebrante i fasti della cacciata degli austriaci nel 1746 e le bandiere in seta fina, dipinte da un buon pittore, con Santa Caterina e Maria della Concezione, e il famoso mortaio di Portoria, dov'era la scritta: la libertà è vendicata.! Re

bandiere

pitturàe

in sàea

finn-a

de pittò bon;

drento santa Catterinn-a

e Maria dra Concegion, con un scrito in ro libertae l’è vendicàa.

mortà:

Recitando quei versi del poeta settecentesco, forse Mameli pensava alle bandiere che lì, nella chiesa di Oregina, erano state depositate il 12 dicembre ’47, a epilogo della grande manifestazione popolare per cui egli aveva scritto la sua più bella lirica. E la cerimonia voleva significare, come diceva un solenne documento, l’augurio che presto si fossero viste lì « unite ed incrociate le bandiere di tutti gli altri popoli d’Italia, per esservi un giorno fuse insieme e non formarne più che una sola ».°° 19 BARRILI, p. 482. 20 Vedi l’appendice all’ed. BarRILI, Le feste genovesi del Balilla, pp. 501-502. I versi furono riportati da un foglio volante del 10 dicembre ’48, compilato dall’abate P. A. Bertoli, in occasione di una « passeggiata » o manifestazione popolare al sasso di Portoria. Il Mameli non poteva ignorare quel foglio e quei versi. La cerimonia delle bandiere genovesi e subalpine depositate nella chiesa di Oregina è ampiamente illustrata dal CopinoLa, Vita, 1, p. 128.

127

Quei versi incomprensibili dai presenti erano come la preghiera estrema di un credente nella libertà e nell’unità del popolo italiano. E con quell’atto di fede, Mameli lasciava i suoi compagni di lotta. Li lasciava in quei giorni in cui si dileguava, con la fine della Repubblica Romana uno dei sogni più rivoluzionari del Risorgimento popolare. Tutta l’Italia democratica fu in lutto per la sua morte, e gli amici vollero subito raccogliere i suoi versi e alcune sue prose, perché non andassero dispersi. Mazzini scrisse allora alcune delle sue pagine più appassionate che ci consegnarono, conforme al suo gusto, l’effigie romantica del poeta caduto, da paragonare allo Stenio di George Sand, da adorare come « Angiolo del Martirio ».

« Per me (diceva mestamente il grande sconfitto del ’49) per noi, profughi da vent'anni e invecchiati nelle delusioni, egli era come una melodia della giovinezza, come un presentimento di tempi che noi non vedremo ». Quelle pagine di Mazzini hanno davvero cento anni e lette a commento dei versi di Goffredo non li fanno certo ringiovanire. Ma di Goffredo, del combattente garibaldino c'è qualche parola che sembra di ieri, udita da uno dei nostri: Persichetti, o Labò, Ginzburg, Pintor, Colorni, Curiel, Albertelli. « Mi parli sempre di me (rispondeva febbricitante a Nino Bixio, che voleva dissuaderlo dall’andare in battaglia, l’ultima volta). Quando assassinano il nostro paese noi non abbiamo altro letto che quello della morte: ma prima bisogna battersi, battersi, battersi ».?* 1948

21 La testimonianza

128

del Bixio è riferita dal Codignola,

II, pp. 41-432,

IL « BUON

CANONICO » PARZANESE

Una volta ebbi modo di ricordare una considerazione, che in Italia

si è letto più Bertoldo che la Bibbia. C'è da aggiungere, e l’affermazione sembrerà ancor più perentoria e scandalosa, ma io la credo fondatissima,

che, da cent'anni a questa parte, i versi di Pietro Paolo Parzanese sono stati letti o recitati da più italiani che non la Divina Commedia del famoso Dante Alighieri. Fate un po’ il conto quanti milioni di bambini sia nelle scuole primarie che in quelle « d’intrattenimento » hanno ripetuto le cullanti poesiole del canonico di Ariano Irpino. Ve ne ha parlato in certi suoi ricordi Francesco Jovine. E vorrei dire a mia volta come una trentina di anni fa, oltre a leggerle io, le sentivo cantare da mia sorella, e ho ancora nell’orecchio la musica fioca e un po’ strascicata: Sei un povero augelletto, / non semini e non mieti... Ma si potrebbero citare più illustri testimonianze, da Croce a Gramsci, il quale in una lettera amò ricordare alla madre come a cinque anni l’ammirasse per la sua abilità nell’ « imitare il rullo del tamburo quando declamava: Rataplan », ossia Il vecchio sergente. Popolatissimo tra i Canti del povero esso infatti appartiene alle più graziose immagini del piccolo mondo poetico ritratto dal Parzanese con quella sua maniera intenerita e compassionevole, tanto che piacque al De Sanctis, da fargli parlare, per affettuosa generosità, di « poesia del villaggio ». Naturalmente non c’è bisogno qui di restringere l’ovvio confine di questa « poesia », i cui valori estetici sono tenuissimi e quasi inesistenti. Importa invece comprendere la funzione sociale che questa « poesia » ha avuto nel conformare vastissimi ceti del popolo alla volontà conservatrice della classe dominante. In questo senso va intesa la lode di Benedetto Croce, che tanto scalpore sollevò negli ambienti di preziosa letteratura, allorché, in polemica con gli « affezionati » del Pascoli, disse che per 29

« certi usi » meglio del poeta romagnolo valeva la « poesia pratica » del « buon canonico » Parzanese. Gli «usi » di cui parlava il buon maestro idealista erano esattamente quelli di cui si erano avvalsi da tempo il Cantù, il Tommaseo, ed altri compilatori di opere destinate alla « educazione » popolare. Usi del

resto conformi alle intenzioni del Parzanese e dichiarati onestamente nelle prefazioni delle sue più divulgate raccolte. A differenza del Pascoli, nel buon canonico irpino erano affatto inesistenti certe irrequietezze pessimistiche, certi cupi e torbidi accenti di protesta o addirittura di rivolta alla società borghese. Chiaro, ben intonato e senza squilibri (come si compiaceva di notare il Croce) non solo nel gusto letterario, ma nella concezione della vita sociale, Parzanese esaltava indirettamente

l’ordine costituito, allorché concludeva che « tutti portan la croce quaggiù » e i poveri si devono docilmente rassegnare alla volontà di Dio (come viene chiamata con ipocrita unzione la volontà paternalistica della classe dominante). Eppure il Parzanese aveva spinto le sue buone intenzioni liberaleggianti, nel ‘48 fino a sognar la repubblica; ma poi aveva ripiegato ad uno stato d’animo indifeso e prono; e nel ’51 non esitò a cantare un inno dal titolo Gli operai, dove si leggono versi come questi: Fatichiamo! ci tradisce chi ci chiama alla rapina, chi c’infiamma e invelenisce al tumulto e alla rovina, promettendo un’altra età, senza stenti e povertà. Dio ci fece quel che siamo: fatichiamo, fatichiamo!

Il buon canonico

irpino era preoccupato

che nel ’48 in Germania

e in Francia la poesia rivoluzionaria avesse acceso « nei travagliati petti fiere passioni, che subito rompono in fiamma ». E perciò aveva voluto scrivere le sue poesie per « preservare le nostre plebi dal contagio coteste canzoni ». Era convintissimo di essere un apolitico. Di politica (scriveva) non m’impaccio, perché la politica fare con questi corrompitori delle menti, i quali si studiano voler ricondurre

il mondo

all’antica

barbarie,

attentando

di

nulla ha che solamente di

alla Religione,

alla

famiglia e alla proprietà. Sibbene tutto il mio studio ho messo in questi canti per mantenere viva nel cuore degli artigiani, dei contadini e dei poveri la fede

nella

al lavoro,

130

provvidenza

la rassegnazione

di Dio,

la credenza

nei mali,

l’affetto

nell’eterno

verace

avvenire,

pel bene

della

l’amore

patria,

e tutti insomma quei sentimenti che mezzo ai duri travagli della vita...

valgono

a tenere

in pace

le plebi in

A questo pio terrore per il risveglio del proletariato, nel cuore di Parzanese si mescolava un fondo di sincero umanitarismo, che lo inclinava a un caritatevole interesse per la « disgregazione sociale » del Mezzogiorno. E proprio questo suo sentimentalismo, e questa sua ingenuità facevano dei suoi versi « popolari » un efficace strumento di

conservazione. Pure, se andiamo a leggere le sue memorie, scritte con una prosa d’insospettata, vigorosa classicità (non per nulla egli fu un eloquente panegirista) osserveremo come questa sua indole mansueta recasse il sigillo di una sconfitta: questi suoi canti di arrendevole mestizia erano sorti dalla rassegnazione di una « mente chiara » e di un « cuore dolce », costretti a subire la tremenda rozzezza di un ambiente e di una educazione triviale. Leggiamo un vero atto di accusa a una società, di cui nei versi egli aveva compianto i miserabili effetti. Non a caso, quando loda l’ingegno « pronto e sottile » del popolo di Ariano, egli si meravigliava che si fosse serbato non tanto guasto e corrotto « quanto erasi a temere per l’esempio della gente civile e dei preti ». Tutta la sua infanzia era passata a traverso « strazi e paure », sotto l’incubo di una « canaglia pretesca », la quale ci sfila davanti in quelle pagine, purtroppo frammentarie, con una lunga serie d’infernali aguzzini: e vi basti per tutti gli altri la figura del primo maestro di Pietro Paolo, un vecchio francescano, padre Benedetto da Bonito, « uomo di grossa ignoranza e di poco santi costumi » che « con tutto l’amore che gli portava, a castigo lo imbavagliava chiudendo/o entro un cassone ov’era un pertugio per dargli aria... ». Quel che il buon Parzanese racconta dei preti del suo paese, della loro abiezione, delle loro scuole e dei loro discepoli, è Medio Evo pretto, senza romanticismi, e non ci sorprende che sia roba del secolo scotso quando pensiamo alla figura di don Trajella, dipinta da Carlo Levi, ai nostri tempi. « Per queste e somiglianti infamie (commentava il buon Parzanese) se l’amor dello studio non mi era come connaturato nella anima, avrei gittato via i libri e datomi al vizio perdutamente. Né so quanti giovani al mondo per questa medesima cagione vanno a traverso, e riescono perfetti birbanti... ». Ma narrando queste e simili infamie, e stigmatizzando questi « fetidi bordelli che si chiamano seminarii », l’onesto canonico non ci lascia solo comprendere perché la sua poesia, mal reagendo a un simile ambiente culturale, sia riuscita così oppiacea, consolatrice di una servitù dell'anima, per sempre avvilita dalla 131

violenza e ridotta a sperare luce di libertà solo nell’oltretomba. Ci può anche rendere più evidenti (se ce ne fosse bisogno) quei sofismi ignobili che vanno escogitando gli storicisti tipo Missiroli, i quali con una dialettica da quattro soldi vorrebbero confortatci alle delizie della scuola papalina, e presentarla come una immensa, provvidenziale incubatrice di rivoluzionari. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, e all'educazione clericale quel che le appartiene. 1948

VINCENZO BRIO

PADULA

RSIEESDOEME(JE)

Quando Vincenzo Padula (1819-1893) scrisse i suoi primi versi a vent’anni, il gusto predominante nel regno di Napoli ristagnava in un accademismo contro il quale avrebbero dovuto combattere le nuove generazioni fra il ’30 e il ’48. L’accademismo artistico caratterizza in modo inconfondibile i periodi di servitù. « Sotto quella reazione era impossibile (ricordò poi il De Sanctis) lo sviluppo morale e intellettuale, la letteratura era pura forma sia che la chiamiate classica, sia che la chiamiate romantica. Mancava l’ispirazione diretta ed accesa perché presa sul luogo, tolta dal vero; c’era invece la scuola, un complesso di dottrine a priori, preconcetti che frenano l'immaginazione, e diventano il criterio del critico, l’ispirazione del poeta. Scuola i classici e scuola i romantici ». Contro l’accademismo classico, che in Calabria ebbe i suoi esponenti nel Campagna e nel Ruffa, retori inamidati nella tradizione del Monti, i primi tentativi di rinnovamento erano venuti dal Giannone: e di questo romanticismo a Napoli si era fatto portavoce Domenico Mauto. La Lauretta di Pietro Giannone da Bisignano uscì nel 1839. Era un polimetro che s’ispirava a un certo contenuto e a un certo colorito locale, con espliciti accenni ai contrasti che vivevano nella società calabrese. In quello stesso anno in un carme dedicato all’avvocato Domenico Gaudinieri che gli aveva insegnato diritto romano, il Padula salutava il primogenito del suo affettuoso maestro. Già in questi endecasillabi, fra le sonorità classicistiche, orecchiate non senza scorrettezze e trasandatezze,

affiorano

alcuni

temi,

che poi diventeranno

nuto autentico dello scrittore. Egli cantava, pubertà:

ad esempio,

il conte-

le gioie della

Ah! Qual più lieta fantasia mortale seppe il concetto colorir di prima verginella innocente, allor che avverte la prima volta lente lente svolgersi e le frutta amorose smaturarsi del petto alabastrino. Ella vi reca l’incerta mano, ed ogni tocco un brivido come fronda le scuote il picciol core e le viscere

ignare;

ed

incantata

a turbin dentro di pensier novelli guata il mondo per lei mutar di aspetto, e seco ingiovanito entro un sorriso amoreggiare di mattino eterno.

C'era ancora in quel carme un proposito, più che un tentativo di cantare la gioia che i genitori provano a sorprendere la propria natura e le loro speranze nei loro figlioli: la sua sembianza ciascun vi scorge e batte il cor presago di future speranze.

E vi prorompeva vita della provincia:

anche

un

accenno,

subito

contenuto,

Ah! In questo vile patrio terreno, dal rumor lontano d’interessi cozzanti e da l’impura, nebbiosa atmosfera, ove, ravvolti, cieca incessante vicendevol guerra rompon ricchi ed oppressi: io a te sovente apro

il core

pesante:

e dolce amico

Non

meno

sintomatica,

a te maestro

dei miei giovani anni.

la conclusione: OhMIcheRpurso;

quando dinanzi alla socchiusa mente, di rose coronate e di speranze, vedeami folleggiar l’ore future; pur’'io quel tempo sospirava! Il tempo che tutta circondar di poesia e degli incanti del mio cor fanciullo potrei la donna, che il Signor congiunta

134

alla dura

avrebbe all’amor mio, e in un figliuolo, che dondolato avrei sulle ginocchia, come dòndoli il tuo, tutta trasfondere la poetica fiamma e l’alma mia.

Questi anche per subendo la Sambucina

ed altri versi di affine ispirazione son da tener presenti, giudicare le due novelle in ottave, che il Padula scrisse moda e le forme della scuola lombarda: Il monastero della (1842) e il Valentino (1846). Son entrambi di scarsissimo

valore ed è da accettare senz’altro il giudizio negativo di De Sanctis, che li ha analizzati ampiamente, penetrando a fondo il difetto essenziale dell'autore che « non addentra, non lo tratta con

s’innamora del suo contenuto, non vi si serietà ». Ma lo schema critico seguito dal De Sanctis era del tutto arbitrario, anche perché egli conosceva del Padula solo due raccoltine di versi sacri, fior di bruttezza, tra i quali poteva apparirgli addirittura come «un capolavoro di grazia e d’ingenuità » la preghiera alla Vergine. La protagonista del Mownastero della Sambucina, Eugenia, che nata nel chiostro e ignara di tutto, mette in imbarazzo la badessa con le sue domande ispiratele dagli oscuri fermenti della pubertà, non è affatto « l’idealizzazione dell'ideale lombardo »: fa pensare se mai, più al Tommaseo

che

al Grossi,

e costituisce

un

tentativo,

sia pure

fallito,

di uscire dal mondo vago e spiritualizzante dei manzoniani di stretta osservanza. Prigioniero del genere stesso di racconto in cui si muoveva, Padula volle evitarlo nel modo più facile, rifugiandosi in una musicalità estemporanea ed esteriore. I suoi « trasporti voluttuosi » non erano «una profanazione » (come sembrò al De Sanctis), ma segni vitali di un contenuto secreto e autentico. E così pure Valentino, un reietto che diviene brigante, e attraverso macchinose vicende si macchia di delitti e d’incesti, e finisce suicida, sul punto di accoppiarsi con la sorella, non

è solo « l’esagerazione dell’ideale di Byron »: restò un personaggio letterario anche perché era una «concezione infernale calata in mezzo a ciò che di più grazioso e voluttuoso ha la forma ariostesca ». Ma non si trattò solo di un tributo dilettantesco a una certa moda. Il Padula tentava in modo anche troppo precoce di dipingere la società calabrese nelle sue passioni primitive e quasi selvagge. Ma il byronismo, nell’atto stesso che gli suggeriva temi tanto audaci, scatenava la sua immaginazione così eccitabile e sensuale; ed egli, incapace d’una espressione nuova e diretta, ripiegava nella letteratura corrente. In seguito « non spezzò il suo plettro », non rinunciò a ritentare la prova, perché non era affatto un « vuoto artista ». 56,

Nelle sue prime poesie si nota sempre il momento gioioso in cui egli scopre al lume dei ricordi letterari la concretezza di una vita e di una

realtà vissuta.

Nelle

terzine

« Alla rondinella » (1840)

si nota

una certa maniera petrarchesca e polizianesca, da cui era stato già tentato il Carrer;

ma

ecco

un’immagine

amorosa

guizzare

e volare

improvvisa,

con una bella felicità d’invenzione: Deh! Fermati un po’ meco, o rondinella, cessa dal vol, cessa dal canto, e presta benigno orecchio al suon di mia favella; o la mia sorte in te pietà non desta? o lo stile imparasti e la baldanza della mia donna fieramente onesta? Felice te che dentro la sua stanza t'hai fatto il nido, e lì da mane a sera godi delle sue membra la fragranza; ed or vi lambi con ala leggera il tombolo, sul quale ella colora fiori, che fann’invidia a primavera; e volando gittar godi talora l'ombra tua sul suo specchio, e al letto a lato gorgheggiando ti fermi alla prim’ora!...

Si tratta naturalmente poeta

continuerà

solo di un breve momento

a verseggiare

con

un

loquace

elegiaco;

compiacimento,

poi il incari-

cando la rondinella d’un suo messaggio. In un’altra lirica dello stesso anno la situazione è originale, ma nonostante il calore dell’ispirazione, la forma è spesso imprecisa e approssimativa. Il poeta è innamorato di quattro sorelle, quattro splendide bellezze paesane, e il suo struggimento si confida talora agli ingenui sospiri del rispetto popolatesco: Sera e mattina giro a voi d’intorno, fissando ai vetri le pupille ghiotte: li apre una mano bianca e, a me fa giorno, li chiude una man bianca, e a me fa notte.

Ma poi quando passa a determinare i volti di queste giovani donne che si succedono al balcone come «le quattro parti di un bel giorno estivo » ecco che ai tratti realistici (Viso rotondo ed occhi piccolini con due pozzette a questo ed a quel lato)

136

si mescolano ricercatezze e concetti barocchi da seminarista in delirio (Son le vene, che azzurre ha sulla dei suoi pensier le musicali note).

fronte

Non direi dunque, col Croce, che qui ci sian «tocchi nuovi e arditi »: l’ardimento e la novità son tutti nella situazione di questo innamorato, indeciso fra tante bellezze, che passeggia e sogna tutto il giorno intorno al balcone dove le sue amate fioriscono « come quattro rosai dentro un giardino ». È una situazione degna di Di Giacomo, ma anche nelle immagini meglio espresse non riesce a precisarsi in un compiuto linguaggio poetico. Eppure il Padula guardava in alto e sceglieva per

modello

le squisitezze

della

« Brunettina »

Poliziano) quando componeva, nel metro zioso dialogo con una lavandaia:

(che

si riteneva

di quella canzonetta,

del

un gra-

Buon giorno, zia. Venuta mattutina tu sei a risciacquare quei lini nel fiume. Son fredde le sue spume, da poco il sole è nato, e quest’aer gelato t'è nocente.

È facile notare un impasto non bene amalgamato tra quel Buor giorno, zia che è di una vivacità quasi dialettale e quel rocerte, ed altro ancora nel corso della lirica, che tradisce una ricercatezza letteraria non conciliabile con certe rozzezze che non sarebbe stato difficile evitare. La vecchia sciorina al sole le bianche lenzuola che ha lavato, e spiega al poeta che esse sono di tal figliuola, ch’ognun, mirando, è stretto a gridar: Benedetto chi l’ha fatta!

Poi le imperfezioni un bel momento se le porta immaginoso del verso, talora scintillante di malizia:

via

il fluire

Io veggio un loro telo, o cara zia, scucito, e penso che un prurito amorosetto,

VET

un non so che, un dispetto spinge la tua figliuola a bucar le lenzuola col piedino. O brutto,

o malandrino,

che ti va per la testa? Oltre ad essere è ‘viva, e fiera;

onesta,

e quando

sera

nella

la gioventù sua diva fra l’una e l’altra riva entra del letto, somiglia a un ruscelletto che di stagnare aborre, e con la spuma corre oltre la sponda. Ella perciò o la bionda testina o il pié, o le braccia fuori dei lini caccia, e sì li buca.

Indubbiamente al poco raffinato prete la vena sensuale sgorgava talora con così vivace prontezza realistica, che persino il dodecasillabo, reso dal Parzanese un po’ lagnoso e manierato, si rianimava in una cantante allegria: Già tien quindici anni la vaga fanciulla, né più del giardino

coi fior si trastulla;

non segue gli uccelli, non l’aurea farfalla, le piacciono i preti, va sempre alla messa, abbassa gli sguardi, tien curve le spalle; compone altarini, ogni dì si confessa, ricerca i silenzi di luogo romito, sospira il marito, sospira il marito. Togliendosi al desco, va subito a letto e tosto sen leva con pallido aspetto

138

Se alcuno talor non

la chiama, talora non sente, capisce, talor non risponde,

com'altro del quale ha sonno sospira il

pensiero le andasse per mente, s’inebria, e che a tutti nasconde; brevissimo, tien poco appetito, marito, sospira il marito.

Se affetta

una

frutta,

le dita

si taglia;

se se se se

tesse la calza, le scappa la maglia; sorge, pendenti sui fianchi ha le mani, guarda, annebbiata le appar la pupilla; va, spinge i passi ora presti ora piani,

or

senza

ragione,

sta

mesta,

or

tranquilla,

fa mille ricami, ma niuno è finito: sospira il marito, sospira il marito.

Qui c’era il dono freschissimo d’un canzoniere popolare, e perciò non meraviglia che un sonetto pubblicato nel ’45 sul « Calabrese », tradotto in dialetto, si divulgasse rapidamente in tutta la regione: Se fossi io mago! Un fresco zeffiretto a gonfiarti le vesti io mi farei, le rose e i gigli a ti lambir del petto, a confonder coi tuoi gli aliti miei. Se fossi io mago il lume diverrei, che quando dormi, t’'arde accanto al letto; da te nutrito

e prigionier,

vivrei,

cangiandomi nel tuo rosignoletto. Se fossi io mago! Nuvola leggera, in grembo ti torrei quando all’aurora, cogli nell’orto i fiori di primavera. Trarriaci il vento dalla terra fuora; e tu, lontana da tua madre austera,

al tuo bel mago

che diresti allora?

GERRAMORIBEtTE#POESTE®DEL MAESTRO DI SALVATORE DI GIACOMO Nel ’48 i sogni voluttuosi del Padula non tardarono a diventare esperienza d’amore e offrire nuova materia ai suoi versi. A una Maria del suo paese egli dedicò infatti certe rime che son vere sbotnie d’oratoria erotica,

per

esempio

Le

sette

opere

della

misericordia

corporale,

di

cui mi limito a citare la conclusione: Misero

me! Mi maledice il cielo, preda mi manda della tomba cupa,

o Maria

il mio

via seppellisci

vivere

è ben

corto,

il morto.

139

Tacete, o preti col vostro requiem! Morir mi parve, ma mi svegliai, e dissi: AI mondo la nequizia è tanta, Maria sola è una santa.

Sono versi nei quali la mescolanza di sacrilego e di licenzioso fa pensare addirittura ai tratti più liberi dello Stecchetti. L’audacia del Padula ai tempi di questa sua ubriacatura è tale che gli scapigliati e i veristi appaiono esangui al suo confronto. Ma il suo abbandono all’anarchia non eta tanto incontrollato, da non farlo talora scherzare con un certo distacco e tranquillità di spirito: Or che il popolo grida abbasso abbasso

il Minister

il re,

di polizia,

io pure abbasso vo’ gridare a te, amica mia. Tutto è silenzio, tutto arride a noi, mille raggi di amor manda ogni stella, scendi, fa freddo, tu scaldar mi puoi: abbasso, o bella!

Anche dopo il ’48, nonostante il terrore incipiente della reazione e le ormai perdute speranze di libertà, la sua musa si scatena oltre i limiti del pudore. Perseguitato dalla polizia, che una notte viene ad arrestarlo, egli si ripara in casa della fida ed accogliente Maria. Accaduta o immaginaria che fosse, questa fuga è di un’allegria cinica, ma talora il linguaggio e il ritmo riescono a contenerla entro il limite dell’arte: Solo tu, d’amor guerriera, puoi in arresto mettermi, con la chioma ondata e nera le manette stringermi.

Ecco! Or sono tuo prigione; quant'è bel tuo carcere! Lì, di amor riderem

nella

che gaglioffo, crede

ottener

che,

che feroce,

prendendomi,

possa

che gli mandi

140

tenzone,

del giudice,

una

croce,

il canchero.

Pur,

darmi

se

vuole

il maledetto

al reo carnefice,

via, m'impicchi sul tuo petto, voglio lì il patibolo... Il disordin mi seduce, tu lo sai benissimo; lini e coltre, o cara luce,

spesso io mando in aria... Che mi preme se la legge data vien da un despota, o se il papa ci corregge, intonando il requiem? E che preme a me del pari se, ingrossando il codice, una turba di somari parli, e faccia ridere?

Tutti i re, tutti i governi sono rispettabili; sono buoni, son paterni, finché non ci castrano.

Ma che fu? Mentre il mio capo esaltasi. Cara

Meana

lì farem

letto

mi

guardi

Regard:

disordine.

Purtroppo non mancano le cadute disgustose e sboccate, dove il Padula evidentemente indulgeva a un certo gusto paesano che toccò la pornografia nei versi di un altro prete, famosissimo in Calabria col pseudonimo di Duonno Pantu (e ancora ne schioccano la lingua i poveri dongiovanni della piccola borghesia locale). Ciò nocque non poco alla sua poesia (per esempio nelle freschissime quartine sul Cardello geloso). E dispiace ch’egli non abbia saputo resistere alle tentazioni d’una banale trivialità, sciupando così le sue più originali occasioni poetiche. In questi versi sul cardello notiamo una rapidità e una immediatezza di stile che solo la poetica del verismo e un occhio esercitato al gusto impressionista saprà suggerire a certi lombardi dopo il ’60 e ai versi macchiaioli del Fucini, quando scoprirà il Belli. In sala, innanzi al banco, e col cuccino sulle ginocchia, la veste tu cuci, ed io sull’uscio, in pié, del tuo stanzino, aspetto ch’alzi verso me le luci...

141

Vien qua, smetti di lavoro; a gomitello dorme tua madre e qui nessun ci vede, salvo

che il tristo

di quel tuo

cardello,

ch’ora la testa si gratta col piede. Ei geloso è di me, ma col panìco da guari tempo me l’ho fatto amico; vieni, cammina, adagio, a farmi lieto;

ei, te lo giuro, serberà

il segreto.

È evidente che un tantino d’astuzia letteraria avrebbe consigliato al poeta di evitare certe anticaglie linguistiche. O gli avrebbe suggerito più oltre, nel dar voce al cardello, un uso più discreto di onomatopee. Ma il lettore è tutto preso dalla singolare situazione, e partecipa all’ansia erotica dell'amante, che stenta a distogliere la ragazza dal suo lavoro e invano la supplica a voce bassa: Su, vieni, o fior di maggio, occhi di sole! Vedi? Ten prego con le braccia in croce; perché son stretto a stillar le parole, e favellarti con tacita voce. Udisti? Il tuo cardel fatto ha zizì, segno ch'egli acconsente a farmi lieto; ei, te lo giuro, serberà il segreto.

La ragazza intenta a cucire sembra illudere e deludere il suo tentatore impaziente: Tu ora stendi la mano, or la ritiri, or m’allunghi la speme, or me l’accorci, ora

affermi,

ora

neghi,

gli occhi

amorosi,

Risolviti,

il cardel

ora

ora

in me

da me

giri

li torci.

fa zipepè,

e il suo verso vuol dire: alzati in pié. Or soggiunge: zipè, zipè, colìo, e vuol dirti: Va, va, così vogl’io.

Il cardellino loquace ha la voce chiara perché ha mudato. fosse concesso anche a me, dice il poeta, la stessa gioia: Qual si vedria, s'io stessi un giorno solo teco alla muda, in noi maggior portento! gli angioli l’ali ci dariano, e a volo ci leveremmo su pel firmamento.

Magari

Vien;

chiuderemo

uscio

e finestre,

e in questo

tuo stanzino staremo a buio pesto, farem

la muda,

entrambi,

e in meno

o cara,

d’un

muterem

ammenne,

le penne,

E qui torna a predominare una stotnellante popolaresca malizia che si può riscontrare in Dall’Ongaro, o, ancor più raffinata, nelle romanelle di Severino Ferrari. Il calabrese ha però la mano meno leggera, e sceglie i motivi d’una sensualità sanguigna e torba, che giunge fino al sadismo: E

ancor

non

mi fai ch’un che che

E

cenno

con

la testa

io qui t’aspetti,

incompiuto è il lavoro, ed alla vesta, a cucirti ora stai, mancan gli occhietti?

Obbedisco; a ciò che

che

t’alzi?

altro poco

ma dice

il botton

e che

pensa, una

non

angiol

volgar

può

tu sei l’occhiello,

Anch'io

e per bottone

bello,

star senza ed

so far gli occhielli,

vorrei nel core, ove non te ne vorrei far due sui

mio

canzone,

l’occhiello,

io il bottone.

e fartene

uno

n’hai nessuno; due ginocchi,

vi porrei quest’occhi.

Il compiacimento delle strofe popolaresche « prolungare per troppi versi la tensione della scena. graziosissima poesia ritorna, quando il cardello, anche aura di golosa e trepidante attesa, minaccia di farla samente, con un nulla di fatto:

continuate » viene a Ma un momento di lui eccitato da quella concludere, dispetto-

Ma che diavolo ha quel malandrino del tuo cardel che il miglio ora sparnazza? Salta

dal

beccatoio

al beverino,

si sbatte tutto, e qua e là svolazza. O maledetto! Che lunga tirata or egli ha fatto! Sta a veder, per mio! ch’ei desterà la vecchia addormentata, ripetendo zivé, titirri, zi0. Al sommo della gabbia ora s’impicca, e gli occhi minacciosi in me conficca, or gli staggi, or le gretole morsecchia, e fallo a posta per destar la vecchia...

143

Ma invan lo scellerato opporsi tenta al desiderio di due fidi amanti! Presto,

pria che

la vecchia

si risenta,

presto, amor mio, pria che di nuovo ei canti...

Almeno una volta però l’amore dell’umile Maria ispirò il poeta fruttuosamente. E i vezzi romantici e il vagheggiamento delle forme popolari non deviarono nell’elusione letteraria di un contenuto inespresso. La fanciulla che lavora al telaio e il poeta che si appoggia al subbio e la contempla rapito in un dolce delirio amoroso: ecco le immagini d’un cuore ingenuo che ha saputo abbandonarsi con purezza d’animo e al fuoco della poesia: Stava Maria seduta al telaretto facendo risonar calcole, e spola: ed io, poggiato al subbio a lei rimpetto, così dicevo a lei solo con sola: Quanto

son

vaghe

quelle

tue

manine,

quanto è vaga la lor mobilità! Mani di fata, mani di regina. Ed

ella fece

Tricche!

tracche!

tra!

Sembran due bianchi cumoli di neve che senza vento sovra i monti fiocca:

si scioglierian di perle in una leve pioggia, al caldo baciar della mia bocca. Son

due

l'uno

bianchi

colombi,

all’incontro

onde

correndo

del compagno

va,

che batton l’ali, e becco a becco unendo, fanno tra loro Tricche! tracche! tra!

Quando ti pieghi poi, quando ti rialzi, come tornito quel tuo seno appare! Palpita come spuma che rimbalzi dall’onda crespa di commosso mare. Piegati un poco giù, piegati, o bella, perch’io possa mirar tanta beltà: sull’incude del core Amor martella, e vi fa sopra Tricche! tracche! tra! Quando accordi la voce di Sirena al suono delle fila e dei cannelli, sembri

una

gli amanti

144

bella

con

un

Maga,

che

incatena

fil dei suoi capelli.

Tra queste fila, ahimé! l’anima mia al par della tua spola or viene, or va, ‘e vi rimane presa all’armonia di quel tuo dolce Tricche! tracche! tra! Ecco,

un

filo si è rotto

e tu l’annodi;

annoda il filo ancor di mia speranza: dimmi che m’ami, dimmi ancor che godi delle mie vampe e della mia costanza. Annoda,

o bella,

col tuo

stringilo forte, e non

cuore

il mio,

aver pietà.

Ecco, io muoio di tema e di desio. Ed ella fece Tricche! tracche! tra! Un subbio è la mia vita, a cui s'avvolgono

di speranze d’amor mille matasse. Passan gli anni nemici e le disciolgono, né per serrare il panno io trovo casse. Tu dipanale, e lor da’ con l’arguta tua spola la maggior solidità; e con le casse poi da’ la battuta, facendo un doppio Tricche! tracche! tra!

Come danzano ben quei tuoi piedini intesi all’opra, senza dire un motto! Di

tue

mani

son

essi i fratellini,

queste giocan di sopra, Ahimé! vorrei mutarmi

e quei di sotto. in pavimento

per sentirmi sul petto or qua, or là danzar leggiero quel tuo pié di argento, e farmi un dolce Tricche! tracche! tra! Tessere Bella,

un’ampia vorrei

con

tela all’infinito, te,

solo

con

sola;

saran trama i sospiri, e fian l’ordito mille sorrisi senza una parola. Che

bella

tela,

che

leggiadra

tela,

o giovinetta mia, quella sarà! Potrà comprarsi a lume di candela. Ed ella fece Tricche! tracche! tra!

Canzoni alla tessitrice non mancavano nella poesia popolare in dialetto, ma questa del Padula, ricca di nuove bellezze e letterariamente tra le sue cose più fini, oscurò tutte le altre, ed è stata celebre in Calabria. Forse meritava più ampia fama. Né si comprende, a rileggerla, perché il Croce 145

non l’abbia citata per intero, dando a questi versi la lode che meritano fra i più schietti della minor poesia ottocentesca. Ma in verità, se i critici trascurarono questo delizioso idillio d'amore, qualcuno ci fu che lo seppe ammirare come un modello e, dai fiori di campo che lo profumano, seppe succhiare il miele onde colmò l’appassionata melodia dei suoi canti. Fu Salvatore Di Giacomo (non per nulla scolaro del Padula in un liceo | napoletano). Purtroppo l’estro del Padula per quanto vivace e nativo e non privo d’ingegnosità fu incapace di superare i limiti storici del gusto e della cultura troppo provinciale in cui era irretito. Se avvertì le manchevolezze del suo stile, non

ebbe mai intera coscienza

della sua originalità,

non

ebbe, come primo osservò il De Sanctis, la serietà del contenuto. La serietà del contenuto è la poetica operante e presente nella poesia d’un grande scrittore. L’arte riesce ad essere rivoluzionaria solo quando la teoria (ossia il gusto astrattamente considerato) e la pratica (ossia la capacità geniale dell’espressione) fanno tutt’ uno e convergono nell’atto creativo. Una coerenza di gusto, una approfondita e meditata ricerca avrebbero dovuto condurre il Padula a identificare la vena autentica del suo realismo idillico, a superare certo impaccio letterario di forme ricevute e inventarsi un linguaggio di poeta. Ma invece quando sarà alla sua seconda esperienza d'amore — la signora Fragoletta — eccolo assumere forme più « nobili », ed ambire a toni che gli sembravano forse più alti e più degni, ed erano invece caduti già nel convenzionale nel secondo romanticismo. La signora Fragoletta è atteggiata «in una donna celeste » che gli fa obliterare « il lauro » della gloria. Ecco in che termini vien fuori il racconto di una visita alla dama rossanese: I suoi lari m’accolsero, e sedendo, mentre coi suoi congiunti in chiusa stanza oneste cortesie ricevo e rendo, ecco di sciolte chiome una fragranza... Ecco... ma basti? Vo’ gustar tacendo la voluttà di questa rimembranza.

Da questo infallibile frasario declamatorio, Padula riesce sempre a salvare la schiettezza delle sue note sensuali che vi spiccano con una loro calda e colorita melodia: Dunque di sciolte chiome una diffusa fragranza

corse su per l’aure quete, ed ella sì improvvisa alla confusa mia vista offerse le sue forme liete...

146

Ed ecco sfoggiare una bravura di stile già quasi parnassiano (e siamo solo nel 1849!), da far pensare alla serie dei sonetti di.Betteloni a una signora: Che mi disse? Nol so! Cara, indistinta. giungeami l’armonia di ‘sue, parole; e l’alma oppressa si credea sospinta in fondo a mari, a selve antiche e sole...

E muto la miravo. Un suo giocondo bambino si reggea sopra le braccia, e come bianca colomba che in fondo ad un cespuglio florido si caccia, di quel fanciullo dietro al capo biondo ad ora ad ora nascondea la faccia, e dagli occhi fuggenti un verecondo lampo le usciva di gentil minaccia.

Ma dopo questi splendidi inizi le terzine, e sonetti interi, fan boccheggiare di noia fra i veli e i cieli e i raggi e gli astri e le idee e gli angioli di Dio. Salvo poi, uno sparo finale, madrigalesco e barocco, che in parte ripagail lettore di tante vuotaggini: i Esser

vorrei

la luce

che

la inonda,

esser il seggio sovra cui s’asside, l’aria che il viso suo rende gioconda, il fido specchio in cui si guarda e ride... Esser la seta, che la copre... Ahi! ahi!, se così fosse, o donna, di tua vesta spogliarti, il giuro, non potresti mai.

:‘B'questovun barocco popolareggiante, che fu congeniale alla retorica di certi; romantici; ma che nel Padula fa pensare a sopravvivenze (giustamente «notate dal Croce) d’un marinismo tutto meridionale. Come, per esempio, nel sonetto sul velo: Velo, ‘che con

un ‘suo

capello

d’oro

ella legò ‘al veroné, ‘e s’addormio, per dirmi che aspettando invan qui ploro, che venuto

a vederla

invan

son

io,

147

tu di partir m’imponi,

e lasso! io moro;

te l’aura scuote, e sembri dirmi addio. Oh, almen tu invece di colei, che adoro, scendi a prenderti i baci, e ’1 pianto mio. Nunzio di gioia fu, pegno d’amore, Sempre un candido velo, e messaggiero, ch'al venir dell'amante affretta l’ore.

Perché sol tu di duolo or sei foriero? Crudelissimo vel, cangia colore, Cessa d’essere bianco, e fatti nero.

TENTATIVI

DI LEGGENDE

POPOLARI?

« L’ORCO »

Per ammirati che si possa essere a questo virtuosismo del Padula è chiaro che non ricercheremo affatto in questi componimenti di maggiore ambizione letteraria il meglio della sua poesia. In verità nei toni narrativi dell’improvvisata, più che nella ingegnosità della poesia lirica, egli ritrovava il meglio di se stesso. Anche l’inappagato amore per la signora Fragoletta se lo ispirò, fu in un’opera assai diversa. dai sonetti che abbiamo citato. E fu il tentativo più coraggioso compiuto dal Padula per. identificare una sua poetica, dove la verità dei sentimenti riuscisse ‘ad incontrarsi col gusto della leggenda popolate e si muovesse liberamente secondo le trovate e le impennate del capriccio inventivo. Lo attrasse naturalmente la forma del polimetro che, sull’ottava, poteva avere il vantaggio di essere più eccitante e di poter soddisfare alla bizzarra mutevolezza dell'umore. Scegliendo il genere della favole in versi il poeta si riserbava il vantaggio d’intervenire con la sua malizia e di commentare la materia del racconto. Ma purtroppo in queste favole la disposizione vivace del cantore (che finge di rivolgersi a delle belle fanciulle) e la intuizione poeticamente viva della materia, restano un impulso iniziale,

non sono svolte e portate a compimento. La castagna, la noce e l’acciarino, imitata da un racconto popolare, ha un passo narrativo misurato e sicuro, ma la forma è quanto mai disuguale, non solo da una parte a un’altra del poemetto, ma anche in una stessa strofa, come ad. esempio in questa che pure ha una sua leggiadria quattrocentesca: V’era un bel fuoco a cui coceasi arrosto, fitto allo spiedo, un porcellin di latte: alla fiamma del fuoco stando accosto, un

148

uom

si ricucìa le sue

ciabatte;

rien

x

mentre un bel cane l’occhio e ed una donna con sedea da lato, con

spalanca

sulla cener posto, con la coda il batte; pensoso ciglio in braccio il figlio.

MATA

Di tutta la fiaba la sola parte. che rimane viva è quella dell’arrivo del principe errante al tugurio della sorella Finetta. Ma si tratta di un hors d’euvre che nulla ha a che fare col resto. i

E camminando,

camminando

giunse

nella sera seconda in una valle: ' all’odor del destriero che le punse, si udirono nitrir mille cavalle. ‘ Vide un tugurio, ed il destrier ripunse tra doppia fila di contrarie stalle. Giunge; ode un canto, un canto che lo alletta, il canto del marito di Finetta: 1 « Bella e superba come una cavalla è la Finetta mia, ed io, che sono vigoroso ‘e. grosso, pur domarla non posso. « Allor che veggo una giumenta altéra aprir'le nari ardenti, nitrir, fiutare della primavera i profumati

venti,

è

aio

i

e scorrazzar saltando in'su l’erbetta, —

AR! io esclamo, o Finetta! « Quando su campo ‘dove non iritoppa, leva la coda ondosa, slanciasi al corso e la ritonda. groppa vibra é tragge briosa, io di te penso, e steso sull’ ‘erbetta, vo’ gridando: —'0 Finetta! »

Non meno frammentario è il poemetto L’Orco, che doveva svolgersi in dodici canti ed è rimasto incompiuto e quasi del tutto inedito, sino a pochi anni fa. Alcuni pezzi sono un rimaneggiamento di versi composti prima del ’49; altri. probabilmente sono stati ritoccati qualche anno dopo, ma è difficile verificare quanto appartenga a questa ipotetica revisione. Più che di correzioni, forse è da parlate di aggiunte che però non hanno servito a snellire la macchinosità della vicenda. Anche nell’ Orco c’è un vecchio cantore che ama rivolgersi alle ragazze, 149

come alle sue più gradite ascoltatrici. È un cantastorie > malizioso che talvolta si compiace anche di battute ciniche: Dutteale femmine so giudicarne, odian lo spirito, aman a carne.

Le ascoltatrici lo stuzzicano, gli danno la baia ed cali Ae non può fare, per schernirsi e vendicarsi, se non di raccontat loro una favola. C'era una volta un Orco, nato. nel tempo dei tempi e decaduto dalla sua nobile condizione: un angelo ribelle, ridotto a vivere in un castello in mezzo a un vasto giardino; stanco della vita, ma che purtroppo non voleva morire, pur avendo migliaia e migliaia di anni: Odiava quindi l'universo e gli uomini sprezzandone la servitù imbelle al loro tiranno, creatore e signore. Il poeta ce lo presenta mentre pota gli alberi del

giardino e canta un inno luciferesco, pasticciata contaminazione di Milton e di Byron. Al vecchio capita un fatto NUOVO: Così cantava l’Orco, ed ecco un’aùura le nari gli toccò. Puzzo di carne umana! Ei: disse subito, e tacque e starnutò. Ed acceso di sdegno, ecco che a correre si mise pel giardin, voltando

il viso

contro

i venti

tiepidi,

che seguono il mattin. E ve’ una donna, che dei pié levatasi in punta piano pian, di lui spiccava le ciriege rosee con timidetta man. Lei vide l’Orco — lui vid’Ella, e il torbido sguardo come incontrò, impallidì, cadde per terra esanime, e i frutti rovesciò. Ma per le sparse chiome egli afferratala, levolla in piedi, e — Orsù! nei miei frutti — dicea — malvagia femmina, qual dritto avevi tu? Si risentì la poveretta, e tremole sotto il mento le palme accoppiando, le labbra aperse dal terror già livide, e disse sospirando: « Orco mio, Orco mio non per l'amor di Dio,

150

non per l’amor di me che son malvagia, ma

per la creatura,

che in sen mi si matura, nel terribile cor pietà ti caggia... »

La povera donna gli racconta come sia stata sedotta da un pastore e come passando presso il giardino le sia venuta voglia di quegli splendidi frutti. L’Orco, dopo averla rimproverata di mettere al mondo un essere che inevitabilmente sarà destinato o al bordello o al boia, finisce per perdonarla, ma a patto che la donna gli porti la sua creatura, quando nascerà: La man le sciolse dai capelli, e pallida la donna s’involò; e giunta a casa, pel terror, per l’ansia, cadde a terra, e figliò. E nacque una bambina: avea una voglia di ciriegia nel sen,

vermiglio il viso qual ciriegia rosea, l'occhio grande e seren; E lei, a memoria

dei rapiti frutti,

Ciriegina chiamò. Nel vegnente mattin poi tutta trepida all’Orco la recò. La prese l’Orco, ed: — Io fin’or degli alberi coltivai la beltà. Or (disse) coltivar voglio una femmina, vedrem che ne uscirà.

Le conseguenze saranno drammatiche per il vecchio Orco che, come spiega il poeta, era diventato così cattivo e misantropo perché celibe dal tempo dei tempi: Perdonatelo,

o belle;

il poveretto ha sì malvage voglie, ché Amor non mai gli riscaldò la pelle e visse seimila anni senza moglie. E lo sapete voi che ti vuol dire non aver moglie allato? Ogni

celibe

visse in mezzo

all’ire,

o un eretico è stato. Ma

datemi

e poi state

a quest’Orco

una

donzella,

a vedere.

151

x È facile figurarsi che cosa accadrà. La bellezza di Ciriegina è ormai

al suo colmo: E Ciriegina giunse a quindici anni nutrita

non

di latte,

ma

di brina,

che le farfalle recano sui vanni, e che l’Orco coglieale ogni mattina. Ella

succhiava

il calice

dei fiori,

e degli alber le lagrime fragranti; bevea dell’alba i tepidi vapori e della

sera

l’aure

mormoranti.

La faccia fresca, paffutella e pura, il colore tenea della ciriegia, di cui metà s’imbianca, non matura,

e d’un vivo rossor l’altra si fregia.

A questo punto la fiaba assume un colorito realistico e con un trapasso rapidissimo e quasi senza gradazione, ci troviamo di fronte a una scena d’amor senile ritratta con acuta psicologia: Piegò il bel collo; mentre

gli porgea

la tazza, e un punto del bel sen mostrò: di mano all’Orco il cucchiain cadea, e l’occhio avidamente spalancò. A raccoglierlo tosto ella si china, arco

facendo

larga quanto mostrando,

della

un

docil

vita;

anel, la cinturina:

e nuda

la gamba.

tornita.

Rizzosi, capriolando, e la beltade dei fianchi in curvo flutto tremolò; di mano all’Orco allor la tazza cade ed in mille frammenti si spezzò. L’Orco era sulle brace: ebbe un pretesto e lei del danno rabbuffò con ira; ella si ferma e volge l’occhio mesto; bassa l’Orco la voce e la rimira. Ma in lacrime proruppe la fanciulla ed a terra cascò col corpo affranto; . corre l’Orco atterrito e dice: — È nulla, è nulla,



e le tergea

coi baci

il pianto,

Ma ella scosse la testa sdegnosetta, e con la mano si coverse gli occhi; la man le prende, tra le sue l’ha stretta; e l’Orco, l’Orco, allor cade in ginocchi.

152

Intimidito e umiliato il vecchio Orco non vuol credere alla sua debolezza amorosa. Esce dal castello e tutto sconvolto prorompe in considerazioni melodrammatiche: lui, il ribelle che ha sdegnato Dio e gli angeli, che ha assistito alla vita. e alla motte dei popoli, si sottoporrebbe ora alla tirannide di una giovinetta quindicenne? Ma sarà così, e dovrà confessare il suo amore a Ciriegina, liricheggiando byroniani filosofemi come un eroe di Prati: Ah, di dentro raccolsi il vero

sessanta secoli la mente mia la bestemmia, e la bugia:

e or questa fronte libera su cui del Genio il nume batte le accese. piume, piegasi innanzi a te.

Ma di mezzo c’è un grosso equivoco. Ciriegina ha detto di sì al vecchio, perché è troppo ingenua e ignara. Un giorno conoscerà il vero amore e allora fuggirà via dal castello rapita da un bel principe, con conseguenti furori dell’Orco atteggiati dal cantastorie sulla pazzia di Orlando. Gli amanti, dopo una lunga fuga, giungono al reame del principe (che potrebbe essere benissimo il vasto feudo di un barone calabrese). Il principe dice a Ciriegina di attendere perché vuol recarsi nella reggia e prepararle una degna accoglienza. E Ciriegina si ferma in una squallida campagna dove uno spettacolo di miseria, a lei ignoto fin'ora, le intenerisce profondamente il cuore: Vedea

di lato un fosco castagneto

entro cui si allontana la via de la fontana.

Ì

D’innanzi

a un riò che corre sul rivo un ponte stretto, sul ponte un fanciulletto,

i

in un

canneto,

che sue lattanti scrofe richiamava, che nel loto han costume voltolarsi del fiume.

Ed ei: —

Voh!

vo! zingara

mia —

gridava;

toh! maialina, toh! monachella voh! voh!...

Tutto dalla

mirava

Ciriegina

e il core

malinconia

stringere si sentia:

153

spettacol di miseria e di dolore offerto ai suoi bei rai ancor non s’era mai.

Ed ecco da la via del castagneto giù correre con festa coi lor barili in testa due giovanette, e lor veniva drieto tutto nudo un puttino; pareva un amorino. Ignudo, ed ondeggiar su la persona bella la sola camicella.

l’anca

gli fea

Le chiuse pugna in bocca si mettea, e scaldandole al fiato, dicea: — Che freddo ingrato.

Le due ragazze, mentre l’acqua empie lentamente i barili, cantano una canzone per ingannar l’attesa. E la canzone ha qualche strofa assai piacevole: trascritta per piffero e tamburo dagli armoniosi prologhi ariosteschi: — Figlia! per quanto la salute hai cara guarda l’onor delle bellezze tue. Erto monte è l’onore, e te l’impara, chi ne discende, non vi sale piue. L'onore ha un gran nemico ne l’uomo traditore! Così predica mamma, ed io le dico:



Mamma,

dov’è l’onore?...

— La zitelluccia è come la gallina, che sola in suo pollaio vive sicura; s’esce di casa, uccello di rapina è l’uomo che l’onor tosto le fura. Le penne in quell’intrico ella smarrisce e more. Così mi dice mamma ed io le dico: —

Mamma,

dov’è

l’onore?

A questo canto Ciriegina è sommersa da un’onda di verginale malinconia. Vorrebbe morire, vorrebbe pregare, se sapesse... Intanto annotta e la povera fanciulla è attesa da un orribile destino. Le si è 154

avvicinata una megera che, fingendo di pettinarla, le pianta in testa uno spillone e l’uccide. Quando: il principe ritorna, in luogo di Ciriegina troverà la Brutta malvagia che, senza essere riconosciuta da lui, incredi-

bilmente si sostituisce alla fanciulla morta. E qui la frammentarietà dei tre comprensibili e plausibili queste ultime viamo la Brutta divenuta regina, dopo mai infelice. Eccola a colloquio con la

his

canti finali rende ancor meno complicazioni della fiaba. Troil riuscito. inganno, ma più che sua ancella:

Ogni balcone, ancella mia, vo’ aperto, voglio aria, voglio giorno, voglio luce: tra la mia fronte e il serto i passano sogni orribili, che la notte conduce. Dicea la Brutta, e l’altra obbediente entrar facea il mattino, e da l’adorno . real talamo sorgente ella

pareva

un

nuvolo,

che corre incontro —

Ancella!

guarda;

son

— men

al giorno.

soggiungea deforme

poi, almen

sospirando di ieri?

E di quella specchiandosi già, dubbiosa

ed avida,

entro i begli occhi neri. — Oh, è vero, — rispondea quella cortese. Candido sogno in tua fronte maestosa ha le sue grazie stese, e de la notte tacita la bellezza pensosa. —

Ancella,

tu m’inganni.

parte di tua bellezza avere e questo io cederei invidiato talamo, la mia corona e il trono.

Ahimé!

vorrei

in dono,

AI solito la situazione originale È sciupata poi dalla verbosità e dalla incongruenza. La fiaba ci riserba però un’altra sorpresa. Ciriegina non è morta. Il suo intervento di Dio, Ma Dio ha fatto i riesce finalmente a

martirio, attraverso una mistica visione e il successivo sarà premiato con il miracolo della sua resurrezione. conti senza l’Otco, il quale dopo tante peregrinazioni rintracciare Ciriegina. 155

Sperando di trovar nella vendetta le gioie che negate aveagli amore, al palagio reale i passi affretta, quando a mezzo del giorno erano l’ore.

Nascosto nel giardino, ivi l’aspetta; pur di vederla non gli basta il core: l’ora che passa pargli lunga assai e insiem desia che non venisse mai.

Alla vista di lei, però, il vecchio si sente disarmato: Un livido pallore. ed improvviso coprì l’Orco tremante Ahimé, così

sì bella

divina

ancor

e con non

a quella vista, sì dolce l’avea

viso, vista!

Al verecondo, verginal sorriso or la beltà matetna' erasi mista; in essa il frutto era successo al fiore che maturo dicea: — Coglimi, amore!...

Quanti palpiti e baci e quanti ardori depor di lei nel seno altri ha dovuto, perchéil fior chiusodi sui vivi avori fosse or così sbocciato e sì cresciuto! E pensando così mille furori gli lampeggian sul viso in giù caduto; poscia soggiunse ::-— Ah, no, non è più quella, e un altro; ahimé! l’ha.così fatta bella.

AI pensiero che la nuova bellezza di Ciriegina è frutto della felicità che le ha dato l’amore del principe, l’Orco è ripreso dal suo furore omicida ni e balza in pié, d’aprir deliberato in quel sen non più suo mortal: ferita,. poi sta qual uom, cui Genio disperato mortalmente

a ferir se stesso

invita;

il qual col viso pallido e sformato voltasi indietro a salutar la vita, a contemplarla per l’estrema volta pria che dal proprio acciar gli venga

tolta.

E l’Orco stette a contemplar la donna, per empirsene ed occhi e core ed alma;

156

l’altra. sospira e a guardar ritorna del figliolino suo la dolce calma; di qua di là le chiome indi si storna, apre le labbra e canta. In su la palma l’Orco declina il viso e stassi attento a bevere l’armonico concento.

RED

La ninna nanna di Ciriegina (in cui si alternano gli ‘affetti materni a concetti più che sentimenti religiosi), benché mediocremente verseggiata, incanta l’Orco. Si fa così chiara la conclusione del poemetto che vorrebbe essere edificante. Ma della difficoltà che comportano le pie intenzioni, finisce per accorgersi il poeta stesso, che rivolge queste parole alle sue immaginarie ascoltatrici: O stregherelle, perché quello sbadiglio? Son.

pur

moralizzar

lo stolto,

con

voi

perdonate,

gli è un

o

belle;

gran

periglio.

La moralità intima di questa leggenda, nella quale il Padula avrebbe indubbiamente voluto cantare la leggenda di se stesso, il piccolo umano dramma che fu già del Parini, le aspirazioni a una vita di caldi e semplici affetti, negatigli dal sacerdozio, doveva essere contenuta nei suoi termini umani. Altrimenti il contrasto fra i momenti realistici che meglio lo hanno ispirato e gli interventi oratori di una religiosità affatto esteriore sarebbe stato, e tale in effetti riuscì, assai stridente. Senza volere inutilmente infierire sugli innumerevoli difetti di questo lavoro del Padula, da cui ho riportato solo i versi che si potevano salvare dalla farragine dell’insieme, basti sottolineare come nell’ultimo canto appaia evidente l’incongruenza e la difficoltà di una conclusione di tutta l’opera. La riconversione dell’Orco in angelo ad opera di Ciriegina, divenuta una madre incantevole per la bellezza, per affetto e per la devozione, è. di un semplicismo che disarma ogni critica. Le ottave che narrano il singolare evento sono le ottave del Padula più giovane, scritte a orecchio e alquanto gratuite e correnti: L'armonia di quel canto e la dolcezza degli affetti divini che esprimea, incatenava l’Orco, e la durezza della feroce anima sua molcea.

Così di ammaliato con

dolce

carme

angue

si spezza

la malizia

rea.

157

Perché ei venne e tai DEE

colà’ più non rimembra, suo segreto assembra. .

Medita l’Orco sulle bellezze del mondo, ma a dopo averle enumerate esclama: Ma più bella è la madre col suo figlio, bianca vela sul mare della vita, sole di amore che le abbaglia il ciglio, fior nel cui grembo un’alma a un’alma è unita; onda che con armonico bisbiglio tra le braccia,

dal sen, l’è scaturita:

i

— Ah! È un’immagin di Lui... di Lui —, né Dio pronunziare l’infelice ardìo.

Anzi, l’Orco è tanto dimentico di se stesso che, nonostante la sua plurimillenaria malizia: di demonio, esce in talune ingenuità più che angeliche: Oh

se agli angeli suoi simile sorte

negli anni eterni, avesse



ahimé

largito;

se avesse lor commesso una consorte una compagna in quel vuoto infinito, non mai, contro l’eterne porte (sîc) d’Angiol pugnato avria drappello ardito; ned io nemico a Lui caduto fora da

pene

a pene

e in altre

pene

ancora.

Povero Padula! Vien voglia di ripetere (ma con affettuosa indulgenza per l’uomo se non per il troppo sprovveduto scrittore): « cose non dette in prosa mai né in rima ». A questo punto, dunque, lo aveva ridotto l’amore di donna Fragoletta! E del resto in termini non leggendari, ma con un realismo più che immediato egli lo aveva già espresso quest’amore, anzi gridato, in un’accesa confessione: T’amo!

Tel

dissi,

ed ebbi

maraviglia

io stesso del mio ardire; che indegno io mi sentii d’alzar le ciglia ai tuoi begli occhi, che mi fan morire. T'amo! E com'uom che ruba; e dopo il furto scappa, né sa ove vada. Dissi: t'amo! e fuggendo in mezzo all’urto dei miei pensieri, io non vedea la strada.

158

UNA FAVOLA CONTADINA: « LA NOTTE DI NATALE » La parti poeticamente vive dell’Orco ci hanno dato un’altra conferma che il Padula avrebbe potuto progredire soltanto verso la poesia borghese e realistica. I termini di questa poetica gli balenarono talora con chiarezza. Ma non seppe assumerli a limiti precisi, ignaro della audacia di quel che aveva tentato. E così può spiegarsi come si sia smarrito nel piacere della leggenda romantica. Del resto ciò non meraviglia se artisti che vivevano in un ambiente letterario meno inesperto si smarrirono dopo di lui e come lui. Si veda il caso di Prati e la leggenda Satana e le Grazie. Per convertire in poesia quel prepotente e urgente contenuto sensuale era necessaria una padronanza di mezzi espressivi, la capacità di superare quell’oscillazione tra l'immediatezza delle confessioni e la retorica romantica. E ci sembra che il Padula ci sia riuscito pienamente, quando assunse a proprio contenuto il « romanticismo naturale » della sua Calabria, non adoperandolo come colore locale, non compiacendosi di cogliere i curiosi incontri di quel contenuto con le forme letterarie preesistenti. E ciò gli avvenne nella leggenda in dialetto ispirata alla Sera di Natale. L’argomento era quanto mai frusto e da Sannazzaro a Manzoni (per

non parlare della tradizione figurativa nel Mezzogiorno) aveva una iconografia ormai secolare. Padula seppe guardarla con occhi nuovi e ne cavò un vivacissimo presepe calabrese, dove gli elementi reali e quelli soprannaturali sono espressi con perfetta misura nel linguaggio della poesia contadina. La Sera di Natale è anch’essa un polimetro, ma è posta sulla bocca di un cantastorie paesano, e le sue ingenuità, anche quando scadono a rozzezza, offendono meno il lettore, che deve abituar l’orecchio a certi tratti energici ed elementari, simpaticamente aggressivi pur nella loro approssimazione: EnakVvota, imonvgar cuntu; ’e decembri era na sira...

Il cielo è nero come una mappina, come uno straccio, le nubi son come cenci, il buio della notte si può tagliare a fette. Siamo in una cucina, in una sera d’inverno; indulgiamo al narratore che si serve di povere immagini, lì, a portata di mano. I personaggi del suo racconto fanno parte dello stesso mondo misero e squallido: un vecchietto arrisinata, 199

intirizzito, scalzo e calvo, con un’ascia alla cintola, e tocca-piedi a lui, sulle sue orme, una bella furracchiola, una giovane donna rcamzisuotiu,

col rosso vestito delle donne di Acri. Gente del popolo, ma con qualcosa di strano nell’espressione dei volti: il vecchiotto omo e Diu paria alla cera e la giovine — formaluocchiu, sia lungi la jettatura — ha un’aria da Signora (il che per la fantasia dei poveri è l’equivalente della divinità). La giovane è così fatta che una stella non è paragonabile a lei: il cantastorie ne descrive il volto di rose, la bocca piccola come un anello e u labbriciellu scocculatu [sbocciato] e pittirillu tali e quali nu jurillu [fioretto]

È la bellezza con i suoi attributi un po’ convenzionali nella poesia del popolo. Ma chi narra non è poi così ingenuo come vuol sembrare: prima ha dato un vaghissimo colorito di antichi dei ai personaggi, ed ora insinua un biblico paragone, esperto com'è di sacri testi: Era

prena

prena

’a povarella,

’rossa

[grossa],

e ti movìa

tunna tunna ’a trippicella [la pancina], chi na varca ti parìa, Quannu càrrica de ’ranu [grano] va pe’ mari, chianu chianu.

I ragazzi dell’uditorio forse non sono abbastanza rapiti da celare qualche sorriso: ma ci pensa il manesco narratore a richiamarli all’ordine e ad ammonirli che la sua è una « divota canzuni »: Via! i capelle vi cacciati, vi minditi [mettete] ’njnocchiuni...

Giù il cappello e in ginocchio: non hanno dunque capito che il vecchio è San Giuseppe e la bella furracchiola è nientemeno... ma come dirlo? Il poeta è muru pe’ lu trillu, per l’estatica gioia. Chi di voi se la sognerà stanotte (chiede ai ragazzi)?

Mo de vua chi se la sonna? Si chiamava la Madonna.

160

I due viandanti camminano per la strada che è buia e disuguale come quella dei villaggi calabresi. Ma ecco un palazzo ‘signorile. Vi bussano con le mani tremanti dei poveri. Da dentro non sentono, i ricchi ghiottoni stanno a banchettare, e il buon odore dei cibi, e il rumore del vasellame giunge fino all’uscio: Cannaruti!

Li ricconi

cancarìanu

e nu

c'è n’orduru

rispunnu;

’e così boni,

i piatta vannu ’ntunnu, ed arriva lu fragasciu d’ ’i bicchera

[in giro]

fin’abbasciu.

I poveri viandanti ripetono il loro timido tuppi-tuppi, e alla voce adirata di dentro chiedono umilmente ricetto. Per tutta risposta quel ricco si comporta come un barone o un agrario, strappando una maledizione al cantastorie: Chillu riccu — chi li pozza ’u diavulu i muniti [le monete] ’ncaforchiari [ficcare] dintra a vozza [nel gozzo] — a nu corsu [cane di guardia] chi tenìa, dissi: — Acchiappa! Adissa! A tia!

La Madonna si comporta come una povera contadina rassegnata per secolare sottomissione alla crudeltà dei potenti. Le sue parole e più ancora il suo gesto ne chiudono l’immagine dolorosa in uno scorcio rapidissimo, dove senti la fantasia e il cuore del poeta aderire a quel dolore con un consenso immediato: A Madonna benadissi chilla casa; e a lu maritu — Jamuninni [andiamocene] fora — dissi — Mina i gammi [gambe] e statti citu [zitto]. Si ligau lu muccaturu [il fazzoletto], e si misi pe lu scuru.



In questo buio si smarriscono per le strade sassose, inabissate fra dirupi e alture. E delle loro ambagi si sente oppressa di pietà nell’anima la luna verginella, celeste creatura che già. Virgilio.e Ariosto invocarono in patetici frangenti. Ma il ricordo letterario è' remoto, e ne vien fuori un’immagine

nuova: 161

Mi sentìu nu pisu all'arma [all'anima] tannu [allora] ’a luna virginella quannu viddi chilla parma [palma] de Signura cusì bella intr’ ’a zanca [fango] ’mmulicata [imbrattata] senza mai trovari strata. E cacciannu ‘a capu fora de na nuvi [nube], chi lu vientu fici a piezzi, la ristora; cielu e terra fu ’n argientu, l’allucìu

tutta

e li dissi:



la via,

Avi

Maria!

Per il cielo le stelle si accendono improvvise e forse un po’ troppo lucenti dopo quel buio compatto che si tagliava col coltello. Sono i contrasti del meraviglioso come piace al popolo, a bianco e nero. In questo sereno si svela una capanna di gualano, come laggiù si chiama il bifolco. È l’unico rifugio in quel paesaggio deserto, e sembra fatto apposta per ospitare i poveri viandanti. Basta togliere il palo che spranga l’uscio: Spuntillarunu lu vetti, e la porta s’apiretti.

San Giuseppe spande a terra il suo mantello e a Madonna si ci assetta e li scuoccula [sboccîa] d’ugne juri nu vurbino.

vicinu

Un’aiuola variopinta di fiori sboccia nella capanna, che è più pronto e inaspettato miracolo poetico dei fiori che spuntano sotto i passi di Maria nel De partu Virginis, a reminiscenza di Poliziano e di Lucrezio. Qui Maria è atteggiata come le terrecotte dei figurinai o le statue lignee che più o meno oscuri maestri meridionali hanno scolpito per centinaia di presepi e di altari: volti di contadine idealizzate in signore, fino alle più raffinate movenze rococò, con quei loro volti smaltati in colori da porcellana, e quelle dita fragili che accennano musicalmente a grazie e favori da dispensare ai fedeli: Supr’ ’u cori na manuzza si tenia, pecchì era stanca; appoggiava la capuzza chianu

chianu

supr’

’a manca;

pua, stenniennu li jinuocchi, quieti quieti chiusi l’uocchi.

162

Era aperta, e nu granatu ©‘ a vuccuzza assimigliava, ordurusu escia lu jatu [fiato], ‘* chi lu‘“munnu arricriava, cullu

«ma

cuorpu

.cu l’arma

illa dormia;

[l'anima] ‘n. cielu. jia.

La Vergine sogna di ascendere in Paradiso e di essere accolta da santi e angeli che la vogliono sollevare sulle spalle come accade alle processioni con la sua statua: Santi ed angiuli li pari ca s’ ’a vuòlunu ’mpesari.

L'immagine di Padula qui trascorre con ingenua purezza poetica dal reale al surreale, inseguendo quel carnale mito della famiglia che ossessionava la sua fantasia. La Madonna è sollevata fino all’altezza del Signore e lì, miracolo dei miracoli, rappresentata con la più ‘pagana e orfica tra le invenzioni mitologiche dei, contadini: li Signuri si scippava de lu sinu propriu u figliu, e cud’ amuri ci ‘u dunau [glielo donò] cumu e li dissi: — Tienitilu! —

’nu milu,

. Si dirà che forse il teologo paesano ora soccorre il poeta per fargli effigiare questa curiosa teogonia di Cristo, in cui Eva si converte in

Maria e il demonio in Padreterno, e il melo non è il pomo del peccato ma la grazia della redenzione che ha fruttificato presso il cespuglio fiorito: albero del riscatto in sostituzione dell’albero della scienza. Ma tutto ciò è calato direttamente nelle immagini e il Padula non aggiunge alcun commento: discretissimo artista, riserverà se mai a qualche suo panegirico le sue dotte e. barocche elucubrazioni sull’arduo tema. La beatitudine del sogno straordinario fa svegliare la Madonna che cerca

presso

un bambino il poeta,

di sé quel frutto di vita. eterna.

E infatti eccole

prodigio che già la chiama Mamma. Viata

illa, affurtunata!

Intra

suonnu

era

Beata lei —

accanto

esclama

figliata...

cà, cum’ esci na preghiera de la vucca ‘de li santi,

163

cussì u figliu esciutu l’era senza dogli a chillu stanti, .

n :

cum’orduri ’e rosi e midi [di rose e mele] esci, ed èsciari ’un si vidi [e non si vede uscire]

Il soprannaturale accade in sogno e il poeta ritorna ai fatti umani avvolgendoli di appena un profumo di mistero con una cautela estrema. In nessuna altra poesia si può cogliere come in questa Notte di Natale la contraddittoria fantasia contadina del Padula, pagana e cattolica, sensualmente

mistica

e magica,

non

senza

una

commossa

partecipazione

alle

miserie del popolo come oscuro mistero della storia umana che solo l'intervento divino può consolare. Nella seconda parte del Natale leggiamo una ninna nanna della Vergine al Bambino assai felice e delicata. L'esordio è idillico, ricco di vezzi e tenerezze: si pensa a un Pontano ritradotto nei suoi originari modelli popolari: Duormi chiudi duormi zuccaru

bellizza mia, duormi e riposa, ’a vuccuzza chi pari na rosa, scuitatu [tranquillo], cà ti guardu iu miu.

Ma poi questo amore ebbro di felicità diviene il mistico terrore di cui cantava Jacopone, chiedendosi con esaltata oratoria come facesse la Vergine a contemplare il suo figlio divino. Padula si ripropone la « smesuranza » di questi sentimenti in modo immediato, con una energia di affetti elementari e profondi che si traducono in immagini poeticamente

umane:

Occhiuzzi scippa cori, jativinni ‘un mi guardati, cà fazzu li pinni. Na

vuci

interna,

chi la sientu

iu sula,

mi dici: Vula! A ninna [pupilla] ’e ss'uocchi tua m’ardi e m’abbaglia; tutta l’anima mia trema e si squaglia: canta cum’ ’u cardillu, e asciri fori [uscir fuori] mi vò lu cori.

Il Paradiso che la Vergine vede in fondo agli occhi del suo bambino è come un miraggio della felicità materna, e non ha nulla di mistico. E la gioia della madre si esalta nell’inventare l’immagine. del sonno che è andato a cogliere fiori per farne una corona al Bambino, e miele per 164

ungerne il labbro e stelle per cucirgli una collana. Ma volando giù questo genio di pace si muta in genio funebre e si trascina con sé una schiera d’angeli con le ali di fuoco. La madre ne è atterrita e si ribella: Chi siti mo venuti a fari lluocu, [qua] ‘angiuli ’e Diu, cu’ chilli scilli [ali] ’e fuocu? Mi voliti arrobbare ’u'figliu miu, Angiuli ’e Dio?

Implora dunque gli angeli che non le rapiscano il figlio, lei è una povera madre e non ha altro, e quel bimbo è un dono celeste. Così se lo stringe al petto e, smarrita nel suo vago terrore, pensa che forse la sventura sarà inevitabile quando il mondo « malandrino » verrà a conoscere che suo figlio è Dio. Ed ecco lei la fortunata, come per effetto di un cosmico malocchio, diventare subitamente la madre addolorata di un figlio crocifisso: e pe’ ’nchiovàri Pe’

‘ssi jidita fini, [dita fini]

’ssi capilli tua criscinu

spini,

piensu c’ ‘a forgia mo vatti [batte], e nun sa chillu chi fa.

Le sembra già di sentire forgiare i chiodi del supplizio, e nel vento del bosco le sembra di ascoltare il lamento della quercia che grida: ’u lignu miu cruci è de Diu! Anche il Bambino piange impaurito e trema come una rondine: la madre, non riuscendo ad acchetarlo, è sconvolta da un accesso quasi demente di affetto; e non si sazia di vederlo vivo e ancora piccolo, e lontano dal giorno della passione: Ah,

nun

chiàngiari,

no!

Pecchì,

o Bomminu,

mi triemi cumu ’na rìnnina ’n sinu? Pe’ mo, duormi scuitatu: tannu, pua [allora poi] c'è mamma tua. Supra li vrazza mia, supr’ i jinuocchi zumpa, aza [alza] ’a capu, ed apirelli l’uocchi. Quantu si biellu! Chi jurillu spasu! [fioretto schiuso]. Dammi ’nu vasul

Certo per chi conosca i versi non ‘dialettali di Padula è facile riconoscere certi trapassi bruschi, certe imperfezioni che, se qui riescono meno sconvenienti al tono del racconto, son sempre il prodotto di una

caratteristica impazienza all’arte e alla sua disciplina. Ma forse più che 165

altrove ora il lettore. è disposto a perdonargli questi. trascorsi. È così autentico, nel. suo dono poetico, e sa resistere così bene, ‘parlando il materno linguaggio di Acri, alle tentazioni letterarie dell’ arcadia. pastorale: Cussì cantava ‘a Vergini Maria,

4

e nazzicava [eullava] chillu quatrariellu. [bambino]. 'U cielu

vasciu vasciu: si facia,

asuliannu [ascoltando] a chillu cantu Delta” abballava la terra e si movia, mostrannu tuttu virdi lu mantiellu, e lu vientu ‘si stava accapputtatu gridannu dentr’ ’u vuoscu: — È natu! È natu! — Ugni jumi [fiume] portava ’na chjinera [piena], '. chi d’uogliu, chi de latti e chi de vinu.’ Meli e farina. escia d’ ’i cerzi [querce], ed era

carricu ’e juri *nsinc’ a diri ’u spinu; e tornata paria la primavera, scotuliannu tutt’ ’u vantisinu [grembiule]; a vita fici l'uva, *u ranu ‘i spichi, e li scattilli si facèru fichi.

Le reminiscenze virgiliane, il cielo della VI egloga, e le esultanze della natura per l’assunzione di Dafni tra gli Dei qui non restano ornamento letterario ma son riecheggiate da una. calda fantasia che sa; tinnovarle e ravvivarle con impressioni felici. La pastorale diventa calabrese non solo per la forma del dialetto, ma prima ancora pet il suo contenuto. È una cantafavola contadina, dove-tutto: si anima'cog ‘una magica allegria, e il fiabesco e il reale hanno un medesimo colorito, perfettamente ingenuo. Le stesse ottave non riposano più nella maniera ariostesca' prediletta del Padula, ma sono tumultuanti e affollate di immagini. Ecco i poveri che vanno a fare omaggio di « complimenti » al. Dio. Bambino, come a un signore che, nato nell’umiltà e nella povertà, è ‘venuto al'‘mondo non per opprimerli, come gli altri signori di questa tetra, ma per portare paci all’omo buonu: A chillu forti gridu, allu sbrannùri [splendore]. chi l’Angiuli spannìanu [spandevano], sallu paìsi subitu si scitarunu [destarono] i pasturi, i massari, i curàtuli [cascinali], i furisi [pastori], Vìdinu li campagni no’ chiù scuri, supra li munti vìdinu i lucisi [fuochi]; sientà sonari suli.i ciaramelli, e ballari muntuni e pecurelli.

166

E ognuno si restava ’ncitrulatu [sbigottito], e culla manu l’uocchi si spracchiava [sfregava]: ma ’n Angiulu passannu dissi: — È natu, è natu chillu Diu, chi s’aspettava. — Allura chi vidisti? ’Mpaparatu [confuso] ognunu pe’ la via s'azzummulava [si precipitava]. Chi canta e balla, e chi senza pensieru facìa culla sampugna: Lleru! Lleru! Chi porta ’na sciungata [giungata], o na fiscella, chi ’nu rinusu [caciolino] e chini ’nu capriettu: scammisata fujia la furisella [pastorella] cu’ quattru cucchia [coppie] d’ova dintr’ ’u piettu; e appriessu li currìa la figlicella, chi ’nculinuda si jettàu d’ ’u liettu: pe’ l’allegrizza, li scoppa lu chiantu [pianto], e port ’nu galluzu ’e primu cantu.

Chi narra è povero come loro, e invano cerca qualcosa nella sua tasca segreta, nella zzariola, per offrire un suo dono al Bambino. L’unica sua ricchezza è la poesia, e così ha composto questa canzuna: Chi fici poca [dunque]? Fici ’sta canzuna, e Jesullu mi dezi [diede] ’na curuna.

La conclusione, se si vuole, è un po’ nel gusto fiacco e dolciastro caro a Sant’'Alfonso de’ Liguori: la spontaneità della poesia contadina finisce per blandirsi nell’oleografia. Sono le cadute che caratterizzano gli scrittori nei quali il gusto è malsicuro, perché, sebbene all’attività artistica si accompagni in altra sede una certa capacità critica, questa resta astratta e 4 posteriori, non si converte in un saldo nesso creativo, non

diventa una poetica. 1950

167

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1

IL CLASSICISMO

BORGHESE

DI VITTORIO

BETTELONI

In grossi volumi si vanno pubblicando le opere complete di Vittorio Betteloni. E uno scrittore che da Carducci a Croce a Pancrazi ha avuto onori critici non inferiori al merito. Eppure, tutto ciò non ha soddisfatto né il Betteloni né l’orgoglio dei suoi discendenti che invano hanno invidiato ad altri poeti, come ad esempio Lorenzo Stecchetti, una popolarità del resto meritata e non casuale. « Ma Betteloni è un poeta in lingua parlata », assicurava solennemente

nel

1940,

in occasione

del centenario

della

nascita,

un

dotto

professore. Ah sì? (gli fu risposto non senza maraviglia per la singolare scoperta). E il buon Betteloni restò lì, tra gli allori ingialliti delle celebrazioni semiufficiali. Dopodiché ora siamo all’esperimento estremo: opera omnia presso Mondadori, a prezzi modici, col rischio che vada a far compagnia, in antiquariato, ai volumi di Giorgio Arcoleo e di Ruggero Bonghi. Architetto di questa specie di tomba gentilizia è stato Mario Bonfantini, che non solo vi ha sfoggiato un imponente apparato filologico (coi materiali belli e pronti in casa Betteloni), ma si è incaricato di accreditare l’innocuo rimatore veronese come esponente del « romanticismo realista », come poeta di avanguardia. Che cosa non può passare per progressivo, in questa repubblica del

triregno? Anche in letteratura gli uomini della terza forza, con la loro funzione squisitamente ausiliare, son fatti apposta per avallare i più grossi

equivoci. Nel caso nostro il lettore dovrà respingere la mediazione socialdemocratica di Mario Bonfantini, in verità molto mutato da quel fine critico che anni fa prometteva di essere, per capire e apprezzare il Betteloni così come fu: un ricco e colto campagnolo, che in attesa di vendere il raccolto dei bozzoli o il vino dei suoi vigneti al « rude mercante lombardo », tra gli ozii della sua vecchia casa quattrocentesca, a Cartel169

rotto, dove abitò un giorno il grande umanista Guarini, scriveva correnti versi per raccontare a se stesso la propria vita, così mesta di agi, e nonostante qualche scappatella, di saggezza; per raccontarla e illeggiadrirla, in un’aura di giocondità tutta letteraria e fittizia, col piacere che dà tra rima e rima un fluido verseggiare. Piacere più eletto, più « spirituale » e non paragonabile agli altri piaceri della vita, quali può offrire una « graziosa femmina » per amante, una « donzella » dabbene per moglie, l’avita casa ben riscaldata l’inverno, o una ghiotta cena di uccelletti arrosto e (come egli scriveva con vocabolo toltogli poi da D’Annunzio) « un vino arzente ». No, non si dica che queste son bieche malignità di un critico mangiaborghesi, che parla, di solito, col coltello fra i denti. Quando il nostro preteso « romantico-realista » pubblicò il suo primo libro, Carducci, che oggi nemmeno un clericale oserebbe travestire da bolscevico, ma che aveva la sana abitudine di considerare l’uomo nello scrittore e lo scrittore nella società, lo presentò con maggior misura di certi volenterosi betteloniani: « È un giovine della vecchia borghesia benestante e bene educata, con una vena

d’originalità non

chiassosa, con

ticchio dell’arte,

e con l’intiera libertà e signoria di sé ». Il ritrattino era così giusto, che il giovanotto vi si specchiò non senza ironica delizia quando raccontò la seconda storia galante della sua vita, nei Sonetti per una signora: Io sono un vago e giovine signore, ho grande l’occhio e piccioletto il piede; son di dovizia in così buon odore che ogni ebreo di quattrini mi provvede...

Scherzava, l’amabile agrario di Castelrotto, col tono di distacco e di superiorità che gli conferiva la frequenza di Omero e di Catullo, di Ariosto e di Heine, o del Dorn Giovanni di Byron, che egli, quando non verseggiava se stesso, traduceva saporosamente. Ma altro che romanticismo, c'era in Betteloni la vena dilettantesca che molti secoli prima sgorgò dall’arido ghigno di Lorenzo dei Medici. Anche il Betteloni (intorno al ’65) civettò a poeta ribelle; ma lo fece con tutte le precauzioni di chi non avrebbe mai abbandonata la sacra via del giusto mezzo, passeggiando con una confidenziale dignità

oraziana tra i maialetti di Epicuro. Che avevano da spartire poveri scapigliati lombardi come Praga, Boito, Tarchetti Basta leggere i versi così giudiziosi (e così odiosi) in cui spiega come mai egli, studente, « lunge dalla famiglia », si a qualche ragazza di rango inferiore: 170

con lui quei e Zendrini? il Betteloni sia concesso

E tosto allor succede. ‘ che un visetto ci appaia. di fanciulla operaia, :.che. un

angelo

si crede,.

non sapendo chi sia,.. Piace,

le si vuol bene:

come insegna Natura, lo stato non si cura... Divino è questo omaggio; | passan tempi e vicende,

| anco moglie si prende; ma resta sempre un raggio

di quella prima aurora che l’anime ci indora...

Che aveva a che fare (giacché il discotso è capitato sulle parentele, esaminiamo quelle, o alcune soltanto, su cui si è sbizzarrito l’astrattismo e il formalismo critico del Bonfantini), che aveva a che fare col Betteloni il libertario cattolico Tommaseo, ricercatore di una forma « vera » nel

senso tutto intimo dell’anima e dei suoi travagli peccaminosi? Che aveva da vedere con lui il socialista Pompeo Bettini,il gentilissimo proletario idillico, tutto

innamorato

a cantare

un mondo

di tenera fantasia e di

sogni fioriti sui patimenti? E come parlare, sia pure per approssimazione generica, di « romanticismo realista » se questa formula è di per sé già troppo stretta o troppo larga, quando vogliamo addossarla a un Tommaseo, a un Bettini e ad altri ancora? Come parlare di romanticismo realistico, se uno scrittore ci si presenta come Betteloni, senza quelle caratteristiche di passione ideologica e morale, che son vive in ogni romantico, senza quella scoperta polemica di nuovi contenuti, premessa e stimolo di serio rinnovamento formale, che è essenziale ad ogni realismo?

In verità nel Betteloni c’era una notevole coerenza tra il suo conservatorismo sociale e il suo indolente ma ben ammodernato e scaltro abbandono a una tradizione retorica definitissima: quella dei capitoli e delle lettere famigliari, la quale vantava sì di avere appreso il realismo dai classici: ma, ahimé, alquanto scoglionato e senza idee. L’ozio umanistico del Betteloni che un secolo prima si sarebbe effuso in cicalate e in canzonette, finì per trovare la sua espressione più vera nell’idillio domestico di Piccolo mondo, dove tra pensieri alquanto convenzionali, guizzano memorie di lontane sensualità: 171

Bella eri tu davvero, Anna. Sul colle come giovine pioppo il fine e molle tuo corpo mi appariva, ed avea quel tuo corpo adolescente d’una frutta anco acerba il prepotente invito e l’attrattiva...

O son colte le vicine occasioni di diletti più pigri: Torna dal San Martino allor la state, la caccia delle allodole le brevi

tepide mattinate ne

allegra,

e il dolce

arrosto...

Ma poi, cogli anni, sfogati gli umori di gioventù, verso la fine del secolo, lo sorprendi più che mai compiaciuto ad inseguire in versi ariosteschi motivi di oleografie mondane. Per esempio, La bagnante: Là

si spoglia

e si tuffa

immantinente

ella, e nuotando in alto si sospinge; corre il flutto su lei vivo, fremente,

tutta l’avvolge

e tutta se la stringe.

Erotici diporti, come si vede, che anche il Bonfantini giudica parnassiani e liberty. E sono l'epilogo chiarificatore di tutta una carriera letteraria. 1948

172

UN SOCIALISTA

IDILLICO:

POMPEO

BETTINI

Per schietto amore all’arte, e senza intenzioni polemiche, di cui sempre si compiace contro la letteratura contemporanea (dico del tempo di noi più giovani), il Croce ristampa un’ampia antologia poetica di Pompeo Bettini, premettendovi un informato studio sulla sua vita e i suoi scritti (Bari, Laterza, 1942).

Dona ferentem ringraziamo sinceramente l’editore; e leggiamoci il delizioso ottocentista e lasciamo stare la contropolemica. O sia lecito solo un ricordo — strettamente confidenziale. Strano a sapersi, fu proprio un giovane poeta d’oggi (Alfonso Gatto) a farmi leggere un giorno i versi di Bettini, indicandomi appunto la nota crociana che nella Lezzerazura della nuova Italia aveva saggiato e rivelato lo scrittore lombardo. Ma chi

s'è fatta questa falsa idea, che Ottocento e Novecento siano l’uno contro l’altro armati? Si segga pure il Croce in mezzo ai due secoli, arbitro che ha già fatto la sua scelta e del quale vogliamo riconoscere come legittima la stessa parzialità. Che ci si venga, invece, non a proporre delle belle letture (come fa Croce), ma solo a vietarci quelle che vogliamo fare per nostro gusto, buono o cattivo che sia, ecco un « giansenismo » d’insopportabile pretesa. Di qualche giansenista che ha da scontare peccati di gioventù, rimpiangendo il tempo male speso a risolvere problemi di metodo critico sui romanzi di Guido da Verona. Le notizie biografiche si possono trovare raccolte da Croce in gran copia nella sua prefazione. E sono il commento migliore, non ai versi (che in generale s’intendono facilissimamente), ma, direi, a quel ritrattino del poeta, che visto una volta, lì, accanto al frontespizio, ci sembra di persona amica e familiare, e suscita quella curiosità affettuosa che non si scompagna mai dalla schietta e viva simpatia. Spero che avrete anche voi un debole per le vecchie fotografie. Dopo l’immagine di Serra (quel solino borghese, che socchiude il lungo volto d’angelo sensuale), vi con173

fesserò che davanti a poche altre ho indugiato così a lungo, come davanti a questo povero cappelluccio socialista di Pompeo Bettini, a questi suol occhi pungenti di mesta ironia dietro le lenti a stringinaso, che sembrano schermire sottilmente innocenza e delusione e saggezza, segreti di un amor della vita distaccato e puro. In cima, in un angolo, appaiono i vecchi inchiostri di una dedica: tre o quattro parole, quante bastano a epigrafare un modico pessimismo, liberandolo in uno scherzo consolatore: « A Pompeo Bettini amico carissimo ». La vera e sola definizione di un artista non fallito! Riuscire serenamente a diventare il migliore amico di sé, ad amare la propria umanità, ad assaporare (verrebbe la voglia di dire)la pasta di cui uno si sente bene impastato a differenza di tanta parte del prossimo, dove s’annusa miscela di crusca, cruschello e Dio sa cosa... Figlio di un ferroviere e lui stesso vissuto come un proletario, modesto correttore di bozze nella casa editrice Sonzogno, ma uomo di varia cultura ed esperto di più d’una lingua e letteratura moderna, questo intellettuale non nascondeva la sua diffidente esitazione a incamminarsi per le vie maestre del socialismo, affollate di compagni in troppo buona o in troppo mala fede. Quella sua « voce mingherlina » non se là sentiva di perorare con la richiesta eloquenza certi ideali nei quali pur credeva a modo suo, riserbandosi, magari nelle parole, un margine di scetticismo (a volte così prezioso per discernere i profeti veri dai falsi, la sicura « pienezza dei tempi » dall’ipotetica gravidanza, che allarma in continuo i rivoluzionari professionali per isterismo e per retorica). Traduttore del Manifesto dei comunisti, sollecito di una migliore educazione’ sociale, Bettini non ambì mai d’essere onotato ufficialmente come vate’ della rivoluzione. Eludeva gl’inviti dei suoi compagni ‘a collaborare in qualche modo per mezzo della sua poesia. E sorrideva gelido e rassegnato, benché tutt'altro che lieto di dover sorridere: nat sue Miei cari amici, il vostro Primo Maggio non può nulla sul popolo, ch’è saggio, ridanciano e pacifico [...]' ... Suppongo che vediate i cittadini seguir col « molla molla » i questurini, così per farli correre. Ma in piazza come al dì dello Statuto tremerete davanti al naticuto Ì presidio della patria.

È inutile soffiare e risoffiare: intorno non v’è legna da bruciare; no, miei cari incendiarii.

174

Ci son piante da orti e da pometi, con fiorellini variopinti e. lieti c'è l’aprile perpetuo.

Quale fosse per lui il suo « Primo Maggio » (una passeggiata campestre) lo raccontò in prosa, ad un’altra occasione. Secondava la sua fantasia inclinata verso il mite e semplice idillio, a contemplare «il placido passare del presente ». La satira, o piuttosto la canzonatura, nei modi heiniani divulgati da Carducci, lo tentò rare volte, più a dissimulare e proteggere il suo geloso ideale, ‘che a ostentare il disprezzo della « patria vile », meglio risonante sulla bocca di fieri nazionalisti. E in quei rari casi, com'è affilato e impercettibile il suo sorriso! A tale segno, da indurre in equivoco persino il suo maggiore critico, il quale di certi versi d’ispirazione politica ha dato un’interpretazione che il Bettini e, più di lui, i suoi compagni, avrebbero rifiutato con risentimento. La fiacchezza latina di cui il poeta accusava l’Italia dei suoi tempi e che sentiva nel suo stesso sangue, lo addolorava soprattutto perché avrebbe preferito vedere gli sforzi dei connazionali diretti non « ver’ l’imperio del mondo », ma verso le più aspre mete di una moderna civiltà

fondata sul lavoro (si legga, ad esempio, il sonetto Italia, tu produci ottime cose). E il posto di lui, Bettini, quale sarebbe stato? vinto », confessava, amaramente

« Io sono

suona

questo ghigno di cinica fiacchezza, mentre valida in petto è la certezza ed il primo ideal non m’abbandona.

Sapeva che la vita è nulla e « sol l’opera è buona »: della sua vita sarebbe stato vivo soltanto il suo lavoro gentile, da povero fabbro d’una materia poetica tutt’altro che rara e preziosa. Tra le vie notturne di Milano « mercantessa », addormentata con l’incubo dei « prezzi di borsa », la sua anima errava accanto agli « spenti artefici » che al lume della luna ritornavano sul Duomo facce,

con mal contente e scure a toccar le forme delle loro sculture...

« Sognatore di rime » come il suo Mameli, Bettini si compiaceva di confessare questo suo amore della forma. Un amore di leopardiana castità, 175

con un brio malinconico, vago di qualche capriccio rimato, ma senza le ricercatezze, i vizi e i lussi di gusto che furono propri della sua età parnassiana. Bettini prelude, se si vuole, all’astuta indolenza crepuscolare. E piace tanto il suo naturale dono di saper schivare con grazia ogni retorica: per esempio, quella del pesante linguaggio « barbaro ». Sono i miei occhi, o non pare anche a voi che una trepida ironia si riverberi su questa sua veduta della Roma umbertina? ... I sol testardamente arroventa i mattoni e le colonne monche: si addormentan le guardie. Bella cosa osservare la dissepolta Roma col Baedecker in mano a leggervi la storia, indi sedersi a scriver versi senza la rima che sono alessandrini e che paiono esametri.

Giocava ai versi, Pompeo Bettini, ma con una serietà di fanciullo, circonfusa di letizia. Qual meraviglia, se aveva il gusto bizzarro, proprio dei fanciulli intelligenti, di troncare il gioco e concludere con incantevole saggezza: — Mica vero, è per finta —? Si consolava egli pure così, ma con adulta malinconia, a svelare le occasioni del gioco, a ridirci come i suoi giorni e le sue ore gli si mutassero in versi cantanti nella memoria: Quando venivi era un giorno di sole o, se pioveva, la pioggia cantava, Io tutto l’anno quel giorno aspettava per infilare perline con te. [...] Sei morta presto, gentile villana, e colla pasqua d’aprile che viene, la tua memoria, cui voglio ancor bene, torna, recando il passato con sé. Mentre sull’erba che è il tuo monumento nel cimitero del borgo silente, infila perle la pioggia cadente, infilo

rime,

fanciulla,

per

te.

La fine di ogni amore pareva, come una legge, iscritta nel destino a lui non renitente e pago della felicità di goderne sogni e ricordi. Nella misura docile, il suo verso si rassegnava ad imitare dalla natura gnomiche : analogie: Perché

ridi al destino

che ti porta lontano, va per il tuo cammino, non toccarmi la mano.

176

La più leggera brezza porta anche l’onde a spiaggia: quand’una vi si spezza un’altra là viaggia.

Le morte passioni (diceva) gli s’infioravano nel cuore come sull’albero ancora vivo il ramo schiantato da un passante. E non sempre lo vinceva « pigra amarezza ». Bruciava talora in lui non so che malato ardore, che gli asciugava il pianto: T'amo

come

un

avaro,

o mio corto

avvenire!

Gli amori lontani, altre volte elusi dalla fantasia con un mesto scherzo di rime, ecco, si ridestavano ai sensi nel profumo tormentoso e acuto d’una rosa troppo felice nella sua bellezza: E levo dal bicchiere una rosa sbocciata

e la fiuto e la sciupo premendola

coi labbri,

perché formino baci invece di lamenti.

Se il decadentismo accennava a mostrarsi in questi versi, vi appariva tuttavia con l’ingenuità di un sogno malsano dell’adolescente (si pensi all'immagine di quella « celeste notturna prostituta » che aleggia nel primo sonno e poi prende fattezze carnali e si dona al godimento, in un’alba luminosa). Ma la più vera situazione del Bettini era in quel sentirsi castamente remoto da sé e dalla sua vita: solo così ritrovava la sua poetica, l’intatta e limpida sorgiva del canto: Il mandorlo abbandona ai soffi ingannatori un nuvolo di fiori. Tu, gentile persona, ad uomini mendaci spargi un nembo di baci. Presso a te son quieto, parlo naturalmente, e ti guardo e ti guardo.

177

Dopo, nel mio segreto, mi par d'esser demente, mi tocco in faccia ed ardo. Nubi tenere e chiare sembrano dire in cielo:



Non

è tempo

d’amare?



Lo so, nubi rosate: io non faccio che sogni,

e passan le giornate.

Evocava questi paesaggi con tenuità d’impressioni e facili colori di acquarello, presti a sbiadire sull’arida carta. E per i suoi idilli sapeva trovare pronte inquadrature, a vista d’occhio, magari le finestrelle d’un treno, aperte su ventilati paesi. E con la medesima tranquillità e serenità di sguardo imparò ad accogliere la morte, un familiare mistero umano scoperto sin dall’infanzia (interessante, in proposito, quella disadorna prosa intitolata I mziei morti). In fondo, la stessa allegoria che traspariva da quel « placido passare del presente ». Per sopravvivere al quotidiano perire, unico scampo la fedeltà del cuore alle immagini, alla luce della memoria che sola protegge le brevi ore della bellezza: Da

quell’alto

balcone,

vent'anni

fa, una

sera

vedevo in egual modo fuggir via la bufera. Il convoglio mi porta, che già l’ombra è calata, e i monti restan belli per un’altra giornata.

L’abbandono a calme della consolazione:

consuetudini

faceva

ritrovare le vie musicali

Odo un solfeggio mentre piove, ed ho occhi vogliosi di nuotar nel pianto. Che memoria di tombe si destò? Che sublime balocco oggi s’è franto? [...] La mia vita monotona ed uguale mi appare con memorie sconfinate, come al lampo di pigro temporale che illumina campagne dilavate...

Ma l’impuro dilettoso languore gli era sentimento

raro, anche se

non ignoto (Vieri or, sorella tristezza; / toccami con la man fredda / gli

occhi: son conche di lacrime). Il suo dolore più vivo e virilmente espresso (e provo raccapriccio a saper che ho vissuto) nasceva dalla dissonanza, 178

onde la morte. soprag giunge a turbare il cosmo l’amore aveva composto in armoniosi colloqui:

delle immagini .che

Nei luoghi ove ogni cosa Sa at è bella, là dimora il passato e mi ferma per via; una traccia di estinti con quieta favella persuade anche il, sole alla malinconia.

E per accomiataîsi dalla vita 0, che era lo stesso per lui, dalla vigile memoria, Bettini seppe dire le illacritmate parole dei poeti veri e delle anime serene: Or la mente rifà triste, quei dì passati che somigliano a. istorie. Poi la morte verrà: i lavori troncati non saran più memorie.

È un pezzo di quel poemetto drammatico di vario metro, intitolato al nome del fratello, Paolo, ma scritto dall’autore negli ultimi tempi veramente ir memoriam Sui. V’è tutto il mondo effimero

e triste e fra l’altro, un’arcadia in miniatura, e un odorato elisio, dove spuntano umili mirici, ma native sì, che al confronto, molte di quelle pascoliane appaiono educate in un tepidario e già destinate in erba a figurar come simboli preziosi: Tremano come fuochi le stelle nella brezza.

Paolino smette i giuochi e .cerca una carezza. [...] Il bimbo innalza il viso verso il notturno incanto; non vede il Paradiso,

e s’addormenta

in. pianto.

A questo punto della nostra lettura è però il caso di chiederci: il quieto e candido poetare del Bettini fu soltanto (come ha detto il Croce) il risultato di una rinuncia alla « letteratura » per la più schietta verità dell’intimo sentire? Certo; ma non sarà la finezza d’arte e di cultura,

149

bene avvertibili in questa poesia, a renderci diffidenti. Finezza, è ovvio fin troppo, non vuol dire raffinatezza. Voglio sfilarvi dal tenue filo del discorso lirico qualche vaga perlina. Eccovi i fiori attoniti, i campanili sonanti, la golosa infanzia, l'incanto di tenebra fiorita, il riso scialbo delle nevi, le nubi strane da portar santi, affrescate nel ciel di Pisa. Ma le perline sono assai più belle nel vezzo della strofa (Le giornate son ladre / Ma non tolgon l’amore, / E le rughe di madre / Son più belle d’un fiore) conchiuse dall’esile fermaglio della rima (Allo scoppio ventoso, / Danzano i fiori lunghi, / Suona il balzo pietroso / Ed il bosco dà funghi). Gioielli da quattro soldi con i quali si ornava la nostra gracile e festiva Musa ottocentesca: senza perspicue civetterie, ma senza ignorare. il bel segreto della leggiadra negligenza. E le occorrevano pochi tocchi per una veloce toletta, perché aveva trovato il tempo di mirarsi al tranquillo specchio della fantasia. Poi questo miracolo ben saldo nella piccola mano lo lasciava brillare al sole, con un gesto d’innocente magia: Rintocca il mezzogiorno, l'aria è nitida e sgombra; son tranquilli i rumori e luminosa è l'ombra. Le vaghe lontananze splendon con fissità [...] Fruscii sommessi, fremiti d'acque correnti, prati

ebri di fiori, ed aliti di venti,

smemorati,

non interrompon l’estasi e il silenzio profondo... O viva e sacra luce o stupore del mondo!

. Son versi degli ultimi tre o quattr’anni (’92-995) da confrontarsi col miglior Di Giacomo. Ma se ne rileggessimo pochi altri ancora, che risalgono all’aprile del 1884? Il sole aveva il mirabil prestigio che c’invita a cantare, e lo splendor che in questo giorno grigio non si può ricordare. Ora le gocce scendono nel lago,

lo fan torbido e triste; le montagne e le ville han perso il vago e di nebbie son miste.

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Negli alberghi alla sponda i ricchi amanti s'aman con più mistero e guardano dai vetri gocciolanti arabescarsi il vero. Tu per le stanze vai con la bambina e il tempo non ti nuoce. Com'è lieta nei dì di pioggia fina dei bambini la voce!

A ventitré anni Pompeo Bettini salutava così, con limpida meraviglia, la primavera della sua poesia, la prima di quella diletta stagione velata di pioggia, ch’egli avrebbe contemplato, ahimé! poche volte, con i suoi occhi innamorati e schivi. 1942

181

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O LA LINEA

FURTIFAESTUS D’OMBRA NELL’ « ALCYONE »

. Un falco stride nel color di perla: . tutto il cielo si squarcia come un velo. . O brivido su i mari taciturni, . o soffio, indizio del sùbito nembo!

. O sangue mio come i mari d'estate! . La forza annoda . sotto

la terra

tutte le radici:

sta, nascosta

e immensa.

. La pietra brilla più d’ogni altra inerzia. . . . . . . . .

La luce copre abissi di silenzio, simile ad occhio immobile che celi moltitudini folli di desiri. L’Ignoto viene a me, l’Ignoto attendo! Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano. Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento. T’amo, o tagliente pietra che su l’erta brilli pronta a ferire il nudo piede.

. Mia dira sete, tu mi sei più cara . che tutte le dolci acque dei ruscelli. . Abita nella mia selvaggia pace YI 0 \0 NUpAYÙNIS0 DUDURDUYNIT

nm nm dn dd eni n

Devo alla cortesia di Piero Gibellini la possibilità di valermi dell’edizione critica dell’Alcyone da lui procurata e in corso di stampa. Chiarisco al lettore alcune sigle: A = Archivi del Vittoriale; B = Bella Copia; st = stampe.

E841.9, A (G 1193 i), B (R a); st. ì i 8-9] spazio interstrofico agg. A 12 L’Ignoto] da L’ignoto A 13 Quel] da CiòA 14 Quel] da Ciò A 15-16] da Io t'amo, o pietra aguzza, che sul colle / brilli pronta a ferire > il nudo piede < i piedi ignudi. A 16-17] spazio interstrofico agg. A 17 dira] da cruda A 20 le paludi] da una palude A

183

20. 21. 22. 23. 24.

la febbre come dentro le paludi. Pieno di grida è il riposato petto. L'ora è giunta, o mia Messe, l’ora è giunta! Terribile nel cuore del meriggio pesa, o Messe, la tua maturità. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù, Conrad

Ai più attenti antologisti di D'Annunzio non sono sfuggiti i venti quattro endecasillabi del terzo libro delle Laudi, Furit aestus. Ma i rinvii del titolo all’Ezeide non sono stati chiariti nella loro molteplice profonda intertestualità. Il metro andrebbe descritto meglio di quanto non abbia fatto lo stesso Contini (Letteratura dell’Italia unita, p. 341): « ottave di endecasillabi tendono a diventare

sciolti, con irregolari assonanze [...]: molti versi unità sintattiche (come nelle sticomitie della tragedia greca ». Il sistema delle assonanze e di altre ricorrenze di suoni esige un’analisi esaustiva, che offra tutti gli elementi fono-semantici a

una critica totalizzante. E intanto non sarà male ricordare quel che primo notò Mario Praz (La carne la morte

e il diavolo, Torino

1942), che per

le innovazioni del verso libero D'Annunzio non ignorò le suggestioni di un suo coetaneo francese, Henry de Régnier (1864-1936), che lo avrebbe poi bollato col giudizio sprezzante di « utilisateur ». Da Les jeux rustiques et divins (1897) a Les médailles d’argile (1900) a La cité des Laux (1902) i versi di questo poeta fin di secolo, sperimentatore di nuove formule tra il simbolismo e Mallarmé, lasciarono tracce di forme e di temi per le prime liriche alcionie (da La sera fiesolana a L’Otre)*®. Ma del resto il ricorso di D'Annunzio alle assonanze era stato autorizzato dal Laudes creaturarum, ch’egli ebbe presente nell’arcaizzante Ditiramzbo III 1 Cfr. V. De MaLpé, G. PinortI, D'Annunzio e i «Jeux» di Henry de Régnier, in « Quaderni del Vittoriale », 20 marzo-aprile 1980), pp. 31-89. Questa indagine assai accurata andrebbe integrata da una ricerca che accerti probabili rapporti col Mallarmé di D’Annunsio che già sulla « Tribuna » del 9 marzo 1987, nella rubrica di Bibliografia firmata «Il duca minimo », parlava di Mallarmé come del «grande e misterioso pontefice della novissima arte» e del «giovine e arguto critico napoletano » Vittorio Pica, del quale ricordiamo gli articoli su i Moderni bizantini della letteratura francese. Com'è noto tre erano dedicati appunto a Mallarmé (« Gazzetta Letteraria Artistica e Scientifica », X, 20 e 27 nov., 4 dic. 1986). Non so se si possa risalire all’Intermezzo. Ma a fin di secolo, nella Napoli di Vittorio Pica, che aveva dedicato un libro alla Letteratura d’eccezione (Milano 1899) del decadentismo francese, non credo impossibile che D'Annunzio abbia potuto

184

e, prima ancora, nell’antifona della Sera fiesolana?. Se si vorrà discorrere con pertinente linguaggio del metro di Furit 4estus, non bisogna dimenticare che il ricorso apparve (o era apparso: la cronologia non è sicura) nella lirica anche tecnicamente fondamentale, L’Oleandro, nata come « un’egloga marina » di « endecasillabi variamente armonizzati ». Così li definiva

il D'Annunzio

stesso

in una

lettera

ad Annibale

Tenneroni,

agosto 1900 (cfr. Alcyore, ed. Roncoroni, Milano 1982, p. 366). Nella prima parte dell’O/eazdro ritroviamo appunto il metro di Furit aestus: sono nove strofe di otto endecasillabi ciascuna, e tranne la prima (dove ritornano, dal secondo al settimo verso, le parole-rime wmotte, melodia, mare, mare melodia notte) le altre constano assonanzati.

di endecasillabi liberamente

Ma torniamo al titolo. Come si sa, esso allude a due luoghi della « tragedìa » virgiliana. Quello dell’incendio che divampa a Troia mentre Enea si aggira alla ricerca di Creùsa perduta. Un verso sintatticamente isolato dipinge la sua angoscia: « Horror utique animo, simul ipsa si lentia terrent » (II, 755). Rivede la sua casa ormai invasa dal fuoco: « furit aestus ad auras » (II, 759) e rivede il tempio di Giunone depredato delle sue ricchezze e ormai in mano a due vincitori, Phoenix e il dirus Ulixes (II, 762). Nel nostro testo gli « abissi di silenzio » (v. 9) e lo stesso latinismo « mia dira sete » (v. 17) possono considerarsi un

ricordo intertestuale assai probabile*. Ma soprattutto alla bufera suscitata da Eolo, dio « nimborumque tempestatumque » (« Furit aestus arenis », I, 107) ancora numerosi echi (vv. 87-91): Insequitur clamorque virum stridorque rudentum, eripiunt subito urbes [...]. Intonuere poli et crebris micat ignibus aether, praesentemque viris intentant omnia mortem. leggere nell’edizione del 1898 L’Après-midi d’un faune: in essa, non meno che in altre liriche, Tristesse d’été, L’Azur, la Prose (pour des Esseintes) e l’Hommage (a Wagner) trovo riscontri notevoli. Né trascurerei indagini anche sul Mowologue d’un faune (1865), la cui « trasformazione » è stata oggetto di un ben noto studio del Contini (cfr. Varianti e altra linguistica, Torino 1970, pp. 53-67). Utilissimo il Mallarmé in Italia (Milano 1957) di Luigi De Nardis, anche per i molteplici riferimenti bibliografici. Notizie interessanti sui rapporti con Pica offre M. BoLLINA, Un lettore d'eccezione in «Il Verri», sett.-dic. 1985, pp. 150-66. 2 Cfr. Le fondamentali pagine di F. Gavazzeni, Implicazioni metriche nella genesi della struttura di « Alcione », nel vol. Le sinopie di « Alcione », MilanoNapoli 1970, pp. 1-53. 8 Pur senza escludere la dirar: famem ovidiana (Metam. XI, 371): nel prologo dell'episodio di Ceice e della fidissima Alcyone, un luogo dove ricorrono le tristi immagini del mare e d’una palude, mentre il sole altissimo nel cielo, a metà del suo percorso « Tantum respiceret, quantum superesse videret » (ibid., v. 354).

185

Quando il Contini (loc. cit.) asserisce: «Il tema estivo si converte allusivamente in quello del daemonium meridianum, come lo chiama il Salmo », distrae il lettore dalla giusta via balenatagli, quella della tragicità. Ma di quale tragicità si tratta? È riducibile agli stilemi della tragedia antica? L’ultimo dei versi virgiliani su citato reca esplicito quel terrore della morte che in D'Annunzio è profondamente implicito. Si tratta in effetti della tragicità esistenziale della mezza età. E lo confermano, come vedremo, i rinvii infratestuali proprio all’impetuoso processo creativo del poeta (e innanzi tutto al libro di Alcione, poi Alcyone) che nel mezzo del cammin della sua vita, a cominciare dal 1899, lo aiutò a superare vittoriosamente la crisi, sopravvenuta a fin di secolo e al colmo della maturità. Non a caso un solstizio d’estate e un solstizio d’autunno aprono e chiudono simbolicamente nelle terzine de La Tregua e nella saffica del Comzziato questo che è il suo libro poetico architettato meglio, e d’ispirazione coerente: nelle più importanti liriche ritroviamo, rivissuta e cantata, una situazione analoga, una costante, fluviale stagione

creativa dal 1899 al 1903, quando giungiamo all’ode finale dove affiorano dal paesaggio supreme immagini funebri, con «il lutto de’ marmi [...] notturni » della Palmaria e la Fossa Burlamacca / albicante « qual prato d’asfodelo » (Comzziato, vv. 15 e 66-7). Tempo è di morte. In qualche acqua torpente or perisce la dolce carne erbale. Strider non s’ode falce ma si sente odor letale. O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano con nel mio cuor la torpida mia cura! Splende la cima del mio cuore umano

nell’ode pura (ib., vv. 32-6, 109-12)

Ma ovviamente vediamo riaffermata dal poeta la vitale certezza di « andare immune di morte all’Orco » e benché incalzato da « una immortale/ansia », elevare insieme al Pascoli (l’altro « aedo », dedicatario dell’ode) «un inno istesso » sulla conquistata cima della gloria GostvviV71-2:0187-8)

Di D'Annunzio si può ripetere quel che è stato detto di Conrad (in contrapposizione e oggettiva analogia a Proust) che fu un artista del tutto « inconsapevole delle radici della sua creatività » e «alla ricerca, in una buona parte della seconda metà della sua vita, del tempo 186

passato » £. Quel che caratterizza la sua individuale esperienza egli Jo scrisse in una lettera a Giuseppe Treves (7 agosto 1899), dove parla del progetto di sette libri di Laudi: « [...] alla Marina di Pisa [...] — mentre mi rafforzavo al buon soffio del mare — mi abbandonai al fiume della poesia cui avevo resistito per tanto tempo. [...] Ho trovato con una facilità incredibile certe cose che per tanto tempo avevo ricercato invano » (in F. Roncoroni, Alcyone, cit., p. 23). Alla piena coscienza artistica di un più sapiente recupero della giovanile volontà poetica, fa riscontro appunto la paradossale situazione della crisi della mezza età, così come l’ha magistralmente indagata Elliott Jacques: «si entra nel rigoglio della vita, nel periodo di completamento, ma nello stesso tempo e rigoglio e completamento hanno una scadenza. La morte è subito dopo » ?. Senza una compiuta analisi psicocritica (e al centro dovranno essere i rapporti con la Duse; che di questa crisi fu compagna, e che era di cinque anni più anziana del poeta), non si può intendere da quale sofferta necessità esistenziale nasca per D'Annunzio l’appropriazione dell’eredità ideale di Nietzsche e di Wagner, e quale sia la molla interiore che scatta nelle ultime pagine del Fuoco e gli fa progettare i due romanzi col significativo titolo La vittoria dell’uomo e Trionfo della vita. Com'è noto, la serie dei promessi « romanzi del melograno » non ci fu. Ma ticco di realizzazioni si rivelò invece questa sorte di « poema totale » che sono le Laudi, in cui il protagonista è il poeta in prima persona, moderno ulissìde a cui Pan, il dio che non è morto, affida il compito sovrumano di cantare un viaggio tra mito e realtà, natura e arte, mondo greco-romano e mondo rinascimentale-moderno, a celebrazione di un infinito desiderio di bellezza, di voluttà, di vittoria. Dovendomi limitare all’A/cyore, devo dite subito che fin dalle sette ballate iniziali intitolate I fanciullo, è questa profonda realtà esistenziale che ispira il recupero dell’unità panica dal più lontano passato: « tutte le verità che l’ombra asconde » (I, 75). Proprio perché « Natura e Arte sono un Dio bifronte » (VI, 168), reale e insieme ideale è Ja stagione creativa dell’A/cyore, collocata al sommo di una « grande Estate » tra i colli di Fiesole e Settignano e le rive di Toscana, con le foci dei fiumi, le sabbie, le pinete e le Maremme che lungo il Tirreno, a Nord e a Sud con la loro « bellezza immite / nata dalla Febbre e dal Sole » 4 Cfr.

Sergio Muscetta,

Nota

su

«II

Negro

del ‘Narcissus’ » di J. Conrad, i e giustizia sociale (1970),

in « Rivista di psicoanalisi », XXIII (1977), p. 239. 5 Morte e crisi di mezza età, in Lavoro, creatività

trad. it., Torino

1978, p. 63.

187

evocano i « regni diurni di Dite » (Ditiramzbo I, vv. 35-8), e non a caso

anche la compagna d’una delle più belle favole vissute, Eleonora, è cantata col nome di Ermione che evoca quello della figlia di Elena ma anzitutto quello della città di Argolide dove «era un sentier breve / per

discendere all’Ade » (II Nome, vv. 5-6). Quanto è stato detto con-fine intelligenza del testo e della sua storia

dal Gavazzeni al Gibellini al Roncoroni appare ancora inadeguato, senza un riferimento all’ansia esistenziale del poeta, al suo «cor presago di remoto lutto » che vibra fra due immagini diversamente misteriose e distanti: quella del « fanciullo fuggevole », il «bel figlio » della sua « melancolia », « quasi improvviso / ritorno dell’infanzia più lontana » (II fanciullo, VII, vv. 237, 256, 259-60) e quella del « veglio » operoso che miete nei « luoghi maremmani » (La spica, v. 31) e che appare come « Sposo della Terra veneranda », reincarnazione di « Pan duce degli astri, / cui nel torace si rispecchia il Cielo » (Le opere e î giorni, vv. 1 e 60-61). Questa prospettiva ideale, questa vitalissima serenità non potrà non esaltare il poeta in sogni di « Forza », di « Abondanza », di « Vittoria », per rimuovere le ossessive immagini dei luoghi « ove passa in silenzio mortale / la Febbre velata di nebbia » (Difiramzbo I, vv. 248-49). Sono i colori che predominano spettrali nella terra della « pallida Maremma », i « cieli blavi » (Liforea dea, v. 5); ma nell’ « albasia dei giorni alcionii » (Urdulna, v. 61) annunciano l’avvento di nuove vite, così come Le stirpi canore nuove, prole di tutta la natura, in cui si radicano, sono

carmi che nella sequenza delle comparabilità possono essere anche « funebri come gli asfodeli / dell’Ade » (Le stirpiî, cit., v. 31-2), e tuttavia riaffermano la consapevole rasserenata acquisizione « di uno strumento linguistico adeguato ad esprimere il mondo poetico delle Laudi, sia nei suoi aspetti superomistici sia nei suoi aspetti panici e mitizzanti » (Roncoroni, in A/cyone, cit., p. 260).

Ma è tempo di ritornare al Furit aestus e analizzare almeno i nessi fono-semantici del particolare sistema di questi « endecasillabi armonizzati », rinunciando a valutare significativi e numerosi rinvii infratestuali agli altri luoghi dell’A/cyore, identificati dai commenti in gran parte ma non esaustivamente raccolti nelle concordanze e negli indici di frequenza, indispensabili e auspicabili per una interpretazione totalizzante. Si pensi al primo verso che rinvia alla contigua lirica Beazitudine (« colori di perla per ovunque spazia / e il ciel tanto è vicino / che ogni pensier vi nasce come un’ala », vv. 24-6). Nel secondo verso véèlo (preannunciato dalla rima interna di cièlo) intona la prima delle imperfette assonanze toniche più ricorrenti (nella prima stanza: pèrla, velo, nèmbo, immènsa, inèrzia; nella seconda: silènzio, attèndo cèli, in asso188

nanza interna con viène e da prèsso, spènto iù rima imperfetta interna con tagliènte, èrta, piède; nella terza: ruscèlli e pètto con quattro assonanze interne sère, fèbbre, pièno, pèsa)®. Mi sembra notevole che le voci assonanti ricevano nel contesto una connotazione negativa (che va dalla fralezza alla terribilità, dall’immobilità all’angoscia) quasi in contrappunto con le voci che irrompono con ictus violenti (a cominciare dall’ acutissimo di stride nel verso 1) ricorrerà più volte: brivido, 3; indizio, 4; mio, 5; brilla, 8; abissi, simile, 10 in rima imperfetta con immobile; vivo, 14; brilli, ferire, dira, 17; mia, 19; grida, 21; terribile, 23. E l’ictus si rivelerà in

che 9; 16; tre

assonanze, ciascuna in ogni strofa: radici, 6; destri, 11; meriggio, 23. Rilevanti sono ancora le voci dove l’ictus batte su una vocale cupa: nella prima strofa taciturni, 3, e nell’ultima paltidi, 20; gidinta, 22 entro un sintagma replicato nello stesso verso, in significativo parallelismo con l’altra replica del verso 12 (l’Igroto, l’Igrnoto), una voce che anche nella maiuscola reca graficamente enfatizzata l’angoscia. La vocale cupa (che non riesce a prevalere sugli altri suoni del v. 11, dove è centrale l’assonanza di fòlli contrapposta all’Igròto del v. 12) ricorre nel subito del v. 4, nel fu del v. 13, in pià del v..17 in contrapposizione al rufte del v. 18 e da ultimo nel verso conclusivo la tia matsrità, che con la desinenza tronca eccezionalmente suggella la scansione di questa tensione tragica, dove non basta notare l’assenza di « ogni rigore logico e razionale » (come

fa giustamente

il Roncoroni),

senza

intendere

la consequenziale

logica che è alla base dell’inconscia paura di declino biologico e delle insorgenti risorse vitali che vogliono affermarsi vittoriose sulla morte. Si pensi alla triplice assonanza liberatoria del v. 5 O sangue mio come î méàri d’estàte, che ritornerà con raddoppiata energia nel selvaggia pàce del v. 19. L’ulissìde che per la sua «sete » di conoscenza e di creatività si appropria dell’epiteto dato a Ulisse da Virgilio, correggendo in dira il già generico « cruda », non poteva significatci più poeticamente le « grida » che gli urgevano « nel riposato petto » e l’aiutavano a superare la crisi esistenziale. Con questa chiave di lettura credo si potrà intendere a fondo l’Alcyone e pregiarlo come uno dei libri più autentici della poesia dannunziana, dove non mi sembra che tutto sia omologabile a « trasposi€ Tra le cose che più ho apprezzato nello studio su Stabat nuda Aestas di S. Agosti, Tecniche della trasposizione in D'Annunzio (« Il Verri », maggio-giugno 1985, p. 8-21) è la prudenza di un «forse» sulla non riducibilità dello scrittore al solo virtuosismo del suo esercizio creativo.

189

zione di invenzione e materiali altrui » 7. Ci sono liriche composte soprattutto in funzione dell’architettura dell’opera (e tale è Stabat nuda aestas). Ma non certo alcuni Madrigali dell'Estate ispirati alla morte della stagione (« Estate, Estate mia non declinare », suona l’implorante incipit del primo). E penso soprattutto a La sabbia del Tempo, anche se l’avvio, soltanto l’avvio, ricorda Sur la grève di Henry de Régnier. E penso a Il Gombo, che è ispirato dal « fatale » paesaggio marino («il Mare, il Lito, l’Alpe ») dove naufragò Shelley, e che nei suoi più alti e puri accenti meditativi sul « Mistero del Mondo », « visibile enigma divino / che inebria di spavento: e d’estasi l’anima umana » (vv. 18-22) sembra

eloquentemente indicarci le implicazioni profonde dell’arte in A/cyore: quello che anco rapisce la Vita e la toglie per sempre all’inganno del Tempo e nuda l’inalza tra l'Ombra e la Luce,

e le dona

col ritmo il novello respiro: ecco la Morte e l’Arte apparsemi nel cerchio fatale.

1987

® Le varianti dei vv. 15-16 rivelano la ricerca delle assonanze poeta.

190

persegufîta

dal

LE FAVOLE

DI GRAMSCI

Quando furono pubblicate le Lettere dal carcere credo di essere stato il primo a notare in quella sorvegliata e stilizzata prosa colloquiale il rilievo che le « forme semplici » della narrativa popolare avevano in Gramsci scrittore. Le raccolte degli articoli giornalistici giovanili e le notizie forniteci nell’edizione critica dei Quaderni diretta da V. Gerratana (Einaudi, Torino 1975) hanno confermato la validità del giudizio e consentono di offrire oggi ai lettori di ogni età (di là da ogni criterio pedagogicamente restrittivo) una silloge che, rispetto ad altre antologie di pagine per bambini, è risultata più ampia e insieme meno arbitraria (Favole di Libertà, Firenze, Vallecchi, 1980). Aprono il volume alcune delle traduzioni a cui Gramsci si applicò in carcere tra il 1929 e il 1931, con l’intento di perfezionare la conoscenza delle lingue europee (a cominciare

dal tedesco e dal russo), e di « farsi

la mano » (Lettere dal carcere, ed. Caprioglio-Fubini, p. 253) provandosi con autori considerati esemplari per semplicità e purezza di eloquio. È parso opportuno limitarsi alle pagine che aveva scelto lui, e per questo abbiamo incluso solo le traduzioni dalle fiabe dei fratelli Grimm. Sono ventiquattro, circa la metà della vulgata antologia di questa celebre raccolta. Anche qui dunque la scelta di Gramsci fu condizionata in partenza dall’edizione in suo possesso (quella economica della Reclam). Pensava di ricopiarle e di inviarle ai suoi familiari, perché le leggessero ai bambini. Pensava innanzitutto ad un dono per i figlioletti della sorella Teresina Paulesu. E cominciò a trascriverle in un album da disegno, ora catalogato come Quad. D (XXXI) del 1932. Non sappiamo se le avrebbe ricopiate tutte e in quale ordine. Certamente, non l’ordine dell’antologia originale, né quello delle sue traduzioni. Infatti cominciò a trascrivere con miglioramenti stilistici la fiaba Rumpelstilzchen, che doveva servire di apertura (mentre nell’edizione Reclam è, alle pp. 185-188). Ma poi interruppe, 191

appena si accertò che gli era permesso di spedire solo lettere e non altri manoscritti. Certo gli addetti ai lavori, in un eventuale esame linguistico dei risultati conseguiti dal traduttore principiante, si rammaricheranno che egli non abbia continuato la revisione. Il lettore comune le troverà niente affatto spregevoli. La pigrizia mi avrebbe persuaso a un approccio di lettura « disinteressato ». Pure, qualche considerazione la proporrò a chi meglio di me saprà passare alla lettura « da critico letterario e psicanalitico » (Gramsci faceva così rileggendo le lettere della moglie: Lettere, ed. cit., p. 377). Ogni testo, si sa, nasce da un rapporto e insieme lo produce e lo riproduce. Solo il contesto può farci comprendere la totalità: « tutto è collegato e intessuto strettamente e se un elemento del tutto viene a mancare o fa difetto, l’intiero si spapola (sic) », scriveva Gramsci al figlio (Lettere, ed. cit., p. 901). Quando l’autore è un rivoluzionario carcerato, con la sua lunga storia di solitudine e di libertà (di liberazione, anche a livello esi-

stenziale e sentimentale), la condizione soggettiva di ogni sua produzione è importante anche per valutare le motivazioni delle sue scelte. E gli aspetti tematici di queste fiabe che lui fece proprie sono essenziali, se riflettiamo come, a renderle funzionali per la loro destinazione, gli artifici modesti della loro struttura condensavano valori simbolici che tutti possiamo cogliere, quale che sia il nostro grado d’ingenuità di lettori, il livello psicologico e culturale, accostandoci a queste forme tutt'altro che « semplici » (come pretende Jolles) qualora si scenda sotto la loro superficie. Le « novelline » dei Grimm (così le chiamava con vocabolo tradizionalmente

sinonimo di fiabe) Gramsci le aveva acquistate da tempo come elementare testo di lingua, ma le aveva riprese a leggere solo nel maggio del 1927. Detenuto in attesa di giudizio, anche per calmatsi «i nervi » (Lettere, ed. cit., p. 264) non gli restava che ricominciare « sistematicamente » lo studio delle lingue, nell’impossibilità di farsi un piano di lavoro. È significativo che proprio quell’anno, tra la primavera e l’estate, alla mente di Gramsci ritornino memorie e pensieri sull’infanzia sua e della nipotina Edmea, e il proposito di comporre un poemetto burlesco per i nipotini, con protagonisti paesani come la mendicante di Mogoro (Lettere, ed. cit., pp. 99-100) che prometteva di arrivare « con due cavalli bianchi e due cavalli neri » in cerca del tesoro difeso dalla « musca maghedda ». Scriveva così per consolare e far ridere la mamma, così come canzonava la cognata Tania con una storiellina della sua Ghilarza (cfr. oltre p. 141) perché non gli aveva dato notizie precise del suo ricovero in clinica. Sospeso tra i tesori fiabeschi e la verità, fra il mondo aperto dei desideri e una reclusione di incerta durata, Gramsci si rivolgeva ora con evidente, sollecito paternalismo protettivo alla donna, che gli sarebbe stata pazientemente 192

vicina fino alla morte e che poi avrebbe salvato tutti i quaderni del carcere. Le scriveva con una tenerezza che presto si sarebbe tramutata in un amore tanto più casto quanto più represso oggettivamente e soggettivamente. La

lettera del 12 settembre 1927, che segue ad un colloquio e a una lettera di Tania, è un testo fondamentale per questo rapporto così dolce e così tormentoso,

e mai

degenerato

in quel « romanticismo

carcerario » che

tanto repelleva alla fierezza di Gramsci. Ogni lettera era per regolamento aperta alla lettura del direttore del carcere. Ma forse è proprio l’autocensura che Gramsci esercitava per igiene dei sentimenti e per gelosa difesa del privato, a svelare la verità intera a chi desiderava intenderla per quel che era. Senza volerlo coscientemente, da tempo Tania sostituiva in Italia l’immagine della sorella lontana in Unione Sovietica. 12 settembre

1927

Carissima Tania,

ho ricevuto le tue due lettere; ricevo ogni giorno la frutta che mi mandi. Sono stato molto contento di averti visto e di aver potuto scambiare qualche parola con te. È stata proprio una consolazione averti visto, dopo questi 4 mesi di ansie e di brutti pensieri. Perché mi hai trovato mutato? Io non so rendermene conto. È vero che i mutamenti, con questa vita, si succedono così lentamente che il « paziente » può non accorgersene. Mi pare che tu non sei mutata gran che; forse eri troppo in preda alla paura di vedermi, è vero? Io invece penso di essermi « sviluppato » nel senso della freddezza e della indifferenza esterna, ho perduto molto del mio « meridionalismo ». Non credo di essere diventato insensibile, tutt'altro; forse invece ho acquistato un po’ di sensibilità nervosa e morbosa, ma ho perduto l’abito esterno della sensibilità. È vero che tu mi hai ricordato Giulia; ho osservato che vi rassomigliate molto, nonostante alcuni tratti spiccati di personalità propria e inconfondibile. Del resto, ricordi che un pomeriggio a Roma ti ho rivolto la parola credendo che tu fossi Giulia? Non so quando potrai avere il secondo colloquio. Ti vorrei dire a voce, meglio dell’altra volta, che non devi preoccuparti troppo di me. Sai che sono già passati 10 mesi dal giorno del mio arresto? Il tempo passa molto in fretta, è vero, ma è anche molto lungo. Io penso che ho già imposto troppi sacrifici ai miei fratelli e anche a te. Su mio fratello Mario non posso più contare. L'ho capito un mese fa, dopo una lettera di mia madre. La mamma mi scrisse d’aver ricevuto una lettera dalla moglie di Mario, con molti lamenti ecc. Scrissi a Mario di venire a colloquio; mi sembrò molto imbarazzato. Dopo il colloquio, scrisse al mio paese, a mio fratello Carlo, in forma allarmatissima, da quanto posso immaginare. Carlo 193

mi scrive come se io fossi sull’orlo della tomba; parla di venire lui a Milano e ha pensato persino di condurre la mamma, una donna di 70 anni circa, che non si è mai mossa dal villaggio e non ha mai fatto un viaggio in ferrovia più lungo di 40 kilometri. Cose da manicomio, che mi hanno addolorato e anche un po’ irritato contro Mario, che poteva essere più franco con me e non terrorizzare la vecchia mamma. Basta. Ho deciso per tutto questo di porre un termine a questo stato di cose, riducendomi, se occorre, al puro vitto catcerario. Ci sono però delle pendenze e queste mi preoccupano assai. Scusami lo sfogo, cara Tania, e non addolorarti. Vedi che io ti scrivo proprio come a una sorella e tu in tutto questo tempo sei stata per me più che una sorella. Perciò ti ho anche tormentato un po’, qualche volta. Ma non è forse vero che si tormenta proprio coloro che ci sono più cari. Io voglio che tu faccia di tutto per guarire e star sana. Così potrai scrivermi, tenermi informato di Giulia e dei bambini e consolatmi col tuo affetto. Le 300 lire che mi hai mandato in giugno, le ho ricevute; devo anche avertelo scritto. Non mi hanno ancora consegnato il dizionario tedesco; ma

tu perché me l’hai mandato?

Potevo

farne a meno

pet ora, in

attesa di poter avere il mio. In linea generale non devi mandarmi nulla che io non ti domandi o sulla cui spedizione io non sia stato consenziente. Credi pure che questa è la linea più razionale, a parte il fatto, come tu dici, che io non domando mai nulla. Non è vero; io, quando ho bisogno, domando; ma cerco di farlo razionalmente, per non crearmi cattive abitudini che poi è più doloroso smettere. Per vivere tranquilli in carcere, occorre abituarsi al purissimo necessario; tu capisci bene che ogni piccola comodità, in questo ambiente, diviene una specie di vizio che poi è difficile estirpare, data l’assenza di distrazioni. Se si vuole rimanere forti e mantenere intatta la propria forza di resistenza, occorte imporsi un regime e osservarlo ferreamente. Per esempio: perché io ho sofferto tanto del tuo silenzio? Perché ero abituato a una certa regolarità nella corrispondenza: ogni irregolarità perciò assumeva un significato sinistro. Ma questa abitudine della corrispondenza regolare devi però crearmela, sai? Non pensare che io ti autorizzi a non scrivermi, con la teoria delle non abitudini! Carissima, aspetto il nuovo colloquio, anche se non possiamo neanche stringerci la mano. A proposito, sai che per lungo tempo avevo pensato di darti qualche fiore cresciuto nella mia cella (vedi che romanticismo carcerario!)? Ma le piante sono ormai essiccate e così non ho potuto mantenere nessuno dei 5 o 6 fiorellini che erano sbocciati, bruttini alquanto, a dire il vero.

Ti abbraccio, affettuosamente 194

Antonio

E singolare che della lettera che attesta il penoso distacco dalla moglie

Julia (30 novembre

1931) si ritrovi (e il caso è unico) una minuta, utiliz-

zata parzialmente, ma con una conclusione assai diversa. Nella lettera Gramsci faceva « un nuovo tentativo » per poter dar vita a Julia nell’atto stesso che ormai la riconosceva morta all’amore. Più spietatamente, nella minuta ipotizzando una uscita dal carcere, confessava che gli sarebbe stato impossibile d’inserirsi in « nessuna corrente sentimentale »: si sentiva condannato a sopravvivere ormai « col solo cervello e con la sola volontà », vedendo in tutti gli uomini, anche in quelli che avrebbero dovuto essergli vicini, « non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere » (Quaderni, ed cit., vol. IV, pp. 2436-37). Irreversibile appare nella minuta questa situazione di morte reciproca, e spietata la volontà di dire il vero su questo rapporto che Gramsci intendeva risolvere, per restituire a Julia la possibilità di divorziare e rifarsi una vita. « Mi pare che noi siamo diventati dei fantasmi l’uno per l’altro, degli esseri irreali fuori del tempo e dello spazio, dei convenzionali e pallidi ricordi (cristallizzati) di un breve spazio di tempo vissuto in comune » (Quaderni, loc. cit., p. 2436). Questa minuta è serbata nel Quaderno B (XV) ed è scritta dopo la terzultima fiaba di Grimm, Millepelli (v. oltre alle pp. 114 ss.), dove un re vedovo ritrova la sua felicità nella sola donna che per ultima volontà di sua moglie avrebbe dovuto sposare, una donna che le rassomigliasse. E questa è sua figlia che {come nella prassi incestuosa assai diffusa nella società contadina arcaica) finisce per farlo e farsi felice. Millepelli nel suo epilogo

richiama alcuni aspetti di fiabe che si congiungono a una tradizione tematica laterale di Cezerentola. Ma non è certo per questi interessi di folklore comparato che Gramsci l’ha scelta. E allora perché mai? Sono pronto a rinunciare a una mia risposta, implicita in quanto ho documentato. Mi sembra difficile escludere che Gramsci questa fiaba volesse raccontarla a se stesso; come la trascrizione di un sogno sognato o soltanto desiderato a livello inconscio. Oltre la scelta di Mi/lepelli, singolare può apparire anche quella di una fiaba come Rumpelstilzchen (cfr. pp. 106 ss.) o di una leggenda come La figlia di Maria (cfr. pp. 66 ss.). In effetti, nulla del romanticismo demoniaco è riscontrabile nella prima. Un coboldo, un ciarliero folletto, è smascherato nella sua malignità e ridotto alla disperazione, non già perché (come lui ritiene) sia intervenuto nelle sue faccende un essere diabolico più potente di lui, ma perché un testimone ne ha appreso l’inaudito e significativo nome dalla sua stessa bocca rumorosa e, riferendolo alla regina, le permetterà di vincere una atroce scommessa e strappare il principio dai

sanguinari appetiti del coboldo, questo falso protettore del focolare dome-

stico. Nell'ambito del fantastico terrificante, il lieto fine non è dovuto a

195

interventi soprannaturali, ma ad un banale messaggero. Senza dubbio la lezione della fiaba è umanistica e rassicurante nella sua semplicità. E al diavolo il povero diavoletto della mitologia germanica! Analoghe considerazioni suggerisce la scelta della leggenda La figlia di Maria. Rivolgendosi al pubblico familiare su cui pesava (ma non su tutti) il bigottismo cattolico, Gramsci non ha esitato a scegliere un racconto che, anche per psicocritici delle fiabe come l’austriaco-americano Bettelheim, non è affatto riducibile alla narrativa edificante. La protagonista ha infranto un divieto della Madonna, che la punisce soprattutto perché si ostina a mentire infantilmente e non ha il coraggio di riconoscere l'errore commesso. Così, perde la voce. La riconquisterà, iniziandosi a una adolescenza felice, solo quando dirà la verità. Scegliendo e traducendo questa leggenda Gramsci ne considerava la morale non divergente dalla sua, di comunista che (non dimentichiamolo) aveva adottato per il suo giornale il motto «la verità è rivoluzionaria ». Di quella leggenda si poteva fare un semplice uso umanistico, senza implicazioni confessionali. Anche se nel Vangelo secondo Giovanni si può leggere che la verità ci farà liberi (e si tratta piuttosto della Verità maiuscola, rivelata ai soli credenti). È « un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli » (scriveva Gramsci su queste traduzioni il 18 gennaio 1932). E sapeva benissimo quanto sia importante « il contenuto », la tendenza ideologica di una letteratura che risponda « agli interessi mentali del popolo », come osservava qualche mese dopo nei Quaderni (ed. cit., p. 1024), commentando la recensione di una pedagogista, la Formiggini-Santamaria, che ricordava l’imprescindibile importanza delle « favole e novelle tipo fratelli Grimm ». Ora la loro raccolta, originariamente ispirata ad un romantico populismo borghese (come riconosce anche chi non è tenero per le forzature interpretative di qualche marxista volgare) era certamente la raccolta folcloristica più adatta ai fini educativi di Gramsci. Meglio ancora di tanti riscopritori tardivi delle fiabe, egli precocissimo favoleggiatore in famiglia, se ne intendeva. Sapeva quanto fosse importante e opportuna la mediazione del narratore orale per superare l’inevitabile anacronismo tra il gusto dei bambini moderni (sia pure di provincia) e quello a cui si rivolgevano i Grimm: «Il lettore dovrà metterci un pizzico di ironia e di compatimento nel presentarle agli ascoltatori » (lett. cit.), E non ignorava (put nei limiti in cui era riuscito ad aggiornare le sue nozioni di psicologia) che esistono delle strutture mentali permanenti e comuni a tutti: ogni bambino ha una sua decisiva crisi di sviluppo e bisogna aiutarlo a liberarsi da tutto ciò che possa ostacolarlo sulla via dell'adolescenza, nel processo di maturazione. Gramsci sapeva che occorre intervenire « prima della pubertà » soprattutto se si tratta di donne, come scriveva il 25 agosto 1930 196

al fratello Carlo, vivamente preoccupato per la nipote Mea. Per essere più utile al novellatore orale o allo stesso destinatario, non meraviglia che abbia preferito tradurre novelle di stile comico, sia per il gratificante lieto fine, sia per la piacevolezza delle stesse vicende. Obbediva a un gusto che aveva

già manifestato da bambino

(cfr. Lettere, ed. cit., p. 716), e

che ora riconfermava nella convinzione che il comico possa educare efficacemente attraverso gli exempla di eroi negativi. E molto probabile che per questo abbia prescelto tre storielle di « furbi » (detti così ironicamente), Elsa, Gianni e Caterina (cfr. pp. 43 ss., 56 ss., 122 ss.). Al vertice di questa serie però non si colloca la terza delle protagoniste, ma una donna ben più sciocca di lei, come potrà constatare il marito, dopo averle affidato la vendita del bestiame e promesso di farla nera, se avesse combinato guai. Lo sfortunato contadino infatti non picchierà Caterina e trova anzi consolazione e risarcimento imbattendosi in una vedovella babbea che lo presume disceso dal cielo e gli dà del danaro da portar su al caro estinto. Qui un crescendo di ridicolo corona l’inopinata eroina. Invece le vicende di Elsa sono percorse da una vena di comicità crudele: sposata dai genitori, a un marito che la ritiene giudiziosa, viene alla fine irreparabilmente riconosciuta per l’inetta che è attraverso una burla. Senza volerlo, cioè desiderandolo inconsciamente, il marito provoca una crisi di identità nella povera deficiente che non sa più chi è, fugge di casa e non dà più notizie di sé. È il solo racconto che abbia uno scioglimento penoso e fa riflettere sulle cautele che richiedono dei soggetti minorati. È ancora il lieto fine a concludere Gianni e la felicità (cfr. pp. 56 ss.) contrassegnato da una chiara connotazione ideologica. Il protagonista è un poveruomo, che, dopo aver servito per sette anni il padrone, riceve per generosa buonuscita un pezzo d’oro grande come la sua testa, purtroppo impreparata e impari a tanta ricchezza. Infatti, con una serie di baratti (secondo lui sempre vantaggiosi), egli ritorna alla sua felice povertà. Ora, il sorriso col quale viene accompagnata questa storia è piena di simpatia: Gianni è un uomo che come tanti è capace di guadagnarsi la vita solo col suo lavoro ed è ben felice di non essere nato uomo d’affari. C'è da scommettere che Gramsci pensava alle disavventure di speculazioni disastrose, che erano

toccate ai suoi (cfr. Lettere dal carcere, ed. cit., p. 80).

Certo la sua ottica non poteva coincidere col benevolo populismo borghese dei Grimm, ben visibile anche quando la loro simpatia va ai protagonisti poveri che trionfano per il loro accorgimento, come accade a La contadinella furba (cfr. pp. 62 ss.). Questa volta la protagonista è furba sul serio, perché salva il padre dalla prigione e diventa regina; strappa da una probabile quanto ingiusta condanna un altro contadino e rischia il ripudio, ma 197

con una battuta di spirito riconquista l’amore del suo augusto sposo. Essa, a differenza della virtuosa e paziente Griselda di Boccaccio (a cui si apparenta), è un’eroina tanto più positiva quanto più pronta è la sua capacità

di intervento, la sua attiva intelligenza liberatrice. Col singolare premio toccato all’infingardaggine, si conclude lietamente anche la vicenda delle Tre filatrici. Questa non è una novellina, ma una fiaba: dove a una fanciulla pigra tre esseri soprannaturali, operando come tte parche davvero benigne, recano un soccorso immeritato, filandone tutto il lino d’un destino felice e le solite nozze con il principe azzurro.

Questi era immancabile,

una volta. Ma oggi? sembra che chieda il traduttore alla indocile e mal promettente nipotina (qualche commento pertinentissimo a questa fiaba si può leggere appunto nella lettera del 25 agosto 1930). Senza alcun dubbio né i populisti Grimm, né il comunista Gramsci intendevano con questa fiaba incoraggiare il peggiore degli ottimismi, quello dell’immaginazione. Perché l'immaginazione è soggettiva e ludica, a differenza della fantasia, che ci può far conoscere pienamente il reale. Destinata a un pubblico concreto, dunque, innanzi tutto ai nipotini, senza trascurare la necessità di « educare gli educatori », ancora una volta le « fiabe per bambini e famiglie » (come suonava il titolo originale della raccolta dei Grimm) potevano e possono esser lette e raccontate. A patto che i novellatori adulti non rimuovano la loro infanzia, ma la rammemorino con matura consapevolezza. Gramsci l’aveva avuta particolarmente

difficile e tormentosa. Si era considerato tradito dalla madre, quando lei gli aveva nascosto la condanna del padre per una piccola irregolarità amministrativa. Si era sentito un reietto dopo la caduta e la successiva deformità.

Ma questo aveva favorito la formazione e il rafforzamento del suo carattere di bambino coi capelli bianchi, non perché fosse rimasto, come Lao Tse, settant'anni nel grembo materno, ma perché protetto da un grande amore nella prima infanzia, era stato poi costretto dalle privazioni e dal lavoro precoce a temprare eccezionalmente il suo io e le istanze morali della sua personalità e iniziarsi a una durissima vita di intellettuale proletario. Ciò premesso, non vorrei certo invitare a leggere le fiabe e novelle tradotte da Gramsci come se la scelta fosse stata suggerita da una sua identificazione con qualche protagonista. Ma d’altra parte credo che nemmeno si possa prescindere completamente anche da eventuali implicazioni personali. Novelline come quelle di Migrolino e di Mignoletto (pp. 32 ss. e 38 ss.) si collocano in ogni caso accanto a quelle che per affinità di contenuto e tendenza sono da leggere come racconti di vittoria dei piccoli, dei deboli, degli umiliati e offesi dalla natura o dall'ambiente familiare o sociale, che tuttavia non si rassegnano a una situazione di reietti. Mignolino, tutt'altro che menomato psicologicamente dalla sua statura irrisoria, 198

trionfa in ogni sua impresa: si affranca da due forestieri che l’avevano comprato chissà con quali disegni, e da ultimo libera tutto un paese da una banda di ladri, che volevano servirsi di lui come complice. Altra micro-epopea burlesca è I/ pellegrinaggio di Mignoletto, che armato cavaliere dal padre con un grosso ago di rammendo se ne va in cerca di avventure. Dopo essersi ribellato a un capo-sarto che gli dà come salario più patate che carne, il fiero sartorello si abbandona a una lunga vacanza furfantesca, ma poi torna a casa e il padre è ben contento di riabbracciare il figlioletto in cui ha saputo riporre fiducia. Nella scelta gramsciana non potevano mancare i racconti nei quali i deboli sanno unirsi per lottare insieme e aiutarsi vicendevolmente. È una morale che si può desumere senza forzature, anche se è solo implicita in altre favole con protagonisti animali (il genere zoo-epico, lo vedremo, gli è stato sempre caro). Nella favola Il lupo e i sette caprettini è il più piccolo, al solito, che scampa nella cassa di un pèndolo alle fauci del lupo: sarà lui e mamma capra a liberare dalla micidiale pancia i sei fratellini (trangugiati interi e ancora vivi), e a giustiziare l’ingordo nemico. Nell’altra favola I/ forasiepe e l’orso, i protagonisti si stringono in mutuo patto per vendicare il loro onore di piccoli uccelletti oltraggiati e muovono guerra all’orso e al suo fraterno amico, il lupo, mobilitando alati più modesti come

zanzare, calabroni e mosche.

L’orso e il lupo, nonostante

abbiano mobilitato numerosi quadrupedi, sono sconfitti, e l’otso dovrà umiliarsi a strisciare umilissime scuse. Ed è significativo che Gramsci, nella sua traduzione, abbia aggiunto a re di macchia, o reattino, il nome di forasiepe, quasi ad esaltare la fierezza ardimentosa dell’uccellino che per la sua piccolissima forma è detto anche scricciolo. Un autentico spirito esopico animava la simpatia del traduttore per gli esseri subalterni. Perciò non manca nella sua scelta I/ cane e il passero (cfr. pp. 110 ss.), dove il generoso uccelletto solidarizza con un buon mastino costretto ad abbandonare per fame un ingeneroso padrone. Sviato dalla tendenza al gusto ludico-industriale, in una scelta grimmiana Calvino include la favola tra quelle « proprio stampalate ». Ma Gramsci non era un comunista dimezzato e forse non avrebbe accettato questa catalogazione frettolosa e riduttiva nemmeno per I quattro musicanti di Brema (pp. 2831). Basti riflettere che i protagonisti, un asino, un cane, un gatto e un gallo sono appena scampati al loro sicuro destino di vecchi da liquidare senza trattamenti di quiescenza, cui avrebbero voluto condannarli i padroni, dimenticando i loro lunghi servizi di collaboratori domestici. Certo la conclusione della favole è estrosa, perché i quattro eroi si insediano in una capanna di briganti e orchestrando le loro voci mettono paura a chi per professione terrorizza e saccheggia il prossimo. A Gramsci l’allegria L99

fantastica degli epiloghi non dispiaceva, ma non lo svagava dalle sue istanze morali e politiche. Chi ha scritto la pagina sui Due passerotti (cfr. oltre pp. 142 ss.) non poteva non simpatizzare per la rabbia vendicatrice del passero, scatenata con un crescendo implacabile contro un vetturale che aveva bestialmente travolto il vecchio mastino invano sfamato dal suo sodale. Si sa come nell’animo di autentici rivoluzionari la gentilezza e la forza possano coesistere perfettamente (pensiamo a Lenin, pensiamo a Mao!). E certi epiloghi più poetici in tante fiabe tradotte da Gramsci offrono deliziose immagini simboliche della gioia che dà ogni trionfo del bene sul male. Ricordo, non dico altro, la danza dei caprettini intorno al lupo morto. Un rapido discorso sui simboli è d’obbligo a proposito di alcune delle tante fiabe dei Grimm che hanno un epilogo felice. Sei delle ventiquattro (rispettivamente quattro e due nei quaderni che le contengono) sono quelle più famose e non potevano mancare nella scelta: Cererentola, Cappuccetto Rosso, Nevina (cioè Biancaneve e i sette nani), Il re dei ranocchi, Giannino

e Gbitina, Rosaspina ossia la bella addormentata nel bosco. Esse si succedono sempre più intervallate dalle meno comuni, cioè dalla maggioranza della scelta. In che misura Gramsci era consapevole dell’esemplare valore liberatorio che queste fiabe classiche hanno oggi per chi le interpreta alla luce della psicologia del profondo? Il suo interesse per la psicanalisi, lo sappiamo, non poté essere convalidato da una adeguata informazione. Ma l’appassionata intelligenza e partecipazione ai problemi educativi familiari e la perspicace, meditata memoria della fanciullezza furono un serio e non idealistico presupposto per la sua scelta. Prova di quanto egli sia stato sagace è l’inclusione di un racconto meno vulgato come Fratellino e sorel-

lina (cfr. pp. 80 ss.), che pur non essendo tra le pagine classiche è ritenuto esemplare da Bettelheim, il citato psicoanalista e psicocritico che ha studiato le fiabe con un approccio sistematico (e perciò con l’inevitabile rischio di forzature e inesattezze, per la tensione dimostrativa di tutte ricondurre a significati simbolici). L’esperienza personale di un rapporto non comune come quello che Gramsci aveva avuto con l’intelligentissima sorella Teresina, i legami affettivi e ideologici che lo legarono soprattutto al fratello maggiore Gennaro contribuirono decisamente alla scelta di questo racconto, che con eccezionale rarità tematica offre il caso di due fratelli che non conoscono rivalità e gelosie, ma solidarietà e collaborazione (come del resto era stato il caso dei fratelli Grimm).

Per Bettelheim

il valore

educativo del racconto sta nel fatto che l’integrazione della personalità non si può raggiungere se non eliminando tutto ciò che in noi può essere di asociale, distruttivo, iniquo. Ed è appunto la nostra sollecitudine per 200

chi ci ama a liberarsi in un sereno equilibrio facendo prevalere l’io e i valori del super-io sugli impulsi istintuali. Non è casuale, forse, che la traduzione di questa favola segua l’altra de I dodici fratelli (cfr. pp. 75-79), dove è il più piccolo di una famiglia reale, Beniamino, che con l’intelligenza del suo affetto riesce a salvare sé e i suoi fratelli dal proposito omicida del padre: il quale, tutto preso d’amore per la sua unica figlia, ultima nata, vorrebbe uccidere e diseredare i maschi. Beniamino impedisce anche ai fratelli di uccidere la sorellina, che nella seconda parte del racconto (dove predomina il maraviglioso) libera i suoi fratelli dalla condizione di corvi, nella quale, inconsciamente, lei aveva contribuito a trasformarli. Beniamino era stato sorretto dall’amor materno, la sorella invece consegue la liberazione, con un mirabile trionfo

del suo io e del suo super-io precocemente e perfettamente consolidati. Il successo e l’universalità delle fiabe classiche deriva senza dubbio dalla rispondenza « realistica » tra le situazioni psichiche dei personaggi e quelle dei piccoli ascoltatori, che assorbono a livello anche inconscio l’essenziale di ciò che può essere indagato da super-lettori come Bettelheim, con le sue analisi che hanno il merito di non trascurare gli apporti della antropologia e della sociologia. In Giannino e Ghitina (cfr. pp. 94 ss.), psicodrammatica fiaba di miseria e di fame, i due bambini protagonisti abbandonati nella foresta per volere della matrigna (e del padre succubo) finiscono, sempre più terrorizzati, per regredire alla loro prima fase di sviluppo infantile, cioè all’oralità libidica che sollecita il lattante a tutto succhiare e mettere in bocca, perché tutto è buono a sostituire il seno materno perduto. L’incontro con una strega-orca rende finalmente consapevoli i due fanciulli dei danni che arreca l’avidità orale incontrollata (come interpreta Bettelheim). Note-

vole che, a prendere le iniziative necessarie perché le disavventure si concludano lietamente, è sempre Ghita: ma è solo grazie alla loro solidarietà che lei ed il fratello riescono ad avere ragione di un essere come l’orca, che è ancor più malefico di una matrigna cattiva e di un padre debole, e tuttavia non riesce a divorare i piccoli eroi. Mai abbastanza

si insisterà

sul valore educativo (perché ottimistico e rassicurante) che possono

avere

le fiabe dei Grimm, come dimostra l’analisi del loro Cappuccetto Rosso. Non per nulla questa fiaba reca in coda una variante ancor più importante delle altre introdotte dai Grimm rispetto al notissimo racconto di Perrault. La protagonista si presenta fin dalle prime sequenze incerta tra il principio del piacere e quello della realtà, cioè tra l'abbandono alle richieste inconscie delle sue pulsioni, delle gioiose energie vitali e l’obbedienza alle istanze dell’io-realtà e ai doveri del super-io. La svagata fanciulla è collocata in una situazione sociale di agio. Sarà la terribile avventura 201

nel bosco a portarla alla soglia della morte, o (se è vero l’epilogo aggiunto) alla rinascita. La nuova vita simboleggia una fase più matura nello sviluppo della personalità, quando son superate certe ambivalenze affettive e l’attrazione per il genitore d’altro sesso. Nella redazione dei fratelli Grimm la fiaba si conclude con la morte del lupo, dalla cui pancia un cacciatore, operando un taglio cesàreo mette in salvo nonna e nipotina trangugiate semivive dall’ingorda fiera. È un lieto fine con i tipici tratti della comicità borghese già cara al Boccaccio. Tutti ci guadagnano: al cacciatore toccherà la pelliccia, alla nonna la focaccia e buon appetito, a Cappuccetto Rosso la maturazione e l’acquisto delle istanze morali. Il finale trionfo delle due creature innocenti sulla cattiveria del lupo è il rovesciamento della fiaba di Perrault, che mirava ad educare col terrore (la morte della nonna e di

Cappuccetto Rosso) i bambini disobbedienti. Ma contiene una lezione più profonda e meno banalmente pedagogica, se accettiamo l’interpretazione psico-critica del Bettelheim. Egli tira fuori il significato erotico riposto della fiaba, minutamente analizzando motivazioni, passaggi, spie linguistiche sintomatiche. Con questa suggestiva interpretazione allegorizzante il lupo non sarebbe altro che l’immagine di un seduttore, a cui ogni ragazza ingenua

può

essere

esposta,

in quanto

la sua

sensualità

è immatura.

Attratta e respinta dalle seduzioni del lupo, crede di salvarsi mandandolo dalla nonna, ma intanto si è già incautamente abbandonata ai suoi svaghi e a pericolose confidenze. Persuada o no quest’interpretazione che ho esposto un po’ sommariamente, non c'è dubbio che l’aggiunta dei Grimm è essenziale, per la funzione liberatrice della fiaba. Quel che importa è che Cappuccetto riesca a salvarsi anche successivamente, con il valido aiuto della nonna (figura materna rafforzata), ma in perfetta autonomia rispetto ai soccorsi del cacciatore che aveva esercitato un evidentissimo ruolo paterno. Anche la favola di Nevina (oggi vulgatissima col titolo di Biancazeve e i sette nani) nella redazione dei fratelli Grimm è incentrata, secondo Bettelheim, sull’ambivalenza odio-amore. Ma qui il complesso di Edipo è vissuto non più dalla parte dei bambini, bensì dei genitori. Nel mito greco la soluzione era tragica, qui ritorna immancabile il lieto fine: il protagonista non viene ripagato con la morte ma con una superiore integrazione della personalità. Certo nella versione vulgata (il Bettelheim ha ragione) le oscure sofferenze sessuali della pubertà non sono analizzate (come in altre versioni, per es. La giovane schiava del Pentamerone di Basile). Ma quel che conta è che queste sofferenze (la gelosia della madre per la figlia che fiorisce) e l'incapacità del cacciatore di corrispondere alle deluse aspettative filiali di protezione e salvezza si concludono con un amore felice.

Il principe azzurro non è un luogo comune fiabesco, è il degno premio 202

all’autonoma capacità di salvezza di Biancaneve. Relegata in mezzo a creature senza possibilità di sviluppo, come i nani, essa è sollecitata alla morte e alla rinascita (cioè, in definitiva, alla maturità sessuale) proprio dalla implacabile gelosia della regina. Altra è la via attraverso cui pazientemente matura la protagonista di Rosaspina ossia la bella addormentata nel bosco. Essa è educata a controllare con serena e fiduciosa aspettativa lo sviluppo di una compiuta strutturazione della sua personalità, accettando con fredda noncuranza il torpore dell’adolescenza come una necessaria fase di attesa, contemplazione e concentrazione interiore. È una fase che attraversano gli adolescenti dei due sessi prima di risvegliarsi alla pienezza della vita sessuale, che sarebbe sbagliato accelerare e anticipare: l’immaturità temporanea deve anzi essere protetta, come dalle spine della siepe è difesa la rosa che vi è nata. Il risveglio non mancherà, e sarà il risveglio di tutto il mondo all’amore e alla vita, icasticamente rappresentati dai Grimm con una ricchezza di particolari realistici non discari al gusto gramsciano. Impossibile figurarsi l’assenza di Cererentola in una scelta di fiabe e meno che mai di quelle dei Grimm. È forse la più popolare e la più amata. La morale vi affiora alla superficie con lieve semplicità, offrendo a chi legge la gratificante vittoria della bontà e del merito di una fanciulla provata dalla morte della madre, dall'abbandono del padre, dall’odio e dalla gelosia della matrigna e delle sorellastre. Ma Cenerentola è la fiaba per eccellenza anche perché è la più complessa e la più ricca di simboli e di significati. Bettelheim, con attenta indagine comparatrice e giovandosi di psicanalisti come Erikson e la Klein, ha potuto decodificarla in profondità, anche perché essa concentra le situazioni e i conflitti psicologici più comuni (lutto e malinconia, ambivalenza affettiva, complesso edipico, complesso di castrazione, angoscia sessuale) attraverso tutte le crisi che, tra l’infanzia e l'adolescenza, approdano alla libertà di una felice maturazione. Cenerentola ha succhiato col latte di una dolce maternità una fondamentale

fiducia in se stessa. Il messaggio che ci trasmettono le sue vicende è che non v'è esperienza dolorosa che non si possa sopportate superando le nostre sventure e tristezze. Non è delle sorellastre che avrà bisogno il principe azzurro ma di lei, la vera donna che lo saprà conquistare. Le sorellastre hanno avuto genitori che ai loro occhi son rimasti immutabili ed esse stesse sono rimaste senza disillusione alle immagini del padre e della madre. Proprio per questo accettano il consiglio di mutilarsi dalla madre che, dopo aver umiliata al rango servile la sua più temuta rivale, la figliastra, non vede l’ora che le figlie trovino un marito. Le aggressive sorelle sono in effetti meno femminili di Cenerentola, ecco perché (sempre secondo il Bettelheim) con le loro mutilazioni vorrebbero dissimulare la loro maschia 203

aggressività, invisa al principe. Questi invece ha bisogno di una ragazza che abbia come lui e i giovani normali, naturali problemi di castrazione. Unendosi essi supereranno l’angoscia di avere un’anatomia incompleta rispetto all’altro sesso e così sapranno integrarsi in un felice accoppiamento. Del principe azzurro non sappiamo nulla. Ma dal suo comportamento il valentissimo psicocritico può indurre molto, così come tutto ha saputo dedurre dalle vicende di Cenerentola, con un’analisi puntigliosamente riferita ai famosi « stadi delle specifiche crisi psicosociali » di cui parla Erikson; a cominciare dal primo stadio, la fiducia di fondo (che deriva da un buon rapporto con la madre); l’autororzia (che è accettazione del proprio ruolo durante il lutto riparatore in memoria della madre buona, amatissima e insieme inconsciamente odiata come rivale nei confronti del padre); l’îniziativa (simboleggiata dal virgulto di nocciolo, suprema e delusa richiesta d’amore al padre); il /zvoro (cioè le ripetute prove in cui ritemprerà il suo carattere); l'identità personale (negata nei cenci e positivamente ritrovata nel fulgido abito di sposa). Le situazioni in cui l’« uomo della strada » a livello inconscio recupera agevolmente i simboli sessuali, sarà la psicoanalisi a saperle interpretare, aveva osservato Freud (cfr. Opere complete, ed. Boringhieri, vol. VI, p. 465). Se l’uomo della strada è Gramsci, pur connotandole con tutta la sua esperienza esistenziale e intellettuale, non può neppur lui sottrarsi all’« ingenuità » della prima lettura, alle impressioni e reazioni profonde. Sono anche queste che forse lo sollecitarono a scegliere come suo iniziale esercizio di traduzioni la terza favola dei Grimm. Gramsci la intitola Storia di uno, Giovannin Senzapaura, che partì di casa per imparare cos'è la pelle d’oca. Colpisce qui l’aggiunta « Giovannin Senzapaura », che comporta poi l’altra variazione rispetto al testo (« imparò cos’è la pelle d’oca ») invece di: « imparò cos’è la paura »). Spetterà agli specialisti di accertare se questo esercizio gramsciano di traduzione pecchi spesso di infedeltà. Ma non sembra, nonostante questa infrazione iniziale. Ora, come mai Gramsci, che aveva ancora ottima memoria quando traduceva, qui interveniva richiamandosi all’eroe di una favola popolare, che nelle versioni italiane è sempre molto diversa da quella dei Grimm? Non è il caso di improvvisare comparazioni, piene di rischi soprattutto se sono sbrigative e sommarie. Calvino che ha cominciato la sua fortunata raccolta di fiabe italiane proprio con la novella di Giovarnnin Senza Paura, attraverso una arbitraria contaminazione di varianti si è spericolatamente esposto. Ma non per nulla un insigne folclorista, M. Liithi, ci ha avvertito che la leggibilità dei simboli sessuali, così spontanea nei narratori popolari, può essere agevolmente sofisticata e smarrita. A quale Giovannin senza paura voleva alludere Gramsci? A qualche variante in cui il simbolismo sessuale non 204

era obliterato? O forse quel GiovanNir a Gramsci tintinnava in profondo il proprio nome d’infanzia? Egli era tutt’altro che ignaro di angosce sessuali rimosse e poi ritornate, lui che era sempre vissuto nella convinzione « di non poter mai essere amato da una donna » come a Mosca aveva scritto al suo dolce amore, lui che s’era fatto da bambino « un abito di freddezza » facendo ricorso a tutte quelle difese che gli permisero di sembrare molto più forte di quello che fosse, costruendosi peraltro una personalità intrepida, ma arida come «una selce » (così scrisse alla madre, Lettere, ed. cit., p. 195). L'amore di Julia gli aveva fatto ritrovare la normalità di un rapporto erotico, come potevano attestare non solo quelle prime bellissime lettere moscovite (cfr. le acute pagine della biografia di S. F. Romano).

Ma è ancora un’altra fiaba che merita qualche considerazione, perché vale a confermare i criteri e le finalità di Gramsci quando sceglieva testi che mostrano le prove, i pericoli e le battaglie da affrontare e vincere per affermare la propria personalità, realizzare l’integrità e assicurarsi un’identità (come dice il Bettelheim alla conclusione del suo più volte ricordato studio). Egli aveva preso in esame la singolare fiaba ora citata, prima di illustrare nell’ultimo capitolo del suo libro il ciclo tematico dello « sposoanimale ». Di questo appunto fa parte un’altra importante fiaba, quella che Gramsci ha otrore di tradurre « il principe-ranocchio », ma eufemizza in Il principe dei ranocchi, eliminando il sottotitolo (« O Enrico di ferro ») che peraltro riguarda un personaggio marginale della vicenda, il fedele valletto del re. Ma un’altra e più importante omissione si può notare all’inizio. È l’inciso che s’inserisce dopo l’inizio rituale: « quando desiderare serviva ancora a qualche cosa ». Qui il traduttore emendava il testo da poeta, eliminandone una considerazione affatto distraente da ciò che è l'essenza di una fiaba. Le fiabe ci incantano proprio perché è in loro

che i desideri nostri si realizzano. L’eroina, che è la più bella e più giovane di molte sorelle, per obbedienza al padre si decide a mantenere la sua promessa di trattare come un essere umano il ranocchio che le aveva riportato una pallina smarrita nello stagno, a patto però che lei l’avesse condotto via con sé. Il momento illuminante della vicenda è proprio quello in cui la principessa si rifiuta di far dormire la bestia nel suo letto e la scaglia contro la parete: così il ranocchio si trasforma in un bellissimo giovane. Ciò che distingue una fiaba come questa (dice Bettelheim) non è il prevedibile epilogo delle nozze ma il superamento dell’aspetto ripugnante e « animale » che può assumere il sesso e che qui è simboleggiato dal ranocchio. Tralasciando i particolari mi sembra persuasiva l’interpretazione proposta, che cioè anche in questa fiaba soltanto la naturale paura può far maturare la nostra umanità. 205

Senza alcuna allusione alle misure di difesa, che provocano comportamenti negativi per la sfera sessuale, e senza affatto esplicitare il rapporto erotico, entrambe le novelline sono favole di maturazione e liberazione, proprio perché si rivolgono al nostro inconscio. Al bambino moderno come a quello più remoto nel tempo e nello spazio, tutte le fiabe che hanno per argomento la Bella e la Bestia (è il titolo appunto della popolarissima fiaba di Mme le Prince de Beaumont, apposta molto spesso in appendice ai racconti di Perrault), riconducono al millenario mondo animale di cui l’uomo, « antico animale », fa parte sia pure con una differenziatissima evoluzione storica. Checché si dica, Gramsci era molto più materialista di alcuni suoi sicuri denigratori e improbabili superatori, per non rendersi conto di verità come queste, che facevano parte del suo vissuto oltreché del suo favoleggiato e pensato. E d’altra parte i problemi di liberazione per lui non si limitano alla sfera dei rapporti sessuali, alla felicità della coppia e della famiglia. L'antico animale da troppo tempo è divenuto « un animale sociale », perché si possa dimenticare l’importanza che in un integrale processo di umanizzazione acquista il rapporto con tutti gli « altri esseri viventi ». Abbia pazienza il lettore, ma per discorrere sia pure con rapidità del nesso che lega alla prima parte di questa raccolta la seconda e la terza parte, tutto ciò che si è detto finora era una necessaria premessa. Era la condizione per poter discorrere più brevemente del Gramsci scrittore, che è assai più noto del Gramsci traduttore. Nelle fiabe (come del resto nei più antichi racconti mitici) il rapporto dell’uomo con gli esseri viventi (di tutti gli animali e anche dei vegetali) è certamente il deposito di un antico rapporto primigenio, che la moderna civiltà urbana ha reso più difficile e tende a obliterare. Anche questo Gramsci lo aveva sperimentato, quando ebbe a Torino un duro impatto con la civiltà industriale italiana per eccellenza, vivendo la sua vita di studente universitario e di « giornalista libero » (Lettere, ed. cit., p. 504)

cioè di opposizione, dopo aver vissuto in Sardegna l’età verde, superando un contesto di cultura arretrata, campagnola e provinciale. Se non avessimo accolto nella nostra silloge gli apologhi e raccontini torinesi, inseriti in alcuni suoi articoli, avremmo impoverito il suo «immaginario » proprio di quello che egli sentiva più suo nella lotta politica. Il ricorso alle metafore zoologiche e agli apologhi esopiani o paesani era spontaneo per chi (come lui ammetteva per scusarsene ironicamente) era « nato in villa » e perciò non

discorso e non

meraviglia che costituisse una

già un semplice trascorso

costante

pittoresca nel suo

polemico nei confronti

della

stampa borghese, reazionaria e clericale (cfr. Le cornacchie e il buacciolo, in Cronache torinesi 1913-1917, Torino 1980, pp. 594-595).

« Io sono nato in villa, per grazia del destino. Sono un inurbato, e

206

ne sono lietissimo, perché ho accumulato nella mia infanzia di monello tante esperienze e tante sensazioni che un ragazzo nato in città non può neppure immaginare. Per esempio, non può immaginare il piacere che si prova quando, dopo una serata di scalmana sotto il solleone semitropicale, si ritorna a casa tirandosi dietro una mezza dozzina di cornacchie starnazzanti e rabbiose; non può immaginare il piacere che si prova a star in agguato dietro un fosso, dietro un mucchio di paglia, quando l’orizzonte si picchietta in nero per una volata dei neri uccellacci, e questi piombano nell’aia abbandonata e saltellano nella pula con le loto mosse sgraziate, e dopo aver abboccato all’esca preparata (una fava legata a un sasso con un cordino) cercano divincolarsi, gracchiando, stridendo, con quella loro vociaccia di malaugurio. Chi non immagina il piacere che si prova a queste monellesche avventure, non può immaginare neppure il piacere che io provo agli starnazzamenti ai dimenamenti sgraziati di quel buacciolo che nel “ Momento ”, da un paio di giorni, suona le campane a gloria per la nostra fuga, per la nostra sconfitta. Poverino! Abbiamo voluto divertirci un po’, e ci siamo riusciti ». La citazione non è superflua, se si considera che nelle lettere dal carcere ritornano i paragoni di sé con gli animali, anche se oscillano tra la sua fierezza e la irriducibilità e l’orrore della disumanizzazione a cui lo riduceva un nuovo tipo di solitudine mai sperimentato fino allora. Per il giornalista, considerare bambini i suoi interlocutori avversari e raccontargli sferzanti apologhi era un punto di forza sul piano psicologico ma al tempo stesso era un felice uso di « forme semplici », pertinentissime al pubblico a cui si rivolge in particolare la stampa di sinistra. Perché uno sciacalio fu fatto re (cfr. p. 127) è il compendio di una novellina indiana del Panciatantra, a cui Gramsci esordiente (nel 1915) ricorreva, per usarla contro un vacuo personaggio di « autorità », il sindaco giolittiano di Torino Teofilo Rossi. Questa zooepica rende più feroce la satira cui di rado poi Gramsci si abbandonerà con tanta violenza. Il sarcasmo diventerà più

contenuto e gli animali parlanti serviranno a rintuzzare voltairianamente la candida stupidità del provvidenzialismo (cfr. Armonie della natura, p. 132). Salvo a ricomparire in tutta la drammatica attualità negli anni °20, quando le violenze non verbali delle squadre fasciste contro una classe operaia poco reattiva produssero la storia sanguinosa che tutti dovremmo conoscere. Corvi e gufi (pp. 133 s.) è la favola che profeticamente prevede la sconfitta della sinistra ingenuamente illusa che le forze dell’ordine borghese potessero essere le alleate e sostenitrici dei lavoratori. È un apologo in cui riconosciamo il Gramsci ammiratore della Batracorziorachia leopardiana, l’« epopea atrocemente beffarda » (Scritti, cit., p. 32). Talora 207

si trattava di modeste occasioni di cronaca, come quella offerta da un vecchio conferenziere benemerito della retorica patriottica come Paolo Boselli (cfr. Nestore e la cicala, p. 128). Tal altra vien fuori un delizioso

arguto bozzetto di chapliniana comicità (cfr. Due pere, p. 129). In Dia-

mantino (pp. 130 s.) è la storia del socialismo a suggerire un'immagine allegorica che Gramsci disegna con leggerissimo vagheggiamento ironico.

Se rinunciamo alla chiave da lui stesso fornitaci, la favola va oltre l’occa-

sione storica del suo contesto e può adattarsi a situazioni rinnovata attualità. Certo

conquistato

in questa

prosa

narrativa

giovanile

quell’« avarizia di parole » che una

Gramsci

non

analoghe di ha ancora

volta (c’era una

volta

De Sanctis) era considerata un pregio. È il pregio conseguito soprattutto nelle « lettere carcerarie » (come le chiamava Gramsci). Qui tuttavia il giovane scrittore riconfermava proprio quel gusto figurativo insistito e

preciso ch’egli stesso ci diceva che da bambino adottava, componendo e illustrando le storie del terribile caprone Barbabucco (cfr. p. 140). Questo mordente gusto icastico si può apprezzare del resto già nei suoi burleschi raccontini infantili, di cui c'è rimasta preziosa testimonianza e che abbiamo inclusi nella terza parte di questa nostra raccolta, intitolata appunto raccontini di Ghilarza e del carcere. È un accostamento tematico, è ovvio, perché quando Gramsci intratteneva per lettere i suoi interlocutori o recuperava a distanza di decenni la sua infanzia, è il carcere stesso e la diversità dei singoli destinatari a imporre situazioni diverse. Talvolta avrebbero toccato la più remota atemporalità di rievocazione ed egli vi si incantava e insieme si liberava, consolando se stesso e tutti coloro che l’avrebbero letto. I primi raccontini di argomento ghilarzese sono quelli che Gramsci narra alla bambina più vicina a lui, anche se più cresciuta, la Tania, che spesso doveva essere richiamata alla dura realtà del carcere e del non meno duro carcerato. A cominciare dalla storiellina ghilarzese Dov'è il cimitero (cfr. p. 141) nulla le risparmiava l’amore tenerissimo e crudele di Antonio, quanto più diventava « suo » e quanto più egli s’avvedeva come l’avevano ridotto il carcere e le malattie. Era dapprima come un passero feroce e

non addomesticabile, ma piuttosto che farsi addomesticare, si era ridotto come una bestia nel covile, ma con tanto cervello e orgoglio da rifiutare pietà con desolata forza. Sarebbe venuto un momento che non avrebbe più avuto l’arguzia di ricordare storie vere e non una storia di briganti (cfr. Racconto di Natale, p. 148) o di menare il suo cagnetto per l’aia (ctr. Cosa farete nella vita, pp. 149 s.) o di difendere il suo giusto odio contro i cattivi maestri, raccontando Lo scurzore (pp. 115 s.), allora avrebbe raccontato una atroce storia vera di Ghilarza, senza poterle rispar208

miare il sarcasmo spietato di una desolazione suprema. La riportiamo qui perché è l’antifiaba più crudele che si possa leggere tra le pagine gramsciane e vorremmo risparmiarla a ragazzi troppo delicati: A

x

b)

17

[DS

.

.

.

« Quando avevo 8 o 9 anni ho avuto una esperienza che mi è ritornata chiaramente alla memoria leggendo il tuo consiglio. Conoscevo una famiglia di un villaggio vicino al mio, padre, madre e figlioli: erano piccoli proprietari

ed esercivano

una

osteria.

Gente

energica,

specialmente

la

donna. Sapevo (avevo sentito dire) che oltre ai figli noti e conosciuti, questa donna aveva un altro figlio che non si vedeva mai, del quale si parlava con sospiri come di una gran disgrazia per la madre, un idiota, un mostro, o giù di lì. Ricordo che mia madre accennava spesso a questa donna come ad una martire, che tanti sacrifizi faceva per questo suo figlio e tanti dolori sopportava. Una domenica mattina, verso le 10, io fui inviato da questa donna; dovevo consegnarle certi lavori di uncinetto e riscuotere dei denari. La trovai che chiudeva l’uscio di casa, vestita di festa per recarsi alla messa solenne: aveva una sporta sotto il braccio. AI vedermi esitò un poco, poi si decise. Mi disse di accompagnarla a un certo luogo e che al ritorno avrebbe preso in consegna i lavori e mi avrebbe consegnato i denari. Mi condusse fuori del paese, in un orticello ingombro di rottami e di calcinacci; in un angolo c’era una costruzione ad uso portcile, alta un metro e venti, senza finestre o sportelli, con solo una robusta porta d’ingresso. Aprì la porta e subito si sentì un mugolìo bestiale; c'era dentro il suo figlio, un giovane di diciotto anni, di complessione molto robusta, che non poteva stare in piedi e perciò stava sempre seduto e saltellava sul sedere verso la porta, per quanto glielo consentiva una catena che lo stringeva alla cintola ed era assicurata a un anello infisso al muro. Era pieno di sozzura, solo gli occhi rosseggiavano come quelli di un animale notturno. La madre gli rovesciò in un truogolo di pietra il contenuto della sporta, del mangime misto di tutti gli avanzi di casa e riempì d’acqua un altro truogolo, poi chiuse e andammo via. Non dissi niente a mia madre di ciò che avevo visto, tanto ero rimasto impressionato e tanto ero persuaso che nessuno mi avrebbe creduto. Neanche quando sentii parlare ancora dei dolori di quella povera madre, intervenni per correggere l’impressione e parlare della disgrazia di quel povero relitto umano capitato con una madre simile. D'altronde, cosa poteva fare quella donna? Come vedi, è possibile fare dei paragoni concreti e consolarsi alla

maniera di Candido ». Solo a Julca-Giulia, il suo dolce amore ormai defunto, poiché si era proibito per feroce igiene ogni ricordo di felicità, Gramsci scriveva storie 209

in cui la verità del proprio dolore era vigilata da uno spirito ironico rare volte paragonabile a testi della nostra letteratura, per l'amarezza del forte agrume che contengono. Bisogna rifarsi solo a Machiavelli o al Leopardi.

Come non si diventa invertebrati (p. 144) erano storie vere del carcere. Ma le altre che Gramsci condensava nella sua « scritturazione » (come era chiamata nel gergo il permesso e la condanna di scriver lettere a giorno fisso e a ora fissa) sono diventate prose inconfondibilmente sue: la novella di origine scandinava I tre giganti e soprattutto L'uomo caduto nel fosso (pp. 147 e 159) che paragonata all’originaria redazione di Lucien Jean (pubblicata da Gramsci su « Ordine Nuovo ») mostra il salto di qualità dello scrittore geniale rispetto a un benemerito ma prolisso scrittore della « scuola proletaria ». Gramsci (come scriveva a Tania, Lettere, ed. cit., p. 134) prediligeva la « stringatezza dei negri ». Quali che siano state le effettive probabilità di giovare a Giulia,

quest’ultimo racconto raddensava in poche righe una vita intera e si collocava al vertice di queste favole di libertà, valide per chiunque, individui, partiti o nazioni siano caduti nel fondo di un fosso. Gramsci ben presto si sarebbe disilluso sulle possibilità che lui attribuiva a Giulia di poter guarire senza un buon medico e senza il suo ritorno. L’« altro carcere » che egli non aveva preventivato, quello che rescindeva giorno per giorno il rapporto « molecolare » con gli altri esseri viventi era proprio il cono d’ombra che stringeva nell’avello infernale degli eresiarchi Farinata e Cavalcanti. Il dramma del contatto concreto col presente visto con « mala

luce » e cominciato con dubbi a volte sconvolgenti e dissensi profondi, rendeva difficile a Gramsci di comunicare con le persone più care. Si era proposto di scriverle perché raccontasse queste storie ai figli, ma le difficoltà di capire con esattezza quali fossero i problemi psichici non solo della moglie ma degli stessi suoi figli lo tormentarono più che mai. E così cominciò inviando a Giulia un racconto ghilarzese, Il topo e la montagna (cfr. p. 151) con il suggerimento di attualizzarlo e di vedere nel protagonista un eroe che concepisce un vero e proprio piano quinquennale.

In questa tendenza narrativa di Gramsci

si poteva riscontrare un

tentativo (ma dubitavo io stesso della mia formula « sfaticata ») di « realismo socialista ». Ora, mettete senz’altro da parte questo giudizio formu-

loso. Ma non c’è dubbio che anche altri raccontini di Ghilarza appartenevano alla tendenza didattica del « documento » che caratterizza la moderna poetica proletaria. Queste storie naturali di lotta per la sopravvivenza e di spiccato contenuto

« economico » Gramsci

aveva già accennato

a rac-

contarle quando rievocava alla propria madre la storia Le gallinelle e il serpe vissuta nella valle del Tirso (cfr. p. 152). Ma solo scrivendo a Delio, per il proposito di stilizzarle in modo facile e interessante, « per non stan210

carlo », approdava a una delle più alte pagine di prosa d’arte che siano mai state scritte nella nostra letteratura contemporanea (cfr. I ricci e le mele,

pp. 153 ss.): con queste pagine e con quelle della Volpe e il polledrino (pp. 156 s.) e col Cagnolino (p. 139), Gramsci offriva a Delio, a Giuliano (e a tutti i suoi non previsti e non prevedibili lettori) una verità che attingeva la luce favolosa della poesia. 1980

211

DISCORSI

PER IL « PARNASO

ITALIANO » DI EINAUDI

Per i seguenti discorsi storici sulla poesia italiana dal Duecento all’Ottocento sono in obbligo di un’avvertenza particolare al cortese lettore. Piuttosto che ritoccare il testo, ho ritenuto opportuno di lasciarlo inalterato nella sua destinazione. Per la vastissima crestomazia del fortunato Parnaso italiano edito da Einaudi in splendida veste era necessaria una giustificazione della scelta che non voleva essere soggettiva e di gusto, ma proporre un coordinamento e un periodizzamento nuovi della nostra storia letteraria, anche se incentrati solo sulla poesia.

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È

PERSTCATROESIA DEL DUECENTO E DEL TRECENTO

Per oltre un secolo, gli studi storici e critici, dal Foscolo al De Sanctis al Croce e alla sua scuola e a quelle dei filologi, hanno scavato in profondità nella letteratura italiana, recuperando una ricchezza mai posseduta così consapevolmente di scrittori e di testi. Intento dell’Editore è stato di renderla accessibile a un pubblico non scolastico attraverso un’ampia crestomazia, che raccogliesse quanto di storicamente più significativo sia stato scritto in versi (e senza limitarsi al concetto decadente di litica pura, che avrebbe portato all’esclusione di validissime testimonianze della nostra civiltà), quali che fossero le forme e i generi di composizione, il contenuto e il linguaggio: poesia aulica e latina, popolare e dialettale, e perfino ciò che (dalla preghiera alla traduzione d’arte) documentasse con vitalità e forza di stile momenti non trascurabili per la cultura letteraria del nostro Paese, considerata nella sua integrità. Qualcosa di più, dunque, che non dica il neoclassico e tradizionale nome di « Parnaso Italiano » dato alla raccolta, dove risuoneranno voci poco note e spesso, e a torto, considerate

non degne delle mitiche muse. Abbiamo creduto di ricorrere pertanto agli accorgimenti didascalici essenziali perché la lettura ricevesse il soccorso di brevi chiose e notizie, il suggerimento di qualche cenno critico, e un minimo ordinamento storico, del quale si darà conto nelle succinte introduzioni preposte ai singoli volumi. I testi delle « origini » ci riportano alla fine del secolo XII, a una

società in cui i centri culturali, che non fossero quelli direttamente legati all’organizzazione della Chiesa, furono le corti feudali, le piazze dei Comuni, le università. Trovatori, giullari e goliardi sono i tramiti viventi che fan circolare idee e notizie, sentimenti e forme nuove della più avanzata civiltà FA)

romanza. Attraverso questo processo assai diffuso e policentrico avviene un’assimilazione, traduzione e contaminazione di testi provenzali e francesi (liriche d’amore, « serventesi » cioè canzoni morali e politiche, poemi epici e cavallereschi, composizioni didascaliche e satiriche, leggende e vite religiose), mentre il latino si arricchisce di ritmi che hanno un contenuto laico e spesso anticlericale, un tono giocoso ed epicureo. Finché la muova classe sociale, la borghesia, non si sarà affermata e non avrà imposto l’uso del « volgare », cioè dei dialetti di cui si serve per i suoi traffici, e che parla e scrive, la facilità con cui s’intendeva il provenzale e il francese, quando era maggiore l’unità culturale del mondo romanzo, fa prosperare una letteratura che attesta le fasi di questo processo lungamente protrattosi nel Nord soprattutto, dal Monferrato alla Marca Trivigiana. A poco a poco il contenuto locale riempirà di sé questi ibridi involucri sino a trasformarli attraverso l’elaborazione di forme originali. I testi arcaici in volgare sono pochissimi e di forma assai rozza: il più antico e di meno difficile lettura è la Cantilena di un giullare toscano. Necessariamente limitata deve essere anche la scelta fra i moltissimi trovatori, italiani o no, che poetarono in provenzale, e che furono non solo rimatori, ma anche pubblicisti politici. In gran parte stranieri (francesi e tedeschi) i « carmina » goliardici, una produzione a cui l’Italia contribuì in assai esigua misura.

Nella prima metà del Duecento fu la « Magna Curia » di Palermo a costituire un centro culturale che ebbe capacità di attrazione e irradiazione nazionale, grazie al potente sforzo di organizzazione unitaria di tutta la penisola, tentato da Federico II come re e imperatore, e che fece sentire la sua attiva influenza fino alla motte dei figli Manfredi (1266) ed Enzo (1268). Per quanto i versi dei principi svevi non ci siano pervenuti integralmente e con sicura attribuzione, è significativo che sia essi che altri

nobili della corte (come il francese Giovanni di Brienne e il genovese Percivalle Doria) poetassero anche nella lingua dei borghesi colti siciliani, meridionali e italiani divenuti alti dignitari dell’Impero. Di questa borghesia sviluppatasi così precocemente e così avanzatamente da un punto di vista ideologico, le personalità artistiche più compiute (oltre al Notaro, considerato come il maestro e il caposcuola) furono Pier della Vigna e Giacomino Pugliese. In Pier della Vigna si assommano virtù stilistiche e retoriche d’un lirico colto « infiammato di sì buono amore » (per valerci di una sua elaborata metafora) « com’albore che d’ellera è sorpriso ». Ma la corrente popolareggiante è tutt'altro che trascurabile in questa produzione dove prevalgono le rigide raffinatezze cortesi. Certo, anche il tono popolare poteva essere riflesso e di maniera, né la presenza delle forme dialettali (talora anche notevole) ci può trarre in inganno circa la sostan216

ziale letterarietà dell’ispirazione. Ma su Giacomino Pugliese non credo si siano ingannati quei critici che gli riconobbero una vena poetica autentica, e un linguaggio semplice e vero. Sia in lui che in Odo delle Colonne la lirica non è esercizio intellettualistico e immaginoso, ma appassionata e drammatica come in altri rimatori più apertamente popolari o popolateggianti. Capolavoro di poesia comica, prima apparizione di un « don Giovanni in Sicilia » che non ha « abento » per le sue « fòcora » d’amore è il Contrasto, tutto gestito e mimato, di Cielo d’Alcamo, che ci riporta nella società borghese, così come da altri versi popolari (per esempio La Ciciliana e Le Donne di Messina) guizzano potenti immagini di vita reale. Le « albe » d’amore, i contrasti, i lamenti delle mal maritate o delle donzelle « goliose » dell’uomo, benché riecheggianti la briosa malizia dei versi francesi, hanno otmai colore e sapore locale, esprimono la spregiudicatezza propria d’una classe nuova, al suo avvento in mezzo alla società feudale e clericale. In Toscana, a Bologna, a Padova, a Pavia fioriscono i versi più vivaci d’una letteratura giullaresca e popolare. Così, nella Siena ghibellina Ruggeri Apuliese scrive la sua mordace e parodistica Passione, difendendosi dall’accusa di aver mangiato con gli eretici e di aver parlato male del vescovo e del chiericato. Esilaranti, fra le monotone formule dei notai bolognesi ci rimangono trascritte grasse storielle di comari buontempone. Un piccolo mimo è il Detto della « bona cilosia », dove son rievocate le vicende d’una sposa in attesa del marito crociato e il suo ritorno dalla Pagania. In gran parte di questi versi giullareschi la buffoneria è ambigua e ammiccante: così nel Detto di Matazone sulla schiatta dei contadini e sul come

vadano

trattati, la satira del villano fatta da uno

che « d’un

vilano fo nato, ma no per lo so grato », mentre vuol provocare il riso dei signori e cavalieri e di tutta la « bona zente » che lo ascolta, riesce una feroce rappresentazione realistica dell’oppressione feudale, certamente intesa a volo nella turbolenta atmosfera sociale della « pataria » lombarda. Sulle piazze d’Italia, spesso in atteggiamento polemico con la Chiesa, comparivano ormai altri « uomini nuovi » della cultura dugentesca. Erano i « giullari di Dio» che esprimevano fermenti ereticali, quasi sempre legati a moti e a rivolte delle plebi. Questa religiosità che prorompeva dal basso non tardò a riflettersi in forme letterarie (via via sempre più elaborate) che altrimenti non sarebbero state concepibili in volgare. Non avrebbe abbandonato la sua lingua l'anonimo ebreo che nell’Italia centrale compose la biblica elegia sulla « ienti de Sion » che « plange e lutta »; né Francesco d’Assisi avrebbe ritmato il suo Cantico delle creature senza la necessità di far rispondere la liturgia a una situazione nuova; né mastro Patecchio avrebbe « splanato » l’Ecclesiaste e i Proverbi, se non avesse sentito di dover soddisfare alle richieste dei « comunal omini » che a diffeSDA

renza de « li savi » ignoravano il latino. Non è un caso dunque se in Lombardia e in Umbria fiorisce una letteratura didattica e religiosa che accantona, oltre alla lingua ufficiale della Chiesa, anche quella dei modelli letterari d'Oltralpe. Col tramonto degli Svevi, dov’è più profondo l’anelito d’una riforma religiosa e di un ordine sociale, lì si manifestano le personalità artistiche più robuste, non domate dal processo di « controriforma » che interveniva a reprimere i movimenti, a moderare i rapporti tra Stato

e Chiesa in ogni comune, a organizzare una riscossa guelfa con la imposizione degli Angioini a Napoli e con la lenta formazione di un più definito potere temporale della Chiesa. L’ondata di misticismo (che dopo la morte di Francesco si diffuse dall'Umbria in molte regioni italiane e che vide gareggiare Alleluianti e Flagellanti, i seguaci di Domenico, feroce repressore degli Albigesi in Provenza, e i seguaci del poverello di Assisi) fece moltiplicare la produzione

delle laude che evolsero dalle primitive forme di litanie e giaculatorie a quelle ricalcate sulle canzoni a ballo o sui contrasti profani. Soprattutto le laude drammatiche furono quelle meglio elaborate formalmente, sia pur nell’ambito di un’estrema sommarietà di struttura, quale si conveniva all’uso cui erano destinate. In questa atmosfera si colloca una conversione particolarmente importante per l’arte religiosa del Duecento: quella di Iacopone da Todi, che lascia l'avvocatura per indossare il saio di terziario francescano, ma che per il suo temperamento combattivo, finirà per schierarsi nella corrente estrema degli Spirituali, i più vicini a cadere nell’eresia, i più ribelli alla autorità ecclesiastica e agli estremi, reazionari tentativi di teocrazia. Nessuno più di Iacopone, nella vita come nell’arte, fu lontano dal poter ritrovare la disciplinata umiltà dell’ortodossia e la rassegnata semplicità del

messaggio evangelico. Aspra e disperata la sua ricerca di Dio, implacabile l’odio del male e di ogni imperfezione negli individui e negli ordinamenti. Il suo pessimismo feroce lo costringe a una solitudine irreconciliabile col mondo, il terrore della vita umana considerata come un inferno in anticipo lo porta a « gire empazato » di mai raggiunto amore divino. La sconfitta dell’uomo nella « continua battaglia » dell’ascesi e la sua assurda alienazione in Dio non ebbero mai una più clamante e bruciata espressione. Quest’« anema secca » che non può « lacremare », per la sua impossibilità di uscire dalle tenebre del male e del peccato e di rivedere la luce serena del mondo e di cantare l’ « osanna puerile » alla vita, fuori dall’angoscia e dai terrori, sempre incline a « svariare » nella vertiginosa tensione d’un linguaggio difficoltoso ed eletto, vive un dramma continuo che non riesce a rappresentare, e non potendone trovare gli elementi in se stessa, nel deserto ardente della sua astrazione, finirà per trovarlo solo nel tema più 218

tradizionale e più popolare, la Passione di Cristo, la cui poesia (come è stato ben detto) «è tutta in quel misterioso e veramente drammatico incontro della passione umana e dell’immobile sapienza di Dio » (la quale appare qui, è necessario aggiungere, profondamente remota da ogni mito di redenzione, implacabile e crudele « coltello » che ingiustificatamente colpisce un giusto e una madre). Alla grandezza di Iacopone, altissimo tra i monumenti romanici, non si leva nessun altro poeta religioso del Duecento.

Pure, nella sua opera,

nonostante la violenta protesta contro il « Lucifero novello » Bonifacio VIII e la ripresa disperata della missione di Francesco, di « reparare » la « ecclesia sviata », il dramma resta individuale: dell'individuo limitato al problema religioso, circondato e atterrito dall’accecante « veduta di Dio ». Né in queste laude, né in quelle di tutt’altro tono, divulgate in Umbria, si coglie

l’eco diretta della vita o di una polemica sociale. Sarà la letteratura lombarda con i suoi « pluxor ditaori chi han dito de beli sermoni » (come testimonia il più oscuro di questi « molti dittatori », Pietro da Barsegapè) ad assurgere ad una ben diversa impottanza, proprio in quanto nacque da un movimento di cultura riformatrice, strettamente legato con la società civile del tempo. Se si eccettua Giacomino da Verona, che appartenne all’ordine dei frati minori e che verseggiò un’assai ingenua predica sull’inferno e sul paradiso, Gherardo Patecchio, Uguccione da Lodi e soprattutto Bonvesin dalla Riva sono dei laici che non perdono mai d’occhio (occhio di moralisti, non di puri asceti) il mondo in cui vivono. Nell’importato e poi abusatissimo genere letterario delle « noie » (le cose che vengono « in odio » all'uomo), il Patecchio voleva cogliere dei personaggi reali, anche se si limitava a darcene un nudo elenco: il podestà incapace, il prete elegantone, il villano che posa a cavaliere, il monaco che delinque, la puttana che fa la virtuosa. Innanzi tutto contro l’avarizia e l’usura Uguccione appuntava la sua satira, e quando rappresentava la morte del ricco, non si faceva distrarre dal destino dell'anima nell’aldilà, e trovava modo di dipingere con macabro sarcasmo un funerale dov’è iperbolizzata realisticamente la frenesia dei superstiti, di null’altro desiderosi se non di seppellire un corpo che va in fetore. Molto si è discusso sull’appartenenza di questi scrittori lombardi alle sette ereticali pullulanti nel mondo dei « patarini », che non erano dei poveri matti e dei barboni inoffensivi, ma diedero filo da torcere alle autorità politiche e religiose, fino a che esse non seppero contenere questo violento irrompere delle classi popolati attraverso un’abile soluzione democratico-corporativa del problema sociale. È probabile (come è stato sostenuto da chi ha studiato questo importante aspetto della nostra storia letteraria) che la produzione più popolare e più rivoluzionaria sia andata di219

spersa e se ne sia estinta la trasmissione orale, in seguito all’intervento dell’Inquisizione. Certo è che la letteratura lombarda del Duecento e colui che ne fu la più compiuta espressione, Bonvesin dalla Riva, sono indissolubilmente congiunti alla società del tempo. Bisogna rifarsi alla vita spirituale dei Comuni, a quell’« ardore evangelico che arma la mano contro i profanatori della Chiesa, che dà l’ebrezza e l’orgoglio del lavoro nelle fatiche dell’industria, e ispira i dettami della più rigida rettitudine per le arche del danaro pubblico ». Bonvesin scrive quando l’ondata popolare antifeudale e antiecclesiastica si è già infranta contro la resistenza delle classi dominanti, consolidate dalla borghesia mercantile e fondiaria: il rigorismo dell’eresia permaneva come fermento morale, ma chi aveva avuto un atteggiamento più rivoluzionario era ormai sottoposto al controllo della Chiesa e divenuto elemento di stabilità sociale. Tale fu l’ordine laico degli Umiliati, che avevano nelle loro mani le manifatture dei panni. Ad esso appartenne Bonvesin, agiato ed eminente intellettuale del comune di Milano, « doctor in gramatica » ma che, pur avendo celebrato in latino la sua città, compose circa ottomila versi in volgare, traducendo anche nella lingua del popolo quella Disputatio mensium che, meglio degli altri « contrasti », espresse le sue originali qualità artistiche. Il Libro delle tre Scritture e gli altri versi edificanti furono il suo maggiore impegno di vita devota, con quell’interno lievito ereticale che affiorava nella tendenza ad ignorare il Purgatorio come istituzione, a contrapporre gli eletti e i reprobi, a « dividere l’impero del mondo tra Dio e Satana » (come ha acutamente notato Luigi Russo). I severi ideali di Bonvesin si esprimono nei « contrasti» dove vien fuori l’esaltazione dell’attività umana come la sola possibilità per l’anima di difendersi dal « reo compagno », il corpo, che Dio le ha dato per metterla alla prova nella vita terrena. L’esaltazione del lavoro e il disprezzo della ricchezza che avevano sorretto le rivolte delle plebi, attraverso il processo di conciliazione delle classi si trasformavano nella morale puritana della borghesia. La Disputatio mensium, rappresentando l’inane rivolta dei mesi contro il despota Gennaio, esprime in forma di apologo questa situazione reale, dove alla comprensione per chi lavora, alla pietà per i « poveri abrazanti », alla simpatia per il loro insorgere si unisce l’ammonimento conclusivo a non tentare le rivoluzioni destinate a fallire e il riconoscimento, sia pure amaro e grottesco, della legittima, insopprimibile funzione dei possidenti. Ma se l’attività letteraria di Bonvesin si deve collocare in questo quadro politico-sociale, essa va anche considerata nell’ambito vasto di quella assimilazione della cultura romanza che nell’alta Italia si estese dal genere didattico e dalle leggende religiose anche alla letteratura narrativa di contenuto epico. La letteratura franco-veneta espresse col suo stesso ibridismo 220

linguistico questa fase di passaggio per cui una materia cavalleresca e feudale, importata con le chansons de geste, viene trattata in conformità di « esigenze essenzialmente borghesi », in quanto l’attenzione era rivolta alla vita privata dei protagonisti e la narrazione era dominata da spiriti non già eroici, ma novellistici, d’intreccio e di avventure: il paladino Orlando diventava un personaggio popolare affatto italiano e romanzesco. In effetti, un’ispirazione epica non poteva venire in Italia se non dalla storia delle città, dalle lotte politiche e dalla vita ardimentosa dei mercanti. Tutto ciò si espresse nelle prose del Milione e di Dino Compagni che sono più poetiche dei versi dell’Anonimo genovese o del Serventese delle guerre tra Lambertazzi e Geremei, rimasti cronaca, nonostante l’animazione drammatica a cui si sollevano gl’ignoti cantori della vittoria di Laiazzo o delle sventurate lotte delle fazioni di Bologna. Pure, di fronte a questa « bella istoria de recordanca » e a quella orgogliosa celebrazione dei fasti genovesi, il lettore sa ritrovare la misura d’affetto che richiedono i monumenti cittadini a cui la rozzezza vetusta non diminuisce fascino e suggestione. Espressioni letterariamente più raffinate della nostra civiltà borghese dobbiamo ricercarle in Toscana e soprattutto a Firenze, e tra i « padri »

dobbiamo collocare, come a Milano Bonvesin, uno scrittore ancor più apertamente didascalico, ser Brunetto Latini. Tutto immetso nella più moderna cultura europea del suo tempo, Brunetto esprime però una concezione della vita affatto laica, remoti i problemi religiosi che avevano angosciato i mistici e appassionato gli eretici: non è solo il dotto che ha composto Li livres dou Trésor, una medievale enciclopedia delle scienze, è il Socrate e il Cicerone della sua città, il maggiore intellettuale della democrazia guelfa che elabora organicamente la sua cultura. I settenari del Tesoretto, grazie a quel tanto d’immaginazione che è necessario per farne un racconto, con logica ed elegante precisione di dettato formulano le norme etiche della borghesia sublimate a valori universali: ciascun uomo che viene al mondo nasce alla sua famiglia e al suo comune, guidato dalle quattro virtù cardinali degli antichi, a cui si aggiungono le virtù nuove della cortesia, della liberalità e della lealtà. La fede cattolica coesiste coi

suoi riti, ma ad ammaestrare l’uomo sono la Natura e gli esperti del mondo e del cuore umano, Tolomeo e Ovidio. Questa prosa rimata di Brunetto da una parte si collega alla letteratura didattica, dall’altra a quella allegorica e narrativa. Entrambe ci venivano dalla Francia, e in particolare

dal Roman de la Rose, che poemi di ignoti fiorentini, gusto. come si complicò, motivi filosofici e letterari

influenzò l’Intelligenza e offrì materia al Fiore, documento di come divenne mondano questo e si raffinò. Eclettica mescolanza di svariati della fine del secolo XIII, intellettualistico nella 221

struttura e ricercatissimo nello stile, il primo di questi due poemi è affidato all’onda musicale della nona rima e alla preziosità del linguaggio, e la sua spiritualità raffinata, venata di sottile erotismo, ci riporta al clima dello « sti! nuovo ». La materia del Fiore, invece, libertina e spregiudicata fino al cinismo, senza i trasognamenti della letteratura cortese, è tradotta sul piano di una estrema concretezza psicologica e condensata nella forma tutta italiana del sonetto. Quella cruda precisione della strategia e della tattica erotica già prelude al Boccaccio. Nonostante i francesismi del lessico siamo vicini alla letteratura di stile comico e realistico, nella quale la borghesia comunale si espresse senza nulla concedere alle convenzioni di una società non autonoma, nella pratica, dall’ipocrisia e dai pregiudizi religiosi. La polemica del Fiore contro il clero che va « la povertà altrui abbellendo » mentre dovunque tende le reti per pescare ricchezza, il disprezzo per i miserabili ignudi sui monti di letame, che perdono ogni dignità di uomini e non possono nella loro cristiana povertà « pregiar né Die né Santi », sono tra gli aspetti riconosciuti come i più originali del libro, riuscito qualcosa di più che una libera traduzione. Certo, anche i motivi anticlericali avevano una lunga ascendenza letteraria e come quelli che esaltavano « la donna, la taverna e il dado » erano assai diffusi nel Medioevo, e già nel latino dei goliardi avevano avuto la loro prima espressione. Ma non c’è dubbio che la preferenza di un genere, la scelta di una tradizione stilistica comporta un diverso atteggiamento di fronte alla realtà. Nella Toscana della seconda metà del Duecento, mancato con la fine degli Svevi un centro di cultura laica, si delineano due tendenze che, se non si debbono configurare come veri e propri movimenti letterari nel senso moderno della parola, nemmeno si possono distinguere secondo pure categorie retoriche, e vanno considerati nella loro storica contrapposizione, anche se uno stesso scrittore abbia potuto occasionalmente esprimersi in uno stile inconsueto alla sua poetica predominante e al suo mondo morale e ideale. Leggendo questi rimatori di stile comico e realistico, bisogna aver presente l’avvertenza fondamentale che ha fatto Luigi Russo, richiamandoci alla poetica dantesca e all’accezione codificata nel De vulgari eloquentia, dove lo stile « comico » è contrapposto allo stile « tragico ». Si tratta di due diversi aspetti della realtà, col loro limite interno e con la loro idealizzazione specifica. Contemporanei di Guittone e degli stilnovisti, i poeti di stile comico rifiutano innanzi tutto quel processo di moralizzazione dell'amore che la controriforma religiosa opposta dalla Chiesa ai moti ereticali in Provenza e in Italia aveva stimolato e diretto. Quando questi rimatori compongono versi d’amore, non solo ignorano ogni forma di adorante misticismo, ma ne fanno oggetto di parodia e dileggio. A conclusione di ‘un suo sonetto in lode d’una donna, Rustico 222

di Filippo dice, con un sorriso, che non si tratta d’ineffabilità quanto forse di gelosia che gli toglie il coraggio a « nomar le sue adornezze ». Senza ricordare i notissimi atteggiamenti beffardi del più famoso di questi poeti, Cecco Angiolieri, va notato in proposito il sonetto di Immanuel Romano, « Amor non lesse mai l’avemaria », giustamente definito il capovolgimento della cristianizzazione di tanta poesia stilnovistica. Perfino nei « piaceri » gaudenti ed agiati di Folgòre da San Gimignano, s’insinua come « noia » da allontanare tutto ciò che possa turbare la « meglior vita di cristiani » ch’egli predilige: lungi i monasteri, le chiese e i preti pazzi « ch’hanno troppe bugie e poco vero ». Che si tratti d’una «letteratura d’opposizione » non c’è dubbio, e anche questo le meriterebbe il moderno titolo di « realistica ». Chiamarla « giocosa » significa rischiare di farne sottolineare solo gli aspetti più superficiali che assunse la parodia (per esempio: in Cenne dalla Chitarra) o

farla addirittura confondere con le propaggini burlesche in cui questo « genere », soprattutto dopo il Rinascimento, degenerò in ozio di parole.

Fu una letteratura di opposizione, anche se non vogliamo affatto modernizzare e scapigliare la biografia ben medievale di questi artisti dispettosi, bizzarri e irrequieti; anche senza volere attribuire particolare importanza al fatto che l’iniziatore fu un mercante ghibellino, Rustico di Filippo, e nati o vissuti in ambienti di cultura e tradizione ghibellina furono il senese Cecco Angiolieri e l’ebreo romano Immanuel. La comicità di questa letteratura va dai toni satirici e amari di ostentato cinismo e di sincero cruccio a quelli idilliaci ed epicurei che ammettevano, anzi richiedevano le forme più ardite, aderenti al dialetto e al parlato, « qualia sunt inter colloquentes » (come diceva il primo definitore di questa poetica, Goffredo da Vinosalvo). Ma il rifiuto di una retorica non significava inerzia dell’immaginazione, abbandono alla spontaneità del dettato, per cui questo realismo psicologico negli artisti più consapevoli si esprimeva in realismo linguistico solo attraverso una elaborazione talora perfino compiaciuta (come nelle « tenzoni » di vituperio, che nemmeno Dante disdegnò). Che Guittone e alcuni seguaci e gli stessi stilnovisti abbiano adottato questo « realismo » linguistico e talvolta i temi stessi della poesia comica, importa poco allorché vogliamo far risaltare le personalità attraverso quanto predominò e caratterizzò lo sviluppo della loro produzione. I rimatori che si collocano nella piena metà del secolo tra i « siciliani » e gli stilnovisti se, come i primi, si rifanno all’esperienza della lirica provenzale, a differenza di loro prediligevano (soprattutto Guittone) la complicata, ermetizzante retorica del trobar clus, e dalle passioni d’amore o da quelle civili tendevano a concentrarsi in una meditazione etico-religiosa che costituì il fulcro della loto ispirazione, onde il loro, quale che fosse, conflitto interiore: qui il « segreto » di questa 223

litica, e i motivi della sua « tragicità ». La critica più recente (Contini,

De Robertis) ha riconquistato anche all’artista Guittone un posto eminente che la polemica dantesca gli aveva conteso, e che non si può solo ridurre a una già riconosciuta, robusta personalità di moralista. Ma forse si dovrà più esattamente parlare di reazione e non di « rivoluzione » artistica, se si vuole badare al significato culturale e all’indirizzo ideologico di tutta questa cosiddetta « scuola di transizione » (nella quale una più attenta lettura ed equa valutazione merita Chiaro Davanzati).

Quando uno dei più scialbi seguaci di Guittone, il lucchese Bonagiunta Orbicciani, ironizzava la « novità » di Guinicelli, la sua scolastica scienza,

e il suo trarre canzoni « per forza di scrittura », non si accorgeva che in quel mondo dottrinale, in quello stile arcaicizzante dell’a torto creduto insuperabile maestro, non solo il poeta bolognese ma tutti i suoi amici e seguaci avevano portato con giovanile fervore intellettuale qualcosa di veramente nuovo, la « persuasione di possedere meglio e più intimamente la realtà della vita amorosa e in genere psicologica, e di saperne dare una rappresentazione più adeguata » (come ha detto benissimo Natalino Sapegno). Vi era in tutto ciò « una forza vera »: « il culto del sentimento che nella sua purezza spirituale eleva l’uomo al di sopra della mentalità volgare, non è solo ostentato come un privilegio ma vissuto dagli stilnovisti con sincerità: e nella rappresentazione della vita psicologica la loro arte è veramente, se pur più povera di colore e di concretezza, più intima e anche più sottile ». Guinicelli fu il « padre » di questo « dolce e leggiadro rimare » che iniziava un gusto aristocratico, non senza fremiti di sensi, ma rasserenati, spiritualizzati, illimpiditi; Guido Cavalcanti fu il poeta autentico e ben più complesso. Anche se non vogliamo tener conto di quanto scrissero i suoi contemporanei suggestionati dalla sua fotte e originale personalità, attraverso la sua opera egli ci parla tutto assorto nel dramma delle sue passioni e dei suoi pensieri, sdegnoso d’ogni consolazione mistica, e teso a far luce nei suoi sogni angosciosi e a cercare con

rigore di stile la verità oggettiva dei « martìri » amorosi che fanno guerra al suo cuore. Con gli stilnovisti (tralasciando di loro i minori e l’epigono Cino da Pistoia) siamo alla fine del secolo, che ormai ci appare in tutta la sua grandezza e c’invita a considerare quante radici abbia in esso uno scrittore come Dante, il quale non solo espresse la coscienza critica dello « stil nuovo », lo stile della sua giovinezza, ma di tutti i motivi culturali più profondi, di tutti gli stili e di tutti i generi, da quelli dotti a quelli popolari, s’impossessò genialmente, ritrovando materiale e tecniche per la costruzione della Cormzzzedia, sintesi del mondo medievale nella sua realtà

italiana e nei suoi ideali universali.

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Attraverso un processo sincrono ogni scrittore del Duecento aveva adoperato il suo dialetto, facendone un « volgare illustre » mediante la elaborazione artistica. Ma in Toscana, di là dallo « stil nuovo » e dagli altri numerosi scrittori della fine del secolo, per opera di Dante e poi di Petrarca e Boccaccio (e grazie alla posizione di preminenza economicopolitica del capitalismo fiorentino), pur non essendovi nazione politicamente unitaria, la lingua letteraria assurgeva a dignità e importanza nazionale. Come Dante, anche il Petrarca e il Boccaccio si collocano al vertice

del lungo processo culturale del secolo XIII, la cui importanza ben seppe valutare il De Sanctis (nonostante i limiti storici della sua informazione

filologica) quando lo disse « cominciatore di civiltà » e degno di « gloria », per « aver preparato il secolo appresso », lasciando « una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una “ poetica ”, una retorica, una

filosofia ed un concetto della vita ancora didattico ed allegorico, e rozzi tentativi di formazione e di individuazione ».

Dopo questo slancio creatore della civiltà dugentesca, il movimento culturale del Trecento non può non apparire attività di epigoni (e « schiacciante » è il paragone coi tre protagonisti del secolo): epigoni in certo modo avviliti, nel quadro di una sgomenta consapevolezza della crisi profonda che attraversava tutta la penisola. Crollavano le due istituzioni medievali dell'Impero, svuotato di effettiva autorità, e della Chiesa, infeu-

data alla Francia e lacerata dallo scisma, mentre nel travagliato processo di decadenza economica e politica le Signorie si sostituivano all’instabile democrazia dei Comuni, e i Regni di Napoli e Sicilia erano anch’essi in preda a continue lotte. In questa mancanza di un assetto politico, che comportava precarietà e difficoltà di formazione dei centri culturali, l’influenza unificatrice della produzione toscana è visibile attraverso l’imitazione dei suoi scrittori minori e maggiori, pur nella varietà estrema degli esercizi artistici che si compiono generalmente con una certa pigrizia e incertezza

formale, senza rigore di stile e senza profondità d’ispirazione. Rimatori di scuola e di corte sono stati giustamente chiamati gli scrittori lirici, per sottolineare

da un lato la maniera

che essi accettano

dai loro modelli,

dall’altro la vita di cortigiani che influisce sulla loro tematica e sulla loro attività di pubblicisti in versi. I toscani tendono ad esaurirsi o ad attardarsi in schemi atcaicizzanti. Se si eccettui Sennuccio del Bene (che dalle

giovanili maniere stilnovistiche si volse a una poesia di confessati affetti), in Cino Rinuccini già si possono avvertire letterarie raffinatezze, iniziatrici del gusto quattrocentesco, e già il conte di Battifolle si annuncia tra i primi petrarchisti contemporanei al cantore di Laura. Il più personale di tutti questi rimatoti di scuola è Matteo Correggiaio, forse padovano. 225

E nel Nord, dove s’irradia la cultura toscana, al mercante. veneziano Giovanni Quirini fa capo tutto un gruppo di rimatori di corte: Antonio da Ferrara e il padovano Francesco di Vannozzo, anche se incoerenti e ibridi per stile e per lingua, sono più liberi, più vivaci nella loro fortuita

e talora popolaresca inventiva. Toscani tuttavia sono due scrittori diversamente originali come Giannozzo Sacchetti (fratello di Franco), che con-

cluse in un prezioso misticismo le sue scarse e disperate rime, e un autentico poeta che, per validissimo giudizio del suo scopritore, il Croce, « par quasi a volte che stia per uscire dalla schiera dei minori, e per vigore di temperamento, e per robustezza d’ingegno muovere verso i maggiori »: Fazio degli Uberti, « l’esule dell’antica e gloriosa famiglia ghibellina, povero e randagio per le corti d’Italia, con un gran passato che gli riempiva la mente e gli gravava sull’animo, e non gli dava luce di speranza ». Audace nel porsi sulle orme di Dante, lo stile delle « petrose » in particolare lo influenza nel suo canzoniere, e lo soccorre congenialmente a esprimere una nobile ed ardua passione. Ma non solo nella sua poesia tragica, bensì nello stesso Diftazzondo, che resta un’opera veramente dottrinale, dobbiamo cercare l’orma di una serietà morale e intellettuale che

lo distingue da tutti gli altri scrittori didascalici del tempo, un fervido gusto dell’erudizione, quella ricerca di «ogni bel fior del mondo » da legare nel poema in cui bramava sopravvivere alla sua età. In questa produzione allegorico-didattica un posto notevole, ma più per quanto riguarda la storia del costume, spetta a Francesco da Barberino, garbato moralista e narratore di umore popolareggiante, ma spirito angusto, come gli altri scrittori i quali indugiavano in quelle forme che, pur

non disdegnate dal Petrarca e dal Boccaccio, pur essendo manifestazioni di cultura laica, erano solo prodotto di scuola: interessanti per la storia della scienza, come l’Acerba di Cecco d’Ascoli, o pedantesca e tarda eco provinciale, come il Quadriregio, dell'altro verseggiatore marchigiano Federico Frezzi. Analoga impressione di mediocrità (se si eccettuino le morbide laude di Giannozzo Sacchetti) suscita la letteratura di devozione, inferiore nettamente a quella del secolo XIII o alla prosa del Cavalca e di Caterina da Siena. Se vogliamo leggere qualcosa d’interessante, di più aderente alla vita reale, dobbiamo cercare fra i temi che ricorrono con maggiore insistenza sia negli scrittori d’arte che in quelli più spontanei e meno colti. Sono i temi che documentano un sentimento generale di dispersione e di decadenza. Il maggiore studioso di questo periodo, il Sapegno, li ha identificati nel problema della fortuna, cioè del comportamento dell’uomo di fronte alle forze soverchianti della realtà storica; nel problema della povertà, come effetto di squilibri e ingiustizie sociali; nella protesta contro la 226

tirannide, minaccia e insieme speranza di soluzione della vita democratica in declino; nell’anelito ‘alla pace, che trovò la più ‘elevata espressione oratoria in Petrarca e che era l’aspirazione più profonda d’una diffusa stanchezza. Tra questi scrittori gnomici, autobiogtafici e politici, spiccano le rime dei toscani Pietro dei Faitinelli, Gualpertino da Coderta, Pieraccio Tedaldi, Bindo Bonichi, e del trevigiano Nicolò del Rosso: con una gravità di crucci partigiani, o con rassegnata bonomia essi continuano la tradizione realistica che già degenerava in vizioso ed equivoco gioco tra un gruppo di rimatori perugini (Moscoli, Nuccoli e Ceccoli). Ma i rimatori di gusto e di contenuto popolare, a cominciare dal più fecondo di loro, il fiorentino Antonio Pucci (argutissimo giornalista in versi e vero temperamento di romanziere), sono coloro che rappresentano

« la maggior somma d’invenzioni e di modi veramente nuovi, ... la più fertile di schiette, seppur tenui, emozioni poetiche, e anche la più attiva in quanto è quella che maggiormente opera a svincolare la letteratura ufficiale dagli schemi del passato, ad aprirle nuove vie, ad offrirle temi inusitati e fecondi ». Questa spassosa rimeria d’intrattenimento e di consumo (« Deh fammi una canzon, fammi un sonetto »: comincia così una poesia del Pucci) è particolarmente felice quanto più lievi e futili sono i suoi pretesti: ne nascono capricciose arie di musica e di danza, storielle procaci, deliziose favole esopiche, ballatine, madrigali, strambotti, cacce (e talvolta sono più belle di quelle che formano l’incanto del migliore Sacchetti). Ma non manca la produzione meditativa che dalla cronaca, dai fatti che maggiormente hanno colpito la fantasia popolare si solleva alla pittura e al racconto drammatico. Tali sono i lamenti storici, fra cui quello stupendo per la rotta di Montecatini e la cosiddetta Quedam profetia, alto compianto per le sorti della Sicilia « mischinella ». A questo ritratto della disgregazione sociale del desolato Mezzogiorno, si contrappone, nella stessa epoca e nello stesso metro arcaico, la grande Cronaca Aquilana di Buccio di Ranallo, che offre una vera e propria rappresentazione della nascita di un comune, l’ultimo a sorgere, il primo e il solo che sia stato immortalato in un’opera dove risplende l’ingenua bellezza di un’epopea montanara.

Il trapasso dall’età comunale a quella delle Signorie portava nel resto della penisola a questo duplice fenomeno: l’assorbimento e la diffusione dell’elaborazione originale di una cultura popolare, e al tempo stesso il distacco della letteratura dotta che si manifestava attraverso i precursori e iniziatori del movimento umanistico, i quali in altre forme continuavano l’universalismo medievale e tendevano a diventare casta cosmopolita, staccata dalla nazione. Francesco Petrarca (la cui opera, come si è già fatto per Dante, sarà raccolta in volume a parte) fu lo scrittore « tipico di 944 |

questo passaggio », esattamente individuato da Antonio Gramsci: « poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma già un intellettuale della reazione antiborghese (Signorie, papato) come scrittore in latino, come “ oratore ”’, come personaggio politico ». Nonostante le sue canzoni civili e la sua polemica antiavignonese, egli restò il più profondamente assorto, raffinato e solitario poeta del tempo, che rivisse in Provenza, terra madre della lirica moderna, e sublimò a perfetta classicità un secolare lavoro di introspezione psicologica, destinato a diventare patrimonio europeo, oltre che italiano, quando le Rizze furono riconosciute e consacrate come modello di poesia d’amore: la cristiana, malinconica, poesia dell’amore-peccato, dove l’arte stessa è trepidamente goduta come frutto proibito.

A questo movimento di restaurazione, « che assimilò e svolse, meglio

della classe rivoluzionaria che aveva soffocato politicamente, i principî ideologici della classe vinta, che non aveva saputo uscire dai limiti corporativi e crearsi tutte le superstrutture di una società integrale », partecipò, per la sua attività più strettamente umanistica, Giovanni Boccaccio. Ma la sua versatile curiosità nulla rifiutò del patrimonio e dei valori culturali

accumulati dalla civiltà borghese: e come si sforzò di avvicinarsi al genio dantesco, tutto compreso di riconoscenza perché grazie ad esso la « morta poesì ». meritamente si poteva, dire « suscitata », come ammirò con devozione ed amicizia il suo Petrarca, così non disdegnò le forme più nuove della poesia trecentesca, i cantari leggendari e romanzeschi ch’egli fece oggetto di amorevole imitazione e base della sua esperienza narrativa. Con tutta la sua opera e col suo capolavoro egli è scrittore che per i suoi interessi alla multiforme vita italiana, per la capacità di rappresentarne la realtà sociale, può dirsi nazionale e popolare come pochi altri della nostra storia letteraria. È lui che ci ha tramandato nel Decameron il ricordo di tanti versi cari al popolo, dolenti storie drammatiche, piccanti e maliziose canzoni. Accanto a lui tutta una gentile fiorita d’arte si dispone con grazia e naturalezza: un Antonio Pucci e un Franco Sacchetti parranno scrittori di minor conto, ma non certo distanti ed estranei, nonostante la gelosa angustia conservatrice del loro orizzonte intellettuale. Non cerchiamo nei poemi del Boccaccio una epicità eroica: resteremmo solo delusi dalle reminiscenze libresche. Ma dov’egli narra casi d’amore, dove dipinge affetti e passioni, lì troviamo la libera obiettività di una moderna analisi naturalistica. Che c’importa dei suoi tanti versi scadenti nella prosa? Intonata

al canto dei «rispetti » popolari nei rari momenti

lirici, corrivamente

abbandonata nello sviluppo dei fatti secondo il gusto dei canterini di piazza, nasceva. l’ottava del romanzo italiano, ricercato, applaudito e divulgato ormai anche da un pubblico più colto. Proprio come poeta. in versi (e soprattutto con quel delizioso capolavoro che è il Ninfale fiesolano) il

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Boccaccio è essenziale per completare il quadro di un’intera civiltà, e veramente le trecentesche « case di Parnaso » (come le chiamava il buon Sac-

chetti, piangendo affettuosamente la sua morte) apparirebbero vuote, se non fosse presente la sua tranquilla grandezza. Morto prima che a Firenze si consumasse, con la fallita rivolta dei Ciompi, un dramma sociale che riassume i limiti storici, la incapacità politica della borghesia « grassa », le debolezze dell’intiera democrazia comunale, con lui si spegneva quel che sembrò uno dei più duraturi e luminosi valori del secolo, la poesia. E infatti essa tacque a lungo. Ma ispirata al Boccaccio, alle sue ottave sorridenti di umanità, sarebbe risorta nel Rinascimento con il Pulci e il Boiardo, con il Poliziano e l’Ariosto: l’edizione ferrarese del Teseida (1475: l’anno delle Stanze) apparirà tra gl’incunabuli dell’arte nuova . 1956

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PER LA POESIA DEL QUATTROCENTO E DEL CINQUECENTO

Come si è fatto nel volume primo della presente Crestomazia (Poesia del Duecento e del Trecento), anche qui si vuol dare al lettore un chiarimento introduttivo circa i criteri coi quali si è creduto di ordinare la materia. Ogni antologia che non si affidi a mera tendenziosità di gusto, presuppone un impianto storico e critico. Ne accenno le linee, sia pure con schematica brevità, per orientare velocemente la lettura e sollecitarla con stimoli sobri e discreti. La pura successione cronologica è un espediente semplicistico da vecchi manuali: essa poteva essere rispettata nell’ambito delle varie sezioni, che sono state disegnate non tanto per fini pratici e didascalici, ma perché corrispondono alla realtà storica. Il trapasso dalle Signorie ai Principati durante il Quattrocento ebbe un riflesso nella formazione di una cultura organizzata nei maggiori centri regionali con caratteristiche letterarie e linguistiche ben differenziate, se pur aspiranti verso una letteratura nazionale, attraverso impulsi divenuti tanto più rigorosi nel secolo seguente, quanto più negl’intelletuali si ravvivò l'ideale e il sentimento unitario, per reazione alle invasioni straniere e alle guerre tra Francesi e Spagnoli, che si contendevano il dominio della penisola. L’invenzione della stampa e l’educazione umanistica sempre più diffusa e omogenea contribuirono ad accentuare questo movimento unificatore che al primato storico fiorentino andò opponendo la realtà di una produzione in cui le poetiche dei generi tendevano risolutamente a creare una letteratura nazionale (sia pure d’una nazione limitata a una élite), e a cercare

un linguaggio che superasse la crisi dell’ibridismo quattrocentesco. Per questo, se l'ordinamento di un’antologia degli scrittori del Cinquecento non può fondarsi sulle distinzioni regionali, la loro presenza, in uno stesso Zali

volume, accanto agli scrittori del Quattrocento vuole sottolineare la continuità e insieme l’evoluzione di uno stesso periodo storico. Il moto culturale e letterario che va dall’età in cui dominò Ia personalità poetica del Poliziano al tramonto del Rinascimento abbraccia due secoli, di cui l’uno « s’intreccia talmente nell’altro, che non si può dire dove finisca l’uno, dove l’altro cominci. Sono una continuazione, un correre ininterrotto intorno allo stesso ideale ». Così il De Sanctis. Che tuttavia non mancava di avvertire come il Quattrocento si distinguesse in quanto « secolo di gestazione ed elaborazione », « passaggio dall’età eroica all’età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile, dalla fede e dall’autorità al libero esame, dall’ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell’uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica ». Questo periodo unitario trascorse in realtà in uno spazio di tempo di circa cent'anni, sia che vogliamo riferirci ai capolavori poetici, dalle Stanze (1475-78) alla Gerusalemme liberata (1575), sia che non vogliamo trascurare quei grandi eventi della vita politica e religiosa che ebbero peso decisivo nella storia della nostra cultura, dalla pace di Lodi (1454) alla pace di Cateau Cambresis (1559), dall’inizio dello scisma d’Occidente (1378) alla conclusione del Concilio di Trento (1563). Quando diciamo Umane-

simo e Rinascimento, è impossibile dimenticare che allora si consolidarono i principati in Italia, non escluso lo Stato della Chiesa, che dopo la sua lunga crisi, riconquistava la sua potenza e riaffermava la sua egemonia ideale, mentre il sistema di equilibrio fra gli stati regionali crollava, e lo

stato nazionale si riduceva a pura aspirazione e sogno, perduta l’indipendenza del Milanese e del Napoletano, e ridotti a potenze subalterne o quasi gli altri stati della penisola. Nella fase di gestazione ed elaborazione la grande cultura umanistica si affermò, sia pure in una cerchia ristretta e nel linguaggio della pubblicistica e trattatistica latina, proprio quando in Italia si svolgevano lotte accanite e l’equilibrio fra gli stati era ancora instabile. Ma è tutt’altro che casuale se una sia pur mediocre letteratura in volgare cominciò a rifiorire in Toscana nel Quattrocento. Non è solo questione di tradizione locale (Giovanni da Prato e Buonaccorso da Montemagno sono le sole personalità notevoli tra gli epigoni che raccolgono l’eredità trecentesca), ma anche di direzione e capacità politica della signoria medicea che si va affermando. Da Cosimo il Grande a Lorenzo il Magnifico il problema dell’organizzazione di una nuova cultura è sentito con maggiore coerenza dalla borghesia fiorentina e con più intelligenza politica di qualsiasi altro stato italiano. Quando sarà formata la Lega tra i principi, Lorenzo è cosciente della funzione di guida che deve avere la cultura toscana in Italia, proprio perché a Firenze già era stata impostata una politica che non tralasciava 232

nessun aspetto della vita culturale: le accademie e i carnasciali, il poema popolare e la sacra rappresentazione. E come già intorno a Cosimo gravitavano i rimatori del Certame coronario (1441), il primo concorso desti-

nato a sollecitare la produzione letteraria in volgare, così gli scrittori toscani che si riunivano intorno a Lorenzo esprimevano in modo compiuto tutto ciò che era vivo o tentava di rivivere nella coscienza degli intellettuali e del popolo. Il talento mimetico e multiforme di Lorenzo è da valutare non tanto nei risultati della sua opera letteraria, pur così ricca di spirito e di intelligenza, quanto nella sua capacità empirica, dilettantesca se si vuole, ma sicura, immediata, di orecchiare, di assimilarsi quel che gli ferveva intorno: il platonismo e la poesia popolare, e l’idillica voluttà del Poliziano, e l’estro umoristico di Pulci e perfino l’austera tematica del pio Belcari. In Toscana sono gli « uomini senza lettere » (per chiamarli con le parole di Leonardo, il più geniale e il più colto che uscì da loro) che riprendono la tradizione medioevale della poesia di beffa e di gabbo, malignità polemiche, fantasiose sottigliezze e lepidezze: onde le inopinate trovate e sparate di Burchiello, la poesia di Pulci, sorridente ma su di un fondo di verità malinconico e amaro, grazie al quale egli poté ricreare la materia dei cantari epici di piazza, inventando il primo romanzo picaresco moderno.

Questi scrittori giocosi erano

spesso irrequieti cerca-

tori di una fede nella vita che non fosse quella del cattolicesimo tradizionale e, se irridevano allo spiritualismo e all’accademismo della cultura nuova, lo facevano con consapevolezza di una sorta di umanesimo popolare. Essi perciò si collocano in aperta opposizione a quella letteratura antiumanistica, ma retriva, dei compositori di rime di devozione. Essi, a comin-

ciare dalla madre di Lorenzo (scrittrice peraltro di esemplare limpidezza evangelica) e a finire a colui che fu il nemico dei Medici e dell’arte pagana, Girolamo Savonarola, tentavano di far ritornare quello che nelle forme rozze e medioevali non poteva non sembrare anacronistico, dopo lo splendido e squillante mattino della poesia polizianesca. Angelo Poliziano sembrò che avesse incarnato il grande mito di allora, il poeta rbetor et philologus, l’ape d’oro che mellificava predando « or l'uno or l’altro fiore », dalla poesia popolare e da Omero, da Petrarca e da Claudiano, da Dante e da Catullo. E se non si può dire che la letteratura toscana del Quattrocento esprimesse ir nuce tutta la letteratura italiana del tempo, un documento indicativo della funzione egemonica che essa ebbe è nella lettera che in nome di Lorenzo scrisse il Poliziano, inviando il famoso codice di liriche in dono a Federico d'Aragona, il principe di una casa che nel Regno di Napoli sviluppò una politica culturale e promosse una letteratura di particolare rilievo. 495

Ma anche nell’Italia settentrionale non erano mancati altri grandi centri nei quali la letteratura volgare espresse forme proprie. Venezia vide fiorire sul ceppo della poesia popolare gli incantevoli versi di Leonardo Giustinian, la cui leggiadria e bellezza ha avuto, sia pure tardi, un giusto riconoscimento critico. E se né Milano né Mantova riuscirono ad attrarre scrittori di primo piano, la Ferrara estense promosse non solo uno splendido movimento umanistico, ma nutrì anche le prime esperienze petrarchiste come fatto di corte e di società, e sollecitò da Matteo Maria Boiardo la composizione di un moderno romanzo cavalleresco destinato a soddisfare il più appassionato diletto per quei signori dai gusti tenacemente feudali. Il canzoniere di Giusto dei Conti, vissuto a Rimini presso la corte

dei Malatesta, ebbe una importanza storica fodamentale per tutti quei

petrarchisti che da Lionello d’Este al Tebaldeo, dal Suardi al Boiardo stesso sono riconoscibili per ben definite affinità di temi e di linguaggio. « Amor primo trovò le rime e i versi » non solo della poesia lirica, ma dell’Orlando boiardesco, dove i sogni di avventure erotiche e cavalleresche si fusero con l’ideale umanistico della virtù dominatrice d’ogni fortuna. In questo clima fiorì la canzone alla morte di Pandolfo Collenuccio, giustamente cara a Leopardi, per la sua alta dignità e per la sua moderna misura. Un quadro ricco e suggestivo, quello del rinascimento ferrarese, e tra i più originali della produzione di provincia: dove anche un toscano come il Pistoia non riuscì a serbare il suo linguaggio intatto dalle influenze idiomatiche, e sviluppò in una direzione realistica nuova per intensità e colorito la tradizione a cui era congiunto, riuscendo un poeta satirico non sempre rifinito e all’altezza delle situazioni comiche, ma certamente degno di non essere obliterato (come avvenne per secoli) dalla fama del Berni e dallo stesso Ariosto minore.

Se vogliamo trovare una letteratura che dal livello provinciale seppe elevarsi a quello italiano ed europeo, dobbiamo cercarla tra gli scrittori del Regno di Napoli, e non tanto tra i versi per lo più lambiccati e concettosi del celebratissimo Serafino Aquilano (che del resto visse a Roma

e peregrinò in molte corti settentrionali, ed è periferico rispetto alla cultura del Regno, anche se partecipa di certe caratteristiche ingegnosità meridionali). E nemmeno, o non in particolare, nei versi del Cariteo e del Sannazaro, che certo furono i più squisiti tra gli altri rimatori napoletani: i quali, fossero di gusto cortigiano o popolaresco, non si sollevano dal modesto rango di epigoni, anche quando, come il De Petruciis, esprimono con immediatezza una vissuta tragedia. Nell’ambito dell’Accademia Pontaniana l’Umanesimo diede i suoi frutti poetici più duraturi. Il grande Pontano (simile in ciò a Lorenzo de’ Medici) giganteggia sui contemporanei come scrittore, uomo di cultura e politico lungimirante: soprattutto

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nel prosatore, ma anche nel poeta il linguaggio, meno compiaciutamente letterario dei contemporanei, più arguto, più pittoresco, ha una sua inconfondibile vitalità. A questa scuola crebbero due dei maggiori scrittori del Rinascimento, Michele Marullo e Iacopo Sannazaro, che seguirono due vie ben diverse nell’esprimere poeticamente una stessa situazione storica. Esule dalla sua Costantinopoli, italiano d’elezione, classico e pagano nelle sue idealità morali e letterarie, Marullo fu una grande autentica voce di poeta, con coerenza assoluta tra un’appassionata concezione del mondo e una forma di eroico rigore. A contrasto non si può non pensare al grande amico e protetto del Pontano, Iacopo Sannazaro, che visse tutte le illusioni lerterarie del suo tempo e tutte le disillusioni storiche del Regno della sua Napoli. Con l’Arcadia egli tentò di essere il Poliziano della prosa volgare, preannunciando la riforma stilistica del Bembo. E sia in questa opera di composita eleganza e tuttavia importante per la storia del romanzo moderno, sia nelle rime che nei versi latini, cantò con precoce e languente malinconia un meriggio che già inclinava al tramonto, già accennava ai musicali turbamenti del Tasso, quando ancora Ludovico Ariosto non aveva realizzato il più compiuto e più armonioso ideale di bellezza del Rinascimento e della letteratura moderna. La fine del Regno di Napoli ebbe in questo spirito candido, fedele alle tradizioni del suo paese e dei suoi re, il cantore elegiaco più alto e meglio disposto a trovare nella religione, nella docta pietas petrarchesca, il conforto che vi cercano le anime fragili

e stanche. Ma nel De Partu Virginis, come nella ben più letteraria e frigida Christias del Vida, si notano i sintomi di una reazione al classicismo che cercava. vie di compromesso e di conciliazione. Dopo la pastorale latina del Sannazaro, parve che la produzione umanistica avesse toccato i confini supremi. Presto sarebbe subentrata la sazietà per queste forme artificiosamente coltivate, sarebbero venuti fuori inevitabilmente gli esperimenti imitativi (alla ricerca dei generi antichi che mancavano nella nostra letteratura) e le eleganze satiriche o giocose, che segnarono la fase di dissoluzione della cultura umanistica. In questo quadro si collocano quei professorali esercizi di poesia barbara, pomposamente chiamati « nuova scuola toscana » al tempo della decadenza fiorentina, destinati alle congeniali scoperte di Giosue Carducci. Analoga collocazione va data ai tentativi di poesia didascalica e di poesia tragica, con esiti diversi e perfino fortunati, quando all’astratta fede pseudo-aristotelica di comporre secondo regole prestabilite, subentrava un concreto gusto del dramma popolare (come nella Soforisba del Trissino) o un talento schietto come quello dell’Aretino, sempre pronto a divulgare e vitalizzare le esperienze nate sugli scrittoi dei dotti. E ci riuscì nell’Orazia non meno bene che nelle pasquinate, quando 235

l’anticlericalismo umanistico si riversò dagli epigrammi latini in sonetti e sonettesse.

Intanto, per un processo letterario opposto,

come

ci fu una

poesia giocosa in volgare, nasceva la cosiddetta poesia fidenziana, che giocava con i latinismi e gli sdruccioli, indugiando sui morbidi diletti delle ambiguità sessuali. Il problema di inventare un latino parlato, già tentato dal Pontano, riaffiorando in un clima di ozio conventuale e con intenzione di parodia, trovava risoluzione poetica solo in alcune felici macchiette del Baldus di Teofilo Folengo. Ma la letteratura nazionale si esprimeva ormai nella « volgar lingua » con uno splendore e una ricchezza di produzione in tutti i campi e in tutti i generi, nella fioritura di una grande civiltà artistica. Perciò la fortuna maggiore, anche nel genere burlesco e satirico, era destinata agli scrittori in volgare. Pensate agli esempi minori, ma quanto ricchi di agrume, del. Machiavelli o a quelli di Ariosto, le cui satire sono il più compiuto e vivo autoritratto sullo sfondo della società contemporanea (ma l’Ariosto il lettore lo dovrà leggere in un altro volume, per gli indissolubili legami che uniscono le Satire con l’Orlando Furioso). Pensate al Berni, che fino al Foscolo fu considerato come uno dei più grandi poeti italiani e tanta influenza ebbe sulla nostra letteratura da potersi considerare la maniera bernesca altrettanto importante di quella petrarchesca. Questo toscano impiegato alla Corte romana, se è soprattutto un letterato che sfoga i suoi umori accidiosi, un’anima inaridita e soffocata che riflette l’indifferenza e lo scetticismo di un mondo in decadenza, è pur l’uomo che eredita certe irrequietezze della tradizione popolaresca e nasconde un fermento morale sotto il suo tono crudo e beffardo. Senza di lui non solo non si potrà concepire tutta una vasta letteratura di genere e di costume, ma nemmeno la nascita del poeta satirico più alto che l’Italia abbia avuto, quel Gioacchino Belli che avrebbe ritratto con grande energia di linguaggio la società clericale già intravvista dall’occhio pronto e malizioso del Berni. È evidente che non si vorrà equivocare sul realismo e sui toni letterariamente popolareschi di questo e degli altri scrittori satirici e giocosi (i veneti mi son sembrati degni di particolare attenzione e rilievo, anche perché costituiscono lo sfondo culturale di un grande commediografo quale il Ruzzante). La letteratura popolare è ben lontana dagli scrittori nel Cinquecento, vive di una vita propria ed esprimerà anche tra gli umili cantori di piazza due talenti poetici non spregevoli, i cui versi si leggono con sorpreso piacere: Olimpo da Sassoferrato e il festoso Velardiniello. La cultura popolare è affatto staccata dalla società colta e aristocratica delle Corti e delle Accademie. Mentre nel Quattrocento l’uso del latino come lingua dotta e come espressione di una cultura di livello superiore non aveva impedito un flusso e un ricambio attivo tra forme letterarie 236

e forme dialettali, nel Cinquecento, con la riforma del Bembo, il canone dell’imitazione che sostituiva ai modelli antichi il Petrarca e il Boccaccio, se ebbe una funzione nazionale unitaria, classicizzò la lingua viva, codificaado lo stilismo astratto e aristocratico e sollecitando la composizione per generi in una cerchia di scrittori assai vasta, destinata a soddisfare i bisogni ideali della società colta con una produzione mai stata così ricca,

varia e intensa. La vitalità del petrarchismo cinquecentesco fu questa nuova funzione sociale della letteratura, cui di quella petrarchesca poteva riuscire esemplare. E riguardava l’arte, ma nell’ambito della cultura e

dovuta innanzitutto a nessuna opera meglio non solo per quanto del costume morale. Riconosciuto per santo padre del Rinascimento cristiano, per maestro di vita e di poesia, ai borghesi e ai gentiluomini, ai laici e ai prelati, alle gentildonne e alle cortigiane, il Petrarca offriva col suo Canzoniere innanzitutto un moderno e mirabile specchio della vera penitenza, quella che include la catarsi estetica accanto alla redenzione dal peccato. Offriva modelli alle rime di oratoria civile e religiosa, di corrispondenza e di adulazione, di memoria e di emblematica morale, di paesaggio e di circostanza. L’imitazione quattrocentesca non aveva certo trascurato quasi nessuno di questi aspetti del Cazzoriere, ma era rimasta molto spesso alla superficie, senza immergersi negli « abissi » da cui era stillata quella forma lirica A questa nuova approfondita lettura del Petrarca contribuì, meglio dei Bembo, l’altro e ben maggiore maestro di stile che fu il Della Casa. Ma è evidente che in ognuno dei seguaci di qualche rilievo si può scoprire il particolare talento col quale petrarcheggiò e trovò la sua originalità di artista e talora di poeta. E qui non resta che rimandare il lettore ai brevi ritratti che precedono le rime trascelte, che sono state raggruppate secondo l’ispirazione predominante in ogni scrittore o caratterizzante le qualità psicologiche ed estetiche, gli aspetti tematici o documentati che a una lettura critica sono sembrati più rilevanti. Ciò ha permesso di includere anche, in questa sezione, autori che espressero compiutamente la loro personalità nella prosa (come Bandello, Castiglione, Bruno), e di evitare che il concetto di litica rimanesse contenuto in un’accezione troppo angusta. La tradizionale distinzione per il gruppo delle rimatrici è stata conservata perché, proprio nel loro complesso, i canzonieri femminili d’amore sono una singolare testimonianza di raffinata civiltà, di intimità e di costume,

la cui lettura ci ripaga abbondantemente, se proprio non vogliamo a i costi scoprirvi il raro segno della poesia. Come in altre sezioni, anche in questa dedicata alla letteratura liebre (dove non maraviglia che le rime delle cortigiane siano spesso interessanti di quelle delle gentildonne) giungiamo cronologicamente

tutti mupiù agli ZO]

ultimi anni del secolo. Onde ci è parso giusto raggruppare dopo, nell’ultima sezione, quegli scrittori che ormai vivono in un clima di crisi religiosa che, se non sempre investe la loro coscienza, condiziona variamente la loro produzione. Qui il richiamo cronologico serve a mettere anche esteriormente in rilievo che, come per gli altri scrittori nella prima metà del secolo, non si trattava più di un graduale e spesso inavvertito processo involutivo. La decadenza civile e politica che accompagnava e contraddiceva gli splendori opulenti di tutta una cultura, ormai appariva irreversibile. L’astratta disperazione, grandiosa ma al tempo stesso impotente, di Michelangelo segna l’inizio di questa crisi religiosa, il cui martire si chiamò Tasso, poeta di tale significato storico da esigere un posto a sé anche nell’architettura del nostro Parnaso. Gli altri sono le voci minori ma ben distinguibili in questo coro supremo del tramonto. Nella Firenze non più libera e repubblicana, un amico di Michelangelo, un madrigalista con la sua musicale malinconia, il vecchio Strozzi. A Venezia, tra gli ultimi petrarchisti, mentre s’inizia l'osservanza al costume della Controriforma, Celio Magno con la nuda, funebre oratoria delle sue canzoni. A Roma, Annibal Caro, un letterato altamente rappresentativo della prudenza e della compostezza di quel nuovo corso dell’Umanesimo, che sarebbe approdato agli ideali castigatissimi dell’Arcadia, dopo lunghi contrasti coi deliranti gusti del Seicento. A Napoli, i precoci virtuosi, dai cui formalismi sono indenni, nei loro versi più significativi, solo i conservatori nostalgici della tradizione (come il Costanzo e il Tansillo), ma non lo scolaro geniale

di Della Casa, che d’altra parte fu il più originale dei petrarchisti e forse il maggiore lirico del secolo: Galeazzo di Tàrsia. Con questo poeta è parso opportuno concludere, quasi ponendo un estremo termine ideale e storico.

12359

238

PERSLAWPOESIAZDELZSETCENTO

L’aver destinato due grossi tomi del nostro « Parnaso » agli scrittori del Seicento può sembrare una sproporzione di scelta o una concessione a certe tendenze del nostro tempo, non per nulla disposte e perseveranti a rivalutare la letteratura di un’età che, con globale approssimazione negativa, è stata chiamata l’« età barocca ». Credo sia superfluo ricordare al lettore che le pagine riservate ai secoli precedenti comprendevano, oltre le parti antologiche, anche la Commedia,

il Canzoniere, il Furioso, la Gerusalemme,

che esigono una

lettura integrale. E d’altronde, per dare del Seicento italiano una visione compiuta, che tenesse conto di quanto vi è stato riscoperto in mezzo

ad

una produzione così copiosa e in tanti generi ed esercizi stilistici (dal melodramma alla letteratura in dialetto), sarebbe stato impossibile fare altrimenti. A differenza della poesia del Seicento inglese, francese e spagnolo, povera di geni fu la nostra, nella situazione di illibertà e di innegabile decadenza economico-sociale in cui si espresse. Ma ricca di « ingegni » e di « belli umori » corse tutti i rischi della modernità ad ogni costo, e grazie ad una inquietudine che non fu sempre o solo superficiale e formalistica, riuscì a conseguire notevoli, originali risultati. Fu un vasto travaglio sperimentale, che va conosciuto ed apprezzato nei suoi valori, anche se furono spesso valori di nuova retorica più che di creazioni durevoli oltre le velleità delle intenzioni ambiziose e delle invenzioni tecnicistiche, oltre il culto dell’« oggidì » (così idolatrato e, in fondo, così poco amato). Stavolta più che mai l’ordinamento della materia è stato ostacolato dalla mancanza della prosa, che non solo avrebbe arricchito il quadro e avrebbe aggiunto più lumi, ma avrebbe aperto la possibilità di un periodizzamento storico meglio articolato nel necessario contesto cronologico e 209

territoriale. Tuttavia, all’interno delle singole sezioni, come meglio risulterà da questo breve discorso, seguendo una linea di sviluppo o di involuzione delle correnti e delle tendenze implicite nei generi letterari, si è tentato di tracciare un panorama storico, pur rispettando le necessità di un’antologia Il sentimento drammatico della nostra decadenza aveva avuto le sue prime e più alte espressioni in quel tramonto del Rinascimento, che, dopo un lungo dibattito storiografico, oggi si designa come l’età del manierismo. Le personalità degli artisti più significativi (Michelangelo, Palestrina, Tasso) che espressero la crisi rinascimentale in tutte le sue contraddizioni e vennero considerati come i maestri, gli iniziatori del barocco, oggi sono proposti come i vertici del manierismo, non solo in una accezione positiva, ma secondo una prospettiva storica più esatta, perché in coincidenza col travaglio religioso della Riforma protestante, onde la Chiesa romana fu costretta ad una riforma cattolica, che fu insieme controriforma e antirinascimento. La duplice restaurazione della società feudale, con il ritorno all’autoritarismo del Papato, dell'Impero e delle Corti, ingenerò nell’Europa intera, ma innanzi tutto in Italia, il sentimento di una « catastrofe spirituale » e suscitò la necessità di una nuova sintesi, di un nuovo accordo tra « spiritualità medievale e realismo della Rinascenza » (Hauser). Il Tasso fu il maggior poeta di questo momento storico, egli espresse il ritorno agli ideali cristiano-cavallereschi, il sogno «di una splendida magnanimità (come è stato detto benissimo dal Caretti) e di una generosa forza morale », che si affermano vittoriosamente sul « torpore inquieto delle evasioni voluttuose » di fronte al « sentimento della colpa e all’angoscia della morte ». Tuttavia quest’arte patetica e musicale, così tormentata e introversa, non solo non suscitò gli echi di una nuova, grande poesia, ma a parte i rifiuti memorabili (come quelli di Galilei) scatenò disparatissime emulazioni di tipo formalistico, a volte del tutto sterili come i poemi epici e i versi della cosiddetta arte « sacra »: una produzione nata morta e sepolta sul nascere. A mano a mano che il costume controriformistico sconsigliò ogni imprudente fervore spirituale e la cultura filosofica e scientifica divenne molto rischiosa e molto sospetta, l’arte dové soddisfare ai bisogni sempre più pressanti, sempre più diffusi di una società che ripiegava sui diletti e sugli intrattenimenti, quando non esigeva gesti devoti o celebrativi, riversati nella più esteriore mondanità. Carlo V e la Controriforma avevano assicurato «la quiete d’Italia ». E in questa lunga pace che dal trattato di Cateau Cambresis (1559) durò per molti decenni, a riparo delle controversie e delle lotte fideistiche divampanti altrove, possiamo benissimo 240

spiegarci perché l’Italia non abbia avuto « una letteratura religiosa che possa essere paragonata a quelle che possiedono le altre nazioni d’Europa » (Getto).

Quali che siano i limiti (anche qualitativi) di questa letteratura, una antologia del Seicento non può non cominciare da essa. E non tanto perché una delle poche voci poeticamente ispirate, quella di Tommaso Campanella, si esprime solitaria proprio all’inizio, quanto per il carattere d’eccezione di questi scrittori che, se non furono incarcerati, ripiegarono in un loro raccoglimento umbratile o amaro (come Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori). Son tre testimoni di tre momenti diversi, lungo tutto il secolo, ai margini della vita letteraria trionfante. Ammirato della poesia del Tasso, ma insoddisfatto perché alla sua lettura non sentiva « ergersi al cielo e punger di giuste ire », il giovane frate calabrese dal fondo delle sue esaltanti prigioni disdegnava la poesia ornata. Di altri modelli (come la Bibbia, il Carzico di san Francesco, Dante) aveva bisogno, per esprimere il suo credo telesiano nella natura come

teofania, eterno « originale », fonte di verità e di arte sublime, e per manifestare la sua missione di rivoluzionario. Egli si sentiva chiamato a debellare i « tre mali estremi» del mondo contemporaneo, « tirannide, sofismi, ipocrisia » e ad instaurare la sua ideale Città del Sole. Onde quell’afflato poetico e messianico, quel rozzo ma possente inneggiare a un mondo stenebrato, libero e giusto, che fosse per tutti « casa nostra ». Per la prima volta, attraverso immagini elementari, dettate da una musa « sugosa e valente », che esalta il senso delle cose onde il mondo è colmo come

un immenso

corpo, questo Prometeo

cristiano interpretava e idea-

lizzava in un radicale « de profundis » le aspirazioni, i bisogni e la protesta contadina del Sud, che già attraverso disperate rivolte si era vanamente ribellato contro l’oppressione feudale. (Le salmodie di rassegnazione e di riconciliazione con l’ortodossia, e la prosa di altre illusorie speranze negli interventi riparatori della Chiesa e dell’Impero sarebbero venute dopo: ma il momento poetico del Campanella è questo, di rottura e di insurrezione, quando il suo animo è ancora « inespugnato » e « di stelle s’infiora », celebrando il suo amore infinito per il genere umano e per l’universo). Quando da lui passiamo agli scrittori di tragedie, invano ricerchiamo questa tensione drammatica della sua eloquenza e questo fuoco religioso. Nonostante le volenterose, ripetute riabilitazioni, Federico Della Valle non esce dai limiti della drammaturgia letteraria. Gli accenti gravi e sconsolati del biblismo, che infosca i chiaroscuri del suo stile di ascendenza tassesca, non infondono una persuasiva vitalità né alle sue Ester né alle sue Judit. Benché nella Judit si debbano riconoscere forme teatralmente 241

più mosse, ho preferito La Reina di Scozia, molto più rappresentativa dello scrittore, del suo disciplinato spirito di militante controriformista, anche se l’audacia tematica di un evento contemporaneo (su Maria Stuarda lo stesso Campanella compose un dramma andato perduto) non è pareggiata dalla elaborazione drammatica e dalla matura autonomia di linguggio poetico, e l’eroina cattolica resta come statuariamente ferma nella sua vittoriosa prova di martire. Se un piccolo capolavoro (nessuno ormai lo contesta più, dopo la scoperta critica del Croce) è l’Aristoderzo del Dottori, ciò è anche dovuto alla diversa situazione culturale in cui egli concepì quest'opera. La sua Padova era un ambiente tutt’altro che inerte, come la Corte di Carlo Emanuele I dov’era oscuramente vissuto il Della Valle. Era una stimolante provincia, con una tradizione piena di fermenti artistici ed intellettuali (si pensi a Ruzzante, all'insegnamento di Galilei e del Cremonino), e non rassegnata a subire passivamente il riverbero della fastosa mondanità di Venezia ormai al tramonto, dopo l’ultima età eroica, quella dell’Interdetto e di Sarpi. Il Dottori corresse la sua opera negli anni estremi della sua vita (quando si risolse a dettare le sue penitenziali e agostiniane e petrarchesche Confessioni), ma i motivi che la ispirano rimangono quelli del pessimismo stoico onde fu improntata la sua lirica (e nella tragedia si manifestano più compiuti e letterariamente più affinati). Nessuna luce di catarsi cristiana circonfonde Merope, tenera, dolente vittima della politica volontà di potenza del padre. L’oratoria moraleggiante che pure drappeggia qua e là il discorso non riesce a soffocare la tensione di un dramma che esprimeva un conflitto vivo nella coscienza più pensosa della società seicentesca, e richiedeva, per essere affrontato, audacia ed impegno ideale, superamento di quelle sollecitazioni affatto opposte che tanto influirono sulla drammaturgia barocca, riducendola sempre più a pretesto di spettacolo, a didascalia scenografica, a libretti da « recitar cantando ».

Se fosse stato possibile, avremmo volentieri dato per intero l’ampia favola pastorale che, per il suo squisito pregio letterario, non meno del melodramma contribuì a formare il gusto della « tragicommedia », rimasto intatto fino al Settecento attraverso innumerevoli filiazioni rococò. Apparso in edizione definitiva nel 1602, il Pastor Fido, che era stato concepito in gara con l’Arzinta, ne obliterò gli aspetti patetici ed elegiaci, e riuscì « l’opera teatrale più letta, più ammirata e più discussa del secolo, in Italia e fuori », offrendo un modello insuperato di erotismo dosatissimo, tale da obbligare i « superiori » a tollerarne l’inevitabile popolarità. Ma una lettura antologica non toglie nulla al fascino di questa favola, franta in numerosi episodi che s’incastonano come in un prezioso e ben 242

congegnato gioiello. Anche per gli utili confronti, è parso più opportuno riportare qualche scena della Fillî di Sciro del Bonarelli, e far posto al miglior libretto del Rinuccini, l’Arianza, che è la più completa struttura scenica di melodramma elaborata prima della riforma di Apostolo Zeno e dei capolavori metastasiani. Nato a Firenze nell'ambiente ellenizzante della Camerata dei Bardi, il melodramma rispondeva benissimo alle esigenze letterarie conservatrici della raffinata cultura fiorentina e al tempo stesso forniva i testi per quella rivoluzione musicale antipolifonica, che tanto solleticava il voglioso modernismo delle Corti seicentesche. Ma si può dire che alla maraviglia spettacolosa, a quel particolare bisogno di evasione nel mondo dei suoni e delle immagini che caratterizzò il secolo, e che ancora dura in tutta l’età moderna, nessun artista provvide, solo con la parola e pur con tanta esuberanza e con tanta virtuosa inventiva, come il cavalier Marino, maestro per

eccellenza del barocco italiano, e nuovo, strepitoso tipo del letterato di ventura e di successo, che subentrava a quello della elegante e più dignitosa tradizione rinascimentale. Ampio posto è stato fatto ai « trastulli » idilliaci dei suoi esordi, dove questo « figlio di Mercurio e di Venere » (come si autocelebrò nell’opera maggiore) manifestò la sua vocazione lirica a una società obliosa, che l’aspettava impaziente, perché era ormai tutt’altro che disposta a coltivare le malinconie e le austerità dei primi decenni della Controriforma. Sebbene i propositi di pornografia non sempre fossero remoti (come egli pretendeva), le prime prove dello stile che il Marino ammise di aver assunto (come scriveva nella sua apologia al duca di Savoia) « per lusingare l’appetito del mondo », esprimevano gli autentici appetiti di un « sentimento lascivo », che non aveva né la pienezza armoniosa della sensualità ariostesca, né 11 pathos della voluttà peccaminosa del Tasso. Necessariamente contenuta doveva essere la scelta dell’Adore; ma non certo perché si volesse sottovalutare l’importanza di quest’opera, nella quale il Marino con metodica equalità di stile realizzò gli ideali di protuberante soggettivismo enunciati nel più celebre dei mediocri sonetti della Murtoleide, la ventitreesima « fischiata »: Vuo’ dar una mentita per la gola a qualunque uom ardisca d’affermare che il Murtola non sa ben péetare, e ch’ha bisogno di tornar a scuola. E’ mi viene una stizza mariola quando sento ch’alcun lo vuol biasmare;

243

perché nessuno fa meravigliare come fa egli in ogni sua parola. È del poeta il fin la meraviglia (parlo de l’eccellente, non del goffo): chi non sa far stupir, vada a la striglia. Io mai non leggo il cavolo e ’l carcioffo, che non inarchi per stupor le ciglia, com’esser possa un uom tanto gaglioffo.

Anche da una scelta rigorosa e puntata sui momenti edonistici più caratterizzanti, crediamo che il lettore potrà farsi un’idea adeguata del barocco per eccellenza, e cioè della capacità di elevare « macchine ritmicosintattiche dell’illusionismo verbale, prescindenti in tutto dalla verità (o almeno da una verità che non sia quella formale)». Regista e speaker insieme (e pronto a correggere la sua enfasi con furbi ammiccamenti, come ben disse il Flora), l’autore è sempre al centro di questo suo teatro delle meraviglie, e lo invade con un istrionismo senza pari, in una scommessa continuata e sterminata contro tutta la poesia precedente. Una scommessa

vinta, perché tutto è ricondotto nell’ambito di un oratorio giuoco di sopraffazione e di prestigio, sorretto dalla fiducia incondizionata che il Marino riponeva nel suo ingegno e nel piacere inesauribile di sorprendere il lettore. La suggestione che operò l’Adore con la «strana e barbara ricchezza » ostentata in una sorta di enciclopedia del poetabile, e di letterario afrodisiaco destinato ad eccitare « i cinque sensi », non poteva essere minore di quel che fu. Al pubblico poco importava il difetto di sesto senso, cioè di una struttura ideale, di una concezione del mondo (all’eclettismo naturalista del Marino poteva offrire un sostegno perfino 1’Azzorosa visione del Boccaccio). Questo difetto pareva compensato ad usura dai « lussureggiamenti » descrittivi in cui aveva « dilatato » (come diceva) una favola mitologica, tesaurizzandovi tutto l’alessandrinismo antico e medievale, rinascimentale e moderno, squadernando un repertorio enorme di temi e figure di ogni tipo, sfoggiando nuove rime e un lessico ricchissimo, dove anche il comune e il triviale, i neologismi e i tecnicismi si impreziosivano nell’impasto pellegrino di « uno stile metaforuto » (come lo chiamava, non senza divertito orgoglio). Al centro delle contese letterarie, soprattutto per l’Adone, Marino influenzò i suoi amici e i suoi nemici, e l’opera che egli aveva pubblicato a Parigi (1622) con lancio pubblicitario senza precedenti, fu considerata come quella del poeta più rappresentativo d’Italia. Lo schieramento pro

244

o contro Marino sostituì l’alternativa Ariosto o Tasso. La Gerusalemme espurgata godeva sempre di un grande favore, ma le ristampe del Furioso (per non parlare del Canzoniere e della Commedia, quasi scomparsa dal mercato editoriale) calarono sensibilmente rispetto al Cinquecento. Nuova caratteristica del secolo fu la proliferazione dei libri moderni, specie quelli in versi, che si estese dai centri culturali più importanti anche alle più remote province. Per mia fè [testimonia un celebre avversario del Marino, Tommaso Stigliani] non è città in Italia da cento anni in qua, non terra, non castello, non villa, non borgo, il quale non abbia i suoi poeti che tutto il dì scrivono rime ed epopee e tragedie pastorali e le stampano. Onde i libri son moltiplicati sì smisuratamente e sì fuor d’ogni termine, che solo a far catalogo de’ nomi non basterebbe un grossissimo tomo simile al Codice legale. E la fama de’ lombardi non giunge in Toscana e quella de’ toscani non si stende al Tevere,

ancor de’

né di molti

accademici

egli tien relegata dentro

suoi poetucoli

vani.

romani

arriva

la nuova

a Napoli,

al giro delle proprie muraglie

E lo stesso,

ch’avviene

in Regno

il quale

la nominanza

alla città

madre,

avviene alle città figliuole, se pur non peggio. Taccio di Sicilia e di Sardigna e di Corsica, isole tutte attenenti alla nazion nostrale e che nostralmente parlano ed iscrivono, dove i verseggianti son tanto incogniti che, non che l'uno non conosca l’altro, ma appena ciascuno conosce se medesimo. Atalché tutto lo scrivere poetico d’Italia altro non viene ad essere ch’'uno ampio abisso d’oblivione ed uno interminabile oceano di dimenticanza e di disprezzo. I quali inconvenienti hanno cagionato che ’1 mondo s’è talmente stufo, talmente sazio e talmente svogliato, che né meno legge gli scrittori buoni e i valenti, con tutto che gli senta spesso lodar da chi ha giudicio, perché « Stomaco turbato aborrisce il zucchero » e « Cane scottato teme l’acqua fredda ».

A surrogato di un vero movimento culturale, la lotta tra marinisti ed antimarinisti fece scendere in campo gli scrittori in due opposti schieramenti dei quali era da tener conto, ma senza trascurare le distinzioni necessarie per intendere diversità, oltre che individuali, di gruppi regionali e generazioni successive, che esprimevano esigenze varie. Intanto è parso opportuno rompere la promiscuità, a volte indiscriminata, nella quale i lirici marinisti sono stati presentati a dispetto non solo delle loro intenzioni, ma anche delle loro effettive conquiste, avverse o in qualche modo superatrici rispetto alla poetica marinista. L’ordinamento che qui è stato tentato vuole contribuire ad una sistemazione storiografica ancora in corso.

Per esempio, fra gli amici e seguaci del Marino è sembrato opportuno raggruppare innanzi tutto i coetanei che furono più suoi compagni che scolari, e talvolta con personalità

autonome,

come

Girolamo

Preti, che

245

del barocco bolognese nell’età dei Caracci fu rappresentante raffinatissimo (così come l’Achillini fu il più goffo e ampolloso, affatto privo di quella autoironia che salvava sempre il suo amico e maestro napoletano). Ai marinisti più giovani o della generazione successiva, per conquistarsi una certa personalità la via unica fu l’esasperazione di quel sistema d’ipotesi metaforiche ed analogiche. E a leggerli di seguito (prescindendo dalle ‘necessarie considerazioni storiche), si sarebbe tentati di dar ragione ai rilievi polemici ed alla spiegazione puramente letteraria che del fenomeno offriva lo Stigliani (« un tempo i lettori si contentavano di lettura non cattiva, poi volsero eccellenza, appresso desiderarono maraviglie, ed oggi cercano stupore, ma dopo averli trovati, gli hanno anco in fastidio ed aspirano a trasecolamenti e a strabiliazioni »). La verità è che alla letteratura barocca nell’empito dei suoi divertimenti si addiceva a perfezione il motto che si legge su di'un antro della celebre villa di Bomarzo, fra quei mostruosi capricci di pietra: « ogni pensiero vola ». Proprio dal fondo della provincia culturale smaniosa di mettersi al passo, il gesuita piemontese Emanuele Tesauro non esitò ad abbozzare nel suo insegnamento (1616-24) la nuova retorica dello stile moderno, proclamandolo « favella degli angioli » e contrapponendolo a quello « concertativo e popolare ». E fu il suo codice della nuova poetica, Il cannocchiale aristotelico (pubblicato nel ’54) a definire questo totale svuotamento formalistico dell’interpretazione rinascimentale di Aristotele, esaltando la « maraviglia » come una forma di conoscenza intuitiva « senza ingombro del vero », un gioco di illusioni e di prospettive che era l’equivalente scientifico proprio di quel vocabolo « barocco », adoperato nella duplice accezione di figura sillogistica e di truffa commerciale, che poi avrebbe caratterizzato polemicamente quella poetica. Per il Tesauro e per i barocchisti la realtà poetabile era « una pagina sempre apparecchiata a ricevere nuovi caratteri, e cancellarli ». Così il codificatore venne a sancire autorevolmente la ormai imperante pratica dei molti Simplicii delle lettere, peripatetici dell’immaginazione che si trastullavano con il loro innocuo cannocchiale alla ricerca della « varietà » che « naturalmente è gradita, essendo insaziabile il senso di sperimentare e l’intelletto d’intendere cose nuove ». Specie in provincia, e negli ambienti più attardati della provincia,

questa letteratura di consumo e diletto accademico esprimeva le esigenze culturali rozze e pretenziose della nobiltà e del clero, un mondo colmo di parvenus della borghesia imblasonata, di villani rimpannucciati dall’abito talare, di mercanti di campagna impalazzati nei centri urbani, mentre una folla di pezzetti si aggirava tra conventi e chiese monumentali per le strade di queste città ridotte ormai al rango di « vecchie ciancianti a marmorei balconi » (per dirla con un verso del Carducci). E nel ristagno di una 246

seria vita culturale espressa dalla società civile, si comprende quanto valesse quella gara universale a « spiritare », dove chi leggeva o ascoltava versi si rallegrava « nell’involar col proprio ingegno ciò che l’ingegno altrui furtivamente nasconde ». Trionfarono così i retori del foro e del pergamo, i nuovi notabili, i tutori della proprietà fondiaria e della direzione delle anime. E specialmente gli avvocati e i predicatori meridionali diedero l’estremo contributo al marinismo, anche quando nella seconda metà del secolo l’opposizione a questo gusto prese consistenza dovunque, già prima che l’Arcadia convogliasse tutte le voci della reazione classicheggiante. Paradiso non ancora ritrovato della critica stilistica la letteratura del Seicento, e in particolare quella lirica, manca di studi moderni che aiutino ad individuare le caratteristiche fondamentalmente retoriche dei singoli scrittori. Ogni lettura impressionistica o tematica porta inevitabilmente a delusioni (si pensi a quelle confessate dal Momigliano nella sua Storia). E il pericolo di falsare con un campionario ingannevole il valore limitato di moltissimi tra questi rimatori, mi è stato sempre di fronte. Per questo non mi son limitato solo a valutare le scelte degli attenti antologisti che mi hanno preceduto, ma quando è parso che ne valesse la pena, son risalito alle edizioni originali e alle raccolte complete: purtroppo non sempre per cavarne miglior frutto. Due figure sembrano rappresentative in mezzo agli epigoni del Marino, il cavalier Artale e il padre Lubrano della compagnia di Gesù, eredi, l’uno del suo spirito spavaldo ed aggressivo, l’altro dell’enfasi ingegnosa, brandita come strumento di stupefazione edificante. Ma se più foga e temperamento c’era nell’Artale, c’era anche più rozzezza; mentre il consumato calcolo stilistico del Lubrano ha fatto giustamente parlare di « culturismo » (anche se non sembrano poi da sopravvalutare i parti moralistici e decadenti di questo « Argo di bocche e Briareo di lingue », che volle dare ai suoi lettori non solo bei « fiori » di parole ma anche « frutti » di bene).

Sui barocchi inciprigniti finì per pesare quella energica ripresa controriformistica sotto Urbano VIII (1623-44) che coincise con l’espansione e

il rafforzamento dello Stato della Chiesa. Ma, primi ad accettare il barocco e a tentarne il recupero, i gesuiti furono anche i primi ad indicare le alternative al naturalismo, preoccupati del successo di Marino e delle sue fortunate lascivie, invano esotcizzate con le interpretazioni allegoriche dell’Adone. Onde il moralismo di Famiano Strada, di Sforza Pallavicino, di Bartoli, prudenti fautori di una riconciliazione tra l’eredità classica e le esigenze moderne. È significativo che appunto il Bartoli, mentre denunciava lo studio delle acutezze perché « contrarissimo al parlar daddovero » 247

e perché di conseguenza impediva « la commozione, la persuasione € ogni effetto serioso », si volgeva con mutato atteggiamento verso la scienza,

iniziando in certo modo il processo di riabilitazione di Galileo. E non meraviglia che appunto lo Sforza Pallavicino, il maggior teorico d’arte del Seicento, designasse in Chiabrera una sorta di pietra di paragone del buon gusto (« per iscorgere se uno ha buon ingegno, bisogna vedere se gli piace il Chiabrera »). A questo scrittore mancavano le qualità poetiche native che egli non esitava a riconoscere nel Marino. Ma non gli mancavano le qualità secondarie di un artista, la versatilità in tanti generi e in tanti soggetti, che lo rendeva apprezzatissimo dai letterati e dai potenti, un edonismo castigato, così ben visto dai moralizzatori, un virtuosismo metrico tanto più appariscente se orecchiabile e popolare (ed era la qualità dei suoi modelli francesi, quei vezzi amorosi, quelle lusinghe, quelle tenerezze, « alla cui

intelligenza — egli diceva ammirato — non fu mestiere né commento né chiosa »). Ora, se il giudizio negativo formulato dal De Sanctis non solo non sembra reversibile, ma è stato suffragato dalle ricerche storiche (le quali hanno confermato come niente sia più lontano dal suo spirito che la bellezza greca), d’altra parte, proprio quella sua semplicità arida ed insipida, quel candore che spesso diventa volgarità e quella sua grazia cascante e leziosa finirono per avere una maggior durata nel più facile gusto letterario italiano. Se è vero, come è vero che « nei suoi versi spuntano già le Filli, le Amarillidi e le Clori che più tardi invasero l’Arcadia », non se ne può inferire un giudizio di valore (come si vorrebbe). Ma è giusto restituire a questo ricamatissimo scrittore una posizione centrale nella nostra storia letteraria che giunge fino al Settecento. Non meno

importanti degli echi suscitati dai suoi versi melici e ditirambici, delle sue imitazioni metriche da Orazio e da Anacreonte, del suo pseudopindarismo encomiastico

(« sacro » o « eroico »), furono gli echi dei Serzzoni

che, usciti postumi nel 1718, ebbero molta parte nella moda del verso sciolto e proprio per una dichiarata prosaicità, nella loro asciuttezza senile, mostrano il corretto tranquillo approdo di un cinquantennale esercizio di « testure ».

Credo giusto dunque che questo moderatore, che si era proposto di richiamare «la gioventù all’antico Parnaso », sia collocato col necessario rilievo innanzi a quanti resistettero alla corrente marinistica. A capo degli innovatori-conservatori, ma anche a parte, non potendosi definire chiabreristi tutti coloro che ingrossano la schiera assai eterogenea di questa resistenza e che si affiancano non tanto per le affinità, quanto pet ciò che rifiutarono, con ben diverse ragioni di gusto e di esperienze umane o 248

letterarie. Infatti nella sesta sezione sono stati raccolti, accanto ad avversari accaniti del Marino, anche amici personali, come il Manso, o altri che erano attaccati ancora a gusti cinquecenteschi. Abbiamo qui i barocchi esitanti e contenuti, come il Macedonio e l’Abbelli, meno distratti dal gioco stilistico o dal successo mondano, o più aderenti alla loro schietta e modesta vena, sia essa idillica e sensuale (Michiele, Pucci) o madrigalesca (Quirini) o elegiaca (Della Valle, Paoli), vivacemente gnomica (Orsini) o abbandonata ad una certa freschezza di impressioni, fino ai conati realistici o ai toni popolareschi (Fontanella, Materdona). In alcuni di questi scrittori l’esigenza di una poesia più pensosa è innegabile, sebbene sia un’intimità che spesso è uccisa « da una punta di penna » (come accade per il Battista) e da una certa monotonia di contrapposti. Ma il Battista non può esser messo accanto agli estremisti del marinismo, per quel tanto di tormentato che sembra innegabile nel suo impegno neomanieristico a riuscire « più spirituale che spiritoso ». Il mordace Fulvio Frugoni irrideva ai letterati del suo tempo, e li paragonava ai corpi celesti « che sol hanno quiete nella inquietudine ». Ma non c’è dubbio che a mano a mano che «il secolo climaterico ed irregolare » faceva sentire un’oppressione di sazietà sulle coscienze più meditative, «i nemici dell’oggidì » (come li chiamò in un libro celebre il Lancellotti) avevano ragione da vendere a coloro che pretendevano di consolarli dall’esser nati nella Italia del Seicento. C’era l’inquietudine superficiale dei rivoltati, pronti a passare al conformismo più piatto (come accade spesso ai promotori di avanguardie) e a sfogare in sede formalistica «le libidini dell’ingegno » (è il titolo di uno dei loro libercoli). Ma c’erano coscienze inquiete che toglievano a motivo ispiratore della loro arte un grave sentimento del tempo, non soddisfatto dai frivoli compensi ottenuti con le arguzie. È questa l’atmosfera fra il ’30 e il ’59, con i drammatici riflessi economici e politici della guerra dei trent’anni, con la crisi mortale della potenza spagnola (sottolineata dalle rivolte di Palermo e di Napoli), con le umiliazioni di Venezia di fronte ai Turchi, del Piemonte e dello Stato della Chiesa di fronte alla Francia ormai avviata alla sua ascesa egemonica. Ci sono delle zone della letteratura seicentesca più consapevoli della crisi, dove c’è ancora da scavare. E, per esempio, il napoletano Antonio Basso merita non minore attenzione del friulano Ciro di Pers o del bresciano Bartolomeo Dotti, riscoperti e giustamente pregiati per quanto di valido offre la loro poesia, dove un fondo intimo, un volto e un destino umano si intravvede fra il luccichio dei concetti. Ribelli autentici come il Basso; ulissidi come il Dotti (i cui sonetti non furono forse ignoti al Foscolo, se si pensi che le satire antiveneziane a lui attribuite furono ristampate più volte dopo l’edizione del 1797); nobili valetudinari, immalinconiti 249

dalla solitudine dei loro castelli, come il Pers, la cui lamentazione sull’« Italia calamitosa » è certo una delle più eloquenti elegie sul nostro paese agonizzante. E il Pers (che è da collegare col Dottori, suo amico e corrispondente) tanto più ispirato sembra per il ritorno alle forme elevatissime del manierismo veneto (si pensi a Celio Magno), se lo mettiamo accanto a certi personaggi ufficiali, interessanti magari per altri aspetti, per un loro fondo morbido o per la loto leziosità (come il Brignole Sale e il conte di Lemene), pronti già a raffinare il loro barocchismo nei più moderni capricci rococò. Per non parlare di altri non meno illustri personaggi della Corte estense, o romana, o fiorentina, tutti compresi (come ha detto Franco

Croce, giovane

e valente

studioso

del Seicento)

« dai

grossi eventi della politica e della coltura italiana ed europea e dal loro ambiente aulico portati ad una tematica un po’ troppo idealistica, oscillante tra l’incitamento oratorio a grandi irrealizzabili imprese e il rifugio idillico eppure serio, non introdotto per puro capriccio ». Rappresentante ammantato del barocco classicheggiante (che ebbe a Roma i suoi interpreti geniali in Poussin

e in Bernini)

è certamente

Fulvio

Testi, che

inaugura quella febbrile pubblicistica in versi, durata poi sino al Monti, sino al Carducci (il quale non per nulla lo sentiva « più moderno del Chiabrera », volendo dire più congeniale a se medesimo). Ma le sue fallite aspirazioni epiche mal consolate in toni vigorosamente declamatori, nonostante la grande ricchezza di colorito e un certo fluire del discorso, ben

poco ci convincono. In molte odi troppo celebrate, come quella al Ciampoli, In lode della carta, appare enfatico, prolisso, sproporzionato al soggetto, anche se non scade in quella pedanteria retorica che rende illeggibili i suoi sodali romani. Per non parlare della lirica civile dei suoi continuatori, affini a lui per i generi che coltivarono, ma freddi e compassati. Tuttavia

è difficile pensare il Testi (se fosse sopravvissuto

ad una

sfortunata avventura politica) tra i barocchi penitenti come il Filicaia e il Guidi, che si ricondussero all’ovile arcadico, lungi dall’ « idra del Seicento », allorché, sulla fine del secolo, la resistenza al barocco marinista e la rea-

zione classicheggiante, che aveva avuto a Firenze ed a Roma i centri culturali più attivi, si convogliò in movimento unitario nella famosa accademia del Bosco Parrasio. All’iniziativa della convertita Cristina di Svezia (dell'Arcadia si parlerà nell’altro volume) tutti applaudirono, osannando al ritornato « buon gusto », benché molto diversi fossero i presupposti ideali della Napoli gassendiana degli Investiganti (che anche in arte accoglievano l’insegnamento del classicismo di Galileo) e della Milano di Carlo Maria Maggi, anch’egli protoarcade congratulatissimo dai Gesuiti, per quelle sue poesie liriche scelte a esemplare di « perfetta poesia » dal Muratori, eppur così insipide rispetto al suo teatro dialettale dove egli, 250

alcuni anni dopo, avrebbe adottato il milanese come averta e ciaera », fatta apposta per « dì la veritàe ».

«lengua correnta

Alla fine del secolo, col teatro del Maggi, destinato ai giovin signori del collegio dei nobili milanesi, siamo all’esperimento supremo della letteratura comica (o, piuttosto, caricaturale e satirica, burlesca e giocosa): un filone importante non solo di resistenza ma a volte di opposizione al barocco, espressione (anche se meno audace di quanto vorremmo) d’insopprimibili istanze realistiche non del tutto soffocate. Questo filone è stato scoperto a mano a mano che il movimento letterario moderno dal verismo al neorealismo si è sviluppato a fianco del decadentismo (la cui produzione è stata così stimolante per acuire il punto di vista del presente nell’intelligenza storica del barocco). Il Maggi, sebbene mai dimenticato dalla tradizione milanese fino al Parini, al Porta, al Manzoni, fu in certo modo riscoperto da Emilio De Marchi nel 1885. Ma già qualche anno prima Olindo Guerrini aveva dedicato un importante studio a Giulio Cesare Croce (1879), e Luigi Capuana aveva ristampato il suo Paolo Maura (1873), e Vittorio Imbriani celebrava il « gran Basile » nel 1875,

accreditatissimo poi fin troppo da Benedetto Croce, cui invano Ferdinando Russo contrappose nel 1913 la sua anch’essa entusiastica rivendicazione della grandezza di Giulio Cesare Cortese. Molta parte di questa letteratura comica è dialettale, e costituisce, quali che siano i suoi limiti, uno degli aspetti più originali del nostro Seicento, se lo compariamo al Seicento di altri paesi europei (come ha notato un italianista tedesco, Elwert, portando nuove conferme ai noti saggi del Croce e del Sansone). Ma la valutazione critica e storica adeguata è appena cominciata, sebbene i manuali di storia letteraria diano ora di quest'altro volto dell’età barocca un disegno molto più adeguato di quanto non fossero le vedute parziali e sommarie di cento anni fa. E tuttavia c'è ancora da scavare, come provano recenti antologie, anche se più sugge-

stive che storiche, nel propotre il « fiore » di questa o quella poesia in dialetto. Non abbiamo ancora per questo vasto settore nulla che possa paragonarsi a un lavoro come l’edizione del teatro di Carlo Maria Maggi procurata dall’Isella, che con precisione ha definito il valore di questo teatro satirico-educativo: coraggiosa denuncia, entro i limiti di una « dichiarazione di corresponsabilità collettiva », degli smarrimenti e delle avventure in cui, durante la dominazione spagnola, erano state travolte tutte le classi, ad eccezione della plebe, rappresentata dall’innocente Meneghino. Pur nella sua contenuta polemica sociale, il Maggi preannuncia lo spirito borghese del nuovo secolo, fiducioso di poter mettere ordine alla società ZA

disgregata dalla restaurazione feudale, e di dirigerla con paternalistica moderazione. Arte finissima, sebbene affidata, più che a solide strutture drammatiche, ai monologhi satirici e caricaturali, che sulla trama di un italiano un po’ anonimo e libresco, sono preziosamente giocate nel doppio registro del milanese popolare e del milanese colto, l'uno per la denuncia energica l’altro per far riflettere, quasi in uno specchio deformante, gli spocchiosi e corrotti costumi della vecchia società spagnolesca.

Non c’è dubbio che nell’opera dialettale del Maggi culmina quanto di meglio potesse esprimere l’Italia del Seicento quando e dove meglio era avviata a superare la sua crisi. Purtroppo solo per ipotesi si può affermare che i contrasti profondi tra il volto della società barocca e le sue maschere « sacre » ed « eroiche » avrebbero potuto alimentare una grande letteratura comica. Anche per questo occorreva un minimo di libertà, una fiducia di poter agire positivamente, oggettivando nella rappresentazione un conflitto smascheratore. Il solo geniale tentativo (che poi finì al Santo Uffizio) fu quello di Galileo, che nella « commedia filosofica » (come perfettamente definì Campanella il Diglogo dei massimi sistemi) creò con Simplicio la prima grande figura del comico intellettuale, il comico che si sprigionava dal profondo di quella società infrenata dalla ragion di Stato e dalla ragion di Chiesa, con tutti gli effetti sterilizzanti che comportano le direzioni culturali di tipo clericale e autoritario. Pure, per quanto si fosse costretti ad evitare i rischi di un confronto con la vita, e si preferisse ridurre la realtà a rapporti capricciosamente soggettivi, le forme più rozze o più facili del comico si svilupparono ampiamente in superficie, se non in profondità. Onde la fioritura di numerose opere (senza contare la commedia dell’arte) caricaturali e burlesche, e parodie e bizzarrie, mentre il moralismo alimentava la declamazione satirica, o sollecitava una letteratura confidenziale, talvolta perfino libertineggiante.

La prima di queste opere che ebbe pronta risonanza in tutta Italia fu La Secchia rapita (composta a Roma tra il 1614 e il 1615, pubblicata a Parigi nel 1622), il poema eroicomico del Tassoni, che si proclamava inventore di un nuovo genere misto. Egli aveva tutte le qualità per spassare il pubblico del primo Seicento, proponendogli il vero eroe del tempo, che non era né Achille né Orlando, né il pio Enea né il pio Goffredo, ma Tersite che in veste di conte di Culagna si accampava in mezzo ad una borghesia senza mordente, vogliosa più di rendite fondiarie che di traffici, paga di beffe e di pettegolezzi. L’Italia meschina e strapaesana, godereccia, bigotta e paciosa si riconobbe in quelle ottave dal piglio d96

andante e un po’ volgare, ma dall’effetto sicuro. E i vernacoli che qua e là vi risonavano per dare un certo colorito alle macchiette, sembrarono un incoraggiamento a tentare o a continuare una letteratura giocosa, che

attraverso il nuovo mezzo espressivo permettesse ad ogni bell’umore di spassarsi in altri esperimenti. La commedia de « li diversi linguaggi », a cui il romano Verucci aveva dato la stura fin dal 1609, mettendo a confronto i personaggi popolari che in maschera esprimevano le particolarità comiche municipali, prese dovunque un grande impulso (perfino l’austero Piemonte ebbe dal Tana una graziosa anche se alquanto collegiale commedia).

Ma in che rapporto si ponevano gli autori di questa letteratura dialettale riflessa con la plebe che si affacciava nelle loro opere, anche per sollecitazione della letteratura popolare, che ormai circolava largamente, e non in forma orale, ma diffusa a stampa, in opuscoli e fogli volanti? All’autore del Bertoldo, Giulio Cesare Croce, spetta un posto di grande rilievo. E se ormai nessuno più nega al suo fortunato libretto il riconoscimento che anni fa sarebbe patso eccessivo ai persistenti pregiudizi aulici, sembra urgente, riparatrice giustizia considerare anche il cantastorie in versi, dotato di un estro e di uno spirito che molti celebrati « poeti » di accademia avrebbero potuto invidiargli. Sin dalla fine del Cinquecento, ma soprattutto nei primi decenni del secolo successivo, le ristampatissime filastrocche del fabbro di San Giovanni in Persiceto si divulgarono dovunque e contribuirono moltissimo a creare quella componente barocca del gusto popolare che fu non meno importante di quella melica e melodrammatica (altro campo ancora da esplorare dopo le indicazioni del Calcaterra). Questo simpatico villano inurbato, che sermoneggiò e si scapricciò sulle piazze di Bologna, è, a suo modo e nel suo genere, un classico. E fu tutt’altro che privo di cultura. Le sue versioni dialettali del Furioso e i suoi capitoli autobiografici dicono chiaro che ad insegnargli l’amore della verità e della semplicità dovette essere l’Ariosto. « Non vi prometto far cose pregiate » (diceva). E noi non gliele chiederemo. Il suo pregio essenziale è di aver serbata viva, dandovi un nuovo impulso, quella tradizione popolaresca e picaresca ante litteram che era soprattutto di ascen-

denza fiorentina (si ricordino Antonio Pucci e Luigi Pulci), e nell’aver saputo mantenere, pur nei suoi limiti intellettuali di cantastorie autodidatta, una notevole libertà nel mondo dell’arte barocca e controriformista, persuaso che la poesia che egli teneva « nel zuccone » fosse « della meglio che vi sia », perché tutti la potevano capire e non avviluppava la mente a questo e quello, « come fan certe bestie d’Elicona ». Così, lasciando quella « striglia » a cui superbamente rimandava il Marino coloro che non sapevano strabiliare, il nostro maniscalco si mise a ferrare « Pegàso » e lo 0516)

cavalcò scherzando con rara grazia. E le sue canzoni e barzellette volarono di bocca in bocca. Mimavano piccole scene campagnole e cittadine, echeggiavano i contrasti del ghetto e delle fontane, le baie alle puttanelle, i vanti furfanteschi degli scapigliati, e gli allegri lamenti sui mali, sulla miseria cronica e sulle carestie: consolazioni poetiche di un mondo subalterno alla sua sorte, di cui si rifaceva nell’estroso folleggiare delle sequenze canterine, o nei sogni di sontuose imbandigioni ed eccezionali strippate. Com'è ovvio, nonostante l’attaccamento conservatore alla tradizione, barocco era il suo gusto della « girandola » verbale, dell’enumerazione disordinata, e dello stesso « indice universale » in cui volle accumulare tutta

la ricchezza di umore in cui può esilararsi la miseria. Barocca è la sua opera di struttura più ambiziosa, il Banchetto de’ malcibati (1601), anche se « l’invenzion nasce dal vero » (come egli disse nel prologo, dove ci ricorda di essersi ispirato alla memorabile carestia del 1590). Alla fortuna delle opere di Giulio Cesare Croce non mancarono echi anche nella letteratura più dotta. Per esempio, egli offrì qualche spunto alle macchine spettacolari e allegoriche di Michelangelo Buonarroti il Giovane; e mostrano di conoscerlo non solo gli scrittori che facevano professione di umorismo (come l’Abati, il Melosio, il Leporeo) ma perfino marinisti convinti come il Busenello, cui del resto nella sua stessa città giungevano altre sollecitazioni di canterini (notissimo fu «il cieco di Venezia » Paolo Briti). Il Busenello alternò e compì in dialetto tutte le sue esperienze del-

l’alessandrinismo barocco, da quelle marinistiche a quelle veristiche. Nel Mondo alla roversa (per quel tanto che è dato conoscere dalle citazioni del Livingston, che ci ha fatto conoscere tanti pezzi dei suoi oraziani sermoni in quartine) egli sembra arieggiare proprio i rimpianti di Giulio Cesare Croce per la perduta semplicità. « Memorie preziose e care » erano tuttavia per lui sia quelle del passato che quelle del presente, quando andava in maschera per sollazzo, e anche una mendicante, anche le imma-

gini di una vita povera e raccolta potevano offrirgli materia di pittura idilliaca. E se una punta di malinconia, attraverso l’oratoria barocca della morte, veniva a turbare lo spettacolo dei sensi, egli l’allontanava e si reimmergeva nella dolce vita veneziana, da quel buon porcello epicureo che doveva essere. Quando da questo importante personaggio della decadenza veneziana e dall’ambiente libertineggiante che si raccoglieva intorno alla Accademia degli Incogniti, passiamo a quello dei Padrani di Padova, notiamo la netta differenza di qualità nella stessa letteratura giocosa di Carlo de’ Dottori, che, se induge a qualche racconto audace, sa pure sollevarsi alle novelle patetiche e alle punte satiriche. E non solo perché la provincia era più 254

attenta e tormentata, ma perché questo poeta, anche nel genere giocoso portava l’originalità del suo temperamento, distaccandosi dal modello di obbligo, La Secchia rapita, con un sorriso aristocratico e un po’ mesto. Quel Piero d’Abano che era stato l’antenato della tradizione di pensiero eterodosso dominante a Padova e che nel maggior poema del Dottori (L’Asino) interviene come pacificante di burlesche vicende municipali, era come il simbolo di qualcosa che si veniva a spegnere nel grigiore della ripresa controriformista. Del resto, anche nel gusto sobrio e veloce del racconto, il Dottori si dimostra vicino alle tendenze classicheggianti che sfociarono in Arcadia e riconferma la sua avversione sia al sontuoso matinismo veneziano che al barocco strapaesano del Tassoni (così come in certi episodi fiabeschi fa pensare meno al Basile che al Cortese). Un lungo discorso meriterebbe costui che fu il padre della letteratura napoletana, come lo stesso Basile, suo scolaro ed amico (ma tanto minor di lui nella produzione in versi), gli riconosceva lealmente. Giulio Cesare Cortese è l’iniziatore ancora misconosciuto della letteratura che fu battezzata eroicomica dal Tassoni, e che in lui, nonostante i toni parodistici e giocosi, ebbe un fondo più serio. I canti del suo poema sulle serve, La Vaiasseide, cominciarono ad uscire nel 1604 e menarono un certo scal-

pore, perché dedicati beffardamente alle dame della Corte granducale di Firenze, dove pare che il poeta avesse avuto, nel 1603, una disavventura amorosa. Se questa vicenda fu importante, decisivo per Cortese fu il viaggio in Spagna del 1601. Decisivo, perché egli capitò nel momento di maggior voga del gusto picaresco, quando il successo del Guzman d’Alfarache consacrava nell’eroe eponimo il pìcaro per antonomasia, oscurando la stessa gloria del Lazzarillo. Dal contatto diretto con la disgregazione sociale delle città spagnole, che aveva ispirato quel mondo, il Cortese dovette avere altre suggestioni per scegliere gli argomenti dei suoi lavori. Non sappiamo se nella casa dei conti Lemos abbia conosciuto di persona lo scrittore spagnolo che contemporaneamente a lui, continuando la tradizione della Celestina e dei racconti picareschi, tanta attenzione avrebbe dedicata al mondo popolare, fino ai suoi aspetti furfanteschi ed equivoci. Ma leggendo i tratti più belli della Vaiasseide e del Micco Passaro (il poema ispirato a un eroe del quartiere di Porto), non si può non concludere che tra le poche pagine del Seicento italiano ravvicinabili ai capolavori cervantini (e penso soprattutto ad alcune Novelle esemplari) sono da ricordare subito queste del Cortese. Schietta era la simpatia che egli vi dimostra per la plebe napoletana, anche se in effetti le intenzioni di rappresentarla con serietà non si concretano nella creazione di nessun personaggio di rilievo, e solo le figure femminili (specie Nora, la fidanzata di Micco) hanno una certa vitalità affettiva. La scelta del dialetto, che riportava 255

continuamente il discorso a toni letterari e parodistici, aggiungeva una nuova contraddizione rispetto al realismo dei grandi modelli spagnoli, che al Cortese non fornivano nessun suggerimento problematico, ma rappresentazioni sgretolate in episodi, anche se tanto più ricche, più intense e passionali di quel viceregno subalterno del quale si accontentò la sua immaginazione veristica. Resta tuttavia notevole nel Cortese la resistenza al moralismo controriformista e al virtuosismo idiomatico (al quale si abbandonò il suo amico Basile, e neppure Benedetto Croce, suo autorevole esaltatore, l’ha mai negato). Smussata da un amaro sorriso appare spesso nei versi del Cortese quella elegiaca fierezza della miseria che egli provò di persona (e si pensi alle pagine del Viaggio di Parnaso, dove favoleggiò come a se stesso la sua leggenda di intellettuale apicarado e sfortunato). Ben diverso invece, rispetto al mondo popolare, fu l’atteggiamento ideale e artistico del Basile, felice parvenu della nobiltà barocca meridionale e personaggio di primo piano in quella Corte dei Caracciolo d’Avellino, che divenne celebre per il suo fasto. Se vogliamo ascoltare una voce più autentica, che porta i toni burleschi fino alla tensione violenta della protesta e dell’invettiva satirica, dobbiamo leggere il siciliano Paolo Maura. Ma il continuatore del Cortese, colui che realizzò con energia e con maggior coesione drammatica e narrativa la sua proposta di un eroe popolare, fu il romano Giuseppe Berneri. Di lui e del Peresio (che lo precedette di qualche anno nel tentativo assai timido di un poema burlesco in dialetto) si è parlato di solito con una soggezione (forse inevitabile) ai polemici e sommari giudizi liquidatori nei quali il grande Belli coinvolse indiscriminatamente i suoi antenati, rispetto ai quali si sentì così nuovo e fu così rivoluzionario. Ma per intendere i due seicentisti romani, per apprezzarli con equità, bisogna collocarli nella loro effettiva prospettiva storica di epigoni più che di iniziatori: epigoni non solo della letteratura ma della « pittura burlesca » (come la chiamò il Lanzi). Ultimo e un po’ fiacco bambocciante fu il Peresio, descrittore minuto della Roma seicentesca, vedutista attentissimo nel collezionare una serie di stampe completa ma un po’ stucchevole per la monotonia del taglio e una certa pedanteria descrittiva. Solo qualche scena spettacolare fa stacco sull’ozio dei prolungati contrasti per la conquista del palio, da lui ambientati al tempo di Cola di Rienzo. Alcuni anni prima era stato pubblicato quel capolavoro trecentesco che è l’anonima Vita del tribuno romano, ma qui Cola è ridotto ad arbitro dei contrasti sportivi fra i campioni di Trastevere e di Monti, che si prolungano fino alla vittoria di Jacaccio, il quale, in premio, si sposa Nuccia a dispetto degli intrighi invidiosi e dei sortilegi maligni della solita strega. C'è la vecchia macchina con tutti gli ingredienti del maraviglioso che, misti ad elementi 256

borghesi di psicologia e di avventura, erano apparsi già nella Gerusalemme, a chiaro-scuro e contrappunto dell’eroico, e che parodiati o sviluppati in chiave comica si ritrovano in quasi tutti questi romanzi burleschi del Seicento. Spaventato di aver osato troppo, in quell’atmosfera di restaurazione e purificazione letteraria che successe ai tempi più allegri di Innocenzo X e di Donna Olimpia, e che condusse all’Arcadia, il Peresio pubblicò il suo Jacaccio emendandolo da tutte le forme che gli parvero troppo basse a cominciare dal titolo, sicché l’opera divenne Il Maggio romanesco (1688). Sette anni dopo, precedendo l’apparizione di Meneghino (altro eroe dell’Arcadia vernacola), Patacca assurse da maschera teatrale a maschera epica, attraverso una idealizzazione che senza dubbio era anch’essa controriformista, ma con diverso piglio, come si conveniva a un eroe romanesco. Mancano nel Meo Patacca quegli elementi di spregiudicata rappresentazione del costume che ravvivano il Micco Passaro. E diversamente dalle commedie del Maggi, qui si resta nella sfera delle classi subalterne, e le classi dominanti sono prudentemente ignorate. Pure, la plebe che si accalca intorno a Meo Patacca, suo idealizzato rappresentante e ipotetico moderatore, vien fuori con una fotte caratterizzazione. E proprio perché il Berneri ha ingegno drammatico, sa far muovere le figure della sua bambocciata, le sa far parlare e, soprattutto, mantiene nel piglio narrativo una sua coerenza di stile: se non sempre evita i pericoli, conosce anche i pregi di una certa maniera franca, aggressiva, e, insomma, realizza una popolarità non accademica. Il gusto barocco dello spettacolo che anima il poema del Berneri fino ad allegre punte di viltà e di crudeltà (come l’assalto al ghetto), invano lo cercheremmo nell’accademia rusticale o di Mercato Vecchio della Fiera e della Tancia. Eppure si può comprendere perché queste didascalie di macchine teatrali, accreditate dal prestigio della Crusca, abbiano fatto valere, oltre l’occasione contingente, i meriti del regista che montò scene di ben costumato folclore, a diletto della Corte fiorentina. Finché è durata

la superstizione linguaiola, opere come queste di Michelangelo Buonarroti il Giovane o come il Malzzantile di Lorenzo Lippi hanno tenuto cartello. Ma oggi di quelle commedione ci basta e avanza qualche scena; e dal poemetto burlesco di questo pittore letterato appena salviamo qualche episodio che trascrive in bella calligrafia le svolazzanti e frondose fiabe di quel Pertamzerone che gli aveva fatto conoscere Salvator Rosa e lo aveva eccitato a calcare le trite vie dello sfoggio idiomatico. Pure, se volessimo trarre troppo affrettate conclusioni sulla stanchezza e sull’esaurimento dei toscani, dovremmo riflettere un momento. A parte gli scrittori che ancora si affacceranno dalla provincia (si pensi ai volti maliziosi ed arguti del ZI

Neri e soprattutto del Corsini) c'è dell’altro e di meglio. E, per esempio, bastano i pochi versi di Pier Salvetti a mostrare la vitalità di una grande tradizione. Senz'altro, una figura minore; ma nei suoi monologhi attinge una garbata obiettivazione comica, che spicca in mezzo a tanta letteratura insipida o sciatta. E qui il discorso giustificativo di questa scelta ritorna all’età di Galileo, al quale di passata abbiamo già voluto rivendicare la massima grandezza e serietà di scrittore comico. A buon diritto il suo famoso capitolo antiaccademico apre l’ultima sezione, destinata ai satirici, ai ditirambici e ai didascalici, dove sono stati inclusi anche taluni scrittori giocosi, per motivi che subito saranno chiariti. Il primo gruppo è direttamente o indirettamente collegato con la scuola galileiana (Soldani, Redi, Bellini) o con la sua propaggine napoletana, l'Accademia degli Investiganti (come il giovane irpino Giulio Acciano). Alle posizioni di difesa del classicismo che assunse Galileo (si pensi ai suoi rifiuti sarcastici degli aspetti manieristici e morbosi del Tasso) si rifanno i loro gusti. E accanto a loro io credo si affianchino bene altri toscani come il Villani, l’Adimari e il Menzini, che portò fino all’Arcadia le istanze critiche già manifestatesi in quella liberazione giocosa dal barocco, il cui vertice è rappresentato da Salvator Rosa e dalla sua satirica protesta contro le metafore che avevano « consumato il sole ». Per questa convergenza da diverse direzioni e con diversa carica dissolvente del gusto barocco in gusto arcadico, trovano posto qui i versi giocosi del Bacco in Toscana, dove, col pretesto del lieto elogio del vino, un autorevole professore astemio chiamò a raccolta (si può dire) quanti volessero dissetarsi alle chiare, fresche e dolci acque del buon gusto. E trovano posto versi come quelli di Lorenzo Bellini giocati con rigore fantastico non inferiore al rigore scientifico del loro autore, con una serietà ed insieme una finezza

ignote a tanti giocosi del secolo. A cominciare da quelli che di umore facevano professione e magari si spacciavano per « satirici moderni », come l’Abati e il Leporeo, e che di rado lo furono, riducendosi piuttosto ad inventori di « frascherie » e di equivoci e bisticci molto più vicini a certa

rimeria medievale che non a misure classiche; come pretendeva il Leporeo,

ultima voce di quella romana Accademia degli Umoristi, che accolse tanti letterati e dove un friulano d’avanguardia poteva conquistarsi il suo quarto

d’ora di celebrità:

Di padre e madre son forlano italico, non son parzial né fazional diabolico: d’Ispagna o Francia la bilancia bilico, cristianissimo crai, poscrai catolico.

258

Fra tutti questi conformisti rivoltati, che a Roma trovavano sempre la capitale intellettuale d’Italia, suprema moderatrice dell’arte seicentesca, si distacca e si eleva Salvator Rosa, le cui satire ci appaiono in una posizione rappresentativa, perché esprimono le appassionate contraddizioni delle più diverse istanze letterarie, artistiche, morali e sociali, a mezza via tra l’estremismo barocco che ebbe a Napoli le sue punte e Firenze che fu il massimo centro della resistenza classicheggiante. Vissuto in tutte e tre queste città, al Rosa non sfuggì nessuno fra i temi importanti che toccano gli interessi più vitali o più clamorosi del suo tempo. Purtroppo, a dare ala al suo moralismo mancò non l’indignatio né l’impeto verbale, bensì la cultura, una superiore capacità di mediare in un ardito superamento ideale quell’amarezza seria che egli sfogava dilettantescamente (come accade ai velleitari d’ingegno), a dispetto anche di certa vanitosa pedanteria, che fu il suo limite nella stessa produzione figurativa. A proposito di pedanteria, qualcosa è da dire, infine, sui didascalici. Il Boschini non è mai aduggiato: ma egli è un’eccezione, uno dei rari che si leggano di voglia, per la corrente di simpatia e di cordialità che il suo dialetto stabilisce col lettore, trasmettendogli quell’entusiasmo pet la pittura veneziana che fu per lui la maturità e la classicità, il mom plus ultra dei moderni, ma che (contrariamente a quanto lui credeva) si era sollevata dalla cerchia municipale, attingendo alti ed universali valori. Quanto agli altri didascalici (Baldi, Bracciolini, Menzini) sono dei conservatori legati a momenti e livelli diversi, durante tutto il secolo, agli ideali

letterari che corrispondevano a tre fasi della Controriforma: sia che si appellassero a gusti tardo-rinascimentali, come il Baldi; o di reazione antirinascimentale, come il Bracciolini (il cui vade mecum per iniziare i giovinetti alla vita « civile » è veramente un documento significativo); sia che approdassero da involute, bisbetiche e per molti aspetti ancora barocche terzine satiriche, come Benedetto Menzini, al classicismo rococò di castigate forme d’idillio e ai primi teorizzamenti della conversione in Arcadia. Dalla sua assennatissima Arte poetica nella quale si prescrissero le prime misura controbarocche del « buon giudizio » e che fu composta a Roma (dove il Menzini era venuto al seguito di Maria Cristina di Svezia) abbiamo tratto il brano sul sublime che piacque anche al Leopardi, ma che col taglio tendenzioso della Crestomzazia, avrebbe potuto accreditare gli entusiasmi di una interpretazione romantica. In verità, l’unico scrittore che si elevasse al sentimento e alla coscienza critica del sublime e che alla fine del secolo « con grande impegno e serietà partecipò al movimento di restaurazione classica della età sua » fu un arcade ratione non moribus, il Vico, esule intellettuale da quell’età che non fu sua. La dottrinale canzone giovanile, che il futuro scopritore della grandezza di Dante e di 209

Omero scrisse nel 1692, esprime qualcosa di più che un’aspirazione all’alto e grande sentire, smarrito se non perduto da lunghi anni. Essa cantava una fede ritrovata oltre gli esercizi del culto e della dottrina, oltre il solitario e tanto sospetto pessimismo stoico. Estraneo all'avanzata della scienza e del materialismo moderno, era lo storicismo provvidenziale che s’annunciava e che schiudeva prospettive conservatrici tanto più elevate, perché s’inarcavano verso il futuro, su di un’onda molto più lunga, molto al di là del barocco e dell'Arcadia. 1964

260

PERSEASPOESIA=DEL4SELLECENTO

Per realizzare una silloge ampia, che non si limitasse a ricalcare quelle precedenti e includesse integralmente alcune opere rappresentative della letteratura drammatica e non tralasciasse databili e memorabili testi di letteratura popolare, anche ai poeti del Settecento è stato necessario riservare i due tomi che formano il volume ottavo del nostro « Parnaso ». Nella prima sezione sono raccolti i testi della drammaturgia arcadica e del Metastasio, perché appunto agli inizi del secolo il teatro è al centro delle discussioni più sollecitanti, per la nostra letteratura, a riconquistare una presenza creativa fra le letterature di Europa. La rappresentazione applauditissima di Racine e Corneille già dalla fine del Seicento costituì un fatto non meno rilevante della fondazione dell'Arcadia (1690), destinata ad essere un’accademia unificatrice e nazionale, ben diversa da tutte

le altre già sorte dovunque. Si trattava di recite (a Bologna e a Roma) in ambienti che non potevano certo paragonarsi alla corte del Re Sole. Ma l’impressione fu memorabile. « In Roma abbiamo veduto ritornar la tragedia; e comeché sfornita di musica e ripiena di lutto, ognun sa quanto sia stata osservata ed applaudita da tutta Roma ». Così il custode generale dell’Arcadia, il canonico Giovanni Mario Crescimbeni (La bellezza della volgar poesia, dial. v:). Non potevo non sottolineare l’inciso che caratterizza in modo così sintomatico il livello, le reazioni e gli orientamenti « ufficiali » in quella città che aveva ancora funzioni di capitale della nostra cultura. Grazie alla circolazione e alla presenza non solo di opere drammatiche del grand siècle, ma del pensiero dei filosofi e moralisti francesi e ben presto degli illuministi inglesi (da Bacone a Locke) la coscienza del decadimento provinciale in cui si era ridotta l’Italia si fece strada in tutti, accompagnata dalla fiducia e dal desiderio di una « riforma » generale della cultura. Sicché il movimento letterario, che prese nome dalla famosa accademia romana, non poté essere contenuto nell’ambito di una restaurazione 261

antibarocca del « buon giudizio » e del « buon gusto » (come avrebbero voluto il Menzini, i gesuiti e tanti cosiddetti prearcadi, secondo l’infallibile prassi cattolica di svuotamento formalistico, del conservare innovando).

Ciò caratterizzò gli aspetti più innocenti e più accettabili dell’Arcadia. Ma le istanze di restaurazione classicistica, levatesi alla fine del Seicento in tutta Italia, non furono tutte riducibili sotto il simbolico « autorizzamento » di Sannazzaro e sotto la protezione del Bambin Gesù, anche se i contrasti ideali di fondo, in una società economicamente ancora stagnante e culturalmente ancora vigilata dal Sant'Uffizio, dovevano essere dissimulati e coperti dal fragore delle polemiche letterarie.

Le discussioni sul teatro furono decisive a far polarizzare due posizioni teoriche, quella del Muratori e quella del Gravina, altamente significative delle due Arcadie, in cui bisogna distinguere il movimento letterario che dall’età dell’assolutismo

(come

è più conveniente

chiamare

i

primi decenni del secolo) continua e si prolunga fino alla stessa età napoleonica. In questo lento tramonto stancamente persistono gli aspetti abitudinari, generici, negativi. Ma nuovi bisogni di cultura e nuovi ideali si affermeranno nel processo di dissoluzione del gusto arcadico, che nella seconda metà del Settecento si accompagna a nuove situazioni politiche e sociali: quando cioè nei vari Stati italiani il riformismo acquisterà un ben diverso vigore polemico, sollecitando l’ascesa della borghesia ed esprimendo più concrete e meno utopistiche prospettive di rinnovamento. Nel determinare il contenuto positivo di una letteratura che non fosse inutile esercizio d’ingegnosità, sia il Muratori che il Gravina erano ispirati da serie esigenze morali e civili. La vecchia formula dell’utilitarismo. estetico era riaffermata contro il culto abnorme dell’arte che sempre caratterizza le epoche di decadenza. Ma le proposte di riforma tendevano a divergere profondamente. I principî del « lume naturale » erano la premessa comune di comuni principî filosofici. Ma i « lumi » del pio Muratori non avevano le stesse finalità culturali dell’« illuminato » Gravina. Muratori proponeva un ideale « buon gusto » concepito come disposizione dell’intelletto e virtù morale, di interesse « universale », non ristretto alla sfera estetica, « siccome quello che scorre per tutte le scienze e per ogni sorta di letteratura ». Si trattava di superare la « disavventura »

storica (come egli preferiva chiamare eufemisticamente la decadenza italiana: « vera o supposta », aggiungeva con cautela). E si limitava a rivendicare la « libertà cristiana dell’ingegno », assegnando paternalisticamente alla poesia il compito di « figliuola e ministra della morale filosofia ». Egli auspicava una letteratura che non solo non nuocesse alla società, ma consolasse l’uomo da ogni « pubblica calamità » e lo rasserenasse nella 262

aspirazione tranquilla e fiduciosa di una provvidenziale « pubblica felicità », senza addentrarsi nei « misteri di contraddizione » che oscurano il corso provvidenziale della storia, senza sprofondarsi nel misticismo e nelle pericolose controversie teologali che, dopo le guerre di religione, vedevano ancora schierati in campo gesuiti e giansenisti, lassisti e rigoristi. A proposito della Perfetta poesia di Muratori (pubblicata nel 1706) fu detto dal Baretti che avrebbe dovuto intitolarsi perfetta « pseudopoesia ». L’arguzia di Aristarco si appuntava sui limiti profilattici, prudenziali, precettivi dell’estetica e della stessa critica di quel grande erudito. E in effetti Muratori non fu un preilluminista, ma un aggiornato riformatore cattolico, un moderatore degli ingegni e un regolatore della devozione. Attentissimo ad apprezzare la spregiudicatezza di chi dimostrasse « buon gusto universale » nel godere le « bellezze dell’ebraica poesia », era ancora impigliato nel rifiuto barocco di Omero e di Dante. Ottimo chiosatore del Petrarca mediocre o degenere, dinanzi ai capolavori delle Rizze era vincolato da preoccupazioni pedagogiche per la sensualità peccaminosa che vi avvertiva, messo in guardia dal grande Castelvetro (che era meno sprovveduto di certi critici odierni, ai quali bisogna riservare il Limbo dell’infanzia estetica). Perciò, con perfetta coerenza di criteri, mostrando la sua simpatia per il « purgatissimo gusto » di Racine, ne rifiutava la Phèdre (anche per la sua struttura artificiosa), e pregiava invece la casta Iphigénie, esemplare per le denunce delle superstizioni pagane. Perciò avversava con particolare energia il melodramma, che tanto repugnava alla ragione moralizzatrice del suo « buon gusto ». Tra i primi ad intervenire nella polemica sul teatro, il Muratori ebbe sui drammaturghi dell'Arcadia un influsso decisivo. Erano suoi amici e seguaci gli eruditi Apostolo Zeno e Scipione Maffei, che nel 1710 fondarono il « Giornale dei letterati d’Italia », vessillo della risorgente lettera-

tura a emulazione di quella « oltremontana » che era sempre più letta, tradotta ed applaudita. La pruderie controriformista dello Zeno si manifestò chiara nella dedicatoria

delle Poesie

sacre

drammatiche

(Venezia

1735) all’imperatore Carlo VI, dove si vantava di aver reagito al gusto « comico ed effeminato » e di aver preferito alla tematica erotica esempi eroici di virtù, scelti « dalla antichità greca e romana, e dalla barbara ancora ». Come aveva già dichiarato al marchese Giuseppe Gravina (1730), egli volle estendere al melodramma i propositi espressi dal Muratori nell’opera Della perfetta poesia e tentare da parte sua lo stesso « miracolo » operato dalla Merope del Maffei, « piacere a tutti senza mescolamento di amori ». Epperò, aprendo « qualche strada al regolamento del melodramma », aveva operato con la convinzione di riabilitare dalla condanna del suo pio amico il « mostro odioso ». 263

Ho riportato la Griselda dello Zeno e la Merope del Maffei (letture da raccomandare ai facili dispregiatori del Metastasio) appunto perché sono due testi significativi del teatro arcadico, anche se il melodramma dello Zeno è solo un ben regolato congegno, costruito sul tema della famosa novella di Boccaccio, già esemplarmente favoleggiata dalla traduzione del Petrarca. La tragedia del Maffei conteneva invece nella sua favola non « barbara » elementi di attualità politica, che (insieme alla polemica letteraria italo-francese) ci fanno comprendere l’interesse che poteva suscitare ai tempi dei conflitti dinastici e delle guerre di Successione il finale trionfo delle vittime di un tiranno e la sublimazione dell’amor materno di Merope, che restituisce il legittimo trono al figlio e vendica così il marito ucciso dall’usurpatore. La contraddizione e i limiti di questa tragedia arcadica erano nell’energia tutta velleitaria che sia la protagonista che il suo antagonista Polifonte esauriscono in parole, perché l’una si esalta di una violenza e l’altro di un machiavellismo che poi non si concretano in azione. E comprendiamo perché, a rifare la sua struttura artificiosa e a dimostrare che tanta fama era stata usurpata, prima Voltaire e poi, con maggior successo, l’Alfieri si impegnassero in rifacimenti che pur erano un omaggio alla valida suggestione del tema prescelto dal Maffei. Ma il valore effettivo dell’opera sarebbe poi stato ridimensionato dal Lessing nella Drammaturgia amburghese, a suggello delle discussioni che si protrassero per un cinquantennio. E così si definì il carattere letterario e la monotonia di quel « mirabile », che con le sue incalzanti sor-

prese non riuscì più ad ottenere gli effetti di cui buffamente discorre un personaggio, magnificando l’opera stessa che si rappresentava: Con

così strani

avvenimenti

uom

forse

non vide mai favoleggiar le scene.

Nel teatro arcadico il mirabile era un necessario surrogato intellettualistico, in assenza di vere e proprie collusioni drammatiche. Seri conflitti non si manifestavano nella vita reale della sonnolenta Italia, epperò non potevano riflettersi nella coscienza. Non c’era stato da noi nulla di paragonabile a quel movimento culturale così ricco di contrasti da cui erano usciti i drammi di Racine e di Corneille. E aveva ben ragione Giulio Cesare Becelli (un critico pseudoinnovatore, incautamente spacciato, per il suo anticlassicismo, come preromantico) a considerare la tragedia estranea e perfino inutile ai nostri costumi. L’Italia (egli diceva) non ha bisogno

di catarsi, « perché tale purgazione è a’ dì nostri [1732] soverchia, non avendo le dette passioni per lo cheto e pacifico vivere alimento alcuno e ragione come negli antichi tempi, e perché in ogni caso, migliori rimedi a tali passioni ci sono offerti dalla religione cristiana ». 264

Arcadia e dramma erano termini contraddittori, e gli esperimenti sui quali molti letterati si ostinavano, non potevano che rimanere nell’ambito

di velleitarie esercitazioni, sia che puntassero sulla forma metrica (come le tragedie di Pier Jacopo Martello), sia che si presentassero con un ostentato impianto ideologico, come quelle del giureconsulto e filosofo Gravina (1712), che celebravano alti ideali di una regalità ispirata ai « sempiterni lumi di giustizia », capace di alleviare il popolo dalle prepotenze dei patrizi

e dei sacerdoti loro complici. Queste tragedie politiche, maturate nell’atmosfera della Napoli giannoniana, furono un ottimo pretesto (per la loro forma infelicissima) a polemiche retrive che coinvolgevano in effetti tutto il pensiero del Gravina: la sua concezione non solo dell’arte, ma della cultura e della vita civile. La sua secessione dall’Arcadia, e la nascita dell’Accademia dei Quirini (1714), che egli fondò con i suoi discepoli Metastasio e Rolli, fu la conseguenza coerentissima di un lungo dissidio col Crescimbeni che non era personale, ma si incentrava sui suoi principî filosofici di « luminoso » (come egli si era dichiarato fin dal 1691 firmando con lo pseudonimo di Prisco Censorino Fotistico il suo parzphlet contro la casistica dei

gesuiti, l’Hydra Mvystica). La funzione illuminante e civilizzatrice che il Gravina

assegnò all’arte nei suoi trattati Della ragion poetica (1708)

e

Della tragedia (1715) influì soprattutto sugli sviluppi del neoclassicismo da Parini a Foscolo. Ma il retaggio aristotelico presente nel suo pensiero gli conferisce un’ampiezza di respiro notevole, che va al di là della poetica neoclassica, se pensiamo che i modelli da lui proposti erano i sommi di tutti i tempi: da Omero a Dante, da Eschilo ad Ariosto, « i primi imitatori e ritrovatori », che « sono sempre i più vicini al fonte e congiunti alla realità ». E in verità senza l’affrancamento iniziale, operato dalla sua disciplina umanistica e dalla sua mente laica, anche il modesto classicismo arcadico e rococò di Metastasio e Rolli non sarebbe stato concepibile. Alla soglia dei cinquant’anni, scrivendo ad Algarotti dopo l’abbozzo dell’Azzilio Regolo (1747), il Metastasio poteva anche permettersi di cicalare con distacco un po’ ironico sul « grande arredo che ostentava nel

tempo della sua adolescenza tutta la giovane illuminata letteratura ». Il fatto è che era stata decisiva per lui la cultura meridionale antigesuitica e giansenistica, il cartesianesimo del suo maestro Caloprese, che, col cugino Gravina, gli aveva insegnato a distinguere il « grande Petrarca » da quello mediocre, e con la frequenza assidua di Omero e Ariosto gli avevano inculcato per sempre un sobrio gusto di chiarezza sintattica e semplicità lessicale, che Virgilio e Tasso (da lui amati a dispetto degli stessi canoni graviniani) arricchirono di pateticità e chiaroscuri, ma non obliterarono mai. Dopo i versi estemporanei della infanzia fino a quando tacque per 265:

sempre, l’« annosa lira » del poeta approdò alle soglie dell’arduo gusto neoclassico, ma non le varcò. Per settant'anni, dalla tragedia di tema gravi

niano, il Giustino (1712), il poeta mostrò una costante fedeltà a un linguaggio sobrio e lineare. E la sua vocazione e il suo impegno di artista furono quelli di rappresentare l’ideale eudemonistico di un dramma senza

catastrofe, dove i momenti più drammatici si risolvono nella limpida, razionale misura del ritmo e del canto. A malincuore ho dovuto lasciare fuori dalla scelta la Didone abbandonata (1723) e soprattutto la festa teatrale Enea negli Elisi ovvero Il tempio dell’Eternità (1731) dove l’eroe si concilia con Didone, e Anchise gli perdona i suoi trascorsi grazie alle sue virtù, non così facili e comuni come la sua del resto temporanea servitù d’amore. Questo epilogo nel-

l’elisio dei sogni in qualche modo costituiva la obiettivazione mitica dei suoi ideali di poeta, che non aveva saputo rifiutare le tentazioni della contemporaneità, e non aveva voluto rinunziare all’eterno, e si sentiva in debito con l’ombra di colui che fu suo padre adottivo, sebbene avesse perseguito costantemente la composizione di un dramma moderno che fosse alla altezza dei classici per la virtù dei suoi eroi e gli facesse perdonare le favole sentimentali. Tra le sue opere sono affatto trascurabili, dal punto di vista estetico, le azioni sceniche « sacre », ma sarebbe stato mutilante e tendenzioso ignorare tutta la serie dei melodrammi di argomento classico ed in particolare romano. Perciò la scelta è caduta su due delle opere più rappresentative e più perfette stilisticamente, L’Olimzpiade e l’Attilio Regolo. E non ho trascurato gli importantissimi intermezzi per la Didone, L’impresario delle Canarie che, con l’artificio del teatro nel teatro, ci introducono sorridentemente nelle condizioni reali della società italiana e ci mostrano le resistenze che essa opponeva alla nascita di una drammaturgia moderna. È verissimo che non si può ridurre tutto Metastasio a interprete di una situazione oggettivamente comica, per quelle velleità ancora impotenti, agli inizi del secolo, di riformare un mondo che non aveva le forze sociali capaci di operare un serio rinnovamento ed esprimere il conflitto tra il vecchio ed il nuovo. Ma è anche vero che il Metastasio non fu un puro letterato di corte il quale metteva al servigio dell'impero absburgico le sue capacità molteplici di scrittore, esperto di musica e di canto, e compiuto regista di spettacoli. Quando si cita il suo famoso, emblematico sonetto Sogni e favole io fingo, non bisognerebbe

dimenticare la preziosa didascalia in prosa: « scrivendo l’autore in Vienna l’anno 1733 la sua Olimpiade, si sentì commosso fino alle lacrime nello

esprimere la divisione di due teneri amici: e meravigliandosi che un falso e da lui inventato disastro potesse cagionargli una sì vera passione,

fece a riflettere quanto poco ragionevole e solido fondamento 266

si

possano

avere le altre che soglion frequentemente agitarci nel corso di. nostra vita ». Per gli scrittori barocchi la calcolata sorpresa della « meraviglia » agiva sul piano oratorio della fredda invenzione spiritosa. In Metastasio fu un elemento costante di ogni sua autentica situazione poetica: era ingenuo e tenero incanto di fronte al maraviglioso dei sentimenti umani, che ci turbano e sconvolgono nella vita reale, ma ci fanno trasognare se diventano spettacolo e poesia. Era stata la psicologia di Cartesio, ed in particolare il trattato su Les passions de l’àme, che gli aveva insegnato a distinguere le sei passioni fondamentali dell’uomo, da quella primordiale ed ingenua che è la maraviglia, all'amore, all’odio, al desiderio, alla gioia, alla tristezza. Era stato il Cartesio del suo maestro Caloprese ad inse: gnargli l’uso ottimistico di questi movimenti naturali che non si devono fuggire nella difficile atarassia, ma si possono moderare, differendo le decisioni tumultuarie e rimettendoci all’uso regolatore e smitizzante della

ragione, fiduciosi nel decorso provvidenziale delle vicende umane. Perciò il melodramma doveva essere non la forma poetica di un conflitto di sentimenti, ma la forma di una patetica incertezza di comportamento. L’amore o la virtù potevano ingenerare un maraviglioso di tipo nuovo, dove il differimento dell’epilogo ci serba il piacere finale del lieto fine: una felicità privata o una felicità pubblica, comunque sempre un lieto fine per tutti. Tutte le ambagi e i palpiti del poeta, dei personaggi, degli spettatori, devono ritrovare nella struttura del melodramma l’appagamento di un sogno razionale. Epperò l’irreversibile fluidità degli eventi dev'essere affidata ad una forma che trascorra con limpidezza, talché i grandi ideali elementari, ridotti a convenzione generica e a luogo comune

si esprimano

universalmente in un linguaggio di estrema facilità, orecchiabile come un motivo di canto che l’umanità abbia ascoltato da sempre, che soddisfi la ragione e appaghi il cuore come un lieto sogno armonioso. L'epilogo di

ogni scena e di ogni azione si svuota così di ogni tensione e non si carica di nessun segno negativo: il commiato più patetico, quale che sia il destino dell’« anima bella » che dice addio a ciò che vi può essere di più caro al mondo, si conferma sempre in un valore acquisito per sempre, anche se labile come un sogno e maraviglioso come la voce umana quando riesce a tramutare in canto le parole più comuni. Dinanzi a questa arte gli stessi critici che sono partiti con animo avverso si son dovuti ricredere. Lo stesso Croce, partito per contraddire il De Sanctis e limitarne il giudizio positivo su questo che è il più grande

dei poeti minori, ha dovuto riconoscere che « una lieve inflessione basta a convertire le parole usuali in alate liriche, a far sentire una commozione che trema nell’anima, a creare una immagine poetica ». Ho

trascelto

numerosissime

ariette.

Ma

perché

sono

il corollario

267

logico e lirico di tutta una situazione e la coronano con grazia suprema, talvolta le ho riportate con tutta l’azione scenica che concludono. La forma melodrammatica era per il Metastasio una vera totalità strutturale e se le sue poche canzonette non sono confondibili con quelle degli altri lirici, è proprio perché (come è stato osservato) sono dei melodrammi in miniatura, e attingono con l’assoluta limpidezza di linguaggio quella « mirabile chiarezza ed espressiva locuzione » che per lui era il fine del poeta drammatico. Fu così che egli realizzò come nessun altro quell’augusto ideale del poeta che secondo il Gravina, proprio come un principe savio ed umanitario, non può occupare « felicemente il trono della gloria, né col solo popolo né senza il popolo ». Questo linguaggio poetico e popolare (di un popolo che veda consacrato il buon governo dell’assolutismo come il migliore dei mondi possibili) era la conquista più duratura della nostra civiltà poetica dopo l’Ariosto e dopo il Petrarca, e costituì d’ora in poi l’educazione letteraria di base, contribuendo potentemente a quell’unificazione della retorica che fu la benemerenza storica dell'Arcadia. Il Metastasio fu il maestro incontestato

del secolo. E nella sua lunga vita giunse a vedere e salutare con benigno cortese apprezzamento le evoluzioni formali dell'Arcadia fino al gusto lugubre, anche se non poteva condividerlo, anche se poté giungere ad accennare tutt'al più movenze liriche tra il rococò ed il neoclassico e perfino di liberazione giocosa da quel gusto (come il lettore potrà vedere attraverso la scelta dei brani). I petrarchisti, i melici e gli erotici compresi nella seconda sezione contemporanei se non coetanei del Metastasio e rappresentano i momenti essenziali della lirica arcadica della seconda e della terza generazione: da quella più castigata (Petronilla Paolini Massimi, Faustina Maratti Zappi, Eustachio Manfredi) o più leziosa (Giambattista Felice Zappi) che brillò nei primi decenni, sino a quella più libera nel contenuto, nei temi e nello stile (Rolli, Crudeli, Frugoni), che voltò le spalle al petrarchismo platoneggiante e a quelle che « particolarmente a’ fisici e democratici filosofi, onde per sua gloria questo secolo felicemente abbonda » sono

(come diceva il Gravina) sembravano « invenzioni sottili più che vere, ed

esagerazioni pompose più che naturali ». Non è parso giusto trascurare il canzoniere del Magalotti, che dopo la sua composizione (1690) circolò manoscritto, anche se fu pubblicato solo nel 1762, alla vigilia del Giorzo. Certi suoi versi non restarono ignoti al Leopardi che se ne ricordò nella canzone Alla mia donna (e vi annotò l’evidente, comune reminiscenza della « femme qui ne se trouve point » di Saint-Evremond). Sono importanti anche perché non riducibili a quel 268

petrarchismo purgato ed esangue che ebbe nei versi del Manfredi per la Giulia Vandi la corretta espressione conclusiva del buon gusto muratoriano. Al Leopardi il Manfredi appariva nei suoi giusti limiti di « chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza ». E non è che sia più caldo di lui il Magalotti, col suo canzoniere tutto di testa e senza nemmeno l’appiglio di una vicenda umana. Tuttavia il suo consapevole sorriso di amante immaginario e che sta (per così dire) all’odore, spicca nelle tarsie marmoree delle sue composizioni, dove le vere e proprie citazioni del Petrarca fanno meglio risaltare il suo edonismo intellettuale. E, fatta la tara sui suoi propositi

di « spiritualizzare »

[...] le materie

che sono

incentive

de’ medesimi sensi » egli riesce noioso quando platonizza le « adorate larve », ma squisito (anche se inferiore alla più libera stilizzazione della sua prosa) nel descrivere i « diletti » di cui « in un giorno solo » la donna immaginaria è protagonista come una dama del bel mondo pariniano. Da questo ambiguo platonismo che la vecchia Italia ipocritamente ancora proponeva e che era « veramente insulso tanto quanto vano » (diceva il Gravina nella celebre lettera al Maffei Della divisione d’Arcadia)

non potevano certamente liberarsi gli Arcadi della prima generazione, ma solo quelli che estesero la secessione romana fino ad emigrare dall’Italia e si misero a riparo dal paternalismo culturale di precettori ecclesiastici più o meno forniti di lumi. Lo « spirito de’ Greci e Latini » che il Gravina auspicava per la lirica cominciò ad aleggiare nei versi di Paolo Rolli che, dopo il Metastasio, nella prima metà del secolo è il nostro più attivo ed originale poeta di livello europeo, andato a fiorire nell’Inghilterra illuministica di Pope e di Addison. Con lui si delinea un’Arcadia che non vorrei chiamare di sinistra (adottando con diversa collocazione la metafora parlamentare già adoperata da Carducci) ma che certamente era più avanzata di quella che imperversava in Italia. Era un’Arcadia che assumeva con disinvoltura le posizioni dell’edonismo estetico e puntava non più sul maraviglioso del melodramma psicologico, ma sulle impressioni del « sesto senso » (come lo chiamò il Dubos), sul gusto per le nitide immagini della bellezza muliebre e degli scenari naturali. Oltre alle canzonette del Rolli, accanto ai pochi e più fini versi del Crudeli e del Cassiani la presenza di un’ampia scelta del Frugoni non abbaglierà certo il lettore, che saprà distinguere tra il talento figurativo di quei due poeti schivi di applauso e il celebratissimo Comante, che a Parma, nella piccola reggia dei Farnese e dei Borbone, produsse con facilità di espertissimo artigiano ogni genere di verso che la moda letteraria esigeva per il lusso ed il decoro degli agiati: il volgo della nobiltà e della borghesia intellettuale, che pur aveva il capriccio di volersene fregiare. Con superficiale indifferenza il Frugoni aggiornò continuamente la sua retorica, dall’Arcadia sonettiera fine secolo,

269

al rococò delle canzonette, fino al gusto neoclassico delle odi e del verso sciolto. Ma a decidere le svolte di gusto nella letteratura di consumo furono tuttavia altri scrittori. Altri furono i ricercatori consapevoli, gli inventori di modi stilistici nuovi, epperò li abbiamo raggruppati nella sezione sesta intorno ad uno squisito artista, il Savioli Fontana, senza trascurare l’opera di quei traduttori elegantissimi dal Conti al Lamberti al Pagnini che oggi siamo in grado di considerare come un momento significativo nella storia del gusto settecentesco. Come si è letto altre volte, nella compilazione di una antologia si devono affrontare degli ostacoli pratici, quando non si voglia seguire un criterio comodamente cronologico o non si possa abbandonare la nozione di genere che è stata valida più che mai in quanto tradizione di stile e di gusto dentro cui gli scrittori decisero le loro scelte congeniali. Una sezione di didascalici si imponeva per caratterizzare sul bel principio del secolo la sua inclinazione alla prosa, la tendenza a considerare il verso come un ornamento, l’illusione di conferire una qualche serietà all’ozio della « metromania » (come la chiamò il Piron in una famosa commedia). E anche qui nel corso del secolo ci avviamo dall’Arcadia restauratrice del gusto cinquecentesco (tipico il muratoriano Baruffaldi) per imbatterci a metà strada in Giambattista Roberti, che come tantissimi gesuiti predilesse questo esercizio letterario casto e insieme mondano. Il Roberti orecchia le varie forme e i vari metri del poemetto didascalico (dalle giovanili ottave moraleggianti sulla Moda agli sciolti sulle Perle che ambiscono alla conciliazione tra l’eredità umanistica e le moderne esigenze della scienza): salvo a dare il meglio di sé nell’innocente ghiottoneria del poema sulle Fragole. Si sa che mai come nel Settecento imperversò questo che è il più noioso tra i generi di « pseudopoesia », tutti essendo convinti che ogni argomento fosse versificabile, non esclusa la Somzzza di Tommaso d’Aquino. E si comprende come da questa calamitosa letteratura ben poco si possa salvare oltre i due scrittori che, per consenso generale, all’entusiasmo delle idee ebbero pari la squisitezza dell'educazione letteraria: il condillacchiano Rezzonico e lo scienziato Mascheroni. Ho dato per intero il poema del Mascheroni, perché, sorretto da un moto di eloquenza neoclassica, composto nel nobile gusto monumentale del tempo, è una sorprendente eccezione, accanto al migliore lavoro dell’arcadia georgica, La coltivazione del riso del veronese Spolverini, nato dalla viva esperienza di un grande agricoltore e non già (come la Coltivazione de’ monti di Bartolomeo Lorenzi) da una fecondità improvvisatrice di epigono e di attardato. Ma forse proprio per questo il lavoro del Lorenzi ebbe una grande fortuna, come si addiceva alla mediocrità, prolissità e discorsività prosaica che era

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il retaggio passivo dell'Arcadia, perdurante nella seconda metà del Settecento e oltre, anche quando la reazione polemica di un rinnovamento non formale della nostra letteratura conferì a questo termine storico una accezione in prevalenza negativa, che la pietas eclettica della storiografia idealistica ha creduto di dover rifiutare con argomenti solo in parte plausibili. Senza dubbio nessun evento politico di rottura maturò dal profondo della società italiana nel corso del Settecento e cancellò quell’illusione di continuità che i letterati più provinciali potevano farsi, anche quando giunsero fino a noi le ondate di quel moto culturale dell’illuminismo che accompagnò la Rivoluzione inglese e preparò la Grande Rivoluzione. Quanto accadde negli Stati italiani dopo il trattato di Vienna (1738) e la pace di Aquisgrana (1748) fu solo il riflesso di contrasti tra le grandi potenze europee. E le iniziative riformatrici ebbero il corso breve e involutivo che sappiamo. È dunque spiegabile perché la superstizione del gusto arcadico, il lungo tramonto di un abito mentale, prima che letterario, affatto anacronistico si conservò così a lungo. Com'è evidente, questo processo non riguarda solo gli ultimi autori inclusi nella sezione quinta, dove le persistenze sono più evidenti, ma anche alcuni scrittori della sezione nona, contrassegnati dal gusto notturno e sepolcrale, che adombrerà, magari in superficie, la loro mutata retorica. Colui che assommò in sé non solo gli aspetti negativi di questa resistenza, Giovanni Meli, meritava il riconoscimento di una posizione centrale e di rilievo. La circolazione della sua opera, nonostante i limiti del dialetto, gli omaggi di traduttori non solo italiani e stranieri (dal Lamberti al Foscolo al Goethe) furono agevolati appunto dal rinnovato piacere che procuravano i temi più comuni e i modi più raffinati riflessi in quel siciliano così amorosamente lavorato: uno specchio (si credeva) naturale e sorgivo come una fonte, dove le immagini apparivano in una schietta ingenuità. Studiata più attentamente l’opera del Meli rivela una grande varietà di aspetti: dall’Arcadia giocosa a quella sentimentale e perfino lugubre, dal naturalismo bucolico e rococò, al realismo linguistico dei ditirambi, al gusto per il racconto sociale (come La monica dispirata, dove s’affaccia perfino Diderot mediato da Casti, non estraneo alla pungente ironia di certe cronichette e stampe del costume palermitano). Anche se siano da respingere le ingenue interpretazioni critiche di un Meli preverista o preromantico, una scelta più ampia sarebbe stata certamente opportuna e avrebbe giovato a presentare in tutta la sua versatilità questo artista finissimo, intrattenuto in Arcadia dall’accettazione non del tutto passiva di una vecchia società arretrata, che passò dall’arcien régime alla ZIA

Restaurazione come in un sogno: lui stesso poi non infelice di ritrovare «li cosi a lu so locu », dopo venticinque anni di tempeste continentali. Ma in questo sogno non erano mancate speranze e tentativi di rinnovamento, intorno al viceré Caracciolo. E il Meli stesso non fu ignaro del pensiero moderno (come credette il De Sanctis) né estraneo a velleità riformatrici, seppure caute e tali da fargli sembrare audace anche il più pacifico degli illuministi, Bernardin de Saint-Pierre, che in un suo poemetto (composto dopo il crollo delle illusioni riformatrici) accoglie nei Campi Elisi Don Chisciotte tra le anime inclini « per istintu a ben oprati »: l’idea di Don Chisciotti si prefissi, ma spata nun ’mpugnau, raggiuni dissi. Chistu troppu fidau su la ragiuni, né calculau l’umani passioni: chiddu troppo fidau su lu spatuni, né calculau la sua condizioni.

Come è stato osservato, in Meli, che aveva assunto da giovane lo pseudonimo accademico di « lu Stravaganti », c'era del Don Chisciotte e del Sancio Panza: i personaggi (diciamolo subito) del suo poemetto, che era una interpretazione (più che imitazione) del capolavoro cervantino, concepita con grande simpatia e intenerimento per quell’« eroi di desideriu ». Ma il Meli, benché tutto preso dall’umanitatismo così diffuso nel suo secolo per i contadini, si mostra pronto a mostrarci il suo genio incredulo e « ioculanu », pronto ad arretrare alla ragion bertoldesca di Sancio che « cunta favuli e va moralizzannu », fatto savio dagli infortuni altrui e dall’esperienza (« ma scola li pazzii, scola ci sugnu / li spropositi o nostri o d’autri genti »). L’impareggiabile grazia delle sue Favuli murali, fiorita in cima ad una lunga esperienza d’arte, ad una cultura letteraria assimilata con prontezza e discrezione estrema, si apprezza ancora di più se leggiamo gli altri favolisti. Perciò li ho collocati accanto a lui, per una lettura che stimoli il confronto. Ben pochi spiccano tra la folla dei tanti verseggiatori che variarono le loro esercitazioni gnomiche sui classici temi di Esopo e di Fedro, e dell’inimitabile La Fontaine, o del più moderno e banale Florian. Dalla mole di tanti volumi è svanita ogni traccia di quel profumoso utilitarismo che impolvera i migliori e ne segna il fascino e il limite storico. Come si vedrà dai profili, se non dalla scelta, gli scrittori accolti nella sezione dei favolisti coltivarono anche altri generi, ma attraverso esperienze non caratterizzanti: come, ad esempio, il Pignotti (che è tra i più arguti e si colloca tra il Crudeli e il Casti, essendo marginali le sue espe272

rienze ossianesche), e come il più attardato di questi favolisti del Settecento, il romano De Rossi, il cui stile ha il nitore icastico del rococò e si fregia di eleganti personificazioni neoclassiche.

A. sollecitare un mutamento non solo formale e di gusto dovevano intervenire le forze culturali decisive dell’illuminismo, che operarono più fecondamente dove più profondo era l’humus storico-sociale nella seconda metà del Settecento, quando acquistò un valore nuovo il celeberrimo detto « cose non parole » che per primo aveva pronunciato il Berni. Certo, non furono i corrotti figli dell’arcadia bernesca ad esprimere il nuovo. Epperò della rimeria « piacevole » dei capitoli, a cominciare da quelli del Fagiuoli, il lettore non troverà quasi nessuna traccia nell'ampia sezione che si intitola « letteratura giocosa, moralistica, satirica e libertina », perché l’atteggiamento psicologico che prevale in uno stesso scrittore non sempre esclude gli altri, quali che siano i generi metrici e letterari. In questa sezione settima si è tentato, per quanto è stato possibile, un raggruppamento intorno ai centri culturali che per l’attività letteraria costituirono una sollecitazione e una condizione

storica tanto più impor-

tante quanto più, dopo il 1748, gli Stati della penisola si differenziarono attraverso un ineguale sviluppo economico politico e sociale, e nacque una favorevole atmosfera di concorrenza e di emulazione. Sicché i sospiri illuministici di Algarotti ad una capitale che non fosse solo un « serbatoio » dell'Arcadia si tramutarono presto nelle preoccupazioni reazionarie del Bettinelli, sfavorevolmente colpito dalla constatazione che non esisteva più l’unità controriformista della cultura, di cui l’Arcadia era stata l’ammodernamento e la liquidazione. Roma vide esaurire ben presto nel cinquantennio centrale del secolo la vita letteraria che tra il 1690 ed il 1720 era già andata spegnendosi dal rigoglio al languore. Infatti tra il pontificato di Innocenzo XII (16911700) e il pontificato di Benedetto XIII (1724-1730) o piuttosto del fami-

gerato cardinal Coscia, lo Stato pontificio ebbe un vero e proprio crollo (ed effimera e illusoria fu la rinascita sotto Pio VI, alla vigilia della Rivoluzione francese, ai tempi del giovane Monti). Ormai già si era annunziata la commedia romana del Belli, e cominciò a delibarla il prelato senese Ludovico Sergardi, mascherandosi sotto lo pseudonimo di Quinto Settano: a noi piace la birba, il lusso e ’1 gioco il corso,

l’osteria

di puttanella,

ed un

tantino

e la ruffiana e ’1 cuoco...

Ma proibite le sue satire, l’interesse per la meno rischiosa polemica letteraria finì per predominare in altri due romani di adozione, il bolo273

gnese Martello e il toscano Forteguerri, più inclini del resto ai toni giocosi che alle asprezze satiriche. Morto il Gravina, bersaglio di attacchi e motteggi, Roma perdette anche le sue migliori promesse, Metastasio e Rolli, che solo fuori d’Italia poterono dare l’intera misura del loro talento. E quanto fosse decisivo il trapianto in ambienti più liberi e l’esperienza cosmopolita, è dimostrato anche a un più modesto livello, se pensiamo all’autobiografia in versi del cantante pisano Filippo Balatri, i cui Frutti del mondo sono certo più divertenti ed avventurosi di poemi come il Ricciardetto del Forteguerri, anche se meno levigati dalla patina letteraria. Anima le quartine del Balatri un brio ininterrotto di opera buffa: il genere che non fu senza influenze sul Metastasio ed ebbe a Napoli (ritornata capitale di un regno) alcuni tra i più fortunati librettisti e musicisti del secolo, e piccoli capolavori, dalla Serva padrona del Federico al Socrate immaginario del Galiani e del Lorenzi. Ho incluso per intero queste due opere, senza trascurare qualche scena dialettale del Saddumene e del Trinchera (che pagò col carcere e col suicidio l’audacia di una sua farsa anticlericale) e l’anonima Canzone de Zeza: che son tutte signifi cative indicazioni (quale che fosse il loro valore letterario) di una produzione teatrale che si moveva con vivace spregiudicatezza nei temi erotici, reagendo al moralismo arcadico e alle manie ellenizzanti scatenate dal neo-

classicismo. Epperò il successo dell’opera buffa tra gli enciclopedisti non fu né fortuito, né immeritato.

Se gli scrittori dialettali del Settecento portavano avanti la tradizione vernacola, non era solo per adottare strumenti espressivi che riflettessero esauste forme auliche. Si delineavano le costruzioni di vere e proprie grammatiche e storie letterarie, dove l’ambizione di considerare i dialetti come lingue era giustificata dalla coscienza di una tradizione vivente, che convergeva nell’esigenza antiarcadica di superare le scipitaggini bernesche e rusticali. In questo senso l’apporto dell’Accademia milanese dei Trasformati, per merito del Tanzi, soprattutto, e del Balestrieri e del Parini, costituì un momento importante nella svolta che avrebbe condotto al Porta. Ma nel riformismo di questi giocosi lombardi, lo spirito moraleggiante non sempre costituì una sollecitazione attiva: come si può vedere leggendo il Passeroni e il Bondi, che tuttavia si giovò di risorse stilistiche ignote al flemmatico cicalatore del Cicerone e pur presupponendo le conquiste del Giorno e dei Sermoni di Gasparo Gozzi (1763) è meritevole della considerazione che gli concesse il Leopardi, e che il Croce ha voluto poi negargli, lodando i versi più retorici. La moribonda Venezia era il centro culturale dove il commercio librario ed editoriale consentiva una circolazione notevole della moderna lette274

ratura europea. E proprio qui le contraddizioni tra il vecchio ed il nuovo ebbero le loro punte estreme, e si manifestarono conflitti importantissimi per il movimento letterario. iano

da parte Goldoni (i cui versi, come

quelli del Baretti, sono affatto trascurabili), i due maggiori accademici granelleschi, i fratelli Gozzi, non sono i soli scrittori veneziani da tener presenti. Anche se poco aggiungono al brillante acume illuministico del prosatore, certi sciolti di Francesco Algarotti, in mezzo a tante richieste di « cose e non parole », svelano una non dimenticabile dignità di stile e serietà ideale. Ed ebbe torto a dileggiarli il Foscolo, che pur imitò nei Sepolcri il famoso squarcio dell’epistola al Voltaire sulla decadenza italiana. L’ho riportato insieme con l’epistola sul commercio, voltairiano elogio del mercantilismo, e arguta signorile polemica contro i novelli Zenone (forse il Muratori della Pubblica felicità), che pretendevano imbracare la storia e ancora spezzavano lance contro il lusso. Le accorate meditazioni di questo illuminista divenuto cosmopolita perché le patrie italiane si erano ridotte alla condizione denunciata dal Maffei (« un mucchio di case dove abitano molti baron fottuti »), credo si collochino bene tra il moralismo conservatore o reazionario diGasparo e Carlo Gozzi e le voci libertine che rompono col passato e scatenano la loro allegra protesta di verità contro le ipocrisie e i vecchiumi. Le storie letterarie sono tuttavia piene di disdegno o di silenzio bigotto per questi scrittori che pur furono i maestri di Porta, di Stendhal e di Belli. Ma ormai ci si comincia a rifiutare di considerarli come pornografi sic et simpliciter.

(Da Sade a Freud

non

si è pensato

invano).

E

perciò, chiedendo scusa allo zio prete che tutti abbiamo in famiglia, vivo o morto, ma sempre vigile nei nostri cervelli, ho fatto posto anche a Giorgio Baffo, a Domenico Luigi Batacchi, a Domenico Tempio e al maggiore di tutti, il Casti. C'erano talvolta in questa letteratura sotadica, composta « per dar gusto » agli amici, non poche tracce di certo costume e di certa retorica barocca, secreto risvolto blasfemo e licenzioso della vecchia Italia contro

l'ipocrisia imposta dalla Controriforma. E vi prorompeva, con i rischi e i vantaggi dell’immediatezza espressiva, un rifiuto antiletterario, un rovesciamento parodistico di tutta la tradizione idealizzante della poesia d’amore, da Petrarca a Metastasio. Ma non c’era soltanto questo. A loro modo questi libertini erano dei moralisti moderni, in vena di proclamare una « santa verità » (parole del Casti) non scoperta solo per cinica spregiudicatezza; ma acquisita per la maturazione di una nuova coscienza più libera e democratica. Gli utenti di questa letteratura non erano soltanto i nobili, ma anche i borghesi, che nelle sempre valide novellette boccaccesche, passate attraverso La Fontaine, o nelle mitologiche favole alessandrine mediate 210

da Parny, pregiavano le idee nuove, i giudizi liquidatori della vecchia società. Qualcosa di più che i pimenti « pruriginosi » (come li chiamava Parini, che pur preferendo la Pucelle all’Henriade non esitava a rifiutare La Fontaine per aver serbato « il fedo loto » onde per lui « ancora » era « macchiato » Boccaccio e Ariosto). D'accordo, una .« musa sgualdrinella » ispirava il Batacchi, era lui il primo a dirlo. Ma chi, se non lui, questo zoppo doganiere della Livorno illuministica di Leopoldo. II, riuscì a ficcare l’occhio malizioso nella vita privata della nobiltà in disfacimento, guardando ai « bassi geni dietro il fasto occulti », che il Parini si era limitato a flagellare

sdegnosamente ma non osò rappresentare? AI Casti avrei riservato volentieri più pagine, ma ho dovuto sacrificare le scene di tanti suoi deliziosi melodrammi giocosi, per non trascurare il narratore in versi. Nei suoi poemi ci sono pagine belle « come una prosa », un tipo di lode cara a questo secolo, così ebbro di musica e così desideroso di sliricarsi. Il nostro Paese stentava a dimettere il suo vecchio abito umanistico, epperò il giornalismo non disdegnava la rima. Nell’età rivoluzionaria e napoleonica (dove, con un periodizzamento non tradizionale, andrebbero collocati gli scrittori che diedero il meglio di sé in quegli anni, dopo 1°89) accanto alle terzine pseudodantesche e neobarocche della Bassvilliana, la pubblicistica di Casti merita un rilievo maggiore e più completo, dopo la parziale riabilitazione del Croce. Si pensi alle idee moderne che egli mise in circolazione in tutti i suoi scritti, si pensi all’audacia di certi temi (come, ad esempio, la rivolta di Pugaciov nel Poezza tartaro). Ma la riabilitazione deve investire anche le sue qualità letterarie, perché il .Casti, disuguale da opera ad opera e nello stesso lavoro, maneggia la rima con un estro, un’inventiva, uno spirito non comune e tende a quel gusto veloce

del racconto che dopo Ariosto la nostra letteratura non poteva recuperare col povero Ricciardetto e neppure con La Marfisa bizzarra. Certo il Casti, meglio della difficilissima ottava (le sue sono piene di zeppe e forzature di prosodia e di sintassi), lavorò la sestina degli Animali parlanti, dove riconquistò le sue migliori doti giovanili. I suoi motivi satirici contro i regimi autocratici di Europa (che non avrebbero perduto di attualità durante il regime napoleonico e la Restaurazione) lievitarono in un più

sereno e distaccato disinteresse artistico. Infrenando le tentazioni della facilità a cui tanto spesso aveva ceduto, egli riuscì a calare il. genere favolistico in una forma nuova e tutta sua, perfettamente fusa, inventando un'epica inferiore e buffamente contratta, che sa di non poter aspirare ad una superiore armonia, e non vuole impegnarsi a fondo nel discorso

satirico (che avrebbe imposto lo sciolto, metro non meno arduo dell’ottava). Quanto difficile fosse l’uso di un nuovo strumento narrativo, ce ne avvediamo leggendo La caristia del Tempio, che evitò l’uno e l’altro scoglio

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quando volle realizzare l’audace concezione del racconto di un drammatico episodio della vita contemporanea di Catania. Ma adottando la quartina

di settenari con alternanze di sdruccioli e piani, compromise in partenza l’esito del suo lavoro, e incappò negli obbliganti giri di una sintassi che oscilla tra le ellissi rozze ma potenti del Contrasto di Cielo d’Alcamo e gli inimitabili artifici di Savioli e Parini. Scoppiarono così tutte le contraddizioni della sua musa « rètica e austera », che si scatena con prognata veemenza in un audace realismo idiomatico, e d’altra parte scivola facilmente nella retorica neoclassica, con tutto il suo apparato di perifrasi, iperbati, personificazioni e latinismi. Ci voleva altro che la sua indocilità di freno artistico per raggiungere il difficile equilibrio che il Parini aveva trovato nel Giorzo, in un sobrio impasto di mots propres e linguaggio letterario. E si pensa con rammarico a quel che poteva diventare questo scrittore, su cui pesava troppo il ritardo culturale dell'ambiente, perché riuscisse ad essere l’effettivo contemporaneo di un Calvo e di un Porta. Nessuno degli scrittori da noi accolti nella sezione dei giocosi, dei moralisti, dei satirici e dei libertini, neppure Gasparo Gozzi, così misurato ed amabile, toccò l’ardua perfezione letteraria di Giuseppe Parini, il cui « finissimo gusto » non gli è contestato né dai poeti cui non era congeniale (come il Leopardi) né da critici di opposte tendenze (come il Croce ed il Petronio), che lo considerano termine dell’arte settecentesca e non già iniziatore della nuova letteratura italiana, com’era parso al De Sanctis. I limiti ideologici del suo riformismo e del suo linguaggio neoclassico sono innegabili, ed apparvero chiari quando « Il Caffè » propose ideali non solo culturali ma letterari più avanzati del Mazzino, la prima parte di un poema poi non terminato. Insieme con le prime odi di ispirazione civica, il Giorno poteva sembrare la conquista massima non per l'Accademia dei Pugni e il giornale dei Verri e di Beccaria, ma per quella dei Trasformati, proponendo a tutta l’Italia altro che deplorazioni sull’Arcadia, concreti esempi di una letteratura utile congiunta al « lusinghevol canto ». Il non vasto respiro ideale delle proposte educative pariniane si esaurì ben presto. Ed alla produzione polemica del decennio che va dalla Salubrità dell’aria (1759) alla protesta

contro

l’infamia

dell’Evirazione

(La Musica)

e che

comprende la prima redazione del Giorro, seguì una crisi che si definisce e si comprende molto bene nel contesto storico della Lombardia absburgica, allorché l’illuminismo salì al potere con Giuseppe II e Leopoldo II (1780-92),

mentre

in Francia

le resistenze

reazionarie

della

monarchia

francese furono spazzate via dalla Grande Rivoluzione. Il Parini maggiore matura quando finiscono le speranze di una trasformazione pacifica dell’ancien régime, e tramonta quella società che egli con malinconia vedeva 21

precipitare nel buio di un futuro non desiderato. Checché si sia detto, il terzo stato restò estraneo alla sua poesia, nonostante l’umanitarismo egalitario e le simpatie per la plebe. Ma se anche non possiamo più credere al mito accreditato soprattutto dall’Orzis foscoliano, oggi cominciamo a pregiare il Parini nei momenti più alti della sua opera, per quel prezioso poeta che riuscì ad essere nei frammenti delle ultime due parti del Giorzo e soprattutto nelle grandi odi della vecchiaia. E l’ampia scelta dei versi minori completa la sua immagine e impedisce anacronistiche forzature, che sarebbero più facili se mettessimo da parte il letterato rococò e i suoi senili sgomenti allorché sopraggiunsero le armate rivoluzionarie di Bonaparte. Il lungo tirocinio artistico, la convinzione che « il decadimento delle belle lettere e delle belle arti » apparteneva ormai al passato controriformista e spagnolo, la fierezza di essere tra quanti avevano riconquistato una coscienza di uomini, se non i borghesi diritti del cittadino, gli consentirono di guardare al tramonto del secolo con un sereno equilibrio. Egli oggettivò se stesso, i suoi amici, le sue amiche, incorniciando nelle sue odi i sembianti « più degni » d’esser ritratti, le uniche immagini di virtù e di bellezza che gli apparissero integre, pur nella climaterica fuga del tempo, in quell’ultimo ventennio della sua vita. Ma la notte « suora della morte » gli aveva tolto di mano il pennello e gli contendeva gli « estremi precetti » della sua ironia. Quale che fosse il futuro di quella nobiltà che egli si era illuso di correggere, la società ritratta nel suo poema era un insieme di frammenti. L’opera maggiore, per cui era diventato! celebre e additato allo straniero, ma di cui non era più soddisfatto e che avrebbe

voluto riscrivere da cima a fondo, era stata concepita come un poema didascalico a rovescio. E non potevano assurgervi alla vita poetica né i generici eroi del Giovin signore e dell’altrui Dama a lui cara (senza nomi, senza determinazioni narrative, senza parole), né il poeta-precettore che parla anche troppo e non esce mai dalla scena, ed ora si contiene nella ironia e ora scoppia nell’indignazione, additando una serie di disegni plasticamente

rilevati, costumi,

arredamenti,

fondali, muti

gesti e volti, che

quando non sono larve di elegantissime si/bowettes si riducono a profili deformati da movimenti caricaturali. La veloce astrazione figurativa, di cui Virgilio era stato maestro a lui molto meglio che ai suoi predecessori del Rinascimento e del Settecento, non si era risolta in una vera azione eroicomica che avrebbe presupposto, per lo svolgimento narrativo, un’arte e una ideologia illuministica maturate da una società più moderna, o con più vigorose spinte borghesi verso la modernità (si pensi a capolavori come il Ricciolo rapito di Pope o anche ai tenui scherzi del Mordain di Voltaire). Parini, che pur si era assimilato l’estetica di Dubos e Condillac, non era 278

andato oltre i moderati ideali riformatori dell’età di Maria Teresa e la conciliazione di Muratori con Gravina. Nella quarta parte del Giorzo, annunciata fin dal ’77 nella traduzione francese (Les quatre parties du jour à la ville), aveva toccato il vertice. Non c'è dubbio che la Nozze, pur incompiuta, è uno dei suoi « più fusi e unitari poemetti », come ha detto giustamente un attento studioso dell’ultimo Parini, l’Amaturo, che vorrebbe invitarci a considerare autonome queste che pur erano nate come parti di un tutto. In effetti la « malinconia per la caducità e la decadenza del tempo e delle persone » si converte qui in autentica malinconia dell’artista, quasi estatico dinanzi ai frammenti di queste immagini, scintillante sfacelo di oggetti, che non si era composto in figure e persone: Stupefatta la Notte intorno vedesi riverberar più che dinanzi al sole auree cornici, e di cristalli e spegli pareti

adorne,

e vesti

varie,

e bianchi

omeri e braccia, e pupillette mobili, e tabacchiere preziose, e fulgide fibbie ed anella, e mille cose e mille.

La poesia del Parini attinse il reale della sua « Italia fuggente » solo dentro i confini linguistici e stilistici del riformismo neoclassico. E dovevano passare dei decenni prima che un genio del realismo romantico liquidasse la letteratura delle « quattro parti del giorno » e delle « quattro stagioni » e conquistasse con un linguaggio nuovo e popolare il capolavoro

di Eugenio Onieghin.

Contemporaneamente alla pubblicazione del Mazzizo, tra il ’62 e il 63, Melchiorre Cesarotti pubblicava, con i ragionamenti di una nuova arte poetica, le prime versioni delle Poesie di Ossian, ritenuto un nuovo Omero moderno e popolare e destinato a diventare in tutta Europa un avvenimento clamoroso, una « rivoluzione » contro il neoclassicismo imperante. Nonostante certi versi notturni, il Parini fu il più refrattario alla influenza di questo nuovo gusto, che è stato definito preromantico e che si può chiamar tale per convenzione, accettando quel tanto di approssi-

mazione storica che comporta. Ma nel contesto delle tendenze conservatrici della cultura italiana esso fu accompagnato da una lenta evoluzione del gusto arcadico, sicché l'adozione di nuovi procedimenti stilistici di rado implicò serie fratture, operate dall’irruzione di veri e propri contenuti nuovi. Ed anche per questo ho preferito raccogliere in un’ampia sezione tanto gli scrittori che 219

attestano l’ultima trasformazione dell'Arcadia così detta lugubre quanto i « verseggiatori del grave e del sublime » e i sentimentali preromantici, che assumono atteggiamenti di diversa intensità passionale e diversa resa stilistica e giustificano più l’aggettivo che il sostantivo preromantico, da riserbarsi a chi ebbe intenzione e consapevolezza piena d’un radicale mutamento (e sarebbe preferibile chiamare protoromantico). Già nella prima metà del secolo, nell’ambito della stessa Arcadia, non erano mancati orientamenti ostili all’edonismo classicheggiante, una austera volontà di meditazione morale che attesta il perdurare di esigenze controriformiste, particolarmente elevate nelle fosche visioni del Varano, e più paesane e superficiali nel Minzoni: con una tendenza figurativa a conseguire gli effetti oratori non più con il barocco concettoso, ma con scenografie biblizzanti, miltoniane e pseudodantesche. Nella sua tanto più suggestiva e colorita « poesia dell’orecchio e dell'immaginazione », così remota dalla precisione di segno del neoclassicismo e così incline alla disponibilità sonora, il Monti poi riecheggiò queste forme e fu il più applaudito ma non il solo artista che raccolse (come vedremo) l’eredità di questo gusto, quando nella polemica antiarcadica si andarono precisando, con la negazione, le proposte positive.

Contrariamente ad ogni speciosa e schematica semplificazione, la coesistenza eclettica dei modi tradizionali con i modi anticlassicisti fu predominante nella disponibilità retorica o nell’evoluzione del gusto di uno stesso scrittore. Tali sono i verseggiatori della cosiddetta scuola estense (Agostino Paradisi, Cerretti, Cassoli) che ambiscono

alla gravità di una

lirica meditativa (ma non sempre dispongono di mezzi formali adeguati da una conveniente disciplina, salvo Francesco Cassoli, il solingo, gentile accademico ipocondriaco, educato dal rigore stilistico di Orazio e Parini). Fra i tradizionalisti inquieti che non spinsero la polemica antiarcadica fino ad accettare risolutamente le suggestioni della retorica lugubre, notturna e ossianesca, fu il gesuita Bettinelli, così poco rinnovatore (come si spacciava) che, dei contemporanei, oltre al Parini e al confratello Bondi, non salvò se non Ippolito Pindemonte. Benché le sue velleità poetiche lo accompagnassero per tutta la sua lunga vita, è giustificabile la sua presenza nel nostro volume, soprattutto in questa sezione, solo per pochi versi che il Leopardi non sdegnò di riportare nella sua Crestozzazia, traendoli da quegli Sciolti che, quando apparirono nel 1758, insieme con altri di Algarotti e Frugoni, fecero tanto rumore. Questa epistola su Napoli è molto meno prosaica di quanto non appaia dal titolo: i ricordi del passato arcadico (Sannazzaro, Virgilio) si fondono con i richiami al presente archeologico, incorniciando con garbati trapassi un vespero idilliaco e un vespero tempestoso. E le pittoresche vedute fanno spicco tra le banalità conven280

zionali e sono sfumate da una nuova immaginosa sensibilità. Quella che si sarebbe affermata appunto nei decenni successivi, con le nuove generazioni di poeti e traduttori, dirottati su altre piste dalla polemica antirazionalistica e controilluministica di cui Bettinelli fu campione infaticabile. Epperò accanto a lui mi è parso giusto collocare Aurelio Bertola e il padre Soave (squisito traduttore di Gessner) e Ippolito Pindemonte, che del sentimentalismo preromantico furono gli artisti più consapevoli, conseguendo i risultati migliori dove il patetico e il malinconico è infrenato da un ideale di grazia (e se fosse stato possibile includere brani delle prose liriche, l’autore del Viaggio sul Reno e l’autore delle Prose campestri sarebbero stati presentati al lettore più compiutamente). Benché increspata di inquietudine, l’ispirazione di questi artisti era sostanzialmente idilliaca, epperò esige la vicinanza dell’ultimo, fortunatissimo cultore di anacreontiche, il Vittorelli, che di questa arcadia sentimentale seppe esprimere i modi più elastici e cantabili, rimasti vivi, di là dalla stessa lirica romantica, fino a Nievo, fino a Di Giacomo. Ma nessuno pareggiò per ampiezza e durata l’influenza che esercitò il nuovo maestro del gusto preromantico, Melchiorre Cesarotti, il quale aveva proposto nelle Poesie di Ossian un vero e proprio repertorio di forme stilistiche, linguistiche e metriche, da cui attinsero non meno i contemporanei che i poeti dell'Ottocento, da Tommaseo agli scapigliati, al Pascoli. Senza la scuola del Cesarotti (del quale ho riportato anche la traduzione della famosa E/egy di Gray) letterati come il Mazza e il Bottoni non si sarebbero avvicinati a testi meno noti della poesia preromantica inglese e non avremmo avuto delle Nozzi di Young una versione esemplare per il gusto sepolcrale fin di secolo, che ebbe dal Foscolo espressione poetica suprema. Era Arcadia, e non era più Arcadia. O se mai, si rifaceva ai motivi più profondi del Sannazzaro, alla meditazione lirica sull’omznis terra sepulchrum, anche se inizialmente si trattò di un nuovo tipo di edonismo favorito dal languore e dal tedio della nostra vecchia irreversibile Italia: « Noi — scrisse Giuseppe Compagnoni nelle Lettere piacevoli del 1791 — dormiamo tranquilli all’ombra di governi pacifici [...], noi immersi nel lusso, nella galanteria, passiamo le ore in una deliziosa ebrietà, che non ci concede altra sensazione che quella del momento. Una tanta

mollezza di fibra non chiede che l’urto del dolore: noi ricorriamo dunque alla pietà per averla. Ecco come amiamo la tragedia e la commedia urbana; per la stessa ragione, per la quale siamo colpiti dalle Nozzi lugubri del malinconico Young e dalla poesia affannosa del Diluvio e dei Funerali ». Più tardi non mancarono voci sinceramente ispirate, come quella del toscano Salomone Fiorentino, la cui oratoria elegiaca è temperata da una squisita misura, che la trattiene dalle tentazioni di sprofondare nel281

l’orrido e nel lugubre del Varano. Ma credo significativo il fatto che, se il gusto preromantico, e in particolare quello ossianesco, si diffuse dovunque, in nessuno degli Stati italiani mise radici così tenaci come nel Piemonte, dove la tradizione letteraria era più povera e dominata da una forte eredità controriformista. In questa zona periferica della nostra cultura settecentesca l’Ossian suscitò gli entusiasmi più ingenui e un movimento che è stato studiato in funzione del nostro « imminente Risorgimento » ma meriterebbe d’essere approfondito da un’indagine meno aneddotico-celebrativa e più storica. Oltre le due società dei Filopatridi e della Sampaolina, la rivista « Ozi letterari » raccolse dal 1787 un gruppo di scrittori, dei quali il ligure Ambrogio Viale, il « solitario delle Alpi » e la più nota Diodata Saluzzo indicano due aspetti notevoli di questo preromanticismo subalpino, che ebbe nel conte Prospero Balbo un autorevole moderatore. Che la Saluzzo ed altri, sopravvissuti nell’età della Restaurazione, rifiutassero poi di venire considerati romantici, non maraviglia, se si pensi al fondo retrivo del loro disdegno per il secolo « lezioso e rio », se si pensi alle loro nostalgie per un passato feudale ormai fatiscente. Il « solitario delle Alpi » in verità non era stato attratto (come ad esempio l’arcade Luigi Richeri) dal nuovo edonismo dell’orrido (« ma quel medesmo orrore / diventa un bel piacer »). In lui era schietto l’idoleggiamento per il selvaggio e il primitivo, e autentica era la tensione libertaria (« indomabile ardor repubblicano, / repubblicana irto-chiomata asprezza / ove sei tu?... ») Ma le ardite e confuse velleità di questo minor fratello borghese dell’Alfieri, senza il sostegno di principî e di convinzioni rivoluzionarie, dovevano ricadere necessariamente in quel pessimismo profondo che trovava consolazione e sfogo nella retorica younghiana e ossianesca. Nel generale « invasamento » per i « maestrevolissimi » versi di Cesarotti, chi seppe meglio profittare della lezione fu il personaggio più ingenuo, letterariamente, ma anche più energico e più disperatamente poetico fra tutti questi oscuri subalpini che aspiravano a dare il loro contributo al nostro « imminente Risorgimento »: fu il conte Vittorio Alfieri, che nacque alla « tragica », sceneggiando nel 1775 ben tredici poemetti dell’Ossian. Fu questo un incontro decisivo per la sua formazione letteraria. Tutto proteso verso un’irraggiungibile classicità egli non sarebbe mai approdato a risultati così originali rispetto al neoclassicismo settecentesco, se non si fosse scavato la strada così faticosamente dentro quella nuova retorica falso-antica e pseudo-sublime. Non a caso si vantò di averla percorsa in tutti i sensi (come dice la sua epigrafe agli Estratti d’Ossian) > « sopra, sotto, davanti, a tergo, a lato ». La collocazione di Alfieri tra i preromantici e i poeti civili (quei pochi che, come Calvo, Ciaia e Fantoni si staccano

282

dalla mediocrità

pro-

pagandistica del « parnaso democratico ») apparirà meglio fondata, se non si isolerà il poeta dal contesto di una tradizione italiana, da lui assunta con l’ostinata ed inesperta energia dell’autodidatta, convinto che anche i difetti dei grandi fossero esempi da imitare. Sempre meno rappresentato e sempre meno letto, oggi Alfieri è sempre meno oggetto di quel culto mitizzante che ha distratto da un’intelligenza vera dei suoi testi, e ha facilitato le sopravvalutazioni del suo mondo intenzionale e i fraintendimenti del suo stesso contenuto. Tuttavia, la quasi incontestata riabilitazione (anche se il pubblico non scolastico continua a leggere come un capolavoro la Vifa, e a presupporre, magari ingiustamente, quasi tutto il resto), cinquant’anni dopo il saggio di Croce (1917), ha permesso di respingere negazioni unilaterali ed assolute, e senza farci trascurare la sostanza valida delle migliori tragedie, ci ha insegnato a puntare più sulla sua «litica » che non sulla « tragica »: la grande lirica d’amore e di solitudine, e la lirica satirica (dove le pedanterie e le ossianescherie sono dissolte da burberi toni giocosi o dal mordente inventivo di umori francamente reazionari da « democratico feudale », come lo chiamò Villemain). Riportando per intero il Sau/ e la Mirra e un’ampia scelta dei versi (dall’originalissimo diario poetico delle Rizze fino alle Satire) credo di aver dato una silloge caratterizzante, se non esauriente. Se avessi incluso squarci dell’Antigone o della Virginia, dell’Agamennone o del Bruto II avrei dato un quadro più ampio della poesia e dell’oratoria alfieriana, ma anche una monotona galleria di scultorei e malfiniti « prigioni », che si torcono nella loro clamante infelicità, e anche quando gridano la loro passione libertaria, non nascondono la loro fragile e dura condizione umana, già scheletriti nella loro verticale ansia di morte. Ciò è evidente anche a chi legge i capolavori, che nella loro totalità presentano un Alfieri integrale, cioè con quei limiti di duro, anticheggiante linguaggio e con quelle cadute irreparabili (nel comico purtroppo, come sono costretti ad ammettere i chiosatori meglio disposti a pregiare questa difficile poesia). E che le cadute coincidano quasi sempre con i punti nodali dell’azione credo non debba maravigliare, proprio se si rifletta che per Alfieri la tragedia fu innanzi tutto una condizione esistenziale. Se si valse della macchina drammatica così come l’aveva congegnata l’aristotelismo del Rinascimento e del grand siècle, è perché gli era necessaria per creare la massima tensione lirica e stringere i personaggi (il protagonista, in particolare) in una sorta di giudizio finale. Non i conflitti, non l’azione e non il futuro interessano il poeta, ma l’assoluta verità di una passione tutta chiusa nel suo ardore fino al delirio maniacale, ossessionata dal bisogno di una degna espiazione o autopunizione: la morte violenta o il suicidio. Era inevitabile che questo soffio di astratti furori finisse per fiammeggiare in una grande monotonia 283

e povertà di maniere. Era inevitabile che la compressione costante ‘in ferrei usberghi sintattici, martellati e conformati secondo un astratto ideale letterario, che non esitava a ricalcare i luoghi comuni della laconicità più abusata (da Seneca a Corneille), finisse per arrestare quegli iniziali modi di spontaneità, e quelle audacie tematiche, per le quali si è voluto attribuire al preromanticismo dell’Alfieri addirittura l’anticipazione del decadentismo. In realtà, il suo coturnato irrompere contro il secolo del razionalismo e del buongusto si fermò appena alle soglie di quel « cupo ove gli affetti han regno » (che intravvide il Parini). E se nel quadro europeo del preromanticismo egli si presenta con indubbia singolarità, sarebbe forzato ed errato collocarlo accanto al protoromanticismo degli Sturmer und Dringer, come accennò il Croce. « Alfieri — ha detto benissimo Leonello Vincenti — è al di qua di Schiller; quantunque desiderosi della morte, i suoi eroi la patiscono, non

la meritano,

e infatti non

ne

sono

trasformati. Vien da pensare, poiché sono esemplari perfetti di bene o di male, che competa loro un premio o un castigo ultraterreno. Vale anche qui l’osservazione di Karl Vossler: ‘“ Sempre ancora troneggia il Dio cattolico al di là e al disopra del petto umano e, nonostante il Rinascimento, il teatro dei popoli latini non può dimenticare la sua esistenza. Anche se assente. Egli si libra ancora, chi sa come, dietro o sopra quelle scene ”. Qui appunto — lo si vede chiaro al passo della morte — il Dio è assente; il poeta e le sue creature si sono allontanate da lui, senza mettere nulla al suo posto di equivalente. In mancanza d’una concezione etica, che come in Lessing e nei classici tedeschi abbia il valore d’una religione, “ virtù ”’ è un nome generico, un luogotenente di potenze non più riconosciute ma

nemmeno sostituite, più che altro l’espressione dell’incoercibile volontà di vita. Negli Stirmer questa volontà di vita, cercando di attuarsi, trova nella natura sentita come divina i nuovi valori religiosi: acquista infatti il suo pieno significato quando si lancia verso l’infinito. In Alfieri, tutto chiuso in se stesso, muove rigorosamente verso un orizzonte d’ombra, dove con altera malinconia

si spegnerà ».

Meno che mai però, dopo aver individuato la sostanziale timidezza delle posizioni ideali di Alfieri al confronto di quelle rivoluzionarie e borghesi degli Stirmer, « si può pensare » alla poesia di un Goethe, che aveva già scritto il Gò?z, il Prometheus, il Werther e VUrfaust negli anni in cui l’Alfieri si accingeva a generare i suoi vecchi tiranni, sadomasochisti dal cuore elegiaco, e i suoi liberuomini che vaneggiano e piangono quando si scoprono parricidi. Se l’Alfieri, per le qualità intrinseche della sua produzione, rimane uno dei poeti più circoscritti nell’ambito nazionale (quasi a « contrappasso » di tanto fideistico e assurdo sciovinismo) i nostri poeti del Sette284

cento hanno in complesso dato alla poesia europea di quel secolo un contributo non solo originale ma di prim'ordine, che non avrebbe nulla da temere in una visione comparatrice, se si tien conto che le punte più alte furono quelle toccate in Germania nell’ultimo quarto del secolo. Ma, in verità, la consapevolezza che questo nostro patrimonio poetico è molto più ricco e vario di quanto non si credesse un secolo fa, è il risultato di uno scavo critico particolarmente felice: dal Carducci e dal Croce (prima di tutti), al Calcaterra al Momigliano, e in particolare al Binni e al Fubini (e alla sua scuola). Ciò credo sia giusto ricordare per dovere

di ricono-

scenza ai lettori che si godranno il foltissimo paesaggio di questo nostro « Parnaso ». 1967

285

PER.LAÀ

POESIA

DELL'OTTOCENTO

Nell’introduzione a questi due volumi del « Parnaso » riservati agli scrittori dell'Ottocento, sia lecito premettere una dedica alla memoria di Benedetto Croce, non soltanto per il debito che gli si riconosce come a lettore infaticabile della letteratura d’ogni secolo, ma per un sentimento di gratitudine particolare. A lui devo il suggerimento di quest'opera, che, in origine, avrebbe dovuto limitarsi solo a una vasta antologia di poeti minori. Il Croce ritenne di consigliarmela dopo aver letto e apprezzato, trent'anni fa, la mia scelta di scrittori del Quattrocento per i « Classici Italiani » diretti da Luigi Russo. Ne è venuto fuori qualcosa di diverso, non soltanto per la mole ma per lo spirito dell’opera, che non è solo una scelta di gusto, bensì una crestomazia funzionale e caratterizzante, che vuole indicare un coordinamento e un periodizzamento nuovo della nostra storia letteraria, sia pure limitatamente ai poeti. Ed è riuscita (sia detto con reverenza a un « maestro avverso », che ho tentato sempre di discutere) un’opera ben poco crociana: a cominciare dal rilievo massimo dato a Giacomo Leopardi, che io ho considerato (sulle orme del De Sanctis) il solo moderno degno di essere aggiunto al canone dei « quattro grandi » (Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso), e quindi da presentare nella sua integrità. Per i poeti dell'Ottocento duemila pagine non sono troppe, quando

si consideri che bisognava far posto a un’ampia scelta di due scrittori che con gli anni sono stati riconosciuti di prima grandezza (come il Porta e il Belli) e a Giosue Carducci che per tanti anni è stato considerato l’ultimo « vate » della patria. La materia dei due volumi colma tutto l’arco del secolo, dall’età napoleonica a quella umbertina, seguendo il processo di tardiva formazione e di precoce crisi del nostro Stato unitario, quando alla fine dell’Ottocento la borghesia affrontò le esigenze del proletariato con i noti 287

atteggiamenti della sua classe politica, in preda al panico e non ancora in grado di moderare col riformismo la sua antica vocazione reazionaria,

propria di un paese in cui (come scrisse un serio conservatore, Giustino Fortunato) le abitudini di servilismo e di conformismo alla forza autori-

taria del potere sono antiche, mentre il costume della libertà è nuovo e

inconsueto.

L'ordinamento comincia con la scelta dei poeti che esprimono gli aspetti fondamentali della nostra cultura nazionale di fronte alla Grande Rivoluzione impostaci dalle truppe di Bonaparte, e ben presto moderata nelle sue istanze giacobine dall’involuzione dell’Impero. Quando leggiamo il Monti e poi gli altri due poeti coevi ma più giovani di lui, Foscolo e Porta, noi cogliamo, di là dai movimenti letterari nei quali essi vengono collocati, la compresenza di un solo processo storico, e la difficoltà pet le idee nuove ad esprimersi in forma nuova, senza innovare profondamente il linguaggio. Guardando al di dentro e al di sotto delle correnti letterarie che già si scontrarono durante l'Impero, per prorompere e affrontarsi apertamente durante la Restaurazione, oggi noi siamo in grado di comprendere perché tra il De Sanctis e il Croce sia maturato un rovesciamento dei criteri di giudizio: una rivalutazione del Monti (da una parte) e del Foscolo neoclassico (dall’altra) non senza però riconoscere anche al Porta (sulle orme del Momigliano) una grandezza pet troppo tempo miscono-

sciuta o confinata nell’ambito di un culto poco più che municipale. In effetti, in questa operazione critica d’ « imparzialità » eclettica del Croce (derivata dal suo illusorio tentativo di conciliare la poetica desanctisiana e quella carducciana) si celano degli equivoci sostanziali, di metodo e di gusto. Il Monti può essere « il poeta della letteratura » solo per chi ancora voglia accontentarsi di formule che ci hanno intrattenuti e appagati. Quando ci avviciniamo alle sue produzioni, salta agli occhi il vecchiume della sua cartapesta da costruttore di macchine poematiche a fine celebrativo, da pubblicista in versi che interpreti l’opinione dominante (cioè dei dominanti) e la diffonda e la consolidi attingendo in ricchissimi zibaldoni immagini e forme di repertorio pronte al montaggio. Scrittore di consumo, abile ad aggiornare la sua tematica, a rivestirla di procedimenti e metri appropriati, Monti poté passare per neoclassico e per romantico,

mentre era soltanto l’ultimo prodigioso, servizievole artigiano della vecchia Italia barocca e arcadica, che in un quarantennio di attività accumulò una glipsoteca stupenda, da valere come esemplare accademia a chiunque volesse esercitarsi, e trarne modelli tra il gusto dantesco a quello ossianesco. Leopardi lo definì « poeta dell’orecchio e dell’immaginazione », e tale fu in effetti: supremo sfoggio di una versatilità formale che, nell’assenza di contenuti, può fingere qualsiasi maniera, da quella tassesca a quella dei 288

narratori libertini, e però tanto più persuasivo se c’era un testo da orec chiare e immaginare, fornendo scenografici effetti d’insieme. Davvero mirabile se lo guardiamo da lontano, se rinunciamo all’analisi dei particolan, perché presto rivela superficialità, grossolanità, imprecisioni, cadute trivialì. Questo vale anche per il suo lavoro più fortunato e popolate, la tradu zione dell’Iliade. E appena le composizioni della vecchiaia riuscirono u una dignità stilistica più sobria: il colmo delle qualità letterarie si può apprezzare nella Feroriade e nei versi di celebrazione familiare. È forse la traduzione della Pu/cella di Voltaire che oggi appare il suo capolavoro, pur nell’ambito del vecchio gusto della traduzione amplificante e variata da una canora fluidità. Colui che sentì la crisi (non soltanto di una civiltà letteraria ma di

tutti gli ideali e i valori) durante l’età napoleonica fu Ugo Foscolo, che anche quando traduceva proiettava nei versi quei soggettivi contrasti di luce e bile, onde si diceva connotato dal suo cognome. Riconosceva il suo donchisciottismo traducendo Meli, e le sue passioni traducendo Saffo, ma il suo prepotente lirismo lo faceva vibrare tra due poli opposti: il vagheggiamento delle « sciagure umane » e l’idoleggiamento dell’« aurea beltade » rimedio unico ai mali (come egli cantava) per le umane menti nate a vaneggiare. Perciò anche come traduttore di Omero, sdegnoso dell’approssimazione epica di Monti, non andò oltre gli squisiti frammenti alessandrini, e invece seppe darci un capolavoro nella versione del Viaggio sentimentale di Sterne, avvicinandoci a quel classico dell’antiromanzo, che è congeniale a quanti non sanno elevarsi all’oggettivazione epica e sbandierano

come

vessillo bianco

e nero

dell’antirealismo,

la zimarra

e le

mutande amenissime del reverendo inglese. Il giacobinismo del Foscolo era stato (come per la quasi totalità degli intellettuali del periodo) più generoso che meditato, e quindi incapace di un punto di vista critico rispetto al fallimento della rivoluzione. Perciò egli non riuscì ad approfondire il dramma storico del suo tempo, che pur visse così intensamente. Ciò avrebbe richiesto una maturità ideologica e un livello geniale, cui poterono elevarsi soltanto Goethe e poi il Leopardi. Nella vecchia retorica del suo seminario di Spalato, e nella nuova dei preromantici e protoromantici italiani ed europei, Foscolo tuttavia portò un soffio di possente giovinezza, sia con l’Ortis (vivaio di tutti i suoi movimenti lirici), sia (e meglio ancora) nei pochi versi che riuscì a scrivere durante la sua vita tumultuosa, talché ci consegnò l’immagine più aggiornata dell’intellettuale in rivolta, ammantato del suo ulissismo aristocratico, « bello di fama e di sventura »: appena lo tratteneva dall'abbandono a tentazioni reazionarie un coerente bisogno di contegno umanistico e laico. Mazzini lo assunse a maestro della nuova letteratura italiana, e senza dubbio il Foscolo eser289

citò a lungo durante il Risorgimento un fascino che la critica più recente ha smagato e aiutato a penetrare con più sottile spregiudicatezza. Irrepa-

rabilmente retoriche ci appaiono oggi le zone ruggenti della bile nazionalistica, mentre le dorate ambiguità dei suoi bassorilievi neoclassici dànno una calda morbidezza sensuale a quella marmorea forma luminosa. Ormai i carmi foscoliani ci appaiono come i fasti ultimi e conclusivi di un’epoca, siano le Parche o le Grazie a presiedere alle perfette sublimazioni di tradizioni stilistiche settecentesche, notturne e sepolcrali che siano, o di armoniosa « melodia pittrice », quali soltanto un mitografo dal cuore moderno poteva esprimere, inneggiando all’Amore e alla Morte. Se lasciamo queste eloquenti e fulgide astrazioni liriche (dove gli echi drammatici ed epici di tutta un’epoca si spengono nelle onde immense di una musicalità che sembra confondere in sé le ragioni di quei conflitti ond’erano stati seppelliti i vecchi regimi dell’Europa feudale), se passiamo invece alle sommesse proteste meneghine di Giovannin Bongee, eccoci, a pochi anni dai Sepolcri, di fronte a un altro sentimento del tempo, a un’altra forma di partecipazione alla vita reale. Ricorrendo alle modeste bosinade, Carlin Porta ci parla un linguaggio che non è quello della tradizione nazional-borghese, bensì della nazione subalterna che cominciava ad acquistare coscienza civile anche grazie a quei « prepoten-

toni » dei Francesi, dopo essere stata legata alle tradizioni municipali in cui l’aveva spezzettata e rinchiusa la cultura controriformista e antiunitaria di tre secoli di decadenza. Fra l’altra nazione, che non meno del terzo stato fu sempre oggetto di decisioni storiche operate all’esterno, anzi

contro i suoi interessi, passiva ieri di fronte ai conflitti delle grandi monarchie d’Europa, passiva ancor oggi, quando non si schierava col clero e con la nobiltà, di fronte alla rivoluzione liberale esportata dalle baionette in Italia. Salutato da Stendhal, come tutti sanno, il poeta nuovo dell’Italia, Carlin Porta fu il nostro primo poeta europeo, e oggi nessun uomo colto rinuncia a compitare il dialetto milanese per ammirare la sua semplicità geniale. Quando ho trovato le sue poesie (e i sonetti di Belli) nella biblioteca di Verga, ho realizzato di colpo il significato e la durata storica della sua grandezza. Non è grazie al Manzoni, ma nonostante Manzoni, che l’Italia moderna è riuscita ad avere una grande letteratura. Ma senza voler nulla detrarre all’importanza che ebbero anche per il realismo I Promessi diposi, crediamo di non essere irriverenti, se affermiamo che, senza le antologie scolastiche, e senza i concorsi a cattedra per ogni ordine e grado, i suoi versi, e gli inni in particolare (dov’egli tentò con zelo di neofita di ribattezzare la letteratura filosofica sull’Essere supremo coltivata da JosephMarie Chénier), sarebbero scomparsi o confusi ingiustamente con quella 290

poesia sacra che è tale (come diceva Voltaire) perché nessuno la tocca. Altra cosa è l’Adelchi e l'abbiamo riprodotto per intero, patetico addio alla poesia dato da chi decise, a ragion veduta, di sliricarsi, e poi considerò poeti (Leopardi' escluso) il Monti, il Torti, il Grossi, e autorizzò non pochi « innaiuoli » (come li chiamava l’Emiliani Giudici).

Quale che fosse il nostro gusto, o la nostra antipatia; è evidente che la collocazione storica a capo di una storia letteraria non era materia opinabile. Per questo abbiamo ordinato tutta una sezione dei romantici cattolico-liberali, per i quali la moderazione conciliatrice e l’arbitraggio sapientissimo tra conservazione e innovazione dell’illustre caposcuola ebbe un decisivo peso storico. Per questo il lettore ritroverà, accanto al buon Tommaso Grossi (sodale, come è stato ben dimostrato, più che scolaro di Manzoni e, in fondo, onestamente rinunciatario all'impegno che comportava il magistero dialettale del Porta), ritroverà, dico, il traduttore-traditore Andrea Maffei (che poco avrebbe guadagnato ad essere presente con altri campioni di quel suo facile ridurre ogni poeta maggiore e minore d’Europa a un minimo denominatore comune di uno scialbo e sciapo linguaggio romantico). E ritroverà scrittori che nella poesia di destinazione popolare avevano fede: come il Sestini o il Parzanese (qui rappresentato da una scelta forse un po’ ampia ma adeguata all’importanza e alla diffusione della sua irz4gerie da fiera paesana, recante le oleografie più significative della disgregazione sociale del Mezzogiorno e tutti gli espedienti educativi per lenire con la cristiana rassegnazione le piaghe sociali dell’ineguaglianza). Nella stessa sezione meritava il suo rilievo un altro poeta, il Baldac: chini, che alla scuola liberale e manzoniana portò il più raffinato contributo di poeta cittadino vissuto nella capitale del regno napoletano e fu dotto di esperienze europee meno vulgate del lamartinismo (come attesta la sua traduzione da Shelley). Egli fu ricco d’inquietudini nuove più del Prati, che riuscì a conquistare una clamorosa fama, nella sua duplice veste di poeta d’avanguardia e di poeta ufficiale (cose che possono benissimo

coesistere,

come

sappiamo,

da certi nostri

contemporanei,

viventi

che siano o più morti dei morti). Un’ampia scelta di questo goffo montanaro inurbato può tuttavia convalidare le qualità del suo ingegno lirico, disponibile al fieno e ai fiori (come disse Manzoni), fallito nei tentativi lamartiniani e mussetiani di racconto moderno in versi (epperò abbiamo escluso sia l’Edmenegarda

che il Satana

e le Grazie), ma

notevole nella

levità fantasiosa e sorridente dei suoi momenti idilliaci, anche quando propone con ottimistico narcisismo i suoi autoritratti confidenziali, e incoraggia con l’astuzia della sua pseudoingenuità i sorrisi che possono muoverci incredibili endecasillabi, come l’apostrofe al sigaro: « picciolo stoico 291

che brillando muori ». Il lacrimoso bobérzien che finisce commendatore,

«immo

in senatum venit » a portarvi i suoi baffi alla Napoleone

riverniciati

III,

a nuovo come i suoi sonetti e i suoi versi latini, è una figura

rappresentativa e centrale, proprio a colmo della parabola conciliatrice del nostro romanticismo liberale, che finisce parnassiano. (Che sia stato poi europeo più degli altri, lasciamolo dire a critici europei tanto, quanto lui credette di essere).

In verità, dalla comune matrice cattolico-liberale e dai limiti persistenti e ritardanti della tradizione classicistica, solo due scrittori seppero raggiungere il flusso vitale delle correnti letterarie europee, cresciute all’empito di cultura che provocò la Rivoluzione del ’30 e che fu successivamente arricchito da quella del ’48: Belli e Tommaseo. Alla scuola del Porta, Belli apprese e inalberò (come nessun altro scrittore con tanta energia) la poetica e la protesta della « verità sfacciata ». Non meno audace, ma più avanzato, egli seppe elevare un vero e proprio « monumento » clandestino alla plebe di Roma: una plebe che dal basso della piramide sociale giudica tutto il mondo teocratico feudale che l’opprime, e con tutti gli oppressori (a cominciare dal Papa) alterca con il suo verso « cacapepe, bilioso e fumantino ». Proprio nello stato d’Italia più arretrato, ma aperto (grazie all’industria turistica) alla inevitabile sdoganatura delle idee moderne, si rinnovava al livello comico e drammatico la contestazione lirico-filosofica di Giacomo Leopardi. Dottrine di conciliazione fra il vecchio e il nuovo potevano maturare dove la borghesia ne aveva bisogno per rompere le vecchie croste feudali e preparare l’espansione economica unificatrice, abbattendo le dogane fin troppo efficienti contro la circolazione dei prodotti. Ma il provvidenzialismo delle teorie progressive e palingenetiche, base di tutti i movimenti ideali della Restaurazione,

mal poteva

allignare,

dove

«il canchero » stava

« nella

radice », dove la realtà contraddiceva e smentiva ogni speranza, dove il fideismo era il nemico numero uno da combattere, e la sconsacrazione dei miti feudali era più urgente delle consacrazioni neocattoliche del liberalismo borghese o neocristiane dei socialismi utopistici. Belli colse nella realtà il dramma dei due generi umani in cui vedeva spaccata la società clerico-feudale di Roma, e impugnò nella forma veloce del sonetto l’arma del riso « come una spada segue la sua punta ». Moderato fino alla paralizzante paura conformistica, osò invece nel suo teatro da camera spingere all'estrema conseguenza la rivoluzione letteraria di Porta: l’aspirazione alla classicità, alle forme chiuse ed epigrammatiche, lo aiutò a temprare, non ad infiacchire nella verbosa retorica classicista, il rugginoso metallo del suo aspro linguaggio: « io le so certe cose, io so’ romano ». Anche il Tommaseo, con tutta l'educazione controriformista dei semi-

292

nari veneti, accolse « adagino e un po’ repugnante » il romanticismo; ma la sua esperienza particolare (di piccolo borghese italofilo costretto a vivere del suo lavoro per uscire dalla Dalmazia) e la volontà d’indipendenza duramente provata dalla necessità d’inserirsi nell’attività dell’industria editoriale nascente a Milano e a Firenze, esasperarono le sue vissute antinomie tra vocazione umanistica e produzione pubblicistica, tra le remore di un cattolicesimo assorbito dogmaticamente e acquisito per sempre senza esitazione, senza contrasti, e le tentazioni di una libertà e di una sensualità rivoltata, che lo sollecitava ad atteggiamenti alfiereschi e foscoliani, nonostante l’intenzione di rifiutare quei maestri « pagani »: atteggiamenti tradotti al livello popolare che gli andavano imponendo le difficoltà economiche. Con tutte le complicazioni e la pedanteria che comportavano le sue velleità filosofiche, filologiche e poi perfino politiche (di nuovo Savonarola alla ricerca di una Repubblica popolare ma papale), Tommaseo perseverò nelle sue ricerche infaticabili di una poesia nuova, che solo tardi avrebbe avuto un giusto riconoscimento (perché egli fu oscurato dalla sinistra e dalla destra romantica dei meno giovani e dei più giovani, Manzoni e Prati, Leopardi e Berchet). Pubblicate nell’esilio parigino come « confessioni » e come « versi facili per la gente difficile », e stampate a Venezia nel ’38 e poi in una grossa edizione definitiva nel ’72, le sue Poesie furono presentate nell’ambito di un’architettura grandiosa e ambiziosa e ingombra da una congerie di versi edificanti. E invece la sua migliore produzione era stata la sola a uscire dalla crisi romantica europea, vissuta con l’intensità religiosa e peccaminosa di un testimone diretto. Venuto a Parigi dall’Italia manzoniano e rosminiano, ma già pieno di curiosità per i nuovi astri autunnali del cielo parigino (come il Sainte-Beuve), per i nuovi idoli e ideologi della rivolta romantica come la Sand e il Lamennais, nel suo volontario esilio Tommaseo si accostò ai sansimonisti cattolici, impresse un nuovo suggello al suo misticismo populista, vivendo la vita dell’intellettuale proletario, anche se non abbastanza povero da non potersi pagare i suoi piaceri (altrettanto fisici quanto spirituali) di peccare. Le sue scelte letterarie convalidarono il suo orientamento (già manifestato durante la sua aggressiva attività critica) verso l’antiromanzo storico (nella narrativa di tipo poematico inaugurato da Chateaubriand) e verso la lirica fortemente soggettiva e concettosa, espressa sia in modi parenetici e programmatici, sia in confessioni, concepite anch’esse come un atto di fede, con un linguaggio teso da un solenne sacramento pubblico o dalla scoperta d’immagini e apparizioni provvidenziali nel microcosmo privato o nell’universo redento dalla presenza fisica del sangue di Cristo. L’ossessione del peccato e dell’espiazione, la fede incrollabile della vocazione di supercristiano esemplare comunicano alla forma di Tommaseo i procedimenti di un manie-

+4 Je)

rismo portentoso, nei metri e negli stili adeguatamente appropriati. Non era sfoggio di vuote forme retoriche, come quelle di Chiabrera, di Cesarotti, di Monti, ma esprimeva un contenuto originale, tormentato dalla voluttuosa ricerca di una parola certa che dica il Vero, come voleva il suo Ecclesiaste. Purtroppo gli pesò lo sforzo di « disilliricarsi », di recuperare le radici latine o addirittura divine del Verbo, ma proprio questo continuo esercizio di spirituale traduzione ne fece il primo traduttore moderno, che obliterava i Monti, i Pindemonte e i nefasti Maffei. Sicché anche nelle versioni dei canti serbi e dei canti greci, nonostante i compiacimenti che maculano ogni tanto il discorso, riuscì ad essere per la letteratura della

nuova Italia un maestro raffinato e aristocratico: maestro non solo al Carducci, al Pascoli e al D'Annunzio, ma anche a taluni scapigliati e bizantini minori. Benché gli studiosi del nostro decadentismo se lo siano dimenticato, il Tommaseo non è trascurabile se si voglia fare sul serio la storia di questo movimento, e se si comprende che le cose vengono prima dei nomi e la consapevolezza del fare concreto è più importante delle poetiche, e i movimenti non escono per partenogenesi di letteratura dalla letteratura, ma dai processi di contestazione e di rottura della. fondamentale realtà politico-sociale, di cultura e di classe. Una sezione, e. non «un posto a sé » dunque, al Belli e al Tommaseo,

nella nostra raccolta,

dopo i liberali e prima dei democratici. Ma non abbiamo inteso affatto moltiplicare i saladini soli e in disparte che costellano i manuali e i panorami di tanti valenti e pur benemeriti studiosi del nostro Ottocento. Io ho creduto necessario riprendere la proposta storiografica avanzata dal De Sanctis nelle sue lezioni sulla nostra letteratura del secolo xrtx. Ma ho voluto tuttavia tentare di correggere i pericoli di schematismo che in essa sono innegabili. Libertario e incline alle utopie riformistiche dell’integralismo (di cui è senza dubbio un incunabolo), il Tommaseo non possiamo considerarlo come un cattolico liberale o un manzoniano degenere, perché egli è di là da quel processo d’involuzione e arcadizzamento fantasticomusicale di certo romanticismo, ed è saturo di futuro proprio grazie alla componente sensuale ed estetizzante della sua personalità. D'altra parte è ricco di quegli accenti d’intervento e d’impegno immediato che caratterizzano gli scrittori democratici, soprattutto coloro che egli tanto pregiò o addirittura influenzò, come lo Scalvini e il Poerio: i quali, ignorati o dimenticati dal De Sanctis, sono, con maggiore legittimità di un Rossetti, presenti nella sezione dedicata alla scuola democratica, che a me è parsa da ampliare attraverso tutto l’arco risorgimentale, cominciando dall’arcadia carbonara e terminando con i poeti garibaldini. Se ce ne fosse l’agio, naturalmente ci sarebbe tutto un discorso da fare per approfondire le diversità di gusto, di ideologie e di resa formale delle più compiute personalità de294

mocratiche come un Nievo o un Dall’Ongaro, già messe in rilievo dai sondaggi critici. Le riserve crociane su Berchet non credo siano da accogliere. E infine (per fare altri esempi) io mi sentirei senz’altro di condividere il calore col quale uno dei migliori antologisti della poesia ottocentesca ha plaudito al Dall’Ongaro, il più riuscito di questi poeti popolari e democratici (cose non sempre convergenti, come si sa, o si dovrebbe sapere). Tutt'altro che trascurabile, infine, il Nievo poeta (che un suo mediocre « specialista » ha creduto di sottovalutare): egli ci viene incontro non solo con l’alone della sua fiammante leggenda, ma anche con la grazia arguta dei suoi ironici bozzetti veneziani, dove l’immagine della vecchia Italia moribonda è colta col sorriso sereno e indulgente di una giovinezza che non avrebbe sperimentato amarezze, ma solo i felici momenti della vittoria e della morte, che il Cielo, in Italia, riserva a chi gli è più caro. Quanto al Giusti, non ho avuto dubbi a staccarlo dalle correnti liberali e democratiche, e a metterlo insieme con un gruppo di scrittori giocosi e satirici, dai quali prese le mosse e che accompagnarono con i loro ghigni tutto il processo risorgimentale, fino alle delusioni che seguirono dopo l’Unità: con presupposti ideali diversi, certo, ma con qualche affinità di atteggiamento nella cautela e nella diffidenza se non nella derisione e nello scherno. Fu il Tommaseo

(se io ricordo bene) a dire che l’Italia non può

ridere senza mostrare la bocca sdentata della sua vecchiaia scettica e amara. Ed è questo che rende reversibile il segno di tanti (con molto più di veleno e di fiele, se reazionari, come il duca napoletano Proto o il prete piemontese Baratta), che sarebbe meglio dire, più che satirici, scrittori di epigrammi. La prosasticità di questi versi minori e minimi deve esser data

per scontata: motti e battute in margine alle occasioni del costume o della vita politica: dalla ciarliera e un po’ oziosa giocondità di un Guadagnoli, alla vena spiccia e goliardica di un Fusinato, o all’indolente risvolto ironico dei casalinghi martelliani del De Amicis. Tanto più risalto acquistano accanto a loro le pungenti stampe del Pananti e le mordaci facezie libertine del Giraud, se le confrontiamo con l’arcadia rusticale di un Perticari. E allora si ammetterà, leggendoli l’uno accanto all’altro, che si è peccato di sufficienza (in nome del « poesia - non poesia », o di un marxismo improvvisato) quando si è voluto negare a Giusti anche la sua qualità più schietta, che va di là dalle circostanze di satira politico-ideologica pur notevole nei suoi limiti buonsensai e prudenziali. Non dimentichiamo la scoperta, nella Toscana granducale, di quella vena del « buffo » a cui molti decenni dopo attingerà un Palazzeschi, liquidatore testamentario di un mondo rinsecchito. E se poi non dimentichiamo il Collodi, il giudizio del De Sanctis (che Firenze aveva riacquistato il suo posto nella cultura italiana proprio « per opera di Giuseppe Giusti ») appare degno di uno storico ch'è 295

certamente più valido di tanti assennati compendiatori. Certo i limiti della sua satira sono di classe e di ideologia, e non superati sul piano poetico: Giusti, pur avendo ghignato con tristezza sull’equilibrio dottrinale ipocrita e conciliatorista del suo secolo, non ebbe il coraggio di salire a un punto di vista più ampio, interamente critico, né ebbe il tempo o la capacità di abbandonarsi ad una contemplazione comica oggettivante che pur era affiorata nel Gingillino e soprattutto nel Ballo. Rendiamoci conto del perché non potesse piacere ai revisionisti del repubblicanesimo o del socialismo, ai Carducci e ai Croce, questo piccolo borghese astemio di ubriacature, incapace di entusiasmi e di illusioni, per non rischiare delusioni di cui era certo in anticipo. Juste milieu ineccepibile, ma fedele alla sua bandiera. Un po’ più a destra abbiamo il qualunquismo di Trilussa. E alla sua sinistra? Bisogna pur dire che ci fu un poeta, il non mai abbastanza letto e meditato e ammirato

Vincenzo

Riccardi di Lantosca,

che

chiude questa sezione come meglio non si potrebbe. I suoi versi di ispirazione romantica sono quasi trascurabili, e valgono solo a indicare il presupposto disperato di un’anima costretta dalla realtà italiana a odiare la morte « senza amar la vita ». Il suo umore lasciò memorabili segni di un mordente satirico in quel piccolo capolavoro che è il ritratto del Tommaseo e in un delizioso vaudeville dalle strutture purtroppo frammentarie, Pippetto ossia il regno di Saturno, pubblicato con pseudonimo necessario a proteggere l’autore, benché ormai dimesso dalla sua carica di provveditore agli studi più volte trasferito, perché non si curava di deodorare il suo offensivo tanfo di « petroliero », di repubblicano, di socialista. In buona compagnia con gli impiegati Porta e Belli. Ma se pure a un livello poetico più modesto, ha tutti i denti del giudizio bene affilati, e alla sua modernità ideologica non è inferiore la tempra artistica di un verseggiare amorosamente rifinito, con enjambements abilissimi nel dare la baia di maliziose cadenze al martelliano: il verso in cui si era ufficialmente seduta l’ipocrita drammaturgia ufficiale del Giacosa e consorti. Pubblicato a un anno dalla morte dell’autore (1887), Pippetto era amaramente dedicato ai « beati matti » di giustiana memoria, ai futuri disillusi del socialismo nostrale, eternamente incapace di riforme e di rivoluzioni. Il classicismo per Riccardi di Lantosca era freno dell’arte e misura squisita anche in uno scherzo rimasto clandestino e solitario (mentre gli avrebbe tanto giovato una ribalta pubblica in uno stato che avesse avuto origine e vicende storiche diverse), ma per molti altri scrittori dell’Ottocento costituì naturalmente una forte remora conservatrice. Imparziale nell’escludere da questa raccolta tanto i non pochi e non valenti versi di certi manzoniani, quanto i retori del « parnaso democratico », ho creduto invece di dover accogliere i gentili epigoni del classicismo a cominciare da 296

quelli della scuola romana, e senza dimenticare quell’Ettore Novelli che ne rappresentò, a un livello giocoso, la coscienza critica del tramonto. È parso giusto accanto ai fratelli Maccari, che sono i più delicati fiori di questa modesta e gracile fioritura, far posto ai nostalgici della letteratura umanistica (come il Vitrioli e papa Pecci). Allietato dai ciuffi ben coltivati della Zanellia superflua (come la chiamava il De Meis con pertinente nomenclatura scientifica), in questo cantuccio idilliaco da orticello botanico ci sta

bene il museo che accolga la conchiglia fossile dell’elegante prete vicentino, e le amabili anticaglie etrusche e le mummie egiziane della sua scolara Bonacci Brunamonti e del triestino Revere. Chi ami virgulti più vigorosi, si rifaccia con il Nigra e il Betteloni, che spiccano per il loro classicismo nutrito da linfe più profonde e meglio assimilate dalla tradizione. Tanto vigorosi che qualcuno di loro fu addirittura scambiato per innovatore e realista mentre era solo uno spirito laico, uno spregiudicato conservatore del suo patrimonio avito. Dico il Betteloni, che giunse fino all’esperienze parnassiane fin di secolo, avendo saputo imparare dal suo Monti (e in particolare quello della Pu/cella) il verso che sfiora la prosa e vi scherza elegantemente senza cadervi. Il realismo poetico aveva avuto precoce inizio e precoce fine con Porta

e Belli, la cui eredità non fu raccolta, anche perché erano rimasti ignoti o inoperanti. E di verismo sarebbe più cauto parlare a proposito dei tardoromantici e scapigliati che tentarono di rinsanguare la loro musa anemica. Verista non del tutto conseguente e consapevole della propria audacia fu il calabrese Vincenzo Padula, che non ebbe serietà e pazienza artistica pari al suo lieto estro contadino, certamente dotato assai più di scrittori che seppero amministrare meglio il loro patrimonio letterario e si agitarono con più clamore, come l’Aleardi e il Rapisardi (romantici della seconda e terza generazione immeritevoli, per altro, di globali disdegni). E accanto a loro è parso giusto collocare non solo il Giacosa ma lo stesso Fogazzaro, che nei suoi versi non ha nulla che lo caratterizzi come partecipe del decadentismo cattolico. Naturalmente ci sono gli « scapigliati », nella cui produzione l’indugio critico e le scelte antologiche hanno scavato tutto il possibile, alla ricerca di non si sa quali tesori. Sono dei poveri provinciali attardati, con un gran complesso d’inferiorità rispetto al Manzoni, e con le loro nostalgie parrocchiali di paradisi infantili. La Francia era giunta dal °48 alla tragedia della Comune e aveva espresso col genio di Baudelaire una voce poetica che andava di là dai confini del decadentismo, e in Germania Wagner e Nietzsche facevano esplodere le contraddizioni accumulate in profondo da un romanticismo che aveva avuto poeti come Goethe, Novalis e Heine. Ma la superficialità e le velleità dei nostri poveri eroi della soffitta sono troppo evidenti perché si possa infierire con un giudizio. E sembra 297

invece giusto riconoscere ad Arrigo Boito e alla Contessa Lara una preminenza diversamente qualitativa. E non mi sentirei disposto a diminuire

un Olindo Guerrini che (nonostante la facilità e anche le volgarità) espresse

in Lorenzo Stecchetti un piccolo personaggio poetico, nato da una misu-

rata coscienza, e però senza le pose e i virtuosismi in cui si attardarono

tanti altri scrittori del tempo. Lo stesso suo Giobbe è qualcosa di più che una parodia di Rapisardi (che nelle sue velleità peggiori era già la caricatura di se stesso): era un tentativo di stabilire, nonostante il linguaggio semiserio, una bonaria tavola di valori, sia pure da osteria o da caffè, nella « babele » o piuttosto bazar dell’Italia bizantina (e levantina). Canzonando Carducci con ambiguo rispetto e rendendo omaggio alla severa grandezza del Verga, e perfino scommettendo un po’ rischiosamente sulla durevole gloria di Renato Fucini, « Marco Balossardi » voleva apertamente solidalizzare con quegli scrittori che avevano avuto il coraggio di rappresentare la realtà italiana, o dimostravano come lui simpatie per il socialismo e tentavano una poetica che reagisse alle riduzioni borghesi ed estetizzanti delle istanze profonde e moderne, implicate o confuse nelle voci più nuove dello stesso decadentismo europeo. La pubblicazione presso Barbera di una scelta dei sonetti belliani a cura di Luigi Morandi (1870) fu decisiva per l’opera del Fucini, di Ferdinando Russo, di Cesare Pascarella (il più debole dei tre, col suo verismo storico mal autorizzato dal Carducci e dagli esempi, ben più energici, di questi due poeti vernacoli suoi predecessori, così fortemente idiomatici nel loro linguaggio e popolari nei sentimenti, quanto lui era sciacquato nel suo dialetto imborghesito, che sopravvive solo grazie a qualche famosa battuta proverbiale). Le involuzioni reazionarie dell’Italia umbertina facevano sentire il peso della loro pressione politico-culturale anche su scrittori ideologicamente agguerriti, moderni, come Pompeo Bettini, traduttore del manifesto di Marx, e autentico, anche se povero erede del Leopardi nel configurare i limiti dell’illusione a chi non volesse vivere di nuove religioni messianiche. Che nitore, che limpidezza negli idilli di questo socialista, che iro-

nizzava sui compagni di riformismo e sulla loro pretesa di far perdere con la festa del primo maggio il miserabile « carattere storico » degli Italiani! In mezzo all’impudicizia e alle chitarrate di tanti pseudoribelli pronti a conciliarsi in nome del Dio-Patria-Famiglia con la borghesia e con la Chiesa, questo piccolo ma vero poeta si rilegge sempre con tenerezza, e con un rispetto affettuoso (magari diverso da quello di Croce che ce lo fece conoscere). E tanto meglio comprendiamo la gratitudine del gran critico borghese della nuova Italia per questa poesia di verismo idillico (fiorita sulle lacrime e sul sangue, sull’impotenza storica del nostro movimento operaio), se pensiamo all’azione di svuotamento che egli tentò 298

di compiere nei confronti di Leopardi, all’incomprensione del Belli (cui osò contrapporre Pascarella sulla fede del suo Catducci) e alla non meno iniqua diminuzione di Ferdinando Russo. Ma senza questa coerente angustia settaria (che trova solo riscontro in quella del Manzoni durante il

secolo passato) forse un altro poeta sarebbe rimasto vittima di altre ingiu-

stizie, e il caro don Salvatore Di Giacomo sarebbe rimasto dimenticato, forse, per chissà quanti anni in mezzo alle delizie settecentesche e prerisorgimentali in cui volentieri arretrava incantato a sognare: nato troppo tardi in un’età in cui Napoli, vista ad « occhio nudo », senza lo schermo di occhialini e profumi e musicali cabalette dell’ancien régizze, era troppo fetente di miserie e di dolori, perché un poeta vero non se ne accorgesse. Ma (lasciando stare il teatro e i racconti) le pagine veriste dei suoi versi sono le meno persuasive e poetiche, e dobbiamo leggerci le altre dove il grande alunno di Vincenzo Padula aveva imparato a recuperare dalle più oscure canzoni popolari segrete grazie, e a dissimulare nell’ingenuità senti-

mentale una sensualità e una raffinatezza estreme:

«e io che songo nu

poco veziuso... » (come dice il suo celebre venditore di spille francesi). Se dovessimo citare un nostro pittore degno di non sfigurare accanto ai grandi impressionisti della belle époque parigina, non potremmo che citare lui, Di Giacomo, coi preziosi valori tattili delle fritture di donna Amalia,

e con l’uva fragola in cui l’autunno fruttifica il tempo, e col miele di dolcezza in cui si struggono d’amore tutti, a cominciare dal poeta, i suoi cuochi e i suoi guappi e i corpi caldi di sonno delle sue donne, sicché le miserie dei vicoli si dorano di luce e i « bassi » si trasfigurano in fatue regge, e i pezzenti si consolano nella gratificata bontà dei purgatori. Non fosse altro che per Di Giacomo, perdoneremmo a Croce l’abbagliata ammirazione per Carducci. Ma non v'è ormai più bisogno di molte parole per polemizzare. La statura maggior del vero di questo poeta riacquista le sue proporzioni anche se l’opera occupa inevitabilmente ancora uno spazio storico vasto, barbara e buzzurra insieme, come quel monumento a Vittorio Emanuele II che l’« impronta » Italia bizantina volle inserire nel cuore di Roma, e il sole spietato ne illumina tutta la retorica falso-antica. Nel Carducci la sagace pietas storicistica ci ha aiutato a salvare quelle poche casi di poesia, che i compiacimenti professorali avevano ingombrato a lungo. E accanto a tanti versi che smentiscono il mito e la

menzogna del sano e muscoloso realista, perché son documento inoppugnabile di gusto decadente e parnassiano, il lettore moderno può sempre trovare non pochi versi da pregiare. Purtroppo quando si parla di carducciani, bisogna ammettere che nessuno fu più carducciano del cattedratico bolognese, nessuno lasciò tanta poesia da scuola e pet professori. In fondo, se fossi stato più coerente, avrei dovuto fondere in una sezione unica il 09

maestro e i discepoli (e gli avversari di battaglie tanto vicini a lui) e coloro che sono stati raggruppati con l’epiteto di bizantini, alludendo al famoso periodico di Sommaruga (che prese il nome da un noto distico carducciano: « impronta Italia domandava Roma, / Bisanzio essi le han data »). Leggendoli si vedrà che ebbero molto in comune, e formarono quella solidale confluenza fine secolo che è la fase più provinciale del nostro decadentismo. Infine, anche scrittori come Gualdo e Zena (se si bada alle date e alla qualità dei loro versi, meno importanti, senza dubbio, dell’opera in prosa) possono considerarsi, non già inauguratori del decadentismo

poetico ricco

di futuro, di esperimenti e di echi novecenteschi, ma epigoni di questo bizantinismo ottocentesco. Mi scuso dei cenni troppo rapidi, ma ruît bora. Spero di avere il tempo e l’occasione di ritornare su questo discorso. Tra l’altro, dovrei giustificare l’assenza di tanta graziosa poesia popolare e dialettale, che avrebbe probabilmente imposto troppe pagine. A malincuore, confesso, mi son deciso a rinunziare a piccoli capolavori come la Canzone del Guarracino o Cicerenella, o Funniculì-Funniculà (per limitarmi solo alla poesia napoletana). Ma perché il lettore non si sentisse defraudato, ho voluto chiudere l’opera con tre canti popolari storici. Si può far a meno di un « elmo di Scipio » per difendersi dalla polizia? di un canto per destarsi dalle tombe, qualora non fossimo più lieti della conquistata interdipendenza? di un inno che ci persuada alla necessità dell’alienazione o (come alternativa) del morire « pugnando »? Credo propriodi no. 1968

300

EPILOGO*SU*CROCE"E

LA CRITICA

LETTERARIA

[...] Fare i conti con Croce è stato per me un esercizio salutare che ho cominciato alla fine degli anni Venti, quando ancora ero al liceo e ho studiato il Breviario d’estetica, fra i testi filosofici a scelta per l’esame di maturità. Sono un crociano di antica data, ma devo dire che quando ero ancora all’università ho instaurato subito un rapporto critico nei confronti di Croce, che ho conosciuto anche di persona. Quell’atteggiamento critico, che forse oggi non è più presunzione, non l’ho mai abbandonato. Crociano e anticrociano sin da quando non avevo ancora vent’anni. Tanto è vero che, pubblicando gli Studi desanctisiani nel 1931, accanto a un importante saggio di Croce il mio studio sulla poetica del realismo e il gusto del De Sanctis scrittore si chiudeva con una invettiva vera e propria contro la poesia di Carducci, che io consideravo « poesia da professore », e contrapponevo ad essa l’opera di Verga, anche se proprio la linea De SanctisVerga era stata per lunghi anni perdente nella storia della letteratura dell’Italia unita, mentre aveva trionfato la retorica classicista e decadente. Oggi, come ieri, non credo siano da condividere gli atteggiamenti dell’umanesimo conservatore di Croce, quella sua avversione ed estraneità alla letteratura del nostro secolo. Nulla di più inattuale. Ma anche nulla di più vivo e attuale il fatto che nella critica di Croce sentiamo che c’è l’uomo con le sue passioni, con le sue esperienze, con i suoi problemi e i suoi ideali, morali e politici, come credo sia giusto esigere sempre da una autentica critica letteraria. E invece noi vediamo oggi affermarsi un certo tipo di critica anche nei giornali e nei rotocalchi, oltre che nelle riviste e

in tanti convegni, che producono spesso vaniloqui macchinosi e costosi. Trionfa una figura di tipo nuovo, quello che io qualche volta ho chiamato il criticus ludens, il critico che si diverte, il critico tutto fare che si esibisce in giochi di prodigio e di prestigio, che in quanto tali possono essere anche divertenti, ma che in qualche modo sempre si sovrappongono al testo e 301

pretendono di farsi apprezzare anche sul piano scientifico: dove, per la verità, sono di rado apprezzabili. Con tutta questa esaltazione del « soggetto », questo soggetto che arzigogola sull’oggetto e si esibisce nei suoi ludi semiologici, sociologici, e pseudocritici, che cosa può farsene di Croce? Niente. Lo ignora. Io non credo che sia facile per questi soggetti poter ancora valersi di Croce. Ma invece io penso che proprio il suo umanesimo

di base non debba essere rifiutato, perché anche per il critico vale quello che diceva Pascal, che in un vero scrittore bisogna sempre poter riconoscere l’uomo. In questi nuovi critici è difficile trovarlo. Nella loro esaltazione

tecnicistica

di strumenti

critici più o meno

sofisticati

certamente

rivive l’illusione neoscientifica e neopositivista di produrre scienza della letteratura. E certo è necessario fare della critica letteraria una scienza. Ma dobbiamo intenderci su questa parola, e sulle finalità sociali che ogni scienza degna del nome non può non proporsi guardando al futuro dell’uomo. Il supremo umanesimo borghese di Croce può essere assunto come un’eredità storica, anche se, anzi soprattutto se noi ci proponiamo di costruire un futuro: un altro umanesimo, quello socialista e non un umanesimo di élite, un umanesimo nuovo che sappia difendere i diritti della persona contro le alienazioni generate da tutte le società moderne, siano esse capitalistiche o pseudocapitalistiche, socialistiche o pseudosocialistiche. Noi non possiamo rassegnatci ad accettare la critica letteraria come un esercizio tecnicistico, anche perché questo significa in realtà accettare quella che è ormai la tendenza dominante nel mondo occidentale di cui facciamo patte, e purtroppo in maniera sempre più subalterna. Non accettiamo questa impostazione tecnicistica propria della civiltà

industriale, senza tentare di vedere come il problema fondamentale di oggi sia il dominio sulla macchina, l’uso della macchina per sviluppare e verificare anche ipotesi critiche nuove. Ma queste non nascono se in noi non

vive un soggetto consapevole del presente, e non soltanto in rapporto col passato, ma anche in rapporto col futuro. Se poi veramente [...] non ci siamo già rassegnati a una situazione apocalittica, se noi ancora

viviamo

per difendere l’umanità dalla sua distruzione, se noi crediamo in un futuro, allora i conti con l’umanesimo li dobbiamo fare. E l’umanesimo oggi significa anche asservire la macchina all’uomo, dominare la tecnica per l’uomo che deve essere messo al primo posto. Non mi dilungherò su ciò che si può considerare una porta aperta, anzi sfondata: anche lo storicismo idealistico ammette che tutti i giudizi critici di Croce a distanza di anni non possono non essere sottoposti a ripensamenti per essere in parte accettati e in parte respinti. Ma il pro-

blema è vedere se e che cosa degli stessi presupposti metodologici di Croce possa essere ancor valido nella critica e nella storiografia letteraria. Io penso 302

di sì, se noi riproponiamo però un nuovo storicismo, quello che io sulle orme di Gramsci chiamo storicismo integrale, che riconduca l’arte e la critica stessa sotto il concetto generale della storia e della storia come pensiero e come azione. To nego, con Lessing e altri teorici, l’unificazione e assimilazione delle varie arti ad « arte »: ogni arte ha dei problemi specifici del mezzo espressivo col quale l’artista, sia un cineasta o un uomo di teatro o un pittore o uno

scultore o un architetto o uno

scrittore o un poeta o un

musicista, deve fare i conti. Ma se anche vogliamo accettare la riduzione e semplificazione operata da Croce, ogni produzione artistica, sia essa di poesia o di prosa, di letteratura o di oratoria (accettiamo pure queste distinzioni crociane), è sempre un lavoro sulle parole, sulle immagini, sui suoni e non è una totalità in sé, ma è una totalità che si realizza in un contesto storico e che crea un rapporto intersoggettivo, storicamente databile sia quando si instaura, sia quando nell’interpretazione, nella lettura, nell’ascolto, il processo di codificazione diventa processo di decodificazione. Desanctisiano prima e più che crociano, io non ho mai dubitato del fatto che, come diceva con la sua geniale semplicità De Sanctis, il lavoro del critico è un lavoro sopra un altro lavoro e consiste nel ripercorrere il processo produttivo dell’artista ripercorrendone il movimento costruttivo che è inscritto nella forma dell’opera. Come ebbe a notare Giovanni Gentile in una lettera, mi pare del 1910, Croce aveva sostanzialmente rigettato il concetto desanctisiano di forma. E fu anche per questo che con gli anni è sempre più cresciuta la

mia insoddisfazione per la sua critica. Questa insoddisfazione

cominciò

proprio negli anni Trenta. E lasciamo stare ora tutte le mie ingenue pre-

tese di ritrovare in Croce qualcosa che era impossibile trovare, cioè anche il liberalismo di De Sanctis (onde il mio distacco dal suo liberalismo conservatore, che mi portò nel corso del tempo da Gobetti e Dorso a Labriola, a Gramsci,

a Marx).

Ma

per rimanere

alle questioni

di metodo

nella

critica letteraria, io cominciai ad avere questi dubbi quando non ero in grado di darmi una risposta. Talvolta accompagnavo Croce nella sua passeggiata pomeridiana, che per lui era di svago e di riposo, e anche per questo mi rispondeva rimandandomi ai suoi scritti. Non era un Socrate dialogante, e piuttosto bruscamente preferiva schermirsi con le battute. Io invece, con bella illusione e proterva ingenuità, continuavo imperterrito a proporre quesiti e dubbi e una volta (temo di aver forse già ricordato questo aneddoto che mi sembra significativo per i problemi da me intravvisti), poiché riproponevo l’esigenza di ripercorrere il processo genetico dell’opera d’arte, Croce mi rispose in napoletano: « Vuie vulite trasi’ sott’ ‘a coppola d’ ’o parrocchiano » (« Voi volete entrare sotto la berretta 303

del parroco »). Certo, volevo proprio questo. E se rifiutavo una concezione mistica della forma, che credo Croce non abbia mai eliminato dal suo pensiero, il mio dissenso nasceva appunto dal fatto che io ero più desanctisiano che crociano. Io crociano puro sono stato solo fino agli esami di maturità, quando dovetti difendermi esponendo il Breviario di estetica al professore che mi interrogava, che non era affatto crociano. Il dissenso metodologico maturò con gli anni, e soprattutto attraverso la collaborazione a un manuale di Luigi Russo, I classici italiani di Sansoni, quando mi furono affidati i ritratti critici e il commento a una scelta di scrittori del ‘400, in sostituzione di Natalino Sapegno, che aveva rifiutato. Sarò sempre grato alla memoria di Luigi Russo per la fiducia che ripose in me e per il tipo di lavoro critico. Del resto, fui io stesso a formulare i criteri che Russo condivise e che volle fossero comunicati a tutti i colla-

boratori. Per tutti i critici a leggere un mentando la linguaggio di

me fu un’esperienza salutare. E credo sia da consigliare a giovinetti (quale che sia la loro età), perché nulla insegna testo come il confronto puntuale con la pagina: solo compagina parola per parola ci si rende conto di che cosa è il uno scrittore, lo stile di uno scrittore, la forma di uno scrit-

tore. Fu in realtà questa pratica di commento che mi fece cominciare a capire i problemi che non si possono eludere, e capire che la storicità effettuale di un testo attraversa il testo, è inscritta nel testo. Non a caso

sono gli anni in cui Croce stesso meditava non solo i problemi di poetica nel suo libro sulla Poesia, ma scriveva tutti i saggi poi raccolti nel volume Storia come pensiero e come azione e quelli sul Carattere della filosofia moderna. Sono i tre volumi fondamentali della sua svolta. Alta, straordinaria lezione di un uomo che non si accontentava mai e cercava di verificare continuamente la validità del suo pensiero. Nonostante l’apparente sicurezza e olimpicità, egli era tormentato da dubbi continui che lo accompagnarono sino agli ultimi momenti della sua vita. Le insoddisfazioni per la sua metodologia letteraria furono del resto anche quelle di un uomo che è certo da considerare un rappresentante dell’alta crocianità e cioè Mario Fubini, il quale anche lui fu chiamato da Luigi Russo a collaborare, con il commento e i ritratti ad alcuni scrittori del ’700, ai Classici italiani, e che non a caso mise presto a frutto la lezione di Vossler e di Spitzer, approdando a quella che in qualche modo bisogna chiamare (ma non in politica) la sinistra crociana. Per quanto mi riguarda, devo dire che in realtà lo scritto che mi ha convinto di più, e mi ha rafforzato a ricondurre l’arte e la critica sotto il concetto generale della storia, è stato certamente l’opera centrale del pensiero di Croce: La Storia come pensiero e come azione. È questo libro che mi ha fatto dubitare dello storicismo imperfetto e inconseguente della critica letteraria di Croce. 304

Come mai questa storia che tutti ci attraversa (com’egli dice, riprendendo una bellissima immagine di Antonio Labriola), non è più ripercorribile e riconoscibile nella gestazione di un’opera d’arte e nella sua strutturazione? Altre esperienze mi hanno successivamente giovato nella mia ricerca di storicismo integrale, a cominciare dalla mal dispregiata critica delle varianti, perché con questa si entra nel segreto laboratorio di uno scrittore. Quando noi abbiamo la fortuna di avere questa documentazione, trovo assurdo rinunciare a elementi di indagine preziosi per ripercorrere il processo produttivo. Questo processo è un movimento che coinvolge tutta l’umanità dello scrittore, la sua pratica sociale e la sua ideologia, la sua razionalità ma, non dimentichiamolo, la sua passionalità. Nelle mie letture critiche, da quella dell’Ultimzo canto di Saffo alle opere del Boccaccio, ho potuto convincermi che solo individuando in un testo il processo di formazione, di lavorazione, di strutturazione noi possiamo fare della critica storicistica integrale, ritrovando con la storia della lingua, quella del pensiero, della vita economica, politica, sociale. Ritrovare cioè, in concreto, la possibilità di costruire quella storia letteraria che Croce negava e che considerava solo oggetto di compilazione manualistica. Certo, il fine del critico è quello di individuare nelle opere d’arte ciò che le rende inconfondibili rispetto alle altre. Ma se facciamo attenzione alla storia che all’interno di un’opera d’arte va dal contenuto alla forma, dalla struttura di genere allo stile alla lingua, noi abbiamo meno difficoltà a ricollocare nel quadro di una storia integrale la stessa opera d’arte. È su questi presupposti che insieme a molti valorosi collaboratori, fra cui molti amici e scolari di Catania, ho tentato di realizzare la storia letteraria pubblicata da Laterza. Devo dire che fin da giovane proprio questi rapporti con il reale erano oggetto anche dei miei petulanti ma non impertinenti interrogativi. E perciò vorrei raccontarvi ancora un aneddoto, che forse conferma quello che ho ricordato altre volte a proposito dei rapporti tra scrittori contemporanei. Io avevo scritto una breve noterella sulle Satire di Ariosto. Conversando con Croce ebbi a dirgli allora che a me era apparso lampante, leggendo il Furioso, che il problema del rapporto fra virtù e fortuna, che aveva interessato Machiavelli, aveva interessato anche Ariosto, naturalmente in quanto poeta. Ebbene, Croce mi rispose che il problema era insussistente. Son ritornato molti anni dopo a occuparmi di questo nesso in un mio saggio

premesso all’edizione Einaudi del Furioso nel mio Parnaso, e poi nell’analisi del famoso saggio di Croce sull’Ariosto (appunto nella storia letteraria laterziana già citata). E mi sembra di aver potuto riconfermare la validità delle mie impressioni giovanili. Certo io resto crociano impenitente nel ribadire il compito individualizzante del critico. Ed è per questo che alcuni approcci metodologici odierni 305

mi lasciano perplesso e ostile. Non li trovo abbastanza individualizzanti, com'è del resto tanta critica di Benedetto Croce. Le strutture, a cominciare da quelle dei generi letterari, possono essere comuni a molte opere, ma che: attraversa quello che è inconfondibile è il processo contenuto-forma in un modo particolare tutte le strutture, non escluse quelle sociali, non escluse quelle psichiche. Anche queste possono essere comuni a. molti scrittori, ma indubbiamente esse sono diversissime come ci può far comprendere solo l’analisi integrale di un testo: multidisciplinare e totalizzante. Il problema è di non cadere nell’errore in cui spesso si cade, di ritenere un punto di approdo quello che invece è un punto di partenza del nostro discorso critico che rimane nella sua genericità. La critica sociologica (a questo si è ormai ridotta tanta critica di estrazione

marxista) non

ci

convince, in quanto pretende di esaurire la sua lettura descrivendo la situazione di classe dello scrittore anche all’interno della scrittura e il pubblico a cui l’opera si rivolge. Ma quando noi abbiamo detto che uno scrittore è un borghese, un piccolo borghese o un alto borghese, e si rivolge all’orizzonte di attesa di questa o quella classe sociale, noi abbiamo detto delle utili genericità di carattere strutturale, che invece si devono riempire di un contenuto particolare. Due contemporanei appartengono alla stessa classe, ma i loro approdi ideologici e artistici possono essere affatto diversi. Per esempio: Leopardi e Manzoni. Analogo discorso è da fare per la psicocritica, e i riferimenti alle strutture psichiche. Tutti nasciamo da una madre e da un padre, e abbiamo avuto un’esperienza familiare. Ma ogni rapporto edipico, per fare un esempio, cambia da artista ad artista, e anche nel corso e nelle crisi della sua personalità, e anche per un diverso contesto familiare e sociale di cui occorre tener conto. Altro è il problema edipico nel Canzoniere di Petrarca, altro nel Canzoniere di Saba. La crisi della mezza età varia da scrittore a scrittore anche se essi la superano felicemente in un decisivo approdo creativo. Senza il correttivo e l’integrazione storicistica, l’approccio psicocritico può rischiare di essere forzato, arbitrario, se è privo del necessario controllo interdisciplinare. Un discorso analogo risulta più che mai valido per l’approccio semiologico-linguistico, del resto gettato in crisi dopo tante professioni di rifiuto dello storicismo. È bastato che uno dei santi padri dei semiologi, Roman Jakobson, abbia (con esemplare e geniale onestà di maestro) messo in discussione tutto il passato in un libretto di qualche anno fa, perché i poveri fedeli ormai si siano tutti andati ricredendo, proclamandosi storicisti. Meglio tardi che mai, se la conversione è seria. Meglio mai che tardi, se i semiologi non si convincono anche loro che la descrizione fenomeno306

logica di un testo può essere un necessario punto di partenza, ma non di arrivo. C'è infine un altro a blena fonidaticitale: che ci rinvia a Croce: quello dei giudizi di valore, che non per nulla tanti critici di diversa estrazione, tendenza e metodologia oggi tendono a eludere, con un significativo disimpegno. C'è un memorabile saggio di Croce (1909) appunto sui giudizi di valore nella filosofia moderna, ristampato: in appendice al Saggio sullo Hegel, e nato appunto dalle sue meditazioni sulla critica letteraria. Croce giungeva alla conclusione che essi sono pertinenti alle categorie dello spirito, e ovviamente non poteva non riutilizzarli quando, nel libro sulla Poesia, distingueva le varie forme di espressione. Ecco, io credo che non sia utile rinunziare a queste distinzioni (espressione poetica, prosastica, letteraria, oratoria). Ma possiamo fermarci a. enunciarle in generale, a proposito di un’opera? Due scrittori possono aver lasciato delle produzioni che hanno solo un valore letterario. E tuttavia la stilizzazione può essere diversissima da opera a opera, anche dello stesso scrittore. Un lavoro sulle parole può approdare a valori poetici, prosastici ovvero otatori. Ma solo attraverso l’analisi individualizzante di un testo noi giungeremo a caratterizzare una determinata e inconfondibile prosasticità, oratorietà o poeticità. Anche per il metodo suggerito da Croce esiste il pericolo di considerare come punto di arrivo quello che è solo il genetico inizio di un discorso critico. Certamente Croce, parlando delle varie espressioni, raccomanda di tener conto quale sia quella dominante ‘sulle altre che ricorrono nel testo. Ma queste distinzioni non bastano, perché nel processo produttivo il rapporto tra la dominante e le altre avviene attraverso un movimento di particolari contraddizioni, che sono da analizzare proprio perché caratterizzano e individuano un particolare processo, nell’ambito di una struttura e di una scelta di genere. Insomma, anche in questo caso bisogna diffidare dalle genericità e dalle formule e determinare il giudizio di valore che solo ci permette di pregiare il particolare lavoro dal quale esso nasce.

In proposito vorrei ricordare che, invitato a un convegno sul cinema di consumo promosso a Massa-Carrara “dall'amico Guido Aristarco, non ho avuto il piacere di incontrarmi con avversari del giudizio di valore. Tutti i sociologi invitati, fiutando odore di battaglia e forse di sconfitta, avevano rifiutato il dibattito. Non si può fare della critica (dicevo a proposito dei film di Matarazzo) prescindendo dal giudizio di valore. Se Delitto e castigo è e può essere considerato come un grande romanzo di appendice, non c'è forse qualche differenza nel modo di lavorare di Dostoevskij rispetto a Eugenio Sue? Il problema del valore ‘in rapporto al lavoro specifico, al processo costruttivo di un’opera d’arte, non è secondario: a un lavoro 307

diverso corrisponde un diverso. valore. Il rapporto stabilito conla realtà

dal cavalier Marino è un rapporto ludico essenzialmente col mondo delle parole e. delle immagini, il.rapporto con la tealtà politica e.religiosa stabilito da Ariosto.e da Tasso è un rapporto con i grandi problemi .del Rinascimento fino alla sua crisi, Giò. che condiziona il modo di' lavorare. di uno

scrittore è la profondità di un rapporto col reale. E lasciatevelo dire da chi non si accontenta ormai da tempo della concezione lukacsiana del rispecchiamento della realtà (su .cui. troppo a lungo si è vissuto. di. rendita, rovesciando il superficiale crocianesimo di base in un marxismo ancor più superficiale e acritico). Certo, può capitare che un artista, per andare incontro a esigenze e sollecitazioni dell’industria editoriale, scriva dei libri che

vanno certamente incontro. all’attesa del pubblico, ma che solo critici giornalieri (o piuttosto critichieri). possono esaltare da lacchè e pronubi della industria editoriale. Un lettore attento, disinteressato e non. sfornito di finezza critica, sa distinguere; e ho molto apprezzato che un critico di indirizzo sociologico, Gian Carlo Ferretti, abbia riconosciuto questo fenomeno di degradazione a letteratura di consumo nell'ultimo Calvino. Altret-

tanto si potrebbe dire di Sciascia e di Cassola. Ma il discorso sul giudizio di valore (non ho bisogno di ricordare il bellissimo studio del compianto Augusto Guerra, pubblicato a Catania da Antonino Bruno) resterebbe monco

se non indugiassimo su ‘alcune consi-

derazioni. I lavori della paraletteratura e le stesse opere minori si inscrivono in un contesto. di attualità o di modernità che è per eccellenza effimero, in quanto si instaura un rapporto con la realtà più .superficiale, a confronto dei capolavori. Diverso è il capolavoro il ‘cui valore si perenna nei secoli. Ma un momento: questa umanistica fede nell’eterno della poesia può davvero essere assoluta e incondizionata? Accettare la assoluta storicità della condizione umana è difficile, e all’aiuto che ci ha dato il Croce moralista non saremo mai abbastanza riconoscenti. Lo storicismo è una seconda rivoluzione copernicana e capisco che è duro accet-

tarla, come per il povero Simplicio galileiano era arduo immaginare

di

vivere su una tetra che si muoveva sotto i piedi. Ma non credo che occorra

un particolare coraggio per ricotdarsi, proprio.in base a esperienza storica, che le opere di poesia non sono eterne, possono avere una durata maggiore o minore, esser soggette ‘a eclissi totali o parziali, più: o meno lunghe di decenni o di secoli. Limitiamoci al caso di Omero‘e. Dante nell’età barocca. Certi critici tecnicistici vorrebbero farci credere chela lettura sia un’operazione asettica e metastorica da gabinetto scientifico. No; cari amici, « semo tutti. nella storia » (come diceva Cesare Pascarella), autori e critici.

Queste considerazioni :ci.riportano al problema di concepire anche la storia e la teoria della letteratura come pensiero. e come. azione. Aristotele

308

presuppone i tragici greci, Hegel Goethe, De Sanctis Leopardi. Da buon (o cattivo) marxista, io credo si debba mettere al primo posto il fare, nel nostro caso il fare creativo. Possiamo trascurare il fatto che a condizionare Croce in concreto fu Giosue Carducci, da lui pregiato come grande poeta dall’adolescenza fino alla vecchiaia? Non c'è dubbio che, non meno dei superlettori, qualunque lettore sia storicamente condizionato, che esista una condizione di soggettività storica, prima ancora che individuale, quando si decodifica un messaggio artistico. Ma è lecito esaltare questo necessario, inevitabile momento soggettivo sovrapponendolo al testo fino a obliterare voluttuosamente il testo? Nelle epoche di decadenza e di crisi la critica si ammala di elefantiasi anch’essa, e non meraviglia che alla scuola del povero Barthes tutti i critici novelli credano il proprio discorso più importante e più creativo del testo di cui discorre, e dunque è scontato che non gli servano giudizi di valore, perché il valore supremo è ascoso nella misteriosa profondità dei loro discorsi. Ma c’è un’altra, implicita rinuncia al giudizio di valore in quei critici che non si assumono la responsabilità e non si propongono neppure quell’oggettività che resta il necessario quanto in parte illusorio dovere di

chiunque ambisca fare scienza. Dicono, e sembrano umili (ma in effetti sono fierissimi della loro trovata che dovrebbe raddoppiare di valore la loro critica), che di un testo si possono dare almeno due interpretazioni. No, cari amici, dobbiamo avere il coraggio di darne una fondata nel testo, in un’analisi totalizzante, se ne siamo capaci, pluridisciplinare e interdisciplinare, per verificare la validità delle nostre ipotesi critiche, anche se sappiamo che quanto sosterremo può essere ripensato, convalidato o invalidato da altri, o magari da noi stessi, se negli anni avremo conquistato una ottica migliore, una più esigente capacità di interrogare un testo. Ambire all’obiettività pur essendo consapevoli che essa non è una conquista definitiva, è il dovere irrinunciabile di chi voglia fare scienza e storia della letteratura appellandosi al testo, che forse è più importante di qualsiasi critica. Ma capisco come e perché, in una crisi generale che non risparmia nessuno, si abbia ormai paura di impegnarsi e si preferisca un’attività ludica o esercizi virtuosistici che divertano dall’incubo del futuro, e ci si contenti poi di infantili protagonismi. È diventato più che mai difficile costruire per il futuro, combattere per il futuro, in questa tremenda età che si è iniziata con due atti della barbarie americana: il processo di Norimberga, che Croce ebbe il merito di denunciare, e l’atomica su Hiroscima, il cui orrore non dovrà essere dimenticato, se il genere umano vuol rinunciare al suicidio collettivo e alla distruzione del mondo, divenuto più che mai grande e terribile. [...]

1982

309

a

PIRATE Sat P%4

Si danno qui le referenze bibliografiche di tutti gli scritti editi. Il riferimento è sempre alla prima edizione. La « commedia romana » del Belli, introduzione a G. G. BELLI, I sonetti, a cura di Lanza, Milano, Feltrinelli, 1965. L’artefice Niccolò Tommaseo, cap. II del saggio apparso in E. CeccHi-N. SAPEGNO, Storia della letteratura italiana, v. VII, L’Ottocento, p. 772-808. Alessandro Poerio, in « L'Unità », XXV (1948), n.s., 267, 11 novembre. Goffredo Mameli: il poeta del ‘48, in « Rinascita », V (1948), 9-10, p. 353-360. Il « buon canonico » Parzanese, in « L’Unità », XXV (1948), n.s., 212, 8 settembre. Vincenzo Padula, capp. 5-8 dell’introduzione a V. PApuULA, Persone in Calabria, a cura di C. Muscetta, Milano, Milano-Sera Ed., 1950, p. 52-105. It classicismo borghese di Vittorio Betteloni, in « L'Unità », XXV (1948), n.s., 116, 18 maggio. Un socialista idillico: Pompeo Bettini, in « Primato », III (1942), 16, p. 307-308. Le favole di Gramsci, introduzione a A. Gramsci, Favole di libertà, a cura di E. Fubini e M. Paulesu, Firenze, Vallecchi, 1980. Per la poesia del Duecento e del Trecento, introduzione al v. I del Parnaso italiano, Torino, Einaudi, 1956. Per la poesia del Quattrocento e del Cinquecento, introduzione al v. IV del Parzaso italiano, Torino, Einaudi, 1959. Per la poesia del Seicento, introduzione al v. VII del Parraso italiano, Torino, Einaudi, 1964. Per la poesia del Settecento, introduzione al v. VIII del Parnaso italiano, Torino, Einaudi, 1967. Per la poesia dell’Ottocento, introduzione al v. X del Parnaso italiano, Torino, Einaudi, 1968. Epilogo su Croce e la critica letteraria, in Benedetto Croce trent'anni dopo, a cura di A. Bruno, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 133-144. Si ringraziano le case editrici Einaudi, Feltrinelli, Garzanti, Laterza e Vallecchi per la loro gentile disponibilità. Tutta l’affettuosa gratitudine dell’Autore a Enzo Frustaci e Elsa Sormani, generosi e attenti collaboratori per le bozze e per l'indice.

311

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INDICE

Abati, Antonio, 254, 258 Abbelli, Cesare, 249 Acciano, Giulio, 258 Achillini, Claudio, 246 Addison, Joseph, 269 Adimari, Ludovico, 258 Agosti, Stefano, 189 Agostino, s., 90 Albertazzi, Adolfo, 64 Albertelli, Lia, 123 n Albertelli, Pilo, 128 Aleardi, Aleardo, 297 Alfieri, Vittorio, 26, 41, 46, 122, 264, 282, 283, 284

Alfonso Maria de’ Liguori, s., 85, 167 Algarotti, Francesco, 265, 273, 275, 280 Allart, Sophie, 17 Amaturo, Raffaele, 279 Amaury, 76 Anacreonte, 248 Angiolieri, Cecco, 223 Anonimo Genovese, 221 Antonio da Ferrara, Antonio Beccari detto, 226 Arcoleo, Giorgio, 169 Aretino, Pietro, 20, 35, 43, 235 Ariosto, Ludovico, 161, 170, 229, 234, 25523 6000245182531 265,.1:268,00276, 287,.305, 308 Aristarco, Guido, 307 Aristotele, 246, 308 Artale, Diamante, 75, 88, 247 Azeglio, Massimo d’, 116

DEI NOMI

Bacci, Orazio, 108 n Bacone, Francis, 261

Baffo, Giorgio, 275 Balatri, Filippo, 274 Balbo, Cesare, 118 Balbo, Prospero, 282 Baldacchini, Saverio, 68, 291 Baldi, Bernardino, 10, 259 Balestrieri, Domenico, 274 Ballanche, Pierre-Simon, 71, 79, 86, 87,

96 Balzac, Honoré de, 17 Bandello, Matteo, 237 Bandiera, f.lli, 108, 121 Baratta, Antonio, 295 Barbera, edit., 218 Baretti, Giuseppe, 263, 275 Barrili, Anton Giulio, 106 IST n, IZ

n,

107

255,

256

n,

a, era

Barthes, Roland, 309 Bartoli, Daniello, 247 Baruffaldi, Girolamo, 270 Basile, Giambattista, 202, Basso, Antonio, 249 Bassville, Hugo de, 29 Batacchi, Domenico Luigi, Battifolle, Carlo, 225 Battista, Giuseppe, 249 Baudelaire, Charles, 52, 85, Beaumont, m.me le Prince, Beccaria, Cesare, 277 Beccattini, Carolina, 87 Belelli, Giulio Cesare, 264

275, 276

96, 297 206

313

Belcari, Feo, 233 Belgioioso, Cristina, 079. Belli} fam Belli, Ciro, 1a 54, DI; 36 Belli, Gaudenzio, 19 Belli, Giuseppe Gioachino, 7-58, 90, 111, 141, 236, 256, 276, 287, 291, 29DI 294) 296, 297, 299 Bellini, Lorenzo, ‘258 Bembo, Pietro, 235, 237 Benedetto, s., 90 Benedetto da Bonito, 131 Benedetto XIII, 273 Berchet, Giovanni, 84, 293, 295 Berneri, Giuseppe, 19, 20, 256, 257 Berni, Francesco, 20, 43, 45, 236, 273 Bernini, Gianlorenzo, 250 Bertani, Agostino, 126 Bertola, Aurelio, 281 Bertoldi, 121 Bertoli, P. A., 127 n Bettelheim, Bruno, 196, 200, 201, 202,

Boschini, Marco, 259 Boselli, Paolo; 208 Botta, Carlo, 17 Bottoni, Giuseppe, 281 Bourguignon d’Herbigny,

17 Bracciolini, Francesco, 259 Branca d’Oria, 42 Brignole Sale, Anton Giulio, 250 Briti, Paolo, 254 Bruno, Antonio, 308 Bruno, Giordano, 237 Buccio

di Ranallo,

227

Buchez, Philippe-Joseph-Benjamin, 101 Buonaccorso da Montemagno, 232 Buonarroti, Michelangelo, 82, 238, 240 Buonarroti, Michelangelo il giovane, 254, 257 Burchiello, Domenico di Giovanni detfo 111092533 Busenello, Giovanni

Byron,

George

135.1500170.

Francesco, 254 Gordon, 90, 107, 115,

203, 205

Betteloni, Vittorio, 147, 169-172, 297 Bettinelli, Saverio; 273, 280, 281 Bettini, Amalia, 33

Bettini, Pompeo, 113, 171, 173-181, 298 Biagini, Domenico, 17 Biagioni, Caterina, 54 Binni, Walter, 285 Biondi, Luigi, 12 Bixio, Nino, 118, 121, 123, 125, 128 e n Blanc, Jean-Joseph-Louis, 100 Boccaccio, Giovanni, 20, 198, 202, 222,

225, 226, 228, 229,237; 244, 264, 276, 305

Boccardo, Gerolamo, 118 Boiardo, Matteo Maria, 229, 234 Bollina, Marco, 185 Boito, Arrigo, 170, 298

Bonacci Brunamonti, Maria Alinda, 297 Bonagiunta Orbicciani da Lucca, 224 Bonaparte, Luigi, 56 Bonarelli, Prospero, 243 Bondi, Clemente, 274, 280 Bonfantini, Mario, 169, 171, 172 Bonghi, Ruggero, 169 Bonichi, Bindo, 227 Bonifazio VIII, 42, 219 Bonvensin de la Riva, 219, 220, 221 Boringhieri, edit., 204

314

Calcaterra, Carlo, 253, 285

Caloprese, Gregorio, 265, 267 Calvino, Italo, 199, 204, 308 Calvo, Edoardo Ignazio, 277, 282 Campagna, Giuseppe, 133 Campanella, Tommaso, .101, 241,

242,

252

Canale, Michele Giuseppe, 106 n Cancellieri, Francesco Girolamo, 8 Canova, Antonio, 8 Cantù, Cesare, 73, 77, 130 Cappellari, M. vedi Gregorio XVI Capponi, Gino, 59, 68, 73, 78, 83, 84, 86, 87, 88, 95 Capponi, Ortensia, 87, 114 Caprioglio, Sergio, 191 Capuana, Luigi, 251 Caracci, fam., 246 Caracciolo, fam., 256 Caracciolo, Domenico, 272 Garducci, Giosuè; 172, 90, 93, 105Weln, TLO MILA IT69 170175

269,

285,

287,

294,

Caretti, Lanfranco,

240

8235824618250)

296, ‘298,299;

301, 309

Cariteo, Benedetto Gareth Carli, Gianrinaldo, 15

detto il, 234

Carlo Alberto di Savoia, 107, 125 Carlo Emanuele I di Savoia, 242, 243 Carlo Magno, 238 Carlo V, 240 Carlo VI, 263 Caro, Annibal, 238 Carrer, Luigi, 84, 112, 136 Cartesio, Renato vedi Descartes, René Cassiani, Giuliano, 269 Cassola, Carlo, 308 Cassoli, Francesco, 280 Castelvetro, Ludovico, 263 Casti, Giambattista, 271, 272, 275, 276 Castiglione, Baldassarre, 107, 237 Catelli, Giuseppina, 78, 82 Caterina da Siena, s., 226 Cattaneo, Carlo, 64, 66 Catullo; Gaio Valerio, 170, 233 Cavaignac, 102 Cavalca, Domenico, 226

Cavour, Camillo Benso conte di, 55 Cecco d’Ascoli, 52, 226 Ceccoli, Marino, 227 Cecilia, s., 90 Cenne della Chitarra, 223 Cerretti, Luigi, 280 Cesarotti, Melchiorre, 10, 70, 279, 281, 282, 294 Championnet, Jean-Etienne, 9 Chateaubriand, Frangois-René,. 8, 64, 86, 293

Compagni, Dino, 221 Compagnoni, Giuseppe, ‘281 Condillac, Étienne Bonnot de, 278 Conrad, Joseph, 186 Consalvi, Ercole, 8, 12 Contessa Lara, 298 Conti, Antonio, 270 Conti, Giusto dei, 234 Contini, Gianfranco, 54, 184, 185 n, 223 Coppi, Antonio, 12 Corneille, Pierre, 261, 264, 282 Correggiaio, Matteo, 225 Corsini, Bartolomeo, 258 Cortese, Giulio Cesare, 251, 255, 256 Coscia, card. 273 Costa, Paolo, 14 Costanzo, Giuseppe Aurelio, 238 Cremonino, 242 Crescimbeni, Giovanni Mario, 261, 265 Crescini, Vincenzo, 71 Cristina di Svezia, 250, 259 Croce, Benedetto, 64, 95, 99, 103, 129, IS i, 5, diego I) 5), dI76) 2150226 RNA2AN25 NAS 6269 IZ 276, (211 P285,; 28700 288;01296,298; 299, 301-309 Croce, Franco, 250 Croce, Giulio Cesare, 251, 253, 254 Crudeli, Tommaso, 268, 269, 272 Cuoco, Vincenzo, 17 Curiel, Eugenio, 128

Chauvet, Victor, 20 Chénier, Marie-Joseph, 290 Chiabrera, Gabriello, 248, 250, 294

Ciaia, Ignazio, 282 Ciampini, Raffaele, 60 Ciampoli, Giovanni, 250 Cicerone, Marco Tullio, 221

Dall’Ongaro, Francesco, 87, 143, 295 D'Ancona, Alessandro, 108 n D'Annunzio, Gabriele, 71, 93, 170, 183-

Cielo d’Alcamo, 217, 277 Cino da Pistoia, 224

Claudiano, Claudio, Clemente VII, 45

233

Codignola, Ernesto, 106 n, 107 n, 120 n, (210098220 128 n

125

R2:/600012/5;

Cola di Rienzo, 256 Collenuccio, Pandolfo, 234 Collodi, Carlo, 295 Colorni, Eugenio, 128 Comante, Egenetico v. Frugoni, Innocenzo

190, 294 Dante Alighieri, 26, 30, 34, 42, 50, 107, OOO 23925 22658022 255, 241, 259; 263, 1265, 287,,308 Davanzati, Bernardo, 63 Davanzati, Chiaro, 224 Da Verona, Guido, 173 David, 91 De

Carlo

Amicis, Edmondo, 295 Del Bene, Sennuccio, 225 Della Casa, Giovanni, 237, 238 Della Valle, Federico, 241, 242, 249 Demaldé, V, 184 n De Marchi, Emilio, 251

315

De Meis, Angelo Camillo, 297 De Nardis, Luigi, 185.n | De Petruciis, Giannantonio, 234 De Robertis, Domenico, 224 De’ Rossi, Gherardo, 8, 19, 273 De Sanctis, Francesco, 28, 66, 87, 15355 et 4682088021522 248) 265, 272,271, 287,288, "295;: 301, 303, 309 Descartes, René, 267 Diderot, Denis; 271 Didier, Charles, 17 Di Giacomo, Salvatore, 137, 139, 180, 281, 299 Domenico, s., 218 Donizetti, Gaetano, 11 Donna Olimpia, 257 Doria, Percivalle, 216 Dorso, Guido,

Ferretti; ‘Cristina, 54, 56 Ferretti, Geronima, 112, 113 Ferretti, Giacomo, 9, 13, 56 Ferretti, Gian Carlo, 308 Filangieri, Gaetano, 15 129, 2325 294,

146,

303 Dostoevskij, Fédor Michailoviè, 307 Dotti, Bartolomeo, 249 Dottori, Carlo de’, 241, 242, 250, 254, 255) Dubos, Charles, 269, 278 Duse, Eleonora, 188

Einaudi, Epicuro,

edit., 305 170

Elwert, W. Th., 251

Emiliani Giudici, Paolo, Enzo, re, 216 Frikson, E.H., 203, 204 Eschilo, 265 Esopo, 272 Este, Lionello d’, 234

291

Fagiuoli, Giambattista, 273 Fantoni, Giovanni, 282 Farinola, Giulio Gentile, 68 Farinola, Paolo Gentile, 68 Fazio degli Uberti, 226 Federico, Gennarantonio, 274 Federico d’Aragona, 233 Federico II, 216 Fedro, 272 Ferdinando IV, 9 Ferdinando II, 102 Ferrari, Severino, 143

316

Filicaia, Vincenzo, 250 Fiorentino, Salomone, 281 Flora, Francesco, 94, 244 Florian, Jean-Pierre Claris de, 272 Fogazzaro, Antonio, 297 Folengo, Teofilo, 236 Folgòre da San Gimignano, 223 Fontanella, Girolamo, 249 Formiggini-Santamaria, 196 Forteguerri, Niccolò, 274 Fortunato, Giustino, 288 Foscolo, Ugo, 12, 14, 15, 107, 215, 236, 249, 265) 271, 275, 281, 288, 289 Francesco, s., 90, 217, 218, 219, 241 Frezzi, Federico, 226 Frugoni, Carlo Innocenzo, 268, 269, 280 Frugoni, Fulvio, 249 Fubini,

Elsa, 191

Fubini, Mario, 285, 304 Fucini, Renato, 141, 298 Fusinato, Arnaldo, 295

Gabrielli, Placido, 24, 58 Galeazzo di Tarsia, 238

Galiani, Ferdinando, 274 Galilei, Galileo, 14, 240, 242, 248, 250,

252, 258

Gall, Franz Joseph, 16 Garibaldi, Giuseppe, 55, 106,

123, 125,

126

Gatto, Alfonso, 173 Gaudinieri, Domenico, 133 Gavazzeni, F., 185 n, 188 Gentile, Giovanni, 303 Gérando, J.M. de, 17 Gerratana, Valentino, 191 Gessner, Salomon, 281 Getto, Giovanni, 241 Gherardi, Giovanni detto Giovanni Prato, 232 Giacobbe, 94 Giacomino da Verona, 219 Giacomino Pugliese, 216 Giacosa, Giuseppe, 296, 297

da

Giannone,

Pietro,

15, 133

Gibellini, Pietro, 183, 188 Ginzburg, Leone, 128 Giobbe,

54, 55, 109,

120

Gioberti, Vincenzo, 107 Giordani, Pietro, 14 Giovanni Evangelista, s., 196 Giovanni da Brienne, 216 Giovanni Fiorentino, 60 Giovanni Nepomuceno, s., 90 Giraud, Giovanni, 8, 19, 295 Girolamo, s., 67 Giuseppe II, 277 Giusti, Giuseppe, 295, 296 Giustinian, Leonardo, 234 Giustiniani, Stefano, 113 Gobetti, Piero, 303 Goethe, Johann Wolfgang, 52, 79, 99, 271, 284, 289, 297, 309

Goffredo da Vinosalvo, 223 Goldoni, Carlo, 275 Goya, Francisco, 39 Gozzi, Carlo, 275 Gozzi, Gasparo, 274, 275, 277 Gramsci, Antonio, 122, 129, 191-211, 228305 Gramsci, Carlo, 193, 197 Gramsci, Delio, 210, 211 Gramsci, Edmea, 197 Gramsci, Gennaro, 200 Gramsci, Giuliano, 211 Gramsci, Mario, 193, 194 Gramsci, Teresina, 191, 200 Gravina, Gian Vincenzo, 262, 265, 268, 269, 274

Guinizelli, Guido, 224 Guittone :d’Arezzo, 222, 224 Guizot, .Frangois-Pierre Guillaume; 102

101, DI

Hauser, Arnold, 240 Hayez, Francesco, 15 Hegel, George Wilhelm Friedrich, 309 Heine, Heinrich, 170, 297 Hugo, Victor, 64, 69, 70, 71, 80, 97, 107 Humboldt, Wilhelm von, 92

Imbriani, Vittorio, 100, 251 Immanuel Romano, 223 Innocenzo X, 257 Innocenzo XII, 273

Jacques, Elliot, 187 Jacopo da Lentini, 216 Jacopone da Todi, 164, 219 Jakobson, Roman, 306 Jean, Lucien, 210 Jolles, 192 Jovine, Francesco, 129

Klein, Melanie, 203

Gregorio XVI, 13, 30, 42, 43, 44, 45, AT:748, 155, 56, 116, 292 Grin, SA TO IS 1650 ZE 198, 200, 201, 202, 203, 204

Labò, Giorgio, 128 Labriola, Antonio, 303, 305 Lafitte, fam., 101 La Fontaine, Jean de, 272, 275, 276 Lamartine, Alphonse de, 67, 71, 85, 107 Lamberti, Luigi, 270, 271 Lamennais, Félicien-Robert de, 86, 100,

Grossi, Tommaso, 14, 135, 291 Guadagnoli, Antonio, 295 Gualdo, Luigi, 300 Guarini, Battista, 170 Gualpertino da Coperta, 227 Guerra, Augusto, 308 Guerrazzi, Francesco Domenico, 60, 107 Guerrini Olindo, 140, 169, 251, 298 Guicciardini, Francesco, 15 Guidi, Alessandro, 122, 250

Lancellotti, Secondo, 249 Lanzi, Luigi, 256 Lao-Tse, 198 ©: Laterza, edit.,..305 Latini, Brunetto, 221 Lemene, Francesco, '250 Lemos; fam., 255 Lenin, Vladimir Il’iè, 200 Leonardo da Vinci, 233

Gravina, Giuseppe,

Gray, Thomas,

263

281

IEZIAs]25r8295

317

T'eone®XIINN39MNGE Leopardi, Giacomo,

7, 15, 16, 52, 74,

N77 8318 7090 N99R107,122372108234: 259, 268, 269," 274, ‘277,’ 280; 287, VS EE), COM PELI IE EL, VEL 306, 309 Leopardi, Monaldo, 28 Leopardi, Paolina, 87 Leopoldo 'II, 276, 277 Leporeo, Lodovico, 20, 254, 258 Leroux, Pierre,

17, 27, 97, 100 Lessing, Gotthold Ephraim, 264, 303 Levi, Carlo, 131 Lippi, Lorenzo, 257 Livingston, 254 Locke, John, 261 Lorenzi, Bartolomeo, 270, 274 Lubrano, Giacomo, 247 Lucrezio Caro, Tito, 162 Luigi Filippo, 73 Luigi XIV, 261 Liithi, M., 204

284,

Maria Teresa d’Austria, 279 Marino, Giambattista, 93, 243, 244, 245, 247, 248, 249, 253, 308 i Martello, Pier Jacopo, 265, 274 Marullo, Michele, 235 Marx, Karl, 28, 101, 298, 303 Mascheroni, Lorenzo, 270 Matarazzo, Raffaello, 307 Matazone da Caligano, 217 Materdona, Gianfrancesco Maja, 249 Matteo Evangelista, s., 24, 58 Maura, Paolo, 251, 256 Mauro, Domenico, 133 Mazio, Luigia, 9 Mazza, Angelo, 281 Mazzini, Giuseppe, 26, 54, 55, 56, 101, 106 Ren 15, 101210123 908125) 128, 289

Medici, Cosimo de’, 232, 233 Medici, Lorenzo de’, 170, 232, 233, 234 Meli, Giovanni, 271, 272, 289 Melosio, Francesco, 254 Menzini, Benedetto, 258, 259, 262 Metastasio, Pietro, 261, 264, 265, 266,

267, 268, 274, 275

Maccari, G.B. e G., 297 Macedonio, 249 Machiavelli, Niccolò, Maffei, fam., 294

122, 210, 236, 305

Maffei, Andrea, 291 Maffei, Scipione, 263, 264, 269, 275 Magalotti, Lorenzo, 268, 269 Maggi Carlo Maria, 250, 251, 252, 257 Maggini, Francesco, 122 n Magno, Celio, 250 Malatesta, fam., 234 Mallarmé, Stephane, 184 e n Mameli, Goffredo, 99, 100, 105-128, 175 Mancini, Lorenzo, 14 Manfredi, re, 216 Manfredi, Eustachio, 268, 269 Manso, Giovan Battista, 249 Manzoni, Alessandro, 15, 16, 18, 22, 24, DOS 2035 SSA 470085, UD Ir de, 250 200. 20, 295) DOTAR299306 Mao Dse Dong, 200 Maratti, Giambattista Felice, 268 Maratti Zappi, Faustino, 268 Maria Carolina, 9

318

Micara, Ludovico, 10 Michiele, Pietro, 249

Mignet, Frangois-Auguste-Marie, Milton, John, 150 Minzoni, Onofrio, 89, 280 Missirini, Melchiorre, 8, 13 Mario, 132 Molière, Jean Baptiste Poquelin,

17

Missiroli,

15, 20,

2A 59)

Momigliano, Attilio, 247, 285, 288 Mondadori, edit., 169 Montanelli, Giuseppe, 100, 101, 102 Montesquieu, Charles Louis Secondat, 15, 16, 18, 41 Monti Vincenzo MS 105052078 RL 5, 165, 250) DB 20 293, DR. ZINQIATMI9] Moore, Thomas, 107 Moraglia, Giacomo, 15 Morandi, Luigi, 218 Moscoli, Nerio, 227 Muraglia, 106 Muratori, Ludovico Antonio, 250, 262, US) I 7) Muscetta, Sergio, 187 n

Napoleone I, 8, 71, 107, 108,. 278, 288 Napoleone III, 2924 a) Neri, Ippolito, 258 Neroni Cancelli, Giuseppe, 14 Nibby, Antonio, 8 Niccolò del Rosso, 227 Niebuhr, Barthold Georg, 12 Nietzsche, Friedrich, 185, 297 Nievo,

Ippolito,

281, 295

Nigra, Costantino, 297 Novalis, Friedrich von Hardenberg, Novelli, Ettore, 297 Nuccoli, Cecco, 227 Nunziante,

297

102

Odescalchi, Anton

Maria, 12

Odo delle Colonne, 217 Olimpo da Sassoferrato, 236

mero 308

Ml7082337

1260/926398265,

289;

Orazio

Flacco, Quinto, 248, 280 Orsini, Paclo Giordano, 249 Ovidio Nasone, Publio, 111, 221

Padula,

Vincenzo, 133-167, 297, 299 Pagnini, Luca Antonio, 270 Palazzeschi, Aldo, 295 Palestrina, Pierluigi da, 240 Pananti, Filippo, 295 Pancrazi, Pietro, 169 Paoli, Pier Francesco, 249 Paolini Massimi, Petronilla, 268 Paradisi, Agostino, 280 Parini, Giuseppe; 38, 89, 107, 111, 157, 251, 265, 274, 276, 278, 279, 280, 284 Parny, Evariste-Désiré de Forges, 276 Parzanese, Pietro Paolo, 129-132, 138, 291 Pascal, Blaise, 302 Pascarella, Cesare, 35, 298, 299, 308 Pascoli, Giovanni, 32, 75, 109, 130, 186, 281,

294

Passeroni, Gian Carlo, 274 Patecchio, Gherardo, 217, 219 Pelletier-Volméranges, 13 Pepe, Guglielmo, 100 Peresio, Giovanni Camillo, 19, 256, 257 Perrault, Charles, 201, 202, 206

Pers, Ciro di, 249, 250 Persichetti, Raffaele, 128 Perticari,; Giulio, 12,5 I295) Petrarca, Francesco, 14, 44, 45, 52, 82, 122, 225, 226, 12927, 228, 233, 237, 263, 264, 265, 268, 269, 275, 287, 306 Petronio, Giuseppe, 277 Pica, Vittorio, 184 n, 185 n Piccardi, Paolo, 29 Pigault-Le Brun, Ch-A. G., 17 Pier della Vigna, 216 Piero d’Abano, 255 Pietro da Barsegapé, 219 Pietro dei Faitinelli, 227 Pignotti, Lorenzo, 272 Pindemonte,. fam., 294 Pindemonte, Ippolito, 90, 280, 281 Pinelli, Bartolomeo, 39 Pinelli, Camilla; 107, 112, 124 Pinotti, G., 184 n Pintor, Giaime, 128 Pio ber49 548551709027 PioVila7A88:8275 PioRVIISEss95ti2 Pirandello, Luigi, 64 Piron, Alexis, 270 Pisacane, Carlo, 125 n Pistoia, Antonio Cammelli detto il, 51 Platone, 101 Poerio, fam., 102 Poerio, Alessandro, 68, 74, 83, 84, 86, 87, 95, 961199-103; .125, 294 Poerio, Carlo, 100, 102 detto il Poliziano Angelo Ambrogini 37001

202299825

2082535

Poniatovski, Stanislao, 10 Pontano, Giovanni, 164, 234, 235, 236 Ponti, Maria, 80 Pope, Alexander, 269, 278 Porta niGarlo ms: 61561319 /92092.1825.15

DTAREZIO PID

ZII? LEV]

ST0288:

290,02918

Poussin, Nicolas, 250

Prati, Giovanni, 94, 109, 110, 111, 153, 1599291 Praz, Mario,

184

Preti, Girolamo, 245 Proto, E., 295 Proust, Marcel, 186

Pucci, Antonio,

228, 249, 253

319

Pugacév, Emel’jan Ivanoviò, 276 Pulci, Luigi, 229, 233, 253 Puppo, Mario, 63 n

Saddumene, Bernardo, 274. © Donatien-Alphonse-Frangois

Sade,

de,

PI

Saffo, 289

Sainte-Beuve, Charles-Augustin de, 61, 85,

Quintiliano, Marco Fabio, 61 Quirini, Giovanni, 226, 249 Racine,

Jean, 261, 263, 264 Rapisardi, Mario, 297, 298 Reclam, edit., 191 Redi, Francesco, 258 Revere, Giuseppe, 297 Rezzonico, Carlo Gastone della Torre di, 270 Riccardi di Lantosca, Vincenzo, 296 Ricci, fam., 10 Ricci, Filippo, 17 Rinuccini, Cino, 225, 243 Richieri,

Luigi, 282 Robecchi, Antonio, 66 Roberti, Giambattista, 270 Roberti, Vincenza, 13, 14, 22 Rolli, Paolo, 265, 268, 269, 274 Romano, Salvatore Francesco, 205 Roncoroni, ed., 185 Roncoroni, Francesco, 187, 188, 189 Ròndani, Alberto, 108 n Rosa, Salvator, 20, 257, 258, 259 Rosmini, Antonio, 89 Rospigliosi, fam., 9 Rossetti, Dante Gabriele, 108, 117, 294 Rossi, Pellegrino, 55 Rossi,

Teofilo,

207

Rotschild, fam., 101 Rousseau, Jean Jacques,

16, 18, 61, 115

Rubattino, R., 120 n Ruffa, 133

Ruggeri Apuliese, 217 Russo, Ferdinando, 251, 298, 299 Russo, Luigi, 220, 222, 287, 304 Russo, Vincenzo, 7, 100 Rustico di Filippo, 222, 223 Ruzzante, Angelo Beolco detto il, 236, 242

Saba, Umberto, 306 i Sacchetti, Franco, 20, 53, 226, 228, 229 Sacchetti, Giannozzo, 226, 227

320

96, 293

i

Saint-Evremond, Charles de Margutel de Saint Denis de, 268 Saint-Pierre, Bernardin de Saint-Simon, Claude-Henri, 100, 101 Salfi, Francesco Saverio, 20 Saluzzo, Diodata, 282 Salvetti, Pier, 258

Sand, George, 60, 86, 107, 128, 293 Sannazzaro, Jacopo, 159, 234, 235, 262, 280, 281 Sansone, Mario, 251 Sanvitale, Jacopo, 108 e n, 109 Sapegno, Natalino, 224, 226, 304 Sarpi, Paolo, 242 Sartori, Matilde, 49 Savioli Fontana, Ludovico, 270, 277 Savonarola, Girolamo, 68, 101, 233, 293 Scalvini, Giovita, 294 Schiller, Friedrich, 284 Schuchfe)ulia g195 819496195 20582095 210

Schucht, Tania, 192, 193, 194, 208, 210 Sciascia, Leonardo, 308 Scifoni, Felice, 13, 17 Scott, Walter, 17,122 Sénancour, Etienne Pivert de, 60 Seneca, Lucio Anneo, 107, 284 Serafino, Aquilano, 234 Sergardi, Ludovico, 273 Serra, Renato, 173 Sestini, Bartolomeo, 291 Settembrini, Luigi, 99

Sforza

Pallavicino,

247, 248

Shakespeare, William, 26 Shelley, Percy Bysshe, 68, 92, 97,

291 Sismondi, Sismonde de, 17, 29, 101 Soave, Francesco, 281 Socrate, 221, 304 Soldani, Jacopo, 258 Sommaruga, edit., 300 Sonzogno, ed., 174 Spalletti, Giuseppe, 7, 49 Spartaco, 119 Spedalieri, Nicola, 7

190,

Spiridione, s., 90 Spitzer, Leo, 304 Spolverini, Giambattista, 270 Stael, A.-L.-G. Necker m.me de, 8, 16, 22

Stazio, Publio Papinio, 78 Stecchetti, Lorenzo vedi Guerrini, Olindo Stefani, Guglielmo, 101 Stendhal, Henri Beyle, 17, 18, 19, 23, SEL

ZIE, 20

Sterbini, Pietro, 13 Sterne, Laurence, 289 Stieglitz, Heinrich Wilhelm, 75 Stigliani, Tommaso, 245, 246 Strada, Famiano, 23, 55, 56, 247 Strozzi, Giovan Battista, 238 Suardi, Gianfrancesco,

Sue, Eugene,

234

107, 307

Tacito, Publio Cornelio, 63 lana iz. G. B_2253 Tansillo, Luigi, 14, 238 Tanzi, Carl’Antonio, 274 Tarchetti, Igino Ugo, 170 Tasso, Torquato, 10, 112, 235, 238, 240, DA

e

2

20

A

ZI

605

Tassoni, Alessandro, 20, 252, 255 Tebaldeo, Antonio, 234 Tedaldi, Pieraccio, 227 Tempio, Domenico, 275, 276 Tenneroni, Annibale, 185 Teresa, s., 33 Tesauro, Emanuele, 246 Testi, Fulvio, 250 Thierry, Jacques-Nicolas-Augustin, 101 Thomas, A.-J.-B., 39 Thorvaldsen, Alberto, 8 Tizzani, Vincenzo, 49 Tolomeo, 221 Tommaseo, Niccolò, 59-97, 99, 100, 101, (OSSA LO ORE ORSI Tg ITS, 125, 150, 155, da, Qi 22, 256} 294, 295

Tommaso

d’Aquino, s., 270

Torricelli, Francesco Maria, Torti, Francesco, 291 Treves, Giuseppe, 187

14

Trilussa, Carlo Alberto Salustri, 35, 296

Trinchera, Pietro, 274 Trissino, Gian Giorgio, 235 Uguccione da Lodi, 219 Urbano VIII, 247

Valentino, Gennaro, 9 Vanda, Giulia, 269 Varano, Alfonso, 10, 89, 280 Vasselli, Giuseppe, 11 Verardiniello, 236 Verdi, Giuseppe, 124 Verga, Giovanni, 290, 298, 301 Verri, Alessandro, 8, 12, 277 Verucci, G., 253 Viale Prelà, M., 10 Vico, Giambattista, 71, 259 Vida, Marco Girolamo, 235 Vieusseux, Gian Pietro, 17 Villani, Giovanni, 60 Villani, Nicola, 258 Villemain, Abel-Frangois, 283 Vincenti, Lionello, 284 Virgilio Marone, Publio, 161, 189, 265, 278, 280 Visconti, Ennio Quirino, 8 Vitrioli, Diego, 297 Vittorelli, Jacopo, 281 Vittorio Emanuele II, 299 Volney, Constantin-Frangois, 15, 17, 18 Voltaire, Frangois-Marie Arouet, 15, 16, WS: 02 6-12: 5 28209201 Vossler, Karl, 284, 304 Wagner, Richard, 187, 297 Wordsworth, William, 67, 97

Young, Edward, 281

Zannoni,

Giovan

Battista,

14

Zanobi da Strada, 60 Zena, Remigio, 300 Zendrini, Bernardino, 170 Zeno, Apostolo, 243, 263, 264

321

RATati pra)CRI

TINDIGE

La « commedia romana » di Belli . L’artefice Niccolò Tommaseo . Alessandro Poerio Pago e DI Goffredo Mameli: il poeta del Quarantotto Il « buon canonico » Parzanese Vincenzo Padula . : Il classicismo borghese di ono Betizloni Un socialista idillico: Pompeo Bettini . i Furit aestus o la linea d’ombra nell’ « Alcyone » Le favole di Gramsci . ; e: Discorsi per il « Parnaso TEO » di Einaudi È Per la poesia del Duecento e del Trecento . Per la poesia del Quattrocento e del Cinquecento Per la poesia del Seicento . Per la poesia del Settecento . Per la. poesia dell’Ottocento . : Epilogo su Croce e la critica letteraria .

Referenze bibliografiche Indice

dei nomi

.

.

L*TPPOGRIFO

. PAoLO

CORTESI

DE HOMINIBUS DOCTIS DIALOGUS Testo, traduzione e commento a cura di Maria Teresa Graziosi . MArIo

ScoTTI

FOSCOLO FRA ERUDIZIONE MArIO

14. IAcoPo BoNFADIO LE LETTERE E UNA SCRITTURA BURLESCA Testo con introduzione e commento di Aulo Greco GIOVANNI GAMBARIN SAGGI FOSCOLIANI e altri studi Con una presentazione di Mario Fubini

E POESIA

FUBINI

CRITICA

E POESIA

ArnaLDo

Di

16. GIOVANNI GUIDICCIONI CESCETIERESIS(I Edizione critica con introduzione e commento a cura di Maria Teresa Graziosi

BENEDETTO

STILE E LINGUAGGIO . GAETANO

MARIANI

TRILUSSA STORIA DI UN POETA . FerRUCCIO

IZ

ULIVI

MANZONI STORIA E PROVVIDENZA A. TERESA

RomAaNO

LA SCUOLA

18.

DE

CLASSICA

ESTENSE

19.

MICHELIS

Giorgio

20.

IZ,

GIOVANNI

ZII

NEL MONDO DELLA « GERUSALEMME » PieTRO ARETINO LE VITE DEI SANTI Testo con introduzione e commento di Flavia Santin

critica

RICCARDO

SCRIVANO

Giorcio De RIENZO

L’AVVENTURA DELLA PAROLA NEI « PROMESSI SPOSI »

DEA GETTO

della

PupPo

LA NORMA E LO SCARTO Proposte per il Cinquecento letterario italiano

PETROCCHI

L'ULTIMA

Mario

SANCTIS

di storia

POETICA E*POESIA DI NICCOLÒ TOMMASEO

CARLO MUSCETTA LEOPARDI

VOCIANI

SUL DE

e altri scritti

ROMA SENZA LUPA Nuovi studi sul D'Annunzio

UH

CARPI

CarLo MUSCETTA

STUDI

CERVONE

SALVATORE ACCARDO CAPITOLI DANTESCHI EuriaLo

UMBERTO

GIORNALI

22:

UmBERTO

Bosco

TITANISMO E PIETÀ IN GIACOMO LEOPARDI e altri studi leopardiani CarLo

MUSCETTA

CULTURA E POESIA DI G.G. BELLI

33. CarLo MUSCETTA PACE E GUERRA NELLA POESIA CONTEMPORANEA

24. ANTONIO IACOPETTA GIORGIO CAPRONI Miti e poesia

io

da Alfonso Gatto a Umberto

ErTToRE BoNORA

LE METAFORE DEL VERO Saggi sulle « Occasioni »

di Eugenio Montale

i Saba

34. ANTONIO IACOPETTA ATTILIO BERTOLUCCI Lo specchio e la perdita

26. ELvirA FAVRETTI LA PROSA DI UMBERTO SABA Dai racconti giovanili a « Ernesto »

27

GAETANO

DD: AuLo GRECO LA MEMORIA DELLE LETTERE

MARIANI

L'OROLOGIO DEL PINCIO Leonardo Sinisgalli tra certezza e illusione

28. DAMIANO ABENI RAFFAELLA BERTAZZOLI Cesare G. De MICHELIS

36. WALTER BELARDI ANTOLOGIA DELLA LIRICA LADINA DOLOMITICA DIG EMERICO GIACHERY METAMORFOSI e altri

Piero GIBELLINI

BELLI OLTRE FRONTIERA La fortuna di G.G. Belli nei saggi e nelle versioni di autori stranieri

207

RosANNA

ALHAIQUE

PETTINELLI

L'IMMAGINARIO CAVALLERESCO NEL RINASCIMENTO FERRARESE

40.

SANDRO PENNA Il fanciullo con lo specchio MARIA

TERESA

POLIFEMO

AcQuaRO

38. GIUSEPPE SAVOCA TRA TESTO E FANTASMA Analisi di poesia da Gozzano a Montale 55, WALTER BeLARDI, Giorcio LA POESIA FRIULANA DEL NOVECENTO

30. ANTONIO IACOPETTA

SI

DELL’ORTO

scritti montaliani

GRAZIOSI

E GALATEA

Mito e Poesia

32. CorINNE LUCAS DE L’HORREUR AU « LIETO FINE » Le contròle du discouts tragique dans le théatre de Giraldi Cinzio

SERGIO CAMPAILLA

MAL

4l.

FAGGIN

DI LUNA

E D’ALTRO

CarLo MUScETTA

PER LA POESIA ITALIANA I. Da Dante a Leopardi 42. CarLo MuSscETTA II. Da Belli a Gramsci

SU:

. RENZO

DIERNITSD ETA)

POETI

FRATTAROLO

STUDI DI BIBLIOGRAFIA ed altri saggi

PPOGRTRO

A ROMA

STORICA

. RaouL

MARIA

DANTE NELLA LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO

L’AVVENTURA

Atti del Convegno di Studi Casa di Dante Roma, 6-7 maggio 1977

Vincenzo

. Wanpa

PITTORE

ANGELIS

DI

SCIPIONE

ROMANO

RupoLo GIorcIio TAFFON

LE PAROLE DI SBARBARO Studio sul lessico poetico di Camillo Sbarbaro con le concordanze di Resine, Primizie e poesie sparse

. PaAoLo BREZZI

. AMLETO

DE

DE Tomasso PANORAMA DELLA LETTERATURA ISPANOAMERICANA

IL LINGUAGGIO DELL’IMMAGINE Saggi di letteratura francese contemporanea

SAGGI

1945-1980

a cura di A. FRATTINI e M. UFFREDUZZI

DI STORIA MEDIEVALE Di MARCANTONIO

BOTTAI TRA E LAVORO

CAPITALE

10.

GiusePPE

ANTONIO

PAUL VALERY « giovane poeta »

BRUNELLI

Finito di stampare nel mese di gennaio 1988

dalla Tipo-lito SAGRAF

- Napoli

37131

004

464

950 =